Verona In 30/2011

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• EMERGENZA PROFUGHI

VERONA

(Inchiesta) GLI SPRECHI DELLA POLITICA

www.veronainblog.it N° 30 - NOVEMBRE 2011 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1 - DCB VR


L’ENERGIA DI VERONA PER I VERONESI


Primo piano

Costruire il sogno

Gli Amici della Bicicletta di Verona hanno superato quest’anno i 2 mila iscritti. L’ immagine di copertina è un omaggio all’associazione, che con intelligenza e simpatia ha conquistato il cuore e la mente di tanti veronesi (Foto R. Beccaletto)

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Gli indignati che nel mondo manifestano contro il sistema sono l’espressione di un disagio che fatica a trasformarsi in alternativa. La legittima espressione del dissenso può esaurirsi in se stessa, o alimentare le ambizioni di un leader populista, se dopo l’analisi dei problemi nessuno si applica per risolverli. Non basta voler cambiare il mondo, bisogna cocciutamente volerlo fare e gli ingredienti giusti si chiamano competenze, responsabilità, rispetto dei ruoli e tanta pazienza. Questo è vero sia che si ragioni su scala planetaria sia che gli orizzonti siano locali. Lavorare insieme per proporre il cambiamento, e quindi governare, non è facile. Anche se si vanta un background associativo di tutto rispetto, proclamarsi contro qualcosa è sempre più facile di

costruire una nuova casa insieme ad altre persone, che possono condividere la stessa idea di fondo ma che hanno storie diverse. La fase iniziale, in cui il dissenso si organizza per diventare proposta, è un passaggio delicato dove si misurano la maturità, il grado di coinvolgimento e quindi la credibilità dei soggetti coinvolti. Se tutto funziona l’entusiasmo va alle stelle, generando quell’onda emotiva che viene percepita dalla popolazione come “la possibilità di potercela fare”, come “il sogno che si può finalmente realizzare”. Se invece a prevalere è l’incapacità di valutare l’impatto di ogni singola azione sul progetto globale, o ancora peggio il prevalere di interessi di parte, allora il sogno si frantuma. g.m.

La legittima espressione del dissenso può esaurirsi in se stessa, o alimentare le ambizioni di un leader populista, se dopo l’analisi dei problemi nessuno si applica per risolverli. Non basta voler cambiare il mondo, bisogna cocciutamente volerlo fare

Partecipare alla vita del giornale Quasi ogni giorno arriva in redazione l’invito a proseguire la nostra avventura editoriale. Il blog e la pagina su Facebook hanno creato un sistema che ha coinvolto molte persone desiderose di scrivere opinioni e commenti. Non aumenta però il numero degli abbonati a Verona In, condizione indispensabile per continuare a pubblicare articoli e inchieste. Sembra un dato assodato che il giornale continuerà a uscire, ma purtroppo non è così; non senza il contributo di tutti. Tra le lettere, alcune suggeriscono di coinvolgere nella proprietà del giornale gruppi e associazioni animati da quei valori che in diverse occasio-

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ni hanno trovato spazio nelle sue pagine. È quindi importante chiarire che non è certo l’editore che si oppone a una simile ipotesi, anzi. Il problema è che non si trova chi sia disposto a sfruttare le potenzialità del mezzo e allo stesso tempo preoccuparsi anche dell’aspetto economico. Che non vuol dire solo mettere mano al portafoglio, ma sopratutto studiare come organizzare una struttura per reperire le risorse necessarie alla pubblicazione del giornale. Questa assunzione di responsabilità nei riguardi di Verona In, che servirebbe alla costruzione di un’identità culturale condivisa, per il momento è merce rara.

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Opinioni

La storia interroga la Chiesa e la invita a confrontarsi con se stessa Nel sapere teologico e della fede, la funzione del magistero è indicare quanto non è conforme alla divina rivelazione. Per la verità di questa ricerca, è pericolosa l’identificazione e l’elaborazione filosofica e teologica. Si rischia di associare il transitorio con il definitivo di Rino Breoni* o terminato proprio in questi giorni la lettura di libri le cui rifrazioni interiori, per me prete ormai anziano, non sono né scontate né facili da accettare. Anche nell’ottica di una disponibilità al confronto pacato e libero da problematiche e stroncature intolleranti, non è mai piacevole addentrarsi in un dire che attacca frontalmente quella Chiesa di cui mi sento parte e suo ministro. Questi ultimi tempi hanno visto l’apparire di scritti, firmati anche da credenti e da persone consacrate, segnate da una vis polemica a volte cattiva ma, per quel che è possibile stabilire, non gratuita e calunniosa. Dopo la lettura, se ne esce amareggiati. La realtà è la realtà. I fatti sono fatti provati. Non mi voglio misurare con argomenti eguali e contrari per parare i colpi, per demolire o confutare accuse. Ciascun credente, così io penso, ha un suo modo di reagire e a me non riesce di accettare un’autodifesa della realtà ecclesiale che neghi l’evidenza o che ricorra a ritorsioni, neppure difficili da trovare. Per una coincidenza del tutto casuale, stendo queste note nel giorno in cui si fa memoria liturgica di un uomo che ha segnato la storia della Chiesa e del mondo, Giovanni XXIII. La sua elezione al pontificato, nella più positiva delle valutazioni, è stata una sorpresa; nella più pessimistica, ancora assai diffusa, un disastro. L’indizione del Concilio, secondo quest’ultima valutazione, starebbe all’origine di tutti i mali che oggi affliggono il tessuto ecclesiale:

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Post hoc, ergo propter hoc. Eppure a distanza di mezzo secolo, onestà intellettuale e storica vuole che si riconosca quel tempo, anche per la con testualità socio-politica, come un tempo vissuto nel clima della libertà, del dialogo e della tolleranza. Chi, allora, portava nel cuore l’eco dello scontro con la paura dei venti dell’Est – paura che conduceva a difendersi dagli attacchi del mondo – non ha potuto che gioire dell’instaurarsi di un nuovo clima di dialogo, rispetto e tolleranza. Il mondo ha ascoltato l’anziana voce del pontefice ribadire che la Chiesa era disponibile a mostrare la misericordia più che il ricorso alla condanna, all’esclusione. E il mondo lo ha compreso, al punto che negli ultimi momenti della sua vita terrena, anche un ateo ha fatto giungere in Vaticano la sua disponibilità a… “pregare” perché fosse conservato al mondo quello che un latinista vaticano scrisse di lui: “Imago ipsa bonitatis”, l’immagine stessa della bontà”. In una borgata romana, poco prima di morire, disse di presentarsi tenendo in una mano la Legge del Sinai e nell’altra il Vangelo. Ogni epoca ha i suoi doni di grazia e ogni epoca ha i suoi uomini di Chiesa. Chiudendo i libri di cui facevo cenno all’inizio, mi sono chiesto il perché di tanti attacchi e tanto risentimento. Non credo sia solo cattiveria o voglia di demolire la Chiesa, la quale, a dire del Vangelo, trova nella persecuzione la cartina di tornasole della sua autenticità. Sono convinto invece che la storia, con il suo linguaggio, provochi la stessa Chiesa al confronto con se stessa, con il Vangelo per una più leggibile testimonianza dei valori di cui è fondatrice. Può non essere un confronto facile, ma dovrebbe attuarsi nella verità e nella chiarezza. Un pedagogista contemporaneo ha un’intuizione profonda detta per ogni soggetto, ma che può valere anche per la comunità cristiana: «Non c’è miglior sistema per distruggere se stessi che quello di voler riformare gli altri». Mi è chiaro come, nella Chiesa, una cosa sia la predicazione del Vangelo, la proposta di vita che viene dalla Parola e altra cosa siano posizioni teologiche, indicazioni etiche che per loro natura assumono e si esprimono con i tratti e le categorie del momento storico. Anche questi settori dello scibile ecclesiale hanno ritmi e modalità di ricerca che andrebbero rispettati: chi cerca può sbagliare e, nel sapere teologico e della fede, la funzione del magistero è proprio quella di indicare quanto non è conforme alla divina rivelazione. Tuttavia, proprio per la verità di questa ricerca, è pericolosa l’identificazione e l’elaborazione filosofica e teologica. Si rischia sempre di identificare il transitorio con il definitivo. Negli anni del mio studio teologico, ricordo perfettamente i continui riferimenti alla cosiddetta Théologie nouvelle, i cui pensatori di spicco (Congar, Chenu, Ferét, Daniélou, De Lubac) erano stati sospettati di eterodossia e destituiti dall’insegnamento universitario. Durante il Concilio, riabilitati (qualcuno poi creato cardinale) hanno potuto riconoscere il loro pensiero nei documenti che l’assise conciliare ha approvato. Che per i motivi più diversi, qualche scrittore oggi ripercorra a ritroso la storia della comunità ecclesiale, ne sottolinei gli errori, ne denunci le complicità anche politico-sociali, non toglie nulla alla vita di una Chiesa, il cui respiro operativo è opera dello Spirito, ma ci lascia pensosamente amareggiati e avvertiti. La storia, spesso, si ripete. *Rettore di S. Lorenzo

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Opinioni

Raccontare donne di sabbia Tradite nella loro affettività, non contraccambiate nella modalità totalizzante di amare l’altro e di vivere per l’altro, si appalesano dietro le granitiche certezze fatte di sabbia. Sono le protagoniste del cortometraggio della regista Rita Colantonio di Corinna Albolino ccadde del tutto casualmente. Un dvd lasciato presso una libreria della città perché, visto che lavoravo con gruppi di donne, ne prendessi visione. Donne di sabbia: un cortometraggio scritto, diretto e interpretato da Rita Colantonio. Già il titolo suonava intrigante, mi incuriosiva. Lo vidi e ne rimasi colpita. Pur non essendo esperta in cinematografia, colsi subito la qualità del lavoro per la bellezza delle immagini, la resa efficace delle interpretazioni, la suggestione della trama raccontata. Non mi sorprese quindi che l’opera fosse già stata insignita di importanti riconoscimenti e selezionata tra i “corto” in concorso per il David di Donatello 2011. Mi stupì in particolare che l’autrice fosse in qualche modo una veronese, poiché da tempo aveva lasciato l’originaria Pescara per la Valpolicella. Sorprendente la figura di questa giovane donna che – nonostante si fosse laureata in Economia e potesse contare su una sicura carriera amministrativa – aveva deciso, a un certo punto del suo percorso esistenziale, di cambiare radicalmente strada per diventare attrice, doppiatrice, cantante, regista. Consapevole che abbracciare il mondo dello spettacolo avrebbe significato una strada tutta in salita, connotata da duro lavoro e rischi. Significò frequentare l’accademia nazionale d’arte cinematografica, compiere studi di dizione, recitazione e doppiaggio, seguire master di tecnica attoriale. Una preparazione professionale seria per poi forse riuscire in ambito teatrale a «fare un po’ di tutto, per imparare sempre di più», per realizzare «quella vita che si vuole fare», come spesso va ripetendo Rita. Una donna coraggiosa che ha osato recuperare una vocazione estetica che l’aveva accompagnata fin da bambina, portandola a condividere attività sceniche amatoriali. E così gradualmente il «po’ di tutto» di questa giovane si implementa, con un tocco di fortuna, di incontri con registi noti quali Luca Lucini, Luca Mazzieri e Pupi Avati. Accanto a ruoli in film importanti, si contano anche partecipazioni a fiction televisive oltre che felici conduzioni di trasmissioni radiofoniche. Il suo ultimo lavoro, il cortometraggio Donne di sabbia, che molto consenso ha ottenuto anche nella nostra stagione culturale veronese, nasce dall’esigenza di Rita di parlare delle donne: di quelle donne che – pur essendo figlie di un tempo contrassegnato dall’adultità in termini di emancipazione, autonomia di pensiero e decisione – paiono spesso dimenticare quanto duramente conquistato e ricadere nella logica atavica del sacrificio, della dedizione all’al-

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tro fino all’abnegazione di se. Figure fra loro molto diverse, per estrazione sociale, ruolo e cultura, le protagoniste sono accomunate da uno stesso destino di autoannullamento. Di questo archetipo della fragilità di genere, che si maschera spesso dietro un solido senso pratico, un’apparente determinazione e forza, tratta la storia delle quattro interpreti. Fedeltà, devozione, dipendenza psicologica sono così le virtù della moglie tradita, dell’amante mantenuta, della governante dedicata, della commissaria di Polizia ingannata. Esistenze che si giocano attorno alla presenza di un uomo: un personaggio enigmatico che si incarna ora nel ruolo di marito, ora di amante, ora di figlio e che poi, in circostanze molto misteriose, improvvisamente scompare nel nulla. Una sparizione che ha il potere di sconvolgere l’esistenza di queste donne, mettendone a nudo tutta l’ancestrale debolezza. Tradite nella loro affettività, non contraccambiate nella modalità totalizzante di amare l’altro, di vivere per l’altro, si appalesano, dietro le granitiche certezze fatte di sabbia, impotenti di fronte all’imprevedibilità dell’accaduto perché incapaci di concepire la loro vita a prescindere dalla figura maschile. Inconsapevoli della propria dipendenza, mascherata dall’auto illusione di essere indispensabili all’altro, quasi di costituirne un sostegno necessario, sfuggono al principio di realtà, quindi rifiutano di essere state abbandonate. Le vicende sono estreme, a tratti paradossali, eppure ci intrigano perché evocano archetipi culturali di cui ancora non ci siamo completamente liberate. Così la regista, unica interprete di tutti i personaggi di queste storie, intende in qualche modo comunicarci che essi rappresentano le molteplici personalità che abitano nello stesso individuo, pronte ad affiorare in momenti e situazioni critiche della nostra vita.

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Opinioni

Semaforo, quanto mi costi? Dalla vecchia lampadina al led Nei suoi primi cento anni di vita la tecnologia impiegata all’interno della lanterna non ha compiuto particolari progressi: per decenni la vecchia lampadina a incandescenza ha spadroneggiato senza timore di concorrenza, con tutti i suoi difetti in termini di efficienza e affidabilità di Luciano Lorini uanto costa la gestione di un impianto semaforico? La voce principale è costituita dalla bolletta energetica, che dipende sostanzialmente dalla tipologia della lampada di segnalazione. Nei suoi primi cento anni di vita la tecnologia impiegata all’interno della lanterna, di fatto, non ha compiuto particolari progressi: per decenni la vecchia lampadina a incandescenza ha spadroneggiato senza timore di concorrenza, con tutti i suoi difetti in termini di efficienza (la dispersione in calore della maggior parte dell’energia impiegata) e affidabilità (il filamento è delicato e le rotture, con la conseguente necessità di intervento, frequenti). La voce relativa alla manutenzione, vale a dire la sostituzione delle lampade, è quindi la seconda per l’impatto sui costi. Anche il rischio in termini di sicurezza rappresenta un costo, dal momento che quasi sempre, a garanzia del servizio in caso di guasto, si risponde con il raddoppio delle lanterne (specie del rosso, solitamente il più vorace). Il consumo di un semaforo è facilmente calcolabile, se si pensa che consiste in pratica in una lampada da 80-150W perennemente accesa, tutto il giorno, tutti i giorni. Mediamente 2,5KWh al dì, per ciascuna lanterna (i tre colori assieme). Se consideriamo che un quadrivio classico, il più semplice, di lanterne ne ha almeno quattro, deriviamo rapidamente il costo quotidiano della nostra sicurezza: non meno di 10KWh. I consumi aumentano nel caso di incrocio con attraversamento pedonale: quello di Corso Milano verso la circonvallazione conta, per esempio, 22 lanterne. Meglio non pensarci. Dai primi anni ’90 ha fatto la sua comparsa il Led, che recentemente ha raggiunto – con le versioni ad alta luminosità – livelli qualitativi e costi

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I semafori e le città Da oltre un secolo siamo abituati a lasciarci regolare nell’attraversamento di strade e incroci dalle rassicuranti luci rosse e verdi. L’antenato degli attuali semafori pare, infatti, abbia fatto la sua comparsa a Londra alla fine del 1868. La vera diffusione su larga scala ha avuto invece inizio nei primi anni Venti del secolo scorso, conseguentemente allo sviluppo del traffico motorizzato. In Italia il

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di produzione davvero interessanti. Se ne sono accorti in molti: dai produttori di automobili, i fari a Led sono oramai uno standard, a quelli di televisori. Convenientissima per durata e costi di gestione, questa tecnologia si sta velocemente diffondendo, consentendo risparmi impressionanti. A fronte di un costo (per impianti nuovi) appena superiore al consueto impianto tradizionale, è lecito attendersi un risparmio variabile dal 70% all’85% e più, contando il solo minor consumo. È anche possibile installare le nuove lampade negli alloggiamenti di quelle vecchie, con un investimento il cui recupero – grazie al drastico calo del costo dei Led – è garantito in soli 2-3 anni (solo quindici anni fa era da calcolarsi in non meno di 7-8 anni). Dopo, è tutto guadagno. A Verona, per quanto ci è dato sapere, siamo piuttosto indietro: le lampade a incandescenza sono ancora una larga maggioranza. Osserviamo la brillantezza dei Led soltanto su qualche impianto di nuova installazione e su pochi pali riconvertiti. A parte questa caratteristica, è però difficile riconoscere le lampade che animano i semafori: i Led colorati di una volta, direttamente esposti, oggi hanno lasciato il posto a quelli bianchi, posti dietro agli schermi tradizionali. Per questo motivo, in nome di una mai troppo auspicata trasparenza, ci piacerebbe che l’Amministrazione comunicasse ai cittadini qualche dato a riguardo: quanti sono gli impianti installati? Quale la potenza complessiva impiegata nell’uno e nell’altro caso? E magari li tenesse aggiornati su eventuali progetti di riconversione in corso. In una puntata di Report del lontano 2004 si raccontò l’esperienza virtuosa di Bressanone, che già allora sostituì tutti i suoi impianti. Siamo interessati, a casa nostra, a replicare questo esercizio virtuoso? Ci rendiamo conto delle ricadute positive in termini economici (ed energetici)? Non è cosa di poco conto, specialmente in tempi di crisi e patti di stabilità. Meglio pensarci.

primo impianto semaforico è stato installato a Milano, nei pressi di piazza Duomo, nel 1925. Da quel momento la fortuna degli impianti semaforici non ha conosciuto interruzioni e ancora oggi la regolazione del traffico è affidata, in modo praticamente esclusivo (rotonde a parte), a questi sistemi. Oggi non si installano semafori solo per gestire gli incroci, ma anche per limitare la velocità (i se-

mafori cosiddetti dissuasori, molto diffusi in Trentino) o per rilevare infrazioni (i contestatissimi T-red). I semafori a chiamata aiutano poi pedoni e ciclisti negli attraversamenti più impegnativi, mentre quelli “intelligenti” snelliscono i turni di attesa in condizioni di traffico alleggerito. Le città più avanzate, infine, gestiscono remotamente la rete semaforica in modo centralizzato, tramite l’utilizzo di sistemi computerizzati.

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I modelli liberali del Nord Europa e le “miserie” di casa nostra Verona è balzata alle cronache per iniziative come le panchine “antibarboni” o la condanna della Cassazione verso alcuni politici che oggi rivestono importanti ruoli nelle Amministrazioni locali. Dante e Shakespeare, se potessero, ci ritirerebbero il patrocinio di Luciano Butti* romuovere politiche liberali che guardino soprattutto ai modelli virtuosi del nord Europa. Quale forza politica di destra, sinistra o centro non sottoscriverebbe questo appello? Eppure – tanto a livello nazionale come a livello locale – le concrete politiche perseguite in Italia vanno in direzione opposta. Vediamo prima di tutto qualche esempio sul piano nazionale. La sinistra, sulla scia del peggiore conservatorismo sindacale, si è per molti anni fermamente opposta, fra l’altro, alla tempestiva eliminazione delle pensioni-baby: se questa eliminazione fosse stata fatta per tempo, ci avrebbe evitato una parte consistente dell’enorme debito pubblico che abbiamo invece accumulato. Si è trattato di un vero e proprio furto degli adulti “iperprotetti” in danno dei giovani, dei “genitori” in danno di figli e nipoti. Niente a che fare con i modelli virtuosi di spesa pubblica (e di autentico welfare) tipici delle migliori socialdemocrazie liberali. La destra – per incapacità di liberarsi dal peso di una leadership inadatta e pericolosa come quella di Berlusconi – ha avallato ogni genere di confusione fra pubblico e privato: conflitti d’interesse, leggi ad personam, commistione tra politica e affari. Cose, di fronte alle quali, un vero liberale inorridisce. Per tutto questo, il mondo intero sta ridendo dell’Italia. Almeno il centro segue politiche liberali? Nemmeno per sogno. Che dire per esempio degli assurdi privilegi fiscali per gli immobili della Chiesa o dell’appoggio sempre concesso dai partiti cattolici di centro alle pretese di imporre una morale particolare con legge (pensiamo per esempio al biotestamento o alla fecondazione assistita)? Ancora una volta, autentiche politiche liberali sono distanti anni luce. Destra, centro e sinistra sono poi riuscite a evitare, nonostante le regole europee, effettive liberalizzazioni e aperture al mercato di vasti settori dell’economia: dalle professioni (avvocati, notai, farmacisti) ai trasporti (dai taxi all’Alitalia) ai servizi pubblici locali. A livello cittadino, le cose vanno persino peggio. Autodromo (che comporterà un vero disastro ecologico per le aree interessate), traforo, filovia con motore diesel, costruzione di parcheggi nel centro anziché di veri parcheggi scambiatori in periferia, nuove cementificazioni in vaste aree della città, sponsorizzazioni quanto meno discutibili da parte delle aziende partecipate dal Comune. Quasi tutte le più importanti (e più costose) iniziative delle Amministrazioni veronesi vanno in direzione esattamente contraria rispetto ai modelli del nord Europa, dove si privilegiano la tutela am-

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bientale, il trasporto pubblico ecologico, la ciclabilità, gli incentivi verso le attività socialmente utili. Di quale nord parla la Lega? Non parliamo poi dell’ostruzionismo tenacemente manifestato dal Comune verso le richieste di referendum locale sul traforo: un ostruzionismo a più riprese pesantemente censurato dal Tribunale di Verona, che ha parlato di “illegittima compressione del diritto politico” al referendum (ordinanza del presidente Gilardi del 9 luglio 2010), tale da incidere sui “diritti fondamentali dell’individuo e della collettività” (ordinanza del Giudice Lanni dell’8 settembre 2009). Siamo molto lontani dall’esempio svizzero. Ancora, Verona – città nota in tutto il mondo per l’arte, la cultura e la letteratura – è balzata agli onori delle cronache per iniziative come le panchine “antibarboni” o la condanna definitiva irrogata dalla Cassazione (sentenza n. 41819/2009) verso alcuni politici che oggi rivestono importanti ruoli nelle Amministrazioni locali, per avere propagandato “idee basate sulla superiorità e l’odio razziale nei confronti degli zingari”. Dante e Shakespeare, se potessero, ci ritirerebbero il patrocinio: Verona merita decisamente di meglio. Nessuna forza politica, nazionale o locale, ha agito tempestivamente ed efficacemente – attraverso misure sostanziali – per ridurre davvero i costi impropri della politica. La speranza, però, è l’ultima a morire. Auguriamoci che, a prescindere dagli schieramenti di appartenenza, la grave crisi nella quale siamo precipitati faccia emergere – a partire, per Verona, dalle prossime elezioni amministrative – una classe dirigente autenticamente nuova. E davvero ispirata, finalmente, a politiche liberali e ai modelli virtuosi del nord. *Professore a contratto di Diritto internazionale dell’ambiente presso l’Università di Padova

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Opinioni

Aree dismesse: l’assenza di strategie ha creato un puzzle senza senso

di Giorgio Massignan* ’Amministrazione comunale di Verona, con l’approvazione del Pat e del successivo Piano degli interventi, ha programmato scientificamente il metodo di affidare ai privati e al loro potere economico, la pianificazione della città, espropriando in questo modo la Pubblica amministrazione del diritto-dovere di programmare e gestire l’uso del territorio. La conferma è la non pianificazione di Verona Sud. Una zona industriale, a pochi chilometri dal centro storico, con parecchie grandi aree dismesse da riqualificare quali le ex Officine Adige, il Foro Boario, gli ex Mercati ortofrutticoli, gli ex Magazzini generali e l’ex Manifatture tabacchi. Gli amministratori pubblici, anziché analizzarne il potenziale e coniugarlo con la vocazione e le necessità di Verona all’interno di un piano territoriale unitario e organico, hanno preferito ricucire le differenti proposte dei vari gruppi di imprenditori privati, realizzando così una sorta di abito di Arlecchino. Solo nelle prime quattro aree, saranno realizzati circa 4 milioni di metri cubi di costruito, di cui un milione di edifici residenziali e 3 milioni tra direzionale, commerciale e alberghiero. Da nessuna analisi si evince che Verona ha bisogno di centri direzionali e commerciali e neppure di nuove abitazioni. Nel nostro comune ci sono circa 10 mila appartamenti sfitti. In realtà la trasformazione delle aree dismesse è stata, di fatto, suggerita dalla partecipazione degli operatori immobiliari privati nei processi decisionali e strategici pubblici locali. In questo modo, la Pubblica amministrazione, sentiti gli imprenditori privati, ha seguito il mercato immobiliare (prima della crisi) per permettere la realizzazione di tipologie edilizie commercialmente allettanti. Di fatto, il suolo viene concesso alle trasformazioni immobiliari per finanziare servizi, stipendi ed eventi locali. Inoltre, la questione più importante, quella della mobilità, è stata trascurata. Il piano di riqualificazione dell’intera area meridionale presuppone un notevole afflusso di traffico, ma anziché intervenire nella zona sud, si stanno investendo enormi somme di denaro (quasi 500 milioni di euro), per la tangenziale nord. I nostri amministratori, invece di programmare un sistema della mobilità basato sul trasporto pubblico, hanno preferito la grande opera infrastrutturale: la complanare nord con il traforo della collina e la strada di gronda, funzionale solamente alla viabilità extra urbana e autostradale. Intervento questo che andrà a modificare lo sviluppo urbano, spostandolo verso le aree settentrionali e occidentali. Zone di grande pregio ambientale che potrebbero (come stabilito negli accordi tra l’ente pubblico e gli operatori privati), con il cambio di destinazione d’uso, trasformarsi in edificabili ed essere cedute come aree di compensazione ai privati i quali, con la formula del project financing, realizzeranno l’infrastruttura.

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Al di fuori della pianificazione comunale e del tutto scollegate da un concetto organico dell’uso del territorio, sono state calate le scelte della Regione attraverso il Paque: • le ex Cartiere: un piano di ristrutturazione di 300 mila metri cubi, che ospiterà 70 negozi per 15 mila metri quadrati, dodici bar e ristoranti, palestre, centri per il fitness, multisale cinematografiche per 4 mila 600 metri quadrati e uffici per 30 mila metri quadrati. Per liberare l’area è stato tagliato un bosco di pioppi vecchio di oltre trenta anni, rinaturalizzato e posto sotto vincolo; • l’ex opificio Tiberghien a Borgo Venezia. Destinazione d’uso prevista per la promozione di attività relative al direzionale, commerciale e ricettivo; • l’agorà della Croce Bianca: un centro turistico ricettivo metropolitano; • l’Ecocittà del Crocione: un complesso a uso direzionale, di servizi e residenziale. • le porte della città, al Nassar di Parona: in una zona ambientalmente pregiata, a pochi metri dall’Adige, confinante con la campagna e di possibile esondazione, è ipotizzata la costruzione di un complesso abitativo, direzionale e commerciale, di 72 mila 399 metri quadrati; • L’ecoborgo di Mezzacampagna a San Massimo: nell’area del seminario saranno costruiti centri direzionali, ricettivi, commerciali, residenziali e un centro sociale e assistenziale; • La nuova Contina a Verona sud: un galoppatoio che sarà il classico “cavallo di Troia”per pilotare uno sfruttamento speculativo del territorio. * Presidente di Italia Nostra, sezione di Verona

Foto di R. Girardi

Gli amministratori pubblici, invece di pensare a un piano territoriale, hanno ricucito le differenti proposte realizzando un abito di Arlecchino


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I giri di parole sull’inceneritore ... puzzano di bruciato L’impianto di Ca’ del Bue brucerà quantità enormi di immondizia. Come è possibile che dalle sue ciminiere escano poi sostanze innoque? di Stefano Fittà uesto inceneritore s’ha da fare, «si farà», «noi non parliamo con chi non lo vuole». Al di là di ogni logica e contro la volontà di migliaia di cittadini, questo è ciò che hanno sempre risposto i vertici di Agsm, il presidente Paternoster in primis che, lo ricordiamo, è anche Segretario provinciale della Lega. Inizialmente, si sosteneva che l’inceneritore di Ca’del Bue era per Verona e che, se i veronesi fossero stati virtuosi nella raccolta differenziata, l’impianto si sarebbe potuto tenere acceso meno, magari otto ore al giorno.Come un caminetto insomma: quando c’è da farsi una grigliatina si accende, diversamente si spegne. Ovvio, invece, che un impianto industriale di questo tipo debba rimanere acceso 24 ore su 24.Che l’inceneritore sarebbe stato costruito solo in minima parte per le esigenze di Verona era già chiaro fin dall’inizio, ma è diventato evidente dopo la pubblicazione dei dati Arpav 2010 da dove emerge che i già funzionanti inceneritori del Veneto sono sotto utilizzati di un buon 30% e soffrono la concorrenza delle discariche.Anche i dati di Verona e provincia indicano che l’indifferenziata – cioè la quota che potenzialmente dovrebbe andare o in discarica o all’inceneritore – è in calo: per obbligo di legge, inoltre, ogni Comune dovrà al minimo raggiungere il 65% di differenziata entro il 2012, ma alcuni Comuni sono già all’85%. Il paradosso è che dovremo importare immondizie da altre regioni per ottenere, come risultato, di avere una quantità di ceneri da smaltire in una discarica di dimensioni uguali o superiori a quella che avremmo dovuto avere per smaltire il secco “solo”veronese senza bruciarlo. Aggiungiamo che le ceneri sono definite rifiuti speciali dalla legge, perché più pericolose dell’inerte, oltre che volatili. Non si capisce quindi perché ci si presti ad aumentare il già altissimo inquinamento dell’aria veronese con questo inutile impianto di incenerimento e con le centinaia di tir che lo dovranno alimentare. Tutti i veronesi dovrebbero sapere che, per l’enorme e insalubre superamento dei limiti di inquinamento dell’aria,siamo stati deferiti alla Corte di Giustizia europea con l’inevitabile conseguenza di pagare multe salate. Oltre al danno, la beffa. Abbiamo sentito il sindaco Flavio Tosi dire giustamente che pure le auto inquinano e che anche respirando inquiniamo: che voglia farci andare tutti a piedi, senza respirare per abbattere l’inquinamento? Sull’argomento il primo cittadino di Verona solitamente glissa, adducendo responsabilità altrui (la Regione, Agsm e via dicendo). È credibile una posizione simile? È possibile che il sindaco della tredicesima città italiana non sia in grado di opporsi a un progetto che danneggia in qualche misura la salute dei suoi concittadini? Su questo i leghisti trevigiani sono stati molto più decisi, visto che hanno basato la campagna elettorale (vincendola) sull’opposizione all’incenerimento nella propria provincia: sarà quindi un colpo Gobbo quello di far diventare la bella

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Verona pattumiera del Veneto (e oltre), patria dell’immondizia e quindi immonda? Tutte le ricerche sono concordi nel definire gli impianti di incenerimento esattamente come vengono indicati dalla legge italiana: “industrie insalubri di classe prima”. Sia quelli vecchi, che quelli più recenti. L’unico studio (non medico) che viene citato a favore dell’incenerimento è condotto dal laboratorio Leap (Politecnico di Milano) e commissionato e pagato da Federambiente. Federambiente, meglio ricordarlo, è l’associazione che riunisce le maggiori utility pubbliche e private del settore incenerimento: una ricerca sulla quale, viste le premesse, è più che legittimo avere forti riserve. Molti “esperti” sanno senz’altro illustrare molte particolarità e dare motivazioni tecniche sul fatto che sia un errore folle bruciare 1.200 tonnellate di rifiuti al giorno in una zona popolata da 100 mila abitanti in meno di 10 chilometri di raggio. Ciò che sembra impossibile è che più le cose sono elementari e ovvie, più sembra diventare complesso motivarle razionalmente. È un po’ come succede con i bambini che pongono domande talmente semplici da essere complesse: «Perché il nonno sta male?». Noi potremmo rispondere che è perché le difese immunitarie sono state indebolite, perché è in corso un’infezione virale etc… Ma il bimbo non capirebbe… E comunque non era quella la sua domanda, lui voleva sapere il “motivo per cui” e non per mezzo di cosa si era ammalato non “un nonno” qualsiasi, ma il “suo nonno”. Il nonno è vecchio, è la risposta corretta, e il bimbo capisce immediatamente. La verità è semplice, più è complessa più puzza di menzogna. Agsm e l’Amministrazione di Verona stanno spiegando ai “bambini-cittadini”che bruciare 1.200 tonnellate di rifiuti al giorno “non fa male” e che un’industria insalubre di classe prima inquina meno di un caminetto. Ce lo vogliono dimostrare spendendo centinaia di migliaia di euro di “ricerche”, decantandoci fantastici filtri che bloccano “tutto” e abbacinandoci con tecnologie frutto di ricerche – parole di uno dei protagonisti – «talmente avanzate, che non sono ancora state pubblicate». La gara d’appalto poi ci stimola curiose domande: in primis si garantisce al vincitore la “quantità” di rifiuti da bruciare per raggiungere la remunerazione a norma di legge (bel rischio d’impresa!). In un altro punto si specifica che le obbligazioni (il contratto) con il vincitore della gara vengono assunte dalle singole “Amministrazioni comunali conferitrici, per tutta la durata prevista nel piano finanziario”(25 anni!). Per il primo punto c’è una risposta molto semplice: se ora migliorando la raccolta differenziata possiamo puntare a diminuire la tariffa per effetto del recupero dei materiali, poi sarà impossibile. Proprio per il meccanismo che garantisce la quantità, ci troveremo a pagare 100 anche se il secco da bruciare sarà 20, chiaro il giochino? Come a Brescia la quota di raccolta differenziata verrà a diminuire invece che aumentare, proprio per effetto dell’inceneritore che tenderà a fagocitare tutto. Al secondo punto si chiarisce che, nero su bianco, questo contratto capestro, voluto da Verona, lo devono firmare i sindaci di tutti i comuni della provincia. Cari sindaci, non vi pare sia ora di dire qualcosa invece di lasciar mettere il cappio intorno al collo per venticinque anni ai vostri cittadini? Ripetiamo la domanda: credibile che bruciando immondizia di mezza Italia, nell’aria già pessima che respiriamo, saranno emessi solo salubri effluvi? Molto spesso la verità è semplice, più è complessa e più puzza di menzogna. (Vedi fotoservizio nelle pagine seguenti)

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22 ottobre 2011: manifestazione contro l’inceneritore di Ca’ del Bue

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22 ottobre 2011: manifestazione contro l’inceneritore di Ca’ del Bue

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22 ottobre 2011: manifestazione contro l’inceneritore di Ca’ del Bue

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22 ottobre 2011: manifestazione contro l’inceneritore di Ca’ del Bue

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22 ottobre 2011: manifestazione contro l’inceneritore di Ca’ del Bue

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DIARIO ACIDO di Gianni Falcone


Attualità

Così Verona accoglie i profughi La città ha teso una mano verso i profughi in arrivo dal Nordafrica, nel tentativo di aiutarli nel lungo percorso dell’integrazione. Ha così preso il via un valido progetto di formazione finalizzato all’inserimento lavorativo

in VERONA

di Francesca Lorandi Aprile 2011, inizia in Italia l’ondata di profughi dalla Libia. L’Italia storce il naso, in Veneto va peggio: scatta il cortocircuito istituzionale, con i presidenti delle Province contro il governatore, il governatore contro i sindaci, i sindaci contro i prefetti. E anche Tosi, che si fa trasportare da questa onda, rilascia per l’occasione dichiarazioni poco diplomatiche: «Per l’Italia – aveva detto – andrebbe attivato al più presto un blocco navale che impedisca l’ondata di arrivi».

Sono passati sette mesi e a Verona, nel frattempo, sono cambiate molte cose. Perché, che piaccia o no al sindaco sceriffo, di profughi qui ne sono arrivati: a oggi 265 (223 uomini, 25 donne, 12 minori e 5 neonati), distribuiti in 26 strutture nel capoluogo e in provincia. E non saranno gli ultimi: lo stato di emergenza umanitaria è stato prorogato al 31 dicembre 2012 con decreto del presidente del Consiglio e con ulteriore decreto è stata disposta la proroga di sei mesi per i permessi di soggiorno per motivi umanitari. Tra Verona, Vicenza, Padova, Rovigo,

Trento e Bolzano sono già stati accolti mille 284 profughi. E in attesa ci sono 898 domande di protezione. Provengono da Costa d’Avorio, Niger, Nigeria e da altri paesi dell’Africa subsahariana. Sono immigrati che in Libia lavoravano come muratori, carpentieri o falegnami, ma anche come interpreti, costretti con la forza a imbarcarsi per l’Italia. Ora sono qui, senza più il lavoro con cui mantenevano le famiglie, in attesa di definizione della loro posizione in Italia. Con il rischio di non poter più trovare un’occupazione. Né qui, né nella loro terra.

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Attualità Il piano per l’integrazione, nato dalla collaborazione tra Comune, Edilscuola e Caritas, ha un costo di 44 mila 900 euro, coperto in gran parte dalla Fondazione Cariverona

Nonostante gli evidenti casi di intolleranza, che in questi anni hanno attraversato l’Italia e Verona, la città nell’accogliere i profughi nordafricani torna a mostrare la sua parte migliore

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In questi mesi Verona si è scoperta paradossalmente aperta, generosa. Anzi, di più: ha teso una mano verso questi profughi, nel tentativo di aiutarli nel lungo percorso dell’integrazione. Un iter che parte sempre dall’inserimento lavorativo, impossibile per questi immigrati, visto il loro status di profughi. Ma non è stato questo un freno alla volontà di molti – Caritas in prima fila, ma anche istituzioni e aziende del territorio – che hanno voluto aiutarli. In ordine di tempo l’ultimo progetto, nato dalla collaborazione tra Comune, Edilscuola e Caritas, è stato recentemente avviato con l’obiettivo di insegnare un mestiere ai profughi perché, in futuro, possano meglio inserirsi nel mondo del lavoro. Il piano, che ha un costo di 44 mila 900 euro si propone di offrire ai nordafricani la possibilità di impiegare il tempo in modo “significativo e costruttivo” e di acquisire competenze utili ai fini di un inserimento lavorativo. Destinatari del progetto saranno 64 profughi. Sono stati selezionati coloro che, durante i colloqui, hanno dichiarato di aver lavorato in passato nel settore edile. Sono tutti uomini, qualcuno è anche minorenne, i più grandi arrivano ai 40 anni, provengono da diversi Stati dell’Africa subsahariana e in minima parte dal Bangladesh. Sono arrivati in Italia in seguito ai drammatici avvenimenti che hanno agitato il Maghreb negli ultimi mesi. “Dai racconti – si legge nella relazione del Comune – emerge che la maggior parte di loro lavorava in Libia nel settore delle costruzioni, molto attivo prima della guerra. Alcuni, la minima parte, studiavano”. Ora si trovano in una condizione di “immobile precarietà” che può protrarsi per periodi lunghi. Grazie a questo progetto possono impiegare il tempo in modo significativo e gratificante, per evitare “depressione o scelte controproducenti come quella di lasciare i centri di accoglienza”. Il percorso di formazione messo a punto da Fondazione Edilscuola si sviluppa in tre cicli formativi di 120 ore ciascuno, improntati sul-

la prevenzione e sicurezza sul lavoro (16 ore) e sull’addestramento professionale per l’esecuzione di murature, malte e carpenteria. Il progetto è sostenuto economicamente dalla Fondazione Cariverona, già impegnata per il sostegno primario di queste persone tramite l’associazione il Samaritano, che ha tra l’altro organizzato corsi di italiano di base prima di avviare questi profughi alla scuola edile. «Questo progetto è un ulteriore rafforzamento della nostra mission», ha commentato Antonio Savio, presidente di Fondazione Edilscuola, che ha sempre operato per sostenere le persone in difficoltà occupazionale formandole per un lavoro qualificato. «Il programma è rivolto a cittadini stranieri e riflette un impegno che già da qualche anno la Fondazione ha assunto a favore dei lavoratori immigrati in cerca di una qualificazione professionale» ha spiegato il vicepresidente della Fondazione Edilscuola, Danile Magri. «Penso che sia giusto dare l’opportunità a un cittadino straniero di inserirsi come lavoratore edile in Italia», ha sottolineato Magri, «confidando anche nella possibilità che si creino le condizioni di pace e di sviluppo nel paese di origine dove potrà, se lo desidera, ritornare per svolgere un lavoro qualificato. Intendiamo tra l’altro promuovere il gemellaggio con altre scuole di formazione nei Paesi da cui provengono questi nuovi cittadini per creare un ponte di comune sostegno alla professionalizzazione dei lavoratori edili». Ma ancora prima di questa innovativa inizitiva, Verona è stata la prima città italiana a lanciare, a luglio, il progetto di integrazione attraverso l’avviamento e la formazione lavorativa dei profughi provenienti dalla Libia. Capofila e promotrice è Perla Stancari, prefetto di Verona, che insieme a Comune, Provincia, Amia, Agsm e istituti di accoglienza veronesi l’estate scorsa ha siglato un accordo per avviare un processo di integrazione concreto, per i primi 185 uomini arrivati a Verona, in attesa dello status di rifugiato. A queste persone è stata data la possibilità di impegnarsi in stage lavorativi in uno dei settori dell’azienda

Amia, come giardinaggio o raccolta rifiuti. «La circolare arrivata dal ministro», aveva detto Stancari a luglio, «indica che è possibile permettere ai profughi, nel periodo di permanenza di massimo sei mesi prima del riconoscimento o meno del diritto di permanenza sul suolo italiano, un percorso di avviamento al lavoro. Effettivamente, le istituzioni veronesi avevano già anticipato la circolare in modo da consentire ai migranti del nord Africa di rendersi utili e mantenere la loro dignità personale attraverso un percorso d’inserimento lavorativo primo passo importante verso l’integrazione». Anche questo progetto è nato da un’idea di Caritas diocesana che attraverso la sua struttura operativa Casa accoglienza Il Samaritano, dove sono ospitati 50 profughi, ha sollevato l’urgente necessità di impiegarli anche in attività di semplice manutenzione. L’idea è piaciuta tanto da raccogliere la disponibilità di Amia e Agsm, le quali hanno pagato la copertura assicurativa dell’Inail per i profughi-stagisti che non saranno retribuiti, ma potranno avere diritto a piccoli rimborsi spese. «Non è accettabile vedere per giorni seduti in “panchina” queste persone che vogliono rendersi partecipi» ha spiegato Giuliano Ceschi, direttore di Caritas. «La legge prevedeva fin dall’inizio la possibilità di far svolgere loro servizi socialmente utili, ma lo scoglio della questione assicurativa bloccava ogni cosa. Con il progetto si fa un salto di qualità perché si prevede la formazione al lavoro, un percorso intelligente che potrà far fiorire anche altre occasioni. Inoltre tutti i nostri ospiti hanno l’intenzione di aderire al progetto per dimostrare la loro buona volontà e le loro capacità». Da Verona, sembrerebbe arrivare l’ennesima dimostrazione che l’accoglienza e l’integrazione sono possibili e fanno crescere positivamente la società. Un’impressione positiva che, all’inizio dell’ondata, era arrivata da un caso tutto veronese finito anche sulle pagine dei giornali nazionali. A fronte di un Paese che storceva il naso perché obbligato a essere ospitale, un po’ come quando in casa arriva il famigliare

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Attualità

Verona è stata la prima città italiana a lanciare il progetto di integrazione lavorativa per i profughi provenienti dalla Libia. Promotrice è Perla Stancari, Prefetto di Verona che insieme a Comune, Provincia, Amia, Agsm e istituti di accoglienza veronesi ha siglato un accordo per aiutare i primi 185 uomini arrivati a Verona, in attesa dello status di rifugiato

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mal sopportato, un imprenditore veronese titolare del residence Manager’s, era disponibile ad aprire le porte della sua struttura ai profughi in arrivo. Giorgio Tedeschi, questo il suo nome, si era rivolto a Prefettura e Provincia senza però ricevere alcuna risposta. Il suo palazzone, nel verde della campagna di Verona sud, sarebbe stato un ideale primo rifugio e lui era disponibile a mettere a disposizione otto dei dieci piani del suo albergo: 96 stanze per circa 200 posti con relative colazioni e pasti. «Mi disturbava far passare la nostra categoria come una sorta di lobby razzista», aveva detto al tempo. Inutilmente. Il progetto non andò in porto. Poi gli arrivi e le sistemazioni nei dormitori sono continuati nel silenzio. Eppure quelle polemiche, iniziate con la notizia dell’arrivo dei primi profughi, a distanza di mesi non si sono ancora placate. O almeno, per qualche tempo sono rimaste sottoterra, per poi uscire, scatenando un terremoto. Il “là” è stato dato dall’allestimento di un nuovo alloggio destinato ai profughi, all’ospedale di Borgo Trento. Loro, una dozzina, sono

arrivati in punta di piedi, per non alimentare le polemiche. Ma non è bastato per evitare che l’attenzione dei più critici si concentrasse sull’ex palazzina delle suore di fronte alle celle mortuarie, dove i grandi spazi al pianterreno e al primo piano sono stati sistemati per garantire l’ospitalità ai rifugiati politici in arrivo dal nord Africa. I posti letto sono una quarantina, con disponibilità di quattro bagni e otto docce. Di polemiche ce ne sono state, parecchie, provenienti soprattutto da un’area del Consiglio comunale che fa capo a Lucia Cametti, Elena Traverso e Ciro Maschio, tutti ex An. Polemiche nate principalmente dalla vicinanza di questo sito all’ospedale: «Stiamo attenti, al Gemelli di Roma si è propagata a dismisura la tubercolosi, cosa potrebbe accadere a Verona?» è stata, ad esempio, la perplessità della consigliera Cametti. Polemiche che hanno colpito soprattutto don Ceschi («Basta con gli aiuti infiniti», la critica di Enzo Flego, Lega Nord), benché il direttore della Caritas con questa soluzione centrasse relativamente. La palazzina delle

ex suore rientra, infatti, nelle disponibilità che la Prefettura ha dato per accogliere i cittadini provenienti dal Nord Africa. E proprio la Prefettura ha stabilito che a essere ospitati saranno profughi con lo status di rifugiati politici. Un diritto di soggiorno che comunque non può essere negato in quanto riconosciuto dagli accordi internazionali, in primis dalla Convenzione di Ginevra, che consentono loro di rimanere sul territorio e di lavorare regolarmente. Colazione, pranzo e cena vengono forniti da un catering esterno e la giornata viene scandita, come negli altri dormitori, da corsi di lingua italiana e formazione professionale. Sono tutte persone regolari, che lavoravano come gommisti, macchinisti, falegnami, muratori. Hanno fatto tutti lo screening sanitario all’Usl. Sono liberi di uscire e girare per la città, ma rispettano le regole e vogliono inserirsi. Si trovano davanti però una città contraddittoria, che allunga la mano per poi ritirarla, che fa la generosa ma talvolta preferisce sbattere la porta, e lasciarsi fuori problemi. E stranieri.

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Attualità PIAZZA CORRUBBIO

Non si doveva fare Prima di costruire un parcheggio in un luogo così caro alla tradizione popolare il Comune avrà sentito gli esperti. Quelli consultati da noi bocciano l’opera. Ci spiegano perchè l’ingegner Magro (Iaia) e il prof. Bettini (Iuav Venezia)

di Chiara Bazzanella Il buco, enorme, è fatto. E l’imponente gru gialla apparsa sul cantiere per il parcheggio interrato di piazza Corrubbio contribuisce a rendere inequivocabile il destino del quartiere. Nonostante nessuno lo abbia mai voluto il park si farà, pur se ridotto di un’ottantina di posti, che da 300 passano a 220, per evitare di bucare la strada anche in via Da Vico, con il rischio di ulteriori ri-

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trovamenti archeologici e l’allungamento dei tempi. Inutili le proteste di commercianti, residenti e Comitato. Per l’Amministrazione – che proprio di recente ha stoppato il parcheggio a porta San Giorgio, creando ulteriori malumori in piazza Corrubbio – la ditta appaltatrice, la Rettondini, non si è dimostrata disponibile a un accordo per evitare la tanto contestata opera. Ma nonostante il futuro sia evidente, la gente non smette di dire la propria e, mentre le attività chiudono o vendono una dopo l’altra, sul perimetro del cantiere

continuano a spuntare cartelli e denunce di chi ha a cuore lo storico rione. Ha preso il via anche una nuova raccolta firme: non più per fermare lo scempio, ormai è impensabile, ma perché la zona non venga abbandonata al degrado durante i lavori, che stanno generando una palese noncuranza per l’intero quartiere. Il Comitato, alla notizia dell’addio al park a San Giorgio, è tornato a puntare il dito contro palazzo Barbieri, accusandolo di non essersi impegnato per una soluzione alternativa. Ma la vicenda, per il portavoce Mao Valpiana, non è ancora conclusa. «La parola fine arriverà solo al termine dei lavori, valutando come riprenderà la vita della piazza, se mai riprenderà». E insiste: «I programmi e i proclami dell’assessore al Traffico Enrico Corsi finora si sono dimostrati sbagliati e, con una facile profezia, anche i tempi per il termine dell’opera (fissato all’ottobre del 2012, ndr) slitteranno». La piazza ha ancora bisogno dei cittadini per vigilare su quel che sarà e, mentre i commercianti pensano a una festa in via Barbarani il 3 dicembre per richiamare l’attenzione su un quartiere fantasma, lo stesso Comitato si impegna ad agire su più fronti. «La Soprintendenza è stata latitante in tutta la vicenda e adesso va interpellata per discutere del futuro di una piazza storica, a 50 metri dalla Basilica di San Zeno». Conclude Valpiana: «Le iniziative sulla piazza, come quelle contro il traforo o per la difesa degli alberi hanno un unico obiettivo: difendere il bene comune della città».

Un bene comune che è oggetto di analisi e attenzione di associazioni mondiali come Iaia (Associazione internazionale per la valutazione di impatto ambientale), di cui Verona In ha intervistato il presidente della sezione italiana, l’ingegnere Giuseppe Magro. Iaia, con il suo gruppo di ricerca universitaria, sta lavorando per fornire una serie di strumenti accessibili a chi usa la rete: informazioni sostanziali per la conoscenza del territorio e preliminari all’assunzione di scelte. E questo da parte di tutti gli attori: dai cittadini ai decisori. Si tratta di dati ambientali, autorizzativi, degli impatti, degli scenari, ma anche degli strumenti di pianificazione che spesso sono difficilmente raggiungibili. L’obiettivo è creare un grande network, un collegamento tra persone per mettere a sistema le reciproche esperienze. – Piazza Corrubbio, un’opera che nessuno voleva e che nonostante tutto è stata fatta. Perché ? «Nel caso di piazza Corrubbio compaiono tutti i fattori che rendono critiche simili vicende in Italia. Da anni si parla di partecipazione ma, di fatto, la popolazione non viene coinvolta nel momento giusto, nelle fase di condivisione degli obiettivi e di discussione delle proposte di pianificazione locale. Dopo la legge Bassanini, la responsabilità delle procedure autorizzative è stata affidata ai funzionari degli enti, lasciando un ruolo ambiguo alla politica che, di fronte a manifestazioni di forte dissenso, assume posizioni di impotenza del tipo “anche noi siamo vittima di”, “se procediamo

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INTERVISTA CON VIRGINIO BETTINI

Nei contesti urbani si interviene integrando ecologia e storia Virginio Bettini è professore di Analisi e valutazione ambientale presso il corso di laurea in Pianificazione del territorio all’Università Iuav di Venezia, oltre che presidente del Comitato scientifico della sezione italiana dell’associazione per l’impatto ambientale, Iaia. In un breve botta e risposta ci spiega come avrebbe dovuto essere affrontato il parcheggio di piazza Corrubbio per garantire un concreto futuro alla città. – Cosa significa ecologia urbana e tenerne conto in piazza Corrubbio? «Quando si studia un ambito metropolitano, da una parte c’è il corpo della cultura della città, dall’altra ci sono gli aspetti che fanno parte delle basi dell’ecologia classica, ossia di quella che analizza le leggi fondamentali degli ecosistemi e degli ambienti naturali. Per il caso di piazza Corrubbio si sarebbero dovute mettere insieme le due cose, ossia l’analisi di carattere storico culturale (cioè quale era stato il livello della vita in quell’ambito) e i parametri dell’ecologia urbana segnati, per esempio, dall’aggravamento delle problematiche della circolazione veicolare e dalla problematica di fare uno scavo vicino a un impianto storico. Individuando soluzioni non rilevabili se non si considera la complessità del sistema urbano». – Oltre ad affrontare i problemi tipici dell’ecologia classica, andavano quindi considerati altri fattori? «I temi di ecologia urbana non prescindono dalla storia specifica del sito. Non possiamo tradurre i progetti di carattere sociale, politico e demografico in una struttura che è legata solo ad alcune leggi fondamentali dell’ecologia di base. Dobbiamo tenere conto che nella città esiste un modello di complessità ancora più forte rispetto a quello dell’ecologia naturale. I modelli caotici, quelli che possono crollare e non funzionare, in città sono molto più forti di quelli che si trovano negli ambienti naturali. Come spiega Leonardo Benevolo nel libro La fine della città, stiamo andando in una direzione che non tiene più conto del fatto che la città era un elemento di confine definito dall’uomo rispetto ai suoi spostamenti e alla sua conoscenza. Ora è di-

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Piazza Corrubio

«Siamo vicini alla tragedy of the town. Siamo arrivati a un’eccessiva occupazione degli spazi, a un eccessivo modello di infrastrutturazione e quindi a una rottura» ventata un elemento di sfruttamento dei margini e si tende a negare la struttura della compatibilità ambientale della città. Strutturare e realizzare progetti come quello di piazza Corrubbio vuol dire prescindere da un’analisi credibile di quello che è il contesto ecologico urbano». – Quali sono i rischi a cui si va incontro non occupandosi del modello urbano in maniera sensata? «Il riferimento va alla tragedia che ha interessato l’Inghilterra all’inizio del Rinascimento, quando sono stati cancellati i campi comuni e le pressioni sono nate su alcuni spazi. Noi oggi siamo vicini alla tragedy of the town (la tragedia della città). Siamo arrivati a un’eccessiva occupazione degli spazi, a un eccessivo modello di infrastrutturazione e quindi a una rottura. Non possiamo andare oltre il carico di quella che è l’impronta ecologia all’interno di una città. Per ogni intervento urbano bisognerebbe introdurre quel parametro definito energy, ossia il

quantitativo di energia che serve a spostare un certo valore energetico all’interno del sistema biologico. Ogni volta che interveniamo su una struttura naturale per imporre un modello urbano dobbiamo capire quanto è la variazione di questo valore. Dobbiamo tenerla alta, ma è impossibile farlo se continuiamo a urbanizzare in questo modo». – Chi dovrebbe fare attenzione per primo alle opere che si avviano? «Il pianificatore, l’amministratore, chi prende le decisioni. E i cittadini dovrebbero concordare. Se non vengono presentate analisi di questo genere e i cittadini restano esterrefatti di fronte a certe decisioni, si sbaglia tutto. Non bisogna più soltanto parlare, ma iniziare a stabilire dei numeri, dei valori, dei dati estremamente specifici. Rispettare parametri chiavi dell’ecologia per andare nella direzione giusta e fare città in modo diverso, più accettabile e non destinato, come dice Benevolo, ad avere fine tra poco». (C.B.)

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Attualità Giuseppe Magro, presidente della Sezione italiana Iaia (Associazione internazionale per la valutazione di impatto ambientale): «Nel caso di piazza Corrubbio compaiono tutti i fattori che rendono critiche simili vicende in Italia. Da anni si parla di partecipazione ma, di fatto, la popolazione non viene coinvolta nelle fase di condivisione degli obiettivi e di discussione delle proposte di pianificazione locale»

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in un certo senso rischiamo di dover risarcire i danni a”, etc. E si creano situazioni come quella di piazza Corrubbio». – Quali sono gli strumenti per dare un ruolo concreto alla gente? «Il tema del secolo è l’ambiente e la sua potenzialità in termini di coesione sociale è enorme. L’intelligenza ecologica si sta diffondendo a livello planetario, perché ormai tutti hanno capito che la salute del sistema territoriale, sociale e ambientale è direttamente connessa alla salute delle persone. Il punto centrale è fare in modo che questa coscienza collettiva si concretizzi in iniziative efficaci, in grado di incidere effettivamente nei processi decisionali. È necessario dare nuovi strumenti ai cittadini per renderli partecipi del processo di pianificazione in forma partecipata e collettiva. Il singolo cittadino, di fronte agli ingranaggi della macchina amministrativa, si sente impotente. Ma se i cittadini sono mille o diecimila, allora i decisori sono spinti ad ascoltare la loro voce. Iaia sta lavorando proprio per rendere disponibile a tutti uno strumento di partecipazione che fornisca informazioni mirate sui singoli procedimenti di pianificazione e ne consenta l’analisi, la condivisione e quindi la valutazione. In questo modo si restituisce democrazia nella relazione tra cittadini e isti-

tuzioni che, ricordiamolo, sono nate come servizio ai cittadini e di cittadini sono costituite». – A Verona si sono formati comitati contro il traforo, l’inceneritore e la stessa piazza Corrubbio. Ma bastano da soli? «I comitati da soli non bastano. La loro presenza è determinante per attivare il processo di dialogo, ma non appena il confronto sociale e istituzionale prende vita, è necessario essere attrezzati rispetto alle questioni tecniche e giuridiche altrimenti si rischia di vanificare gli sforzi fatti. Non è detto che si riesca a ottenere completamente il risultato sperato, specie se in contrasto a opere importanti, ma è comunque utile entrare nel processo decisionale aprendo ai temi della sostenibilità e degli impatti ambientali, spesso non adeguatamente affrontati. I comitati e i singoli cittadini, in una città complessa come Verona, devono cercare forme di coesione e di organizzazione per raggiungere gli obiettivi. Se ci si focalizza solo nel tentare di fermare un progetto, si fa spesso il gioco dell’avversario che avrà la possibilità di invocare concetti come la “pubblica utilità” e quindi di liquidare ogni forma di dissenso. I progetti e i piani possono essere cambiati, modificati, ridotti, trasferiti, oppure realizzati prevedendo specifiche misure di mitigazione, compensa-

zione e soprattutto di monitoraggio ambientale e sociale». – Se un’opera come piazza Corrubbio viene in ogni caso portata a termine, tutto è perduto? «Non è perduto nulla. Il valore aggiunto dell’operazione di piazza Corrubbio è ciò che è successo in piazza Corrubbio. Cioè che persone che vivono nel quartiere – di cultura diversa, differenti orientamenti politici, interessi e ruoli – hanno iniziato a interrogarsi rispetto a un più ampio scenario di sviluppo e di sostenibilità del loro quartiere, delle loro vite e aspettative. Ma non è solo quanto accaduto alla piazza che li ha uniti, bensì qualcosa di più profondo, di più sostanziale e strutturale che sta accadendo in tutte le parti del mondo: ossia la passione, l’attenzione e le apprensioni rispetto al tema della sostenibilità. L’esperienza del parcheggio deve diventare il perno attraverso cui tenere vivo questo interesse sociale, non necessariamente tramite un comitato, ma anche con un gruppo di persone che non si occupino solo della piazza, ma di tutti quei temi di pertinenza locale che hanno effetti sulla salute, sull’uomo e sulla qualità della vita. Se il progetto non si può più fermare, rimangono aperti due temi importanti: quello del monitoraggio, del controllo ambientale e delle mitigazioni; e l’altro, sostanziale, di trasformare il patrimonio sociale della vicenda in qualcosa di costruttivo in grado di interagire costantemente nel rapporto tra il quartiere e le istituzioni, nella condivisione delle future scelte di sviluppo». – Va superata la mentalità del “Not in my backyard”? «Assolutamente. Nessuno vuole vicino a casa strutture che producono impatti negativi, anche se finalizzate a svolgere funzioni di utilità sociale. E questa utilità sociale non può essere imposta dall’alto ma va spiegata, condivisa e adeguata ai singoli casi specifici, altrimenti si avranno problemi sociali ben più rilevanti. Il processo di partecipazione nella rete è già iniziato e con risultati sorprendenti, ai quali la politica e le istituzioni dovranno rivolgere più attenzione per non perdere importanti occasioni».

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GLI SPRECHI DELLA POLITICA Attraverso le nomine ai vertici degli enti pubblici si rafforzano i legami di fedeltà politica. Ecco come funziona la catena attraverso la quale a Verona il sindaco (chiunque esso sia) consolida il suo potere. Ci sono gli enti quasi inutili, i doppi incarichi, i doppi Consigli di amministrazione e stipendi da favola in tempi di vacche magre. E, in un sistema del genere, viene il sospetto che i criteri di nomina non siano unicamente fondati sulle competenze

in VERONA

di Michele Marcolongo Dal Bacanal del Gnoco all’Aeroporto Catullo, dalla Pro Loco al Consorzio Zai, passando per le aziende partecipate a totale controllo municipale come Agsm, Amia, Amt: il Sindaco di Verona (chiunque esso sia) ha potere di nomina in ben 46 enti, per un totale 195 tra careghe e careghete da distribuire. Occorre subito precisare che non tutti i rappresentanti del Comune sono stipendiati, così come non

tutti gli enti comunali sono da considerarsi inutili, ma queste poche cifre bastano a rendere l’idea del potere che si concentra nelle mani del primo cittadino, l’esercizio del quale riesce a consolidare e rafforzare legami di fedeltà politica. Non è un caso, per esempio, che all’interno del Pdl, socio di maggioranza di questa Amministrazione comunale, stiano arrivando ai ferri corti e che il gruppo di Forza Italia in Consiglio comunale sia in perenne frizione con i ver-

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INCHIESTA

Antonio Albanese sul set di “Qualunquemente” dove interpreta il ruolo di Cetto La Qualunque, grottesca rappresentazione di un politico attento solo ai propri interessi



Inchiesta

INCHIESTA

La sede di Agsm

La sede di Atv

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tici del partito. In privato alcuni presidenti di enti del centrodestra confidano che devono la loro nomina più alla persona del primo cittadino, piuttosto che alla capacità di influenza dei loro dirigenti di partito. E non paiono infondate le voci che profetizzano una scissione nel Pdl in vista delle elezioni amministrative della prossima primavera con la formazione di un ampio gruppo di pidiellini che andrebbe nella lista del sindaco, alle porta della quale (e questo non è un mistero) c'è la fila. Un potere che è in continua crescita, considerando che da qualche anno a questa parte è tornata in voga la pratica di arruolare personale secondo logiche politiche non solo nei Consigli di amministrazione, ma anche nei ruoli apicali delle aziende partecipate. Estrema conseguenza dello spoilsystem inaugurato e rivendicato da Tosi nel 2007 all’inizio di quest’ultima Amministrazione, che si prolunga per catene sempre più lunghe mano a mano che si allunga e si consolida la tenuta della cordata politica.

Non è detto però che cerchie sempre più larghe di fedelissimi coincidano sempre con maggiore efficienza amministrativa. Molti di questi enti, soprattutto quelli minori, si riuniscono per lo più una volta o due l’anno: una per varare l’eventuale programma di attività e l’altra per approvare il bilancio. Alcuni rischiano perfino di apparire anacronistici, come la Fondazione antitubercolare Forti, che conta due componenti nominati dal sindaco all’interno della Commissione di vigilanza. «Ci riuniamo una volta all’anno per il bilancio» spiega Daniele Bernato, uno dei due rappresentanti comunali “scelti tra i cittadini più probi”, come recita il regolamento, il quale è anche consigliere in quarta circoscrizione per la Lega Nord. «La Fondazione esiste in rispetto delle regole del lascito di Achille Forti e comunque negli ultimi anni ha orientato la sua attività al sostegno delle persone in condizioni disagiate», aggiunge. Il che, in linea di principio, contrasta con i ripetuti tentativi di vendita dell’omonimo palazzo – sempre eredità

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Inchiesta Molti di questi enti si riuniscono per lo più una volta o due all’anno: una per approvare l’eventuale programma di attività e l’altra per approvare il bilancio. Alcuni rischiano perfino di apparire anacronistici, come la Fondazione antitubercolare Forti Saltano fuori anche enti poco conosciuti, piuttosto insoliti, anzi al limite della curiosità. Come la Commissione onoranze Pantheon, che non è una commissione di onoranze funebri qualunque, dal momento che si occupa di celebrare il ricordo dei nostri concittadini più illustri

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del lascito – che l’Amministrazione comunale negli ultimi anni ha perseguito anche contro la volontà degli eredi, nei confronti dei quali ha ingaggiato una strenua battaglia legale. La fine della vicenda è nota: il Comune ha poi ceduto Palazzo Forti alla Fondazione Cariverona come parziale contropartita per riacquistare l’area dell’ex Polo finanziario davanti alla Fiera. Inoltre dal consigliere non è dato sapere quali e quanti siano stati gli interventi promossi nell’ultimo anno e se la Fondazione, secondo il suo statuto originario, abbia avuto o meno un ruolo nei casi di tubercolosi denunciati lo scorso agosto all’interno delle carceri di Montorio. Della trentina di enti “minori” alcuni sono organismi squisitamente tecnici – come la Commissione edilizia, le Commissioni di vigilanza su biblioteche, musei e monumenti. Compreso lo stesso Collegio dei garanti il quale tuttavia, negli ultimi anni, è diventato noto anche al grande pubblico per la vicenda del referendum sul passante Nord delle Torricelle che ha visto i garanti duramente contrapposti al Comitato contro il traforo. Una volta vinto il braccio di ferro, uno dei garanti (Giovanni Maccagnani, già assessore comunale) è volato dritto nella sala dei bottoni della Fondazione Cariverona. Dichiaratamente più “politici” sono i piccoli enti che regolano le attività dei taxi, delle auto da noleggio con conducente (Ncc) e delle scuole materne, in particolare il Comitato paritetico dei genitori delle scuole cattoliche: in questi ultimi si trovano quasi sempre consiglieri comunali, rappresentativi di tutti gli schieramenti.

Dal mazzo saltano fuori anche enti poco conosciuti, piuttosto insoliti, anzi al limite della curiosità. Come la Commissione onoranze Pantheon, che non è una commissione di onoranze funebri qualunque, dal momento che si occupa di celebrare il ricordo dei nostri concittadini più illustri passati a miglior vita e in questo periodo è impegnata assieme ad Agec nella pubblicazione di un opuscolo per la promozione del “turismo cimiteriale”. Spiega Lucia Cametti, consigliere comunale nonché componente e presidente della Commissione Pantheon assieme ad altre otto persone scelte, sempre secondo regolamento, “tra i più ragguardevoli e competenti cittadini”: «Nella parte vecchia del cimitero monumentale c’è una cappella dove sono state sepolte e vengono ricordate con delle incisioni le grandi personalità di Verona, da Emilio Salgari ad Aldo Fedeli a Caterina Bon Brenzoni» dice. In pratica compito della commissione è quello di formulare o prendere in esame, ad almeno dieci anni di distanza dalla loro dipartita, le proposte per le onorificenze ingenio claris o beneficiis in patriam, che – detta in soldoni – si risolvono con l’apposizione di una targa celebrativa nella cappella apposita. Tra gli ultimi riconoscimenti tributati, giusto lo scorso ottobre, ci sono quello ad Antonio Cenni e fra’ Terenzio Zardini. L’anno scorso era stata invece la volta di Ferdinando Morandini, Ezio Maria Caserta e Giovanni Zenatello, riconosciuti meritevoli d’inserimento nella lapide collettiva. Dalla presidente Cametti si apprende inoltre che la Commissio-

ne, in collaborazione con Agec, sta approntando una guida delle circa cento tombe illustri di Verona (tra cui c’è anche la moglie di Radetzky). «Questa guida andrà ad alimentare quel turismo cimiteriale che da noi è poco noto, ma è molto apprezzato nel resto dei cimiteri monumentali d’Europa, ad esempio Parigi» precisa. Il meno che si possa dire è che queste iniziative vanno, almeno in parte, a compensare la carenza-assenza di celebrazioni per il centenario della morte di Salgari. Sempre tra gli enti minori va menzionata sicuramente la Commissione paritetica per il Bacanal del Gnoco. A Verona, come altrove, il carnevale è infatti una cosa molto più seria di quanto non appaia, tanto che ogni anno, solo per il Venerdì Gnocolar, Comune e Provincia stanziano diverse decine di migliaia di euro. Cifra che si mantiene costante negli anni, malgrado la crisi. L’organismo che decide il programma degli eventi è formato dai tre rappresentanti del Comune, da altri tre rappresentanti del Comitato del Carnevale (di solito in grado di esercitare un’egemonia pressoché assoluta sul programma) e dall’assessore comunale alla Cultura. Sono una quindicina invece gli enti di un certo peso. Alcuni sotto il totale controllo comunale, come Agsm, Amia e Amt. Altri in compartecipazione con la Provincia, la Regione o altri enti. Negli ultimi cinque anni hanno fatto molto discutere le sovrapposizioni e i doppioni di ruoli. Ad aprire le danze è stata alla fine del 2007 la nomina del leghista Stefano Zaninelli, già consigliere comunale e membro del Consiglio di ammini-

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Zaninelli scelse di rimanere all’Atv, così come Soardi (che nel settembre 2010 venne però costretto a dimettersi a seguito dello scandalo dei “rimborsi gonfiati”), mentre Fantoni decise di rimanere in Consiglio e abbandonò il cda di Atv. Per quanto riguarda la riduzione dei costi della politica, fu solo nell’ottobre del 2010, a seguito delle pressioni delle opposizioni in Provincia, che il Consiglio di amministrazione di Aptv (che ormai non gestiva più alcun autobus, ma soltanto il patrimonio immobiliare di Atv) venne sciolto e sostituito da un amministratore unico, risparmiando così 50 mila euro l’anno. La mancata integrazione amministrativa tra le tre aziende di trasporto pubblico continua però a costare cara ai cittadini: con il fatto che Amt deve gestire la sosta a pagamento per conto del Comune, si spendono 230 mila euro l’anno per Consiglio di amministrazione, collegio dei revisori dei

conti e direttore generale, mentre Aptv, con amministratore unico, revisori dei conti e direttore, ne costa altri 124 mila. Una bufera simile ha colpito anche Amia verso la fine del 2010, al tempo dell’inserimento di Ennio Cozzolotto, imprenditore già attivo nella raccolta dei rifiuti in Transeco, società partecipata dalla stessa Amia, come co-direttore al fianco di Alfonsino Ercole, che invece proveniva da Agsm. Altro caso di sdoppiamento di figure dirigenziali. La vicenda accese gli animi, e non solo quelli dell’opposizione, per diversi motivi: primo perché Cozzolotto risultava indagato per il crac della Econ, società di smaltimento di rifiuti di Conegliano, vicenda per la quale l’interessato alla data di giugno 2011 risulta rinviato a giudizio. Secondo perché non era stata esclusa la possibilità che Amia acquistasse le quote di Transeco detenute, tra gli altri, anche da Cozzolotto, cosa che secondo

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Negli ultimi cinque anni hanno fatto molto discutere le sovrapposizioni e i doppioni di ruoli. Ad aprire le danze è stata alla fine del 2007 la nomina del leghista Stefano Zaninelli, già consigliere comunale e membro del Consiglio di amministrazione delle Ferrovie dello Stato, a direttore di Atv, l’azienda che gestisce il trasporto pubblico locale. Aumentano i Consigli di amministrazione di Agsm, mentre Amia si dota di due superdirettori

strazione delle Ferrovie dello Stato, a direttore di Atv, l’azienda che gestisce il trasporto pubblico locale. Non solo perché in Atv quella figura esisteva già (l’allora direttore generale, Luciano Marchiori, venne subito declassato a “vicedirettore”, una carica che prima dell’entrata di Zaninelli non esisteva in Atv), ma anche perché – dalla riunificazione in Atv delle vecchie aziende di trasporto Amt (bus urbani) e Aptv (bus extraurbani) – ci si attendeva una riduzione dei costi della politica. Invece non solo il Consiglio di amministrazione è rimasto ancora a lungo “uno e trino” (nel senso che i bus venivano gestiti tutti da Atv, urbani ed extraurbani, ma i cda di Amt e Aptv continuavano a esistere, occupandosi d’altro), ma Atv, la nuova società nata dalla “fusione”, manteneva due figure apicali: Marchiori, “declassato” sì, ma a parità di stipendio (150 mila euro l’anno) e Zaninelli (180 mila euro l’anno). Gli incarichi multipli di Zaninelli erano finiti al centro di una interrogazione comunale nel 2002, scritta dall'allora consigliere comunale della Margherita Marco Burato (oggi nel cda di Agsm in quota al Pd). Burato notava che il politico leghista era parte di tre Consigli di amministrazione: Amt Spa, Amt Servizi e Sitram, la società che doveva realizzare la tramvia a Verona. Da notare, infine, che Zaninelli era diventato direttore Atv alla fine del 2007 con la stessa infornata che aveva fatto di Gianluigi Soardi e Gianluca Fantoni, anche loro leghisti, rispettivamente presidente e consigliere di amministrazione, sempre in Atv. In seguito alla legge Lanzillotta (la deputata del Pd del Governo Prodi intervenuta nel 2008 proprio sui costi della politica) sui tre si è poi abbattuto il sospetto di incompatibilità, per il semplice fatto che erano a un tempo parte dell’ente finanziatore, in qualità di consiglieri comunali, e parte dell’ente finanziato, cioè Atv. Di fronte alla possibilità di commettere un illecito amministrativo, la maggioranza di centrodestra in Comune non se la sentì di rinnovare ai tre la fiducia e di fatto chiese le loro dimissioni.



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l’opposizione era “poco elegante”, visto che Amia con il 67% riusciva già a gestire perfettamente la controllata (alla fine le quote di Cozzolotto vennero acquistate da un privato e Amia mantenne il suo 67%). Terzo perché, a detta degli stessi vertici del Pdl, “un direttore in Amia bastava e avanzava”. Se si considera che Ercole, in età da pensione, non risultava avere grande dimestichezza con la gestione dei rifiuti, si capisce meglio la decisione di affiancargli Cozzolotto, uomo di esperienza nel settore. La ripartizione ufficiale dei compiti dei due condirettori era ed è tutt’oggi la seguente: Ercole direttore del personale e Cozzolotto braccio operativo. La “difesa” di Paolo Paternoster, nel 2010 ancora presidente di Amia, consiste nell’affermare che gli stipendi dei due condirettori vengono bilanciati da risparmi ottenuti a livello amministrativo, per esempio con la mancata sostituzione di alcuni dirigenti andati in pensione. Dalle file del Partito democratico però i conti sono diversi: con le nuove promozioni i dirigenti in Amia sarebbero diventati quattro, con una spesa ben superiore rispetto agli esercizi precedenti. Nel 2008, quando ancora era presidente di Alleanza nazionale, Massimo Giorgetti, attuale coordinatore cittadino Pdl, ebbe a sbottare: «Strapaghiamo dei pensionati, che forse grandi motivazioni non ne hanno, per fare i direttori generali di Agsm (Alfonsino Ercole) o del Comune (Renato Piccoli), ma gli enti pubblici non sono alternative ai parchi». In Agsm le polemiche si sono concentrate soprattutto sulla moltiplicazione dei Consigli di amministrazione. A quello della società madre (Agsm spa), si è aggiunto un cda di Agsm energia e un altro chiamato Agsm distribuzione. La holding controlla anche il Consorzio Canale Camuzzoni e Agsm Trasmissione. Quest’ultima è retta però dall’amministratore unico, Loris Marini, che è anche consigliere della Sesta Circoscrizione. Lo scorso aprile Marini è stato sfiorato da un nuovo scandalo per una faccenda di rimborsi chilometrici esorbitanti, che ave-

va percepito ma, a detta dello stesso presidente Paternoster, non gli erano dovuti. E ora li sta rimborsando all’azienda. La gestione Paternoster di Agsm ha attirato critiche non solo per Cà del Bue (progetto cominciato molto prima della sua presidenza), ma anche per la decisione di sponsorizzare con 700 mila euro in due anni l’Hellas Verona, promettendo tariffe più vantaggiose su gas ed energia elettrica ai suoi tifosi. Caso scoppiato pochi mesi fa, di cui ancora non si conoscono i dettagli: in particolare non è chiaro se Agsm, in quanto controllata al 100% da un ente pubblico (il Comune di Verona) possa impiegare il denaro in sponsorizzazioni di squadre professionistiche; se la sponsorizzazione rientri in un progetto di marketing specifico e quanti siano i nuovi clienti (per lo più tifosi dell’Hellas) che l’operazione avrebbe fruttato. Sulla difficoltà di ottenere i dati, che Cigolini nega fermamente invocando il segreto industriale, pende un ricorso al Tar del Partito democratico. Su tutte le aziende partecipate del Comune, l’Amministrazione ha un progetto di medio periodo: riunirle sotto un’unica holding dal nome di Verona Servizi. E la “fusione” di Agsm e Amia, recentemente annunciata, dovrebbe rappresentare il primo passo in questa direzione. Chi si aspetta però una riduzione dei costi della politica è destinato a rimanere deluso. Riferendo in commissione consiliare, l’assessore alle Partecipate Enrico Toffali ha detto molto chiaramente che l’operazione Agsm-Amia (tecnicamente un’acquisizione della seconda, Amia, da parte della prima, non una fusione) è pensata principalmente per generare flussi finanziari da iniettare nelle esangui casse comunali: in pratica Agsm compra Amia (il valore stimato attuale è di 30 milioni di euro) e il Comune, che è proprietario al 100% di entrambe, incassa risorse fresche per resistere a un altro anno di tagli governativi ai trasferimenti degli enti locali. Per il resto rimarrà tutto com’è ora: le controllate delle rispettive aziende manterranno i propri cda. Nemmeno quello di Amia ver-

rebbe soppresso. Anzi, con ogni probabilità rimarrebbe intatto anche l’organo direttivo di Serit (composto da presidente, direttore, Consiglio di amministrazione e collegio dei revisori) sebbene la società sia di fatto di proprietà di Amia, che ne possiede il 98% delle quote. Solo in un futuro più lontano, con la predisposizione di questa nuova holding Verona servizi, l’Amministrazione si ripromette di metter mano al riordino delle aziende e delle partecipazioni del Comune. In conclusione, dopo tanto parlare a ogni livello di abbattere i costi della politica, il cerino torna in mano alle Province, delle quali da più parti si chiede l’abolizione. Il presidente della Provincia di Verona Giovanni Miozzi però non ci sta e lo scorso settembre ha cercato di lanciare la palla altrove, proponendo di eliminare gli enti “inutili” di nomina regionale. Nell’elenco di Miozzi è finito un po’ di tutto: la “concessionaria” regionale delle strade, Veneto Strade; l’ente per gli studi universitari Esu, le Ater, ovvero le aziende di gestione dell’edilizia residenziale pubblica; le autorità d’ambito Aato; perfino il Genio civile. Secondo il presidente si risparmierebbero diverse decine di milioni di euro all’anno, mentre i relativi compiti potrebbero venire svolti con maggiore utilità dai Comuni o da consorzi di Comuni. Il ritornello, insomma è sempre quello: quando si parla di tagliare i costi della politica, tocca sempre prima agli altri.

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Massimo Giorgetti, attuale coordinatore cittadino Pdl, nel 2008 disse: «Strapaghiamo dei pensionati, che forse grandi motivazioni non ne hanno, per fare i direttori generali di Agsm o del Comune, ma gli enti pubblici non sono alternative ai parchi»


MONTORIO

Detenuti come bestie Il carcere di Montorio

900 detenuti, di cui 850 nella sola sezione maschile, in una struttura nata per ospitarne appena un terzo. «Il problema del sovraffollamento nella Casa circondariale di Montorio ha raggiunto livelli preoccupanti». Lo sfogo di Gerardo Notarfrancesco (Sappe)

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di Luca Comoretto 900 detenuti, di cui 850 nella sola sezione maschile, in una struttura nata per ospitarne appena un terzo. Questo il numero delle persone rinchiuse nel carcere di Montorio, secondo le stime del Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria di Verona (Sappe). Una situazione che va a confermare quella generale delle carceri in Italia, dove a luglio 2011 (secondo l’associazione Antigone) la popolazione carceraria ha raggiunto il picco di oltre 67.942 presenze, per una capienza di 45 mila. Una crescita di 6 mila detenuti circa rispetto ai 61.264 al momento dell’indulto del luglio 2006. «Il problema del sovraffollamento nel carcere di Montorio ha raggiunto livelli preoccupanti» dichiara il segretario provinciale del Sappe Gerardo Notarfrancesco. «Buona parte della popolazione carceraria è composta da soggetti in attesa di giudizio, immigrati e

tossicodipendenti. Convivono in celle da 12,5 metri quadrati occupate per lo più da armadietti e brande, create originariamente per due detenuti. Attualmente ci vivono in quattro». La convivenza, visto il numero spropositato di carcerati – di cui almeno un 50% extracomunitari – diventa molto difficile. «Bisogna pensare al carcere come a una città abitata da 900 persone», spiega, «che convivono tra loro con lingue e culture diverse: chiudere questa gente crea esasperazione, per non parlare del fattore igiene». Già, l’igiene e soprattutto la sanificazione delle sezioni, fondamentale in un luogo dove si vive al chiuso la maggior parte della giornata: «Noi del Sappe abbiamo richiesto che ogni cella abbia al suo interno una doccia perché su sei sezioni le docce interne sono solo due; le altre sono in comune e su otto ne funzionano cinque, a volte appena tre». Durante l’estate ci sono stati cinque

casi di tubercolosi: una malattia subdola, visto che l’incubazione può durare anche alcuni anni. L’ultimo caso risale al 27 agosto. «Non ci sono stati interventi di profilassi», continua, «e meno che meno al personale: niente mascherine, niente occhialini protettivi; ci si arrabatta con guanti per uso alimentare. La tutela, per noi che lavoriamo qui dentro, è minima». Se da un lato, dunque, c’è in gioco la sistemazione vitale dei detenuti e l’igiene generale della struttura, dall’altro c’è il carcere come luogo di lavoro: abbiamo scaricato dal sito del Sappe un comunicato sindacale nel quale emergono la rabbia e la frustrazione di chi dentro all’istituto di Montorio opera per garantire sicurezza, regolarità, cura e decoro. Mentre saliamo le scale che portano all’ufficio del Sappe, interno alla caserma del carcere, Notarfrancesco indica con un cenno una rampa di scale: «Portano al

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Attualità secondo piano, chiuso da non so quanti anni per colpa delle infiltrazioni d’acqua». Tocchiamo con mano il lavoro quotidiano della Polizia penitenziaria, con una sfilza di problemi poco conosciuti: primo fra tutti la mancanza di personale che, secondo il sindacalista, conta 150 unità in meno rispetto al reale fabbisogno della casa circondariale. «Qui siamo pochi, malpagati e costretti ormai a gestire turni anche di dodici ore. Gli straordinari sono la regola. Spesso copriamo dai due ai cinque posti di servizio per tamponare le falle dell’organico e ci sono casi dove uno solo di noi si trova a gestire 100, anche 200, detenuti con la paura sempre in agguato di una rivolta». A Roma, ci ha rivelato il segretario del Sappe, sono state mandate più volte richieste di aiuto, ma sono sempre rimaste inascoltate da parte del ministero. «Siamo perfino costretti a tagliare i corsi lavorativi di riabilitazione che, come quello di falegnameria, deve essere particolarmente sorvegliato per gli attrezzi usati. Chi mi dice che un detenuto non abbia una crisi e faccia una strage?». Con queste carenze il carcere non può essere un luogo di rieducazione e si trasforma in una segregazione che fomenta l’odio verso la società. «Questo è un carcere scandalo» prosegue Notarfrancesco. «Le sale colloqui sono soltanto tre e senza climatizzatore. Proviamo a immaginare una famiglia di quattro persone ammassata in una stanza, con un caldo insostenibile senza ricambi d’aria. È assurdo. Abbiamo avuto perfino un caso d’infarto di un signore anziano venuto a trovare un parente». Il Sappe, visto che la Polizia penitenziaria non può scioperare, è deciso a continuare a mandare richieste a Roma per migliorare la situazione. «Proponiamo innanzitutto di far scontare la pena ai detenuti extracomunitari, che costituiscono il 55%, nel loro Paese d’origine, garantendo così un immediato sfollamento. Bisogna aggiungere che una buona fetta di detenuti sono in attesa di giudizio, quindi che ci fanno in carcere? Abbiamo proposto come sicurezza antievasione il famoso brac-

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«Allo zoo gli animali stanno meglio» Maltrattamenti ai danni dei carcerati. Con questa denuncia all’ex ministro Alfano, gli avvocati Guarienti e Porta hanno cercato di richiamare l’attenzione sull’Istituto di pena di Montorio Lo scorso 19 luglio due avvocati veronesi, Guariente Guarienti e Fabio Porta, hanno presentato una denuncia contro l’allora ministro della Giustizia Angiolino Alfano per maltrattamenti ai danni di detenuti e abuso di autorità in relazione al sovraffollamento carcerario. – Avvocato Guarienti, la sua denuncia all’ex ministro della Giustizia Angiolino Alfano è stata archiviata. A cosa è servita? «È stata un pretesto, un’arrampicata sugli specchi per concentrare l’attenzione sul carcere di Montorio: il maltrattamento dei detenuti e il sovraffollamento nelle celle. I problemi dei luoghi di detenzione vanno avanti da anni in Italia, senza che ci sia mai stata una valida soluzione. Sapevamo da subito che la denuncia sarebbe stata archiviata». – Ma è servita almeno a smuovere l’opinione pubblica o ad attivare il ministero della Giustizia? «Assolutamente no. La mentalità in Italia è quella di dire di un detenuto: «Se è in carcere qualcosa avrà fatto. Se lo merita»; o cose ben più gravi, come: «Ci vorrebbe la pena di morte», «Che buttino via la chiave». Nel nostro Paese c’è da sempre un disinteresse per il mondo del carcere. Quando invece il problema colpisce in prima persona, allora le parole da nere diventano bianche, come per magia. Con la nostra iniziativa non ci aspettavamo certo di convincere il ministro o di invertire la tendenza di questo modo di pensare».

– Battendo il chiodo, però... «Esatto: questa è la linea di pensiero che sta dietro le nostre iniziative. Continuare a dare battaglia. Ne abbiamo una ancora in corso: un detenuto di Montorio ha citato in giudizio il ministro della Giustizia presso l’Avvocatura distrettuale di Venezia. In sede civile abbiamo chiesto un risarcimento per questa persona, che ha un’invalidità del 60% ed è rinchiusa in modo disumano in una cella con altre tre persone. L’udienza sarà il 12 gennaio. Vedremo». – Il neo ministro della Giustizia Nitto Palma ha portato in Senato il problema del sovraffollamento. Crede possa uscire qualche soluzione concreta? «Direi piuttosto che usciranno parole, parole, parole. Qualche critica qua e là, poi nulla. Come ho già detto, a nessuno interessa la vita di chi sta in prigione: per assurdo allo zoo di Roma l’articolo 16 del regolamento comunale prevede che gli animali feroci siano per legge tenuti in strutture di 15 metri quadrati per esemplare. Per ogni animale in più, fino a quattro, l’aumento deve essere di 8 metri quadrati; in altre parole quattro tigri devono avere uno spazio complessivo di almeno 39 metri quadrati. A Montorio i detenuti trascorrono 18-20 ore al giorno in celle che ospitano quattro persone in soli 12 metri quadrati. A questo punto, viene da dire, stanno meglio le bestie feroci che i detenuti». (L.C.)

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Cultura

cialetto elettronico: questa è stata la più grande bufala degli ultimi anni, perché costa al ministero qualcosa come 110 milioni di euro l’anno da pagare a Telecom per il sistema Gps da tenere in funzione, quando in realtà non

vengono usati. Perché questo spreco? Se ci sono i soldi per mantenere una tecnologia poi inutilizzata, perché non si investono per fare qualcosa di concreto? Se non avremo risposta, cominceremo a non portare i de-

tenuti in tribunale perché sotto scortati». La situazione carceraria nazionale ha portato il Partito radicale a dare il via a una serie di iniziative per chiedere provvedimenti al ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma, al fine di arrivare come minimo a un indulto. Ma servirà? O piuttosto, è giunto il momento di una rivoluzione all’interno del sistema carcerario che porti immigrati, tossicomani e poveri senzatetto a essere assistiti dallo stato sociale? E ancora: un luogo così delicato che viene descritto dalla nostra Costituzione come di recupero e riabilitazione, come può venire gestito se per primi coloro che operano in queste strutture non sanno cosa fare per essere ascoltati e tutelati nello svolgere il loro dovere? Il problema carcere non è certo nuovo: l’Italia era già stata condannata dalla Corte europea per i

Diritti umani nel luglio 2009 a risarcire – a causa di “trattamenti disumani e degradanti” – il detenuto bosniaco Sulejmanovic, chiuso in una cella sovraffollata senza lo spazio sostenibile di sette metri quadrati previsto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. A Verona, nel luglio di quest’anno, gli avvocati Guariente Guarienti e Fabio Porta hanno denunciato l’ex ministro della Giustizia Alfano per non aver preso provvedimenti riguardo il sovraffollamento del carcere di Montorio e le celle illegali. Denuncia immediatamente archiviata in quanto “il Ministro non ha la possibilità di intervenire direttamente per migliorare la situazione delle carceri”. Chi, allora, può fare qualcosa? Per ora non resta che aspettare e far scontare pene in carceri che di legale, ormai, hanno molto poco.

Da anni Maurizio Ruzzenenti si occupa del mondo carcerario, soprattutto per evitare la ghettizzazione dei detenuti. – Quando è iniziata la sua attività nel mondo delle carceri? «Nel 1986, quando ero consigliere provinciale del Centro sportivo italiano (Csi), il cappellano della Casa circondariale di Verona, Giuseppe Malizia, spinse sull’idea di aiutare i detenuti attraverso un contatto col mondo esterno coniugato allo sport. Nel 1988 ebbi l’idea di ampliare questa iniziativa alle scuole, proponendo degli incontri sportivi tra detenuti e studenti: attività che continua tuttora». – Quali cambiamenti ha notato nel mondo carcerario in questi 25 anni? «Tra gli altri, ho vissuto due cambiamenti fondamentali: sono aumentati i tossicodipendenti e c’è stato il massiccio ingresso degli immigrati». – Quali sono le differenze maggiori tra l’ex carcere del Campone e quello attuale di Montorio? «Al Campone l’unico cortile e le camerate stile dormitorio da caserma consentivano un contatto maggiore sia nei rapporti volontari-detenuti, sia tra detenuti stes-

Istituzioni latitanti

«Purtroppo la Regione da due anni non mette in campo iniziative per le carceri e il Comune non si fa vivo, mentre dovrebbero essere le istituzioni a interessarsi. Eppure il nostro lavoro viene spiegato sui media, quindi è conosciuto». – Perché la gente vede la prigione soltanto come una giusta punizione? «Il reato è uno strappo nella tela della legalità: l’obiettivo dovrebbe diventare ricucirlo, non allargarlo. A chi dice “Pochi anni gli hanno dato” vorrei provasse a vivere in una cella di Montorio per una settimana: 12,5 metri quadrati occupati da brande, armadietti, sgabelli, tavolo e bagno in cui si convive ormai in quattro persone. Bisognerebbe arrivare alla mediazione penale, perché un reato crea sempre due infelici: il reo e la vittima. Se un tossico ruba la pensione a un’anziana perché non prenderlo e portarlo, passato il dramma iniziale, a colloquio con la persona che ha rapinato? L’uno probabilmente capirebbe l’errore e l’altra supererebbe lo shock dell’aggressione: questo è molto più utile che restarsene rinchiusi in una cella per anni». (L.C.)

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Maurizio Ruzzenenti, ideatore del Progetto scuola-carcere: «Sovraffollamento e tagli di fondi ostacolano le poche iniziative in corso» si. Il cortile unico con campo di calcio, per esempio, era usufruito da tutti i detenuti più o meno in simultanea. A Montorio, poiché ogni sezione ha il suo cortile, ciò non è possibile: due detenuti, che magari si conoscono, non avranno mai la possibilità di giocareassieme una partita di calcio. Il campo si divide a giornate prestabilite tra sezione e sezione. A Montorio i detenuti della sezione 1 sono totalmente isolati da quelli della sezione 2: attraversano addirittura corridoi differenti per recarsi nel loro cortile e questo perché il carcere di Montorio è nato con l’idea della sicurezza basata sulla divisione tra detenuti». – Il progetto scuola-carcere ha raggiunto la ventitreesima edizione. Quest’anno come è andata? «L’edizione 2011 è stata più sofferta rispetto le precedenti, visto che abbiamo occupato con la no-

stra iniziativa solo due giorni la settimana, rispetto ai cinque degli anni scorsi. Abbiamo dovuto fronteggiare questo periodo che vede forti proteste dei detenuti per le condizioni di vita carceraria. Ci sono poi le carenze di personale e il malcontento della Polizia penitenziaria, costretta a fronteggiare una situazione che si aggrava quotidianamente. L’iniziativa “Carcere e scuola” è da ricordare per l’opera di formazione nelle scuole. Abbiamo tenuto Corsi di educazione alla legalità non solo a Verona, Cologna Veneta, Legnago e Villafranca, ma anche a Vicenza, Bassano del Grappa e Schio. Il tutto grazie alla collaborazione dei vertici dell’Arma dei carabinieri, della Questura e del direttore del carcere di Montorio, Antonio Fullone». – Città e Regione hanno supportato queste iniziative?

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Attualità NATURALMENTE VERONA 2011

L’agorà dell’economia eco-equo solidale Successo per la manifestazione che, il primo fine settimana di ottobre, ha riunito in piazza Isolo 70 associazioni con stand di prodotti biologici, artigianato, mostre e attività rivolte ad adulti e bambini

di Luca Comoretto Anche quest’anno è tornato l’appuntamento con il festival “Naturalmente Verona”, mostra di prodotti biologici e punto d’incontro dell’economia eco-equo solidale: sabato 1 e domenica 2 ottobre più di 70 associazioni hanno preso parte alla manifestazione, riempiendo piazza Isolo con stand di cibo biologico, artigianato, mostre e svariate attività per adulti e bambini. Tema principale, i beni comuni – acqua, terra, aria, energia e territorio – con l’obiettivo di creare attraverso il dialogo una piazza di discussione aperta a tutti, dove cittadini e politici potessero confrontarsi. «Con l’edizione di quest’anno abbiamo promosso numerose tavole rotonde» precisa Alberto Bonomo, presidente dell’associazione La Rondine, «lanciando l’idea del Tavolo permanente per l’etica e l’economia: una serie di discussioni che non si fermino ai due giorni della manifestazione, ma vadano avanti tutto l’anno, diventando perni di condivisione anche per chi amministra la città». Le discussioni hanno approfondito le tematiche dell’agricoltura e della sovranità alimentare, del recupero della cultura contadina, della finanza etica, del commercio ecoequo solidale, dell’energia, delle risorse idriche, della salute e dell’economia. Tantissimi sono stati i richiami all’utilizzo delle fonti

in VERONA

Tema principale, i beni comuni – l’acqua, la terra, l’aria, l’energia e il territorio – con l’obiettivo di creare con il dialogo una piazza di discussione aperta a tutti energetiche pulite, alla qualità dell’aria che si respira a Verona e soprattutto alle reali alternative. Come nella passata edizione, è stata promossa la distribuzione e lo scambio di Scec: un buono sconto (con un valore ben preciso) da utilizzare per gli acquisti, sostitutivo all’euro e distribuito gratuitamente. Il negoziante che lo accetta, lo può riutilizzare a sua volta e rimetterlo quindi in circolo. «In pratica è un pezzo di carta», continua Bonomo, «il cui valore, che arriva fino a 50 Scec, consente di ottenere uno sconto fino al 30%. La forza degli Scec è che una volta emessi continuano a girare, rafforzando l’economia locale invece di quella globale». “Naturalmente Verona” è cresciuta dal punto di vista dell’affluenza e delle proposte culturali. La più entusiasmante è stata la Bioloc, organizzata dalla facoltà di Medicina dell’Università degli studi di Verona in collaborazione con alcuni produttori di cibo biologico (le cooperative Primavera e Ca’ Magre, oltre a Slow Food). «Sono delle “cassette salute”» spiega il

presidente di “Naturalmente Verona”, Andrea Tronchin: «Un mix di prodotti alimentari che contengono l’esatto fabbisogno energetico per il benessere fisico e per prevenire malattie come i tumori». Questo progetto ha avvicinato molti veronesi al mondo del biologico locale e delle corrette regole alimentari, fornendo dati e analisi sui prodotti – tramite test di risonanza magnetica – per svelare cosa realmente è contenuto in ciò che mangiamo. Altra novità, che ha visto coinvolti grandi e piccini, sono stati i numerosi laboratori: dalla lavorazione della cartapesta con il recupero dei quotidiani e il lavoro con acqua e colla, ai giochi di antropologia didattica per far conoscere i comportamenti animali,

fino alle lezioni di yoga, qi gong, tai chi e massaggio. Le due giornate si sono concluse con un Bcquiz a squadre organizzato dalla Ciclofficina scaligera, che ha premiato il team vincente con una bicicletta e un concerto di musica sperimentale del gruppo veronese Ancher. «Sono state veramente due giornate baciate dal sole» conclude Tronchin. «Tutti i cibi proposti sono andati esauriti e c’è già voglia di pensare all’anno prossimo». Qualche piccola polemica, tuttavia, non è mancata: come nella passata edizione, anche quest’anno non è stato facile ottenere il patrocinio del Comune, forse per i temi trattati durante la manifestazione, ma alla fine il sostegno di palazzo Barbieri è arrivato.

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ADOZIONI

UNA MATERNITÀ DIVERSA

L’INCONTRO CON L’AFRICA

Il racconto comincia nel 1995 con un soggiorno in Africa. Nasce l’idea dell’adozione: «Il figlio lo senti tuo nel momento in cui ci vivi insieme, lo vedi dipendere dal tuo amore, dalle tue coccole, dalle parole che spiegano la vita e fanno superare i momenti difficili»

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di Isabella Zacco Si emoziona spesso, Anna, durante il racconto della sua “avventura” in Africa e con l’Africa. A volte l’emozione le rompe la voce, le fa brillare gli occhi di lacrime. Questo succede in due momenti molto diversi, forse i due poli emozionali di una stessa vicenda. Da una parte c’è il confronto con la burocrazia, il momento in cui gli psicologi verificano motivazioni, problemi nascosti, vere o false spinte verso l’adozione; dall’altra, c’è lo sgorgare dell’amore verso quelle creature che – a qualsiasi età, con qualsiasi storia o prove-

nienza alle spalle – diventano “le tue creature”, i tuoi figli. Comprendi allora ciò che capiscono prima o poi tutti i genitori, veri o adottivi: il figlio lo senti tuo nel momento in cui ci vivi insieme quotidianamente, lo vedi dipendere dal tuo amore, dalle tue coccole, dalle parole che spiegano la vita e fanno superare i momenti difficili. Quando è nata, per Anna e suo marito Attilio, la spinta verso questa esperienza di maternità “diversa”, verso un’adozione internazionale in Africa che sicuramente avrebbe visto momenti difficili (non solo nel suo attuarsi concretamente all’inizio, ma anche e soprattutto dopo, nel suo viversi giorno dopo giorno) in una piccola comunità del veronese?

Il racconto comincia nel 1995, con un soggiorno di tre anni in un centro per la malnutrizione al confine con la Liberia: un orfanotrofio dove avevano potuto toccare con mano le realtà di bisogno fino ad allora solo immaginate. Forse l’esperienza sarebbe rimasta circoscritta a quel periodo se, tornando in Italia, non avessero cominciato a sentire una spinta forte a diventare genitori. Spinta che, nel giro di qualche tempo, si è scontrata con le difficoltà a realizzare il loro sogno. Ciò che insieme hanno capito era di non volere un “principino” o una “principessina” prepotente in casa, tanto sospirati e quindi accontentati subito in ogni desiderio. Ecco allora affacciarsi l’idea di un’adozione, ma proprio quando le pratiche erano avviate e si era cominciati a passare attraverso il tritacarne dei cinque col-

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Attualità loqui psicologici di prova – per valutare se hai le spalle robuste, se reggerai qualunque difficoltà –, si annuncia l’arrivo di Damiano, il primo figlio della coppia, che ora ha dieci anni.

Nancy oggi è vivacissima, bellissima, ben inserita nella comunità in cui vive e quasi coetanea del nuovo fratellino: Etienne, di sei anni, proveniente dal Congo

in VERONA

LA SCELTA DELL’ADOZIONE

L’idea dell’adozione e il ricordo dell’Africa non si perdono per strada. «Perché no? Era la domanda che ci facevamo», racconta Anna. «Sai che non salvi il mondo, ma perché non provare questa via, considerato l’amore per quella terra e l’esperienza forte già vissuta lì». Prevale l’ottimismo e il primo viaggio li porta in Kenia, tra le baracche di Nairobi, a prendere la loro piccola Nancy, due anni e due occhioni lucenti che sembrano sapere e intuire tutto. «Nell’immaginario della gente, questa bimba è il segno materiale di una tua “carenza”. Se poi ha già due anni, è un po’ come non fosse tua. Si sa, la difficoltà ad accettare l’altro…». Nancy oggi è vivacissima, bellissima, ben inserita nella comunità in cui vive e quasi coetanea del nuovo fratellino: Etienne, di sei anni, proveniente dal Congo, una zona di guerra ai confini con il Ruanda. «Con lui è stata più dura – prosegue Anna –. Ti prospettano la catastrofe, il dramma, cercano di scoraggiarti. La psicologa che ci seguiva ci metteva in guardia dai problemi nuovi che sarebbero nati: un figlio naturale “in minoranza” rispetto a due adottivi». Ma prevale ancora quel «perché no?» ed Etienne viene adottato con l’ottimismo che ormai accompagna da vicino le loro vite. «Per accettare un ragazzo più grande, com’era Etienne, devi essere più disponibile. Aveva un passato diverso alle spalle. Se gli capita di vedere una scena di guerra, ne rimane subito polarizzato e spiega il funzionamento delle armi, che conosce bene». In casa, mentre parliamo, Damiano, Nancy ed Etienne vanno e vengono dal giardino al salotto insieme ad altri amici. L’atmosfera è quella di subbuglio simile a tutte le altre abitazioni dove vivono più bambini: grida, gatti che fuggono e vengono ripresi con fatica, merende sbocconcellate al

volo prima di raggiungere di nuovo i luoghi del gioco, disegni mostrati alla mamma con orgoglio, cose perse e ricercate poi in ogni stanza. Anna ogni tanto prende qualcuno di peso e lo mette “dolcemente” sulla soglia spingendolo in giardino. Tutto normale, tutto come altrove, l’Africa è lontana. – Anna, quali sono state le reazioni di Damiano più grande all’arrivo del fratellino? «All’inizio si è scontrato con l’impetuosità di Etienne. Nancy era più piccolina quando è arrivata, ma se provava a dare uno spintone a Etienne, vedeva che gli tornava indietro in maniera più decisa. Oggi è bello sentirli parlare la sera in camera, mentre “si raccontano”, proprio come accade in tutte le altre famiglie». – Cosa ti aspetti dal domani? Quali problemi dovrete affrontare come genitori? «Nancy ha già accennato che vorrebbe avere la pelle chiara. Per ora i nostri figli vivono in un contesto ottimale, ma li immagino sull’autobus che li porta in città, da soli e nell’anonimato, tra gente per la quale sono africani come tutti gli altri, senza più il cuscinetto della famiglia e della comunità. Succederà allora che “la parola” o “la non parola” li farà soffrire. Ma andremo avanti, se ne parlerà insieme… Io e Attilio non ci sentia-

mo diversi da tanti altri genitori, in questi casi occorre solo essere preparati a cosa si va incontro…». – Per esempio? «Trovare le parole giuste, al momento giusto. Come quando un’amichetta di Nancy mi ha chiesto, davanti a lei, quale era il nome della sua “vera mamma”. Di fronte alle parole “vera mamma” mi sono trovata senza risposte adeguate. Ho detto, banalmente, che non si sapeva… Potenza dei pregiudizi. Anche in bocca a una bambina ti fanno mancare la forza e la prontezza di rispondere alla verità che bisognerebbe pronunciare a piena voce e a pieno titolo: Anna è il nome della “vera madre” di Nancy!». – E se un giorno, uno dei suoi figli, decidesse di ritornare in Africa? «È giusto che domani, se vogliono, facciano ritorno nel loro Paese. Noi amiamo quella terra, fa parte di noi. Siamo già tornati a Nairobi, in Congo invece è più difficile. Abbiamo visto quelle che Nancy chiamava case, ma non sono case. Non ricordava nulla, ovviamente, ma è importante che mantenga la memoria delle sue origini e che un domani possa scegliere liberamente se fare ritorno in Africa. Noi stiamo dando ai nostri figli la possibilità di scegliere. Come, del resto, fanno tutti i genitori».


Cultura LUCA RONCOLETTA

La risata come terapia aiuta a vivere meglio L’attore veronese ha scritto l’opera comica Evvai col cannolo che nessuno ha ancora messo in scena. Il testo ha vinto il premio Massimo Troisi

di Cinzia Inguanta Il veronese, anzi il sanzenate, Luca Roncoletta ha vinto il premio nazionale intitolato all’indimenticabile Massimo Troisi, per la miglior scrittura teatrale con l’opera comica Evvai col cannolo. Siamo andati a fare quattro chiacchiere per scoprire qualcosa in più di lui, del suo lavoro e dei suoi progetti. Gli chiediamo se ci sono stati sviluppi, se il premio ha aperto nuove prospettive. Ci pensa e alza le spalle. «Nessuno mi ha ancora contattato per entrare nello staff dei comici che scrivono i discorsi del nostro Presidente, se è questo che intendi – poi fa un diniego con la mano –. No, questo non scriverlo che non l’ho detto io! In sostanza no, nessuno ha ancora messo in scena la

Luca Roncoletta (al centro)

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«Da piccolo, assistevo spesso alle commedie dialettali in cui recitavano i miei genitori. È lì che ho iniziato ad apprezzare il teatro comico» mia commedia. Il premio è stato un incentivo morale». L’intervista inizia così: con una battuta; Luca proprio non riesce a trattenersi, la comicità è la sua cifra. Dice che da poco ha iniziato a scrivere una commedia in forma di sceneggiatura per un eventuale film e che, ovviamente, userà il premio come referenza, quando presenterà il lavoro a qualche casa cinematografica.

Parlando di sé spiega di aver iniziato a scrivere fin da adolescente: prima canzoni (che ha usato, più avanti negli anni, in diversi spettacoli teatrali) e poi teatro. Gli chiedo: perché proprio il teatro? «La forma teatrale è quella in cui mi trovo più a mio agio perché è una scrittura che si muove a dialoghi e in questi riesco a dare il meglio di me. Da piccolo, assistevo spesso alle commedie dialettali in cui recitavano i miei genitori. È lì che ho iniziato ad apprezzare il teatro comico. Io credo veramente molto nella risata, perché distende i nervi... e noi viviamo in un mondo nervoso». Mi racconta di sé discorrendo a ruota libera, mi parla di un periodo di crisi artistica e di una rinascita dovuta anche a un incontro fortunato. Tra tutto quello di cui mi parla, c’è un aspetto del suo lavoro al quale tiene moltissimo, forse la cosa per lui più importante. Riguarda il mondo dei bambini. E confessa: «Qualche anno fa sono stato trascinato dentro il teatro per i piccoli. Non c’è niente di più bello del vedere dei bambini che assistono, rapiti, a una storia (beh, a parte una finale di Champion’s). Mi sono divertito a scrivere canzoni per spettacoli dello Stabile di Verona e del Teatro laboratorio: con entrambi sono fiero di aver collaborato perché li considero di marca. Un giorno ho sentito parlare di un libricino che trattava il pro-

blema della dislessia. Ricordo di aver chiamato subito Andrea de Manincor, un attore di calibro tutto veronese, ma soprattutto un amico e di avergli detto: «Andrea, tu e Sabrina – è Sabrina Modenini, la sua storica metà artistica – dovete assolutamente scrivere uno spettacolo sulla dislessia: è un problema importante». Da quel giorno è passato un anno. Lo spettacolo, alla fine, l’ha voluto scrivere lui perché lo sentiva dentro. Così nasce Il Ponte dei colori una commedia musicale per bimbi che parla dell’accettazione di se e degli altri e, nonostante l’ipercriticità nei confronti di se stesso, che ha più volte manifestato nel corso della nostra conversazione, rivela: «Non riesco a non dire che la trovo bella, bella, bella». Personalmente sono disposta credergli a scatola chiusa. In questi mesi la Modenini, de Manincor e Roncoletta stanno cercando di portare lo spettacolo nelle scuole, ma la mancanza di fondi costringe i dirigenti scolastici a fare scelte sicure e una commedia teatrale è un azzardo. Auguriamo a Roncoletta di vincere questa scommessa e fare anche in questo caso, l’incontro con la persona giusta.

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Cultura MARGHERITA SCIARRETTA

Condividere emozioni leggendo ad alta voce Una bella voce può essere il punto di partenza, ma non basta: bisogna impegnarsi, prepararsi e studiare per trasformare la lettura in uno strumento per comprendere i cambiamenti della società in cui viviamo

Margherita fa parte del Circolo dei lettori di Verona, progetto animato dalla certezza che la lettura è un investimento, e non un consumo, quindi veicolo di primaria importanza nell’opera di diffusione della cultura e dei valori

in VERONA

La prima volta che ho ascoltato Margherita Sciarretta è stato nel 2009, al foyer del Teatro Nuovo: leggeva dei brani tratti dal Vagito delle azalee, frutto conclusivo del corso di scrittura creativa tenuto da Marco Ongaro. Lei, la sua fisicità, la sua voce ed era già qualcosa in più di una lettura: era spettacolo. In seguito l’ho ascoltata recitare poesie impegnata in un dialogo con i silenzi e l’accompagnamento musicale. Ascoltare, dalla voce di un lettore “sapiente”, un brano, una poesia non è delegare a un altro il piacere del viaggio nella scrittura. È viaggiare con un compagno capace di far vibrare corde che non avresti sfiorato, è sentire più forte, è condividere un’emozione. Per Margherita è invece confrontarsi e condividere l’esperienza della lettura per riscoprirne l’aspetto comunitario, ma come lei stessa afferma è anche «un gioco sottilissimo tra il mio piacere e la paura di esporsi». Infatti, le letture ad alta voce davanti a più persone assumono spettacolarità connotandosi in una dimensione simile a quella teatrale, riproponendo a chi le interpreta la sfida del pubblico. Una bella voce può essere il punto di partenza, ma non basta: bisogna impegnarsi, prepararsi, studiare. Tra i maestri di Sciarretta è doveroso ricordare Franco Bignotto del Centro italiano musica e Isabella Caserta del Teatro scientifico.

Margherita fa parte del Circolo dei lettori di Verona, progetto animato dalla certezza che la lettura è un investimento, e non un consumo, quindi veicolo di primaria importanza nell’opera di diffusione della cultura e dei valori; uno strumento fondamentale per comprendere il contesto in cui viviamo e i cambiamenti che si profilano nel processo di evoluzione sociale. Attraverso la proposta di cicli d’incontri a tema il Circolo dei lettori, ospitato nella sede della Società letteraria di Verona, vuole raccogliere attorno al focolare del libro gruppi di persone in maniera del tutto trasversale, mescolando target generazionali e ceti sociali. Una vera sfida, che parte dal presupposto che le persone abbiano il bisogno e la voglia di stare insieme per condividere esperienze e interessi. Se è evidente che leggere è nutrimento vitale per la mente e per l’anima, è altrettanto vero che leggere insieme costituisce una grande risorsa per costruire legami non solo con se stessi, ma anche con gli altri. Cesare Pavese affermava che «leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra, che già viviamo, e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi». Oltre al lavoro con il Circolo

Margherita Sciarretta

dei lettori, la passione di Margherita per la lettura ad alta voce la vede impegnata personalmente nella realizzazione di reading ed è richiesta come ospite da chi gli eventi li organizza. Tra gli ultimi appuntamenti cittadini le piace ricordare “Il processo agli alberi” e “La lontananza che è in noi”. A fine settembre, alla libreria Gheduzzi, ha preso parte a “Sentieri nel ghiaccio”: un’esposizione di calligrafie di Laura Toffaletti durante la quale, in un dialogo musicale con Enrico Breanza, ha letto una serie di brani tratti dal medesimo testo di Werner Herzog. Cinzia Inguanta

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Cultura ANNIVERSARIO

Salgari esce dal buio ma non come dovrebbe A cento anni dalla tragica scomparsa è cresciuta l’attenzione di Verona nei confronti del narratore di avventure. A quando un adeguato riconoscimento?

In questi anni il Consorzio delle pro loco della Valpolicella ha dato vita al Premio letterario “Emilio Salgari” per la letteratura avventurosa, riconoscimento che ha ormai un impatto nazionale Il Comitato per le celebrazioni del centenario della morte di Salgari, voluto dalla Regione Veneto, si è assunto il difficile compito di porsi come riferimento delle numerose iniziative che si svolgono nel Veneto e in altre regioni italiane

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di Claudio Gallo e Giuseppe Bonomi Sono trascorsi cento anni dalla tragica morte di Emilio Salgari e Verona prova, con grande difficoltà, a ricordare con dignità questo grande scrittore. Siamo lontani da quanto hanno fatto Amiens per Jules Verne, Edimburgo per Robert Louis Stevenson, Bad Segeberg per Karl May, che hanno profuso energie e risorse per fare dei loro amatissimi narratori un punto di riferimento culturale e turistico permanente. Tuttavia, nel 2011, l’attenzione per Salgari è cresciuta soprattutto in gruppi e associazioni culturali che hanno sentito il bisogno di fare i conti con uno scrittore di cui si conosce ancora poco. Sembra comunque che la leggenda prevalga ancora sulla realtà e, più che altro, sui luoghi comuni (la presunta povertà, i viaggi mai fatti, la creatività spontanea, la brutta scrittura…) ai quali nessuno dovrebbe ormai prestar fede e che invece allignano in ambienti insospettabili. Occorre dire che in questi anni il Consorzio delle pro loco della Valpolicella, raccordando istituzioni e associazioni salgariane e non, ha dato vita e consolidato il Premio letterario “Emilio Salgari” per la letteratura avventurosa: riconoscimento che ha ormai un impatto nazionale. Meritoriamente il Comitato per le celebra-

zioni del centenario della morte di Salgari, voluto dalla Regione Veneto, si è assunto il difficile compito di porsi come riferimento delle numerose iniziative che si svolgono nel Veneto e in altre regioni italiane e, nello stesso tempo, di consolidare esperienze che diano continuità all’opera di valorizzazione e conoscenza dell’opera salgariana. AVVENTURE IN RIVA ALL’ADIGE

In riva all’Adige e nella vicina Valpolicella, dove c’erano le proprietà terriere del padre, Salgari trascorse la sua infanzia. Se ne andò giovinetto a Venezia, patria della madre, per inseguire il sogno di diventare uomo di mare, capitano di Gran Cabotaggio. Senza tuttavia riuscirci. Egli in seguito affrontò mari in tempesta, sopportò bonacce, fece naufragio, combatté battaglie solo su navi di carta al fianco dei suoi amatissimi

Emilio Salgari

personaggi. Valga per tutte la Folgore del Corsaro Nero. Tornò a Verona nel 1882, appena ventenne, e si fece notare partecipando con non poca genialità alla vita sociale con scherzi, giochi, imprese che richiamarono l’attenzione dei suoi concittadini. A Verona divenne giornalista per la Nuova Arena prima, e per L’Arena poi. Scrisse articoli di cronaca bianca e nera, editoriali di politica estera con straordinaria competenza, cronache e critiche teatrali. Autore di memorabili appendici, fin dagli esordi letterari, creò la figura di Sandokan che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Fu schermidore di buon livello, abile ginnasta e soprattutto pioniere del ciclismo nazionale, dando vita al Circolo velocipedistico veronese che organizzava passeggiate cicloturistiche e prendeva parte alle competizioni si svolgevano nel Nord Italia. Nel 1891 sposò Ida Peruzzi, ambiziosa e giovane attrice teatrale dotata di talento, anche se si esibì solo con compagnie amatoriali. Probabilmente delusa da una vita spesa al seguito di un uomo – oltre che di uno scrittore – non meno ambizioso di lei, Ida soffrì non poche difficoltà, inquietudini, delusioni. Un malessere di cui lo scrittore portava la sua parte di responsabilità, che forse può aiutare a comprendere la tragica fine della loro storia d’amore e della loro vita.

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Cultura ADDIO ALLA PROVINCIALE VERONA

Salgari, alla fine, come tanti altri giornalisti e letterati, patì Verona. Consapevole del proprio straordinario talento, risiedette dopo il 1893 molto a Torino e poco a Genova. Egli comprese che per vivere scrivendo romanzi doveva abbandonare la provinciale Verona, una città che non gli avrebbe offerto possibilità o occasioni per emergere. Una scelta definitiva. Salgari, infatti, non ritornò più sui suoi passi. Il difficile rapporto con la città non era solo suo. Molti altri letterati e giornalisti ruppero emotivamente e culturalmente con Verona: Ippolito Nievo, i fratelli Tedeschi, alla guida di molte riviste e collane di casa Treves; Lina Schwarz, nota autrice di filastrocche, e Renato Simoni, grande critico teatrale; Arnaldo Fraccaroli, giornalista e viaggiatore… Si potrebbe continuare fin quasi ai giorni nostri. Per sua fortuna Salgari trovò riconoscimento in importanti case editrici nazionali (Donath, Paravia, Treves, Voghera, Bemporad) e fortuna all’estero che, come ha testimoniato Paco Taibo II nella sua recente venuta a Verona, non è mai venuta meno. Eppure i veronesi lo dimenticarono. Basta scorrere i quotidiani scaligeri in occasione della sua morte – si suicidò a Torino il 25 aprile 1911 – e della traslazione a Verona della sua salma, l’anno successivo. È vero, per un attimo la città si mobilitò e gli tributò un omaggio popolare senza pari. In una giornata di vento e pioggia, lungo il percorso verso il cimitero monumentale dove riposa ancora oggi, due ali di folla accompagnarono il corteo funebre. In realtà, nessuno sembrava ricordare lo scrittore offrendo una testimonianza autentica o un ricordo originale. Le parole spese in quell’occasione non erano diverse da quelle di tanti articoli apparsi sulla stampa nazionale. E così forse è ancora oggi. UN GRANDE INNOVATORE

Emilio Salgari, ormai un classico della letteratura italiana, è per tanti uno scrittore per bambini di un’età ormai superata, un narratore di avventure, genere negletto, un ro-

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manziere popolare di cui sorridere con facilità. Si ignora e non si percepisce che Salgari è stato un grande innovatore e che studiosi, uomini di lettere, accademie esclusive, università, non solo nazionali, celebrano con amore e rispetto. Scrittore di cui essere orgogliosi e attenti cultori della sua memoria, intuì le modalità attraverso le quali poteva rispondere alle esigenze dei nuovi lettori che invasero il “mercato”a cavallo dei due secoli. Salgari, per dirla con Bruno Traversetti, il critico che meglio di tutti ha saputo collocare lo scrittore al centro della storia letteraria e culturale italiana, «è venuto a trovarsi […] in una condizione culturale mediana che gli ha consentito (diversamente da quanto accadeva ad autori maggiori) di misurarsi non con i problemi eleganti e profondi, insiti nel dibattito letterario dei suoi anni, e dunque nell’universo etico e intellettuale delle classi superiori, ma con le imperiose dinamiche del gusto di massa; e, in parte senza saperlo, con i problemi tecnici di una letteratura degradata ma esigente che a quel gusto doveva offrire soddisfazione, alimento e dignità estetica e costruttiva». Travolse la barriera della propria origine trovando accoglimento vasto in tutti i ceti sociali italiani, seppure talvolta in modo furtivo. In fondo l’opera dello scrittore trovava riferimento nella «corposa domanda emozionale e conoscitiva di ceti sostanzialmente esclusi, fino allora, dall’esercizio di una vera influenza sui casi e sulle scelte della letteratura». IL ROMANCE ITALIANO

È un grande processo culturale democratico, è la modernità che passa attraverso l’opera di Salgari, in grado di modificare e orientare le scelte tecniche dell’industria editoriale per ciò che concerne il modo di costruire “fisicamente” i libri, poiché la rivoluzione che avanza è anche estetica e riguarda la carta, l’immagine, la grafica e l’illustrazione. La sua forza letteraria mette in discussione i labili e artefatti confini tra letteratura “alta” e letteratura “popolare” (per lungo tempo e, ancor oggi, con superficialità definita “paraletteratura”), e proietta immedia-

tamente il romance italiano nella contemporaneità novecentesca. Dopo di lui la letteratura italiana non sarebbe mai più stata scritta davvero allo stesso modo, non sarebbe più stata appannaggio esclusivo di ceti intellettuali, conservatori o comunque elitari. CULTURA CONTRO LA CRISI

Verona dovrebbe essere orgogliosa di questo suo figlio celebrato con infinite iniziative in tutta Italia organizzate da giovani intellettuali, scrittori, autori di fumetti, sceneggiatori, registi cinematografici o televisivi che in Salgari riconoscono un caposcuola, un punto di riferimento da cui non si può prescindere. Una grande forza viva e interessata che, pur vivendo in un Paese disattento, è consapevole che la cultura – quella vera e non elitaria – è la principale via, e anche la grande risorsa a cui attingere, per uscire dalla crisi che viviamo, culturale, civile e morale, prima che economica. È la vittoria di Salgari, autore universale. Perché il grande

narratore di storie ammalianti, il nostro Tusitala, non è alle nostre spalle, ma ci precede ancora. Forse ci guida, ci indirizza verso ideali decisamente misconosciuti dalla odierna “civiltà”, non solo locale. Non lui ha bisogno di Verona, ma Verona ha bisogno di lui. Se esiste un Paradiso degli scrittori, Salgari si trova in numerosa e vivace compagnia: Victor Hugo, Charles Dickens, Edgard Allan Poe, Robert Louis Stevenson, Jules Verne, James Fenimore Cooper, Rudyard Kipling. Joseph Conrad, Jack London… Chissà quali trame avvincenti, racconti straordinari, saghe avventurose, si stanno delineando: auguriamoci che qualcuno sia in grado di percepirle e raccontarcele, gliene saremmo grati. Per un approfondimento del ruolo di Salgari nella storia letteraria italiana rimandiamo al saggio pubblicato in appendice alla biografia scritta a due mani con Giuseppe Bonomi: Emilio Salgari, la macchina dei sogni (Bur Rizzoli, 2011).

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Cultura

GIANPAOLO TREVISI

«La Casa delle cose» di Marta Bicego Oggetti: tanti, variopinti, persi e ritrovati, ma soprattutto animati dalla forza della fantasia. Con una imprevedibile follia, riempiono un’abitazione speciale e anche le 90 pagine del libro La Casa delle cose. Succede così che, un capitolo dopo l’altro, si incontra Betta la forchetta, innamorata di Lello il coltello; c’è la cocorita Samba, che vola e danza a ritmo di musica; c’è Tirillo, il papero dalle piume spettinate, vestito con canotta a righe blu e cappello celeste. E poi ci sono Giampo e Lella: protagonisti – circondati, appunto, da centinaia di oggetti – dell’ultima fatica letteraria (Emi edizioni) del poliziottoscrittore Gianpaolo Trevisi. Per chi ogni giorno veste gli abiti di capo della Squadra Mobile scalige-

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Giampaolo Trevisi

Un libro per divertire grandi e bambini, con doppio finale a sorpresa. L’ultima fatica letteraria del poliziotto scrittore Gianpaolo Trevisi ra e vicequestore aggiunto, dopo essere stato dirigente dell’Ufficio immigrazione, l’arma da utilizzare nel tempo libero è quella (infallibile) della fantasia. Nato a Roma nel 1969, figlio di una professoressa e di un ufficiale dell’esercito, pur avendo scelto la carriera in Polizia, Trevisi non ha mai abbandonato la passione per la scrittura. «Finito il liceo classico ero indeciso – esordisce –: una metà voleva iscriversi a Lettere, l’altra metà fare il poliziotto. Subito dopo ho provato l’esame per entrare in Polizia». In realtà le due strade, apparentemente diverse, sono proseguite quasi parallele perché alle tappe affrontate nella professione si è affiancata prima la scrittura di

poesie e poi la composizione di racconti: da L’Africa nel cassonetto per arrivare, nel 2008, a Fogli di via e l’anno successivo a Treni di vita, fino a «rispolverare» dal cassetto una favola messa sulla carta una decina di anni fa, La Casa delle cose. Scrivere, per Trevisi, significa fuggire da una quotidianità fatta di vittorie e sconfitte. Nella realtà «il ladro scappa e il poliziotto lo insegue – spiega –. Come poliziotto fuggo attraverso la scrittura, alla quale mi dedico la sera tarda o la notte. Scrivendo La Casa delle cose, mi svegliavo col buonumore e ritornavo ad affrontare il quotidiano con il sorriso. Amo il mio lavoro e quello che faccio adesso, è ciò che sognavo da piccolo. Presentando i miei libri, ho avuto anche la possibilità di incontrare molti giovani». Senza voler rivelare troppo di un volume che è tutto da leggere (e immaginare), nei suoi capitoli – accompagnati dalla prefazione firmata da Carlo Verdone e dalle illustrazioni di Gianfranco Zavalloni – si ritrova molto del poliziottoautore: «La Casa delle cose è casa mia. Con il tempo, gli oggetti sono diminuiti, ma rimangono sempre tanti» dice. Il luogo che fa da sfondo alle avventure è una città fortezza (Verona) inizialmente un po’ fredda nei confronti di chi arriva da lontano, ma che attraverso la «conoscenza» diviene accogliente. È un po’ il percorso affrontato da Trevisi al suo arrivo in riva all’Adige, nel 1993, quando l’iniziale diffi-

denza è stata superata attribuendo il giusto valore alle cose e, di conseguenza, alle persone. Messaggio che, con un doppio finale, deve raggiungere il cuore di grandi e piccini. C’è un lieto fine, perché si tratta di una favola, e una triste conclusione: racconta la storia di Maria Teresa, “leggera come una piuma e forte come uno scoglio”. «Una donna della quale si parla troppo poco che ha perso i due figli, Massimiliano e Davide Turazza, uccisi per strada a distanza di undici anni uno dall’altro, mentre svolgevano il lavoro di poliziotti». La narrazione è incalzante, ricca di dettagli curiosi e vicende divertenti dalle quali «potrebbe nascere un cartone animato. Sarebbe un bel sogno» ammette. E, nel cassetto del poliziotto scrittore, ci sono altri testi che attendono di essere dati alle stampe: «Un libro sul G8 di Genova, dov’ero stato. Al momento è soltanto nella mia testa perché, malgrado siano passati dieci anni, è un parto difficile – conclude –. E poi c’è un racconto, sempre surreale, al quale sto lavorando e che dovrebbe intitolarsi Un buco nell’acqua. È la storia di un paese che sta sotto l’acqua e improvvisamente rimane all’asciutto, ma del quale non rivelo il finale...». La Casa delle cose verrà presentata il 20 novembre, alle 17, a palazzo della Gran Guardia con un eventospettacolo il cui ricavato andrà in beneficenza a favore dell’associazione L’Aquilone di Negrar.

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Bianca, romanzo

Cultura

di Cinzia Inguanta In libreria, 12 euro

Storia di sentimenti, condizioni di fragilità nei rapporti amorosi; dall’innamoramento alla passione, al possesso, al tradimento, quello vero del pensiero, al bisogno di relazioni d’amicizia ...

in VERONA

di Mara Riboli Rosso è il colore dell’amore e della passione. Rosso è il colore della gioia e del desiderio. Rosso è il colore del sangue che ci attraversa il corpo e dunque rosso è il colore della vita. E... rosso è il colore scelto da Cinzia Inguanta per la copertina del suo esordio letterario, il romanzo Bianca, un romanzo che racconta “dell’amore”. In questi nostri «anni liquefatti», in questo mondo che diventa, che si muove, che cambia mentre ognuno di noi «è il centro senza esserne un io», per dirla con le parole del poeta e romanziere Nanni Balestrini, in questi anni e in questo mondo, è ancora pensabile parlare dell’amore? Credere nel diritto d’esistenza dell’amore? Acconsentire alla sua richiesta di libertà da condizionamento e pregiudizio? Stupirsi delle innumerevoli sfaccettature con cui si rivela nelle relazioni sociali? A tutto ciò prova a dare un senso la scrittrice con Bianca: storia di sentimenti, condizioni di fragilità nei rapporti amorosi; dall’innamoramento alla passione, al possesso, al tradimento, quello vero del pensiero, al bisogno di relazioni e d’amicizia. L’Inguanta, con straordinaria capacità introspettiva, analizza una vasta gamma di sfumature dell’amore e il romanzo si snoda incalzante, ricco di particolari, con linguaggio secco, diretto, elegante che scendendo nel profondo dell’animo di ogni personaggio, ne traccia una lucida analisi psicologica. “Ci assale il panico quando sentiamo l’io che nascondiamo che vuole emergere, che grida perché reclama il suo diritto di esistere, non si rassegna soccombere e ferisce mortalmente la maschera che usiamo... bisognerebbe... lasciare che la vita entri in noi e ci riempia, facendo cadere la maschera” pensa Bianca. A sollecitarla a chiudere una storia fatta ormai solo di abitudine con Francesco (“A volte è più pietoso tacere” dice la protagonista) è la forza prorompente dell’innamoramento per Pierre. Lui – straniero, bello, colto, capace di libertà interiore – durante una

Cinzia Inguanta

cena così si esprime: “Credo in un unico valore fondamentale: l’amore. L’amore porta in sé il seme del rispetto, della tolleranza, della comunione, della compassione, dell’onestà. Penso che l’amore sia l’unico valore... per noi, perché viviamo il grande dono degli anni su questa terra nel modo migliore, più soddisfacente per noi, più costruttivo per chi verrà dopo di noi”. Leggendo Bianca siamo invitati, pagina dopo pagina, a chiederci in quale rapporto con l’amore stiamo vivendo gli anni liquefatti della nostra vita, del nostro tempo.

CINZIA INGUANTA, nata a Firenze nel 1961, è sposata e ha due figli. Alcuni grandi amori: la lettura, il cinema, il disegno, la fotografia, la poesia, la musica, i cinici, le menti complicate, le cause perse. Dopo la maturità scientifica, s’iscrive al corso di laurea in Medicina e chirurgia, per poi diplomarsi in design all’Accademia Cignaroli. Nel 2009 inizia a frequentare la facoltà di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. Giornalista pubblicista e blogger, collabora con alcuni giornali (tra cui Noticum, Verona In e Veronainblog) affrontando i temi dei diritti civili, della promozione sociale della donna. Le piace spaziare tra argomenti d’arte, musica, cucina. Nel 2006 ha curato la pubblicazione de La Chiesa di Verona in Sinodo e Il IV Convegno Ecclesiale Nazionale; nel 2007 de Nel segno della continuità. Quest’anno ha ricevuto la segnalazione della giuria del Premio Ibiskos per la raccolta di poesie Parole nel vuoto, a giugno l’esordio letterario con la pubblicazione del suo primo romanzo Bianca per la casa editrice Bonaccorso.

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Cultura USI E COSTUMI

Il «Ratto della sposa» È un rituale più diffuso di quanto non si pensi e documentato in diverse parti del mondo, che affonda le proprie radici in tempi remotissimi

Nelle vallate ladine, è viva la tradizione di rapire la sposa durante i banchetti nuziali. Preoccupati, i menagli – che avevano il compito di sorvegliarla – si mettevano subito alla ricerca e la festa riprendeva solamente quando la donna, ritrovata, faceva ritorno. Località diverse presentavano delle varianti, ma la sostanza del rituale rimaneva identica

Nelle vallate ladine (Val Badia, Val Gardena, Val di Fassa, Livinallongo, Colle Santa Lucia e Cortina d’Ampezzo) durante i banchetti nuziali, in alcuni casi, è ancora viva la tradizione del “Furto della sposa”: un rituale più diffuso di quel che non si pensi e che affonda le radici in tempi remotissimi. È Pierina de Jàn che narra, con grande efficacia comunicativa, ciò che accadeva nella ritualità di quel giorno tanto importante per la nubenda. Racconta: «Durante la festa, la sposa veniva rapita. I menagli – che avevano il compito di sorvegliarla – preoccupati si mettevano subito alla sua ricerca». La festa riprendeva solo quando la sposa, ritrovata, faceva ritorno. I “rapitori” erano gli amici dello sposo e al loro ritorno venivano processati seguendo una procedura collaudata, mentre i menagli dovevano pagare da bere quale risarcimento per la loro distrazione. Naturalmente località

diverse presentavano delle varianti, ma la sostanza del rituale rimaneva identica. Per esempio, a Colle Santa Lucia era il testimone dello sposo ad avere il delicato compito di sorvegliare che la sposa non venisse rapita; in Val di Fassa era il mascherato da Bufon a rapire la sposa, e così via. FURTI DI DONNE NEL MONDO

Il furto della ragazza – ancora prima del matrimonio – è un rituale documentato in diverse parti del mondo, per esempio presso le religioni animiche dell’Africa nord-occidentale. Legati al “Ratto della sposa” sono anche i concetti di endogamia, esogamia e tabù dell’incesto. Questioni vaste e complesse che hanno visto impegnati diversi antropologi, i quali hanno sottolineato ora una ora l’altra valenza. E dunque lo scambio esogamico, tanto per fare un paio di esempi, rappresenta per Lévi Strauss l’estensione della

solidarietà sociale, mentre Robin Fox ha connesso l’esogamia alla necessità di evitare l’inbreeding, cioè l’incrocio all’interno di gruppi ristretti. Nell’altipiano centrale del Kenya, presso i Kykuyu, il matrimonio è preceduto da un rapimento rituale della sposa da parte delle donne della famiglia dello sposo. Un fatto inquadrabile in queste dinamiche è raccontato anche da Piero Piazzola e riguarda l’area di Campofontana, paese posto all’estremità orientale della nostra Lessinia. Lo studioso spiega che il “rapimento della sposa” si verificava quando, per svariate ragioni, una delle famiglie esprimeva una volontà diversa da quella dei fidanzati. “Il promesso sposo organizzava di notte il rapimento della ragazza, d’accordo con la fidanzata e con un paio di amici fidati e l’appoggio di una famiglia allineata, si direbbe oggi, per ospitare temporaneamente la fidanzata”. RATTI DEGLI DEI

A destra. I “menagli” (guardie della sposa) seguono le indicazioni per ritrovare la sposa e i suoi rapitori

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Lo stesso mondo classico è ricco di rapimenti: Zeus rapisce Europa, Paride Elena, Plutone Proserpina, per ricordare i più famosi. Può essere interessante rilevare come il nome stesso, se non proprio il concetto di Europa, nasca da un rapimento; per potersi unire a questa ninfa bellissima, Zeus si trasforma in toro e la porta dall’altra parte dell’Ellesponto, quasi a sancire al tempo stesso, pur con un atto di unione, una sorta di frattura tra Asia ed Europa, un furto nei confronti di questa terra. I miti, dunque, conservano in

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Cultura A destra. Un altro momento dei riti della giornata matrimonio “la parada” - fermara del corteo nuziale. Questa tradizione vuole che il corteo nuziale venga fermato e lo sposo dia un po’ di denaro per lasciar passare il corteo

Il concetto di Europa, nasce proprio da un rapimento; per potersi unire a questa ninfa bellissima, Zeus si trasforma in toro e la porta dall’altra parte dell’Ellesponto, quasi a sancire al tempo stesso, pur con un atto di unione, una sorta di frattura tra Asia ed Europa, un furto nei confronti di questa terra

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maniera significativa la memoria del rapimento – si direbbe rituale – della donna. Anche nella Sparta storica si era conservata la memoria di tale pratica. Come ci narra Plutarco ne La vita di Licurgo: “Prendevano in moglie, con un rapimento, donne né piccole d’età né immature, bensì nel pieno dello sviluppo fisico e della maturità”. Sempre Plutarco (ma non solo lui ovviamente), per quel che riguarda Roma, faceva risalire al celebre ratto delle Sabine il ratto della sposa che si praticava nell’ambito della deductio. I TESTI BIBLICI

Anche nella Bibbia sono documentati diversi rapimenti della sposa a scopo di matrimonio. Qui ci occuperemo del ratto di Dina, figlia di Giacobbe e di Lia, rapita e violentata da Sichem, episodio narrato in Genesi 34, 1-31. Prescindendo dai problemi di analisi testuale e delle diverse tradizioni (eloista e javista), osserviamo invece che: Dina, figlia di Giacobbe è rapita e violentata da Sichem, che peraltro se ne innamora e intende sposarla; i figli di Giacobbe sottolineano tuttavia la grave ingiustizia insita in un tale delitto sessuale. Ciò appare insopportabile in un contesto, quello dell’Israele postesilico, che si

Le fiabe vantano un’antichità remota, attingono a vissuti antichissimi e conservano, in maniera formidabile “nascosti”, comportamenti ritenuti essenziali nei primitivi gruppi umani opponeva ai matrimoni misti; l’atto di Sichem, invece, non sembrava così riprovevole alla luce della legislazione antica. Trovato un apparente accordo, Dina viene portata nella casa di Sichem, ma nottetempo, penetrando subdolamente nella città, Simeone e Levi, figli di Giacobbe, uccidono tutti i maschi e devastano le case. Alexander Rofè, uno studioso contemporaneo della Bibbia, afferma che non è certo se Dina sia veramente stata violentata nella narrazione primitiva di questo “ratto”. Il racconto, infatti, è vago su quello che veramente successe tra Sichem e Dina che “uscì a vedere le ragazze del paese”, il verbo tradotto come “violentata”o “umiliata” può anche significare “giacere insieme” e quindi riferirsi a una più antica versione di Genesi 34 e potrebbe così riportarci nient’altro che a un racconto del

“custom of abduction marriage”, il tradizionale “Ratto della sposa”. NEL MONDO DELLE FIABE

Proviamo a vedere che cosa accade nel mondo delle fiabe. Diamo per certo che esse vantano un’antichità remota, attingono a vissuti antichissimi e conservano, formidabilmente “nascosti”, comportamenti ritenuti essenziali nei primitivi gruppi umani. Accontentiamoci, su questo fronte, tra le tante possibili citazioni, di J. Zipes il quale afferma che “le fiabe esistono come racconti popolari da miglia di anni”. E accontentiamoci pure di considerare una sola fiaba presa dalla nota raccolta di Italo Calvino e originaria dall’Istria. Bella Fronte è la storia della figlia del Sultano; in seguito ad alterne vicende, la giovane si unisce con un mercante e finisce con una bella convivenza. Il padre, però, la cerca, la trova e la riporta a casa. Destino vuole che il giovane mercante, in seguito a una tempesta, finisca nella città del Sultano dove incontra la sua fiamma: i due “subito studiano il modo di scappare”. E la giovane coppia fa ritorno alla casa del mercante, ma intanto il tema dell’esogamia ha fatto la sua regale apparizione. Non soltanto il giovane, in quanto mercante, costi-

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Cultura

A destra. Cappelli nuziali di Pieve di Marebbe (Val Badia)

tuisce la quintessenza di chi si muove verso terre lontane, ma incontra la stessa figlia del Sultano su un bastimento in mezzo al mare e proveniente dalla Turchia: la magia dell’incontro tra giovani sconosciuti è tutta una messa in scena e l’autorevole affermazione di Lévi Strass – secondo cui “il matrimonio tra estranei costituisce un progresso sociale, dato che integra gruppi più vasti” – trova conferma anche nella fiaba. LE TRADIZIONI POPOLARI

Era usuale, fino agli anni Cinquanta, ascoltare espressioni del tipo: «Ci alo tolto Giuseppe? (Chi ha sposato Giuseppe?)» e, come risposta, «Giuseppe l’à tolto la Maria». Ebbene: la voce verbale dialettale “tore” (togliere), pur potendo assumere accezioni diverse, ha di sicuro anche quella di “portar via”

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Veniamo alle nostre tradizioni popolari. Ovviamente, correndo l’anno 2011, non vi è apparente traccia del “Ratto della sposa” nella ritualità contemporanea, se non fosse per le virtù della lingua che ha conservato – non fino a oggi però, ma fino all’altro ieri sì – una significativa eco di quei costumi. Era usuale, fino agli anni Cinquanta, ascoltare espressioni del tipo: «Ci alo tolto Giuseppe? (Chi ha sposato Giuseppe?)» e, come risposta, «Giuseppe l’à tolto la Maria». Ebbene: la voce verbale dialettale “tore” (togliere), pur potendo assumere accezioni diverse, ha di sicuro anche quella di “portar via”. Sull’uso del verbo “togliere” (tore in dialetto), possiamo en passant fare queste po-

Oggi non vi è apparente traccia del “Ratto della sposa” nella ritualità contemporanea, se non fosse per le virtù della lingua che ha conservato una significativa eco di quei costumi

persa. Insomma, gira e rigira, gli iceberg linguistici forniscono ancora valide e interessanti testimonianze.

che osservazioni. Innanzitutto esso assume il significato di “togliere, portar via”: «L’è sta Renato a torte la matita (È stato Renato a toglierti la matita)», dove il verbo in questione aveva senz’altro il significato di “portare via”, anzi di “rubare”, pur mancando di un’aggravante delittuosa. Una seconda accezione aveva il curioso significato di “predere”, come nell’espressione: «Tome el martelo (Prendimi il martello)». E ancora: «Sa eto tolto al marcà? (Che cosa hai comperato al mercato?)». Dunque ci entra anche il significato di comperare! Non dimentichiamo, infatti, per il significato della nostra ricerca, che esiste l’espressione “Prendere in moglie”. Si vede quindi quanto interessante sia e quanti collegamenti consenta la sola riflessione su una particolare accezione del lemma dialettale andata completamente

Questo articolo costituisce la sintesi di un lavoro più complesso che verrà prossimamente pubblicato su “Ladinia” Rivista dell’Istitut Ladin Micurà de Rü (Val Badia, Bolzano).

A cura dell’Associazione “Frazer”. Association for Anthropological Research. Autori: Aldo Ridolfi, Alessandro Norsa, Angelico Brugnoli, Francesco Cortellazzo e Giampaolo Mortaio

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Arte

FELICE TAGLIAFERRI

Diversamente abili, anzi... artisti Cieco totale dall’adolescenza e scultore di pregio, Tagliaferri è stato nella Bassa, dove ha proposto interessanti esperienze con il suo consueto carisma. In maggio e ottobre è stato l’animatore della “Cena al buio” alla baita alpini di Legnago e al circolo parrocchiale Noi di San Vito di Cerea, mentre in settembre ha svolto un laboratorio d’arte presso l’ospedale Mater Salutis di Legnago

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di Stefano Vicentini In uno dei suoi ultimi libri Candido Cannavò (1930-2009), compianto direttore della Gazzetta dello Sport, mostrò eccezionali doti di sensibilità derogando dalla sua passione per il calcio per raccontare un universo poco esplorato, quello delle disabilità, con un’ottica assai particolare. Il saggio, edito da Rizzoli nel 2005, si chiamava E li chiamano disabili: le recensioni andarono tutte in una direzione, dato che l’autore testimoniò perfettamente come le persone cosiddette “diversamente abili” in realtà possono essere artisti, con sorprendenti genialità espresse nelle più varie attività. Tra i ritratti, quello di Felice Tagliaferri: foggiano, ma bolognese d’adozione, chiamato da tutti “maestro” per il suo straordinario talento nella scultura, per cui è riconosciuto tra i maggiori artisti nazionali. Dopo aver intrapreso un corso presso Nicola Zamboni, noto scultore bolognese e docente all’Accademia delle Belle Arti di Brera, si è impegnato in prima persona. Il curriculum è di tutto rispetto: è

stato oggetto di tesi di laurea, giurato in vari premi, relatore a convegni (tra cui uno con il medico clown Patch Adams), dal 2001 partecipa a mostre e premi di livello internazionale, con un terzo posto al concorso Boni di Cesena, una mostra al Vittoriano di Roma nell’ambito di Cooperazione nel mondo (inaugurata dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi), scultore di scena nello spettacolo “Elegie” con gli attori dell’associazione Neon di Catania, autore di una statua-premio per il Nobel Dario Fo, espositore al Museo d’arte delle generazioni italiane del ’900 G. Bargellini a Pieve di Cento, alla mostra “Toccare l’arte. Vedere con le mani” al Museo Omero presso il Monastero Santa Chiara di Napoli, all’Istituto di cultura italiana a Praga, infine all’ulti-

mo meeting di Rimini con Il Cristo rivelato (opera ispirata a Il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino, conservata nella Cappella Sansevero di Napoli). Una scia eccellente di prestazioni, mentre la sua personalità è immortalata con finezza da Cannavò: “Decisivo è stato l’incontro con Nicola Stilla, vivacissimo presidente regionale dell’Unione italiana ciechi, che lavora come centralinista alla sede milanese della Banca d’Italia. Avevamo seguito un paio di anni fa gli Incontri al buio al Palazzo Reale di Milano. Ci siamo chiesti cosa si poteva fare di analogo. È nata così l’idea della Cena al buio che organizziamo una volta al mese, piacevole perché coinvolgiamo direttamente la gente al nostro problema. Ecco la chiave magica della comprensione”. In altre pagine si racconta quando Felice portò Candido in visita nel suo studio e lo mise alla prova, facendogli chiudere gli occhi e toccare le sue sculture per indovinare il soggetto, entrando nel mistero delle pure emozioni tattili. Ma perché raccontare la storia di questo scultore quarantenne, che oggi gira l’Italia per proporre esperienze di laboratorio artistico nelle scuole, raccogliendo consensi e testimonianze di vita veramente unici? Perché Tagliaferri è stato di recente nel basso veronese, a Legna-

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Arte go e Cerea, dove ha proposto interessanti esperienze con il suo consueto carisma. In maggio e ottobre è stato l’animatore della “Cena al buio” alla baita alpini di Legnago e al circolo parrocchiale Noi di San Vito di Cerea, mentre in settembre ha svolto un laboratorio d’arte presso l’ospedale Mater Salutis di Legnago. Come sempre, il maestro si è presentato così: «Voi mi guardate come un uomo sfortunato e avete ragione perché sono cieco, ma io vi dimostro che anche un uomo sfortunato può insegnarvi qualcosa». Una carica vitale naturalmente contagiosa e coinvolgente. Così alla baita di Legnago c’erano oltre 60 persone, tra cui il consigliere nazionale dell’Unione cechi, il veronese Luigi Gelmini, il dirigente dell’Ulss 21 Raffaele Grottola, l’associazione onlus Betulla, gli amici del gruppo di Tagliaferri (uniti dal suo sito www.chiesadellarte.it) e molti curiosi di vivere la cena al buio, significativamente intitolata «Noi ti spegniamo gli occhi... tu accendi il tuo cuore”, con cuochi e camerieri non vedenti. La serata a luci spente ha fatto scoprire le sensazioni di mangiare senza l’uso della vista, in un modo alternativo di relazione al consueto faccia a faccia: una novità pro-

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È un artista completo e di profonda saggezza: «Adesso i miei occhi sono sulla punta delle dita e nel cervello. I miei polpastrelli hanno una sensibilità prodigiosa. E il mio cervello disegna immagini assorbendo suoni, parole, sensazioni. Come vedi, c’è un risvolto positivo anche nelle sventure» fondamente vissuta e apprezzata dai presenti, rinnovata poi a Cerea. Sul laboratorio di scultura (tenuto dal 26 al 27 settembre, con un corso di 15 ore) al nosocomio di Legnago relaziona, invece, un allievo non vedente. È quarantenne Marco Bianchin, centralinista al Mater Salutis: «Certo, Felice, che ha la mia stessa età, ci sa fare con l’arte, sia a realizzarla che a insegnarla. Riesce a rompere subito gli indugi, abbattendo quell’imbarazzo che si crea di solito nella relazione tra un vedente e un non vedente. Nel corso d’arte al buio ci ha insegnato a realizzare il nostro ritratto, prendendo le misure col tatto e curando ogni particolare. Tra gli allievi c’erano gli operatori dei nostri Servizi sociali, talmente entusiasti da chiedere di rinnovare l’iniziativa al più presto». Il “laboratorio al buio” è stato realizzato da Tagliaferri per la prima volta al museo statale Omero di Napoli, che ospita una sua collezione, e da lì è stato tutto un susseguirsi di attenzioni e richieste. Gli oggetti realizzati sono sempre un’opera

d’arte, personale e unica, frutto del talento individuale che viene tirato fuori sempre senza timore: si basa sulla manualità e sul contatto al buio, così da rivivere lo svantaggio in cui si trovano i non vedenti e prendere coscienza di questa difficile realtà. La mano che si muove sicura nell’opera giunge a realizzare qualcosa di buono, proprio nella forza d’animo e nella collaborazione tra allievi; il maestro diventa così una guida attenta ed esperta, che sfrutta al massimo le potenzialità di ciascuno. Il messaggio di fondo è che si deve dare il meglio di se, ritenendosi sempre una risorsa e mai un ostacolo nella società, temprando l’autostima. La scoperta della propria realtà fisica, attraverso il ritratto, avviene esternando le proprie emozioni, in un percorso graduale di approfondimento di sé (anche con autoironia, scoprendo per esempio qualche piccolo difetto). Tagliaferri, cieco totale dall’adolescenza, ha trovato una via di realizzazione personale, ma anche un modo per riversare generosamente agli altri le proprie capacità. Nei laboratori scolastici e per adulti insegna a lavorare la creta, mentre a un livello superiore sa anche usare il marmo, il legno e la pietra di Vicenza. È un artista completo e di profonda saggezza: «Adesso i miei occhi sono sulla punta delle dita e nel cervello. I miei polpastrelli hanno una sensibilità prodigiosa. E il mio cervello disegna immagini assorbendo suoni, parole, sensazioni. Come vedi, c’è un risvolto positivo anche nelle sventure».

DIRITTO DI RETTIFICA L’art. 8 della legge sulla stampa 47/1948 stabilisce che “Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale”.

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Giornale di attualità e cultura Direttore Giorgio Montolli

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Lungadige Re Teodorico, 10 37129 - Verona. Tel. 045.592695 Stampa NE&A PRINT - Verona Registrazione al Tribunale di Verona n°1557 del 29 settembre 2003 Iscrizione ROC 18748 N° 30/novembre 2011 Copia venduta in abbonamento al prezzo di 15 euro l’anno www.verona-in.it Questo giornale è stampato su carta realizzata secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici Chiuso in redazione il 31/10/2011

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