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• 1923: a Selva arriva la luce Cultura

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(Nuova associazione) Cultura e informazione nasce Voltapagina

ARENA: CONTENITORE MILLEUSI www.veronainblog.it N° 32 -AGOSTO 2012 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1 - DCB VR


Cultura


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In copertina: foto di Francesco Passarella

Cultura e informazione: nasce Voltapagina

www.verona-in.it

Verona In festeggia i suoi 10 anni di vita proponendosi in versione web. Accolto l’appello pubblicato sulla rete dall’editore: a settembre una nuova associazione culturale e una nuova casa editrice

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Da gennaio a maggio 2012 abbiamo pubblicato un giornale in internet con risultati sorprendenti per una startup: 700 visitatori unici giornalieri che tornavano sul sito più volte nelle 24 ore. Infatti i click di ingresso sono stati circa 70 mila ogni mese, in crescita. Da alcuni anni pubblichiamo inchieste, strumento scomodo di indagine giornalistica che ha allontanato molti inserzionisti pubblicitari, soprattutto quelli istituzionali (gli altri, che ci ostiniamo a chiamare “imprenditori progressisti”, hanno mostrato scarso interesse per le nostre iniziative editoriali). Un altro motivo per cui la pubblicità se n’è andata è certamente la crisi economica. L’esperimento on line è quindi servito per capire se la rete poteva essere un ambiente non solo a basso costo, ma anche più libero ed efficiente, su cui investire per lanciare questo giornale verso un futuro brillante. Ci sono alcuni vantaggi non da poco. a) Pubblicare on line consente l’azzeramento dei costi per la carta e la distribuzione, che per Verona In sono il capitolo di spesa più importante. b) I tempi per la riflessione e il dibattito sul web non sono più scanditi dalla periodicità del giornale (nel nostro caso trimestrale): pubblicando quotidianamente il dibattito è intenso, continuo e anche per questo molto costruttivo. Ci sono anche alcuni svantaggi. a) non tutti leggono il giornale in internet (ma è sempre meno vero); b) le inchieste sono troppo lunghe da leggere sul PC (sempre meno vero anche questo, grazie ai tablet e agli e.reader); c) il giornale su carta lasciato in un ambiente pubblico lo vedono tutti, anche i più distratti, mentre in internet bisogna cercarlo (molto

vero); d) non c’è ancora a livello locale una cultura dell’investimento pubblicitario on line (poche decine di euro per un bunner sono ancora considerate cifre assurde a Verona). Che si fa? Si passa in internet, ma con una novità importante che dà la misura della trasformazione. La novità è la nascita dell’associazione Voltapagina. L’appello lanciato in rete dall’editore a maggio 2012, in cui si chiedeva di cercare insieme le risorse per continuare l’avventura on line, non è caduto nel vuoto. Durante l’estate, a dieci anni dalla pubblicazione del primo numero di Verona In, alcune persone generose si sono rese disponibili e hanno lavorato per fondare una nuova associazione, producendo un primo documento di cui pubblichiamo l’abstract, per capire di cosa si tratta: – «È in crisi un modello culturale basato sul consumo di beni materiali e lo spreco di risorse, mentre ne sta crescendo un altro che identifica il benessere con la qualità della vita. In questo contesto la cultura, generando modelli di consumo sostenibili, può diventare il perno di un nuovo sviluppo economico. – Voltapagina ha due obiettivi di pari dignità: 1. accompagnare e spingere questo processo di trasformazione con adeguate iniziative culturali; 2. sostenere i mezzi di informazione come Verona In, a cui è affidato il compito di traghettare a livello di opinione pubblica quanto prodotto come laboratorio culturale». L’associazione Voltapagina si presenterà alla città a fine estate, subito dopo inizierà il tesseramento. Anche gli abbonati di Verona In, presa visione dell’atto costitutivo, potranno iscriversi a Voltapagina versando la quota, prima

destinata all’abbonamento, direttamente all’associazione. Le quote associative serviranno in parte per garantire un fondo da utilizzare per le attività culturali, in parte per sostenere Verona In on line (articoli, inchieste, redazione, aggiornamento del sito ecc. ecc). Che fine farà il giornale cartaceo? Non chiuderà i battenti ma sarà utilizzato per pubblicare una tantum numeri monotematici in grado di sostenersi economicamente. Ci sono altre novità editoriali. Sta nascendo a Verona un altro giornale. Si tratta di un foglio di riflessione politica, aperto a tutte le componenti di centrosinistra, ai movimenti e alla parte progressista della società. Si chiamerà l’ansa dell’Adige, recuperando il nome della testata fondata a gennaio in internet e finanziata in parte da alcuni esponenti del Partito democratico. Qui il percorso è dalla rete alla carta, perchè il nuovo giornale sarà stampato in 5 mila copie. Direttore responsabile è il giornalista professionista Michele Marcolongo, direttore editoriale è Michele Bertucco a cui, come candidato sindaco unitario del centrosinistra alle passate elezioni, tocca il compito di moderatore. L’editore è lo Studio editoriale Giorgio Montolli. Completa il panorama la nascita della casa editrice Smart Edizioni, operativa con l’arrivo del Natale. Smart Edizioni vuole occuparsi della città intelligente e creativa, senza barriere ideologiche, democratica, contro gli sprechi e a basso impatto ambientale. E’ la città che fatica a emergere ma che fa capolino nell’attività dei tanti che ci credono. g.m

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Torniamo con pazienza a costruire un’alternativa per Verona L’ostacolo maggiore si trova nella degenerazione del linguaggio della politica, emblematica di una modalità di proporsi che si risolve nella pura invettiva, nella denigrazione di ogni persona o opera e che ha prevalso sulla dialettica, anche aspra, ma sostenuta da idee e soluzioni a confronto

di Paolo Ricci e elezioni amministrative veronesi hanno inevitabilmente lasciato sul campo vincitori e vinti. Quest’ultimi non sono riusciti ad anteporre un progetto di città diverso e più credibile di quello del sindaco riconfermato. Ambiente come pre-condizione di qualsiasi politica economica, cultura come leva di un diverso sviluppo, pianificazione e mobilità urbana come accesso a più gratificanti stili di vita, trasparenza della pubblica amministrazione come superamento dell’opaco rapporto tra Partiti (tutti) e mondo degli affari. Niente di tutto questo. La realtà loca-

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le è rimasta sullo sfondo fino a sfumare, confondendosi con i “grandi” temi della politica nazionale. Per il duello si è scelta quindi l’arma più favorevole all’avversario e si è perso ancora una volta, nettamente, anche nella congiuntura più critica per chi governa la nostra città. L’unica dell’intera tornata amministrativa in cui il partito del sindaco ha potuto vantare uno schiacciante successo. Difficile ricondurre il silenzio o i timidi accenni alle problematiche locali di maggior impatto ad un semplice errore di valutazione. Si è preferito insistere tout court sul razzismo e sulle inquietanti frequentazioni politiche del sindaco, spostando il confronto unicamente sul terreno ideologico, senza entrare nel merito dei fatti che hanno scandito l’amministrazione della città. In realtà, il centro-sinistra, e non solo a Verona, non ha una posizione univoca proprio sulle grandi questioni delle città. Battersi per un’alternativa all’incenerimento dei rifiuti, crea imbarazzo, nonostante la sua concreta fattibilità, quando una “regione amica” (Emilia Romagna) ha realizzato un impianto per provincia (o quasi), istituzionalizzando anche il monitoraggio sanitario e ambientale con un progetto autoreferenziale (Moniter). E quando il ministro dell’Industria (Bersani) del secondo governo Prodi ha denunciato al ministro della Salute (Turco) ed al ministro della Giustizia (Mastella) l’Ordine dei Medici di quella regione per procurato allarme, avendo questo ente espresso preoccupazione per gli effetti sanitari riportati dalla letteratura scientifica sull’incenerimento dei rifiuti. Ma altri esempi si potrebbero richiamare. Né è facile prendere posizione sul controllo che i partiti esercitano nei confronti di partecipate / banche / fondazioni, pensando a fatti anche recenti che hanno disvelato un sistema di potere da cui nessuno è rimasto indenne. Certamente si tratta di evidenze molto diversificate tra loro, che non giustificano alcun giudizio omologante. Ma è proprio il non voler suturare queste ferite con i punti qualificanti di un innovativo e coraggioso programma politico per il governo della città che, da una parte, offre il fianco alla critica demagogica, dall’altra induce gli sconfitti a sgomitare per accaparrarsi le briciole cadute dal tavolo dei vincitori. Le riflessioni non mancheranno, ma a ciascuno la propria responsabilità: ad una opposizione che ha mancato per tattica e strategia, agli anchormen “di sinistra” disinteressati alla realtà locale (sempre poco attraente se non è scandalistica) e soggiogati dal mito del personaggio (sempre molto spendibile buono o cattivo che sia). Come ci insegnano a nostre spese le campagne pubblicitarie (e non solo) la reiterazione del messaggio produce consenso e questo, alla fine, verità. Esse est percepi, diceva il filosofo Berkeley. Ma anche i governati, satolli di senso comune, non sono innocenti. Un’alternativa convincente la si costruisce nel tempo medio-lungo, soprattutto a Verona, e non certo in quello effimero della campagna elettorale, a prescindere quindi dalla figura del candidato sindaco. L’ostacolo maggiore si trova oggi nella degenerazione del linguaggio della politica, emblematica di una modalità di proporsi che, ormai dimentica di ogni contenuto più o meno nobile, si risolve nella pura invettiva, nella denigrazione di ogni persona o opera, che ha prevalso sulla dialettica, anche aspra, ma sostenuta da idee e soluzioni a confronto. Una china molto difficile da risalire che costituisce però una via obbligata. (Vedi articolo in tandem a pagina 5, ndr).

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Indifferenza e “cinismo d’animo” Così Leopardi spiega gli italiani L’Italia non è riuscita a costruire un proprio paradigma di società. Una deficienza che si è trascinata lungo la storia del Risorgimento, fino a influenzare la politica dei nostri giorni. Leopardi chiama “atteggiamento cinico” questo rapporto che l’italiano tiene con il mondo e con il prossimo

di Corinna Albolino lluminante, rispetto alla riflessione politica di Paolo Ricci nella pagina a fianco, risulta il testo di Leopardi, scritto nel 1824, dal titolo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”, verso il quale la critica ha mostrato negli ultimi anni molto interesse. Un saggio che indaga la psicologia sociale degli italiani nel contesto più ampio della storia degli Stati europei. Va subito rilevato il significato che il termine “costume” assume nel pensiero dell’autore. Qui l’éthos non è infatti riducibile alle abitudini o usanze che definiscono, per tradizione, il carattere di un popolo, ma rimanda piuttosto ad una forma mentis, un modo di essere, di abitare il mondo. È quella modalità di dimorare la Terra che fonda la cultura di una civiltà. Éthos diventa allora la morale che si traduce in determinate consuetudini di vita, consolidate poi nelle leggi. Éthos, civiltà, cultura hanno a che fare con il senso dell’esistenza. Se il tutto, nella sua essenza, è, come interpreta Nietzsche, caos e divenire delle cose, queste parole stanno ad indicare allora le sovrastrutture che l’uomo edifica per dare significato alla sua finitezza. Sono quelle finzioni, quelle maschere autoillusorie, al dire del filosofo, che ci consentono di sopravvivere. Nel merito Leopardi ricorda come la “gloria” degli antichi sia diventata nei secoli successivi “onore” per trapassare poi con i moderni nel concetto civico di “stima”, intesa come riconoscimento pubblico del proprio agire. Sono questi i valori fondativi di una società che ne garantiscono anche la coesione. L’Italia, a differenza delle altre nazioni europee, spiega l’autore, non è riuscita a costruire un proprio paradigma di società. Una deficienza, in effetti, che si è trascinata lungo tutta la storia risorgimentale e post-risorgimentale, fino ad influenzare ancora la politica dei nostri giorni. L’individualismo, “l’amor proprio”, “l’indifferenza profonda, radicata ed efficientissima verso sé stessi e verso gli altri” nei confronti di ogni giudizio sociale, sono le connotazioni dell’italiano moderno. Costituiscono un’ineludibile conseguenza di questa lacuna storica. Leopardi chiama “atteggiamento cinico” questo rapporto che l’italiano tiene con il mondo, con il prossimo. “Cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni”. Una modalità di

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esistere che, avulsa da ogni condivisione sociale, si risolve in comportamenti denigratori. “Passano il loro tempo a deridersi, scambievolmente, a pungersi fino al sangue[..], a mostrar con le parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui[..], a ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno incominciando da se medesimo”. Il cinismo, una risposta naturale dell’uomo di fronte all’insensatezza della vita, diventa nell’italiano un tratto psicologico più accentuato, fino a qualificare la cifra del vivere politico, proprio perché la “mancanza di società” non può esprimere quei valori che conferiscono senso alla dimensione comunitaria della vita. Ritornare oggi a questa analisi psicologica dell’italiano, offerta dal Leopardi, può aiutare a capire la crisi profonda della politica, al di là delle contingenze. La “mancanza di società” basata sul reciproco riconoscimento dell’altro, di quella “società stretta” fondata sulla “fratellanza” è all’origine di una disaffezione della politica che, salvo rare e brevi eccezioni, ha percorso come una vena carsica l’intera storia del nostro Paese. Ora è diventata dilagante e domina da tempo la scena politica. A mascherarla non sono bastate le grisaglie del governo tecnico. Sovrastati dall’omologazione, i contenuti della politica hanno progressivamente perso la loro identità. Un linguaggio impoverito, ridotto a reiterato messaggio pubblicitario, si affanna a promuovere un prodotto non più in grado di sollecitare neppure la semplice attenzione dei cittadini-consumatori. Se il peccato d’origine è la “mancanza di società”, forse è il modo di stare nel mondo, di abitare la città, che va ripensato. A questo punto è proprio il concetto di “fratellanza” leopardiana, accennato in questo saggio politico ed esplicitato poi nella Ginestra, che può soccorrerci, in virtù della sua sorprendente attualità. Una morale laica, scevra da ogni a-priori metafisico, “etsi Deus non daretur”, per usare l’espressione di Grozio, che riconosca la propria ragion d’essere nella cura del supremo bene comune, cioè la vita sulla e della Terra. Un’etica da declinare però in nuova politica economica, a partire dalla polis, dalla nostra città.

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Scuola e tecnologie didattiche Sono arrivati la lavagna multimediale e il registro elettronico, vanno in pensione i gessetti e le grandi carte geografiche. Novità interessanti per l’apprendimento che vanno gestite cogliendo potenzialità e limiti di Stefano Vicentini eggi “autonomia scolastica”, intendi scuola moderna e più funzionale. È una scommessa attuale, ma anche una prospettiva per l’immediato futuro che non si vuole disattendere. C’è in gioco l’identità di ciascuna scuola che diventa originale rispetto alle altre e, distinguendosi in alcune caratteristiche, permette alle famiglie di orientarsi più facilmente nella scelta. Ciò ha fatto scattare, da non molto, la corsa alla modernità, tradotta, tra le varie novità, nell’uso sempre più consistente delle cosiddette “tecnologie didattiche”, dove la dinamica insegnamento-apprendimento si avvale di mezzi tecnologici, computer, software specifici, audiovisivi, tutor on line, ecc. Non è questione solo di dotarsi di una nuova strumentazione, magari semplice e facile da usare – basterebbe un po’ di pratica e il problema è risolto – ma di ripensare il lavoro in classe, come gli obiettivi o i livelli di prestazione, sapendo ben calcolare i pro (tanti) e i contro (pochi, ma ci sono) del mondo multimediale. Accenniamone alcuni: di positivo, la rapidità di consultazione di dati a livello enciclopedico, la rappresentazione simultanea e sintetica delle conoscenze, l’uso di materiale didattico vario potendosi confrontare anche con ricerche svolte, esercizi e test preimpostati, esperti di un settore o alunni di altre scuole; di negativo, l’incapacità di autogestirsi e organizzarsi in modo efficace, oppure i tempi lunghi di operatività. Ma apriamo alcuni siti internet, come quelli delle scuole secondarie veronesi, spesso creati insieme da docenti e studenti con spiccate capacità d’uso del computer. Insieme alla vivacità estetica, balza subito all’occhio l’organizzazione ragionata dell’home page, dove ricorrono le news, la presentazione dell’istituto col Piano dell’offerta formativa, uno spazio dedicato all’organizzazione interna e ai docenti, nonché uno spazio specifico per gli studenti per inserire l’agenda degli impegni scolastici, ricerche per la maturità, corsi e “studi di caso”, esperienze musicali, teatrali e sportive, foto di gruppo. E poi, croce o delizia, c’è il registro elettronico: ottimo per caricare voti, assenze, note, istruzioni per il recupero ed altre osservazioni, in certe scuole si inseriscono anche gli argomenti affrontati dai singoli docenti giorno per giorno, praticamente una trasposizione del registro cartaceo; famigerato per gli alunni che vogliono nascondere un’insufficienza o una “strana” assenza (il bigiare/marinare la scuola, cioè la famosa berna), cose che non passano inosservate al genitore che frequenta il sito della scuola regolarmente. Di fatto il computer è indispensabile: in tutte le scuole, negli ultimi anni, si è potenziata la materia “informatica” (anche solo come pacchetto

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di ore propedeutico) perché la pratica e la terminologia annessa sono richiesti dal mondo del lavoro. Ma la maggiore scommessa tecnologica di quest’anno è stata la Lavagna interattiva multimediale (LIM), che è ancora affiancata alla vecchia lavagna nera di ardesia ma è pronta a mandarla in pensione, ovviamente insieme ai gessetti bianchi e al cancellino. La Lim, presente nelle scuole statunitensi dagli anni ‘90, è giunta in Italia solo ora ma è stata accolta con entusiasmo, in quanto è utile in ogni ambito: pensiamo, ad esempio, alla possibilità in storia e geografia di consultare velocemente i rispettivi atlanti (senza più cercare in giro per la scuola carte ingombranti, pure pronte per la pensione) o vedere documentari e film a supporto di una lezione, oppure ancora trovare dei documenti che aggiornano le conoscenze un po’ datate sui propri manuali. Certo è che la lavagna interattiva mette in gioco una professionalità disposta ad accogliere un sistema nuovo, diverso dalla classica lezione frontale fatta di dettature e prese degli appunti, più il confronto col libro di testo e poche scritte alla lavagna; qui lo strumento permette di aggiungere infinità di nozioni e creare percorsi di apprendimento anche per una fruizione autonoma. Se, alla sua comparsa, la Lim è entrata in poche aule – generalmente le sale audiovisive –, ora c’è un po’ in tutte le classi, disponibilità finanziaria permettendo, come potrebbe succedere presto per i pc o addirittura per gli i-Pad. Addio astucci, penne, quaderni? Ancora non è detta l’ultima parola ma la strada all’ipertecnologia è spianata: non a caso, sui nuovi dizionari è stato inserito “nativo digitale”, termine che indica un giovane nato in un tempo in cui l’informatica e la tecnologia fanno sentire la loro presenza nei comportamenti sociali. In questo caso c’è persino l’incoraggiamento dell’istituzione scolastica, così da giustificarne la necessità. E non c’è niente di male – a differenza dei giustamente banditi in aula walkman e cellulare – se un ragazzo accede a un ambiente di apprendimento innovativo e comunque in grado di sostenere i suoi studi: si possono creare situazioni di lavoro in gruppo, risolvere atteggiamenti di timidezza o timore verso l’insegnante, realizzare prodotti complessi che serviranno comunque come basi e procedure per la futura professione. Non si tratterà più di definire “scuola all’avanguardia” quella che farà lo sforzo anche economico di mettere strumenti e mezzi informatici nei propri spazi didattici, ma solo una scuola in cammino coi tempi, dove il rendimento dello studente si affina nella pluralità delle esperienze e nella sua capacità di adeguarvisi, con elasticità mentale. Sarà interessante, quando le scuole decideranno di farlo, preparare una griglia di valutazione – da condividere tra docenti, genitori e studenti – per stabilire quanto positivo è stato l’utilizzo della tecnologia per la formazione, in stretta relazione con le competenze raggiunte a fine anno e le aspettative delle famiglie. Questa crescente confidenza con le tecnologie didattiche si indirizza insomma a realizzare l’obiettivo che è stato posto, qualche anno fa, in un’interessante sottolineatura sulla “scuola dell’autonomia”: “[Bisogna] sottrarre l’attività educativa e didattica al regime di predeterminazione e di rigida uniformità imposto dal governo amministrativo-burocratico della scuola, puntando al graduale ma decisivo passaggio dalle competenze formali a quelle sostanziali e specifiche, dai rapporti interni di tipo gerarchico e autoritativo a quelli tipici delle comunità professionali (fondate sulle responsabilità comuni), dalla cultura dell’adempimento a quella del risultato”.

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Per parlare ai giovani la Chiesa deve cercare linguaggi nuovi Occore un modo di esprimersi il quale, per dirla con le parole di Pietro nel suo primo discorso la mattina di Pentecoste, sia capace di “trafiggere il cuore”. Ricordando che nel linguaggio biblico, il “cuore” è la sede delle decisioni vitali di Rino Breoni* Con soddisfazione stupita di sacerdoti e di operatori pastorali, durante le celebrazioni della Settimana Santa, le chiese si sono riempite di fedeli. Chiaramente, in percentuale, le assenze sono state molto più numerose e tra le assenze, quella più vistosa, va riferita al mondo giovanile. Gli appuntamenti del Natale e della Pasqua esercitano una suggestione anche emotiva che riesce a coinvolgere le fasce dell’età adulta, matura ed anziana, ma sembra non esercitare eguale presa sulla sensibilità giovanile. Le valutazioni positive della presenza di giovani a talune manifestazioni pubbliche religiose come “veglie notturne”, “Via Crucis” e altro, peccano, a mio avviso, di facile ottimismo. La città rimane elemento paradigmatico che anticipa, almeno di un decennio, evoluzioni comportamentali quali si verificheranno poi nella periferia e nella provincia. Il fenomeno della disaffezione giovanile dalla pratica religiosa e, gradualmente dalla fede, ha radici molteplici e profonde. Consideriamo pure l’età giovanile come momento di ribellione, di rottura e rifiuto di quanto può essere considerato consuetudine e tradizione; teniamo pure conto della pressione mediatica che potenzia l’atteggiamento critico verso ogni istituzione (non v’è dubbio che la Chiesa venga guardata in questa luce); non sottovalutiamo anche il crescente desiderio di autonomia e libertà che valuta insegnamenti, precetti e magisteri di

qualsiasi genere come limite a tale desiderio; potremmo continuare. Egualmente, ogni giovane generazione, presto o tardi, deve fare i conti con gli eventuali interrogativi esistenziali, quali emergono dalle esperienze di vita, volute, cercate, impossibili da evitare. Hanno nomi precisi: l’insuccesso, l’amore, la delusione, la sofferenza, il sesso, le prospettive di impegno lavorativo, lo studio, la malattia, la morte, le implicanze di ogni relazione e della socializzazione, la considerazione data al danaro e altro. Sono realtà che generano interrogativi ai quali non sempre si danno o si trovano risposte adeguate, anche perché spesso si presentano in modo poco chiaro e spesso alterati, come si è già detto, dalla comunicazione mediatica. La Chiesa ritiene di possedere un messaggio che, globalmente, potrebbe essere risposta a questi interrogativi: è la visione della vita quale fluisce dal Vangelo di Cristo. Questo messaggio non è la soluzione dei singoli problemi, ma una visione d’insieme dell’esistenza, dal suo fiorire al suo concludersi. È a questo punto che diventa inevitabile una domanda: perché questo messaggio ha così scarsa incidenza sulla sensibilità e sull’animo giovanile? Il problema che si pone è enorme e costituisce motivo di studio e riflessione a livello antropologico e sociale. Io, balbettando, mi permetto di fare cenno ad un aspetto non trascurabile della proposta cristiana fatta dalla Chiesa al mondo giovanile. Si tratta del “linguaggio”. I violenti mutamenti comportamentali sono sempre portatori di un “linguaggio” inteso come espressione verbale di un modo di sentire e di vedere la realtà. Mi esprimo con un esempio. Se io, ormai anziano, dico la parola “peccato”, termine che nel lessico della fede e della teologia ha un suo peso ed un suo significato, posso lecitamente sospettare che per la giovane generazione tale termine sia compreso e valutato in modo diverso dalla tradizionale sensibilità. Se dico “castità”, “mortificazione”, “autodominio”, termini che appartengono alla dimensione morale dell’esperienza cristiana, si può lecitamente sospettare che essi suonino diversamente nell’animo giovanile. È, allora, una questione di parole? Anche. Nell’immediato dopo Concilio, fece scalpore il caso del “Catechismo Olandese”, denunciato a Roma, contestato, corretto, ma che, altro non era se non il tentativo di presentare la fede cristiana di sempre con una terminologia ed una esposizione capace di incrociare la sensibilità dell’uomo contemporaneo. Già il titolo alludeva ad una “introduzione alla fede per l’uomo adulto”. Così per il famoso “Catechismo dell’Isolotto” che si esprimeva con linguaggio biblico. A mio avviso sono state occasioni mancate. Rimango convinto che la strada da percorrere per fare una proposta di vita cristiana alla giovane generazione, una proposta che non la riporti in chiesa, ma che, prima ancora, sia una proposta di vita nella prospettiva evangelica, sia quella di trovare un linguaggio concettuale e verbale, il quale, per dirla con le parole di Pietro nel suo primo discorso la mattina di Pentecoste, sia capace di “trafiggere il cuore” (Atti 2,37). Nel linguaggio biblico, il “cuore” è la sede delle decisioni vitali, non delle emozioni. *Rettore di San Lorenzo in Verona

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DIARIO ACIDO di Gianni Falcone


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(Foto F. Passarella) Dopo Rinascita anche la libreria Ghelfi e Barbato, schiacciata dalle vicine Feltrinelli e Fnac, chiude i battenti. Se ne va un altro pezzo della storia di Verona


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di Michele Marcolongo Puccini o Pausini? L’Aida di Giuseppe Verdi o Amici di Maria De Filippi? Benché una scelta non escluda l’altra (almeno per il momento) la stagione lirica in Arena soffre sempre più l’invadenza degli eventi extra, ovvero i concerti pop e gli spettacoli televisivi a sfondo musicale che occupano l’anfiteatro per molte sere anche in prossimità dell’inizio della stagione operistica, rendendo difficile programmare le prove di coro e orchestra.

Nel gennaio 2009 accanto alla Fondazione Arena nasce Arena Extra, la società che ha il compito di occuparsi degli eventi extralirici. Direttore è Gianmarco Mazzi, fondatore della Run Multimedia che si occupa di spot e videoclip per cantanti

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dell’impiantistica relativa alle luci e al palcoscenico, mentre dal 27 marzo al 15 aprile sarà la volta del montaggio tecnico delle diverse opere. In seguito Litfiba, Tiziano Ferro, Amici, Wind Music Awards, il Gran Galà della lirica e Laura Pausini “ruberanno” l’anfiteatro al Festival lirico, lasciando ben poco tempo a tecnici e artisti per prepararsi. Dal 9 maggio al 9 giugno non si potrà provare: la prima è prevista per il 22 giugno. Il tempo è limitato: lo scorso anno siamo andati in scena senza aver provato

atti interi, come il quarto di Aida». Vista ignorata da parte di Sovrintendenza e Comune la richiesta di rimandare gli eventi extra al termine della stagione lirica estiva, alla fine del mese di maggio i sindacati erano arrivati a minacciare uno sciopero (poi revocato) in occasione del 2 giugno, serata in cui si registrava il Galà della Lirica, presentazione televisiva della 90 stagione operistica con un programma in Arena condotto da Antonella Clerici. Posto il successo notevole in ter-

Una tendenza che in realtà nasce da lontano e dai migliori propositi di mettere a valore uno degli anfiteatri più noti al mondo, riempiendolo durante i mesi di stanca, a partire da quello di settembre. Ma che negli ultimi tempi, visto il sempre più impellente bisogno di ripianare le perdite di bilancio, rischiano di rubare letteralmente la scena all’operistica. Ecco, ad esempio, il quadro disegnato da un sindacalista della Fondazione Arena lo scorso marzo al quotidiano L’Arena: «Fino al 25 marzo i tecnici si occuperanno

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Nel gennaio 2009, anno di costituzione della società Arena Extra, diretta emanazione della Fondazione Arena e della Giunta comunale, il cui compito è occuparsi dell’organizzazione degli eventi extralirici, l’allora assessore alla Cultura Erminia Perbellini (oggi la delega se l’è tenuta il sindaco), aveva assicurato che i soldi ricavati da Arena Extra sarebbero serviti a risanare i conti della Fondazione. Peccato che al 31 dicembre 2011, dopo già due stagioni di “cura televisiva”, gli utili stentino a vedersi: il bilancio 2011 di Arena Extra presenta ricavi per circa 1 milione di euro a fronte dei quali ci sono solo 125 mila euro di utili (erano ancora meno, circa 2 mila euro, nel 2010), tutti messi a riserva e nessuno passato alla Fondazione. Nelle voci che riguardano i costi, spiccano 610 mila euro per non meglio identificati “servizi”; 168 mila euro per “godimento di beni di terzi” e circa 40 mila euro di costi per il personale (la struttura di Arena Extra si risolve infatti in Gianmarco Mazzi, il direttore operativo, il cui compenso non è tuttavia deducibile dal bilancio, e qualche segretaria). Contrariamente alla credenza comune, sembrerebbe di dover concludere che con i diritti televisivi non si mangia. Per lo meno non mangia la Fondazione Arena, di cui tra l’altro non si conoscono le somme anticipate per la produzione degli spettacoli extra-lirici. In altre parole, non è mai stato chiarito in che modo e a quali condizioni il personale della Fondazione (orchestra, coro, tecnici) svolga il proprio lavoro in occasione di manifestazioni organizzate nell’anfiteatro da Arena Extra. Chi di certo conosce in profondità lo stato delle cose è Francesco Gi-

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INCHIESTA

ARENA: CONTENITORE MILLEUSI

mini di audience televisivo di tale programma (19% di share che equivarrebbero a 4 milioni e 390mila spettatori), che si ripete ormai da tre stagioni, restano dei dubbi sulla reale efficacia di questa strategia di promozione e di finanziamento della lirica veronese.


Inc hie sta Sui rapporti tra Fondazione e Arena Extra esiste un fascicolo aperto in Procura sulla base di un esposto presentato da alcuni esponenti del Partito Democratico

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rondini, il leghista con la passione dell’arte, dato che è, ad un tempo, sovrintendente della Fondazione Arena e amministratore unico di Arena Extra. A dir poco curiosa la procedura con cui viene redatto il bilancio di Arena Extra: l’amministratore unico (Girondini) recita il bilancio davanti ai soci, che sono la Fondazione Arena, la quale per l’occasione viene rappresentata dal suo responsabile amministrativo, ovvero un funzionario alle dirette dipendenze dello stesso Girondini. Per il resto, in Arena Extra non esiste collegio sindacale. Tutto regolare, per carità, ma visto che di soldi pubblici si tratta, non si può fare a meno di osservare la mancanza di un sistema di contrappesi che consenta controlli e verifiche più puntuali. Non dev’essere un caso che, per proteggere i vertici dagli strali delle opposizioni, a gestire l’ufficio stampa della Fondazione sia stato messo Roberto Bolis, il noto e inflessibile

portavoce del sindaco Flavio Tosi nonché capo ufficio stampa del Comune. Di Gianmarco Mazzi, posto fin dall’inizio alla direzione artistica e operativa di Arena Extra, le cronache raccontano gli esordi come “factotum” della Nazionale Cantanti, nel cui giro lo avrebbe introdotto il paroliere Mogol. Mazzi viene inoltre indicato vicino ai parlamentari veronesi ex An e a personaggi politici della stessa corrente di rilievo nazionale, come Gasparri e La Russa. Il grande salto lo ha fatto tra il 2003 e il 2004 diventando consulente artistico dell’allora direttore generale della Rai, Flavio Cattaneo, che gli ha spalancato le porte del Festival di Sanremo, di cui è diventato direttore artistico macinando successi e ascolti per diversi anni. La Run Multimedia, che Mazzi ha fondato proprio in quegli anni assieme al regista pubblicitario e musicale Gaetano Morbioli, è una

società di Verona dedicata alla produzione di spot e videoclip che lavora per decine di cantanti pop di grido, compresi molti dei protagonisti di Sanremo, e molti tra quelli che in questi mesi si sono esibiti in Arena, compresi gli “amici” di Maria De Filippi, con la quale da tempo Mazzi ha stretto un solido rapporto professionale. La Run Multimedia risulta avere ottenuto incarichi per la produzione dei Wind Music Awards del 27 e 28 maggio 2011 in Arena, per il Galà della lirica del 1° giugno 2011 e dell’Opera on Ice del 1°ottobre 2011. Almeno due di queste tre circostanze hanno ricevuto conferma diretta dallo stesso sovrintendente Girondini, il quale però ha precisato che i Music Awards in Arena sono stati assegnati a Run Multimedia da Wind e gli spot del Galà della Lirica direttamente dalla Rai, e non da Arena Extra. Sui rapporti tra Fondazione e Arena Extra esiste peraltro un fascico-

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lo aperto in procura sulla base di un esposto presentato da alcuni esponenti del Partito Democratico di Verona. In una intervista rilasciata al Giornale di Brescia lo scorso 28 marzo, Umberto Fanni, ex direttore artistico della Fondazione Arena licenziato da Girondini dopo la scoperta del suo doppio incarico con la Fondazione e con il Teatro Grande

di Brescia, ha dichiarato che non solo il sovrintendente era perfettamente a conoscenza della sua collaborazione con Brescia, ma che gli avrebbe pure proposto una buonuscita per chiudere lo scandalo in via bonaria. Stante a quanto affermato da Fanni, che dice di avere in mano delle carte, la somma proposta avrebbe dovuto essere liquidata proprio da Arena Extra. Affermazioni che Girondini

smentisce ma che costituiscono l’oggetto dell’indagine tuttora in corso. In particolare, il Pd chiede alla Magistratura di rispondere a tre domande: 1) Se nel revocare l’incarico a Fanni la Fondazione Arena era nel giusto, per quale motivo allora offrire denaro per un accomodamento bonario, come sostiene Fanni, che testualmente dichiara: «Non si voleva far sapere che l’ente mi pagava per

Una lenta ma inesorabile mutazione della Fondazione Arena: sempre meno basata su programmazioni e compagini stabili di artisti e sempre più orientata agli eventi, magari mediatici, da organizzare tramite società terze

Giugno 2010. Manifestazione dei lavoratori della Fondazione Arena contro i tagli del decreto Bondi e per ribadire l'importanza della cultura (Foto di Antonella Giovampietro)

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VERONA

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INCHIESTA

Inc hie sta


La risonanza mediatica data dalla televisione può servire a promuovere l’Arena e può favorire la carriera di molte persone ai vertici che possono entrare nei giri “buoni” della società, ma è sufficiente per riempire ogni sera della stagione lirica i 14 mila posti dell’anfiteatro?

l’interruzione anticipata del mio rapporto?»; 2) Come avrebbe giustificato Arena Extra il conferimento di denaro a Fanni, dal momento che quest’ultimo aveva intrattenuto rapporti con la Fondazione ma non con Arena Extra?; 3) Supposti scambi di denaro di questo tipo tra Fondazione e Arena Extra erano forse usuali? In questo intreccio di circostanze e nel fragore della polemica politica che ne consegue sembra perdersi sullo sfondo il dato di una lenta ma inesorabile mutazione genetica della Fondazione Arena: sempre meno basata su programmazioni e compagini stabili di artisti e sempre più orientata agli eventi, magari mediatici, da organizzare all’occasione, demandando a società terze il compito di farlo. Un tipo di organizzazione, quest’ultima, che non è sconosciuta

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nell’industria culturale, anzi, ma che poco sembra adattarsi ad una città come Verona che sulla base di una tradizione lirica e teatrale ha impostato istituzioni importanti, come il Conservatorio e l’Accademia. A giudicare dalla loro assenza nel dibattito pubblico, le stesse categorie economiche (industriali, commercianti e artigiani) che compartecipano alla Fondazione mediante la Camera di Commercio e che pure beneficiano delle centinaia di milioni di euro di indotto annui che la lirica riversa sul territorio, sembrano essere poco consapevoli o poco interessate al risultato di tale evoluzione. Eppure i segni della mutazione ci sono tutti: la cronica carenza di organico dell’orchestra, da cui la pratica, più volte denunciata da sindacati e maestranze artistiche, di sopperire attraverso il posizio-

namento di microfoni. Il fatto che gli stessi laboratori di scenografia interni, dove lavorano decine di professionisti molto qualificati, vengano snobbati a favore di incarichi assegnati a ditte esterne (è accaduto anche per le scenografie del Don Giovanni, l’opera con cui si è aperta questa stagione). L’assenza di qualsivoglia impegno per portare le “nostre” opere (quindi il nostro coro e la nostra orchestra) in turnee quantomeno nei territori limitrofi del Veneto. Da ultimo, e ancora più allarmante, le voci secondo cui il Teatro Filarmonico starebbe conoscendo una diminuzione di pubblico e di abbonamenti. Grave perché dal successo della stagione invernale dipende la possibilità di avere un’orchestra, un coro e un corpo di ballo stabili. Il modello organizzativo alternativo sarebbe quello di ingaggiare compagnie di giro alla bisogna, spettacolo per spettacolo,

che è pure la filosofia delle produzioni televisive. Molti dunque gli elementi di incertezza. La risonanza mediatica data dalla televisione può certo servire in fase di promozione e può favorire la carriera di molte persone ai vertici che possono entrare nei giri “buoni” della società, ma può bastare da sola per riempire ogni sera della stagione lirica i 14 mila posti dell’Arena e il teatro Filarmonico nel resto dell’anno? E garantisce di per sé i 450 euro di ricaduta media per spettatore attualmente stimati? Se lo spettacolo è principalmente televisivo e si può guardare comodamente da casa, che differenza fa che si svolga in Arena oppure in qualunque altro teatro? Domande buone per i posteri se, come sembra, i contemporanei che potrebbero farlo non se ne vogliono occupare.

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A ttualità

NUOVA ECONOMIA

«UNA CASA TUTTA NOSTRA» Apre a ottobre in zona Stadio uno spazio dove s’imparano lavoro e condivisione. È la nuova sede della Mag, la Società mutua per l’autogestione, in cui troveranno posto anche le associazioni senza fissa dimora. Un mattone costa 500 euro

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VERONA

di Fabiana Bussola Sta per nascere una casa, a Verona, con la porta sempre aperta. Sarà così per volere dei suoi proprietari e dei sostenitori del progetto, decine di persone che in passato avevano già sperimentato quanto possa fare un luogo accogliente e disponibile, rispetto alla realtà imperante che si nasconde dietro serrature e chiavistelli, fisici e mentali. Il campanello da suonare sarà quello della Mag, la Società mutua per l’autogestione che dal 1978 propone un modo diverso

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A ttualità «Crediamo nella possibilità di costruire una società più equa in cui tutti abbiano la possibilità di essere protagonisti e responsabili della propria esistenza. Riteniamo che l’economia debba essere a servizio delle donne e degli uomini che attraverso il lavoro autogestito possono realizzare le proprie aspirazioni»

di fare economia e solidarietà. In questi anni il lavoro di tante donne e uomini, impegnati a cercare di cambiare il mondo un progetto alla volta, si è svolto (e continuerà fino al trasloco previsto per metà ottobre, ndr) al Chievo, in via Aeroporto Berardi 9/A. Ma dopo molto tempo è sopraggiunto lo sfratto e l’esigenza di trovare un nuovo stabile si è fatta stringente. «All’inizio ci siamo messi in cerca di un appartamento in affitto – afferma Loredana Aldegheri, socia fondatrice della Mag –, ma ci siamo resi subito conto che il mercato non ci veniva affatto incontro. Per poter svolgere il nostro lavoro abbiamo bisogno di un po’ di spazio, per dare una sede ai diversi sportelli di consulenza, quindi non siamo riusciti a trovare qualcosa di accettabile per le nostre necessità e le nostre tasche».

Il centro servizi Mag Enti no profit, associazioni, onlus, cooperative mutualistiche, fondazioni, progetti di economia solidale e di autoimpresa: per farli nascere e sviluppare occorrono specifiche conoscenze legislative, fiscali, di accesso al credito che si possono reperire alla Mag. Il supporto può riguardare già la nascita dell’impresa sociale, a partire dall’impostazione aziendale e finanziaria dell’attività, per favorirne crescita e sviluppo. È possibile beneficiare anche del mentoring, cioè l’accompagnamento nella fase di avvio da parte di un’impresa sociale più matura. Un altro aspetto che viene seguito riguarda la consulenza per le retribuzioni di soci e collaboratori: si vagliano le caratteristiche, i costi e i benefici di ogni tipologia contrattuale di lavoro, valutando insieme ai responsabili delle imprese sociali i rapporti con i soci lavoratori, i dipendenti, i collaboratori e le associazioni di partecipazione. Per le strutture non profit, come le cooperative di lavoro, le coop sociali, di consumo, agricole, di servizi, le associazioni di promozione sociale, le onlus, le associazioni sportive dilettantistiche, le pro loco, le fondazioni possono usufruire di servizi pensati per la gestione d’impresa sociale ed è possibile anche avere una consulenza a distanza. Formazione e cultura sono elementi costitutivi della Mag, che è accreditata presso la Regione Veneto per la formazione continua. Infatti l’ufficio studi e formazione Mag, insieme alla Libera università per l’economia sociale (Lues), promuove incontri sul linguaggio dell’economia sociale, sul lavoro in rete e il rapporto tra economia locale e mondiale. Corsi specifici sono attivati anche per le tematiche di genere, con particolare attenzione al mondo del lavoro, le relazioni pubbliche e sociali. Le nuove povertà, il “saper fare” pratico e tecnico sono altri temi di forte attualità, su cui si progettano corsi e seminari, anche finanziati dal fondo sociale europeo, di approfondimento e di confronto. Dal 1993 il trimestrale AP – Autogestione e politica, informa sulle attività intraprese, sul terzo settore e offre spunti critici su temi di particolare interesse sociale. (F.B.)

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Ma a volte, come si dice, la soluzione è proprio sotto al proprio naso. E così la struttura, che già in passato aveva aiutato diverse realtà dell’economia solidale cittadina ad acquistare il proprio immobile per lavorare, ha pensato che era giunta l’ora di provare a fare un salto e cercare anch’essa di comprare casa, grazie all’aiuto delle persone. «Abbiamo deciso di attivare una campagna di azionariato popolare per comprare un appartamento in zona Stadio di circa 300 metri quadri, ammodernarlo e metterlo poi a disposizione dei quartieri vicini, del Terzo settore e dell’associazionismo». L’iniziativa, a dir poco coraggiosa in questo periodo di immobilismo economico e di crescente impoverimento, chiede ad ogni persona, fisica o giuridica, l’acquisto di un mattone al costo di 500 euro. «Siamo arrivati a 462 mattoni, ne mancano altri 488 – sottolinea Aldegheri –. Ogni azionista, diversamente da quanto accade nella finanza tradizionale, non trae vantaggi monetari, ma matura un interesse sul futuro. In questi trent’anni di attività è quello che abbiamo fatto, insieme a molte persone che sono riuscite a dar vita ad attività divenute poi rivoluzionarie. Basti pensare a quanto l’agricoltura biologica stia crescendo: quando aiutammo le cooperative Ca’ Verde e Ca’ Magre a nascere, erano davvero delle pioniere, ma adesso si può dire che la rotta è stata quella giusta. Senza la volontà e la fiducia nel cambiamento anche questa campagna di azionariato popolare non potrebbe vivere, però diciamo che invece di lasciare i soldi in banca, nelle finanziarie o in borsa, è più saggio pensare all’economia locale». Una volta ultimati i lavori di adeguamento, che prevedono anche un interessante lavoro artistico, grazie all’architetta Daria Ferrari che ha raccolto diverso materiale di recupero e sta realizzando dei mosaici ispirati all’estetica di Friedensreich Hundertwasser, la Casa

comune sarà anche a disposizione di tutti i sostenitori, coop, onlus, associazioni, che avessero bisogno di uno spazio per attività aggregative, come conferenze, riunioni, laboratori. La nuova sede metterà a disposizione anche una cucina. Ma c’è soprattutto un progetto nel progetto, l’Incubatore solidale, ovvero uno spazio fisico, con tavoli e pc, pensato per chi ha idee ma manca di mezzi e per chi invece ha risorse ma non ha eredi. «Abbiamo presentato l’idea in Camera di commercio, che si è dimostrata molto interessata – continua la fondatrice -, perché con questo progetto vogliamo aprirci anche al profit sano, quello dotato di conoscenze e passione, che però non riesce a trasferire le sue competenze ai giovani. I ragazzi, dal canto loro, potranno acquisire il saper fare delle generazioni precedenti e adeguarle alla realtà di oggi, senza dover investire risorse che non hanno». Sarà la crisi, che sembra senza uscita, sarà che certi cambiamenti richiedono tempo e maturazione, fatto sta che, nonostante Verona sia una città contraddittoria e spesso a compartimenti stagni, qualcosa sta cambiando. «Notiamo una progressiva apertura nei nostri confronti – evidenzia Aldegheri –, grazie anche alla nostra costante voglia di confrontarci con tutti. Siamo radicati nella nostra esperienza, desideriamo incontrare tutti ed essere a disposizione, ma non abbiamo mire di conversione né facciamo proselitismo ideologico. Continuando a farci conoscere, abbiamo capito che questa è la strada giusta, come stiamo sperimentando con la Casa comune. Altre strade più facili non ci sono». UN’ECONOMIA PER TUTTI Tornando a quel 1978, sembra di vedere una città diversa da oggi, forse più capace di organizzarsi e mantenere uno sguardo lungo. Allora, esponenti del sindacato e dell’associazionismo si erano attivati per segnare un nuovo percorso, in cui lo spirito di autoimpresa, di autogestione e di economia solidale potessero diventare i

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A ttualità Sono circa 250 le persone fisiche e 350 le imprese sociali, cooperative, associazioni, onlus, comitati, fondazioni, per un totale di circa 2300 persone attive in diversi settori, messi in rete grazie al supporto culturale e pratico dei servizi Mag

lineamenti costitutivi del lavoro. Primo fra i partecipanti fu l’avvocato Giambattista Rossi, che con Lino Satto, Maria Teresa Giacomazzi e Loredana Aldegheri, ancora oggi referenti principali del progetto Mag, aveva dedicato passione e competenza alla nascita della società di mutuo soccorso. Si iniziò quindi a raccogliere i risparmi dai soci per dare fiato a progetti nuovi di cooperazione, modello poi seguito negli anni dalle altre sei Mag presenti a Milano, Reggio Emilia, Torino, Venezia, Roma, Firenze, e anche dal movimento nazionale della Finanza Etica. In pochi anni si comprese che era necessario dare un sostegno robusto al desiderio di segnare una strada differente, così nel 1982 nacque la cooperativa Mag Servizi, un centro di servizi associati promosso in relazione con Legacoop Veneto, che tuttora offre alle nuove imprese sociali competenze e consigli pratici per farle crescere in cultura, spirito d’impresa, competenza amministrativa e forza economica.

Con Mag Mutua per l’autogestione, inoltre, si è offerta una formazione professionale di qualificazione e riqualificazione relativa all’impresa sociale, degli incontri di approfondimento culturale, grazie alla collaborazione con la LUES, la Libera università dell’economia sociale, specie su temi relativi al lavoro di rete e il supporto tra economia locale ed economia globale, le nuove povertà e le differenze di genere nel mondo del lavoro. Oggi sono circa 250 le persone fisiche e 350 le imprese sociali, cooperative, associazioni, onlus, comitati, fondazioni, per un totale di circa 2300 persone attive in diversi settori (come la finanza etica, i servizi di cura, l’agricoltura biologica, la produzione manifatturiera, il commercio equo, le attività culturali e di welfare), messe in rete grazie al supporto culturale e pratico dei servizi Mag. “Crediamo nella possibilità di costruire una società più equa e più giusta in cui tutti abbiano la possibilità di essere protagonisti e responsabili della propria esistenza. Riteniamo che l’econo-

mia debba essere a servizio delle donne e degli uomini che attraverso il lavoro autogestito possono realizzare le proprie aspirazioni”, si legge nel documento relativo alla mission costitutiva. Un’identità che viene ribadita e attualizzata anche nell’ultimo editoriale di AP – Autogestione politica prima, il trimestrale con cui la Mag informa soci e sostenitori, firmato da una delle anime fondatrici, Maria Teresa Giacomazzi. «Anche ora possiamo uscire dalla follia collettiva se diffusamente re-iniziamo ad interrogarci sul perché il nostro denaro tentiamo di metterlo al sicuro nei posti oggi più incontrollabili del mondo». L’invito ai gesti “concreti, liberatori, felici” per “avviare un progetto sociale, un lavoro, una micro-impresa, direttamente, senza intermediazioni, riscoprendo la gioia della fiducia nelle possibilità concrete di un tessuto relazionale di prossimità e di mutualità”, steso nell’editoriale, non è un richiamo utopico, anche se di un po’ di sogno ci si deve pur nutrire, ma una scommessa spesso vinta.

L’architetta Daria Ferrari al lavoro durante la posa di un mosaico nella nuova sede della Mag in zona Stadio

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VERONA

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A ttualità FINANZA ETICA E MICROCREDITO

Loredana Aldegheri, socia fondatrice Mag Verona

Dare gambe alle capacità individuali significa anche finanziarle. A fronte di una realtà sociale in cui l’impoverimento tocca fasce trasversali, si è scelto di dare avvio nel 2005 al progetto “Equal Ec.co.mi”, grazie al quale è stato aperto uno sportello di microcredito. Il servizio è nato grazie alla collaborazione di alcune associazioni veronesi, come Acli, Arci, Ronda della Carità, e l’assessorato cittadino ai Servizi sociali, e attualmente l’attività è condotta da un’operatrice e da un gruppo di volontari. La convenzione sottoscritta con la Banca del Credito Cooperativo della Valpolicella e Banca di Verona BCC di Cadidavid permette di offrire a persone e piccole imprese piccoli finanziamenti, che il circuito bancario tradizionale non eroga, classificando una grande fetta della società tra i “non bancabili”. Con il microcredito invece si

Chi può accedere al microcredito Possono richiedere un servizio di microcredito le persone, fisiche o giuridiche, che vivono od operano nel comune di Verona, nei comuni immediatamente limitrofi e nella provincia. Si può essere di qualunque nazionalità, ma occorre il permesso di soggiorno in corso di validità e/o la cittadinanza italiana. A motivare la richiesta possono essere difficoltà economico-finanziarie, causate da un basso reddito, e nel caso si debbano affrontare situazioni di emergenza, oppure l’intenzione di realizzare un progetto lavorativo – o di ampliarlo – per diventare autonomi e risolvere una situazione di precarietà. Il percorso per giungere all’erogazione del prestito deve passare diverse fasi, dall’accoglienza della richiesta, passando per l’istruttoria sociale ed economica, la condivisione del percorso d’accompagnamento con le garanzie solidali (la persona che si coinvolge come garante del prestito), la presentazione del mutuarlo all’istituto di credito, che dovrà quindi deliberare il prestito e poi erogarlo. Infine, ma fondamentale, il monitoraggio del percorso con periodici incontri di valutazione. – Si finanziano i soggetti in base ai criteri stabiliti dal progetto ed entro le cifre massime di €3.500

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per le persone fisiche e € 20.000 per l’avvio o per la riqualificazione di un’attività lavorativa – La durata del prestito è definita con il richiedente in base all’entità del prestito e alle possibilità di restituzione, con un massimo di 5 anni per l’avvio d’impresa, un massimo di 3 anni per il prestito al consumo – Le rate di rientro possono essere mensili, bimestrali o trimestrali – In casi specifici è possibile un periodo, della durata massima di sei mesi, in cui si versa la sola quota interessi e non la quota capitale – Tasso d’interesse annuale intorno al 5% o 6.5% – Spese di istruttoria pratica di 50 €qualora il prestito venga erogato. – I prestiti non sono elargizioni a fondo perduto, richiedono pertanto forme di garanzia compartecipate con l’aiuto della rete di relazioni. Un fondo di garanzia è stato costituito nel 2008 grazie ad un contributo della Fondazione CariVerona e dell’Assessorato al Bilancio del Comune di Verona. Coloro che sono interessati possono contattare la Mag all’indirizzo e-mail: microcredito@magverona.it (F.B.)

possono finanziare le persone fisiche per un minimo di 500 euro fino a un massimo di 3.500, mentre le attività produttive possono arrivare fino a 20.000 euro, da destinarsi o all’avvio dell’impresa o al suo rinnovo. Inoltre, è possibile ricevere un prestito d’emergenza per le persone e le famiglie che attraversano una difficoltà temporanea. Lo scopo del microcredito è molteplice, perché se pone al centro l’individuo e il suo bisogno, con il fine di promuoverne le capacità personali e limitare, se non eliminare completamente, l’accesso all’assistenza sociale, favorisce e incrementa la rete d’aiuto. Le relazioni umane diventano quindi il vero capitale intangibile che permette al denaro di valutarsi: infatti, accanto al beneficiario c’è sempre una figura, da individuare tra le amicizie o i rapporti di vicinanza, che garantisce la metà del prestito concesso. Così non solo si tutela l’erogazione del prestito, perché la mancata restituzione comporterebbe una diminuzione del fondo di garanzia presso le banche convenzionate, ripercuotendosi quindi sulla stessa attività del microcredito, ma si fa capire al beneficiario che non è solo di fronte al suo impegno. Le persone garanti, dal canto loro, non compartecipano soltanto al rischio, ma soprattutto condividono il raggiungimento di un obiettivo importante. Nel 2011 sono stati 282 i colloqui allo sportello del microcredito, con 208 nuovi casi di cui 62 per l’avvio di impresa e 143 per prestiti d’emergenza. Sono stati erogati 11 prestiti per un totale di 23.510 euro. Dal 2005 lo sportello ha incontrato 1434 persone ed erogato 111 prestiti, per un ammontare di 323.510 euro. È ancora più vero allora che la Mag «non è la crocerossina del sistema – conclude Aldegheri -. Le cose che facciamo sono pensate per il cambiamento dello stile di vita e dell’economia globale, che metta a centro il valore di cura, sociale e umano». E il desiderio di un nuovo corso può trovare accoglienza in una casa aperta e solidale.

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AMBIENTE

La sentinella ambientale si chiama Q-Cumber Integrato con la tecnologia di Google Maps, questo sistema che gira sulla rete e a disposizione di tutti è nato 14 anni fa da un’idea dell’ingegnere Giuseppe Magro, presidente IAIA Italia (International association for impact assessment)

di Luca Comoretto www.q-cumber.org è l’indirizzo internet del nuovo social-forum dell’ambiente che permette di confrontare gratuitamente – una volta iscritti – disagi, problemi territoriali, emergenze e impressioni sulla propria città e regione.

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Integrato con la tecnologia di Google Maps, Q-Cumber è nato 14 anni fa da un’idea dell’ingegnere Giuseppe Magro presidente di Iaia (International association for impact assessment) Italia, che negli ultimi tre anni ha lavorato alla sua realizzazione puntando non solo a creare uno stru-

mento per poter condividere dati ambientali, ma anche un sistema veloce e capillare per leggere i piani regionali e comunali del proprio territorio. Una volta creato il proprio account, infatti, è subito possibile utilizzare la categoria “Geopost”: cliccando sulla mappa della zona

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A ttualità «L’idea di Q-Cumber l’ho avuta fin da giovanissimo quando ero vice sindaco di un paesino» spiega l’ingegnere Magro. «Un mezzo come Q-Cumber è un ponte concreto tra la politica e i cittadini, che permette a tutti di intervenire democraticamente su un tema tanto importante come l’ambiente»

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interessata, l’utente può segnalare con commento e foto un problema ambientale a sua discrezione visibile da tutti gli altri iscritti che possono replicare liberamente se in disaccordo. Altra funzione disponibile sono i segnalatori delle “puzze”, ovvero odori insoliti presenti nell’aria di una particolare zona abitativa o lavorativa che gli internauti possono descrivere, e degli “stressor”, cioè impianti e infrastrutture che impattano negativamente sull’ambiente, sulle scuole e gli asili. On line dal 3 febbraio, Q-Cumber per ora contiene circa 15 milioni di dati sulla Lombardia ma anche a Verona cominciano a comparire i primi internauti interessati a caricare informazioni su città e provincia, riguardo temi quali il traforo e l’inceneritore di Ca’ del Bue. «L’idea di Q-Cumber l’ho avuta fin da giovanissimo quando ero vice sindaco di un paesino» spiega l’ingegnere Magro. «Un mezzo come Q-Cumber è un ponte concreto tra la politica e i cittadini, che permette a tutti di intervenire democraticamente su un tema tanto importante come l’ambiente». Attualmente Q-Cumber è utilizzato anche dalla Provincia di Brescia e dalla Regione Lombardia, dove gli amministratori possono leggere commenti e suggerimenti

Come si presenta in rete il sistema ideato dall’inge. Giuseppe Magro

dei cittadini con un semplice clic. «Il fatto che i comuni comincino a interessarsi a un mezzo come QCumber è un traguardo enorme» continua Magro. «La gente prova grande sfiducia per il mondo della politica e questo è un male, purtroppo. Ogni cittadino è interessato all’ambiente, forse oggi più che mai, ma spesso proprio la politica ignora la voce di chi protesta per una discarica o per delle strutture dannose per tutti. Con Q-Cumber speriamo di aiutare chi governa a fare sempre meglio per ascoltare i bisogni reali delle persone». Il cetriolo (questa la traduzione

dall’inglese di Q-cumber) guarda anche oltre l’Italia: a interessarsi a questo nuovo social forum ambientale, infatti, ci sono anche altri Paesi. «Un forte interesse è arrivato da Argentina e Africa, tanto per dirne due» rivela Magro. «La cosa a cui però tengo di più sono i contatti che con Q-Cumber si possono creare: possono nascere relazioni tra città e città, tra paese e paese, tra stato e stato. Questo per l’ambiente vuol dire molto, perché se tutti ci interessiamo di quello che ci circonda di sicuro le cose non possono che andare meglio».

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Inte rv ista GIORNALISTI

Di Isabella Zacco La cattiva notizia è che l’Italia nel 2011 è scesa dal 72° al 75° posto nella classifica mondiale sulla libertà di informazione; in poche parole siamo una “democrazia a parziale libertà di stampa”. Ma c’è anche chi rischia ogni giorno per portare alla luce alcune scomode verità, lavorando sul campo, attraverso inchieste e reportages, andandosela a cercare questa verità, al di là dei comodi salotti dei talk show, al di là delle parole strillate e accavallate a quelle degli avversari. Quale è dunque la via alla corretta informazione? Ne parliamo con l’organizzatore del ciclo di incontri Vedo, sento…parlo e racconto?, Pierpaolo Romani, Coordinatore nazionale di Avviso Pubblico. Enti Locali e Regioni per la formazione civile contro le mafie. – Cominciando da un tema attuale, che sta coinvolgendo anche l’informazione: quale dovrebbe essere l’etica aziendale per un buon giornalista? occultare la verità se questa porta a danneggiare l’azienda? «Con riferimento all’articolo 41 della Costituzione, l’azienda non deve pensare esclusivamente al suo interesse, al profitto, ma soprattutto all’utilità sociale. Per quanto riguarda la RAI questo significa garantire un’informazione di qualità, ad esempio attraverso inchieste che mettano in luce le verità nascoste». – Ci sono stati casi “storici” di epurazioni, come quelle di Biagi e di Santoro: giornalisti divenuti scomodi, pur essendo di grande talento… «Il giornalista scomodo non è una prerogativa italiana, lo troviamo anche in altri Paesi (Ungheria, Russia, etc); meglio va in questo momento in Germania: mentre in Italia si discuteva della legge-bavaglio, là approvavano una legge che era proprio l’opposto. Il giornalista scomodo è spesso un professionista competente e sensibile, che non si limita a raccontare i fatti, ma tenta anche un’analisi, è documentato, e proprio per questo va a toccare interessi politici e finanziari. Contro l’epurazione l’arma vincente è la mobilitazione».

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La schiena sempre dritta Pierpaolo Romani: l’informazione tra coraggio e coscienza civile: «Se sappiamo di più siamo più liberi e capaci di scegliere, di rispettare valori come l’impegno, la partecipazione, la cultura»

Pierpaolo Romani

«Il giornalista scomodo è spesso un professionista competente e sensibile, che non si limita a raccontare i fatti, ma tenta anche un’analisi, è documentato, e proprio per questo va a toccare interessi politici e finanziari. Contro l’epurazione l’arma vincente è la mobilitazione» – L’informazione, per essere buona, deve essere corretta, plurale e libera. Ma proprio quel plurale ha generato a volte confusione. Non c’è eccessiva ingerenza, non c’è abuso e distorsione del concetto di “par condicio” in molti programmi televisivi di informazione? «Se il pluralismo è inteso come par condicio e l’informazione diventa

anche spettacolo, quello che ne consegue sono quelle infinite risse e diatribe inutili, in cui vince chi urla di più. Ma oggi l’ascoltatore dispone di Internet e dei social network, ha più informazioni, può andarsi a scegliere l’informazione con più senso critico. Occorre capire chi sono i “proprietari” di certa stampa e certi programmi e compiere una scelta

critica a monte. La pluralità è quindi, oggi, qualcosa che bisogna andarsi a cercare, e questo vale soprattutto per i giovani». – Svolgere inchieste comporta un rischio. Quanto questo rischio spaventa (vale come esempio l’esperienza sul campo di Anna Politkovskaja) e quanto invece stimola ad andare avanti e rompere muri di omertà? «È emblematico il caso di Giovanni Tizian, un giovane e bravo giornalista di 29 anni, precario, ma capace di fare il suo mestiere fino in fondo: vive e lavora a Modena, ma è nato in Calabria, da dove è dovuto andarsene. In questi casi bisogna chiedersi: cosa abbiamo fatto perché questo non accadesse? Esiste una rete a tutela del giornalismo di inchiesta, “Ossigeno per l’informazione”, diretta da Alberto Spampinato, che stila un rapporto annuale sui giornalisti minacciati. Anche qui occorre sentirsi co-responsabili: è importante che i giornalisti coinvolti nei vari casi si mantengano vicini». – Informazione e conflitto di interessi… «Sicuramente un governo senza il problema del conflitto di interessi è il presupposto per una migliore informazione. La via da seguire è sempre quella: promuovere la cultura, la crescita civile, la lotta all’evasione fiscale e alla corruzione. Non dobbiamo aspettare domani ma fare ora dei passi, assumerci delle responsabilità, dare dei modelli ai giovani perché capiscano che non sono la furbizia o la raccomandazione il motore del cambiamento». – Come mai sono pochi i buoni programmi di informazione: per la paura dei giornalisti di ricevere querele? «È un problema di impostazione generale del sistema radio-televisivo italiano. La BBC, ad esempio, manda in onda alle 20 i documentari su come vivono i bambini in Palestina, anziché il gioco dei pacchi o la telenovela. La differenza sta qui: nel parlare di problemi reali. Se sappiamo di più siamo più liberi e capaci di scegliere, di rispettare valori come l’impegno, la partecipazione, la cultura».

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Inte rv ista PROFESSIONE AVVOCATO

Da Verona a Strasburgo La storia professionale dell’avvocato Antonella Mascia inizia in riva all’Adige, dove apre uno studio legale occupandosi di diritto civile, diritto di famiglia, diritto ambientale e diritto dei migranti. Poi il grande salto

«Sono una donna, voglio lavorare con i miei tempi, le mie sensibilità, la mia femminilità, la mia intelligenza. Voglio trasmettere le mie conoscenze ai più giovani, perché è questo l’unico modo per contribuire al cambiamento»

di Cinzia Inguanta La storia della veronese Antonella Mascia, avvocato giurista presso la Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, è emblematica per molte ragioni. Prima di tutto è la storia di una donna, con una forte passione civile, che da sola è riuscita a costruire un percorso professionale di altissima rilevanza, che per riuscire ad esprimere le sue potenzialità ha dovuto lasciarela sua città, che tra mille difficoltà è riuscita a conciliare la vita familiare con quella professionale, che continua ad amare il suo paese e a combattere per i valori in cui crede. La sua storia professionale inizia a Verona, dove apre uno studio legale occupandosi principalmente di diritto civile, diritto di famiglia, diritto ambientale e diritto dei migranti. Per motivi personali si trasferisce a Strasburgo. «A Strasburgo – racconta Mascia – ho iniziato tutto daccapo, con il sogno di avere un altro figlio, che poi non è arrivato, e di stare vicino a quello che avevo. A Verona non riuscivo a fare bene, contemporaneamente, la mamma e l’avvocato. Mi sentivo lacerata tra due realtà che mi appassionavano e in cui credevo profondamente. Dopo un paio

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Antonella Mascia

d’anni di permanenza a Strasburgo ho ripreso a lavorare. Nel frattempo avevo imparato il francese, avevo conosciuto qualche amico/a, avevo trovato casa e amici per il mio bambino. Avevo speso tutte le mie energie e il mio entusiasmo per fare in modo che la mia famiglia si ambientasse bene nella nuova città». Nel 2003, la svolta con uno stage di tre mesi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo: «Avevo 42 anni, ero stata avvocato per 11 anni, l’ambiente era fatto di gente più giovane e senza la mia esperienza. Penso che la mia umanità e le mie capacità mi abbiano aiutato in quei tre mesi. In seguito infatti, ho avuto la possibilità di essere assunta, anche se a tempo determinato, ininterrottamente sino al luglio 2007. Ho lavorato molto, ho conosciuto bene il sistema della Convenzione, la Corte. Facevo parte della Cancelleria, una bella “macchina da guerra”, con tut-

ti i pro e contro. Per la prima volta lavoravo con tante persone, ero parte di un meccanismo. Mentre ero alla Corte ho conseguito anche un master in diritto internazionale, diritti dell’Uomo, presso l’Università R. Shuman di Strasburgo. È stata una bella esperienza, ho potuto conoscere delle persone eccezionali, speciali perché si occupavano di diritti umani». Dal luglio 2007 fino a dicembre 2009, Mascia lavora al Consiglio d’Europa, al CPT (Comitato Prevenzione Tortura), alla divisione penale del servizio legale del Consiglio d’Europa. Infine, diventa giurista presso il Segretariato dellaCommissione europea per la Democrazia attraverso il diritto (la Commissione di Venezia), dove svolge attività di ricerca giuridica, predispone rapporti e coordina, in qualità di responsabile, i seminari UniDem Campus a Trieste. Ma non è ancora abbastanza perché come ci spiega «Nel frattempo ho coltivato un altro sogno. Quello di

tornare a fare l’avvocato. Nel 2008, ho aperto un blog sui diritti fondamentali, perché, per me, era importante mettere “in circolo” quello che sapevo. Il blog si chiama “Diritti fondamentali, quale tutela?” (www.antonellamascia.com). Nel 2010 ho ricominciato a fare l’avvocato. Una nuova strada e tante incertezze. Ero sulla soglia della cinquantina, di nuovo tutto daccapo. A novembre 2010 ho aperto lo studio legale a Strasburgo e ho iniziato a collaborare con lo studio ALV Avvocati Associati di Verona. Mi occupo di diritti fondamentali, presento ricorsi alla Corte europea su questioni diverse, nuove, che sono importanti, che possono permettere al mio Paese di migliorare, che possono dare la percezione che non si può rinunciare, mai, al rispetto della dignità umana. È un lavoro tutto nuovo, che invento tutti i giorni, su basi completamente diverse dagli schemi classici imposti normalmente dall’ambiente professionale da cui provengo, che trovo molto soffocante per certi aspetti. Sono una donna, voglio lavorare con i miei tempi, le mie sensibilità, la mia femminilità, la mia intelligenza. Voglio trasmettere le mie conoscenze ai più giovani, perché è questo l’unico modo per contribuire al cambiamento».

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Cultura L’ARTE DEL FABBRO

Il ferro si piega sotto le mani del maestro La prima scultura che Gino Bonamini ha firmato raffigura Giulietta e Romeo e ora si trova in Russia. Un'altra creazione è finita nelle mani di Giovanni Paolo II

di Marta Bicego Figure esili che sembrano quasi fluttuare nell'aria, con un'assoluta leggerezza. Sono animali o corpi umani dalle delicate movenze che si esprimono quasi danzando nella torsione di un busto, nell'allungarsi di un braccio, nel reclinarsi del capo. A voler ben guardare, non sembra nemmeno ferro la materia che dà origine alle creazioni di Gino Bonamini. Scultore-artigiano settantaseienne, vive e opera a Cogollo di Tregnago dove prosegue la vita di bottega e porta avanti con passione (riconosciuta da numerosi premi e riconoscimenti) il mestiere imparato da un maestro illustre quale era Berto da Cogollo. Nella «fucina di Vulcano» Bonamini ha messo piede concluse le scuole elementari, quando era appena dodicenne, dopo aver visto alcuni lavori firmati dall'artista della vallata. «Allora le professioni tra cui scegliere non erano molte: falegname, calzolaio, fabbro... Riconosco di essere stato fortunato ad aver avuto questa opportunità» esordisce lo scultore, con fare riservato. Prosegue nel sottolineare che «erano altri tempi, senza troppe complicazioni, nei quali tra apprendisti ci si trovava addirittura in diciassette a lavorare sotto lo sguardo attento del maestro. "Fai così!", diceva. E già a diciotto anni sapevo realizzare tabernacoli». Andando a bottega, infatti, c'era molto da imparare: non si guadagnava nulla, certo, ma la preparazione era il

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punto di partenza fondamentale per qualsiasi giovane motivato a padroneggiare la professione. A scandire le giornate era soprattutto l'entusiasmo, grazie al quale la decorazione di una chiave diventava per il gruppetto di aspiranti artigiani un esercizio di precisione: nel realizzare riccioli, nel disegnare trame geometriche, nel creare motivi originali che potessero attirare l'attenzione del maestro. «Non c'è nulla che non si possa fare con il ferro» dice, ma nel forgiare la materia a caldo ci vuole mano precisa. Altrettanta abilità è necessaria nella tecnica dello sbalzo e del cesello, che si pratica con piccoli scalpelli per definire i minimi particolari di una creazione, proprio come avviene per gli oggetti di oreficeria. Che si tratti delle piume di un'imponente aquila dalle ali spiegate (come quella realizzata per il Monumento ai caduti alpini di Bovolone) o dei particolari visibili sul volto di un Crocifisso (per esempio il Cristo morente nella parrocchiale di Cogollo o quello nella cattedrale di Kampala in Uganda). Alcune opere realizzate da Bonamini, di soggetto prevalentemente sacro, sono rimaste in Italia e nel Veronese, altre hanno varcato i confini nazionali per raggiungere America, Francia, Svezia, Germania. In Russia è finita la prima scultura che l'artigiano del ferro ha firmato: raffigura Giulietta e Romeo ed è un primo esempio del linguaggio originale maturato dall'artista di Cogollo;

Gino Bonamini

un'altra sua creazione è stata consegnata nelle mani di Giovanni Paolo II, a Roma. «È la mano che lavora per modellare, oltre al ferro, anche argento, rame, ottone» ci tiene a precisare Gino Bonamini mostrando una fotografia in bianco e nero scattata quando (era il 1951) le telecamere della Rai avevano raggiunto la vallata veronese per filmare l'abilità degli artigiani di Cogollo. Compreso quel ragazzo con il basco in testa e la camicia dalle maniche arrotolate sopra ai gomiti, che sapeva già maneggiare abilmente il martello. «È la mano che lavora – ripete – e non la macchina, come accade purtoppo ai giorni nostri. Per essere del mestiere servono tecnica, intuito, precisione che si acquisiscono con pazienza e quotidiano impegno» spiega. Non deve mancare neppure la capacità di saper trasformare in scultura – dallo stile più classico a quello moderno – un'idea

che trae ispirazione dalla fede, dall'arte oppure dalla vita di tutti i giorni: dal busto di San Giovanni Calabria visibile al Centro don Calabria al Monumento El Bogon che accoglie i visitatori che arrivano a Sant'Andrea di Badia Calavena; dall'urna contenente le spoglie della Beata Madre Maria Domenica Mantovani a Castelletto di Brenzone al Monumento alla castagna che si trova a San Mauro di Saline; dal Soldato ferito del Monumento ai caduti di Bolca all'opera grandiosa Beato Fra Claudio Scultore di Chiampo. È l'abilità dello scultore che vince sulla durezza della materia, rendendola malleabile, con effetti sorprendenti. www.ginobonamini.it

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Cultura PITTURA

Il talento e i colori per vincere la malattia Non è una convivenza facile quella tra un giovane pieno di interessi come Alberto e la terribile patologia che, giorno dopo giorno, gli ha immobilizzato gambe e braccia. Ma i pensieri restano liberi...

di Marta Bicego Grazie al colore, Alberto Fiocco, ha ritrovato la voglia di vivere. Un colpo di pennello sulla tela si trasforma così in un efficace antidoto contro la distrofia muscolare di Duchenne che da diversi anni costringe il ventiseienne su una sedia a rotelle, con un ventilatore che lo aiuta a respirare meglio. Non è una convivenza facile quella tra un giovane pieno di interessi come Alberto e la terribile patologia che, giorno dopo giorno, gli ha immobilizzato gambe e braccia. Ma non i pensieri, che trovano espressione nella pittura oltre che tra le righe di scritti e poesie. «Con il colore ho ritrovato la voglia di vivere e i miei semplici quadri parlano di serenità e amore per la natura. Di tutto ciò che sento nello scorrere dei miei giorni, ognuno diverso dall'altro, ma tutti importanti per me» esordisce Alberto. A riempire la sua casa ci sono infatti alberi in fiore, prati e paesaggi della Lessinia, cieli azzurri solcati da grandi nuvole bianche che lasciano spazio al blu della notte: particolari scrutati dal finestrino dell'auto o dalla finestra di casa per poi essere tradotti in opere a olio, su cartoncino telato. In tutto una trentina di creazioni che, già in due occasioni (una collettiva nelle sale parrocchiali del quartiere borgo Santa Croce, nel 2010, e una personale a Castelvecchio, a marzo dello scorso anno),

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hanno raccontato ai visitatori la storia di Alberto. Un percorso costituito attraverso molteplici tappe: dalla scoperta della malattia all'accettazione, dalla lotta contro l'indifferenza delle persone («mi sento abbandonato dalla società che mi fa sentire handicappato e scomodo» dice, senza usare mezzi

Alberto Fiocco

termini) alla sofferenza fisica, dalla denuncia della mancanza di luoghi adeguati all'assistenza di chi soffre di patologie neuromuscolari alla solitudine, fino alla serenità che per il giovane creativo coincide anche con scoperta dell'arte. L'incontro con la creatività è stato quasi casuale, racconta: complice un album che ha iniziato a colorare sui banchi di scuola, alle medie "Giuseppe Verdi", con l'aiuto di una professoressa che ha intuito le

doti artistiche di Alberto facendogli impugnare i primi pastelli. In seguito ha iniziato a utilizzare i pennarelli e la china, quindi gli acquerelli, infine le tinte a olio. Con la pratica, ha imparato a creare sfumature, ombre e luci, tracce lucide e opache per delineare paesaggi, nature morte, disegni geometrici o stilizzati. Un universo di segni e macchie variopinte realizzate, talvolta, soffiando il colore con una cannuccia sulla tela quando le condizioni fisiche gli impedivano di servirsi delle mani. Al fianco di Alberto, ci sono ogni giorno papà Daniele e il fratello Michele, oltre a un'assistente che non esita a definire speciale: è mamma Rosanna. «A lei devo tutto: non la disperazione, ma la serenità. Insieme, con forza e coraggio, abbiamo superato momenti difficili della malattia. Ce l'abbiamo fatta in tante occasioni, trovando ogni volta qualcosa di nuovo da fare che mi stimolasse a vivere. Con lei ho studiato, mi sono diplomato e iscritto all'università. Assieme a lei dipingo». E, in tante notti insonni trascorse nella stanza del figlio, è stata proprio Rosanna a battere pazientemente sulla tastiera del computer fogli e fogli che raccontano la vita di Alberto. «È un'autobiografia, che ho iniziato a scrivere ancora quando frequentavo le scuole superiori. Prima registrando con un microfono, poi facendomi aiutare da mia mamma nella trascrizione o nella

successiva revisione». È una raccolta di testi e poesie che, anticipa Alberto con emozione, verrà presto consegnata alle stampe. Parole che si aggiungono al colore, creando un connubio straordinario: «Colorare la vita, nella mia situazione, non è da tutti» confessa, regalandoci qualche frase rubata dalle bozze della sua prossima pubblicazione. Ma, conclude, «vorrei continuare a dipingere, affinchè la mia avventura arrivi al traguardo, nel migliore dei modi».

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SCAVI SCALIGERI

Capa: alle origini del fotogiornalismo Il più grande fotografo di guerra di ogni tempo è riuscito nel difficilissimo compito di raccontare orrori e atrocità senza cadere nel macabro La scelta di raccontare la guerra da “dentro”, ci ha restituito grandi capolavori di narrazione dove ciò che sconcerta di più sono l’intensità e la quotidiana semplicità di vite intere sintetizzate in un singolo scatto

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di Francesco Passarella Endre Ern Friedmann, alias Robert Capa, fondatore con gli amici Cartier-Bresson, Seymour e Rodger dell’agenzia fotografica Magnum, è a pieno titolo annoverato tra i grandi della fotografia, anche se voleva fare lo scrittore. La sua passione per la narrazione l’ha reso uno dei grandi del fotogiornalismo: le sue foto, prima di tutto, raccontano, con acume e quel giusto equilibrio tra pathos, realismo e rispetto per l’umanità,

che contraddistingue il giornalismo d’eccellenza. Condensano in un istante un evento intero nel momento del proprio culmine. E perciò molti suoi capolavori sono diventati il simbolo della guerra, attraverso le copertine di testate come Life e Picture Post. Bob Capa non era un fotografo, ma un fotogiornalista. Certo, i suoi famosi ritratti agli amici Matisse, Picasso, Hemingway dimostrano tutto il suo talento fotografico. Ma, più di tutto, Capa sapeva raccontare. Nelle sue immagini si

legge l’origine, l’intuizione, il modello per i milioni di scatti del fotogiornalismo dopo di lui. Il suo approccio alla ripresa, condensato nella celeberrima frase “se le tue fotografie non sono abbastanza buone, non sei abbastanza vicino”, non va banalizzato, perché chiama in causa le responsabilità del giornalista nei confronti dei lettori e della società in generale. La scelta di raccontare la guerra vivendola, da “dentro”, ci ha restituito grandi capolavori di narrazione dove ciò che sconcerta

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Cultura La collocazione agli Scavi Scaligeri, splendido “scantinato” di Verona, è particolarmente opportuna: Robert Capa ha iniziato la sua carriera in camera oscura e, come sanno bene molti fotografi non più giovanissimi, le camere oscure stavano negli scantinati, bui e umidicci, odoranti di acido acetico e sviluppi, illuminati dalla fioca lampadina rossa o ambra che gettava sinistre ombre su bacinelle, ingranditori e stampe appese: roba d’altri tempi di più sono l’intensità e la quotidiana semplicità di vite intere sintetizzate in un singolo scatto. A dispetto dei paparazzi che, con i loro teleobiettivi, ritraggono fatti destinati a rimanere lontani da sé e dal lettore. I passanti che corrono verso il rifugio antiaereo, guardando preoccupati verso il cielo funestato dai bombardieri, sono così tragicamente veri perché Capa era tra loro, a pochi metri, anche lui in

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cerca di riparo. Un occhio alla fotocamera e l’altro a scoprire come mettersi al riparo. Il ruolo del fotogiornalista, per Capa, era quello di chi si cala nella realtà, la vive e, solo allora, la racconta. A dispetto di chi lo bolla di temerarietà, Capa amava la vita, l’amava e la rispettava, come è evidente nelle sue istantanee. Però, ha assunto fino in fondo il ruolo che il destino gli ha affidato, e ha deciso di raccontare a tutti l’orrore della guerra da dentro. Sino a restarne vittima. Come scrisse il suo amico Steinbeck, Capa “sapeva che non si può fotografare la guerra, perché si tratta per lo più di un’emozione. Ma lui riuscì a catturare quell’emozione scattando accanto a essa”. Il più grande fotografo di guerra di ogni tempo, è riuscito nel difficilissimo compito di raccontare orrori e atrocità senza cadere nel macabro, nel disgustoso, mantenendo quel rispetto per le vittime che non può essere subordinato al dovere di cronaca. Quando decide di fotografare l’artigliere appena ucciso sul balcone davanti a lui, sceglie di restituirgli la dignità di persona, limitandosi a raccontare i fatti, senza aggiungervi nulla: inquadratura asettica, quasi distaccata, ferma. Quando, molto più frequentemente, fotografa i vivi, invece, utilizza inquadrature soggettive, coinvolgenti, che invitano ad entrare negli eventi e a viverli. Lasciando al lettore l’ultimo giudizio. Pur avendo visto la morte da vicino non ci si è mai abituato. E per questo si rifiuta più volte di fotografare i campi di concentramento, perché non riesce sopportare, da uomo, da ebreo, l’orrore della tragedia umana che vi ha abitato. Molto emozionanti, tra i suoi scatti più famosi, le fotografie dello sbarco in Normandia. Capa, estremamente coraggioso, è sceso dalle navi con i soldati, con l’acqua sino al petto, tra il sibilare impietoso dei proiettili, armato solo della sua fotocamera. Sarebbe riduttivo bollare questo come atto di incoscienza: il fotografo ha scelto di essere lì perché stava facendo il suo dovere, esattamente come i soldati attorno a lui. Il destino, lo stesso che ci ha resti-

tuito da pochi anni molti scatti che si credevano perduti, ha voluto che quasi tutte le sue foto di quel momento svanissero. La cronaca parla di errore di asciugatura di un tecnico maldestro. Chi ha esperienza di camera oscura può pensare più probabile un errore causato dall’emozione di chi si trova di fronte ad immagini uniche e formidabili. Il complesso dell’esposizione agli Scavi Scaligeri è molto emozionante: la mostra è ben curata e allestita, con stampe di altissima qualità e luci opportunamente gestite. Condivisibile ed efficace la scelta dell’ordine cronologico per le foto di cronaca che consente di seguire la produzione di Capa con le sue evoluzioni tecniche e artistiche. Molto emozionante l’ultima sala riservata agli scatti “familiari”, i ritratti dell’artista e di amici famosi, piccoli scampoli di vita ordinaria in un’esistenza tumultuosa. Unico neo, l’assenza di cenno, nell’esposizione, alla polemica che circonda la famosa foto del miliziano morente nella guerra civile spagnola che, secondo alcuni, sarebbe stata costruita ad arte. Capa stesso affermò: “Per scattare foto in Spagna non servono trucchi, non occorre mettere in posa. Le immagini sono lì, basta scattarle. La miglior foto, la miglior propaganda, è la verità”. Chi ha visto le sue opere non fatica a capire quanto tale episodio sia marginale, ma, per rispetto allo stesso autore e alla dignità che ha regalato al fotogiornalismo, sarebbe stato giusto darne conto nella mostra, e non solo nelle cartelle stampa. Magari nella didascalia. Sarebbe molto interessante, se Capa fosse ancora vivo, quasi centenario, sentire la sua opinione sul fotogiornalismo nell’era del digitale. Quel giornalismo responsabile che ha fatto storia e che ha contribuito a costruire. L’esposizione, da vedere almeno una volta, sarà agli Scavi Scaligeri sino al 16 settembre. Molte le iniziative a corollario organizzate da Aster per tutto il periodo. Una proroga sarebbe auspicabile per consentire alle scuole di usufruire di questi splendidi capolavori che fanno riflettere, commuovendo.

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L’ENERGIA DI VERONA PER I VERONESI


Te rrito rio

I fratelli Branzi e il miracolo della luce L’anno è il 1923. Dall’esperienza in America nasce l’idea di una centrale elettrica in Val D’Illasi. Detto e fatto da Milano arriva la turbina mentre l’acqua non manca

Da sinistra: il signor Walter Fostari di Cogollo, appassionato cultore di numerose memorie locali, e, in primo piano, il signor Rino Branzi che ci ha raccontato la storia dell'arrivo “de la luce” in Val d'Illasi e non solo.

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di Aldo Ridolfi Occhi azzurri, sguardo profondo, come di chi viene da lontano, di chi qualche certezza nella vita l’ha messa insieme. Volto ben rasato, colorito abbronzato, come di chi sta spesso all’aperto, d’inverno come d’estate. Carattere fiero ma con una sottile dolcezza di fondo. Ricordi nitidissimi. Se glielo chiedi, ti racconta

che ha smesso di fumare da un giorno all’altro: “Petar lì de fumare se pol, sensa far tanti discorsi!” E si ricorda la data, era il 9 di marzo del 1983: alle quattro pomeridiane ha regalato sigarette e fumenanti, senza remore: è bastato che il medico gliel’abbia chiesto una sola volta. Questo è Rino Branzi, classe 1926. Abita a Selva di Progno, nei locali della vecchia centrale elettrica. E ci vive bene anche, perché attorno c’è

l’orto e dietro casa il bosco fornisce abbondante materia prima per costruire sesti, derli e rostei. A lui sono arrivato per interposta persona: Walter Fostari, di Cogollo, suo coetaneo e cultore straordinario delle nostre tradizioni. Incomincia a raccontare partendo dal 1923, quando lui non era ancora nato, quando gli zii Luigi e Giuseppe e papà Vittorio, ritornanti, con qualche risparmio, dall’emi-

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Te rrito rio

Rino Branzi davanti alla prima centrale elettrica della Val d’Illasi. Rino riferisce che una centrale con una facciata simile si trova «dalle parti di Innsbrook»

In giro per il mondo avevano imparato che se si dispone di una congrua quantità d’acqua e di un dislivello significativo si poteva generare energia. Imprenditori, certo, ma anche orgogliosi di dimostrare quanto era stato utile uscire dal proprio orticello e quanto di buono poteva essere fatto per la gente

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grazione – chi negli States, chi in Belgio, chi in Germania – compiono un gesto di estremo coraggio imprenditoriale: quello di dare la corrente elettrica, la luce come si diceva allora, ai propri compaesani. Il leader riconosciuto è Luigi; Vittorio, Giuseppe e Ottavio sono validissimi collaboratori. In giro per il mondo avevano imparato che se si dispone di una congrua quantità d’acqua e di un dislivello significativo si poteva generare energia (senza inquinare, ma allora questo non era un problema). Imprenditori, certo, ma anche orgogliosi di dimostrare quanto era stato utile uscire dal proprio orticello e quanto di buono poteva essere fatto per la gente. E allora avanti! Dal ’23 al ’25 è tutto un lavorio: si costruiscono canali, si posano tubi, si allestiscono

condotte, si tendono cavi, si edifica la centrale in contrada Dossi di Selva; lassù, oltre quelle piante gigantesche, si costruisce il grande serbatoio; da Milano arriva la turbina; il salto dell’acqua è di 250 metri, arriva giù a 25 atmosfere, che non è poco, e riesce ad accendere assieme alle lampadine anche significative speranze. Ed ecco che il 5 luglio del 1925 (III dell’epoca fascista, ma questo non depone a vantaggio del Duce) si illumina la Piazza di Selva in un tripudio di entusiasmo, tra balli, canti e abbondanti bicchieri di vino. Se ci fosse stata, sarebbe venuta anche la televisione! E subito dopo la luce entra nelle case a sostituire candele e lucerne a petrolio. È un successo. La fornitura della corrente dei fratelli Branzi procede alacremente e negli anni

successivi arriva a San Bortolo, a Sprea, ai Cracchi, a Villa di Bolca, a Velo... È un fiume in piena Rino Branzi. Quell’epopea gli passa davanti agli occhi con una nitidezza esemplare e racconta manifestando un entusiasmo contagioso, difficile da trovare in odierne “sobrietà”, così apprezzate... Si arrivava fino a Camponogara, Camposilvano, San Francesco. E ci sono tanto di lettori e tanto di esattori. Questi, nei tempi eroici, prima della guerra, si chiamano El Piero da San Bortolo, Luciano del Croce, El Bepi... Si paga in contanti, senza intermediazioni, senza agenzie. Il prezzo della corrente, però, viene stabilito dalla Finanza. È anche una storia di collaborazioni, secondo il metodo antico del baratto e della sacralità della parola data: io ti porto la luce, tu mi fai

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Te rrito rio Poi è venuto il 1965, anno infausto, anno della statalizzazione. “È rivà l’enel e la sa porta ia tuto”

Cabina elettrica all’ingresso del paese di Velo Veronese, a testimonianza della diffusione geografica dell’iniziativa dei fratelli Branzi all'inizio del Novecento. Dietro, il profilo del monte Purga.

piantare il pilone della linea nel bosco o nel prato. Bene, e così sia! Poi è venuto il 1965, anno infausto, anno della statalizzazione. “È rivà l’enel e la sa porta ia tuto”. Ma per quarant’anni sono stati loro, i fratelli Branzi, tornati dall’emigrazione, a fornire corrente alle casupole dell’alta valle d’Illasi, a riscaldare i primi ferri da stiro elettrici, messi da parte quelli che funzionavano con i mosegoti del granoturco. E se l’ENEL è riuscita a portarsi via tutto, non c’e l’ha fatta con i ricordi di Rino che sono lì, nitidi come l’acqua che tanti anni fa, prima

ancora che lui nascesse, scorreva nelle canalette. “Ma come mai la luce dele lampadine la se sbasava dopo le nove de sera?”, si inserisce Walter Fostari, ricordando che a quell’ora, nell’ostaria de la Casa del Diaolo la zona più a sud raggiunta dai Fratelli Branzi l’illuminazione si affievoliva. Che i fratelli Branzi facilitassero, con le luci soffuse, possibili approcci amorosi? Il sorriso di Rino è complice, ma la risposta è tecnica: la sempre maggiore richiesta di corrente, dal ’45-’46 in poi, chiedeva che alla sera si abbassasse l’ar-

rivo dell’acqua in centrale per ricostituire la scorta da usare nella giornata successiva, alla ripresa delle attività lavorative. Ora Rino Branzi guarda, come tutti noi, con una certa preoccupazione, i nostri tempi grami, e si lascia andare in qualche infausta previsione, ma è questione di un attimo, poi ci mostra el faso de sangoenele sbondè e ci indica la fertile e ben concimata terra del suo orto: allora ritorna sereno, fiducioso e sicuro com’è nella sua natura, come si conviene a chi ha interessanti programmi per tutto l’anno successivo.

ERRATA CORRIGE. Sul numero 31 di Verona In, a pagina 19, per un errore è stato pubblicato il nome di Gino Beltramini al posto di Gino Bonamini. Ce ne scusiamo con i lettori. DIRITTO DI RETTIFICA L’art. 8 della legge sulla stampa 47/1948 stabilisce che “Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale”.

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e

STUDIO

DITORIALE

Giorgio Montolli

Giornale di attualità e cultura Direttore Giorgio Montolli Lungadige Re Teodorico, 10 37129 - Verona. Tel. 045.592695 Stampa Croma Srl Registrazione al Tribunale di Verona n°1557 del 29 settembre 2003 Iscrizione ROC 18748 N° 32/agosto 2012 Copia venduta in abbonamento al prezzo di 15 euro l’anno www.verona-in.it Questo giornale è stampato su carta realizzata secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici Chiuso in redazione il 28/07/2012

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