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Sua Altezza Jenny Barazza

Muri, cortili, ricordi della centrale azzurra, colonna dell’Italvolley, a 11 anni stellina del CSI Treviso nel Volley Codognè

di Felice Alborghetti

Codognè per me è casa, famiglia, è la mia gioventù, tantissimi ricordi, il rifugio dove tornare. Dove mi piace camminare nei posti da me frequentati da bambina. Tornando, ad esempio, all’oratorio che frequentavo, mi fa piacere vedere tanti ragazzini giocare sui campetti che oggi hanno costruito. O ancor più liberi sul piazzale della chiesa. Mi riempie di gioia vedere ancora tanti ragazzi che si ritrovano in un posto comune.

Schiaccia ancora, ma sul pulsante della memoria Jenny Barazza, una carriera alle spalle costellata da ogni sorta di successo in ambito nazionale e internazionale, cresciuta nel CSI con il Volley Codognè, il suo paese. Quali sono i tuoi ricordi?

Ricordo bene le maglie biancazzurre, la bici con cui andavo ad allenarmi. Tante amiche e, soprattutto, Stefane Wally, la mia coach, colei che porto da sempre nel cuore. Avevo una decina di anni quando ho iniziato con lei a Codognè, e con lei ho fatto tutte le trafile delle giovanili. Avevamo una bellissima squadra e arrivammo a giocarci due finali nazionali nel CSI, a Latina e a Norcia, se ben ricordo. Trasferte indimenticabili. Ricordo come fosse ieri queste macchine cariche, piene di salamella, vino e cibarie varie. È forse stata la parte più bella e spensierata in assoluto della mia vita da pallavolista.

Con Stefane giocavi sempre o ci sono stati alti e bassi, dei cambi di ruolo magari, nel sestetto?

Ammetto che non è stato proprio sempre facile con lei. Ci sono stati momenti in cui ho pensato anche di lasciare perché lei continuava a volermi spronare mentre io ero un po’ troppo pigra. Ma alla fine sono sempre tornata a giocare perché mi piaceva troppo, e poi c’erano le mie amiche. Mia madre ancora oggi ogni tanto ci scherza dicendomi: «ma ti ricordi quella volta, o quelle volte, in cui non volevi più andare perché lei era rigida con te e ti diceva che eri svogliata?». Ero alta ed anche per questo sono sempre stata incentivata da tutti a giocare, oltre che da Stefane. Anche il ruolo di centrale è arrivato grazie ai miei centimetri in più in altezza. Ma avevo sicuramente anche talento.

La fiducia nel coach, come si acquista? Faticoso il passaggio da giocatrice ad allenatrice?

Adesso che sono diventata allenatrice e rivesto questo nuovo ruolo, mi sono trovata di fronte a nuove difficoltà che non consideravo da giocatrice. Da ragazzina, quando giocavo, ricordo di non aver mai chiesto di entrare in campo o di voler ricoprire un ruolo diverso da quello che l’allenatrice mi affidava. Mi andava bene tutto e mi bastava potermi allenare serenamente e giocare. Non chiedevo più di quanto pensassi di poter meritare. Oggi invece, da quest’altra parte del campo, devo affrontare molte pretese, a volte troppe. In alcuni casi dalle giocatrici ma molto spesso dai genitori. Pretese che non esistevano quando ero io nella fase di crescita nello sport. Ora è più difficile per un allenatore giovanile prendere delle decisioni sul campo per le atlete. Occorre proprio che le ragazze capiscano che cerchi sempre di agire per il meglio, sia nelle decisioni più popolari che in quelle meno. E così acquistano fiducia in te e ti seguono.

Oggi ci sono i social, le chat… Ti creano qualche problema come coach?

Ad essere onesta sono l’ultimo dei miei problemi. Sì è vero, ogni tanto vedo le ragazze andare in bagno con il telefonino per messaggiare. Ma le seguo sui social e vedo che postano cose relative alla pallavolo e ne fanno un buon uso. Quindi non mi dispiace. Sono contenta che trovino il modo di farsi delle foto e trasferiscano sui social, a chi le segue, che si trovano bene e che si divertono. Vedo il lato positivo della cosa, non ho riscontrato problemi.

Sognavi di vestire l’azzurro da bambina?

Da bambina non ci avevo mai pensato. E nemmeno i miei genitori. Ho iniziato ad andare in palestra ma soffrivo molto il fatto di essere più alta di tutte le mie compagne. Poi sono arrivate le prime selezioni provinciali, e poi le regionali e lì, conoscendo altre compagne alte come me, ho capito che era il mio mondo e volevo rimanerci a lungo. Fino a vestire l’azzurro.

Con la Nazionale, delle tue vittorie, quale, se non la più bella, la più particolare?

Ci sono tantissimi ricordi con la Nazionale, ma quello per me più vivido, l’emozione più forte che ho vissuto è stata il primo Europeo vinto nel 2007 poiché mi ha dato una felicità immensa che è arrivata dopo un momento, se non difficile, almeno complicato. Avevo fatto una stagione non felice con Bergamo, dove non riuscivo ad esprimermi al meglio. Poi quell’anno sono andata in Nazionale e, dal primo giorno di ritiro, è stato un continuo crescendo, fino a raggiungere l’apice. Lo è stato grazie anche alle mie compagne, come Leo Lo Bianco e Simona Gioli, e l’emozione finale è stata fortissima.

Che effetto ti fa vedere la pallavolo italiana vincere tutto a livello europeo di Nazionale maggiore ma anche con tutte le Nazionali giovanili, U17, U19, U20?

La pallavolo italiana sta vivendo un momento bellissimo e sono contentissima. È un movimento, quello pallavolistico, che cresce e alimenta la consapevolezza che non bastano il talento e l’altezza. Serve avere allenatori competenti. Stiamo vedendo il lavoro che stanno facendo coach e staff. Le azzurre di Mazzanti al Mondiale sono fortissime ma le variabili sono tante in queste competizioni così importanti: un’outsider fastidiosa, il campo che ti fa perdere sicurezza... Tutto è amplificato. Ma il lavoro del team, sia sulle individualità dei giocatori che sulle dinamiche di un gruppo rodato, dà sicurezza alla squadra.

A livello tecnico, cosa raccomanda il coach Jenny Barazza alle sue ragazze?

Mi ricordano sempre di mettermi in modalità coach e non più atleta... Per me è difficile. La tecnica vale tantissimo. Era dura e noioso allenarla da piccolina ed è altrettanto dura da far allenare, ma è fondamentale e io ci credo. Tanti esercizi a muro, tecnica di bagher. Punto anche molto sui primi tocchi perché poi son quelli che danno il via a tutto il resto. Credo che l’attacco ed il gesto tecnico finale si possano anche allenare con il tempo, ma la voglia di prendere il pallone, e avere la tecnica giusta per poterlo prendere correttamente, siano in assoluto le prime cose che contano. Perciò alleno tantissimo quello. Poi, dopo la voglia di andare su ogni palla, insegno a superare la paura di scontrarsi. Alle ragazze dico: «piuttosto scontratevi ma la palla non deve cadere». Anche Il servizio ora sta diventando un fattore decisivo, che va allenato e provato molto.

E dal lato umano? Come ti poni da coach?

Per un tecnico adesso credo sia fondamentale entrare nella testa di ogni ragazza: ed è la parte più difficile. La chiave essenziale è riuscire a comunicare con ogni giocatore in maniera differente, in modo unico, cercando di capire di cosa ha bisogno in quel momento. Spronandolo al momento giusto e lasciandolo sbollire in altri. Ogni individuo è unico e occorre capire e conoscere la personalità di ciascuno. Per poi creare un obiettivo comune a tutti.

La maternità prima del Mondiale, come hai saputo affrontarla?

Ho vissuto tante emozioni contrastanti, ma la prevalente è stata la felicità immensa che nasce dalla consapevolezza che stai generando qualcosa di importante, dal desiderio di creare una famiglia. Stavo bene e ho continuato a fare tutto, anche la giocatrice. C’è stato uno stop di qualche mese, per prepararmi e accogliere la nascita di mia figlia, ma dopo tre mesi mi sono subito rimessa in campo, ad allenarmi, con non poche difficoltà a ritrovare la forma. Ma si può fare. E io sono stata fortunata perché ho avuto la possibilità di fermarmi. È risaputo che altre atlete, invece, non sono tutelate in gravidanza. Non giocai quel mondiale ma la vittoria più bella è stata partorire Luisa, che adesso ha undici anni. La alleno insieme alle altre ragazze e questa è la parte più difficile. Speri sempre, da allenatrice genitrice, di trattarla equamente, anche se la vedo con occhi diversi. Cerco di mantenere con lei la stessa autorevolezza che ho con le altre atlete e a volte non è così facile. Ma quando vedo che si diverte e riesce ad impegnarsi al meglio sono felice. Ed è bello sentirsi chiamare “mamma” in palestra, anzichè “coach”.

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