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Demetrio Albertini: «Riportiamo i giovani allo sport con l’attrattività»
from Stadium n. 6/2023
by Stadium
Abbiamo incontrato l’ex giocatore di Milan e Nazionale che ha iniziato la sua avventura calcistica in oratorio.
IL PRESIDENTE DEL SETTORE TECNICO FIGC CREDE CHE LO SPORT DEBBA CREARE EMOZIONI, E NON SI PUÒ PENSARE CHE QUESTE ARRIVINO SOLO DAL RISULTATO. OCCORRE ESSERE GENEROSI E RISCHIARE
di Felice Alborghetti
In carriera ha vestito numerose e prestigiose casacche: a lungo l’azzurro della Nazionale e, nei club, le maglie di Atalanta, Milan, Atletico Madrid, Barcellona e Lazio. Demetrio Albertini per ciascuna di queste ha dato tutto, come da bambino per quella del suo Oratorio Villa Raverio, dove ha mosso i primi passi calcistici. Indimenticabili.
«Ho giocato in oratorio fino a 10 anni a Villa Raverio, una frazione di Besana Brianza. Mai una scuola calcio. Solo pallone e parrocchia. Mi allenava mio padre. Per capire il mio legame con l’oratorio c’è solo un’immagine. Nel 1994, finito il Mondiale con l’argento, sono a casa dopo due giorni, distrutto dal fuso orario, dal viaggio e dal morale. Arrivato in paese, grande accoglienza degli amici, che per salutarmi hanno subito organizzato una partita. Dove? All’oratorio: quelli del ‘71 contro il resto del gruppo o del mondo. Tremila persone a vederci. Festeggiammo insieme con tutto il paese, a 3 giorni dal rigore calciato a Pasadena».
Che ricordi hai del calcio in oratorio?
Mio fratello Alessio che veniva sempre a prendermi all’oratorio. Mio papà che allenava. Andava sempre prima a portare la squadra di Alessio, quella dei più grandi, in giro ed io li seguivo. Anche se più piccolo, stavo comunque in panchina, e poi entravo. Giocavo già e giocavo sempre, io che avevo 5 o 6 anni, con loro che ne avevano 9 o 10. Una differenza importante a quella età.
E cosa è stato il CSI?
La spensieratezza, l’oratorio, il divertimento. Scavalcare i muretti per giocare. Ricordo poi i momenti del torneo CSI, quando c’era la partita e si mettevano le reti alle porte, altrimenti vuote solitamente. Occorreva conservarle per non rovinarle.
Poi sono arrivate ben altre reti, quelle di San Siro ad esempio. Hai fatto parte del Milan degli Invincibili. Zero sconfitte in un intero campionato. Ma quanto conta perdere?
Sembra una frase fatta, ma la sconfitta fa parte della vittoria. Senza le sconfitte difficilmente poi arrivano delle vittorie. Lo dico spesso ai genitori dei bambini, quando facciamo corsi di formazione. Prima di tutto lo sport è passione. Nessuno ti obbliga a fare sport. Mi auguro almeno che nessun genitore lo faccia. Scelto quindi lo sport da praticare, percepisci subito che, dopo una partita, vinci o perdi, hai quell’emozione da gestire. E la sconfitta ti crea immediatamente il desiderio di vincere.
Hai giocato con Donadoni, Rjkaard, Ancelotti... Di’ la verità: non ti è mai venuta voglia di fare l’allenatore?
No, mai. Ho studiato anche per fare l’allenatore e sembrerà strano che, nel mio attuale ruolo di presidente del Settore Tecnico, abiliti tutti gli allenatori in Italia. Però non ho voluto fare l’allenatore, perché credo che, prima di tutto, non sia una professione ma una missione, come il sacerdozio. Devi sentirtelo. È un po’ fare il calciatore con molte più responsabilità. Dopo anni in cui ho girato, mi ha affascinato di più fare il dirigente e per farlo ho dovuto studiare molto.
In campo calciatore ideale, grande personalità, regista. Metronomo, con immensa visione di gioco. Noi del CSI guardiamo ai giovani. Oggi da dirigente quale è il tuo sguardo sui settori giovanili?
Molto semplice. Se ne parla tantissimo. Si fa molto, ma non abbastanza. Tante volte si parla di giovani atleti pensando solo ai talenti da poter inserire nelle squadre professionistiche. E invece andrebbe fatto molto di più. Oggettivamente noi come dirigenti non stiamo dando loro tutte le possibilità in questo percorso formativo. Rispetto invece ai giovani in senso lato, penso che ci si debba confrontare con l’ambiente circostante e con la società in cui viviamo. Ci sono molte distrazioni e possibilità per le nuove generazioni e alla fine un ragazzo si approccia al mondo del calcio più teoricamente che praticamente. Molti ragazzi guardano e parlano di calcio, ma non lo praticano. Occorre essere più attrattivi.
Come?
In primis, con la nuova riforma dello sport, mi auguro che le persone dedite allo sport, anche tra i dilettanti, possano farlo non solo nel tempo libero, ma a livello manageriale. Sempre con ciò che può significare essere al contempo un dilettante e un manager. Voglio dire che servono sempre persone qualificate e formate.
A Coverciano che input date ai tecnici?
L’input generale è far capire che ci sono diverse situazioni gestionali. Dalla tattica all’organizzazione, dalla gestione alla comunicazione.
I mister di oggi sono assai diversi da quelli che allenavano me. Perché sono diversi i ragazzi. Torno a dire: i giovani sono differenti ed hanno altri pensieri, opportunità e svaghi. Basti solo pensare che per me, del paesino brianzolo, Milano era New York. Oggi invece le distanze sono ridottissime. Londra ad esempio sembra dietro l’angolo.
C’è una partita che ricordi con più affetto?
In oratorio?
No, in generale.
Sembrerà forse strano, ma non per chi mi conosce bene. Per me indimenticabile è stata la mia partita di addio al calcio. Ha rappresentato la sommatoria di quello che sono stato come calciatore. Tutti hanno voluto esserci e rispondere al mio invito. Un All Star Game incredibile. Con ben otto Palloni d’Oro in campo. Calciatori che hanno fatto la storia. Un Milan–Barcellona di grandi campioni [per citarne solo alcuni: Dida, P. Maldini, Nesta, Baresi, Desailly, Pirlo, Seedorf, Boban, Rui Costa, Kakà, Papin, Gullit, Weah, Van Basten, Shevchenko, Ancelotti, Capello e Sacchi tra i rossoneri; Zubizarreta, Puyol, Iniesta, M. Laudrup, Ronaldinho, Stoichkov, Eto’o, Cruijff e Rijkaard per i blaugrana, N.d.R.]. Per me il più bel riconoscimento, non per il calciatore ma per la persona che sono stato all’interno dello spogliatoio.
Insomma: un Albertini pontefice?
No. Non scherziamo. Direi un ambasciatore del calcio, che per definizione è in effetti un creatore di ponti e di relazioni. Posso dire che ho amicizie vere ovunque ho giocato.
Che periodo è stato quello spagnolo?
Bello bello, molto professionale. Lì ho imparato l’attrattività per i giovani. Ed è quello che cerco di andare a trasmettere agli allenatori che incontro durante i corsi. Bisogna essere attrattivi. Parlo di generosità. Oggi quella che possiamo definire “speculazione sportiva” è sempre meno accettata dai giovani. Vogliono spettacolo, il dribbling, il gol, il rischio. Non solo il risultato. Andare allo stadio vuol dire divertirsi. Dico sempre che lo sport deve creare emozioni, e non si può pensare che l’emozione arrivi solo dal risultato. Occorre essere generosi e rischiare. Non si può insegnare solo la tattica.
Un po’ di amarcord. Gioie e dolori più grandi della carriera?
Partiamo dalle finali perse. Un Mondiale (USA ‘94) ai rigori, dove peraltro segnai a Taffarel, ed un Europeo perso al Golden Gol. Forse un record. Brucia di più Amsterdam e la finale persa nel 2000, l’ultimo mio grande impegno con la Nazionale.
Quanto alle gioie, certamente la vittoria rossonera nella Champions ‘94 e lo scudetto con Zaccheroni inatteso e insperato del 1999.
Nel 2023 tre italiane in finale nelle tre Coppe Europee. Cosa significa?
Meraviglioso. Nessuno avrebbe pronosticato tre italiane in ogni finale europea.
Oggi superiamo così campionati molto più attrezzati. Bisogna essere umili, ma certo abbiamo rimesso l’attenzione europea sul nostro campionato e sul nostro intero movimento.
CHI È DEMETRIO ALBERTINI
Demetrio Albertini, 51enne dirigente sportivo, è il presidente del Settore Tecnico della FIGC ed è stato uno tra i più importanti centrocampisti nella storia del calcio italiano. Con la Nazionale U21 ha vinto l’Europeo nel 1992. In azzurro è stato poi vicecampione del mondo ad USA ‘94 e vicecampione d’Europa a BelgioPaesi Bassi 2000. Nelle 13 stagioni nel Milan ha vinto 5 scudetti e 3 Champions League. In carriera anche una Liga spagnola con la maglia del Barcellona.
«Io e mio fratello»
Vi allenava papà Cesare, che un giorno a Roma mi disse che tuo fratello Alessio, come calciatore, non era più forte, ma più bravo di te...
Era più bravo perché andava in Chiesa...– si fa una risata [ndr] – No, a parte i vari romanzi su questa storia, il racconto vero è questo. Esistevano già degli osservatori. In un’occasione in cui giocavamo assieme, aveva fatto tanti gol (gliene avevo fatti fare tanti, lo ricordo bene). Lui era punta ed io sempre a centrocampo. Ci fu davvero questo osservatore che a fine gara disse: «Bravino il centrocampista, ma è tanto giovane; quello forte sul serio è l’altro davanti (riferendosi ad Alessio)». Sorride ancora [ndr].
Raccontaci qualche segreto del nostro don
Alessio veniva spesso a prendermi all’asilo dalle suore, all’insaputa della mamma, per portarmi a giocare contro le squadre degli altri paesi. Sfide epiche. Bisognava vincere. Abbiamo giocato tanto insieme fin quando non è entrato in seminario. E poi abbiamo giocato tanto anche in seminario. Amici e parenti contro seminaristi. Devo dire che il calcio e la passione per il pallone l’ha trasmessa ad entrambi papà, juventino come molti in Brianza, ma molto distaccato. Non ricordo scudetti da lui festeggiati, se non quelli miei vinti con il Milan.
Una famiglia nel solco dello sport
La nostra è una famiglia molto unita. I genitori ci hanno insegnato molto. Arriviamo da una famiglia profondamente cattolica e praticante, che ci ha trasmesso tanti valori, quegli insegnamenti di vita che vanno oltre alle semplici preghiere o all’andare a Messa. Penso a quelle regole e a quei principi per affrontare la vita nel quotidiano. Poi un sacerdote, un calciatore, vite atipiche, assai particolari.
Alessio, Demetrio e Gabriele
Sono molto legato ai miei fratelli. A Gabriele più piccolo di me di sette anni. E ad Alessio. Il seminario dove studiava lui era molto vicino a Milanello dove vivevo io. Siamo andati fuori di casa entrambi quasi insieme e ci siamo frequentati tanto. Siamo stati vicini anche nelle vicissitudini della mamma e sempre uniti nell’affrontare situazioni familiari. Ed insieme abbiamo avuto anche quella responsabilità di cercare di crescere al meglio il più piccolo, Gabriele.
Tu gliene hai fatti molti in campo, ma l’assist più bello di don Alessio a te?
Molto semplice. Non da sacerdote. Ma da fratello. Mi ha sempre trasmesso tanta serenità. Ho sempre potuto contare sul supporto morale di Alessio. Una presenza costante. C’è sempre stato. Come anche il terzo fratello. Siamo molto uniti.