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Editoriale
di BORIS SCHUMACHER
In foto: una scena del film Oasis (2002) di Lee Chang-dong
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Ametà novembre del 2020, uno degli anni più mesti e infausti per l’umanità e di conseguenza anche per l’industria cinematografica, abbiamo deciso di dedicare uno speciale al cinema sudcoreano contemporaneo. Ai tempi non potevamo certo sapere che di lì a poche settimane proprio a causa del Covid-19 sarebbe venuto a mancare Kim Ki-duk, il regista che ha contribuito più d’ogni altri, insieme al meno prolifico Lee Chang-dong, a far conoscere e apprezzare il cinema sudcoreano al di fuori dei confini nazionali. Tra la fine degli anni 90 e l’inizio del nuovo millennio il pubblico occidentale ha avuto modo di scoprire la cinematografia sudcoreana nei principali festival europei, a partire proprio dalla Mostra del Cinema di Venezia che nel 2000 selezionò in Concorso L’isola, il quarto lungometraggio di Kim Ki-duk, e due anni dopo Oasis, il terzo film diretto da Lee Chang-dong, due opere destinate a scuotere e scioccare le platee internazionali. Da lì in avanti l’industria cinematografica di questo paese dell’Estremo Oriente, con una storia difficile e tormentata contraddistinta da una feroce e brutale occupazione nipponica dagli inizi del Novecento alla fine della Seconda guerra mondiale e dalla successiva guerra di Corea che nel 1953 ne ha sancito la dolorosa separazione con la linea di demarcazione lungo il 38° parallelo che tuttora divide il Nord dal Sud, ha continuato a fiorire e mietere consensi a livello internazionale. Dopo la Golden Age, periodo molto fertile e interessante per il cinema coreano a cavallo tra gli anni 50 e 60, sul finire degli anni 90 emerge la cosiddetta “Hallyu”, la korean wave che costituisce una vera e propria rinascita artistica per il paese, favorita anche e soprattutto dal ritorno alla democrazia dopo alcuni decenni agitati e turbolenti, contraddistinti da colpi di stato e regimi militari. Nel corso di questi ultimi vent’anni l’industria cinematografica sudcoreana è divenuta sempre più solida e prolifica, amatissima in patria e sempre più conosciuta e celebrata all’estero, con autori di punta come Park Chan-wook, Kim Ji-woon e Bong Joon-ho e star del calibro di Lee Byung-hun e Bae Doo-na chiamati a turno a lavorare in Occidente. Un Paese di circa cinquanta milioni di abitanti che ogni anno può contare su duecento milioni di ingressi al cinema (il doppio dei nostri), al pari della Francia, la nazione europea che più sostiene e valorizza la propria industria cinematografica. Merito anche di leggi e normative che tutelano e proteggono il settore, con una quota di mercato dei film nazionali che si attesta regolarmente sopra il 50% rispetto a quella dei titoli stranieri. Nel dossier che state per leggere ci focalizzeremo su quegli autori che si sono rivelati fondamentali per il rilancio e la rinascita del cinema sudcoreano, a partire dai già citati Kim Ki-duk, Lee Chang-dong, Park Chan-wook, Kim Ji-woon e Bong Joon-ho che con Parasite ne ha sancito la consacrazione definitiva, vincendo la Palma d’oro e ben quattro Oscar, compreso quello più ambito e importante per il miglior film. Gli altri due registi che abbiamo scelto di portare all’attenzione dei nostri lettori sono Hong Sang-soo, forse il più “occidentale” del gruppo, fautore di uno stile minimalista che lo contraddistingue fin dagli esordi, con commedie sentimentali briose e leggere che lo collocano a metà strada tra Eric Rohmer e Woody Allen, e Na Hong-Jin, il più giovane dei sette e il più talentuoso tra le nuove leve, da considerarsi tra i registi di punta della new wave coreana, sebbene abbia realizzato appena tre lungometraggi – The Chaser, The Yellow Sea e The Wailing - in oltre dodici anni di attività. Sette filmmaker che ben testimoniano la vitalità del cinema sudcoreano, tra i più prolifici e importanti dell’attuale panorama mondiale, capace di spaziare tra i vari generi con estrema disinvoltura e libertà creativa, dal melodramma al thriller, dalla commedia sentimentale al poliziesco, dall’horror ai film in costume e di spionaggio, senza rinunciare alle ambizioni autoriali dei suoi esponenti di maggior spicco.