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Parasite
di FABIO SAJEVA
BONG JOON-HO
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Il soggetto di Parasite è quantomeno semplice: una famiglia di poveri si introduce nella vita di una famiglia di ricchi. Quanto ne scaturisce è la metafora di una lotta di classe che nella società turbocapitalista è stata messa a tacere. Parasite, film che stravince su tutti agli Oscar contro ogni previsione, cambiando la storia del premio stesso, da una parte delude e delude fortemente perché ancora una volta viene proposto uno stereotipo, ci viene svelato con saccente prosopopea che
“i soldi sono un ferro da stiro in grado di eliminare tutte le pieghe della vita”.
A dire il vero non sembrerebbe questa una filosofia degna di un Oscar. È nella fredda e lucida ricostruzione di questa filosofia di vita innalzata a incubo sociale, che Bong Joon-ho, ci racconta di poveri puzzolenti e bugiardi e di ricchi profumati e sinceri, di uomini indebitati costretti a nascondersi dalla società capitalistica che li vorrebbe oleati ingranaggi funzionanti del meccanismo della vita.
Il film non è affatto male: ottimo prodotto questo Parasite. Sceneggiatura di ferro dal carattere fortemente manicheo. Da una parte il bene rappresentato dai ricchi e dall’altra il male che viene ben raffigurato dai maleodoranti poveri che vivono nel seminterrato ammuffito. Sincera, pura, quasi una “candide”, questa madre di famiglia ricca. Lei offre lavoro a questi poverini senza né arte né parte e li aiuta benevola. Bugiardi e loschi questi poveri falsificatori di documenti. Musiche essenziali quanto spettacolari di Jung Jae-il e fotografia di Hong Kyung-pyo degna di una mostra monografica, fanno della creatura di Bong Joon-ho, un meccanismo a orologeria ben oleato. La forza del film è tutta nel grande fastidio che riesce a causare nello spettatore. Ci fanno ribrezzo questi personaggi rintanati in un bugigattolo che chiamare casa è un’esagerazione. Mentre la sensazione piacevole che invade i nostri occhi non ha fine quando entriamo nella pubblicità di Extraordinary Homes che è il set della famiglia benestante, vera protagonista del film. Dentro di noi non parteggiamo neanche per un attimo per gli schifosi parassiti. In questo il regista dimostra di avere acquisito al meglio la lezione del cinema europeo migliore qual è quel cinema dalla natura antropologica di Chabrol. Noi siamo buoni, noi li stiamo solo osservando come si osservano degli scarafaggi prima che si inabissino nel water e ci anneghino per nostra mano. Il finale di Parasite è quantomeno scontato. Gli schifosi pagano col sangue e con una condanna a vita, quanto si sono permessi di fare al mondo dei ricchi. La condanna finale del padre è una metafora forte che ci dichiara con estrema lucidità la visione del regista: i poveri devono sparire nell’abisso e non guastare le bellezze della meraviglia creata dai ricchi. Questo mondo non vi vuole più vedere, puzzate e soprattutto non servite a nulla. E Hollywood ringrazia, non potendo che avallare una visione di questo tipo. Il cinema per sua natura conservativo mummifica in questa visione delle cose una fotografia statica della società capitalistica attuale. I ricchi stanno sopra e godono delle bellezze del creato, i poveri rimangono sempre sotto e soffrono tutta la vita, anelando continuamente a raggiungere quello status dei piani superiori che mai gli apparterrà. In breve, il fatto che un film del genere abbia vinto l’Oscar se da una parte può far piacere per la qualità della costruzione del prodotto, dall’altra spaventa non poco.