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Lee Chang-dong
e il realismo poetico
In foto: una scena del film Burning - L’amore brucia (2018) di Lee Chang-dong
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Nella pagina accanto: il regista Lee Chang-dong di ANTONIO PETTIERRE
Scrittore, cineasta, politico, Lee Chang-dong (Taegu, 01.04.1954) è un intellettuale impegnato a tutto tondo nella vita del suo paese. Nasce in una famiglia piccolo borghese in un ambiente conservatore in una città al sud della Corea del Sud. Si laurea in letteratura presso l’Università Nazionale Kyungpook nel 1981 e inizia a lavorare nel settore culturale: insegnante di lettere, editorialista per i giornali, scrittore di racconti ma soprattutto direttore di teatro, scrivendo drammi e mettendoli personalmente in scena. Nel 1983 pubblica il romanzo Chonri e in seguito vince il premio letterario Hanguk Ilbo Munhak con la sua raccolta di racconti There’s a Lot of Shit in Nokcheon (1992), ed è da una delle storie che trae ispirazione per il suo primo lungometraggio. Non ha mai svolto specifici studi in ambito cinematografico, ma sfruttando il rinnovamento del cinema coreano si cimenta nella sceneggiatura, scrivendo To the Starry Island nel 1993 e due anni dopo A Single Spark, che sono molto apprezzati dal pubblico e dalla critica nazionale. Visto il successo, e spinto da collaboratori e amici, debutta dietro la macchina da presa con Green Fish (1997) e in seguito replica con Peppermint Candy (2000). Il cinema di Lee compie un’analisi della Corea contemporanea raccontando storie del recente passato, concentrandosi su efferati eventi che provocano traumi indelebili. Così se Green Fish parla di una violenza di una ragazza da parte di un gruppo di militari, Peppermint Candy mette in scena l’indagine di un ispettore di polizia alla scomparsa di un uomo. Entrambi ambientati durante la dittatura militare, Lee sceglie un registro realistico, prediligendo la narrazione della profonda provincia coreana conservatrice, maschilista, opprimente e violenta che si esprime attraverso le proprie istituzioni come l’esercito e la polizia. Questi temi sono pienamente espressi in Oasis (2002) in cui Lee racconta la storia d’amore impossibile tra un uomo e una giovane disabile. Hong Jong-du è un ragazzo dal carattere instabile e sensibile che si autoaccusa della morte di un uomo causato durante un incidente stradale di suo fratello. Condannato e uscito di prigione, va a trovare la famiglia della vittima per scusarsi e qui incontra la loro figlia disabile abbandonata a se stessa. Dopo un primo tentativo di violenza, nasce tra di loro un sentimento reciproco e si sviluppa una relazione. Scoperti, Hong Jong-du sarà condannato per stupro e rinchiuso nuovamente nel carcere ma non prima di promettersi eterno amore. Un’opera neorealista in cui Lee racconta nuovamente la provincia povera, l’abiezione di una certa società coreana legata a pregiudizi nei confronti della disabilità e con occhio poetico riesce a raccontare le difficoltà di due giovani esclusi per diversi motivi dalla società. Dopo la presentazione alla Mostra di Venezia di Oasis, la carriera di Lee ha un’interruzione chiamato a rivestire l’importante ruolo di Ministro della Cultura e del Turismo del suo paese nel 2003. Successivamente a questa esperienza torna dietro la macchina da presa dirigendo prima Secret Sunshine (2007) e poi Poetry che, presentato nel 2010, al
Festival di Cannes vince il premio per la miglior sceneggiatura. In quest’ultima opera, la protagonista è Yang Mi-ja, un’anziana signora che vive con il nipote, studente in una scuola superiore di Incheon. Ha un inizio di Alzheimer, ma questo non le impedisce di seguire un corso di poesia e di accudire il ragazzo abbandonato da una madre assente che vive e lavora in un’altra città. La sua tranquilla e sognante routine quotidiana è interrotta quando la donna scopre che il giovane è coinvolto, con altri suoi amici, nel suicidio di una loro compagna di scuola, fatta oggetto di violenze sessuali ripetute da parte dei ragazzi. Mi-ja si trova a combattere davanti a un dilemma etico: qual è il comportamento più giusto per il bene del nipote? Dapprincipio, coinvolta dai padri degli altri ragazzi, cerca di trovare i soldi per risarcire la famiglia della suicida, ma alla fine decide di denunciare tutti per porli di fronte alle loro responsabilità. La cifra stilistica del cinema di Lee evidenzia in Poetry: da un lato, il suo occhio per un cinema del reale, attento alle istanze di critica sociale e alla rivelazione di traumi nascosti; dall’altro, a una struttura filmica in cui l’influenza letteraria è sempre l’ossatura narrativa dei suoi film, in cui avviene costantemente un’osmosi tra parola scritta della fonte e il risultato in immagine della visione. Dopo un lungo silenzio, questo aspetto è riaffermato nella sua ultima opera, Burning – L’amore brucia (2018), uscito anche nelle sale italiane. Tratto da un racconto dello scrittore giapponese Haruki Murakami, Lee conferma la sua capacità di creare un cinema di poesia, dove l’immagine diventa rivelazione del mistero della parola e delle storie dei personaggi. Jong-su è un giovane laureato precario che incontra casualmente una sua vecchia amica d’infanzia Hae-mi. I due hanno una relazione, ma la ragazza, che sta per partire per l’Africa, gli affida la gestione del piccolo monolocale e in particolare gli chiede di accudire a un gatto (che non si vedrà mai). Al suo ritorno Hae-mi è accompagnata da Ben, giovane ricco imprenditore che vive nel lussuoso quartiere Gangman di Seul. Jong-su è interdetto dalla presenza di Ben, ma allo stesso affascinato. Inizia uno strano rapporto di amicizia a tre. Quando la ragazza sparisce misteriosamente, Burning prende un tono di thriller psicologico con Jong-su che sospetta di Ben. Inizia a pedinarlo e a sfidarlo fino al climax della scena finale. L’atmosfera di dubbio e di inganni reciproci tra i due giovani appare come un confronto-scontro tra visioni del mondo non dissimili, ma divise dal censo sociale basato sulla ricchezza. Lee dissemina Burning di sequenze arcane, come il bruciare vecchi edifici e granai nella campagna fuori dalla capitale coreana, che creano nello spettatore un continuo stato d’ansia e di mistero sulla conoscenza della realtà visibile. Il regista sudcoreano mette in scena l’enigma di una generazione alla ricerca di una stabilità attraverso verità impossibili da determinare. E la mancanza di certezze da parte del protagonista lo portano all’unica soluzione possibile: quella dell’eliminazione dell’antagonista sociale in una vendetta non solo fisica, ma soprattutto psicologica. Opera ricca di simbolismi e di richiami letterari, Burning risulta essere una dei film più maturi della nuova cinematografia sudcoreana e Lee Chang-dong un autore con una grande consapevolezza dell’inafferrabilità del vivere moderno.