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Kim Ki-duk
e il cinema del silenzio
di MARCELLO PERUCCA
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In foto: una scena del film
Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera
(2003) di Kim Ki-duk Nella pagina accanto: il regista Kim Ki-duk Kim Ki-duk ci ha lasciato lo scorso dicembre, vittima del Covid-19, lasciando un grande vuoto nel panorama del cinema mondiale. Si trovava in Lettonia poiché nella repubblica baltica avrebbe dovuto girare il suo prossimo film. Era nato il 20 dicembre 1960 a Bonghwa, una zona agricola della Corea del Sud. La sua famiglia – di fede cristiana, cosa che lo influenzerà molto - era povera. È per questo motivo che Kim abbandona gli studi a diciassette anni per andare a lavorare in fabbrica e contribuire al sostentamento della famiglia. In seguito, si arruola nell’esercito per una ferma di cinque anni, al termine della quale lascia la Corea per trasferirsi in Francia e dedicarsi alla pittura.
Gli esordi Ritornato in patria si avvicina al cinema da autodidatta. Il suo primo lungometraggio è Coccodrillo (1996) che reca in nuce molti dei temi e simbologie che caratterizzeranno la sua opera artistica e che derivano, spesso, dalle sue esperienze personali. La vicenda è quella di un giovane senzatetto che vive lungo un fiume recuperando i corpi dei suicidi che vi si gettano e rovistando nei loro vestiti rubando gli oggetti di valore. Si tratta di un’opera acerba che però mostra già il valore del regista, caratterizzata da una violenza mostrata senza ipocriti nascondimenti e che sarà la costante di quasi tutti i suoi film. Coccodrillo evidenzia soprattutto uno dei grandi temi del regista coreano: il rapporto fra uomo e donna, incentrato quasi sempre sul dominio fisico e psicologico del maschio. Nei suoi film le donne subiscono spesso abusi sessuali o, comunque, si trovano in condizioni di sudditanza perché prostitute o succubi dell’uomo. In Occidente Kim Ki-duk viene scoperto grazie a L’isola (Seom, 2000), presentato a Venezia; un film che divide la critica per alcune scene
particolarmente crude. È una storia di amore e morte ambientata su un lago che ospita un villaggio di case galleggianti affittate a uomini che alternano la pesca a incontri con prostitute fatte venire appositamente e traghettate da una donna che gestisce il posto e che, a sua volta, si concede agli ospiti. Quando presso il villaggio si rifugia un uomo reo di aver ucciso la moglie e il suo amante, fra i due nasce un’attrazione che evolve in un rapporto violento, senza vero amore, fatto di corpi lacerati in cui l’erotismo presenta aspetti sadici e sensuali allo stesso tempo.
Tematiche ricorrenti Molti sono i temi ricorrenti nel cinema di Kim Ki-duk: l’acqua, la violenza, la morte, il sesso, l’amore. L’acqua, simbolo di vita e rinascita, è una costante in molti suoi film. Può essere quella di un fiume come in Coccodrillo, Bad Guy (2001), La Samaritana (2004), Il prigioniero coreano (2016). Oppure quella placida di un lago, come in L’isola o nello spirituale Primavera,
estate, autunno, inverno… e ancora
primavera (2003). A volte è l’acqua del mare a fare da scenario liquido (L’arco, 2005). Anche la violenza, sadica o autolesionista e che spesso sfocia nella morte, è quasi sempre presente, manifestandosi spesso come forma di sopraffazione di un uomo su una donna. Kim Ki-duk la mostra quasi sempre senza filtri. Ma la violenza, innata nell’uomo, nei suoi film non è mai fine a sé stessa. È un modo per affermare che dal dolore, dalla morte, può nascere qualcosa di nuovo, forse di migliore. È così, ad esempio, per i personaggi di Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Coccodrillo, Pietà (2012). Soprattutto la violenza è quasi sempre associata al sesso o, meglio, alle relazioni fra i sessi, altro tema ricorrente in Kim Ki-duk. Relazioni che esulano dall’amore vero e proprio, viziate dalla sopraffazione maschile nei confronti della donna.
Il silenzio e le immagini nel cinema di Kim Ki-duk Il cinema di Kim Ki-duk è basato sulla realtà di una società coreana complessa e malata, reinterpretata però secondo una visione personale. Dove vengono inseriti elementi fantastici e onirici che donano spesso ai suoi film aspetti surreali. In molti casi i protagonisti non parlano. Non perché muti, ma semplicemente perché le parole sono superflue e non servirebbero a descriverne le personalità e le azioni. Così avviene in vari film: L’isola, L’arco, Ferro 3 – La casa vuota (2004), Moebius (2013). Lo stesso Kim ha spiegato che i suoi personaggi non parlano per una perdita di fiducia nel prossimo a causa, probabilmente, di profonde ferite interiori. Non è necessario far interagire i personaggi tramite il linguaggio verbale, ci sono altri tipi di linguaggio per entrare in contatto. Spesso sono i gesti, gli sguardi; altre volte a unire è la musica. Oppure è la sofferenza fisica, inflitta mediante le lacerazioni della carne, quelle che si autoinfliggono con ami da pesca i due amanti de L’isola, lui in bocca, lei nella vagina. Paradossalmente il silenzio crea una maggior intimità fra i personaggi, sgravati dal peso inutile – spesso falso - della parola. Scarsità di dialoghi e pochi movimenti di macchina sono prerogativa del cinema di questo grande regista. I suoi film si avvalgono di una fotografia raffinata e di inquadrature che colgono l’istante scenico mediante campi lunghi o medi, sufficienti per portare sullo schermo le idee del regista. Il suo linguaggio, ricco di simbolismi è, allo stesso tempo, schietto e reale anche nella sua vena più fantastica e surreale. Inoltre, molte sue opere sono intrise di spiritualità, come La Samaritana che prende spunto dal Vangelo; Pietà che traccia un percorso di espiazione dei peccati che si può realizzare solo attraverso il sacrificio; Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, che parla della vita utilizzando elementi del buddismo.
Il ritiro e il ritorno Kim Ki-duk, a un certo punto, decide di interrompere la sua carriera traumatizzato da un incidente avvenuto durante le riprese di Dreams (2008), quando un’attrice ha rischiato la morte per soffocamento sul set. Si ritira, in preda alla depressione, a vivere in un capanno lontano dal mondo del cinema. Ritornerà tre anni dopo con Arirang (2011), film verité nel quale lui stesso registra il trascorrere delle giornate passate a riflettere. Tornerà così a scrivere e dirigere film sempre più crudi e critici nei confronti della società coreana, che gli causeranno aspre critiche e difficoltà a girare in patria, obbligandolo a emigrare all’estero per poter realizzare le sue opere. Sino alla tragica fine in terra baltica, colpito dal virus che sta devastando l’umanità.