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Bong Joon-ho
In foto: una scena del film Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho
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A sinistra: il regista Bong Joon-ho
Difficile incasellare un regista come Bong Joon-ho in una categoria o in un genere preciso. Apprezza sia l’approfondimento sociale che il superficiale action-movie, si muove bene nel poliziesco come nella commedia nera e può dare vita a piccoli capolavori di messa in scena come Parasite. Ma cerchiamo di definire la poetica di questo stravagante, visionario sperimentatore della Settima arte. Le influenze che ha subito nella sua storia personale, si leggono chiare nelle sue pellicole. Se, da una parte Bong Joon-ho, è legato a un concetto di “design del film”, una progettualità dal carattere pubblicitario, l’attenzione tutta sua alle caratteristiche di comprensibilità del messaggio in pochi fotogrammi, dall’altra il regista sudcoreano, matura sempre più evidente un gusto per l’analisi sociale, per lo studio quasi di un’entomologia della razza umana. Arriva in tal modo a generare una nuova forma d’espressione che possiamo definire iperrealismo fantastico, vale a dire questa capacità di prendere degli aspetti della società, riassumerli e trasfigurarli in una storia più vera del verosimile. Okja e Snowpiercer sono l’emblema di questa maturazione dello stile di Bong Joon-ho verso questo iperrealismo fantastico. Entrambi, infatti, hanno quali oggetti del racconto elementi che non esistono nella realtà attuale, ma che il regista è capace di far divenire reali innalzandoli a emblemi di una società in divenire. Il passato stilistico di Bong Joon-ho è però iniziato da un legame molto forte con la narrativa del quotidiano, molto cara a un certo cinema sudcoreano. Il suo primo film nel 2000, che in italiano suonerebbe “Can che abbaia non morde” Barking Dogs Never Bite, racconta la storia di un ricercatore universitario senza un contratto stabile, Ko Yun-ju, il quale non potendo pagare il preside per effettuare la sua scalata sociale, sfoga le proprie frustrazioni su di un cane del vicinato, rapendolo e uccidendolo accidentalmente. La bibliotecaria, Park Hyun-nam, decide di mettersi sulle tracce del rapitore di cani. Vi è una linearità narrativa e una lentezza voluta che porta allo scoprirsi indolente della trama e degli intrecci secondari. La passione per il thriller poliziesco, che non lascerà mai il regista almeno fino a Memorie di un assassino, è la base sulla quale viene costruita questa narrazione bizzarra, cruda, condita da uno humor nero tanto forte quanto disarmante. Traspare inoltre un forte interesse nei confronti di una società stratificata, nella quale chi è in basso è costretto a mangiarsi i cani “trovati” in strada. A tale proposito, la scena in cui la ragazza corre sul tetto del palazzo per recuperare il cagnolino nelle mani del mangiatore di cani, è la sintesi perfetta del realismo crudo che inizia a sentire il bisogno di un respiro fantastico della narrazione. Sullo sfondo schiere di tifosi appostati sui tetti, inneggiano al gesto atletico della protagonista, amplificandone in tal modo la portata epica da una parte, e ironizzando sulla squallida quotidianità, dall’altra. Memorie di un assassino, del 2003, rappresenta il completamento di quella prima fase di indagine della narrazione, che vede la realtà sotto osservazione serrata, da più punti di vista, tutti realistici e in contrasto tra di loro. Mentre in Madre, al centro della storia ci sarà la serrata e disperata ricerca di innocenza, in Memorie di un assassino, c’è la disperata e accanita ricerca di un colpevole. Anche in quest’ultimo lavoro la soluzione è un fallimento, vale a dire l’insuccesso totale della ricerca del colpevole. Importante sembra essere la frase che uno dei detective dice all’altro verso la fine della disastrosa investigazione: “lascia perdere”. Lascia perdere di indagare una realtà intrinsecamente ingannevole. È come se il regista dicesse a sé stesso che la ricerca della verità porti comunque sia a una disfatta. E allora, tanto vale darsi a un universo più fantasioso, un universo inventato. The Host, realizzato nel 2006, rappresenta la vera svolta nella carriera del
di FABIO SAJEVA
dagli inizi a Parasite
regista di Parasite. In questa rappresentazione, il reale inizia a stare decisamente stretto nel mondo narrativo di Bong Joon-ho e prendendo spunto dal più classico dei B-movie di matrice ecologica, il regista crea una metafora del peggio che la realtà contemporanea sia in grado di creare: una mostruosa creatura terrorizza Seul facendo incetta di corpi in una fognatura che gli serve da dispensa. Ricorso massiccio agli effetti speciali e riprese rocambolesche, unite a un montaggio sincopato, fanno di The Host, un prodotto vendibilissimo che infatti sbanca i botteghini e trionfa a tutt’oggi sulla piattaforma Netflix. Madre, del 2009, rappresenta una ricerca della verità, intesa quale proiezione delle nostre speranze. Altro tema che si dimostrerà ricorrente, è l’innocenza dei reietti, quel tratto stereotipo di tutta una letteratura occidentale, che vuole gli ultimi essere per forza di cose innocenti, sfruttati, accusati ingiustamente. È interessante come nella narrativa di Bong Joon-ho, tutto si capovolga, portando gli ultimi della società a farsi carico delle colpe di un mondo proiettato verso un futuro incerto, a tratti distopico. Più tardi, nel 2013, realizza il citato Snowpiercer, action movie che narra di un futuro distopico nel quale una glaciazione ha tolto di mezzo ogni forma di vita. Unica maniera per sopravvivere, salire su di un mega treno lanciato a velocità folle per non ghiacciare anch’esso coi suoi abitanti all’interno. Interessante è il concentrarsi di Bong Joon-ho sulla guerra tra i poveri e i ricchi abitanti del treno. Scene truculente, uccisioni da manuale e finale senza alcuna speranza. Il treno delle diseguaglianze, ci dice il regista, è destinato a deragliare e se deraglia, tutti muoiono. Messaggio tanto semplice quanto catastrofico. Disponibile sulla piattaforma Amazon Prime. Su Netflix invece possiamo vedere la serie tratta dal film dal titolo omonimo. Il film Okja, del 2017, prende apparentemente le parti degli animalisti. Il film racconta di una grande azienda che sta sperimentando un super maiale dalle caratteristiche particolarmente succulente. I cuccioli vengono dati in allevamento a dei contadini per scopi puramente promozionali, ma la piccola Mija si lega alla dolce creatura gigante e i due divengono inseparabili. Il finale si conclude nel macello, nel quale tutti i simili di Okja fanno la fine per la quale sono venuti al mondo. Okja viene sottratta a caro prezzo dalle tavole umane, ma ciò non toglie che l’azienda continuerà a produrre super maiali e a macellarli. Il gusto per il paradosso, per l’iperbole trasformata in creatura, per l’esagerazione, prende piede e invade in maniera massiccia lo schermo. È come se il regista dicesse che non ci sarà mai fine alla nostra fame di idiozie, di esagerazioni, di spacconate anche genetiche. Il tutto sempre condito da quell’humor nero che è la vera cifra stilistica del racconto di Bong Joon-ho. Alla candida Mija si contrappone la schiacciasassi Mirando, magnificamente interpretata da una trasfigurata e sdoppiata Tilda Swinton che abbiamo apprezzato anche in Snowpiercer. Un manicheismo da manuale in questa pellicola decisamente sui generis, vede dei super cattivi, contrapporsi a dei super buoni, che si contendono un super maiale. Disponibile sulla piattaforma Netflix. Il percorso si chiude temporaneamente con Parasite, metafora del turbocapitalismo dal finale tragicamente agghiacciante. Nonostante in questo film non troviamo elementi di fantasia veri e propri, il sotterraneo che nasconde l’uomo perseguitato dai debiti, la dice lunga riguardo il punto di vista di Bong Joon-ho. Non è cambiato nulla dal suo primo film: i poveri derelitti che venivano arrestati in flagranza di reato perché costretti dalla povertà a mangiarsi i cani, ora si auto isolano, spariscono come fantasmi, consapevoli del fatto che la società non li voglia neanche vedere.