12 minute read
Elementi riflessioni – M. Podestà, P. Martino F. Asborno
ELEMENTI riflessioni
NON SEMPLICE TRASPOSIZIONE
Advertisement
INTERVISTA A GIANFRANCO DE BOSIO di Martina Podestà
Quando entro nello studio di De Bosio sono colpita dalla quantità di fogli, libri aperti e appunti sparsi sulla sua grande scrivania. Ovunque i libri del Ruzante, passione di una vita, e sugli appunti fitte indicazioni di scena; scalette di atti: la scrivania di un uomo di spettacolo ancora in piena attività, nonostante i novantadue anni.
Ci sarebbe molto di cui parlare con questo regista: il lavoro all’Arena di Verona, gli adattamenti del Ruzante, l’esperienza cinematografica; ma il mio compito oggi è chiedergli del suo bellissimo Riccardo II.
Nonostante i cinquant’anni passati dalla prima dello spettacolo, nel lontano 26 febbraio 1966, il regista parla dello spettacolo con un entusiasmo che lo fa tornare ragazzo, e non è difficile capirne il motivo: mi trovo davanti al promotore della traduzione in versi del Riccardo II da parte di uno dei più grandi poeti del ’900, Mario Luzi.
Per iniziare gli domando il perché della scelta del Riccardo II, e lui mi risponde con molta semplicità di trovarlo il più bel dramma storico di Shakespeare; ed io, che l’ho letto proprio in occasione di quest’intervista, non posso che dargli ragione: il Riccardo II è un disperato e doloroso pugno nello stomaco, è la parabola di un re vanesio e scialacquatore che, trovatosi a dover deporre la propria corona ai piedi del suo usurpatore, capisce di non contare più nulla senza quella corona; la storia di un re folle che nella sua abdicazione ritrova la sua umanità.
La seconda domanda, naturalmente, è relativa al perché della scelta di Luzi rispetto ad altri poeti.
De Bosio spiega di essere stato consigliato da un amico, Guido Davico Bonino.
«Guido Davico Bonino è stato consulente del Teatro Stabile di Torino per la parte letteraria e fu lui che, quando io espressi il desiderio di avere un traduttore che mi restituisse Shakespeare in versi e non in prosa, mi consigliò proprio Luzi, dicendo “Con Mario Luzi sarà dura perché non è un traduttore dall’inglese, però devi spingerlo per amore di Shakespeare a tentare questa esperienza”».
Una scelta fatta dunque per amore dell’originale, del testo; è proprio questa l’impressione che si ha leggendo la traduzione di Luzi: quella di una traduzione al servizio del testo di Shakespeare, di re Riccardo e del suo stesso respiro. Per fare ciò Luzi sceglie di non utilizzare una metrica rigida, elude infatti l’endecasillabo a favore di una versificazione libera, che si accorcia e si allunga in base alle esigenze del ritmo, del suono, della rappresentabilità scenica: un’operazione che solo un grande poeta come Luzi avrebbe potuto affrontare.
Inutile chiedere a De Bosio se il lavoro luziano sia stato all’altezza delle sue aspettative: più volte, durante l’intervista ripete che stiamo parlando della più bella traduzione shakespeariana della letteratura italiana: non semplice trasposizione, ma poesia essa stessa.
Prima di andare via decido di chiedere a De Bosio perché si sia fermato al Riccardo II quando invece il suo era un progetto molto più ampio, che prevedeva di mettere in scena più drammi shakespeariani tradotti da poeti.
«Mi sono allontanato da Shakespeare anche perché ero soddisfatto della traduzione di Luzi e non avevo voglia di ricominciare con un altro poeta. È stato un impegno molto grande quello con Luzi, forse anche sentimentalmente…»
Il regista esita un momento, poi passa ad un altro argomento, ma nella sua esitazione è racchiusa tutta la complessità di una collaborazione come quella con Luzi: un anno per la traduzione, altrettanto tempo per la preparazione della messinscena, la problematicità della produzione di un testo che doveva essere bello come le più belle poesie di Luzi e allo stesso tempo asciutto, rappresentabile, agile. Una difficoltà che fu ripagata dalla lode unanime allo spettacolo da parte di tutta la stampa italiana: un successo incredibile, che poteva probabilmente essere replicato con la traduzione di un altro lavoro shakespeariano, ma quale poeta scegliere? Esisteva qualcuno in grado di competere con la forza e la drammaticità della poesia luziana?
Forse De Bosio, ritenendo la traduzione di Luzi una vetta inarrivabile della traduzione in versi, non ha voluto impegnarsi con un altro poeta per non rischiare una delusione; il confronto con Luzi sarebbe stato per un altro poeta inevitabilmente difficile; forse il regista ha voluto lasciare quest’opera come un unicum, una perla rara nel mondo della traduzione.
Me ne vado con la consapevolezza di aver incontrato non solo un professionista del teatro con più mezzo secolo di carriera alle spalle, ma con la certezza di aver parlato con un uomo che è stato in grado di riconoscere e di valorizzare con la sua regia un capolavoro della letteratura italiana
PERSONAGGI. ATTORI E SPETTATORI
di Pietro Martino
Nella sua introduzione al Giocatore di Dostoevskij, Antonio Pennacchi evidenzia il carattere atipico dell’opera nella produzione matura dello scrittore russo. Il Giocatore fu pubblicato nel 1866, nello stesso anno in cui veniva pubblicato Delitto e Castigo, testo che Pennacchi definisce come res cogitatae, per il suo carattere profondamente legato all’introspezione psicologica, l’analisi di un Io che si rovella e si macera, messo in situazioni che rispetto alla riflessione sulla psiche hanno un valore relativo. Il Giocatore è invece definito come res gestae, romanzo di fatti, di cose che accadono, di struttura più classica.
Non c’è dubbio che il romanzo della psiche sarà la via maestra nella storia del genere: essa, nel giro di mezzo secolo,
porterà alla distruzione del romanzo come forma tradizionale (basti l’Ulisse di Joyce come esempio). Resta da chiedersi che cosa accada all’eroe in questo passaggio: da una forma che si era consolidata nel corso del secolo come serie di avvenimenti e situazioni, che possono assumere un valore simbolico, a qualcosa di profondamente diverso.
Il personaggio cambia. Alla figura canonica dell’eroe che si forma o cerca di formarsi (si pensi al Wilhelm Maister di Goethe, al balzachiano Rastignac di Papà Goriot, ma anche al nostro Renzo manzoniano), si sostituisce il modello di Raskol’nikov. Dostoevskij anticipa una strategia che diventerà anch’essa canonica quando a sostenerla sarà la psicanalisi freudiana. Il suo metodo d’indagine dell’interiorità sembra quasi premettere alle scoperte psicanalitiche, che prenderanno forma solo due decenni dopo la sua morte e influenzeranno profondamente lo sviluppo psicologico del personaggio (in senso moderno) all’interno della forma romanzo.
Basti pensare al nostro Svevo e al protagonista della sua Coscienza, parola chiave sia in psicanalisi che nel lessico del romanziere russo: Delitto e Castigo è il romanzo della coscienza di Raskol’nikov. Sulla stessa strada si pone un altro romanziere italiano, che figlio di Dostoevskij si dichiara più volte, ossia Moravia. Nei romanzi moraviani il personaggio tende ad essere analizzato (soprattutto nelle prime prove) o ad analizzarsi (soprattutto nei romanzi della maturità): la psicanalisi, freudiana e dei suoi epigoni, è per Moravia una costante, un’ossessione; è la galera dei suoi personaggi, che finiscono per guardarsi vivere e per cercare di comprendere le proprie azioni e i propri contatti col mondo alla luce di un’analisi meticolosa che ha qualcosa di oscuro e malato. Quando l’analisi non è autoanalisi, ma è rivolta all’altro, sfocia nel voyeurismo.
Il personaggio moderno pare afflitto da questo male specifico: non è più colui che vive, ma colui che si guarda vivere, o guarda vivere l’altro. Non ha più una missione che gli imponga le cosiddette peripezie; sta quasi sempre a casa o sul posto di lavoro, e macera la propria vita, spesso dozzinale, alla luce della sua incapacità di agire e prendersi ciò che oscuramente desidera: qualcosa che al primo strato della sua coscienza, l’unico che era indagato dall’analisi psicologica classica del personaggio tradizionale, risulta precluso.
Ricapitolando: il personaggio classico (si vedano i tre esempi dati in precedenza) è mosso da una serie di aspirazioni che rientrano nella sfera primaria, nella superficie della coscienza; quello moderno è invece colto in qualcosa che sta sotto le aspirazioni primarie e si muove nel secondario, nel magma profondo dell’inconscio.
É importante rilevare che anche se stiamo riflettendo su una trasformazione letteraria essa è legata all’evoluzione storica coeva al genere di cui stiamo parlando. Come è ovvio che accada è il tempo che ha modificato il romanzo e il suo personaggio, è la storia che ha provocato un cambiamento di cui Dostoevskij è stato almeno in parte della sua opera l’anticipatore, al quale non sono serviti quegli strumenti che per i suoi eredi saranno essenziali. Il personaggio moderno altro non sarà che una metafora o proiezione dell’uomo moderno.
L’uomo che guarda, citando un romanzo moraviano, è il moderno: schiacciato dai cambiamenti del suo tempo, dalla società di
massa che lo isola nella consuetudine borghese e poi nella sua evoluzione che è quella del nostro tempo, così difficile da definire e così difficile da ritrarre compiutamente. Non è un caso che si parli oggi di crisi del romanzo e del suo personaggio, fra le tante crisi del nostro tempo, come se essi non fossero più capaci di descriverci e interpretarci in quanto epoca. Ma se c’è una continuità fra l’uomo di Dostoevskij, Svevo e Moravia e quello dei giorni nostri, è proprio in questa condizione disumana del guardare e del non vivere, dello scorrere la home page di Facebook una ditata dopo l’altra, contemplando la vita di qualcun altro.
Forse il mondo è diventato talmente piccolo, ma complesso, che il personaggio preferisce starsene a casa, davanti al computer. Si tratta di un nuovo eroe contemporaneo, ancora difficile da definire
PER UN ONESTO SENTIMENTALISMO
di Federico Asborno
Penso a L’attimo fuggente, splendido film di Peter Weir del 1989, e penso allo splendido discorso leopardiano che Robin Williams fa ai suoi studenti quando spiega loro che «medicina, legge, economia, ingegneria sono tutte nobili professioni», ma ciò che ci tiene veramente in vita sono «la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore», e penso poi al concetto che abbiamo oggi di sentimentalismo, ovvero di una condizione esistenziale accomunabile a uno stato di debolezza. Essere preda del sentimento, forse per eredità di una passata concezione illuministico-positivista, equivale a essere deboli, fallaci, manchevoli di un’integrità pragmatica che la società oggi non solo richiede, ma esige. E a chi imputare la gran colpa se non a colui che di sentimentalismo – perché di sentimentalismo si sta parlando – vive, cioè il poeta?
Siamo appena fuoriusciti da un secolo, il XX, iniziato sotto le insegne di avanguardie eversive e dadaiste nel loro concepire il mondo, avanguardie che hanno fatto a pezzi il luogo comune di poeta come araldo del sentimento, calpestando e sputando sopra a lui e ai suoi modi d’espressione. Parliamo del Surrealismo, del Futurismo, dei nazionalismi e dell’esaltazione della forza fatta dai vari totalitarismi e dai loro cantori, tanto per fare qualche nome; il tutto in totale contrasto con l’accezione di poeta intimista e sentimentale, in quel senso. Pensiamo poi alla società descrittaci dai cosiddetti Modernisti; agli omini grigi e tristi di Kafka, quegli alienati, sperduti, piccoli esseri che vagano come insetti insensati in un formicaio ormai crollato; alla Waste land di Eliot; pensiamo alle distopie politiche di Aldous Huxley, di Orwell, di Matheson, al successivo uomo anni ’60, ridotto a lisergico clown dai romanzi di Hunther S. Thompson e tutto ciò che segue.
Dove sta il sentimentalismo in questo? Dove sta la rivalutazione di una condizione esistenziale fondativa dell’essere umano che viene bistrattata, legata alla sua cuccia e lasciata fuori al freddo per tutta la notte, ad abbaiare alla luna?
Intendiamoci: qui non si cerca di essere autoreferenziali, né tantomeno di tessere arazzi da metterci in salotto, ma la mia
risposta è che il sentimentalismo sta proprio qui, forse, non in questa pagina, ma tra le pagine di riviste come queste. Tra le pagine di coloro che pastrocchiano quaderni nascosti all’altrui vista, tra le pagine di quelli per il quale un libro non è un soprammobile, né una stanza in cui rinchiudersi a piangere lacrime da poetucolo incompreso, ma una porta che conduce altrove e per i quali la rivalutazione di un onesto sentimentalismo è fatto quotidiano.
Per un onesto sentimentalismo è importante sradicare la concezione di sensibilità come debolezza di colui che viene sommerso dal mondo, di colui che si infila sotto la coperta e piange la propria inettitudine alla vita. Bisogna ripensare alla figura del poeta come colui che può orientare il gusto, la filosofia, gli andamenti culturali e può suggerire sì vie d’uscita e scappatoie da una realtà che si fa sempre più funesta, ma anche soluzioni, modi di agire, di pensare e di concepire il diverso, di cui oggi – basta prendere in mano un quotidiano qualsiasi – sembriamo avere tremendamente bisogno.
In un mondo social che ci bombarda quotidianamente di news, fatti di cronaca, nuove tendenze, novità, opinioni ignobili stringate e ficcate in centoquaranta caratteri; in un mondo social che – citando il compianto Eco – «dà diritto di parola a legioni di imbecilli», un orientamento culturale, o meglio diversi orientamenti culturali, farebbero solo che bene e sarebbero utili a incanalare questa fiumana incontrollata di commenti e opinioni verso qualcosa di sensato. Creare linee dunque, operare distinguo, tracciare strade da percorrere per accorciare i tragitti, evitando deviazioni inutili intraprese da chi ha (e sempre avrà) sì diritto di circolare, ma non conosce la strada: in un mondo che è mandria incontrollata che pascola dove capita, credo sia necessaria una rivalutazione della preponderanza del sentimento. Soprattutto in un mondo meccanicistico che si dichiara più pragmatico del passato, un mondo smart e funzionalissimo, che evita le perdite di tempo, ma che poggia però su valori di un’effimera esaltazione di una vanità apparente, del dover essere piuttosto che del fare, è vitale il riconoscimento della fondamentale umanità dell’uomo: tautologia tanto grande quanto il disagio che mi spinge a doverlo ribadire.
E allora per un ritorno a un’etica del “fare”, forse, è necessaria la rivalutazione di una figura di poeta – perché “poeta” deriva dal greco ποιέω (poièo), che significa “fare” – di scrittore, di artista dedito alla trasmissione della propria soggettività, del proprio sentimento e delle proprie idee in favore degli altri, di un artista che lavora per esprimere se stesso, ma che può – e deve – giovare alla comunità. Tutto ciò, in un mondo silente e conformato a stilemi deviati di letteratura facile, malfatta e insipida, può rappresentare un atto di eversione: (ri) pensare a una poesia onesta, fatta di sentimenti espressi con sincerità che controbatta al disvalore dilagante dell’apparenza multimediale può risultare decisivo, oppure la solita, ennesima utopia da poeti romantici, ma mi riallaccio qui al discorso di Robin Williams e a Leopardi: se esseri umani siamo, altro non esiste che credere a illusioni e utopie, perché il resto, forse, è tutto troppo gramo e insensato