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Poesie – F. Ghillino, E. Pon

I DRAGHI

di Federico Ghillino

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Una vetta. Dal fondovalle non potevo altro che salire. Mi avevano detto dei draghi, ma continuavano a sfuggirmi nella quantità dei dettagli e in ciò che c’è d’inaspettato. Erano una mimesi esatta con lo sfondo, la narrazione fatta di fatti non poteva, però, trascurarne l’irruenza. D’un tratto li scorsi in quest’ordine: il lacustre, il terragno, l’aereo, il minerale col roccioso, e l’arboreo. L’unico modo per distinguerli, dalla vetta, era cercarmi dentro gli occhi per poi vedere meglio intorno. A quel punto, io, ebbi paura: mi ero finto guerriero, mago, astuto manipolatore, ma ero sfinito e disarmato. Ero uno, solo, e solo uno. Sondandoli li riconobbi tutti come parti di me: non erano ostili, potevo provare a capirli ma c’era dell’incomprensibile, dato dal beneficio dell’altezza. Fossero somma nel mio cuore sarei un rifulgere di fiamma inarrestabile, ma stanno fuori: animali impossibili da domare, come le cose. Non lo so fare, niente più. Hanno negli occhi quel riflesso da cui si può scorgere il resto, e quindi ci provo, mi vedo in loro e nel complesso colgo la vertigine della vetta: la mia natura di sconcerto.

MIAGIA

di Emanuele Pon

Qualche targa annerita, il guano secco di qualche gabbiano: a l'è sempre a miagia do vento, ghe coa in scio fondo o bronzin vegio do tempo1 .

Passo la piazza di sempre con volti di sempre e di oggi: è solo il barista, sorride a veder gente, di gioia generica – «quanti ne vedo come voi, ne ho visti», è simmetria bonaria il suo chiedere della vita, se siamo turisti;

ne ha visti tanti passare, tanti che adesso è di nebbia l’ordine di tutti quei loro che noi siamo stati, il ritmo dei volti appiccicati ai suoi muri – sulla miagia pezzi scalcinati.

Sbiadiscono solo per gioco i colori alle foto scattate per l’uso quotidiano – dare un poi sempre ad ogni prima, girare le pagine ingiallite di un diario –per gioco se basta appoggiarsi al muro

e lì scorrere dopo l’ora di chiusura il dito sullo schermo, gli istanti digitali vibrano onde lunghe da discernere a gocce o a fiotti, tutte uguali nel ricordo nel commento nel «mio dio! Il tempo che è passato!», nell’affacciarsi di tutto il nostro tempo nel pettegolìo.

Ed è naturale che uno alzi gli occhi a farsi scandire – sicuro – da un sole che sghignazza – lo sento – dietro il muro; l’orologio sulla pietra suona quanto vuole, ma il tempo non importa in questo magma scheggiato di passato, presente, parole: resta soltanto da assorbirne il marasma.

Qualche targa annerita, il guano secco di qualche gabbiano: a l'è sempre a miagia do vento, ghe coa in scio fondo o bronzin vegio do tempo.

1 Dialetto genovese: «È pur sempre il muro del vento, / ci cola sul fondo il rubinetto / vecchio del tempo».

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