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Elementi riflessioni – F. Asborno

LE POESIE DEI LETTORI

Lyakh Ruslan si presenta così: «Sono venuto a vivere in Italia, nella città di Genova, quando avevo diciassette anni, nell’anno 2007. Paradossalmente, avendo studiato al liceo scientifico, sono rimasto colpito dalle lezioni dell’italiano. Così la poesia entrò nella mia vita e da quei giorni in poi non ho smesso di scrivere.»

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LA NOTTE STRANA E MI ACCORGO di Lyakh Ruslan E sono in mezzo a leggerezza del tenero immaginare della brezza di oltre confini dei mari, ove mi sognano i briosi faro lontani…

Catene slacciate, la cella scampata… Crepare da anni non ha più importanza!

In mezzo ai sogni di un me sconosciuto io rimango fedele a te, pur sempre perduta. Gli schizzi curiosi, singhiozzi notturni… Le rondini sono sempre amiche e sono, ahimè, in cielo.

Galleggiano strofe su creste di onde… L’amore s’appresta nel viaggio da dove non si ritorna.

E sono in mezzo a timidezza del cuore mio inutile grezzo, degli sguardi mai più così cari… Mi svegliano strane le luci appassite dei falò lontani.

ELEMENTI riflessioni

PETER SHILTON E IL RACCONTO DELLO SPORT

di Federico Asborno

Jesse Owens che nel 1936 a Berlino vince i cento metri davanti al palmo di naso di Hitler, i calzettoni arrotolati di Rivera mentre butta dentro il 4 a 3 con la Germania Ovest allo stadio Azteca, la nuvola di polvere e pietrisco che Valentino Rossi si lascia dietro mentre supera Stoner al cavatappi della Laguna Seca, gli occhi folli e l’urlo primordiale di Marco Tardelli al Bernabeu. Così come in quella letteraria, il racconto dell’epopea sportiva si impreziosisce tramite quei momenti, sublimazioni di dettagli e personaggi così cruciali da diventare veri e propri spartiacque, attimi cristallizzatisi in icone. Laddove però esiste il gesto tecnico – la punizione contro le leggi della fisica di Roberto Carlos – esiste chi al gesto tecnico deve arrendersi, il portiere Barthez.

Da un’altra parte del mondo, in un altro tempo Peter Shilton era un buon portiere, non uno di quelli che è riuscito a imprimere la sua manualità nella categoria ontologica dell’estremo difensore, ma rimane comunque il recordman di presenze della nazionale inglese, mantenendo inviolata la porta dei leoni d’Inghilterra per ben dieci partite della fase finale di vari mondiali. Eppure Peter Shilton nessuno oggi se lo ricorda se non per due singoli gol subiti, due gol molto diversi, segnati dallo stesso giocatore nella stessa maledetta partita.

Siamo allo stadio Azteca – siamo sempre allo stadio Azteca, quando il metronomo della storia del calcio perde il ritmo e si verificano le meraviglie – ci sono più di trenta gradi, il muro di Berlino scricchiola, ma è ancora in piedi, perché è solo il 1986. “El diez” Diego Armando Maradona è in campo e, palla al piede, si accinge a erigere il Limes tra ciò che è solo un quarto di finale dei Mondiali e quella che sta diventando uno dei momenti più iconici del XX secolo. Al di là del Limes, dove tutto è mistero e ignoto, c’è lui, con quella maglia a strisce bianche e azzurre, al di qua ci sono gli inglesi, i suoi compagni di squadra, tutti gli Antonio Salieri, tutti i normali che non riescono a conquistare quel famoso centimetro decantato da Al Pacino in Ogni maledetta domenica, tutti coloro che devono restare legati alla loro gretta materia imperfetta.

Perché però si sceglie di raccontare l’ordinario quando esiste lo straordinario? Perché raccontare Shilton se abbiamo Maradona?

Assolutamente contraria, se vogliamo porle a confronto, alla dottrina dannunziana, esiste la famosa “Prospettiva del dottor Watson”: prendo un personaggio come tanti e lo piazzo insieme a una personalità fuori dal

comune, eccentrica e mai comprensibile fino in fondo. In narratologia si chiama “narratore omodiegetico”: l’autore decide di assumere come voce narrante non l’Andrea Sperelli di turno, ma uno degli spettatori che assistono alla scena madre (Peter Shilton che assiste impotente alla discesa di Maradona) perché per il lettore è più semplice empatizzare con il dottor Watson che con Sherlock Holmes. Raccontare Maradona è molto più semplice se sfrutti come punto d’appoggio il buon Peter Shilton, perché Peter Shilton – pur essendo un portiere di calibro internazionale – vede l’argentino come potremmo vederlo esattamente noi: un extraterrestre, Achille re dei Mirmidoni.

Ecco, ciò dimostra che a volte nello sport è più questione di come la si racconta che di come è avvenuta, una questione di prospettiva. Prendiamo la narrazione sportiva americana: Jorge Luis Borges dice che i nordamericani, non avendo una propria epica storica, riversano l’atavico bisogno di storie nel racconto e nell’esaltazione dello sport e dei suoi personaggi. Un’epica sportiva che cristallizza e storicizza il gesto del campione, tramutandolo in qualcosa di simile alla lancia di Diomede, all’epica: il tiro da tre di Michael Jordan è assimilabile così alla freccia di Paride, Foreman-Alì è il nuovo duello tra Ettore e Achille, la mazza di Joe DiMaggio è la clava di Eracle. Questo modo di raccontare lo sport crea un meraviglioso cortocircuito tra ciò che è avvenuto da (relativamente) poco e ciò che viene narrato alla stregua dei poemi omerici.

Il racconto dello sport di noi italiani, e quindi stiamo parlando quasi esclusivamente del racconto del calcio, dal momento che siamo piuttosto antidemocratici in questo, si è mosso verso un tipo di narrazione come quella realizzata dagli americani e teorizzata da Borges. Un esempio su tutti è il giornalista/onomaturgo Gianni Brera (1919-1992) che, ad esempio, paragonò il ritorno all’Inter di Helenio Herrera al dietrofront di Achille sulla decisione di restituire il corpo di Ettore a Priamo.

La radio e la stampa, non coadiuvate dall’ausilio dell’immagine come la televisione, hanno rimodulato il racconto del calcio verso un tipo di narrazione non più solo descrittiva. Oggi il bravo commentatore dev’essere un grande narratore e intrattenitore. Di qui si spiega il successo, straripante e meritatissimo, di un meraviglioso aedo come Buffa.

Federico Buffa incarna, oggi in Italia, il concetto di moderno narratore dello sport: un narratore che prende lo sport come Macguffin per raccontare un’epoca, dei personaggi, delle storie che possano andare a genio anche a chi non si nutre solo di sport nudo e crudo. I racconti di Buffa, così come il programma RAI “Sfide”, riavvicinano all’epica perché sono epica: la trasfigurazione dei campioni e dei loro gesti è pressoché totale. Un gol, una partita, un palo al novantesimo, tutto può diventare simbolo e spiegazione di un’era dell’uomo, di un fatto storico. Prendiamo le Storie Mondiali: Buffa ci racconta dieci edizioni dei campionati mondiali di calcio (1930, 1950, 1966,

1970, 1974, 1982, 1986, 1990, 1994, 1998), ma non lo fa nello stile di quel Nick Hornby che in Febbre a 90° ci racconta di un protagonista che vive la sua vita adattando il proprio battito cardiaco a quello della sua squadra del cuore, l’Arsenal. Buffa adotta uno stile molto vicino a quello di Omero: sorvola il corpus delle sue storie decidendo se, come e quando planare in picchiata per approfondirne un aspetto. La vera genialità e il vero interesse sta nel modo in cui il narratore riesce sempre a spiazzare il lettore/spettatore, introducendolo agli eventi più noti sempre tramite la porta di servizio: nelle storie del narratore di Sky, chi ascolta viene sempre fatto entrare da dietro le quinte, lì dove gli attori sono più vicini, dove il contatto con la storia, ma anche con la finzione che è la storia, è più stretto.

Buffa riesce a scandire il suo racconto grazie alla perfetta padronanza del ritmo, dell’andamento, della gestione dei personaggi, creando costantemente strutture circolari in cui i dettagli non sono mai superflui. Come diceva Cechov «Se nel primo capitolo dici che c’è un fucile appeso al muro, nel secondo o terzo capitolo devi assolutamente farlo sparare. Se il fucile non viene usato, non dovrebbe neanche starsene lì appeso». Ecco, i fucili che Buffa appende ai muri sparano tutti quanti

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