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Infischiatene recensioni – I. Buselli

loro buccicciotoli laser e frastornicarono il processionario alla base. Non avevano casperato però che l’alleantrovatimidanza sorreddigitante avesse trucerbiattoli a zampillazzuli liberticenti, infatti questi intergettirono provicacemente con lanugo stranfulo. Insomma i mistori galattocardici si trovarono misticerchiati e la buccianurità sembrava un pragolismo. Cosa fare? La nastrovicella matrerna ricampava segnuli di pericolerica ma la disastrage fu inevitoccultabile.

Goran, l’ambico cortomuschiaio, respitonava pensicuri di tutti. Non era la primotivata voltaccaduta che popolastrazioni tumefficienti sbrigoldavano inpuliti. Tuttavia il postricurdo dicitofonistico in servizio sgunulava anomanzie da tutti gli gnoli, come se diburtazuoni ribattenti avessero allangato torbe a fiati. Segnallarme di pericarditolo!

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Strillonzavano le sirencefale, i cortomuschiai reclastati in gruppazioni di difellerta, le camalleabili dei marmoni corbistate in sellavallo.

Goran era ambico, ovvero capacizuoso di leccornitriti a ratificazioni caramellarie distali. Non appenassurdo i sorredigitanti si mostricarono spascellando i civilabittadini con i loro trucerbiattoli alleanzati, ecco i leccornitriti allettattrarre la golosiccità, le dentibole cominciziare a caramellariarsi! Le dentazioni trafordite dagli zucchertimenti prosticavano con terringuli doloribrezzi stellatricidi! Mai una contorcizione dentalica così frignevole e zigugnosa si era goltumberata nella tempernità.

La sconfiggitazione sorredigitante fu epicatastrofischiante.

Goran, stremaffaticato per la caramellificante retificazione distale si spresciugò in un sofficeruleo sbuffetto fli con leggiadrezza.

Ancora oggi si tramescola la leggendaria progenzia del cortomuschiaio e della sua dolcimentazione ambica, e si narra che da allora mai più l’alleantrovatimidanza sorredigitante nocque a nessuno

INFISCHIATENE recensioni

GABRIELE DI FRONZO

IL GRANDE ANIMALE (NOTTETEMPO, 2016) di Irene Buselli

Ci sono romanzi che sembrano nascere senza sforzo, come improvvisati. Il grande animale non è tra questi: l’esordio di Gabriele Di Fronzo è un’opera curata in ogni dettaglio, frutto di un grande lavoro sul protagonista e sul suo linguaggio.

Non è un personaggio che si possa improvvisare, infatti, Francesco Colloneve, di professione tassidermista. Del suo mestiere l’autore conosce quasi ogni strumento e ogni procedura, e per ogni animale sono descritti, con lessico tecnico

ma allo stesso tempo con una connotazione quasi rituale, tutte le fasi che compongono il processo di imbalsamazione. Affinché un animale possa conservarsi, qualunque esso sia, è necessario che sia svuotato della sua «parte viva» e dunque deperibile: lo spazio in cui sempre tende a muoversi Colloneve, come persona e come professionista, è appunto questo vuoto, la dimensione dell’assenza e dell’addio.

Insomma, il lavoro di Colloneve, «facile capirlo, ha a che fare con la parte viva dei morti».

E se il suo mestiere è decisamente insolito, molto comune è invece la situazione che egli si trova a dover affrontare: accudire il padre nelle sue ultime settimane di vita.

Ma a che animale assomiglia un padre? Come ci si congeda da lui, come ci si avvicina a quel vuoto che, come Colloneve ha imparato in anni di esercizio, è necessario a non perderlo per sempre?

Di Fronzo riesce a trasmettere l’intimità e la fragilità di questo rapporto nel più delicato dei modi, senza mai di fatto evidenziare l’avvicinamento tra padre e figlio che il lettore, tuttavia, percepisce chiaramente.

Così, con un procedimento per certi versi analogo a quello che è abituato a seguire con gli animali, il figlio si muove con i suoi strumenti nella memoria del padre, scavando tra ricordi e colpe quasi dimenticate.

Voce narrante del romanzo, Francesco Colloneve parla di sé quasi esclusivamente attraverso la sua professione; tutto ciò che il lettore apprende sulla sua personalità passa attraverso i vezzi linguistici e le espressioni desuete che caratterizzano la sua lingua, costruita su di lui con precisione chirurgica.

L’operazione che Di Fronzo compie sulla sua scrittura, in un certo senso, lo assimila al suo protagonista: con massima precisione il tassidermista sostituisce le interiora degli animali con la plastilina, con estrema attenzione lo scrittore restituisce a chi legge l’anima del suo personaggio attraverso uno stile plasmato a sua immagine. E, come il rischio più grande del tassidermista – secondo Colloneve – è quello di rendere troppo evidente il proprio operato, il pericoloso confine su cui si muove l’autore è proprio quello che separa il controllo della scrittura dall’artificiosità: confine all’interno del quale, a parer mio, non sempre riesce a mantenersi. La sensazione, in alcuni punti, è quella di scorgere oltre la pagina quello che dovrebbe rimanere nascosto al lettore, ovvero la fatica di questa costruzione; così capita che lo sforzo volto alla ricerca della naturalezza ottenga l’effetto contrario, delineando non i tratti del protagonista, ma le forme di una maschera posticcia.

Nonostante queste sbavature, Il grande animale riesce ad accompagnare il lettore all’ultima pagina con una delicatezza e un’intensità eccezionali, in una climax ascendente di potenza e spessore introspettivo: un libro che certamente vale la pena leggere, una grande metafora dell’eterna fragilità umana di fronte alla morte

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