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Planetario autori – C. Calabresi

PLANETARIO autori

ELIO PAGLIARANI C’ERA UNA VOLTA LA CITTÀ D’ACCIAIO di Claudia Calabresi

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Vita città ferro pedagogia

A diciott’anni sbarca a Milano, dove trova impiego in una società di import-export: nella città d’acciaio, soltanto «i camion della frutta» della Romagna in cui è nato e cresciuto. In alto, sopra di lui, un «cielo colore di lamiera» che – si sarà forse chiesto con disperato sarcasmo come la sua antieroina Carla Dondi – «non prolunga all’infinito / i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli / coperti di lamiera?»

Neoavanguardista, curiosamente influenzato da autori solo all’apparenza lontani da lui – uno su tutti: Giovanni Pascoli – Elio Pagliarani si erge a cantore dell’Italia nel boom degli anni ’50, esplosione che origina un’allampanata violenza di industrie, edifici, nuovi mestieri a scardinare totalmente la consueta scansione cronologica dell’esistenza umana; contempla, come un confuso Charlie Chaplin di Tempi moderni, la nuova ambigua relazione uomo-città, e con lucida pietà oggettiva coglie in questo sorgere rabbioso di materia il mutamento spirituale della società, descrivendo i suoi devastanti effetti. Una varietà mai vista prima di sentimenti e linguaggi, infatti, si affastellano nei «boschi di cemento» della neoMilano.

Nuova umanità che il poeta sceglie di raccontare ne La ragazza Carla, poema sperimentale di rara ricchezza intertestuale, denso di riferimenti vecchi e nuovi a poesia, cinema, vita quotidiana: un caleidoscopio frastornante di pensieri collettivi. Il poeta sbircia attraverso un filtro distaccato – ma non sempre – l’umanità intorno a lui, si cala nei suoi personaggi, estrapola frasi, vissuti e sensazioni e sceglie di raccontarli così come li vede: disordinati e discordanti. La realtà non è, ai suoi occhi, univoca e decifrabile; né sembra interessargli conferire poeticità ad essa. Qui la poesia è più che altro questione di montaggio – in senso cinematografico o industriale, questo è tutto da stabilire. Forse la bellezza della realtà sta nella sua composizione o meglio, nell’assemblaggio di elementi fortemente antitetici: l’ingenua Carla Dondi si scontra con il satiro Pratèk, e «I Germani di Tacito nel fiume / li buttano nel fiume appena nati / la gente che s‘incontra alle serali». Possiamo provare ad accostare, per esercizio di immaginazione, questi Germani alle pratiche barbare che hanno fatto il loro ingresso nella città: il ferro di Milano è il ferro, forse, di un nuovo sconvolgente Medioevo emotivo e intellettuale? Forse è questo che si chiede Pagliarani quando sceglie di narrare la storia di «Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo / all’ombra del Duomo», concependo il testo, inizialmente, come un soggetto cinematografico, diventato poema solo in fase successiva. Un passaggio che a noi può sembrare poco ortodosso è

per l’autore la naturale conseguenza della rivoluzione del linguaggio nata a partire dal già citato Pascoli: rivoluzione egualitaria che coinvolge il parlato quotidiano, con le sue imperfezioni e sbavature, elevandolo a materia poetica. Ma il parlato quotidiano trascina con sé i fatti che il parlato quotidiano racconta: certo l’impiegato e l’operaio non hanno tempo di fermarsi a cercare risposte in un cielo ormai ridotto a fondale della città meccanica. L’unica domanda a loro cara è «Chi abita nel cielo e quanto paga / d’affitto?» a significare quanto l’idea di Dio, considerato mera creazione intellettuale, sia suscettibile dello stesso cambiamento che la società ha voluto apportare alla realtà concreta. Tangibile e intangibile sono incollati dalla mano dell’uomo sullo stesso foglio e vivono la stessa metamorfosi: una divinità padrona prima, affittuaria poi, di una scenografia metallica e celeste. Se non c’è più poesia a terra, così sia anche in cielo, sembra aver deciso l’umanità impietosa descritta dal poeta.

La stessa domanda sembra farsi una «sensibile scontrosa impreparata» Carla, che affronta i rischi di una metropoli passivamente ostile, resa nemica più per la sua immobilità antiprovvidenziale che per un effettivo movimento aggressivo verso di lei; ostacolo enorme e silenzioso a una giovane donna che vive come può, sollecitata dai richiami pedagogici di un narratore – maestro a volte assorto in tutt’altro, altre concentrato sulle sue avventure quotidiane e tragiche. La protagonista vive insieme alla madre, alla sorella e al cognato in una famiglia/branco dove si attua una rigida e ferina gerarchia di spartizione: «Angelo un osso buco intero, con patate / Carla un pezzo col midollo che le piace / l’altro pezzo Nerina la madre le patate.» Angelo e Nerina «fanno cigolare il vecchio letto della mamma»; Carla ascolta, di notte, quei «respiri che sanno d’animale», consapevole di non avere ancora un ruolo all’interno del suo habitat, o meglio, l’abitudine di cui Pagliarani parla nell’incipit del primo capitolo, l’abitudine che è tanto «utile averci» per continuare a vivere anche di fronte alla manifestazione del male, del dolore e dell’impotenza di fronte ad essi. È infatti immediato, nel poema, il riferimento alle molestie sessuali perpetrate nei suoi confronti dal datore di lavoro, il signor Pratèk (il satiro di cui sopra): presentazione di Carla nel poema, prima di tutto, è la sua reazione spaventata a questo lupo cattivo in agguato tra le fronde dei grattacieli. La madre si affretta a costringerla al silenzio e anzi Carla viene spinta a far visita alla signora Pratèk, come per scusarsi proprio di ciò di cui è vittima.

Pensare che, fino a poco prima, la ragazza osservava nell’ufficio (in un tutt’uno emotivo con il suo narratore): «Sono momenti belli: c’è silenzio / e il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli / quella gente che marcia al suo lavoro […] / è questa che decide / e son dei loro / non c’è altro da dire.» Ma non c’è tempo per piangere: Dio è impegnato a sbarcare il lunario e non verrà in suo soccorso. A Carla non resta che accettare il suo ingresso violento nell’età adulta armata di rossetto, calze di nylon, e un nuovo disincantato sguardo con cui affrontare la sua esistenza, lo stesso che ha il ragazzo Elio quando, sceso dal treno, osserva attonito Milano, e quando più tardi scriverà: «sono vivo, senza rimedio / sono ancora vivo», nella struggente, definitiva assimilazione del suo io al personaggio che ha creato

[da La ragazza Carla, 1960]

I, 3 Se si diventa grandi quando s’allungano le notti, e brevi i giorni ecco ci sono dentro sembra a Carla di credere, e sta attenta a non muoversi ché il sonno di sua madre è così lieve nel divano accanto – ma dormirà davvero, con Angelo e Nerina che fanno cigolare il vecchio letto

della mamma! e Carla ne commisura il ritmo al polso, intanto che sudore e pelle d’oca e brividi di freddo e vampe di calore spremono tutti gli umori del suo corpo. E quelle grida brevi, quei respiri che sanno d’animale o riso nella strozza ci vogliono

all’amore?

E Piero sul ponte, e la gente –tutta così? S’addormenta che corre in una notte che non promette alba sul ponte che sta fermo e lì rimane e Carla anche.

II, 5 Però non è sicuro che la Carla cresca come si deve o voglia o sappia farlo, come si cresce a quell’età e quali fatti passino o quali invece segnino un passaggio, chi lo sa?

A venti o a ventiquattro quanti han scritto d’esser pronti e d’aver necessità di rifare all’indietro quella strada non agevole, fin dentro nelle viscere di chi li ha fatti nascere, a cercare momenti di rottura soluzioni di continuità

che la storia non dà ma che ci sono stati certamente se sono come sono? Carla, sensibile scontrosa impreparata si perde e tira avanti, senza dire una volta mi piace o non lo voglio con pochi paradigmi non compresi tali, o inaccettati; desideri precisi da chiarirsi non le avanzano a fine mese

a fine mese sangue maculato tra le gambe pallide la fa tremare sempre, e Praték quando la chiama nel suo ufficio per dettare.

III, 7

Nerina ha voglia di ridere, perché ride ogni tanto adesso, con il figlio, Carla ha la faccia seria [mentre provano allo specchio, mentre Nerina insegna e Carla impara a mettere il rossetto sulle labbra: ci deve essere [in un cassetto un paio di calze di nylon, finissime bisogna provarle.

Questo lunedì comincia che si sveglia presto, che indugia svagata nella piazza prima di entrare in ufficio, che saluta a testa alta «Buongiorno» con l’aggiunta «a tutti», che sorride cercando Aldo con gli occhi che gli dice «Bella la ragazza e come attenta ai tuoi discorsi», che incominci – forse – il lavoro fresca.

Quanto di morte noi circonda e quanto tocca mutarne in vita per esistere è diamante sul vetro, svolgimento concreto d’uomo in storia che resiste solo vivo scarnendosi al suo tempo quando ristagna il ritmo e quando investe lo stesso corpo umano a mutamento.

Ma non basta comprendere per dare empito al volto e farsene diritto: non c’è risoluzione nel conflitto storia esistenza fuori dell’amare altri, anche se amore importi amare lacrime, se precipiti in errore o bruci in folle o guasti nel convitto la vivanda, o sradichi dal fitto pietà di noi e orgoglio con dolore. [da Inventario privato, 1959]

Il verso «quanto di morte noi circonda» apriva, e nella chiusa, isolato bene in vista «tu sola della morte antagonista».

Ma già prima del termine di giugno la mia palinodia divenne sorte: nessun antagonista alla mia morte.

E sono vivo, senza rimedio sono ancora vivo.

BIBLIOGRAFIA Sonia Caporossi, ‘La ragazza Carla’ di Elio Pagliarani: un coacervo di crepuscolarismo e sperimentazione, da Atelier n. 77, marzo 2015

Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, Einaudi, 2005 Elio Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005) a cura di Andrea Cortellessa, Garzanti, 2006

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