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Prossa nova racconti – M. Valentini

PROSSA NOVA racconti

È COLPA DELLE LUMACHE!

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di Matteo Valentini

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Le bouse sono lumache senza il guscio, dal colore variabile tra il marrone scuro e l’arancione. Il loro nome viene sempre pronunciato con un certo disgusto.

La B suona come un tamburo imperiale percosso da un battente rivestito di feltro. È robusta perché le tocca reggere tutte le altre lettere, che sono invece svogliate e dimesse: O U S E.

A pensarci viene in mente un dipinto ad olio, una crosta con la superficie lucida: un signore e suo fratello sono seduti sullo stesso divano di pelle marrone chiaro, è agosto, hanno appena pranzato e sorbiscono un digestivo in due tazze da caffè. Con una mano reggono la tazzina e con l’altra premono sul ginocchio per mantenersi in posizione eretta. Bevono simultaneamente e sono entrambi pronti ad allungarsi sul divano, quando l’ultima goccia di liquido dolciastro gli sarà scesa dentro la gola.

La moglie del signore sonnecchia su una poltrona messa di sghembo rispetto al divano. Di lei si vedono: le gambe allungate sotto al tavolino, il ventre fiorito, la punta del naso, la mano carnosa su un cane che mangia gli avanzi del pranzo.

In casa mia il cibo avanzato è circondato da un’aura immorale.

L’avanzo è sconcio.

Quando al centro della tavola o sulla grata dei fornelli resta una pentola, una padella, un’insalatiera con dentro del cibo e abbiamo appena iniziato a bere il caffè, mio padre sussurra, quasi sovrappensiero: «È un peccato».

Nessuno lo considera e lui, d’altronde, non fa nulla di più per attirare l’attenzione su di sé. L’oziosa conversazione da fine pasto non viene interrotta oppure resta, intatto, il silenzio.

Passa un minuto e mio padre sospira: «Eh, certo che è un peccato», scuotendo la testa rassegnato e pensoso, come di fronte a un accadimento che vada al di là delle sue proprie forze. Continuiamo tutti a occuparci d’altro, chi intaglia la buccia di un mandarino, chi guarda la televisione. Nessuno si alza da tavola.

«Vi è piaciuto?» chiede, questa volta a voce alta e gioviale, mio padre. In casa mia è difficile che una pietanza sia mal cucinata e quindi tutti affermiamo che sì, ci è piaciuto, anche solo annuendo in silenzio. «E allora perché è avanzato quel boccone? Io ho un’età che non mi posso riempire la pancia, ma voi avreste potuto sforzarvi!». Spingendo il rimprovero in tavola, mio padre abbandona il suo posto con le mani a massaggiare lo stomaco, dice che va a stendersi un attimo e chiede se ci possiamo pensare noi, per una volta, a “far la cucina”.

La mamma mugola qualcosa al tele-

visore, io e mio fratello ci prepariamo ad iniziare il lavoro, che è strutturato semplicemente: uno sparecchia la tavola, l’altro riempie la lavastoviglie. Chi dei due finisce per primo, può dileguarsi.

Non c’è bisogno di discutere e turni non ne abbiamo mai stilati: già da come ci alziamo si capisce chi se ne potrà andare in camera e chi resterà in cucina da solo con la mamma.

Mio fratello fa in modo di levarsi dalla sedia con qualcosa in mano, di solito la bottiglia dell’acqua, che agita come fosse una coppa, prima di metterla al suo posto nel frigo: quella messinscena serve ad indicarmi la lunga, pericolante, untuosa strada della lavastoviglie, che libero dai piatti puliti e riempio con quelli sporchi, rumorosamente impilati nell’acquaio da mio fratello, prima della sua fuga in camera.

A me che resto, tocca anche lavare i fornelli con il bicarbonato e, arrivato a quel punto, decidere cosa fare del cibo avanzato.

Per la nostra famiglia non è pensabile conservare un avanzo e mangiarlo il giorno dopo. Non sopportiamo la puzza del cibo nel frigorifero (vi conserviamo solo alimenti confezionati) né la consistenza asciutta di un pasto riscaldato. D’altra parte è ignobile far sprofondare nella pattumiera quello che solo un’ora prima stava nel piatto. È un peccato.

La mamma non segue le operazioni di pulizia, è stanca, fissa il televisore, ma percepisce quando è il momento di intervenire: «Dallo ai gatti».

Tutti in famiglia sappiamo che i nostri gatti non mangiano la pasta o l’insalata, anzi le annusano appena e poi se ne vanno. Lo sappiamo anche se sistemiamo la ciotola leggermente discosta dal vetro, così da non vederla.

Quando scende la notte e l’aria si carica dell’umidità del bosco vicino a casa, le bouse escono dalle loro tane negli interstizi dei muri e scivolano verso la ciotola ricolma di cibo, si arrampicano sulle sue pareti slavate e banchettano con quello che nessuno vuole mangiare, ci liberano dall’averlo sprecato, diventano la nostra vergogna.

Il giorno dopo, alla mattina, quando apriamo la porta per uscire di casa, le scopriamo dentro la ciotola vuota, una sopra l’altra nella loro orgia di bave. Allora ci prendiamo un momento, anche a costo di partire in ritardo, e senza pietà le cospargiamo di sale o infilziamo la loro corazza elastica con un sottile spiedo ricavato da qualche rametto appuntito per l’occasione. La ciotola viene, alla fine, raschiata con lo stesso rametto, lavata con l’acqua e rimessa al suo posto

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