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Elementi riflessioni – M. Podestà, D. Porcheddu

ELEMENTI riflessioni

L’INFANZIA FERITA NEI RACCONTI DI MICHELE MARI

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di Martina Podestà

Una lunga conversazione tra un bambino e un mostro abitante sotto il suo letto apre la raccolta Fantasmagonia di Michele Mari. Il mostro non ci viene descritto, ma da come parla – le sue parole sono inframmezzate da moltissime acca, in un flusso quasi incomprensibile – immaginiamo una creatura terrificante, bofonchiante e bavosa, giunta non tanto per spaventare il bambino quanto per avverare la sua paura più paralizzante: fare del male ai suoi cari.

Le paure più intime di ogni bambino vengono personificate in questa galleria di mostri da incubo, ognuna con un vistoso difetto di pronuncia, che immaginiamo con bocche enormi e scomposte, denti aguzzi e disgustosi; sembra di trovarci di fronte alle temibili creature fantascientifiche omaggiate dallo stesso Mari nel racconto Le copertine di Urania, contenuto nella raccolta Tu, sanguinosa infanzia.

L’infanzia descritta da Mari è dunque un’età immaginifica, surreale, in cui a prendere vita sono le vivide fantasie e le sconcertanti paure del bambino in cui il confine tra sogno e veglia è sottilissimo: i mostri immaginati diventano reali, i giardinetti diventano spettrali luoghi dell’orrore in cui si aggirano creature mitologiche come le Madri, gli Altri, i Vampiri, le Larve.

L’infanzia diventa (o forse è sempre stata) il periodo della scoperta, di assorbimento di storie e personaggi: così, ne La famiglia della mamma, un bambino resta muto e immobile, assorto nelle storie della mamma riguardanti la sua famiglia, storie macabre di tradimenti, uccisioni, scomparse. Solo alla fine si scoprirà il nome del bambino, tale William di Stratford-upon-Avon.

I mostri e i pochi, significativi, oggetti amati nell’infanzia creano nei racconti di Mari una mitologia imprescindibile, assurgono a simboli di un’età sanguinosa, in cui le paure nascono e si evolvono: il bambino che contempla le copertine di Urania è in una posizione di ambivalenza, tra fascino per il diverso e terrore dell’ignoto; lo stesso fascino e timore che prova nei confronti degli strani rituali degli adulti, del futuro.

I sentimenti infantili sono narrati con una profondità e una vivacità straordinari; la descrizione è quella di un’età arcaica, perduta, ma talmente presente da fare male. Così l’amore per una compagna di classe viene raccontata con struggimento, l’attaccamento nei confronti di oggetti come i fumetti nel racconto Giornalini viene narrato attraverso un linguaggio teso, sussultante come un terreno accidentato: il professore che prende in mano i vecchi Mandrake, Cocco Bill, PaperEpopea, torna bambino, preda del ricordo,

della luminescenza dell’età perduta, e si promette di non far toccare i preziosi fumetti dalle manine appiccicose del figlioletto che tanto non capirebbe.

La concezione di infanzia di Mari è quella di un’età di solitudine, in cui il bambino vive le sue paure e i suoi pensieri in modo estremamente egoistico, quasi che non venendo condivisi restino a galleggiare nella sua mente: unico mondo che sente di conoscere per davvero è quello della propria fantasia, una fortezza costituita da storie immaginate, giornalini, stupefacenti creature fantascientifiche. Un mondo irreale, ma onnipresente che nasconde però insidie sfuggenti al suo controllo: l’immaginazione è infatti in grado di dar vita a mostri orrendi, come quello che promette di far del male ai suoi genitori, realizzando così il suo terrore più grande.

I genitori infatti sono, seppur immersi in una dimensione non ancora comprensibile dal bambino, un porto sicuro, i ricordi con loro – soprattutto quelli dell’infanzia – costituiscono, insieme ad una serie di minuzie importantissime, come i ricordi degli oggetti amati, un bagaglio fondamentale che perdurerà incrollabile, come se quei piccoli frammenti di vita fossero gli unici ad avere davvero senso:

Io, quando facevo merenda con il latte, mettevo nella scodella tanti pezzi di pane fino a che il cucchiaio rimanesse in piedi da solo. Se entrava in cucina, mio padre diceva «Che bel paciarot!» e me ne rubava un po’.

Non c’è stato molto altro nella vita.

No, è quasi tutto laggiù

LOST IN TRANSLATION

di Diletta Porcheddu

Lost in translation è un film diretto da Sofia Coppola che ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura nel 2003. Nonostante il titolo, esso non ha niente a che fare con la nobile arte della traduzione, anzi, è una storia d’amore, e forse proprio la sua trama ha fatto pensare di poterlo presentare nelle sale italiane con il titolo L’amore tradotto.

Ironia della sorte, attraverso questa scelta il significato originale del titolo è stato davvero lost in translation, ossia letteralmente perso nella traduzione di quegli addetti ai lavori che spesso usano un po’ troppa creatività nel farlo, almeno in Italia.

A loro difesa però c’è da dire che la traduzione dall’inglese all’italiano è spesso davvero problematica, non solo per quanto riguarda i tanto vituperati titoli dei film, ma per tutte le opere artistiche: questo soprattutto per l’ovvia diversità fonetica tra le due lingue, che porta all’impossibilità di rendere al meglio alcune figure retoriche, come allitterazioni, assonanze e consonanze, in molti casi fondamentali per l’impatto dell’opera stessa.

Oltre a questa considerazione quasi scontata, è bene sottolineare che l’elemento forse storicamente più determinante nella scelta di alcune tecniche di traduzione è stato però quello della differenza tra la cultura anglosassone e quella italiana, un tempo davvero marcata, la quale favoriva l’intraducibilità di certe espressioni e modi di dire appunto per la mancanza di appositi riferimenti culturali.

La reazione a questa difficoltà in un primo momento è stato il tentativo di traduzione totale ed indiscriminata; forse per fare meglio immedesimare il fruitore mediterraneo, forse per facilitare la diffusione di opere che si sarebbero poi rivelate senza tempo né limite geografico, in nome di questa missione fino a pochi decenni fa si giustificavano spesso alcune evidenti forzature.

Per accorgersene, basta guardare la prima traduzione di Orgoglio e Pregiudizio, risalente al 1932: oggi a nessun traduttore verrebbe mai in mente di tradurre il nome della protagonista (Elizabeth-Elisabetta) e l’idea che una ricca abitante dell’Hertfordshire possa chiamarsi Giovanna Bennet fa quantomeno sorridere qualunque lettore contemporaneo.

Ma il gravoso compito non poteva essere portato avanti solo dagli editori, e infatti anche l’industria della musica italiana decise di darvi il suo contributo. Soprattutto durante gli anni della Beat Generation, essa ha sfornato innumerevoli versioni tradotte di canzoni anglosassoni, come Sono bugiarda di Caterina Caselli (1967) reinterpretazione di I’m a believer dei Monkees, o Pregherò, di Adriano Celentano (1965), rifacimento

di Stand by me di Ben E. King. A metà tra musica e letteratura, anche il recente premio Nobel Bob Dylan vanta una rivisitazione in salsa italica della sua Knockin’ on heaven’s door, ovvero Ai miei figli che dirò di Adriano Pappalardo (1975).

Oggi, nell’era della contaminazione continua tra inglese e italiano, questo trend ha decisamente perso molto del suo appeal. Più persone conoscono effettivamente la lingua inglese, e quindi molti traduttori tendono a lasciare invariate alcune espressioni e nomi, consapevoli del fatto che le meno efficaci trasposizioni in italiano non soddisferebbero i lettori/spettatori/ ascoltatori di nuova generazione. Infatti, riprendendo Jane Austen, la versione italiana di Ragione e Sentimento del 2008 lascia vivere le sorelle Dashwood nel loro cottage, senza trasferirle in un banale “villino di campagna”.

Decisamente controcorrente rispetto a questo tipo di tendenza è stata invece la traduzione dei primi tre libri della saga di Harry Potter, negli anni dal 1998 al 2000, che infatti è stata subissata da critiche di ogni genere. È innegabile che l’utilizzo da parte di J.K. Rowling di giochi di parole e neologismi vari l’abbia resa parecchio più complicata, ma alcune scelte sono quantomeno discutibili, per esempio per quanto riguarda i nomi delle case.

Se per Hufflepuff, letteralmente “sbuffare a raffiche o folate”, è stato comprensibilmente ritenuto di mantenere solo l’allitterazione nel nome Tassorosso, la traduzione di Ravenclaw (letteralmente “artiglio di corvo”) con il poco lusinghiero Pecoranera snaturava in modo così evidente il carattere che l’autrice aveva voluto dare alla casa che l’editore Salani ha ritenuto di dover ristampare tutti e tre i libri, correggendola con la più corretta Corvonero.

Lasciando da parte le considerazioni storiche, tradurre è un compito molto più difficile e nobile di quanto sembri, tanto che il diritto italiano copre (giustamente) le traduzioni con lo stesso diritto d’autore che tutela le opere letterarie, cinematografiche e teatrali, a patto però che esse contengano un sostanziale elemento di “creatività”. La speranza è che in nome di ciò non vi sia la tentazione di sacrificare la bellezza degli originali, e che questa non venga mai più, appunto, persa nella traduzione

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