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A metà degli anni Ottanta, in un periodo dominato dagli individualismi e dall’omologazione delle idee, grazie alla convergenza organizzativa dei tre maggiori gruppi di ricerca teatrale dell’area napoletana, nasce la Cooperativa Teatri Uniti. Ad un mondo diviso, personalistico e chiuso in se stesso, questa formazione contrappone l’apertura e l’unione dei teatri, lontano dalle semplici logiche di mercato. Tale risultato si ottiene dalla fusione di Falso Movimento – il gruppo guidato da Mario Martone, attento ai meccanismi della società dei mass media e all’intreccio dei linguaggi espressivi – con il Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller – dalla parte soprattutto della visualità pittorica e della sua utopia – e con il Teatro Studio di Caserta capeggiato da Toni Servillo, aggancio tra la memoria, la forza della tradizione teatrale e le suggestioni della realtà contemporanea. Secondo Martone il destino del teatrante è proprio “quello
2. I Teatri Uniti in Toscana 3. La fondazione dei Teatri Uniti 4. Toni Servillo 7. Mario Martone 9. I giocatori 10. Enrico Ianniello 12. Tony Laudadio 15. Dolore sotto chiave / Pericolosamente 16. Francesco Saponaro 18. Manca solo la domenica 19. Licia Maglietta 22. Fuochi a mare per Vladimir Majakovskij 23. Caproni! 24. Andrea Renzi 27. Titanic — The End 28. Antonio Neiwiller “Frammenti” 29. Cesare Accetta 30. I Teatri Uniti alla Pergola 32. A proposito della Trilogia della villeggiatura 34. Teatri Uniti: una officina creativa
di rimettersi in cammino, ricominciare il percorso da una nuova origine che possa dar luogo ad affermazioni diverse” ed in tal senso, tra cinema e teatro, si muovono le produzioni dei Teatri Uniti. Si ribadisce inequivocabilmente un messaggio condiviso dall’intera Compagnia, dagli attori e dai collaboratori che negli anni hanno seguito l’esperienza dei Teatri Uniti: l’affermazione del rito del teatro, della sua responsabilità civile nella società.
Le proiezioni 40. Ricordando Neiwiller 41. Toni Servillo a teatro 43. Francesco Saponaro videomaker 44. Servillo / Sorrentino tra cinema e teatro 46. Mario Martone dal teatro al cinema 47. Gli interpreti e un po’ di storia
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I Teatri Uniti in Toscana di Angelo Curti
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
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eatri Uniti in Toscana è per noi la possibilità di realizzare e condividere con la platea territoriale una nuova riflessione, secondo consuetudine concreta e sul campo, intorno al percorso compiuto dal nostro lavoro, a teatro e non solo, in ormai quasi trenta stagioni di ininterrotta attività. Il rapporto di Teatri Uniti con la Toscana e con Firenze in particolare si è naturalmente avvalso, nei passati decenni, anche di alcune altre opportunità di accoglienza, in una regione che in Italia è senz’altro la più teatralmente evoluta per riconosciute capacità e qualità delle strutture. Le prime presenze di Teatri Uniti nell’area di Firenze dalla fine degli anni Ottanta, con spettacoli di Mario Martone, Toni Servillo e Licia Maglietta, sono infatti collocabili negli spazi del Teatro di Rifredi, della Limonaia di Sesto Fiorentino e nei due principali teatri di Prato. La relazione speciale con il palcoscenico della Pergola è però storicamente fondata, trattandosi fra l’altro dell’unico teatro italiano ad aver accolto in successione dal 1997, con la lungimiranza che per alcune stagioni ha contraddistinto l’operato del troppo frettolosamente disciolto Ente Teatrale Italiano, entrambi gli spettacoli del dittico molièriano di Toni Servillo, consentendo un memorabile allestimento di Tartufo con il pubblico su due gradinate a condividere il palco con gli interpreti. Siamo pertanto grati alla Fondazione Teatro della Toscana, uno dei Teatri Nazionali, che fra gli altri meriti annovera anche quello di aggregare felicemente in una casa comune, intorno a uno storico tempio della scena italiana come il Teatro della Pergola, alcuni dei più significativi luoghi d’elezione della tradizione e dell’innovazione scenica, quali il Teatro Niccolini, il Teatro Studio di Scandicci e il Centro per la Ricerca e la Sperimentazione Teatrale di Pontedera. Questa occasione ci consente quindi di segnare un punto di approdo che auspichiamo possa nel contempo diventare anche un campo base per nuove e proficue ripartenze in termini di collaborazione e scambi creativi e produttivi fra le nostre realtà.
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La fondazione dei Teatri Uniti
di Mario Martone
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eatri Uniti è un laboratorio permanente per la produzione e lo studio dell’arte scenica contemporanea. Nasce dall’incontro di Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta e dalla analisi comune compiuta sulla necessità di superare lo statuto e la condizione di ‘gruppo’ in una realtà sociale, culturale e politica profondamente diversa qual è quella che si annuncia con gli anni Novanta. La trasformazione del sistema teatrale, del rapporto tra gli artisti e i teatri è dovuta da un lato alla sparizione del fronte che negli anni in cui i gruppi sono nati divideva ufficialità e sperimentazione (e per fronte si intende qui divisione ideologica), dall’altro alla presa di potere ‘in progress’, cioè auto-divorante e indistruttibile da parte dei mass media. Nei dieci anni in cui sono stati gruppi, Falso Movimento, Teatro dei Mutamenti e Teatro Studio di Caserta hanno affrontato di petto questo passaggio vorticoso che così profondamente sta mutando la nostra cultura, guardando da posizioni diverse a uno stesso orizzonte, sul luogo e sul tempo che sono al di là di questo passaggio. Si sono immersi cioè nell’universo dei media per tenere vivo dentro di essi la forza del teatro, e per arricchirsi di un bagaglio linguistico nuovo, di un lessico che permetta il rapporto e il confronto con questo universo. Ora, Teatri Uniti alza una barriera nei confronti di un sistema teatrale confuso che fa della confusione una forza distruttiva: Teatri Uniti intende progettare e produrre senza limiti formali, senza remore ad affrontare campi ritenuti dominio della convenzione (la drammaturgia e l’interpretazione del testo) così come senza timore nell’approfondire pratiche oggi sempre meno protette dalla mentalità aggressiva del sistema teatrale (il laboratorio e la ricerca rivolta al proprio interno, lontana dai facili consensi e dal chiasso dell’informazione). Il teatro come inesauribile macchina civile e cuore vivo di ogni progresso è l’orizzonte comune a cui guardano gli uomini che formano Teatri Uniti, attori, registi, artisti, tecnici, tutti presenti con l’individualità del proprio lavoro e al tempo stesso con la coscienza della funzione collettiva di ogni autentica esperienza teatrale; ed è sempre in questo orizzonte che si prospetta l’incontro, teorico e produttivo, di artisti e studiosi esterni che possano portare il proprio contributo. Teatri Uniti non è catalogabile in nessun settore produttivo: ripensa al rapporto con la propria città, Napoli, e per lei progetta un teatro pubblico che rinnovi, non che conservi; organizza le proprie compagnie di giro e insieme determina iniziative legate a un solo spazio, è proiettato sia verso l’interiorità dello studio che verso il campo aperto del confronto con lo spettatore. (10 settembre 1987)
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Toni Servillo IL TEATRO CHE CONTINUA di Angela Consagra
Leggere sul palcoscenico le parole di autori napoletani – come avviene, per esempio, ne La parola canta o in Toni Servillo legge Napoli – che tipo di viaggio è? Si affronta la sostanza verbale e sonora di poeti, scrittori e compositori, testimoni della città di Napoli nel passato e nel presente. Affiora dunque una realtà che, tra pulsioni e pratiche, carne e sangue, rifugge le icone più obsolete della napoletanità, ma che pure accoglie il bisogno perentorio di non rinunciare ad una identità sedimentata da quattro secoli di letteratura.
Che città è Napoli per Lei? Mi sento in debito con questa città che mi ha arricchito. Una ricchezza culturale senza pari che cerco di trasmettere in giro per il mondo nei suoi aspetti più nobili, riflessivi, tragici. In generale il mio lavoro si alimenta della complessità di Napoli, che ha ancora la dimensione ideale di una città comunque viva rispetto a tante altre. Una città dai mille volti e dalle mille contraddizioni, divisa fra l’estrema vitalità e lo smarrimento più profondo, una città di cui la lingua è il più antico segno, forgiato dal tempo e dalle contaminazioni.
I Teatri Uniti, di cui Lei è uno dei fondatori, nascono negli anni Ottanta. Com’è cambiata la
vostra Compagnia nel corso del tempo? In realtà siamo rimasti una struttura leggera che lavora fra il teatro e il cinema, promuovendo l’attività dei giovani e realizzando esperienze di innovazione. Radicati a Napoli pur non avendo un teatro, restando mobili e cercando di avere un rapporto con le istituzioni più che con il sistema commerciale.
La vostra Compagnia è riconoscibile per dei tratti scenici precisi: pensiamo, per esempio, al tipico uso delle luci o al palco aggettante che regge tutta la scena. Ho nei confronti dell’opera rappresentata un rispetto quasi accademico, dettato da una curiosità intellettuale molto forte. Quando scelgo un autore è perché amo quell’autore. Per quello ritengo che quello che ha scritto vada interpretato in tutte sue sfumature. Non mi piace sovrappormi alle intenzioni dello scrittore, cerco invece di muovermi all’interno dei contenuti del testo ‘risollecitandoli’. Lo spazio è spesso l’unica forzatura, dovuta soprattutto ad esigenze sceniche. Il nostro è, prima di tutto, un teatro di parola, legato al potere della recitazione. Mi piace molto l’idea di condurre gli spettatori quanto più possibile vicino agli attori, in un tentativo che non diventi didascalico, ma di semplice e concreto coinvolgimento.
Di Eduardo De Filippo, suo punto di riferimento, ha detto che è “un grande facitore di copioni”, nei quali “il profondo spazio silenzioso che c’è fra il testo, gli interpreti ed il pubblico va riempito di senso sera per sera
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sul palcoscenico, replica dopo replica”. Un attore, in scena, è conscio del potere che ha? Assolutamente, sempre, ed è per questo che ogni sera si va in scena con il cuore in gola. Mi sento profondamente legato a Eduardo in quanto era un drammaturgo-attore che ha creato grandi copioni pronti per la recitazione. Nelle sue messinscena le parole e i si-
coglierne tutta la complessità? Eduardo definiva la tradizione come la vita che continua. La lettura di un testo è soprattutto un approfondimento, attraverso la pratica scenica, dei preziosi valori presenti in esso, per risollecitarli, riuscendo a cogliere l’eccitazione viva che essi trasmettono, portando il passato in rapporto con il presente. FOTO FILIPPO MANZINI
Toni e Peppe Servillo con la Compagnia de Le voci di dentro di Eduardo De Filippo regia Toni Servillo
lenzi assumono una forte connotazione espressiva: gran parte della drammaturgia di Eduardo è spesso all’insegna di una parola che tende per sua natura al silenzio. Non è stato solo il più grande attore italiano del suo tempo ma anche uno straordinario esempio di moralità e dedizione, questo è ancora oggi molto importante per il nostro Paese.
Un aspetto estremamente affascinante nei suoi allestimenti di Eduardo De Filippo è che mantengono sempre un rispetto per la tradizione riuscendo però, allo stesso tempo, a rinnovare questo autore. Come si arriva a
“La pratica del teatro è un percorso di conoscenza attraverso una relazione intima e profonda con tutti gli strumenti del tuo mestiere” Il suo primo ricordo legato a Eduardo De Filippo. Ho più volte ricordato l’emozione di assistere alle versioni televisive delle commedie di Eduardo e la scoperta di tutti quei personaggi in cui poi potevo rispecchiare i parenti e i membri della mia famiglia raccolta intorno alla televisione.
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Quanto il teatro influenza le sue interpretazioni cinematografiche? La pratica del teatro è un percorso di conoscenza attraverso una relazione intima e profonda con tutti gli strumenti del tuo mestiere. Recitare al cinema è un’attività parallela che svolgo proficuamente e con piacere,
testo, ci fosse sempre un ‘retropensiero’ ironico che toglie pesantezza e letteratura al fatto teatrale.
La preparazione alla scena: è un rito? Come si prepara? Noi di solito ci riuniamo tutti quanti, ci diciamo Merda! e ci stringiamo le mani. E’ una tradizione; da
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spesso d’estate, scegliendo con cura sia le sceneggiature che gli autori che me le propongono.
Nei suoi spettacoli, oltre a continui spunti di riflessione, è sempre presente l’elemento ironico. L’ironia è una componente fondamentale di condivisione con il pubblico: favorisce l’accadimento, in quel preciso istante fa scattare quella sensazione speciale di esserci, a teatro, e non di subirlo. È come se, al di là del
tempo lo facciamo con molta semplicità, senza attribuire a questo momento nessun significato recondito. Prima di fare uno spettacolo, durante le prove, io ho molta paura. Vado sempre teso in scena. Superate però le prime repliche della tournée e l’ansia del risultato, alla fine diventa anche una gioia incontrare il pubblico. A quel punto non ho bisogno di esorcizzare la paura e anzi, prima di ogni rappresentazione, io non vedo l’ora di andare in palcoscenico: desidero che cominci lo spettacolo, e che sia una bella serata!
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“Credetemi: noi artisti di teatro, noi che crediamo alla nostra arte e che viviamo solo per lei, in ogni parte del mondo, dovremmo riunirci e lavorare insieme...” Konstantin Stanislavskij
di Mario Martone
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a frase di Stanislavskij con cui iniziavo la prima parte del documento di fondazione dei Teatri Uniti datato 10 settembre 1987, qui sopra riportata, potrebbe essere una chiave di lettura di tutto il mio lavoro, di tutta la mia vita.
La propensione ad aprire spazi mentali, a creare possibilità di incontro tra artisti e poetiche a volte anche diversissime tra loro ha contraddistinto non solo tutto il mio percorso prima e dopo Teatri Uniti ma fa parte della mia stessa pratica artistica. Do vita ad ogni spettacolo, ad ogni film come fosse un campo di forze sul quale scatenare la relazione tra le persone: a volte queste persone sono compagni di lunga o lunghissima data, altre volte artisti con i quali a prima vista sarebbero pochi i punti di contatto. Dall’alchimia tra queste relazioni nasce di volta in volta una nuova forma, ed è questa la ragione per cui i miei lavori sono spesso così diversi l’uno dall’altro. Da ragazzo avevo già preso a formare gruppi dai nomi eccentrici: Il battello ebbro, I nobili di rosa, infine (avevo vent’anni) Falso Movimento, il gruppo in cui confluirono uno dopo l’altro buona parte dei protagonisti di Teatri Uniti di oggi (Curti, Renzi, Mari, Fiorito, Rondanini, Maglietta...) e col quale realizzammo spettacoli che girarono il mondo. Negli otto anni di vita di Falso Movimento la tensione all’apertura è stata costantemente viva, e l’arrivo di persone che chiamavo a collaborare da protagonisti come Tomas Arana (che del gruppo divenne leader con me), successivamente Antonio Neiwiller e Toni Servillo (che guidavano altre formazioni, il Teatro dei Mutamenti e il Teatro Studio di Caserta), andavano modificando la fisionomia del gruppo. Grazie all’incontro con loro riuscivo a dar vita a spettacoli che non erano cristallizzazioni della ricerca precedente, ma ogni volta forme nuove che spostavano in altri territori. Quando nell’86 realizzammo Ritorno ad Alphaville, in cui mi era sembrato così bello, così interessante lavorare con Servillo e Neiwiller, proposi ai miei compagni vecchi e nuovi di sciogliere i nostri gruppi e di formare un organismo, potremmo dire una factory, che dell’apertura e della pluralità facessero la propria poetica. Il resto è noto: il flusso di laboratori di Antonio Neiwiller (con la sua inarrivabile e ormai leggendaria purezza di gesto), Toni Servillo che coinvolse per primo Enzo Moscato e prese di petto la tradizione napoletana, spingendo anche Leo de Berardinis ad affrontare Eduardo, il coinvolgimento di Fabrizia Ramondino, Carlo Cecchi, Anna Bonaiuto in quello che sarebbe stato il mio primo film e al tempo stesso il primo film di Teatri Uniti, Morte di un matematico napoletano. Un’energia e una complessità da cui nacquero tanti lavori e soprattutto che formarono tante persone dei di-
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versi campi d’azione del teatro e del cinema. Un’esperienza anche politica, in una città come Napoli le cui straordinarie possibilità sono spesso minate da divisioni e diffidenze. Questa forma aperta di Teatri Uniti è durata una decina d’anni, tanti dunque, una stagione straordinaria e irripetibile. È il Teatri Uniti del ‘900, diciamo, ormai scherzando, con Curti. Dopo la morte di Antonio Neiwiller e la mia uscita dal gruppo è nato infatti il Teatri Uniti del 2000, come un ramo dall’albero, capace di imporsi con grande forza, a dimostrazione della vitalità del seme e al tempo stesso dell’autonomia di ogni processo creativo.
Toni Servillo, Antonio Neiwiller e Mario Martone 1987
È Teatri Uniti di cui è leader Toni Servillo insieme ad Angelo Curti, un gruppo che fa invece della forza centripeta la sua caratteristica principale. Naturalmente anche Teatri Uniti di oggi, senza tradire lo spirito originario, forma artisti nuovi e produce spettacoli con diversi registi, ma la tensione è quella ad una proficua compattezza, che riesce a ottenere, grazie alla bravura di Toni Servillo, quei grandi risultati che rendono Teatri Uniti una delle più importanti compagnie europee. Canti di innocenza, canti d’esperienza, si potrebbe dire con William Blake. Sono felice che Firenze dedichi una retrospettiva a Teatri Uniti: ormai cominciano ad essere più d’una le generazioni di spettatori con i quali gli artisti che si radunano sotto questa sigla continuano a dialogare, in una articolazione complessa e con una ricchezza di temi che credo siano sempre assai stimolanti.
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Gli spettacoli
I Giocatori di Pau Mirò con Enrico Ianniello, Tony Laudadio, Marcello Romolo, Luciano Saltarelli collaborazione artistica Simone Petrella direzione tecnica Lello Becchimanzi traduzione e regia Enrico Ianniello Premio Ubu 2013 “miglior testo straniero” una produzione Teatri Uniti in collaborazione con Onorevole Teatro Casertano | Institut Ramon Llull Napoli e Barcellona ancora una volta unite in teatro da Enrico Ianniello nel primo allestimento in Italia di Jùcature (Giocatori) di Pau Mirò, vincitore del Premio Butaca 2012 per il miglior testo in lingua catalana e messo in scena con successo due stagioni fa a Barcellona con la regia dello stesso Mirò al Teatre Lliure diretto da Lluís Pasqual. In scena quattro uomini, interpretati da Enrico Ianniello, Tony Laudadio, Marcello Romolo e Luciano Saltarelli, condividono tragicomiche frustrazioni e fallimenti giocando a carte, in attesa di un ultimo estremo guizzo vitale. In un vecchio appartamento, intorno a un tavolo, sotto una lampada, quattro uomini, un barbiere, un becchino, un attore e un professore di matematica, giocano a carte. I soldi sono spariti da tempo, come qualsiasi possibilità di successo personale. L’appartamento è un rifugio dove tutti i fallimenti sono accettati, permessi. Il fallimento è la regola, non l’eccezione. Ma proprio sul punto di toccare il fondo, i quattro decidono di rischiare il tutto per tutto, rouge et noir, e allora il gioco si fa pericoloso. Anche in questa occasione, come nella fortunatissima esperienza di Chiòve, (riadattamento napoletano della messinscena catalana Plou a Barcelona trapiantata da Barcellona ai Quartieri Spagnoli di Napoli, per la regia di Francesco Saponaro, sempre con la traduzione di Enrico Ianniello), I giocatori è ambientato a Napoli “anche se questa volta - sottolinea il regista - si tratta di un’ambientazione esclusivamente linguistica, senza riferimenti geografici precisi, un’assenza di collocazione che mi pare una cifra fondamentale dei quattro personaggi raccontati da Mirò: uomini di “mezz’età”, come si suol dire (quindi senza un’età che li descriva), senza nome (sono definiti dalla loro professione), senza lavoro e senza un vero amore che li faccia bruciare di passione. Maschere grottesche che si incontrano, in tempo di crisi, per mettere in gioco l’unico capitale che hanno a disposizione: la loro solitudine, la loro ironia, la loro incapacità di capire”.
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Gli spettacoli I Giocatori
Enrico Ianniello TRA FORZA E NOVITÀ Nello spettacolo I giocatori è presente un’unione tra la lingua catalana e il napoletano… Questa unione è nata già da tempo perché questo è il secondo spettacolo di Pau Mirò che traduco dal catalano in napoletano. L’esperienza precedente era stata Chiòve, dove già era stata trapiantata nei Quartieri Spagnoli di Napoli la messinscena catalana di Plou a Barcellona, un altro spettacolo di Pau Mirò. Frequento la Catalogna ormai da circa dodici anni e credo che ci sia una similarità tra questi due luoghi geografici apparentemente così distanti: sia Barcellona che Napoli si affacciano sul Mediterraneo, entrambe le città contengono al loro interno dei quartieri più poveri o degradati proprio al centro, nel cuore della loro identità. Inoltre c’è un legame anche dal punto di vista strettamente linguistico: il napoletano è un dialetto potente, capace di catturare lo spettatore.
Il gioco che conducono i quattro giocatori in scena è di tipo metaforico? I giocatori dello spettacolo sono talmente falliti che non hanno neanche i soldi per la posta da giocare: non hanno niente, se non la loro solitudine
da condividere. È un tipo di fallimento metaforico perché sono esclusi dal gioco della vita. L’impostazione registica si concentra su alcuni elementi che ormai contraddistinguono quella che è la nostra scuola scenica, se così si può dire: gli attori in evidenza, una scenografia estremamente semplice e un bel testo. Il mio lavoro è stato quello di favorire al massimo una certa intimità scenica degli attori, in modo da riversarla con forza in platea. Per esempio, noi attori in scena ad un certo punto ci prepariamo per davvero il caffè e tutto contribuisce a creare una singolare situazione di comunità. Sul palcoscenico rappresentiamo quattro classi sociali veramente diverse – un becchino, un barbiere, un attore, un professore – che si trovano in un momento di crisi e quello che li salva è l’unione.
Ci sono dei tratti distintivi che possono dirsi tipici dei Teatri Uniti? Sicuramente, per quanto riguarda me e gli altri attori de I giocatori, ad unirci è una linea di lavoro che proviene da Toni Servillo e che nel corso del tempo abbiamo approfondito anche con Andrea Renzi: il desiderio di mettere in scena dei testi puntando tutto sulla forza e la capacità dell’attore, con un’attenzione estrema rivolta alla recitazione pura e senza inutili stravolgimenti. E il nome Teatri Uniti sta proprio a significare questo legame di anime, anche molto differenti tra loro, che crea un’intesa. Nel corso del tempo fortunatamente siamo tutti cambiati, in qualche modo, e anzi mi sembra che la capacità di rimanere se stessi nel cambiamento sia una sfida assolutamente necessaria da accogliere. Gioca a nostro favore il fatto
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di non aver voluto mai seguire le mode e allo stesso tempo di aver tenuto sempre le antenne ben dritte verso qualsiasi segnale di rinnovamento, partendo dal profondo, dalle radici del sistema teatrale. È questo equilibrio tra forza e novità che crea la forza dei Teatri Uniti. Alla fine credo che l’intento dei Teatri Uniti sia quello di fare degli spettacoli che ci corrispondano, senza metterci sopra nessuna etichetta predefinita.
tro le quinte e senti come stanno andando gli altri attori sulla scena, ascolti le reazioni del pubblico, così misuri anche la tua intensità emotiva, calibri il tuo ingresso. In genere, nell’attesa, mi ritrovo a provare il respiro per assecondarlo al ritmo degli attori che già stanno recitando. Oltre a prepararti tecnicamente, quel respiro ti allarga il cuore, la testa, e ti fa entrare nel mondo dell’illusione. Per me il rapporto con il pubblico è imFOTO MARZIA BERTELLI
Dopo tante e tante repliche, l’emozione non abbandona mai un attore che affronta il palcoscenico? Nel nostro mestiere c’è il rischio della ripetitività, ma è proprio la tecnica dell’emozione che ti aiuta a scongiurarla. Giorno dopo giorno hai acquisito sicurezza e questo ti dà una carica maggiore di tranquillità mettendoti in una condizione di sfida: esigi sempre qualcosa di nuovo da te stesso, ogni sera stabilisci che il tuo limite sulla scena è più alto di quello precedente, senti che puoi osare e che il pubblico ti dà fiducia. Spesso prima di entrare sul palcoscenico, stai die-
“Il nome Teatri Uniti sta proprio a significare questo legame di anime” portante, anche se nel corso del tempo è cambiato molto. In passato desideravo essere accettato completamente, invece ho imparato che è bello anche non ‘regalarsi’ troppo. Bisogna instaurare una discussione con il pubblico e questo spesso significa regalare qualche silenzio in più... Il pubblico è tutto. Se lo spettatore segue l’attore, affrontando insieme emozioni ogni volta più complicate, ecco che in questo modo si crea il teatro. (A. C.)
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Gli spettacoli I Giocatori
Tony Laudadio
Pau Mirò, l’autore de I giocatori, ha una scrittura estremamente ironica?
E’ un autore che noi dei Teatri Uniti conosciamo bene perché innanzitutto è un amico: abbiamo avuto modo di frequentarci e di lavorare insieme. La sua scrittura ha delle caratteristiche molto precise che riguardano la tipologia di personaggi che mette in scena; Pau Mirò è sempre ispirato dalla trasversalità delle fasce sociali, partendo Lo spettacolo I giocatori è stato dal basso verso l’alto rappresenta tutdefinito “un testo senza tempo”, te quelle figure che possono vivere in dove i personaggi non hanno una comunità: dai barbieri ai becchini connotazioni precise... Il testo de I giocatori presenta una – come nel caso de I giocatori – o le proforma di sospensione, tipica di tutto il stitute e i loro protettori che si ritrovateatro moderno. Infatti i personaggi non no in Chiòve, un altro testo di Mirò. È hanno neanche un nome ma vengono un’umanità varia che si incrocia, acidentificati tramite il mestiere che face- compagnata sempre da un grande senvano prima di entrare nella casa in cui so dell’ironia e del comico. Grazie alla si svolge tutta la vicenda. In particolare traduzione dal catalano al napoletano il mio personaggio è un attore, quindi in de I giocatori eseguita da Enrico Ianqualche modo avviene una sorta di cor- niello, credo che questa direzione di tocircuito con me stesso perchè si mette comicità venga ulteriormente accentuata, in chiave grottesca, e che questo “Eduardo si diverte a creare un spettacolo risulti tragicomico. Sia il mondo variegato di umanità“ catalano che il napoletano sono delle minoranze linguistiche, ecco perché in scena una parte di me che in genere i due linguaggi si sposano così bene: rimane nascosta. L’attore che interpre- si ha sempre la sensazione di parlare to sta vivendo una sospensione dal suo una lingua che magari altrove non rimestiere perché subisce una crisi, come escono a capire, conferendo un’aurea tutti gli altri giocatori. Il teatro non gli di esclusività e di distanza da tutto il dà più l’emozione né la forza interiore resto del mondo che ti rende unico e degli inizi, quindi si tratta di un uomo forse anche un po’ speciale... in cerca di eventuali surrogati possibili in grado di farlo emozionare. Rimane Il napoletano mantiene comunque in lui una grande spinta, comunque una sua universalità? la voglia di vivere e di continuare ad Spesso ciò che è ancorato ad un emozionarsi ancora. Da questo punto territorio, in seguito diventa univerdi vista mi sento molto vicino a questo sale perché rappresenta la base di personaggio. un’esistenza e di una cultura che sono
IL PARADOSSO DELL’ESSERE
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primigenie, quindi recepite ovunque con gli stessi occhi. Il napoletano ha una tradizione davvero antica e millenaria, riconosciuta da tutti gli italiani che in questo linguaggio percepiscono una musica e una poeticità. La cultura napoletana è tragicomica, con una capacità intrinseca di affrontare la vita in modo anche cinico ma sempre molto appassionato. Alla fine questa è una caratteristica che tutti abbiamo dentro, non appartiene soltanto ai napoletani.
me artisticamente condividono tutto. Per quanto riguarda la forma estetica, ovviamente ciascuno ha la sua cifra stilistica, anche se credo che si possano ritrovare dei tratti comuni: un’attenzione estrema al lavoro dell’attore – con il fine di arrivare ad una costruzione dei
“La cultura napoletana è tragicomica, con una capacità intrinseca di affrontare la vita in modo cinico ma sempre molto appassionato“ FOTO MARZIA BERTELLI
Ci sono dei tratti che possono dirsi tipici dei Teatri Uniti? La forza dei Teatri Uniti sta nell’unione: quando Toni Servillo, Mario Martone e Antonio Neiwiller si unirono, invece di prendere ognuno la sua strada, presero la propria ambizione e la misero in comune. Questo è il vero segreto: una comunità di artisti che si confrontano tra loro costantemente. Per qualsiasi idea di spettacolo o di messinscena, per ogni possibile interpretazione, ne parlo con tutta un’altra serie di artisti che mi stanno a fianco e che con
personaggi in senso moderno che miri I giocatori ad un rinnovamento della tradizione – di Pau Mirò e un impegno rivolto alla messinscena con Enrio Ianniello, di ogni spettacolo, che ci renda degli Renato Carpentieri, onesti esecutori del testo, quanto più Marcello Romolo, Tony Laudadio precisi nella trasposizione: sinceri nel regia Enrico Ianniello farlo senza trucchi e senza aggiungere forme che si allontanino dalla sostanza del racconto in sé. I Teatri Uniti si sono sempre rinnovati in questo modo, unificando diverse realtà e mettendole in costante contatto tra loro, anche se permane la libertà e l’autonomia di ogni singola individualità.
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Che cos’è per Lei il pubblico? Sostanzialmente è l’altra energia di uno spettacolo, il carburante di ogni attore. Il punto iniziale, la fonte di ogni progetto artistico: ciò che viene ideato deve sempre essere parte del pubblico. Questa è una considerazione più generale sul teatro: mi piacciono quegli spettacoli dove avviene uno scambio
che si esprimono spesso nel lato tragicomico dell’esistenza, la sua cifra caratteristica più bella. Nello spettacolo che proponiamo, Dolore sotto chiave, si pratica uno sberleffo alla morte: questo è un retaggio forte della cultura napoletana che guarda al paradosso con l’intento di descrivere certe situazioni fortemente surreali, ma crude e reali al tempo
FOTO ATTILIO ULISSE
Dolore sotto chiave di Eduardo De Filippo con Tony Laudadio, Giampiero Schiano, Luciano Saltarelli regia Francesco Saponaro
tra platea e palcoscenico che determina qualcosa di inspiegabile… È il pubblico a generare questo effetto unico: spesso infatti dietro le quinte capita a noi attori di commentare l’andamento del pubblico, la temperatura che si respira, perché sono gli spettatori stessi a fare lo spettacolo e ad accompagnare gli attori.
stesso. È un testo inedito di Eduardo: lui stesso l’aveva fatto alla radio e una volta sola a teatro negli anni Sessanta, mentre il figlio Luca l’aveva ripreso nell’Ottanta. Questa versione è la terza edizione nell’arco di cinquant’anni, quindi il nostro è ‘un bel malloppo’, un’importante eredità, da portarsi addosso.
In che modo Eduardo può ancora parlare allo spettatore di oggi?
Il vostro è un Eduardo visionario?
Il linguaggio di Eduardo è profondamente contemporaneo: il suo napoletano riflette la sintesi tra una tradizione linguistico- teatrale e la modernità. È un autore che unisce più caratteristiche insieme, partendo da un’attenzione estrema ai paradossi dell’essere e del vivere
Sì, mantiene una caratteristica che si ritrova in tutti i suoi atti unici: la libertà, proprio dal punto di vista strutturale. Spesso Eduardo si diverte a creare delle situazioni grottesche, sempre sopra le righe, per esporre un mondo variegato di umanità che si dibatte appunto per paradossi, come accennato prima. (A. C.)
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Gli spettacoli
Dolore sotto chiave / Pericolosamente due atti unici di Eduardo De Filippo con un prologo in lingua napoletana di Raffaele Galliero da I pensionati della memoria di Luigi Pirandello con Tony Laudadio, Luciano Saltarelli, Giampiero Schiano scene e costumi Lino Fiorito luci Cesare Accetta, suono Daghi Rondanini assistente alla regia Giovanni Merano, assistente ai costumi Francesca Apostolico direzione tecnica Lello Becchimanzi regia Francesco Saponaro una produzione Teatri Uniti - Napoli Teatro Festival Italia in collaborazione con Università della Calabria A trent’anni dalla sua scomparsa e dopo la felice esperienza dell’allestimento spagnolo di Yo, el heredero (Io, l’erede), Francesco Saponaro torna a De Filippo con i due atti unici Dolore sotto chiave e Pericolosamente arricchiti da una ouverture, adattamento in versi e in lingua napoletana della novella del 1914 di Luigi Pirandello I pensionati della memoria. Dolore sotto chiave (1958) va in onda l’anno successivo come radiodramma con Eduardo e la sorella Titina nel ruolo dei protagonisti - i fratelli Rocco e Lucia Capasso. Viene portato in scena due volte con la regia dell’autore, con Regina Bianchi e Franco Parenti nel 1964 (insieme a Il berretto a sonagli di Pirandello) per la riapertura del Teatro San Ferdinando di Napoli e nel 1980 (insieme a Gennareniello e Sik-Sik) con Luca De Filippo e Angelica Ippolito. In Dolore sotto chiave i buoni sentimenti come la carità cristiana, la compassione o la mania borghese della beneficenza diventano armi improprie per dissimulare quella segreta predisposizione dell’essere umano al controllo. In Dolore sotto chiave viene evocato un oggetto-simbolo, usato come sottile minaccia di suicidio dal povero Rocco Capasso: la rivoltella, che in Pericolosamente (1938) si materializza e si trasforma in un vero e proprio strumento di tortura coniugale. L’atto unico fu un grande successo del Teatro Umoristico dei De Filippo e gioca tutto sul litigio coniugale. Ogni volta che Dorotea dà sfogo alle sue intemperanze Arturo, per ripristinare l’ordine familiare, impugna la rivoltella caricata a salve e le spara, scatenando la comica reazione di terrore da parte dell’ignaro amico Michele. Nonostante il testo nasca alla fine degli anni Trenta, Eduardo ne potenzia la carica visionaria per sperimentare nuovi linguaggi anche nel cinema. Adatta Pericolosamente e dirige Marcello Mastroianni, Luciano Salce e Virna Lisi ne L’ora di punta, episodio del film Oggi, domani e dopodomani (1965) riuscendo a ottenere uno spiazzamento contemporaneo.
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Gli spettacoli
Francesco Saponaro COSTANTE VITALITÀ In che modo le parole di Eduardo De Filippo possono ancora parlare allo spettatore di oggi? Un classico parla sempre al futuro. La questione eduardiana, la sua forza, è che si tratta di un autore che attraversa il Novecento e che disegna le contraddizioni del genere umano. Eduardo racconta una classe medio borghese che ancora ci rappresenta, con i suoi vizi e le sue degenerazioni. Non si tratta di un teatro di cronaca, piuttosto direi che si sofferma sugli atteggiamenti umani che toccano tutti e che ci appartengono nel profondo. Ritrae certe abitudini, anche negative: nel caso di Dolore sotto
“Tutto cambia. L’importante è cercare di mutare senza tradire mai le proprie radici, affrontando il futuro“ chiave, per esempio, in nome di un amore fraterno assoluto e fondamentalista si impedisce al proprio fratello, alla persona che si dice di amare, di vivere una nuova esistenza. Eduardo ci racconta come, in nome di una carità cristiana e di una morale normalmente considerate ortodosse, si commettano delle scelleratezze affettive. Nei lavori di Eduardo
Dolore sotto chiave/Pericolosamente De Filippo persiste un sottile e al tempo stesso profondissimo senso civile, ecco perché il suo teatro appare ancora più necessario in questo momento in cui si sono perduti tutti i punti di riferimento. Il suo è un modo di analizzare la realtà in maniera caustica e diretta, sempre con un’estrema ironia.
E dal punto di vista dell’impianto registico, come si sviluppa lo spettacolo Dolore sotto chiave? L’idea principale è che la morte sta sempre intorno a noi, anche quando non ce ne accorgiamo… Lo spettacolo parte con una novella di Pirandello riadattata per l’occasione come prologo e direi che all’interno di questo atto unico eduardiano, folgorante e favoloso, si riconosca in qualche modo un’appartenenza o almeno un’ispirazione a Pirandello. Tutto si svolge intorno ad un tavolo, quindi la scena è molto semplice e contribuisce a simboleggiare questo concetto della morte che circonda costantemente la dimensione più privata dei personaggi. Il varco tra la vita e la morte rimane labile, e questo vale anche per l’altro atto unico, Pericolosamente, che completa la messinscena. È stato un famoso cavallo di battaglia dei De Filippo negli anni Trenta, molto divertente, e l’idea della morte in questo contesto prende il sopravvento e viene elaborata in chiave farsesca. Il marito protagonista di questo testo – per sedare le bizzarrie, le angherie e le rimostranze di una moglie bisbetica – ogni volta che la donna fa i capricci arma la rivoltella e tenta di spararle. Una volta le spara in presenza di un avventore ignaro dei fatti scatenando così una forte comicità che dà corpo al testo.
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Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano inequivocabilmente i Teatri Uniti? Teatri Uniti è una compagine estremamente particolare, una sorta di laboratorio aperto in cui diverse personalità possono incontrarsi attra-
Come sono cambiati i Teatri Uniti nel corso del tempo? Tutto cambia. L’importante è cercare di mutare senza tradire mai le proprie radici, affrontando il futuro con uno sguardo coerente, attento al contemporaneo e sempre vigile a ciò FOTO DI REPERTORIO
verso il teatro. Una grande opportunità è costituita dal dialogo costante, ormai fecondo, esistente tra teatro e cinema. L’attenzione di Teatri Uniti è rivolta al cinema, alla musica, alla drammaturgia contemporanea europea… È un luogo che conserva un tratto artigianale: partendo da Napoli, dal lavoro fatto da Toni Servillo in questi anni, fino all’impegno dei più giovani attraverso l’Europa. Teatri Uniti è un’officina di sperimentazioni artistiche che non si concentra solo sul teatro ma anzi che lo usa per aprirsi al nuovo e all’esterno.
“Un classico parla sempre al futuro. Eduardo è un autore che attraversa il Novecento e che disegna le contraddizioni del genere umano “ che ci circonda. Così ci si trasforma continuamente, ma rimanendo fedeli ad un’idea di serietà e di qualità, di approfondimento e di sperimentazione. Forse, per quanto riguarda il modo di porsi del gruppo dei Teatri Uniti, più che di semplice cambiamento direi invece che si possa parlare di ‘costante vitalità’… (A. C.)
Eduardo e i burattini regia Francesco Saponaro
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Gli spettacoli
Manca solo la domenica da Pazza è la luna di Silvana Grasso, Einaudi 2007 scene e regia Licia Maglietta con Licia Maglietta, Vladimir Denissenkov costumi Katia Esposito luci Cesare Accetta suono Daghi Rondanini direzione tecnica Lello Becchimanzi una produzione Teatri Uniti Esistono amori che non danno la felicità ma... se ne possono vivere altri! “Il problema era serio, con quel cotogno tra i piedi come continuare nella solita vita che ogni giorno la portava fuori casa, in altri paesi, anche molto lontani?” Ma Borina, all’anagrafe Liboria Serrafalco sposata Liuzzo, trasforma, trasforma tutto fino all’estremo, fino in fondo. La sua vulnerabilità non è stata rispettata e lei si riappropria di tutto e di tutti. Andare lontano dalla propria casa. Fantasticare una vita di sentimenti amorosi e luttuosi. Desiderare passioni, amori e soprattutto uno status, riconosciuto da tutti, da poter portare dipinto sulla faccia come una voglia di fragola. E se la realtà le impedisce di continuare a vivere tutto questo Borina non se ne preoccupa: pianifica. Come una straordinaria attrice dal lunedì al sabato accanto alla sua vita piatta e prevedibile come quella di tutto il paese, ne affianca un’altra fatta di tournée in altri luoghi nel suo ruolo di VEDOVA! L’unico cruccio resta la domenica. Sì, manca solo la domenica... In scena Licia Maglietta insieme a Vladimir Denissenkov, grande maestro del bayan, la peculiare fisarmonica russa.
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Gli spettacoli Manca solo la domenica
Licia Maglietta IL RITO DELLA SCENA In Manca solo la domenica si parla di donne ma anche di sentimenti e di amore? È un racconto tratto da un’opera letteraria di Silvana Grasso che ho trovato subito fantastico. Quando leggevo il libro, già mi immaginavo la messinscena. Insieme a Vladimir Denissenkov, grande fisarmonicista russo, abbiamo costruito un rapporto a due voci sulla scena: la figura femmi-
“Attraverso l’arte avviene una trasformazione del dolore, la creazione e l’elemento immaginifico ribaltano la tragedia“ nile di Borina Serrafalco che si racconta e l’altra voce della fisarmonica che le risponde. Borina è una delle tante vedove bianche del Sud rimaste da sole a casa mentre i mariti andavano in guerra o partivano come emigranti: questi uomini non si sono fatti più sentire dai loro cari, forse erano morti oppure perché si erano rifatti una nuova vita con altri figli e un’altra moglie… La verità è che queste donne rimanevano in attesa, non potevano né dichiararsi vedove né risposarsi: non avevano altre occasioni da vivere, quindi que-
sta situazione ha costituito a lungo un grosso problema femminile. Silvana Grasso ha una scrittura viscerale e sarcastica, cinica e tagliente come una lama, e la soluzione che profila per questa figura femminile è senz’altro audace ed indipendente. Borina viene a sapere che suo marito è vivo, ma con un’altra donna, e allora non piomba nella depressione ma anzi reagisce. Si ribaltano le parti e Borina decide di diventare una vedova a tutti gli effetti, ma di altri mariti, attraverso la fantasia e la creazione di un mondo immaginato. Sceglie sei paesi diversi per ogni giorno della settimana in cui andare ad accudire una tomba di un ipotetico marito: sono tombe abbandonate, senza fiori, dove è difficile che possa apparire la vera vedova del defunto in questione… “Manca solo la domenica” perché è l’unico giorno della settimana in cui non ci va: è rischioso, potrebbe essere un giorno in cui davanti alle tombe potrebbe incontrare i famigliari reali. Va avanti per trent’anni con questi sei fantomatici mariti, fino a quando ritorna dopo questo lunghissimo periodo il suo vero marito: un uomo che è diventato grasso e schifoso, con la pretesa e l’arroganza di essere ancora il padrone della sua ex-casa. Ecco che Borina non può lasciarlo vincere, quindi decide di farlo fuori, in una maniera particolare: lui torna a casa diabetico e lei lo uccide pian piano tramite il cibo, abusando in maniera nascosta dello zucchero nei suoi piatti. È un racconto a suo modo esilarante, che si snoda in maniera delirante fino a quando la donna diventerà, questa volta per davvero, vedova di suo marito e a cui dedicherà finalmente la domenica…
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L’andamento drammaturgiconarrativo è molto surreale? Sì, sia le scene che la regia sono mie, quindi la messinscena riflette la mia personale visione della storia, che mi sta molto a cuore. Anche l’altro spettacolo che spesso propongo, Il difficile mestiere di vedova, racconta di un’altra vedova, anche se in maniera diversa: mi interessa rappresentare una soluzione, ma in direzione chiaramente poetica. Attraverso l’arte avviene una trasformazio-
“Da attore ti offri, senza rete di protezione, al pubblico e ne ricevi in cambio pura emozione“ ne del dolore, la creazione e l’elemento immaginifico ribaltano la tragedia. È il cambiamento che si assume il ruolo di dirigere la trama narrativa: questi espedienti drammaturgici, io li trovo magnifici.
Questa figura femminile assomiglia alla donna da Lei recentemente interpretata nella fiction Tutto può succedere, un personaggio accogliente e molto ‘colorato’? No, nello spettacolo lei è una donna siciliana ed è il nero a dominare come colore. I vestiti che comprerà in trent’anni sono tutti neri e piuttosto aspetta finalmente il momento giusto di poter fare delle passeggiate in paese
per indossare questi superbi abiti neri che le stanno benissimo. Per quanto riguarda la fiction, è stata una mia scelta di colorare in modo così vivace i capelli e di portare sempre abiti allegri. Tutto quello che si vede in TV del personaggio è frutto di una mia improvvisazione continua: in genere le figure femminili sui cinquant’anni vengono sempre ritratte nella scrittura come inerti e senza gioia di vivere…
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Le donne, a qualsiasi età, sono delle persone e sono capaci di condurre dei rapporti, anche molto belli, con gli uomini e con chiunque altro le circondi.
Quali caratteristiche uniscono, appunto, i Teatri Uniti? Nonostante io sia una femmina e gli altri invece tutti uomini, così come ognuno di noi mantenga una totale autonomia in ogni singolo progetto portato avanti, credo che lo stato di partenza sia comune. Il nostro sguardo sul lavoro ha sempre coinciso con lo sguardo che abbiamo sulla vita e che ci ha portato a mettere in scena certi testi rispetto ad altri. Il teatro non è mai una cosa sola: c’è una miriade di modi per fare il teatro e il nostro ci rende simili, l’uno con l’altro, e ci accomuna tutti noi di Teatri Uniti. Cambiamo continuamente nel corso della nostra vita, quindi è inevitabile che siamo cambiati come Teatri Uniti: ognuno si è aperto ad altre esperienze che ci hanno trasformato anche singolarmente, però la nostra grande passione è sempre stata il teatro. Ed è al teatro che ritorniamo costantemente.
nante ed importante del teatro, secondo me. È lì che risiede la meraviglia del mestiere dell’attore: ti offri, senza rete di protezione, al pubblico e ne ricevi
“Il luogo della scena si esprime tutto nel rapporto attore-spettatore: in ciascuna replica sei chiamato, tu attore, ad andare oltre, sempre un po’ più in là “
Perché? Che cosa vi spinge sempre verso il teatro? Il teatro è la mia vita, per quanto mi riguarda non ha nulla a che vedere con il cinema… Certo, si tratta di un mezzo espressivo molto affascinante, ma la mia vita è tutta lì, sul palcoscenico: uno spazio che cambia e che deve trasformarsi, ogni sera una volta in più. Quel luogo della scena è ancora un rito e si esprime tutto nel rapporto attore-spettatore: in ciascuna replica sei chiamato, tu attore, ad andare oltre, sempre un po’ più in là… Ogni sera il pubblico è diverso e anche tu alla fine sei diverso: questo è il lato più affasci-
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
in cambio pura emozione. Il pubblico è l’altra parte del mio dialogare, quello che spero possa cogliere intimamente ciò che sto provando a dire sulla scena. Inoltre il pubblico rappresenta anche tutto ciò che può mettermi in crisi facendomi capire che le cose di cui magari ero sicura in fondo non sono così giuste… È grazie al pubblico che comprendo quando è necessario scavare ancora dentro ad un’emozione. (A. C.)
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Gli spettacoli
Fuochi a mare per Vladimir Majakovskij di Andrea Renzi con Andrea Renzi luci Pasquale Mari suono Daghi Rondanini direzione tecnica Lello Becchimanzi una produzione Teatri Uniti
“Armato dei suoi versi e di una Smith and Wesson a canna corta, in una immaginaria conferenza cosmica e pirotecnica il grande poeta russo si presenta in tutta la sua smisurata, tenera e trascinante vitalità. Dalla tribuna di un piccolo tavolino, alle sue spalle il cielo trapunto di stelle, la requisitoria poetica ha il suo cuore pulsante nel poemetto la Nuvola in Calzoni, dove ingaggia un corpo a corpo con i temi universali dell’amore, della religione, della vecchia poesia e della rivoluzione, realizzando un insuperabile manifesto della sua concezione poetica potentemente innovativo sul piano formale. In un montaggio scandito dallo sparo suicida le gemme verbali, le burle immaginifiche, i concitati paradossi, gli amori disperati e carnali e le profetiche visioni di questo gigante del secolo scorso giungono fino a noi. Che forse, nani quali siamo, faremmo bene a metterci sulle sue spalle. Fuochi a mare per Vladimir Majakovskij è un tributo a un poeta e alla poesia come Luogo della Vita, come fosse un tributo all’Etna, alle Alpi, al delta del Nilo, come fosse un tributo a una cannoniera, a una cimice, a un cucciolo di cane. Qualcuno ha scritto che l’arte deve essere contro la bomba atomica, cioè contro la disintegrazione della coscienza. Condivido questa posizione e la vita e la poesia di Vladimir Majakovskij, sono contro la bomba atomica.” Andrea Renzi
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Gli spettacoli
Caproni!
Invenzione a due voci testi Giorgio Caproni con Andrea Renzi, Federico Odling musica Federico Odling suono Daghi Rondanini costumi Ortensia De Francesco direzione tecnica Lello Becchimanzi regia Andrea Renzi una produzione Teatri Uniti
“Il viaggio intrapreso all’interno dell’opera di Caproni è un’escursione ad alta quota, l’aria è buona, fina e talvolta è bene sedersi a contemplare il paesaggio. Ben oltre l’occasione del centenario della nascita e il doveroso omaggio ad una delle voci più alte della letteratura italiana contemporanea, ogni giorno di lavoro dedicato alla sua poesia è un’esperienza di crescita. Fin dalla nostra prima collaborazione teatrale, per Santa Maria D’America nel 2004, con Federico Odling abbiamo ipotizzato una messinscena del poemetto Il Conte di Kevenhuller del 1986, un denso testo della maturità dove un cacciatore insegue un’allegorica Bestia Feroce e ingaggia un corpo a corpo con il male assoluto. Caproni gioca nella composizione a disporre l’azione del protagonista tra le pieghe di un libretto musicale e abbiamo raccolto questa sua scelta come un’istigazione al teatro. Ma Il Conte è solo una vetta di una più vasta catena montuosa ed è stato naturale prolungare l’esplorazione ai Versi livornesi dedicati alla madre, al famoso Congedo, ai sorprendenti e anarchici Controversicoli caproniani, alle nitide prose. Abbiamo incontrato, distribuite in tutto l’arco della sua opera, numerose parole estratte dal lessico musicale: orchestra, concerto, cabaletta, partitura, cadenza. E’ uno dei segnali che hanno catturato la nostra attenzione. L’amore mai sopito per la musica che il giovane violinista Caproni, una volta abbandonati gli studi compositivi, ha riversato nella scrittura, la sua dichiarazione di poetica sintetizzata nel “far musica nuova senza abbandonare il linguaggio tonale”, la limpida cantabilità ma al confine del nulla, come scrive di lui Calvino, hanno fatto da guida alla nostra sensibilità e ci hanno spinto ad attraversare la sua opera in forma di concerto. Nel territorio spurio e di confine del teatro, in una invenzione a due voci, in una suite con personaggi, mettiamo in gioco la nostra natura di interpreti, convinti che Poesia e Musica possano costituire la risposta meno provvisoria all’imbarbarimento da consumo.” Andrea Renzi
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Gli spettacoli Fuochi a mare / Caproni!
Andrea Renzi SACRO E POETICO In Fuochi a mare per Vladimir Majakovskij e Caproni!, c’è un legame che lega questi due spettacoli? Il legame è evidente, nel senso che sono dei lavori dedicati a due sommi poeti e quindi, in qualche modo, denotano una mia debolezza per la poesia. In generale considero i poeti come delle presenze sacre, capaci veramente di illuminarci sia nella nostra vita di tutti i giorni sia nel percorso artistico. Credo nella possibilità che il pubblico
“Cerchiamo una comunicazione con il pubblico, mettendo in primo piano, al cuore della nostra ricerca, il lavoro dell’attore“ possa instaurare un rapporto con l’oralità della poesia, che è anche uno dei fondamenti del teatro: l’elemento poetico come esperienza unica di canto, di poesia e di oralità.
Quindi nel nostro mondo la poesia è ancora preziosa? Assolutamente sì, benché venga troppo spesso dimenticata… In particolare, per esempio, per quanto
riguarda lo spettacolo su Caproni il titolo è ironico: sottolineato dalla punteggiatura con un punto esclamativo è come se fosse un grande brindisi, un inno dedicato ad uno dei nostri maggiori poeti, ma al tempo stesso l’ironia è anche un prendersi in giro: spesso dimentichiamo queste altissime figure poetiche relegandole in angoli sperduti della nostra libreria, piuttosto che averne un corpo a corpo vivo. Attraverso una loro restituzione scenica ci auguriamo che questo possa accadere.
Che tipo di impostazione ha scelto per queste due messinscena? Fuochi a mare per Vladimir Majakovskij ha rappresentato un incontro con un grandissimo poeta, in cui le caratteristiche delle parole di Majakowski, un linguaggio iperbolico, fantasioso e futurista in tutte le sue declinazioni, mi hanno permesso di sviluppare uno specifico linguaggio del corpo come attore, proprio perché si addiceva per questa messinscena una particolare gestualità. Majakowski era in un certo senso proprio un poeta-attore, celebre nella Russia dell’epoca: il suo fisico così imponente rimane scolpito in chiunque abbia visto una sua fotografia… C’è una radice fortissima tra il cantore e l’attore. Quando, per esempio, Majakovski presentò la sua prima raccolta poetica non consegnò semplicemente il libro al suo editore ma lo recitò nel salone della casa dei Brik, che poi diventarono i suoi mentori e la storia con Lili Brik fece scandalo in quegli anni… Più in generale, al fondo di questi due lavori, esiste sicuramente
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il desiderio di esplorare questa radice così antica del teatro: la messinscena è essenziale, infatti la relazione fondamentale rimane quella tra attore e pubblico, tra la musica poetica e gli spettatori. Lo spettacolo di Caproni! è presentato sotto forma di concerto: io e Federico - un compositore violoncellista leader di una formazione importante come i virtuosi di San Martino – sul palco indossiamo entrambi il frac e ci avviciniamo alla musica. Io stesso suono le percussioni e addirittura dei bicchieri intonati: la nostra è una
voce alla ricerca di una melodia e di una comunicazione tonale. Il fatto che avesse un passato come musicista è indicativo: è attraverso la passione per il suono che si è incanalata la sua ricerca poetica.
“Andare in palcoscenico per un attore è sempre un lancio col paracadute, che affronta con paura e con un alto tasso di emotività, ma da cui non puo’ sottrarsi“ FOTO GIUSEPPE DISTEFANO
messinscena in forma di concerto, un excursus nel mondo poetico di Caproni, una più intima riscrittura musicale. E poi di un autore come Caproni ci ha attratto proprio il suo essere anche controcorrente rispetto agli anni in cui scriveva; recentemente si è parlato del Gruppo 63, delle avanguardie italiane che proponevano una poesia atonale alla quale Caproni non ha mai aderito: la sua è sempre stata una
Esistono delle caratteristiche che identificano i Teatri Uniti? Credo che la caratteristica principale del nostro modo di lavorare sia, ancora oggi, data da un’intuizione capace di creare degli incontri tra persone che fanno teatro. È tipico dei Teatri Uniti aprirsi al confronto e alla sperimentazione con realtà diverse: coltivare incontri ed aperture teatrali è forse l’aspetto che maggiormente ci
Caproni! con Andrea Renzi, Federico Odling regia Andrea Renzi
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caratterizza. Capitanati dal nostro direttore Toni Servillo, cerchiamo una comunicazione con il pubblico, mettendo in primo piano, al cuore della nostra ricerca, il lavoro dell’attore. IMMAGINE CLARA BIANUCCI
il cui dettato principale risiedeva già nella possibilità di creare un contatto tra uomini di teatro ed un’apertura nelle scelte di percorso artistico. Teatri Uniti aiuta e sostiene anche quelle scelte più difficili, certe proposte non di facile ricezione per il pubblico, magari poco commerciali ma di profonda bellezza. L’intento di Teatri Uniti è anche quello di rimettersi in discussione e di attraversare la tradizione, ma senza abbandonare le nostre origini che hanno la propria radice nel teatro di ricerca italiano. Quando, per esempio, si affronta un autore come Eduardo De Filippo è il linguaggio visivo e spaziale scelto ad evidenziare e rinnovare tutta la sua carica innovativa.
Se dovesse dare una sua definizione del pubblico…
“L’intento di Teatri Uniti è quello di rimettersi sempre in discussione e di attraversare la tradizione“ Siete cambiati, in qualche modo, nel corso del tempo? Ci sono state negli anni fasi molto diverse. Teatri Uniti nasce da un’intuizione importante di Mario Martone,
So bene che si tratta di un insieme di persone completamente diverse. A volte in scena si ha la sensazione di capire l’umore che si respira in sala, altre volte invece il legame che si percepisce è profondamente misterioso. Può capitare, per esempio, che un ragazzo ascolti per la prima volta un verso di Majakovskij e magari ne rimanga affascinato, iniziando così chissà quale avventura nella sua esperienza creativa… Il rapporto che si crea con il pubblico merita sempre un completo ed assoluto rispetto. Andare in palcoscenico per un attore è sempre un lancio col paracadute, che affronta con paura e con un alto tasso di emotività, ma da cui non può sottrarsi. Io sento di avere costantemente bisogno del momento di andare in scena perché raggiungo delle zone di me stesso sconosciute e che posso comprendere soltanto in quell’antro scuro che è il palcoscenico di un teatro, sotto gli occhi degli spettatori. (A. C.)
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Gli spettacoli
Titanic — The End Teatri Uniti in collaborazione con Ex Asilo Filangieri/la Balena | Laboratorio Memini | ‘A Puteca Omaggio ad Antonio Neiwiller nel ventennale della sua scomparsa ideazione e regia Antonio Neiwiller in una visione di Salvatore Cantalupo con Salvatore Cantalupo, Carmine Ferrara, Massimo Finelli, Amelia Longobardi, Ambra Marcozzi, Claudia Sacco, Sonia Totaro, Chiara Vitiello luci Cesare Accetta direzione tecnica Lello Becchimanzi
“Titanic The End debuttò nell’aprile del 1984 a Napoli al Teatro Nuovo per la regia di Antonio Neiwiller, dopo un intenso laboratorio teatrale durato nove mesi. E’ stata un’esperienza che ha completamente rivoluzionato la mia vita e il mio modo di guardare all’arte, oltre ad essere stata la mia prima esperienza di teatro professionale. Neiwiller è stato un artista geniale, un poeta costruttore di visioni fuori dai canoni tradizionali. Ha realizzato una straordinaria e innovativa riflessione sul teatro e sull’arte in generale. Le sue idee, le sue denunce, i suoi racconti sulla fine di mondi mi colpiscono ancora per l’eccezionale attualità. Oggi egli mi appare come un profeta. Trent’anni fa Antonio ci spiegava i motivi veri per cui a Beirut cadevano bombe su donne e bambini, ci raccontava come le ideologie nel tempo sarebbero cadute ad una ad una e come l’unica speranza sarebbe stata raggiungere il fondo perché solo a quel punto ci saremmo rimboccati le maniche e avremmo ricominciato a costruire. Ora, nel ventennale della sua scomparsa, sento il desiderio di risalire su quella nave, emblematica rappresentazione di una società in via di disgregazione, di rivivere quelle emozioni, quei suoni, quegli odori. La mia vuole essere una visione nella visione, un dono intimo e personale e al tempo stesso un lasciar tracce, così come mi ha insegnato lui.” Salvatore Cantalupo
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Frammenti “Osceno è ciò che mette fine a ogni specchio, a ogni sguardo, a ogni immagine. Osceno è ciò che pone termine ad ogni rappresentazione.
di Antonio Neiwiller
Osceno è ciò che non ha più segreti, ed è completamente solubile nell’informazione e nella comunicazione. Così, ora che non viviamo più il dramma dell’alienazione, ma l’estasi della comunicazione, sappiamo che tutto ciò è osceno.[…] Allora bisogna far vedere che c’è qualcosa che si può pensare e che non si può vedere né far vedere ma alla quale si allude.” (1983) “... E’ tempo che l’arte trovi altre forme per comunicare in un universo in cui tutto è comunicazione. E’ tempo che esca dal tempo astratto del mercato, per ricostruire il tempo umano dell’espresione necessaria. Bisogna inventare. Una stalla può diventare un tempio e restare magnificamente una stalla. Ne’ un Dio ne’ un’idea, potranno salvarci ma solo una relazione vitale. Ci vuole un altro sguardo per dare senso a ciò che barbaramente muore ogni giorno omologandosi….” (1993, Per un teatro clandestino dedicato a T. Kantor)
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La mostra Dietro gli occhi
Cesare Accetta NEL BUIO, LA LUCE Fotografo di scena, light designer, direttore della fotografia al cinema... L’unione tra queste distinte attività è data dall’amore per l’immagine nella sua totalità? Io sono partito come fotografo, è stato il mio primo mestiere, che poi si è sviluppato facendo una piccola deviazione di percorso: la passione per la foto di scena si è sviluppata con il tempo in queste altre due professioni. L’elemento che unisce tutto è sempre l’immagine,
“Costruire con la luce, questo è l’obiettivo che perseguo“ legata alla luce che è uno degli elementi fondanti della costruzione della scena. È una possibilità in più del linguaggio teatrale, un elemento aggiuntivo della scrittura che si va a sommare a tutti gli altri elementi che compongono lo spettacolo o un film. Tramite il mezzo espressivo teatrale o cinematografico si creano delle immagini ed è questa caratteristica a differenziare il teatro o il cinema, per esempio, dal radiodramma… Nella mostra Dietro gli occhi è possibile vedere il lavoro che ho fatto nei primi anni di carriera, partendo proprio dal teatro che era diventato il soggetto principale della mia ricerca fotografica: indagare
lo spazio nero, andare a scoprire il buio, questo era il mio scopo primario. È come se la camera oscura venisse riportata in scena e in questo modo permanesse una possibilità, quella di scrivere con la luce in un campo nero: un campo in cui la luce è ancora capace di far accadere qualsiasi cosa, a differenza del bianco dove già appare tutto scritto dalla luce. Il punto di partenza è il nero, per arrivare a lavorare su un campo libero che apre una miriade di occasioni: costruire con la luce, questo è l’obiettivo.
E in questo tipo di percorso, quanto è fondamentale il rapporto con il regista? Il rapporto con il regista è fondamentale: in genere il disegnatore luci, così come il direttore della fotografia, deve necessariamente mantenere una sorta di affinità di visione con il regista. Bisogna capirsi per creare le varie possibili atmosfere da trasferire in uno spettacolo, è uno scambio non solo tecnico ma anche artistico sull’immagine visiva della rappresentazione.
La mostra si chiama Dietro gli occhi: che cosa si trova, davvero, dietro agli occhi? Tutto quello che si può immaginare. Il titolo fa riferimento ad una performance negli anni Novanta: si agiva attraverso una serie di azioni teatrali per indagare soprattutto il mezzo fotografico, interrogandosi sulla possibilità che un documento visivo possa davvero registrare tutto… La memoria rende molto di più di un’immagine, quello che abbiamo dentro di noi è la cosa più importante. E questo anche se la finzione spesso appare più vera del reale. (A. C.)
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I Teatri Uniti alla Pergola di Adela Gjata
FOTO FABIO ESPOSITO
Peppe e Toni Servillo ne Le voci di dentro di Eduardo De Filippo regia Toni Servillo
F
in dalla sua fondazione, nel 1987, i Teatri Uniti hanno posto particolare attenzione alla musicalità e al ritmo dei dialoghi, alla phoné, al corpo dell’attore e all’atletismo verbale che ne consegue. Da un lato l’attenzione verso il teatro napoletano teso all’approfondimento della lingua madre e alla possibilità di tradurla in immediatezza espressiva attraverso spettacoli come Partitura, Ha da passà a nuttata, il pluripremiato Rasoi, Zingari, alle più recente Le voci di dentro e La parola canta; dall’altro il lavoro sui classici, affrontati ogni volta con sensibilità moderna: da Filottete di Sofocle al pirandelliano Uomo dal fiore in bocca, dai capolavori di Molière a quelli di Eduardo. “Né con la tradizione, né con l’avanguardia”, questo il motto di Mario Martone che sintetizza nel contempo la vocazione dei Teatri Uniti, la sua natura di laboratorio permanente della scena, compagine eterogenea e in costante rinnovamento tra esplorazione contemporanea, proposta di autori classici e contaminazioni con il linguaggio cinematografico. Diversi gli allestimenti dei Teatri Uniti approdati sul palcoscenico della Pergola, creazioni collettive capitanate da Toni Servillo – interprete eclettico e carismatico, nonché regista e scenografo –, con attori dello spessore di Licia Maglietta, Andrea Renzi, Anna Bonaiuto, Roberto De Francesco, Iaia Forte, Toni Laudadio, Enrico Ianniello e Peppe Servillo, scenografi quali Daniele Spisa, Lino Fiorito e Carlo Sala, gli studiati costumi di Ortensia De Francesco, le luci e le atmosfere di Pasquale Mari. Gli allestimenti molieriani di Servillo, Il misantropo (1997) e Tartufo (2000), portano una nuova freschezza per quel loro magico sottrarsi alla macchina del tempo: dalla torreggiante parrucca di Oronte/Servillo (Il misantropo) alla disposizione scenica del pubblico seduto sul palco – com’era solito nel Seicento francese – con gli attori sotto lo sguardo ravvicinato dell’osservatore-spettatore. Rosencratz e Guildestern sono morti (gennaio 2001) di Tom
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Stoppard, riscrittura novecentesca dell’Amleto dal punto di vista dei suoi compagni d’infanzia, vede Andrea Renzi nella triplice veste di regista, scenografo (con Alberto Guarriello) e interprete poliedrico del principe di Danimarca – un santino in velluto nero, espressione trasognata e distante – nonché del capocomico e della regina, Gertrude. Ad affiancarlo sulla scena due giovani ed emergenti attori casertiani, Enrico Ianniello e Tony Laudadio, Rosencratz e Guildestern appunto, personaggi spaesati, capitati per sbaglio in una tragedia più grande di loro. Nel 2002 Servillo incontra la drammaturgia di Eduardo dopo numerosi contatti indiretti, tra i quali la memorabile collaborazione con Leo de Berardinis nel 1989. Un incontro sfolgorante, pluripremiato, quello di Sabato, domenica e lunedì, testo del 1959 di raffinata fattura. La parabola di tensione, disfacimento e ricostruzione di casa Priore si consuma in un contenitore astratto e lineare quasi morandiano – firmato Servillo e Daniele Spisa – con una finestra che si apre su un balconcino-rifugio per solitarie fughe d’aria. A dieci anni di distanza dal successo di Sabato, domenica e lunedì, Toni Servillo torna, insieme al fratello Peppe, all’amato Eduardo con l’allestimento de Le voci di dentro (dicembre 2013). Partendo dall’ipocondria visionaria di Alberto Saporito si riflette, con sottile acume, sulle voci del profondo nascoste in ognuno di noi, vittime a loro volta, “dell’indifferenza di un altro dopoguerra morale”. Tra Moliere e Eduardo c’è Goldoni, del quale Servillo allestisce la più monumentale delle opere: la Trilogia della villeggiatura (stagione 2009/10), messa in scena nell’arco di un’unica serata, come non accadeva dall’edizione di Strehler del 1954. Alla Pergola, la Trilogia è accompagnata da un dedica sentita e intensa di Toni Servillo alla città natale: Letture napoletane, un assolo virtuosistico che per mezzo dei versi e delle parole di Salvatore di Giacomo, Raffaele Viviani, Eduardo ed Enzo Moscato racconta i mille volti di una città ricca di contraddizioni e di vitalità; omaggio riproposto nella stagione scorsa con La parola canta, un concerto-recital dei fratelli Servillo con il suggestivo supporto dei Solis String Quartet. Interpreti multiformi, capaci di gesticolare la voce e le storie come essenze autonome, i fratelli Servillo raccontano attraverso un caleidoscopio di letterature differenti, di dialetti ruvidi e di idiomi più gentili, l’eterna magia della tradizione vivente di Napoli.
FOTO MARCO GHIDELLI
Tartufo di Molière con Licia Maglietta , Peppino Mazzotta regia Toni Servillo
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A proposito della Trilogia della Villeggiatura di Rossana Buffone
FOTO FABIO ESPOSITO
Toni Servillo ed Eva Cambiale nella Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni regia Toni Servillo
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oni Servillo rappresenta uno tra i maggiori attori italiani capaci di muoversi con estrema agilità tra cinema e teatro. Sin dalla nascita di Teatri Uniti, si comprende quanto forte sia la convinzione di Servillo nel proporre un teatro quale momento di comunicazione diretta tra la compagnia e il suo pubblico. In maniera più specifica, questo rappresenta la visione del Servillo regista: per questa ragione le sue messinscene appaiono lavori corali, d’insieme e allontanano così l’idea ottocentesca del grande attore solista. Con il regista in scena che affianca i suoi attori sul palcoscenico il lavoro di gruppo diviene, replica dopo replica, una collaborazione tra attori e regista. Si crea così un sistema di rapporti “orizzontali” in cui le due figure si intersecano e coinvolgono l’altra componente necessaria rappresentata dal pubblico. Magistrale co-produzione di Teatri Uniti e Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa è la Trilogia della villeggiatura diretta e interpretata da Toni Servillo, che calca le scene del Teatro della Pergola nel Marzo 2010. Già nel 1954 Giorgio Strehler, per la prima volta in Italia, presenta i tre testi goldoniani (Smanie per la villeggiatura, Avventure della villeggiatura e Ritorno dalla Villeggiatura) in un’unica serata. Le numerose recensioni sottolineano il parallelismo tra la messinscena dell’attore-regista e quella di Strehler: la regia di Servillo risulta meno “tagliata” nel testo e molto più aperta all’indagine sociologica della commedia goldoniana. A partire dal modello di De Filippo, Servillo pensa al recupero della dimensione “artigianale” del teatro, attraverso la rarefazione degli elementi in scena, puntando l’attenzione sul ritorno alla semplicità. L’azione, la corporeità, la voce ed in particolar modo il fattore metateatrale, rappresentano
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tutti aspetti fondamentali per la poetica di Servillo. La metateatralità, presente nel corso di tutto lo spettacolo in modo leggero e sottinteso, questo confondere la vita e il teatro, crea una sovrapposizione di piani, ambiguità. La mancanza di linearità, il disordine e il disorientamento che ne conseguono, sono elementi caratteristici del genere commedia, tanto caro a Servillo. Quando Goldoni scrive la Trilogia della villeggiatura, mostra la borghesia di quegli anni prigioniera di un meccanismo di degradazione che conduce ad un’eccessiva mania di apparire, di imitare la nobiltà nel proprio modo di spendere averi e ricchezze, negli ozi estivi fuori città. Lo spettacolo che va in scena traduce quest’aspetto attraverso ogni dettaglio: al momento dell’apertura del sipario, appaiono solo alcuni bauli, vestiti alla moda e una cioccolatiera, tutti oggetti simbolo dell’ostentazione di una ricchezza ambita e non realmente esistente. I personaggi in scena si mostrano nervosi, intenti a trafficare tra i bauli per scegliere i vestiti e gli oggetti da portare in villeggiatura. Il secondo atto, momento in cui il luogo della villeggiatura è stato raggiunto, l’accecante luce estiva sottolinea maggiormente l’atteggiamento di ozio dei protagonisti. Nelle Avventure, gli intrighi amorosi e i sentimenti delle fanciulle sono ben evidenziati dalla regia di Servillo, attraverso il gioco dei giovani che si rincorrono nel boschetto che occupa gran parte della scenografia. La confusione generata dagli intrecci amorosi dei giovani sviluppatasi nelle Avventure, conduce al momento del Ritorno, alla fine, dunque, delle vacanze. Servillo riesce a puntare l’attenzione sulla presa di coscienza dei vari protagonisti: le pulsioni amorose lasciano il posto agli obblighi e al senso del dovere. Questa realtà si concretizza con la celebrazione dei matrimoni di Giacinta e Leonardo (rispettivamente interpretati da Anna Della Rosa e Andrea Renzi), di Vittoria e Guglielmo (Eva Cambiale e Tommaso Ragno), Rosina (Giulia Pica) che sposa Tognino (Marco D’Amore) e Ferdinando “lo scrocco” che sposa Sabina (Betti Pedrazzi). Toni Servillo nelle note di regia scrive così: «I personaggi che via via incontriamo sembrano raccontarci un oggi animato dalla necessità di esserci piuttosto che di essere, da una ricerca ostinata e nevrotica della felicità, dall’incapacità di intravedere, all’orizzonte, novità che sostituiscono le abitudini. Goldoni ci offre un’analisi lucida e cruda di questo mondo, che è anche il nostro. Un mondo in cui i sentimenti e i destini sono spesso trattati con fredda aridità, alla stregua di una partita doppia».
FOTO FABIO ESPOSITO
Andrea Renzi e Anna Della Rosa nella Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni regia Toni Servillo
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Teatri Uniti: una officina creativa di Bruno Roberti
FOTO FABIO ESPOSITO
Magic People Show dal romanzo di Giuseppe Montesano con e messo in scena da Enrico Ianniello, Tony Laudadio, Andrea Renzi, Luciano Saltarelli
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he la si definisca una factory, una fucina di talenti, un’area di lavoro in cui le individualità artistiche si intrecciano, si scambiano, trascorrono in un territorio che coniuga con disinvoltura avanguardia e tradizione, teatro e cinema (e che intrattiene sulla scena rapporti significativi con il mondo delle arti visive, della musica o della letteratura), Teatri Uniti si è configurato come l’officina creativa italiana più interessante e fertile a cavallo tra Novecento e Duemila. Per di più Teatri Uniti è stato, ed è, capace, da un lato, di muoversi su più fronti, e di diventare un riferimento anche internazionale, dall’altro di essere il terreno di formazione, e di lavoro, di artisti di primissimo piano, basti citare Toni Servillo e Mario Martone, fondatori, con un altro grande e singolare artista, oggi scomparso, come Antonio Neiwiller (indimenticato artista totale che si esprimeva indifferentemente con il teatro come con la pittura o con il cinema, ma sempre in una sua particolarissima ‘poesia dell’attore’), di un organismo che, esempio raro, si è mosso fin dall’inizio come area unitaria, e insieme differenziante, di pratiche non solo sceniche, ma anche filmiche, nonché di scambio e di crescita di gruppi che, in quegli anni e in quell’orizzonte (siamo a metà degli anni Ottanta), si erano già affermati, in Italia e all’estero, tra i più inventivi (Falso Movimento, Teatro Studio di Caserta, Teatro dei Mutamenti). Ma l’inventiva fin dall’inizio risiede anche in un coraggio e una lucidità produttiva, la cui capacità si esplica anzitutto nel fare gruppo, nello stimolare un’anima della comunità, nel tenere le fila di tutte le singolarità artistiche e organizzative: da uno scenografo e pittore come Lino Fiorito a light designer come Pasquale Mari
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e Cesare Accetta (entrambi anche attivi negli anni e con grandi riconoscimenti come direttori della fotografia nel cinema), da un grande sound designer come Daghi Rondanini a una costumista come Ortensia De Francesco, fino all’infaticabile aiuto-regista e casting director Costanza Boccardi e a uno ‘storico’ direttore tecnico, come Lello Becchimanzi. E poi naturalmente coloro che, sempre fin dall’inizio, hanno percorso una sorta di ‘evoluzione’ ed estensione del loro essere attori: figure che hanno amplificato la loro natura di attori su piani diversi come Andrea Renzi, attore-regista e anzitutto ‘interprete-atleta’ della scena in dialogo costante con singolarità poetiche come Majakovski o Caproni, e poi Licia Maglietta (e il suo ‘rispecchiarsi’ in una serie di figure femminili ‘imperdonabili’ del Novecento), e ancora Roberto De Francesco, Iaia Forte (tutti tra i protagonisti più interessanti anche del cinema e della televisione in questi anni, dopo essere significativamente emersi nei primi film di Martone), fino ad attori più maturi che si incontrano più volte con la compagine della compagnia, come Anna Bonaiuto e Renato Carpentieri. E nello sviluppo del lavoro creativo si sono aggiunti negli anni, grazie all’attenzione di Teatri Uniti nello stimolarne attivamente la crescita, registi più giovani che si sono rapidamente collocati in posizioni importanti sulle scene contemporanee: Francesco Saponaro (e il suo interrogare gli echi contemporanei di scrittori e drammaturghi emblematici - Eduardo, Havel, Mirò, Pasolini…), Toni Laudadio (che coniuga le attrazioni fatali tra la scrittura tout-court, l’attorialità, le tessiture drammaturgiche), Enrico Ianniello (che analogamente imbastisce un dialogo tra letteratura, lingua e drammaturgie contemporanee con predilezione sull’asse Catalogna/Napoli), Andrea De Rosa (che ha mosso i primi passi significativi con Teatri Uniti ed è poi diventato uno dei più raffinati e intelligenti metteur en scene del teatro e della lirica in Italia e all’estero). Chi scrive ha avuto il privilegio di essere ‘compagno di strada’ di molti di loro nel clima ‘aurorale’ degli inizi, della inesauribile e a suo modo ‘epica’ stagione della sperimentazione teatrale italiana, del lavoro sul contemporaneo, in una città che ne fu, e continua ad esserlo, una sorta di cartina al tornasole: Napoli. Ciò che a distanza di tanti anni appare evidente è una grande prerogativa di Teatri Uniti: te-
Antonio Neiwiller
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nere insieme la tensione appunto contemporanea, coniugando pratica scenica, ricerca di linguaggio, pratica obliqua dei media e delle forme (dal cinema d’autore al documentario, dal video al film d’artista), con un dialogo costante, un interrogarsi continuo sulla profondità di una tradizione, nell’attraversamento ‘genealogico’ di una linea che tiene insieme l’attore, come intercessore di una assemblea, con le pratiche della regia, vuoi autoriali, vuoi ‘orchestrali’, in uno spirito del teatro come ‘partitura’, come ‘musica’ , come lavoro dell’interprete. Rispetto a quanto appena detto naturalmente l’epitome, quasi l’emblema, è il lavoro di Toni Servillo, nella costruzione con Teatri Uniti di spettacoli che hanno girato il mondo per anni, e nell’attraversare, con il senso del contemporaneo, quella tradizione cui si faceva riferimento (da Molière a Marivaux, da Viviani a Moscato, da Eduardo al ‘palinsesto’ alchemico di tutta una lingua e una vocalità di scena, legata anzitutto alle risonanze simboliche e ancestrali di Napoli). FOTO MARCO CASELLI
Toni Servillo e Anna Bonaiuto in Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo regia Toni Servillo
Un tratto che va evidenziato delle pratiche, non solo di scena ma anche quelle cinematografiche o musicali, della dinamica di Teatri Uniti è l’apertura dialettica, l’ascolto con quanto di più forte e pregnante emerge in un orizzonte che è quello delle arti, o meglio di una specie di tensione all’opera d’arte totale. Se questa era una caratteristica fondante del lavoro di ricerca di Falso Movimento ancora una volta fin dall’humus sperimentale in cui il nucleo originario (Mario Martone, Angelo Curti, Pasquale Mari, Andrea Renzi, e per il primo periodo un attore italo-americano come Tomas Arana) procedeva a un intersecare ambienti, proiezioni, spazi, attorialità, dinamismi luminosi, ‘progettualità’ disseminata in azioni e ‘apparizioni’ (ricordo in questo senso, all’epoca della collaborazione con la Galleria di Lucio Amelio, una ‘inseminazione’ contagiosa di performance in un palazzo rinascimen-
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tale del centro storico di Napoli, ad opera di ciascuno dei componenti del gruppo, che non cessava ogni sera di cogliere di sorpresa il pubblico, iniettando film nello spazio dal vivo o trasponendo la corporalità e la trasfigurazione dello spazio in un orizzonte virtuale che irresistibilmente rimandava ai miti cinematografici, o a icone musicali, come Patti Smith), e tale tensione ‘schermica’ si ripercuoteva su spettacoli accolti come novità folgoranti in Europa e in Usa: da Tango Glaciale a Otello fino a quel Ritorno ad Alphaville, ispirato al film di Godard, che segnò il punto di passaggio verso la formazione di Teatri Uniti. Lavoro altamente simbolico, a suo modo esoterico, che trasportava l’utopia ermetica della “Città del Sole” campanelliana dentro un vortice visuale che generava in modo inesausto visioni pittoriche, squarci architettonici, sequenze filmiche, realizzando l’idea artaudiana del pubblico collocato nell’ ‘occhio del ciclone’, nel centro occulto ed energetico attorno al quale orbitavano su vari palcoscenici i montaggi di azione e immagini. Fu quello FOTO FRANCESCO SQUEGLIA
spettacolo una sorta di ‘talismano’ che si trasmette fisicamente alla formazione di Teatri Uniti, tanto è vero che in scena c’erano sia Servillo che Neiwiller, in qualche modo ‘cooperatori’ dello spettacolo, cioè partecipi da protagonisti di una creatività di gruppo, di un lavoro di officina, e se è vero come è vero che ‘pezzi’ di una scenografia-monstre furono trasportati nella sede storica di Teatri Uniti a Piazza dei Martiri a Napoli, diventando spazi praticabili entro cui si cominciavano a progettare, per esempio, i primi film, a partire da Morte di un matematico napoletano, e si avvicendavano giovani cineasti che sarebbero poi diventati registi e produttori di successo: da Stefano Incerti a quei Paolo Sorrentino e Nicola Giuliano che vinceranno poi l’Oscar e i cui primi film, L’uomo in più (con due straordinari attori-doppi come Servillo e Renzi) e Le conseguenze dell’amore nacquero in quelle stanze.
Roberto De Francesco in Diario di un pazzo regia Andrea Renzi
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Toni Servillo in Rasoi regia Mario Martone e Toni Servillo
Le reciproche attrazioni tra teatro e cinema caratterizzeranno l’attività di Teatri Uniti, ne modelleranno anche la volontà di sperimentazione dei linguaggi che è quasi nel dna della cooperativa, ma che soprattutto risponde insieme a un rigore che rifugge da compiacimenti, a una semplicità che evita intellettualismi e che pure insiste in una continua ricerca di forme, di talenti, di idee, di pratiche. Ciò si svolge essenzialmente su tre piani, quello della ‘osmosi’ e reinvenzione di un testo tra teatro e video, quella delFOTO CESARE ACCETTA la produzione e sperimentazione cinematografica su più piani (che sia il film indipendente oppure l’attenzione al nuovo do c u menta r io, come è avvenuto per l’attenzione a cineasti del ‘cinema del reale’, quali Giovanni Cioni o Massimiliano Pacifico, Fabio Tanzarella o Marcello Sannino), quella della trascrizione televisiva, con modi filmici, di lavori, soprattutto quelli di Servillo, che quasi necessitano nella loro vitale e stupefacente pregnanza attoriale e scenica, di un ‘rivolgimento’ in sequenze filmiche (come è accaduto per le regie di Paolo Sorrentino ‘a ridosso’ dei due testi eduardiani messi in scena da Toni Servillo, Sabato, domenica e lunedì e Le voci di dentro). Una dialettica necessaria tra lavoro teatrale-drammaturgico e suo depositarsi visuale, non solo nel senso della memoria ma proprio in quello di un suo ‘travaso’ metamorfico su altri piani, ad esempio il video o il film per la televisione). Ciò è avvenuto in molti dei lavori che si presentano nella ‘personale’ fiorentina. Anzitutto I giocatori/Jucature, che si muove su diverse ‘trasposizioni’, dalla lingua catalana di Pau Mirò al napoletano della ‘trascrizione’ di Ianniello, dal coacervo oscuro e acre,“alla Taran-
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tino”, della versione teatrale a una dolcezza smagata e amara, mista ad allucinazione, della versione televisiva, girata da Ianniello con un sapiente uso del piano sequenza o degli sbalestramenti dei fuoricampo e dei controcampi (così come avvenne per Chiòve, per la regia di Saponaro, un lavoro esemplare nel senso degli slittamenti, questa volta in tempo reale, tra teatro e cinema e televisione, al servizio di una ulteriore trasformazione di un testo di Pau Mirò, letteralmente dentro un vicolo napoletano, in un ‘interno’ dal vero che veniva trasmesso contemporaneamente in diretta televisiva e su più schermi, a distanza, a Napoli, a Barcellona e a Cosenza, nel primo esempio di collaborazione, che poi sarà residenza con testi di Eduardo e di Pasolini, tra una Università-Laboratorio come il Campus dell’Università della Calabria, con i suoi multipli spazi di spettacolo, e una ‘factory’ mobile come Teatri Uniti). Ma prima ancora questo procedimento di osmosi tra teatro, drammaturgia e video era avvenuto per Rasoi, secondo film di Martone, e trascrizione filmica (girato con gli esuberi di pellicola di Morte di un matematico napoletano, splendidamente incarnato da Carlo Cecchi) dell’eccezionale spettacolo di Teatri Uniti, che, non a caso, vedeva insieme alla regia Martone e Servillo, in dialogo con quell’Enzo Moscato, la cui drammaturgia attoriale e la cui lingua ‘iperfatica’ si sono più volte incontrati con il lavoro di Teatri Uniti (sia con Servillo che con Martone che con Saponaro). E anche qui la ‘coralità’ struggente e la costruzione a onde, come una risacca, di quel sipario che, restituendo concretamente sulla scena un ‘carrello indietro’, evocava già da subito il cinema. Rasoi è stato poi lo spettacolo che ha allargato, esteso e amplificato gli ‘incontri’ dentro una attorialità che incarna una scrittura, dando spazio ad attori di diverse generazioni con cui (come nel caso di Gino Curcione, Marco Manchisi o Tonino Taiuti) si incrocerà il lavoro futuro di Teatri Uniti. Inaugurando così una pratica di ‘scoperte’ di giovani attori che si ripercuote in anni più recenti con l’incontro ad esempio con Chiara Baffi, Giovanni Ludeno, Luciano Saltarelli, Marco D’Amore, Anna Della Rosa, fra i tanti. Un risvolto molto significativo di queste pratiche di ‘intersezione’ tra le arti è poi un ulteriore tendenza di Teatri Uniti all’incontro con individualità artistiche, letterarie, drammaturgiche, musicali con le quali imbastire progetti, costruire e sperimentare sulla scena e sullo schermo. Ciò è accaduto per esiti a loro modo ‘eccezionali’, come Ha da passà a nuttata, rilettura splendida e potente del mondo eduardiano da parte di Leo de Berardinis, con un film d’artista come Quijote di Mimmo Paladino, con Peppe Servillo e Lucio Dalla, con le collaborazioni in scena, tra voce teatrale, voce poetica e voce musicale, con scrittori come Franco Marcoaldi e Giuseppe Montesano o con compositori come Giorgio Battistelli e Fabio Vacchi. Appare dunque oggi, sempre più nell’oggi e nel contemporaneo, laddove la misura del tempo traspare nell’ “avvenire” stesso, continuo, del lavoro comunitario degli artisti, e quindi il passato e la tradizione, lo ‘splendore del vero’ e il tratto poetico-politico di un fatto teatrale o di un fatto filmico, o musicale, si mutano di continuo in forme ‘semper novae’, come l’orizzonte di una ‘comunità’ possibile e necessaria quale è quella di Teatri Uniti, riesca a spostarsi ogni volta su un piano che sorprende e si fa ‘scena di un pensiero’.
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Le proiezioni
Ricordando Neiwiller Del magistero creativo di Antonio Neiwiller, sempre più scoperto e apprezzato dopo la sua scomparsa nel 1993, restano i preziosi scritti, la memoria viva di quanti lo conobbero e lavorarono con lui ed i tre soli esempi del suo peculiare lavoro di attore al cinema. Il sacerdote assistente di Renato Caccioppoli in Morte di un matematico napoletano di Mario Martone, premiato a Venezia nel 1992, il visionario sindaco di Stromboli in Caro diario di Nanni Moretti, premiato a Cannes nel 1994 e soprattutto Il monologo de L’altro sguardo, mediometraggio di Rossella Ragazzi, presentato a Venezia nel 1996, incandescente testimonianza filmata dell’ultimo spettacolo di Neiwiller e suo autentico testamento poetico. Un’autentica rarità sono le immagini delle prime scene di Ha da passà a nuttata, memorabile allestimento eduardiano di Leo De Berardinis. Antonio Neiwiller al cinema scene da Morte di un matematico Napoletano e Caro Diario Antonio Neiwiller: Il monologo de L’altro sguardo con Antonio Neiwiller regia Rossella Ragazzi Antonio Neiwiller con Leo scene da Ha da passà a nuttata di Leo De Berardinis FOTO CESARE ACCETTA
Antonio Neiwiller ne Il desiderio preso per la coda di Pablo Picasso regia Mario Martone
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Le proiezioni
Toni Servillo a teatro Le peculiari capacità di regia e direzione in scena degli altri attori di Toni Servillo, vengono testimoniate dalle riprese di due suoi memorabili spettacoli, entrambi basati su drammaturgie del Settecento. Le spietate triangolazioni geometriche fra giovinezza, amore e denaro risaltano dapprima nell’icastico sguardo sul Marivaux de Le false confidenze, mirabilmente tradotto da Cesare Garboli e poi nella tripartizione dell’affresco corale di Trilogia della villeggiatura, con riprese selvagge effettuate in tempi e luoghi diversi nel corso della lunga tournée internazionale dello spettacolo. Il lavoro di lettore/interprete di poesie quasi come spartiti musicali trova il suo miglior compimento nella versione filmata di Toni Servillo legge Napoli. Le false confidenze di Marivaux nella traduzione di Cesare Garboli regia teatrale Toni Servillo riprese e montaggio Tommaso Pitta Il giovane Dorante, povero in canna ma di buona famiglia, decide di sposare la ricca vedova Araminte già promessa in sposa ad un Conte. Viene aiutato in questo dal suo fido servo Dubois, che adesso lavora in casa di Araminte. Sarà proprio Dubois, dopo averlo fatto assumere come segretario, ad intessere un complicato gioco psicologico che progressivamente porterà Araminte dalla semplice curiosità alla passione per Dorante, passando attraverso tutte le possibili declinazioni della scoperta dell’amore. Il piano riesce talmente bene che Araminte infine, pur ancora in dubbio circa l’amore che Dorante le professa, decide di rinunciare al matrimonio con il Conte per rendere ricco e felice il giovane spasimante. FOTO MARCO CASELLI
Toni Servillo e Anna Bonaiuto ne Le false confidenze di Marivaux regia Toni Servillo
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C.A.F.S.O.B. con Toni Servillo e la compagnia di Trilogia della Villeggiatura regia Massimiliano Pacifico Un instant documentary, icastica testimonianza del particolare debutto napoletano di Trilogia della villeggiatura, senza scene né costumi per uno sciopero dei trasportatori. Le smanie per la villeggiatura di Carlo Goldoni regia teatrale Toni Servillo riprese e montaggio Diego Liguori Si approssima il momento delle vacanze annuali. Nelle due case di Leonardo e Filippo fervono i preparativi per la partenza, rallentati dal ritardo degli ultimi abiti, dalla mancanza, sempre occultata, dei contanti necessari, dal continuo andare e venire di servi ed ospiti. È motivo di ostacolo la gelosia che Leonardo ha per la sua innamorata, Giacinta, la figlia di Filippo, che inconsapevole del rapporto che lei già ha con Leonardo ha invitato a villeggiare con loro Guglielmo, anch’egli desideroso di conquistarsi l’amore della ragazza. Solo grazie all’intervento di mediazione di Fulgenzio, anziano amico di Filippo, si celebrerà il fidanzamento e tutti potranno partire per la tanto sospirata villeggiatura Le avventure della villeggiatura Finalmente in villeggiatura. Ferdinando, che vive a scrocco alle spalle di Filippo, cerca di farsi intestare parte delle ricchezze di Sabina, sorella del padrone di casa, senza impegnarsi nel matrimonio che lei gli propone; Rosina cerca di accalappiarsi Tognino, figlio del medico del paese, e Giacinta svela alla fida Brigida di essere travolta dalla tristezza perché consapevole di aver promesso con troppa leggerezza la propria mano a Leonardo. Ha infatti conosciuto meglio Guglielmo, che ama riamata, ma sa che in alcun modo potrà rinunciare alla parola data. Anche la sorella di Leonardo, Vittoria, è innamorata di Guglielmo, e per poterlo continuare a vedere almeno come cognato sarà proprio Giacinta a chiedere a Leonardo la mano di Vittoria per Guglielmo. Con un precipitoso e imprevisto ritorno in città le vacanze si interrompono tristemente. Il ritorno dalla villeggiatura Siamo alla resa dei conti. Giacinta soffre consapevole di essersi piegata alla scelta sbagliata. Leonardo, stretto tra i creditori in città e in campagna, rendendosi conto di essere rovinato e di non poter più sposare Giacinta, ricorre nuovamente a Fulgenzio, che riesce a sistemare il matrimonio facendo leva sui paralleli problemi economici di Filippo e convincendo la nuova coppia a cambiare città e stile di vita. Ci si avvia ad un amaro finale, in cui l’interesse vince sui sentimenti. Toni Servillo legge Napoli testi di Salvatore Di Giacomo, Eduardo De Filippo, Ferdinando Russo, Raffaele Viviani, Mimmo Borrelli, Enzo Moscato, Maurizio De Giovanni, Giuseppe Montesano, Totò, Alfonso Mangione, Michele Sovente regia teatrale Toni Servillo riprese e montaggio Massimilano Pacifico, Diego Liguori
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Le proiezioni
Francesco Saponaro videomaker Dall’inizio della sua collaborazione con Teatri Uniti, attraverso il tutoraggio produttivo della giovane compagnia Rosso Tiziano sul finire degli anni Novanta, Francesco Saponaro ha brillantemente affiancato il lavoro di regista teatrale ad una fertile produzione video, sia connessa in varie forme all’accadimento scenico che linguisticamente e tecnicamente autonoma. L’esperienza di regista assistente per il Tartufo di Toni Servillo dà origine ad una struggente testimonianza illuminata dalla presenza di Cesare Garboli. La deriva linguistica e geografica di Chiòve dal Barrio el Raval di Barcellona porta all’originale esperimento di un film girato in tempo reale in piano sequenza in un appartamento ai Quartieri Spagnoli di Napoli e contemporaneamente trasmesso in diretta televisiva e in alcune sale teatrali. Due diverse declinazione di sguardo documentaristico compongono il dittico realizzato sull’impegno civile di Eduardo De Filippo e su una trasposizione di due suoi atti unici per il teatro dei burattini. Come un eroe del ‘900 con Cesare Garboli, Toni Servillo e la compagnia di Tartufo regia Francesco Saponaro Eduardo, la vita che continua regia Francesco Saponaro
Chiòve di Pau Mirò con Chiara Baffi, Enrico Ianniello, Giovanni Ludeno regia Francesco Saponaro Eduardo e i burattini regia Francesco Saponaro FOTO FABIO ESPOSITO
Chiara Baffi, Enrico Ianniello in Chiòve di Pau Mirò regia Francesco Saponaro
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Le proiezioni
Servillo / Sorrentino fra cinema e teatro L’intesa artistica fra Toni Servillo e Paolo Sorrentino si instaura agli inizi del nuovo millennio con il film d’esordio del futuro maestro del cinema, che maturava insieme al suo sodale produttore Nicola Giuliano la propria esperienza iniziale all’interno di Teatri Uniti. A quell’esordio, presentato alla Mostra di Venezia, sono seguiti non solo altri tre grandi successi internazionali, (Le conseguenze dell’amore, Il divo e La grande bellezza), ma anche due speciali e diversissime esperienze di incrocio con il teatro di Eduardo portato in scena da Servillo, la prima realizzata con Sabato, domenica e lunedì seguendo gli interpreti in palcoscenico con la macchina da presa e l’altra in una storica diretta televisiva de Le voci di dentro nel pomeriggio domenicale di Raiuno. L’uomo in più con Toni Servillo, Andrea Renzi regia Paolo Sorrentino
FOTO MARCO CASELLI
Toni Servillo, Betti Pedrazzi, Antonio Marfella, Anna Bonaiuto, Francesco Silvestri in Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo regia Toni Servillo
Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo con Anna Bonaiuto, Toni Servillo regia teatrale Toni Servillo regia televisiva Paolo Sorrentino
In casa Priore il sabato si avviano i preparativi per il pranzo della domenica, nonostante serpeggi un malumore che si concentra nel rapporto tra Rosa Priore e il marito, Peppino, e contagi poi tutti i membri della famiglia. La domenica, durante il pranzo rituale al quale partecipano anche i vicini ed in particolare il ragionier Luigi Ianniello, esplode la gelosia che Peppino da lungo tempo prova nei confronti della moglie e che si rivela priva di ogni reale fondamento. Mentre si riavvia faticosamente la nuova settimana, il lunedì mattina, Peppino e Rosa cercano di superare il duro scontro che li ha contrapposti e far rientrare nella normalità la vita di famiglia.
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Cinque minuti prima dello spettacolo con Toni Servillo e la compagnia de Le voci di dentro regia Paolo Sorrentino Le voci di dentro con Peppe Servillo, Toni Servillo, regia teatrale Toni Servillo regia televisiva Paolo Sorrentino I fratelli Alberto e Carlo Saporito, apparatori di feste in disarmo, vivono in un appartamento-deposito insieme al vecchio zi’ Nicola, che da anni ha scelto di non parlare più e comunica solo attraverso i fuochi d’artificio. Una notte Alberto sogna che i vicini di casa, la famiglia Cimmaruta, abbiano ucciso il suo amico Aniello Amitrano occultandone il cadavere. L’indomani li fa arrestare e cerca invano le prove che è sicuro siano nascoste in casa loro. All’improvviso, s’accorge o crede di aver sognato il tutto e capisce il disastro che ha combinato. Ritratta la denuncia, ma non viene creduto poiché Aniello Amitrano è irreperibile; si mette invece in moto un perverso FOTO FILIPPO MANZINI
meccanismo in cui tutti i potenziali colpevoli si accusano l’uno con l’altro e Carlo, fidando nell’arresto imminente del fratello accusato adesso di falsa denuncia, cerca di vendere tutto il materiale per le feste che è la loro unica fonte di sopravvivenza. Nel clima sempre più avvelenato dai reciproci sospetti muore zi’ Nicola. I Cimmaruta nel frattempo decidono di uccidere Alberto per salvarsi da un omicidio che si rivela essere un sogno solo nel momento in cui Aniello Amitrano riappare, vivo.
Le voci di dentro di Eduardo De Filippo regia Toni Servillo
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Le proiezioni
Mario Martone dal teatro al cinema L’innovativo lavoro realizzato con il gruppo Falso Movimento negli anni Ottanta venne definito mediateatro e le versioni filmate di alcuni storici spettacoli come Tango glaciale, Otello e Il desiderio preso per la coda costituiscono le profonde radici della successiva affermazione di Mario Martone come regista di opere cinematografiche di solido impianto drammaturgico e spiccata potenza visiva. La versione filmica di Rasoi, primo spettacolo di grande successo internazionale per Teatri Uniti, la ripresa televisiva di Finale di partita portato in scena da Carlo Cecchi, già intenso matematico napoletano e infine l’irripetibile esperienza di commistione di arte e di vita realizzata con Teatro di guerra fra la tragedia classica in scena e i drammi della contemporaneità sullo schermo, segnano un percorso unico e straordinario attraverso gli anni Novanta. Rasoi con Enzo Moscato, Iaia Forte, Licia Maglietta, Toni Servillo regia Mario Martone Teatro di guerra con Andrea Renzi, Anna Bonaiuto, Marco Baliani, Toni Servillo regia Mario Martone FOTO CESARE ACCETTA
Marco Baliani, Anna Bonaiuto, Roberto De Francesco, Sergio Tramonti, Maurizio Bizzi in Teatro di guerra regia Mario Martone
Finale di partita di Samuel Beckett con Carlo Cecchi, Valerio Binasco regia teatrale Carlo Cecchi regia televisiva Mario Martone
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Le proiezioni
Gli interpreti e un po’ di storia Licia Maglietta e Andrea Renzi sono due dei principali volti/corpi in cui sono storicamente incarnate la forma e la sostanza del lavoro di interpretazione per Teatri Uniti. Due registi cinematografici di talento come Stefano Incerti e Silvio Soldini hanno contribuito a realizzare creativamente le versioni filmate di due spettacoli esemplari come Una solitudine troppo rumorosa e Delirio amoroso. In Magic People Show, Enrico Ianniello, Tony Laudadio e Luciano Saltarelli si affiancano ad Andrea Renzi per dar vita a un atroce cabaret postmoderno suscitato dal lucido delirio letterario di Giuseppe Montesano. Nel documentario realizzato da Angelo Curti per Rai 5, attraverso la raccolta di testimonianze degli impresari e l’utilizzo di repertori rari, inediti o riscoperti, si testimonia la vitalità inesauribile delle scene napoletane fin dal 1979. L’uomo di carta da Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal con Andrea Renzi regia Stefano Incerti Scene napoletane di Angelo Curti regia Margherita Lamagna
Delirio amoroso da Alda Merini con Licia Maglietta regia Licia Maglietta, Silvio Soldini Magic People Show da Giuseppe Montesano riprese e montaggio Maurizio Fiume, Gennaro Visciano IMMAGINE CLARA BIANUCCI
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I Teatri Uniti in Toscana
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Materiale Raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Giulia Gigli, Matteo Brighenti, Costanza Venturini, Elena Capaccioli, Riccardo Ventrella, Clara Bianucci, Adela Gjata, Orsola Lejeune, Rossana Buffone, Angelo Curti, Mario Martone, Bruno Roberti, Valeria Pignatelli
Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Maurizio Frittelli, Raffaello Napoleone, Duccio Traina Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci Direttore Generale Marco Giorgetti
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Direzione artistica Toni Servillo Presidente Angelo Curti Soci Costanza Boccardi, Angelo Curti, Pietro Curti, Roberto De Francesco, Licia Maglietta, Pasquale Mari, Andrea Renzi, Daghi Rondanini, Toni Servillo Organizzazione e coordinamento Romilda D’Ambrosio, Valeria Pignatelli, Flavia Cardone, Maria Opera, Giusy Giglio, Maurizio Fiume Amministrazione Anna Tramontano, Elena Tramontano Direzione tecnica Lello Becchimanzi Ufficio Stampa Renato Rizzardi Un ringraziamento particolare a Natalia Di Iorio Il logo di Teatri Uniti è di Lino Fiorito
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