LA NUOVA PERGOLA
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il progetto realizzato
Il Teatro, il Teatro accettato nella sua verità e nella sua estrema e folgorante incertezza, riconosciuto come strumento unico, labile e altissimo per comunicare agli altri qualcosa sul movimento della vita. Teatro come invenzione della vita, teatro come riassunto della vita, teatro come favola, teatro come parafrasi, come simbolo dell’umano destino e dell’umano svolgersi. Il teatro è come l’essere umano. L’uomo è sempre in movimento, in mutamento continuo. Il teatro che noi pretendiamo sia preciso e perfetto, non può e non deve essere perfetto perché l’uomo non è equilibrato, non è perfetto: è sempre alla ricerca di qualche cosa. E’ attaccato al passato e teso verso il futuro, non capisce bene il passato oppure lo capisce, rimane troppo legato al passato e non vede il futuro, oppure vede troppo il futuro e non vede il passato: l’essere umano si trova sempre in una posizione precaria. Il teatro è l’arte del precario, è l’arte della cosa che non resta, della cosa che si muove. Ecco perché il teatro è così grande: perché è il simbolo dell’uomo.
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Nel descrivere e comunicare l’importante momento di realizzazione e al tempo stesso di costante movimento che la Pergola sta vivendo, la mente corre alle parole che Giorgio Strehler pronunciò all’Università di Firenze quando fu invitato a parlare di Goldoni nella ricorrenza dei trecento anni dalla scomparsa. Ci sembra che niente restituisca meglio il senso di profonda umanità che l’antica struttura della Pergola ha sempre dato nel corso dei secoli, a noi che la viviamo come a chi ci ha preceduto, proprio come un essere vivente che ha accettato generosamente e sempre con spirito positivo i cambiamenti determinati dal destino, dalla natura, dal tempo, quelli imposti come quelli necessari, guardando sempre con il distacco di una speciale saggezza quanto la circondava e la abitava, sempre fedele al motto che dal primo giorno ha campeggiato nel punto di sua massima visibilità “in sua movenza è fermo”. Ora che alcuni importanti cambiamenti istituzionali si sono completati e che il progetto avviato un anno e mezzo fa da Comune di Firenze e Ente Cassa di Risparmio è divenuto realtà, la Pergola si rivela pronta a scrivere nuove pagine della nostra storia con l’entusiasmo che solo i Maestri sanno trasmettere ai Giovani di ogni tempo, forte oggi di una struttura fatta di persone che credono nel Teatro e che ad esso dedicano con convinzione la propria professionalità e anche, dunque, una gran parte della loro esistenza. Marco Giorgetti
foto di Giacomo Costa
Anumero ttori, registi, autori presenti in questo 0 dei Quaderni della Pergola se-
gnano tutti, in qualche modo, una linea di continuità tra la stagione teatrale appena terminata e la prossima che ci aspetta. Maurizio Scaparro parla ai giovani di un’Italia teatrale ed europea; Gabriele Lavia e la sua poetica del buio; Marco Baliani e Stefano Accorsi con la loro incursione narrativa nell’Ariosto; Filippo Timi che incarna il potere di Amleto e gli amori di Don Giovanni; Mario Martone con la poesia italiana messa in scena dallo Stabile di Torino; la comicità di Tullio Solenghi con il Teatro Stabile di Genova; il mestiere di traduttore raccontato dall’anglista e critico teatrale Masolino d’Amico.
In queste pagine si parla del teatro, della sua inquietudine e profondità, del senso del gioco e dell’ironia necessari per superare il confine che divide il pubblico dal palcoscenico. Ma si parla anche dei giorni difficili che sta vivendo la cultura e, più in generale, la società. Per tutti però vale la fiducia nella parola e nel pensiero, nella lingua italiana e negli autori della grande letteratura.
Tempo di crisi quindi. E per questo tempo di teatro.
SOMMARIO 6. Marco Baliani 1 0. Stefano Accorsi 1 4. Gabriele Lavia 1 8. Filippo Timi 22. Mario Marton e 24. Masolino d’Amico 27. Tullio Solenghi 29. La parola al pubblico 30. Dietro le quinte 32. L'Avviamento all’Espressione
GIOVANI, CULTURA, TEATRO Cari ragazzi*, viviamo un momento di grandi trasformazioni che, come spesso accade, avvengono con scadenze né previste, né prevedibili. E il pericolo vero, alle soglie dei grandi cambiamenti per l'umanità, rischia di essere l'immobilismo (talvolta anche la stupidità) e l'esclusione dei giovani dal futuro sociale e creativo, e anche di quanti possano rappresentare utilmente la memoria del futuro stesso. Sta a noi essere soggetti attivi nella vita del nostro Paese, salvaguardando il contributo che abbiamo dato e continuiamo a dare ancora oggi per la formazione di una Europa della Cultura in una Europa che, al momento, sembra essere ostacolo delle banche e dell’economia. Personalmente credo che ognuno di noi possa contribuire, anche attraverso il teatro, arte tra le più umane (e anche la più splendidamente effimera) a segnare nuovi percorsi, nuove alleanze, nuovi traguardi possibili . E sono convinto che la battaglia si vincerà sia in Italia che in Europa se sapremo puntare sulla formazione di voi giovani. Parola che solo pochi anni fa era stata da molti indicata come base di partenza, poi inattuata nei fatti, indispensabile oggi per costruire una nuova progettualità culturale e produttiva segnatamente nel campo delle arti dello spettacolo. E proprio in questo ambito, ci si concentra spesso sulla formazione degli attori, ma il teatro rappresenta un microcosmo al cui funzionamento contribuiscono anche scenografi, costumisti, tecnici con varie specificità, musicisti, direttori di scena, organizzatori e produttori, uffici stampa. Il Teatro della Pergola ne conosce l’importanza e proprio per questo a luglio, assieme alla Fondazione Puccini, ha organizzato dei corsi di specializzazione rivolti ai tecnici: spiegheremo che cos'è un macchinista, uno scenografo, un tecnico delle luci, l’ufficio stampa, la promozione e lo faremo con le eccellenze del teatro italiano. Queste attività di formazione avranno come linee guida i Giovani, la Cultura e il Teatro e sono indirizzate proprio alle nuove generazioni di lavoratori dello spettacolo, con una finestra aperta sull’Europa e sulle accademie europee, e finalizzati alla creazione di nuovo personale qualificato. Qualche anno fa ho avuto la fortuna di avere organizzato alla Biennale di Venezia il Carnevale del Teatro e poi Jack Lang, il Ministro della Cultura francese, mi ha chiamato per dirigere il Théâtre des Italiens a Parigi. Ho sempre diviso la mia vita tra la Francia e la Spagna, ma io amo l’Italia, anche se mi sento europeo. Il punto è che non dobbiamo scoraggiarci per la stupidità che ci circonda, piuttosto dobbiamo trovare la forza per sostenere l’Europa di domani. Stiamo vivendo in un periodo nel quale dobbiamo far capire che noi ‘siamo Europa’: e la nostra può essere l'Italia delle diversità, protagonista in un’Europa delle diversità. Maurizio Scaparro
*dall’incontro con gli studenti del Liceo Classico Galileo di Firenze
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IL CORPO DEL TEATRO
intervista a MARCO BALIANI
L
e sue scelte artistiche non seguono mai un’unica direzione, appaiono anzi spinte dal desiderio di una logica teatrale diversa, estranea al sistema. Molte scelte, quando un artista le fa, non è che siano così consapevoli. Fino alla fine degli anni Ottanta io avevo sperimentato due strade. Da una parte ero impegnato in un lavoro più solitario, quello che poi è diventato il teatro di narrazione, con una sperimentazione sulla parola narrata. Senza aver fatto l’Accademia Teatrale, la mia è stata una pratica rivolta all’incontro e all’ascolto. Stai da solo sul palcoscenico
e ti confronti con il pubblico attraverso un’autorità narrante. L'altra strada che avevo intrapreso è stata invece quella del lavoro di gruppo: con un centinaio di attori, per esempio, abbiamo commemorato la strage di Bologna oppure abbiamo fatto degli spettacoli nei forti del Trentino, per raccogliere le memorie dei soldati della prima guerra mondiale. Cose molto diverse tra loro, in cui è fondamentale il rapporto che nasce con gli attori e, spesso, anche con i non-attori. E’ questo tipo di relazione a creare il work in progress dello spettacolo. Infatti non arrivo mai, il primo giorno delle prove, sa-
pendo già quale direzione intraprendere, solo dopo il primo incontro si intuisce cosa può nascere: il mio è più un lavoro di ascolto, non tanto quello di dare direttive. Con quel gruppo di persone si esplora un territorio, si ricerca l’anima che sta dietro la parola. La bellezza del teatro è proprio questa, l’esplorazione. Ancora oggi, ad affascinarmi, è il percorso. Tutto quello che accade prima della messinscena, per me, è infinitamente più interessante dello spettacolo in sé.
aumentava… Come lo descrivi tutto questo alla Siae? Significa che nessuno potrà mai rifare quello spettacolo, che non sarà più riproducibile: si può fare solo in quel momento e con quegli attori.
Quali sono stati i compagni di viaggio, i collaboratori più importanti, con cui ha condiviso ‘pezzi di strada’ teatrale e cinematografica? Ci sono tante figure che mi hanno accompagnato, una tra tutte Maria Maglietta, lavoriamo spesso insieme. E poi Isabella Carloni, lo scenografo Carlo Sala… Con loro so già che ci intendiamo, abbiamo un alfabeto comune di saperi e di linguaggi. Tutte le volte che incontro qualcuno artisticamente libero, anche se la collaborazione durerà solo un mese, sento che c’è un forte scambio e senza vincoli, solo per il piacere di condividere. Non capita sempre, di solito l’arricchimento reciproco si crea quando uno non ha niente da perdere e soprattutto quando non si è mediocri. I mediocri sono quelli che hanno più paura di difendere il proprio ruolo, mentre gli artisti veri sono quelli che rischiano, anche realizzando cose che non funzionano. Io stesso ho affrontato dei fallimenti, anche in progetti in cui credevo… Re Lear, per esempio, mi era stato chiesto di metterlo in scena e ho capito che era meglio realizzarlo come Shakespeare l'aveva scritto, senza riscriverlo. Ma non ce l’ho fatta, non è stato un bel lavoro di drammaturgia. Gli errori hanno tanta importanza. E’ bello conservarli dentro di te perché così capisci come andare avanti. Kohlhaas è da tutti indicato come uno
E poi, per quel gruppo di persone, Marco Baliani diventa attore, regista e anche drammaturgo…
Sì, è accaduto che, lavorando insieme, si creasse già una drammaturgia. Più di dieci persone che provano e fanno un’azione scenica di quindici minuti: in questo quarto d’ora, se si sta attenti, c’è già un minuto e mezzo da prendere e spostare in uno spettacolo. A volte riscrivo alcune battute tra quelle individuate, sento se suonano meglio, e le restituisco all’attore. Il testo viene rivisto più volte ogni giorno ed è un modo di procedere che non avrei mai potuto seguire senza il computer. Questo nuovo modo di comunicare mi permette di preservare la memoria e di fissare i pensieri, sapendo che non sono mai immutabili. Forse il mio teatro – come tutto il teatro degli anni Settanta – non è un teatro per i posteri, nel senso che alla fine non si arriva ad una scrittura teatrale definitiva. Per esempio, in uno dei miei spettacoli – Come gocce di una fiumana – per nove minuti non c’erano battute: solo trentacinque attori che si inginocchiavano e pregavano a loro modo davanti ad una rastrelliera di fucili, come ad un inginocchiatoio da messa, mano a mano sempre più veloce e con la musica che
«gli errori hanno tanta importanza, è bello conservarli dentro di te perché così capisci come andare avanti»
degli spettacoli che hanno inventato il teatro di narrazione: un solo attore che racconta una storia seduto su una -7-
sedia, unico elemento scenografico. Come nasce questa idea?
Qual è l’origine della scelta di riadattare per la scena teatrale un’opera letteraria monumentale come l’Orlando Furioso?
E’ il punto di arrivo di anni di narrazione per l’infanzia e per i ragazzi. Ho capito che cosa significa raccontare una storia lavorando con i bambini. L’efficacia della narrazione si ottiene quasi esclusivamente con il ritmo: è meraviglioso scoprire il tipo di musica che la caratterizza. Quando hai davanti quattrocento ragazzini che se sbagli si muovono irrequieti, ti chiedi subito che cosa c’è che non va. Il narratore vive nel rapporto con l'ascoltatore. E poi un giorno una mia carissima amica mi ha portato a Genova a vedere Cuticchio, che io conoscevo come puparo ma che è anche un cantastorie. Da lui ho rubato l’idea dei piedi che sembrano un’orchestra. Ho comprato delle scarpe di cuoio per vedere come si poteva inserire il suono e il movimento dei piedi all’interno di Kohlhaas. Adesso lo spettacolo è completamente diverso: i piedi sono la struttura sonora, che non avevo mai sperimentato con i bambini. In particolare Kohlhaas parte da un racconto di Heinrich Von Kleist: era la fine degli anni Settanta e mi sembrava importante soffermarmi sul tema dell'ingiustizia. Ricordo che nella locandina dedicavo questo spettacolo “ai compagni che erano diventati giustizieri in nome della giustizia e a tutti quelli che erano finiti a sparare”. Io li conoscevo per nome e cognome perché avevamo combattuto le stesse lotte. Per fortuna io mi sono messo a fare teatro e non a sparare!
Stefano Accorsi mi ha telefonato, dopo una lettura che aveva fatto al Louvre dell' Orlando Furioso: “Mi piacerebbe portarlo in scena, ti piacerebbe fare la regia?” Gli ho chiesto: “In quanti siete?” L’ultima immagine che avevo dell' Orlando Furioso infatti era di una trentina di attori… La sfida è stata proprio quella di creare una messinscena partendo dal racconto fatto da un unico attore, in fondo l'Ariosto andava a cantare da solo questi canti nelle corti. Non è un testo scritto, è un testo ‘detto’: si cantava il primo canto, se quel personaggio catturava l’attenzione si dava un nuovo appuntamento per altri otto canti dopo e così via… Praticamente è l’inizio della soap opera, l’Ariosto ha anticipato tutta la modernità del Romanticismo. La riscrittura comunque è stata importante: ho cominciato a selezionare tutti i vari frammenti delle storie all’interno dell’opera e ho inventato delle rime nuove. Oltre alla voce, l’unico modo per dare immagine alla potenza immaginifica dell’Ariosto è stato l’utilizzo del suono: ho chiesto allo scenografo di costruire delle macchine del vento, della tempesta, come ai tempi dei rumoristi della Rai che ricreavano il suono della pioggia o del mare, tutto fatto manualmente. Poi mi sono concentrato sui corpi in scena. Stefano è
«la bellezza del teatro è proprio questa, l_'esplorazione. Ancora oggi, ad affascinarmi, è il percorso. Tutto quello che accade prima della messa in scena, per me è infinitamente più interessante dello spettacolo in sé»
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l’hanno rovinato. Mi ero raccomandato di prenderlo come un canovaccio e non come se fosse di Shakespeare. Gli attori tedeschi sono corpi statici, non hanno la dimensione mediterranea che abbiamo noi. Adesso Kohlhaas verrà tradotto anche in Francia ma ho chiesto di scegliere l’attore e di fare la regia. Sono convinto che quando finiremo l’allestimento, un terzo del mio testo non ci sarà più. Per me questa è l’oralità: non si può ripetere meccanicamente la parola scritta. È il nostro corpo che agisce, non c’è bisogno di dire molte altre cose.
abituato al cinema ed è tutta un’altra storia: stai in camerino, studi una pagina a memoria, vai sul set e difficilmente esci da un ciak che sei sudato… In teatro recuperi il corpo e Stefano, pur andando tutti i giorni in palestra, era zuppo, si è trattato di un lavoro faticoso, proprio fisicamente. Oltre ad essere regista e autore di Furioso Orlando, le è capitato anche di
leggere l’Ariosto davanti ad un pubblico…
Lo scorso luglio ero ad Asti per la regia della stagione estiva del Furioso Orlando ma quel giorno l'attrice – Nina Savary – non è riuscita a prendere l'aereo, le scenografie non sono partite da Napoli e c'erano più di ottocento prenotazioni… Il produttore Marco Balsamo e gli organizzatori erano disperati, con Stefano ci siamo messi a tavolino: siamo andati in scena così, senza costumi e luci, improvvisando. Io, che non conoscevo a memoria il testo, ho recitato le parti femminili e ho riprodotto con il suono della voce tutti i rumori di scena. In seguito a questo caso fortuito, io e Stefano abbiamo deciso di creare una nuova messinscena, con soltanto noi due attori in scena, tornando un po’ al fondamentalismo del mio Kohlhaas. È un nuovo esperimento, una nuova tappa di lavoro.
Il teatro di narrazione ha subito un’evoluzione?
Io penso che il teatro di narrazione sia finito. È stato un bellissimo esperimento, ma siamo ad un giro di boa e gli spettatori sono stanchi. Il teatro è fatto, anche, per stare con gli altri in scena. In questi anni è diventata una scelta molto facile dal punto di vista economico: un solo attore, nessuna scenografia… E poi il teatro di narrazione ha finito per coincidere con il teatro civile, dove si assiste alla rivisitazione di una memoria storica più o meno prossima, per chiarire come sono andate le cose. E' stata un po' la perdita della fabula: il teatro deve essere inquietudine, deve travolgerti e non spiegarti giornalisticamente i fatti. Noi a teatro non abbiamo bisogno di farci un quadro della situazione, senza alcuna anima. Piuttosto dobbiamo precipitare nell’abisso.
Nessun attore ha avuto il coraggio di chiederle di interpretare Kohlhaas?
In Italia no, non gli avrei mai dato il permesso. In Germania l'hanno già fatto ma hanno considerato il testo ‘sacro’ e -9-
IL LATO OSCURO DI STEFANO ACCORSI
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Quale può essere oggi il valore del mestiere dell’attore?
al punto di vista della recitazione, in che modo il teatro si differenzia dal cinema?
Ci vuole incoscienza per diventare attori e anche molto rigore. È un mestiere fatto di contraddizioni. È assurdo decidere di essere attori, ma del resto in questo momento storico è assurdo decidere di fare qualsiasi cosa: anche l’ingegnere, per esempio, non è detto che tu riesca a diventarlo, pur frequentando ingegneria. Quando tutto va bene il mestiere dell’attore è il più bello del mondo, però ci sono anche dei momenti in cui le cose non vanno come vorresti e quelli sono momenti difficili. E’ chiaro che nell’attore c’è sempre il bisogno di avere l’attenzione degli altri ma non è solo questo: si tratta di una creazione autentica, che svela anche dei lati profondi, al di là dell’attore che sta sempre lì ad aspettare qualcuno che gli dia una battuta per vivere e per esistere. Alla fine deve esserci una passione forte a sostenerti e bisogna credere in se stessi, crederci tanto. Io mi vedevo attore già da quando avevo sei anni! E’ vero che si attraversano molte tappe, prima di acquisire il puro divertimento che si prova nello stare in scena ci ho messo del tempo. Agli inizi ho frequentato a Bologna la Scuola Galante Garrone che si basa molto sull’improvvisazione e sulle maschere della Commedia dell’Arte: sono
Veramente cinema e teatro sono due mezzi molto diversi, però entrambi hanno senso quando nascono da una necessità, profonda, di raccontare qualcosa: bisogna che i testi smuovano delle sensazioni dentro di te, andando a sollevare dei ‘coperchi’ su alcune questioni difficili da svelare. Una volta ero ad un seminario di biomeccanica teatrale tenuto dall’insegnante russo Nikolaj Karpov. In una scena di Cechov una ragazza doveva interpretare un personaggio che piange: si è concentrata, noi tutti in silenzio ad aspettare; ad un certo punto le lacrime hanno cominciato a sgorgare perché lei aveva trovato l’emozione, quindi poteva iniziare a recitare. Ma Nicolaj l’ha interrotta: dalla platea non si capiva se i suoi occhi piangevano, è tutto il corpo che doveva piangere, fino ai piedi! A teatro la maschera dell’attore si deve estendere a tutto il corpo perché bisogna arrivare allo spettatore dell’ultima fila di galleria, a più di trenta metri di distanza. Per quanto si possa raccontare con le espressioni del viso quello che si sta provando in quel momento, è la fisicità dell’attore nel suo complesso che ha il compito di amplificare le emozioni.
«cinema e teatro sono due mezzi molto diversi, però entrambi hanno senso quando nascono da una necessità, profonda, di raccontare qualcosa»
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momenti in cui si assapora una grande libertà, è il divertimento dell’attore. Come quando leggi una pièce e piano piano, lettura dopo lettura, scopri il personaggio…
Che tipo di personaggi le piace interpretare?
Dopo aver recitato in quella famosa pubblicità di un gelato, molto ironica, mi hanno sempre proposto solo dei gran film drammatici. In seguito mi è capitato di fare L’ultimo bacio che è già un film che si muove tra due registri – comico e drammatico – e dopo Santa Maradona, una storia d’amore in chiave di commedia. È bello poter spaziare dal comico al drammatico, ma quello che mi piace davvero è interpretare personaggi non completamente positivi, un ruolo ‘né bianco né nero’: sono le sfumature a darti qualcosa in più. Sono cresciuto con il cinema di Sergio Leone: il protagonista positivo, ‘l’eroe Clint Eastwood’, non è un buono totale ma è anche un po’ cinico, egoista. Sicuramente fare il cattivo è più difficile, ci vuole anche una certa qualità fisica, e dipende molto dal tipo di attore, dal personaggio com’è scritto. In genere il
cattivo, oltre ad essere una figura respingente, può risultare anche simpatico e in questa logica mi piacciono i personaggi, quando presentano dei lati del carattere simili a quella che è la vita vera, dove ti capita di incontrare una persona che non sopporti e poi di accorgerti, con orrore, che questa persona può essere anche attraente.
Come si è preparato ai movimenti dello spettacolo Furioso Orlando, narrativi ed evocativi al tempo stesso?
Marco Baliani ha adattato il testo, ci ha diretti ma è anche attore, quindi sa spiegarti alcuni aspetti tecnici legati al gusto del movimento, tipici del teatro di narrazione. Mi è sempre piaciuto mimare le cose, tutto rientra nel gioco e nel divertimento della scena: quando diciamo di guardare un ippogrifo, il nostro movimento non è solo uno sguardo in una certa direzione, dobbiamo anche immaginarci che ci sia davvero l’ippogrifo. Fondamentale immaginarsi le cose, un po’ come fanno i bambini: l’orco, la balena… Anche se non si è naturalistici al cento per cento, tramite il gesto si evocano le immagini.
In che modo si allena la memoria e si riescono a ricordare tutte le battute di uno spettacolo così complesso?
gino va sulla luna e glielo ritrova. E’ come una rinascita, alla fine nella vita l’importante è rialzarsi.
Si impara piano piano… Onestamente è stata dura, non ci dormivo la notte, anzi ho fatto anche un incubo: ho sognato che dovevo andare in scena e mi dicevano all’ultimo istante che dovevo recitare la parte in rima come è scritto nell’Ariosto, solo in inglese! Il nostro è stato un lavoro in divenire: Baliani scriveva delle pagine e via via cercavamo di capire se le parole potevano andare bene. Una volta ha scritto tre pagine bellissime, ispirate ad Amleto, ma alla fine non funzionavano per lo spettacolo: due giorni di lavoro tagliati in cinque secondi. Guardavo tutti i video su youtube di attori che recitavano in rima e mi chiedevo come facessero, però quando alla fine si arriva in palcoscenico l’energia cambia: da un suono o da un ricordo parte la battuta. Anche se sbagliamo, l’importante è che il pubblico non se ne accorga. Facciamo sempre lo stesso spettacolo, quindi alla fine anche la scenografia, per esempio, diventa rassicurante… In qualche modo ti senti protetto: nei diversi luoghi della tournée ritrovi la stessa compagnia e gli stessi elementi scenici; è una sorta di zattera, una piccola casa con cui andiamo in giro per l’Italia.
Che idea Orlando?
dell’amore
Il titolo dello spettacolo sposta l’aggettivo rispetto al poema dell’Ariosto… Sì, volevamo far capire subito che si tratta di un adattamento e che ci siamo presi delle libertà rispetto al testo originale. Al centro di tutto ci sono i sentimenti dei vari personaggi. Si vedono uomini e donne che, stregati dagli incantesimi e dalla magia, seguono le proprie emozioni in un terreno cosparso di guerra. Abbiamo voluto mettere l’accento proprio su questi aspetti, anche perché oggi ci si potesse riconoscere in un’opera del genere. Scopriamo così di avere un patrimonio letterario italiano gigantesco, di essere stati dei grandi italiani e magari questo ci porta a chiederci come mai viviamo una situazione sociale così devastante.
«tramite il gesto si evocano le immagini»
suggerisce
Orlando perde il senno perché scopre che la donna che amava – o che era convinto di amare – non lo corrisponde, anzi si innamora di un altro. Perde la donna della sua vita. La modernità del testo sta nel fatto che i due non si vedono mai: all’inizio dell’opera Orlando è costretto a fuggire, alla fine è pazzo e non riconosce più Angelica… Io penso che la passione sia molto importante, anche se è una passione che fa soffrire. Meglio un amore non corrisposto che niente. Ognuno di noi nella vita, oltre ai momenti belli, conosce anche il lato più oscuro, ciò fa parte dell’esistenza. Un aspetto affascinante di Orlando è che perde il senno ma suo cu-1 2-
IL BLU INAFFERRABILE
intervista a GABRIELE LAVIA
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Perché si deve scegliere di andare a vedere uno spettacolo?
er Lei cos’è il teatro?
È una domanda molto importante perché mi stai chiedendo in quale momento io incontro me stesso ed è il punto più difficile. Recitare è come quando cambi canale con il telecomando, ma non arrivi mai a quello giusto. E’ come un pittore che cerca proprio quel colore e non lo trova. Le ultime parole dette da Braque prima di morire sono state: “Datemi il mio blu!”. Questo ci dice che Braque fino all’ultimo istante ha cercato il suo colore, quel Dio del blu che non è mai riuscito a trasferire su una tela. Quindi per me il teatro, in linea di massima, è una sofferenza di cui non si può fare a meno.
Il termine Teatro deriva dal greco ed è formato da due parole: thea e tron . Thea significa ‘dea’ e ‘sguardo’, in particolare Dio in greco significa ‘colui che guarda il guardante’; tron è invece ‘il luogo’. Quindi il teatro è il luogo dello sguardo. Da spettatore vedo Edipo Re in scena ed è lo stesso personaggio che mi guarda di riflesso… In questo sguardo reciproco succede che lo spettatore prenda coscienza di sé. Il teatro è, probabilmente, l’evento più importante nella storia dell’umanità ed è per questo che non morirà mai.
Attore si nasce o si diventa?
Il teatro può aiutare a risolvere i problemi della nostra società civile?
Attore si nasce, non si impara a fare l’attore. Tu devi essere un attore. Quel sentimento che uno ha dentro va coltivato, con l’allenamento e la concentrazione. E’ un mestiere che richiede fatica e studio, anche se per alcuni forse è più facile. Dipende dalle persone, da quello che pensano e da come sono fatte. Io credo di averlo avuto il talento. Il talento è indispensabile, ma se non viene coltivato non serve a niente. Già da bambino avevo capito che sarei diventato un attore e a diciotto anni ho cominciato con alcuni miei amici a fare teatro. Poi ho trovato il coraggio di andare all’Accademia di Arte Drammatica a Roma. Ai miei tempi non era come oggi, era tutto più difficile. Quando ho detto ai miei che volevo fare l’attore, mio padre mi ha cacciato via di casa perché voleva che facessi un lavoro ‘normale’. Dopo, invece, ha cambiato idea. Sono io che adesso resto dell’idea che forse aveva ragione lui. E’ un mestiere
Il teatro si fa insieme con il pubblico ed è un processo intimo, profondo, che non avviene in superficie, ma in un sottopalco dell’anima. Non è facile perché nel nostro Paese la qualità umana del pubblico, la sua natura fantastica, è decaduta. Sembra un luogo comune dire che la televisione ha distrutto l’umanità dell’uomo, ma è così: come dicono i filosofi, l’uomo per statuto distrugge i valori assoluti per sostituirli con altri parametri, in fondo la storia dell’umanità non è altro che una sequenza di valori abbattuti. Oggi viviamo in un’epoca di tramonto della nostra civiltà, in una totale svalutazione della cultura occidentale che ha posto come valore assoluto il mercato. Il tempo libero degli spettatori, quel famoso tempo della libertà che l’uomo ha a disposizione, diventa un tempo della schiavitù perché viene comprato dalle réclame e dagli sponsor. E’ la pubblicità che comanda. -1 4-
il teatro si fa insieme con il pubblico ed è un processo intimo, profondo, che non avviene in superficie, ma in un sottopalco dell_'anima
Glauco Mauri afferma che quando è in palcoscenico non recita, piuttosto interpreta. Lei come vive il rapporto con i personaggi che porta sulla scena?
troppo difficile e io ancora non ho trovato il blu. So che nella mia tavolozza è presente quel blu, anche se non riesco ancora ad afferrarlo.
Tutte le cose che faccio, dalla mia prima regia fino ad oggi, seguono una sola strada: la poetica del buio. In particolare il buio rappresenta l’Occidente, la terra del tramonto. Pirandello ribalta il platonismo. Nel mito della caverna di Platone gli uomini stanno al buio incatenati, vedono delle ombre e credono che queste siano la verità, ma in realtà non è così, perché è il fuoco a creare delle ombre. Uno degli uomini si toglie le catene, va in cima alla caverna e vede il sole che prima lo acceca, poi pian piano però riesce ad intravedere la realtà che ha davanti. La verità è solo quella, alla luce del sole. Pirandello con la sua teoria del sentimento del contrario rivolta la verità, la verità si scopre solo al buio.
Tra la parola scritta e quella detta c’è una grande differenza, la stessa che si prova, per esempio, tra parlare di sesso oppure farlo, tra il disegno di un coito e l’atto carnale vero e proprio, fatto di odore, sapore, tatto. E’ come guardare un piatto di pastasciutta oppure mangiarlo: per assimilare un’opera bisogna masticarla, inghiottirla, digerirla, quando ne abbiamo fatto un escremento, quella è l’arte della recitazione. Dico spesso ai miei attori: non ci dobbiamo mettere addosso il testo come se fosse una comoda vestaglia o un vecchio paio di pantofole; il testo deve far parte di noi, essere vissuto come un cibo un po’ indigesto, bisogna pensarci, provarlo fino in fondo per digerirlo. Reiner Maria Rilke diceva che importante è ricordare, ma ancor più importante è dimenticare: soltanto quando un ricordo è stato intensamente vissuto ed è diventato carne, sangue, sudore, allora, soltanto allora, può nascere un verso di poesia autentica.
Anche se io preferisco l’A mleto, ho una mia idea su Pirandello. Per me è il più grande autore di tutti i tempi. Nessuno prima di lui e nessuno dopo di lui potrà mai più scrivere un testo così innovativo come quello in cui i personaggi si materializzano dal fondo della platea per cercare il loro autore. I sei personaggi hanno bisogno di essere rappresentati, ma nel momento stesso in cui vengono rappresentati diventano personaggi di farsa. E’ proprio questo ribaltamento della tragedia, appunto della farsa, a renderlo un autore così straordinario.
Non mi pongo domande così generali, piuttosto mi concentro sulla mia attività quotidiana: studio, penso ai miei progetti, al prossimo spettacolo… Ho già disegnato la scenografia, prendo costantemente appunti per nuove idee, ci ragiono sempre: in camera d’albergo, in teatro, per la strada, penso sempre a quello. Ormai ho già chiaro in mente lo spettacolo, ma spero sempre che mi venga un’idea migliore, anche se con l’andare degli anni mi sono convinto che l’idea migliore è sempre la prima, quando ho seguito la seconda, a volte la terza o la quarta, ho fatto sempre peggio.
Negli ultimi mesi ha studiato e portato in scena i testi di Pirandello. Che cosa rende affascinante questo autore?
«per me il teatro, in linea di massima, è una sofferenze di cui non si può fare a meno»
Come guarda al futuro del teatro?
In che modo i classici possono ancora parlare allo spettatore di oggi?
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DA AMLETO A DON GIOVANNI...
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intervista a FILIPPO TIMI una descrizione geniale, che implica una presa di coscienza da parte dell’uomo. L’ironia mi ha salvato moltissimo, anche quando mi sono ritrovato, per esempio, a balbettare in diretta-TV.
suoi spettacoli possono definirsi ‘di moda’?
Io amo la moda e la moda ama me. L'Amleto è uno spettacolo di moda perché è un classico, come il tailleur. Amleto è il ruolo dei ruoli! Ho smesso di pensare di piacere per forza, secondo me è sbagliato. Devi fare uno spettacolo che ti rispecchi, questa è la cosa più onesta. Più uno è se stesso e più arriva al pubblico. Io sono spudorato anche in questo: non mi vergogno a dirmi bravo quando sento che è vero, è un tabù quello di non dirsi bravi. Anche perché non esito a riconoscere quando invece faccio delle cose brutte e sbaglio. Bisogna tenere conto di chi ti sta guardando, però non mi sembra di fare nulla apposta per il pubblico. Anzi per me coinvolgerlo significa portare la vita in scena. Chiunque è attratto da ciò che è vitale: una bella donna, un bell’uomo, una bella situazione… Che cosa è vitale? Essere se stessi, proporre la propria visione. Riprodurre la vita in scena è impossibile, deve accadere davvero, non puoi recitarla e infatti i bravi attori non recitano: sono spudoratamente veri e autentici.
Si è creata molta aspettativa e curiosità nei suoi confronti, una sorta di ‘Timimania’… Eppure i miei spettacoli non funzionano. Se una cosa funziona, significa che è stata progettata perché sia così. Invece la vita non funziona. Le emozioni più grandi non funzionano, accadono. L’inconscio del pubblico si riconosce in quello che raccontiamo sul palcoscenico. Anche se con l’ironia, acchiappiamo il dolore, l’oblio tragico di ogni essere umano che ne ha, più o meno, coscienza. Nella messinscena frulliamo tutto questo dolore fino a farlo diventare un ghigno ironico. E’ la nostra cifra stilistica. Intelligente, secondo me, perché per sembrare stupidi bisogna essere intelligenti. Come i clown che camminano sul filo fingendo di cadere ma che nel mezzo fanno i salti mortali. Allo stesso modo io mi sento un pagliaccio circense che fa i salti mortali con l’anima. In scena sembra che zoppichiamo - in senso metaforico - però cadiamo dopo aver fatto un salto mortale con i sentimenti. Bisogna essere atleti dell’anima, dei ‘super attori’, e in fondo ognuno di noi è un ‘super essere umano’: tutti, messi emotivamente in condizioni estreme, riescono a fare un salto mortale. Qualunque essere umano, proprio perché goffo, spinto da una reale urgenza, vola.
L’ironia che accompagna i suoi spettacoli è una scelta registica ben precisa? Sì, esattamente. Quando hai coscienza di te stesso, riesci anche a raggiungere una certa distanza dalle problematiche che ti riguardano e ciò ti permette di riderne. Ho letto una frase attribuita ad Aristotele – ‘attribuita’ è un termine che adoro: tutta la storia è un falso! – che parlava dell’essere umano come di un animale che ride ed è
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Per Filippo Timi, chi è Amleto?
quello che davvero succede, in qualche parte dentro di noi, e le nostre segmentazioni interiori derivano da un pregresso aprirsi della coscienza ad una percezione multidimensionale. Per Stanislavskij Amleto è il primo personaggio che prende coscienza di sé; è come se si rendesse conto di vivere in una specie di Truman show, di reality perverso. Ogni sera vive la tragedia della sofferenza e sa che quotidianamente si ripete tutto. Partendo da Amleto arriveranno poi figure come quella del Don Giovanni, ci sarà un passaggio successivo in tal senso.
E’ un uomo che si trova davanti ad un bivio, un uomo che ha il potere nelle sue mani. Chi detiene il potere può percorrere due strade: diventare un santo oppure un dittatore. Amleto non ha il cinismo per essere un dittatore e non ha neppure quel tipo di illuminazione necessaria per comportarsi come San Francesco: sta nel mezzo, vive nel centro di questi due orientamenti e per questo Amleto in fondo è tutti quanti noi, una figura che ci rispecchia, nel profondo. Toccare il potere può diventare pericolosissimo perché può darti anche gusto. Io l’ho sperimentato, per esempio, nel film Vincere di Marco Bellocchio, dove interpretavo Mussolini: la prerogativa del ruolo, avere il potere di desiderare una cosa e subito ottenerla, ecco che avevo finito per sovrapporre tutto. Alla fine ordinavo il pranzo sul set come se fossi stato davvero Mussolini!
Anche Don Giovanni è un personaggio che ha coscienza di sé?
Sì, una profonda coscienza di sé. Amleto e Don Giovanni appartengono allo stesso percorso di ricerca. In Favola, uno spettacolo di qualche tempo fa, interpretavo una donna anni Cinquanta: tre ore di preparazione con tacchi a spillo, bustino, trucco e parrucco… Da allora mi è nata la voglia di recitare il personaggio di un 'uomo uomo', anche nel senso più brutale del termine. E chi è più ottusamente maschile se non proprio Don Giovanni? Tutte le donne che incontra lo amano perché intuisce quello che loro vogliono in quel momento e lui è disposto a recitarlo talmente bene; ogni volta che si innamora ci crede, perduta-
Amleto può definirsi un personaggio della crisi?
Amleto è un uomo che ha aperto gli occhi e si accorge che tutto è rappresentazione. Quindi può definirsi un personaggio della crisi perché propone una crisi di identità, mettendo in scena quel vacillar di se stessi che è un concetto fondamentale per l’uomo moderno. Si diventa consapevoli di -20-
mente… Ma poi scappa perché, secondo me, il fine ultimo di Don Giovanni è riappacificarsi con il senso dell’immortalità.
non spendevo in giro per i pub, dovevo comprarmi il libro di Artaud. Avere fame di conoscere è importantissimo e conoscere non vuol dire erudirsi, io odio gli eruditi, ma ti serve per conoscere sempre più te stesso. Conoscere significa essere più liberi, meno schiavi della non-conoscenza. Organizzo di tanto in tanto stage per attori gratuiti perché all’epoca, se fosse successo a me di fare uno stage gratis, sarebbe stato un regalo meraviglioso. Ora che guadagno di più attraverso il cinema, posso permettermelo di non far pagare gli attori.
Proponendo un classico, un testo noto e universalmente riconosciuto, come si arriva a renderlo attuale?
“Per essere storici bisogna essere contemporanei”. E’ una frase di Deleuze. Quando Shakespeare metteva in scena l'Amleto era contemporaneo a se stesso. Anche se indossiamo un costume che segue la moda di secoli fa, bisogna comunque avere un atteggiamento contemporaneo. Devi togliere l’immagine di ruolo intoccabile, per impersonare davvero il personaggio. Amleto è un’opera che attraversa il tempo, quindi sono partito da tutte le fonti storiche - da Petrolini a Carmelo Bene, fino ai più classici - per poi riscrivere il testo. Alla fine arrivo a citare i Puffi in Amleto, nel Don Giovanni inserisco dei video giapponesi presi da youtube … Il veicolo che permette di essere estremi e spudorati, ma non fini a se stessi, è l’amore. Io nei miei spettacoli metto tantissimo amore. Sono passato da una prima fase dove volevo provocare per sconvolgere, poi ho capito che era sterile: il lavoro più interessante è quello di costruire, senza magari rinunciare a se stessi.
«il veicolo che permette di essere estremi e spudorati, ma non fini a se stessi, è l 'amore. Io nei miei spettacoli metto tantissimo amore. Sono passato da una prima fase dove volevo provocare per sconvolgere, poi ho capito che era sterile: il lavoro più interessante è quello di costruire» _
Alla fine il pubblico come esce dai suoi spettacoli, con quali domande e quali risposte?
Personalmente mi diverte sempre la domanda che mi fanno: quella scena era improvvisata o recitata, il testo è scritto proprio così o gli attori lo hanno cambiato, cioè ‘ci sono o ci fanno’? Questo è interessante, perché le domande sono tante e non ci sono risposte. Il teatro non deve dare risposte, piuttosto deve instillare dubbi, per provocare domande.
“Essere o non essere”… Cosa non vorrebbe mai essere Filippo Timi?
Stavo per dire schiavo, ma a volte essere schiavo delle proprie passioni è bellissimo… In alcuni momenti vivo piccoli attacchi di panico, quindi forse non vorrei avere certe piccole paure quotidiane. E poi non mi fido, mai. Forse perché sono nato di sette mesi, sono stato in incubatrice e ho delle crisi di abbandono pazzesche.
Di tanto in tanto organizza stage per formare attori … Per diventare attori i soldi che girano sono pochi, mentre il lavoro che devi fare è tanto. Io agli inizi sono stato salvato dalla mancanza di soldi: guadagnavo poco ma
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IL REGISTA DELLA POESIA MARIO MARTONE
C
’è un collegamento che unisce due spettacoli complessi come La serata a Colono e Operette morali?
Un collegamento forte è dato dal fatto che i due spettacoli sono stati pensati e realizzati dallo Stabile di Torino. Entrambi sono marcati da una scelta rischiosa. La proposta di mettere in scena Le Operette morali è stata accolta come un azzardo: l’idea di uno spettacolo tratto da quel testo leopardiano poteva apparire faticosa, forse troppo letteraria. Per ragioni inverse lo stesso si può dire per La serata a Colono perché è un testo di Elsa Morante estremamente difficile da mettere in scena, mai rappresentato prima. Tutto ciò marca una
scelta di politica culturale dello Stabile che dirigo. In tempi difficili e di crisi come quelli che ci troviamo a vivere si è portati inevitabilmente a semplificare le scelte, a non compiere passi falsi e questo stato delle cose può condurre anche ad una specie di autocensura. Penso che si debba avere il coraggio di diffidare dalle censure, di qualsiasi tipo, cercando di fare delle scelte libere, per ribadire il senso del teatro.
Come si arriva alla scelta di trasportare sulla scena due tra gli autori più importanti della tradizione letteraria italiana? È una scelta di politica culturale. Si tratta
«il regista è una figura a metà tra un contadino e un mago»
«penso che si debba avere il coraggio di diffidare dalle censure, di qualsiasi tipo, cercando di fare delle scelte libere, per ribadire il senso del teatro» di due autori importantissimi della nostra letteratura. Nessuno dei due ha a che fare direttamente con il teatro. Edipo a Colono è l’unico testo teatrale della Morante. E Leopardi ha scritto alcuni drammi solo quando era molto giovane, nella fase più adulta ha smesso… Eppure entrambi, secondo me, mantengono una segreta vocazione teatrale, in grado di conferire una straordinaria vitalità ai personaggi descritti. Il testo di Leopardi è fatto di dialoghi tra personaggi ingessati in una vecchia cosmogonia: folletti, spiriti, figure storiche, pianeti, e così via. Emerge la straordinaria capacità mimetica di Leopardi.
gura a metà tra un contadino e un mago. Arare il campo e seminare credo che sia fondamentale per chi deve condurre un gruppo ed organizzare un’idea, ma si vive anche un lato più misterioso legato al lavoro con gli attori: il regista deve relazionarsi con ogni singola individualità.
È difficile essere direttore di un Teatro Stabile e dedicarsi contemporaneamente alla messa in scena di uno spettacolo?
In Italia abbiamo già un precedente illustre in tal senso: Strehler al Piccolo di Milano non era certo un burocrate. Mi piace molto dirigere il teatro e mi piace anche limitare il numero delle mie regie per dedicarmi al meglio a questo incarico. Sono direttore dello Stabile di Torino dal 2008 e le mie uniche regie teatrali sono state La serata a Colono e Operette morali. Voglio concentrarmi sul cantiere artistico nella sua globalità: compiere le scelte sui testi, chiamare gli artisti a confrontarsi tra di loro, insomma dare vita a questa forma di officina teatrale, in cui molte persone anche diverse tra di loro - lavorano insieme. Per me è molto stimolante ed è la stessa dimensione creativa che si sperimenta con una regia.
Le parole di Leopardi riescono ancora a comunicare con un pubblico contemporaneo?
La scrittura di Leopardi ci arriva ancora viva e piena di interesse, forse adesso più che mai. Pensiamo al rapporto tra l’uomo e la natura, il suo coinvolgimento con la storia. Sono temi che passano attraverso la creazione di un universo fantastico che, secondo me, si presta molto alla messa in scena. In genere Leopardi è percepito ed analizzato secondo un’inclinazione triste, laddove invece una visione, certamente anche disperata di Leopardi, è comunque strettamente legata alla vita in tutti i suoi molteplici aspetti. In Leopardi è presente anche una straordinaria ironia, addirittura per alcune pagine si può parlare di comicità.
Da teatrante, come guarda al futuro?
Credo che una visione dichiaratamente scettica sia la migliore condizione per potere lavorare in questi tempi. Mi sembra difficile essere ottimisti in questo periodo ma certamente non ha senso deprimersi. Il nostro è un tempo difficile e bisogna affrontarlo come tale. Soltanto il lavoro e la determinazione, entrambi vitali, potranno cambiare le cose.
Dal punto di vista della regia, quando affronta un testo qual è il primo elemento a cui pensa?
Sicuramente lo spazio. Il regista è una fi-23-
POTERE ALLA PAROLA IL TRADUTTORE
intervista a MASOLINO D'AMICO
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Forse l’aspetto più affascinante di un testo come La Torre d’avorio - che ha recentemente tradotto per lo spettacolo con Luca Zingaretti e Massimo De Francovich - è il linguaggio…
ual è il primo elemento da tenere in considerazione per compiere una traduzione teatrale?
Il teatro deve essere comprensibile immediatamente. In un libro si può rileggere la pagina, invece in teatro quando non si capisce qualcosa si rimane indietro; è difficile recuperare ciò che si è perso. La prima cosa, la più importante, è che la frase deve arrivare a chi ascolta, non deve essere difficile o astrusa, almeno che l’intenzione originaria non sia proprio quella. Il traduttore cerca di riprodurre sul pubblico italiano quegli effetti che l’autore voleva ottenere sui suoi lettori. Shakespeare voleva meravigliare, stupire o fare ridere? Ecco, si deve cercare di rispettarne la volontà, tutto il resto è secondario.
La Torre d’avorio è una commedia tradi-
zionale, di matrice ottocentesca, proprio dal punto di vista formale. È una buona commedia, ben strutturata, in cui l’interesse è tenuto vivo dal fatto che ogni battuta sembra decidere qualcosa, ma viene subito contraddetta da quel che succede dopo. È importante che si segua questo dibattito, l’autore ricerca soprattutto la chiarezza delle parole, e che la gente non abbia dubbi su quel che succede.
E un autore come Oscar Wilde, che tipo di traduzione richiede?
Wilde è un autore molto originale, esponente di una tradizione inglese di umorismo. Importante è riuscire a restituire la giusta traduzione della comicità inglese. L’attore deve recitare come se non sospettasse che sta dicendo delle frasi comiche, deve essere molto serio: la comicità nasce dal contrasto tra la battuta brillante, direi quasi spiazzante, e la sua serietà. Wilde per tanto tempo in Italia è stato recitato con atteggiamenti leggeri, sberleffi e inciampi… Invece la battuta deve essere ironica ma anche estremamente precisa.
La lingua italiana in generale si presta bene a queste traduzioni teatrali, in particolare dalla lingua inglese? Sì, basta capire bene che cosa significa quel testo in inglese. Tutto si può fare ma -24-
è un lavoro che poi alla fine ti sfugge. Con i testi teatrali la componente del parlato facilita il lavoro del traduttore: un attore può dirti che la battuta così com’è scritta non riesce a dirla, funziona male. Il linguaggio del teatro si può cambiare e migliorare di continuo. Un attore stakanovista come Umberto Orsini, per esempio, migliora lo spettacolo ad ogni replica perché non smette mai di ascoltarsi. In letteratura è peggio: una volta stampato il libro non puoi più modificarlo. Io, di solito, traduco tutto molto in fretta, solo alla fine rivedo gli eventuali cambiamenti. La prima volta che tradussi un testo per Romolo Valli si stupì perché era abituato a lavorare con Gerardo Guerrieri, grandissimo traduttore, ma molto indeciso. Guerrieri scriveva dei copioni con trequattro varianti della stessa battuta. Io invece tendo a decidere subito.
il pubblico non è mica scemo: sa che sta ascoltando una traduzione. È ingenuo cercare di essere più furbi del pubblico, proponendo una versione del testo all’italiana o alla napoletana. Il pubblico sa che si tratta di un testo inglese, quindi è disposto anche ad una certa artificialità e a passare sopra a certe convenzioni, a patto che la commedia abbia una forza che superi tutto. Comunque un’opera tradotta perde circa il trenta per cento del suo valore originario: se già in partenza è debole, il risultato è rovinoso; se si tratta di un testo forte, nessuno se ne accorge. Shakespeare, per esempio, non si riesce mai a rovinarlo: anche nelle peggiori traduzioni possibili mantiene la sua forza. Wilde invece è un autore delicato e una cattiva traduzione potrebbe stravolgerlo.
«il linguaggio mi sembra fondamentale, in tempi di crisi bisogna capirsi e parlarsi»
Il traduttore ha quindi una forte responsabilità rispetto al lettore e allo spettatore… Quasi tutto quello che noi leggiamo è una traduzione: a partire dalla Bibbia o da Dante che traduciamo nella nostra lingua contemporanea, almeno mentalmente. Siamo sempre disposti a scendere a questo compromesso linguistico. Il traduttore, che cerca di aiutarti a capire meglio le parole, conosce il testo originale e allo stesso tempo anche i meccanismi del linguaggio di destinazione. Una traduzione letterale diventa troppo vicina all’inglese, quindi l’italiano funziona male, mentre una traduzione troppo disinvolta perde di vista l’originale. Si tratta di trovare il giusto compromesso tra linguaggio di partenza e risultato finale.
In tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo, quale valore può assumere la parola?
Mi piacciono i testi in cui si discute, i testi di parola. Il linguaggio mi sembra fondamentale, in tempi di crisi bisogna capirsi e parlarsi. E non significa che bisogna essere per forza sempre decisivi, può esistere una comunicazione più ambigua, ma anche l’ambiguità va capita. Non si può stare nell’incertezza. In questo senso il teatro è importantissimo, in quanto luogo dove ci si confronta. La gente va a teatro per avere una boccata d’aria, per trovarsi una persona viva davanti: il teatro non finirà mai proprio per questo motivo. Quelli che vanno a teatro sono quelli che comprano i libri, leggono i giornali e fanno funzionare il cervello. È un peccato che non venga riconosciuta l’importanza del teatro, dandogli il giusto rilievo come negli altri Paesi. L’Italia è sempre così.
«il teatro è una delizia, è il tipo di traduzione più piacevole che ci sia»
Come sceglie gli autori da tradurre?
Il teatro è una delizia, è il tipo di traduzione più piacevole che ci sia. Le commedie sono quasi sempre abbastanza brevi: non
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IL PARADOSSO DELL'ATTORE
intervista a TULLIO SOLENGHI
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uali potrebbero essere le strade da percorrere per riportare il teatro al passo con i tempi, in grado di competere con le nuove tecnologie?
Non credo che il teatro abbia la necessità di inseguire la modernità o di scendere a patti con la nuove tecnologie. Il teatro deve rimanere un'oasi del WWF, anche se è vero che c'è stata un'influenza da parte della politica nella sua gestione. In ogni caso il teatro è il mezzo più diretto e meno corruttibile, dove la raccomandazione non conta. Per i giovani - parlo da padre - il discorso è drammatico un po' in tutti i settori: gli orizzonti appaiono inquinati, in più è arrivato l'ennesimo alibi che impedisce di creare opportunità: la crisi. L'attore è
un precario a vita, da sempre. Essere in scena è importante, anche quando si fanno piccole parti. Negli anni Settanta si sognava il teatro di stato, quello che esisteva nell'Unione Sovietica, ma non è mai successo che gli attori italiani avessero tredici mensilità e un lavoro sicuro. I promessi sposi di Alessandro Manzoni
rappresentano uno dei punti più alti della letteratura italiana; quando - con il Trio - ne ha affrontato la riscrittura in chiave parodistica, come si è avvicinato a questo autore? Intanto rileggendo questo capolavoro. Quindi con un grande rispetto per il testo originale. La parodia costituisce una sorta di terzo occhio, un occhio deformante, che ti fa vedere la realtà in un modo nuovo:
l’intuizione della monaca di Monza che diventa subito un uomo, per esempio, rientra in quelle cose che non sono codificabili. Di sicuro il gusto per la parodia è un aspetto che ha sempre caratterizzato il nostro gruppo, anche prendendo in giro le telenovelas o i famosi processi televisivi alla Perry Mason che hanno affollato la nostra infanzia.
detto Ruzante per i più è uno sconosciuto, ma quando Dario Fo ritirò il Nobel a Stoccolma fece un bellissimo discorso ringraziando proprio Angelo Beolco e indicandolo come il suo ispiratore.
E’ stato difficile impostare la recitazione esprimendosi nel dialetto padovano del Cinquecento?
Un po' di attitudine al dialetto c'è in tutti noi. I ferri del mestiere ogni tanto li devi tirare fuori e affinare. Quando siamo arrivati a Padova per la tappa della tournée la prima cosa che ho fatto è stata chiedere informazioni in un bar, soltanto per sentire l’accento… L'attore è un grande ladro, deve stare sempre con le antenne dritte ed osservare il comportamento delle persone che lo circondano. Già Dario Fo aveva preso il testo originale di Moscheta di Ruzante, che è totalmente incomprensibile, per fare un test con i contadini della campagna padovana di oggi. Nessuno capiva, lo guardavano tutti come se fos_ se un ufo! Comunque l’importante è mettersi in gioco: anche se il teatro è in russo, quando è bello, ne godiamo tutti lo stesso. La comunicazione in teatro è una cosa composita: non c’è solo il linguaggio, ma anche l’azione scenica, i trucchi. Mano a mano ti rendi conto che stai entrando in un viaggio indietro nel tempo.
Prima di fare la televisione e il cinema ha cominciato a lavorare con il Teatro Stabile di Genova come attore drammatico…
Sì, parto come attore drammatico ma ho sempre avuto il gusto del comico. Nel ’74 con una cooperativa teatrale mettemmo in scena le farse di Dario Fo e così ho scoperto anche il mio lato più ironico. Non ho mai pensato all'attore troppo preciso, io voglio lavorare con leggerezza, anche quando affrontiamo allestimenti seri e impegnativi. Ho sempre preferito il paradosso di Diderot rispetto all’immedesimazione di Stanislavskij… Da questo punto di vista un attore che mi ha affascinato, per esempio, è stato Eros Pagni: ricordo che arrivava in teatro all’ultimo momento, pensava a tutt’altro, ma quando arrivava in scena recitava un monologo strepitoso di Madre Coraggio.
«la comunicazione in teatro è una cosa composita: non c'è solo il linguaggio, ma anche l 'azione scenica, i trucchi»
Come è arrivato alla scelta di affrontare Ruzante, un autore del Cinquecento così originale e poco rappresentato sulla scena?
Si è mai trovato in contrasto con qualche regista?
Direi di no. Ho iniziato con Squarzina, che era un grande regista che ci teneva molto all' ensamble. Il patrimonio degli spettacoli del Teatro Stabile di Genova è stato veramente frutto del gruppo. E un regista che lavora con il gruppo, che considera l’attore un complice, già mi va a genio. Avere la possibilità di un complice che interpreta quello che hai in mente come regista, è un privilegio, non un'invasione di campo.
La mia è stata anche una scelta legata ad un tipo di teatro, nel senso che con questo spettacolo sono ritornato a lavorare con il teatro pubblico che mi ha lanciato, dopo trentaquattro anni collaboro di nuovo con lo Stabile di Genova. Credo che lo statuto del teatro a gestione pubblica abbia il diritto e il dovere di riscoprire la grande drammaturgia italiana. Angelo Beolco -28-
LA PAROLA AL PUBBLICO Perché scegli il teatro?
...ogni sera si celebra la Vita, attraverso la Sacralità della Parola e la Ritualità del Gesto, del Movimento. è un Mistero, è un’ Emozione, è Rabbia e Catarsi, è un Sussulto tra Cuore e Pancia, è Follia e Poesia, è Magia ed Energia, è Polvere e Sudore, è Pensiero ed Illuminazione, forse un Sogno... forse Realtà... forse Amore... A.
DIETRO LE QUINTE
Ospitalità sull'Amerigo Vespucci Spesso il Teatro della Pergola viene chiamato così, come quel gioiello di nave-scuola che solca gli oceani in lungo e in largo, dove si formano i marinai. dietro le quinte Anche qui alla Pergola la tecnologia ha svoltato prima, ha preso via Nuova de’ Caccini, a destra per Borgo Pinti, su su per via S. Egidio e se n’è andata via. E’ molto pittoresco tutto ciò, ma nella pratica dove mozzi e marinai sono già formati e le scene sono sempre più pesanti, lavoriamo con i mezzi dei nostri antenati ed è cambiato ben poco per noi macchinisti: martello, chiodi e belle sudate. Un po’ come quei marinai sulla nave ammiraglia sempre pronti ad affrontare il mare: il lavoro di squadra è fondamentale perché in agguato c’è sempre un imprevisto, ed un intoppo può pregiudicare il rientro in porto. Mezza sala, sala buia, sipario. Vento da sud est, mare calmo: il montaggio sembra tranquillo, i facchini scaricano il camion. C’è chi canticchia l’ultima di Sanremo, c’è chi bestemmia, via vai di casse e di bauli. Questo vento promette bene: – Cazza la randa! La nave va spedita. Buonumore sul ponte, anzi sul palco. Si montano le prime americane luci, si familiarizza con la compagnia, le corde calano dalla graticcia, si urla per intendersi. La scena prende forma. – Vele spiegate! Vento in poppa! Cantinelle, stangoni, brocchette e chiodi. – Su tutti insieme, queste luci pesano! – Ci vuole ciccia! – Oh-issa. Oh-issa! – Prendi volta al mantegno! Non pestate le corde! – Via i piedi. – Lega lega, l’altezza è giusta si mette a punto dopo. Si alza il vento, il mare si increspa, cede una corda, si spezza. – Cala, cala, prima che caschi ogni cosa! – urla il macchinista marinaio. – Ci vogliono le corde del 1 0, più robuste e resistenti. – Vai di martello e rocchetti. Ma che bel panorama però, è quello in P.V.C., pesante da tirar su senza motori. Con un gioco di luci gli elettricisti ci faranno sognare! – Via, via non c’è tempo! Parte della scena tarda ad arrivare, il bilico è incastrato, non gira da via della Colonna. Il tempo stringe, i nervi saltano. Gira la voce che dobbiamo rientrare in porto, non è mai successo che per cause tecniche salti lo -30-
spettacolo alla Pergola. – Ma chi è quell’incosciente sul ponte? – urla il capomozzo. – Via di costì! – Ma è l’ammiraglio. No, no: è l’amministratore in giacca e cravatta, gli girano anche a lui, dovrà rimborsare tutti! Il tempo passa. – Dai che ce la facciamo!! Anche con mezza scena viene deciso di sostituire la parte mancante con soffitti e quinte di fortuna. Piena tempesta. Via vai di gente. Si corre sul palco, non c’è tempo di sbagliare, siamo a rischio anche di farsi male, ma non importa, non ci pensiamo. – E quelli chi sono? Gli orchestrali. – Via, via dalla scena! E’ pericoloso! – bercia qualcuno. Sono le nove: panico generale! E’ tardi, la nave vacilla, il telefono del centralino è infuocato. Abbonati e paganti chiedono spiegazioni. La gente mormora: vuole entrare in sala. Le maschere fanno fatica a trattenerla nel foyer. – Chiudi il sipario, che ci vedono! Piovono ancora corde, fischi del pubblico. Salta la prova luci: è troppo tardi. – Lega, lega! Un quarto alle dieci: tutti ai propri posti. E’ fatta: terra in vista. E come d’incanto le parole tanto attese. – Via i servizi. – Mezza sala. – Sala buia. – Sipario.
L'AVVIAMENTO ALL'ESPRESSIONE
«
Se sapete che il vostro strumento siete voi stessi, conoscete anzitutto il vostro strumento, consapevoli che è lo stesso strumento che danza, che canta, che inventa parole e crea sentimenti. Ma curatelo come l’atleta, come l’acrobata, come il cantante: assistetelo con tutta la vostra anima, nutritelo di cibo parcamente, ma senza misura corroboratelo di forza, di agilità, di rapidità, di canto, di danza, di poesia e di poesia e di poesia. Diverrete poesia aitante, metamorfosi perenne dell’io inesauribile, soffio di forme, determinati e imponderabili, di tutto investiti, capaci d’assumere e di dimettere passioni, violenze, affezioni, restandone arricchiti e purificati… tesi alla rivelazione di ciò che l’uomo è: angelo della parola, acrobata dello spirito, danzatore della psiche, messaggero di Dio e nunzio a se stesso e all’universo d’un se stesso migliore. Orazio Costa
»
Orazio Costa, grande uomo di teatro del Novecento, dopo aver formato generazioni di attori importanti, decise alla fine degli anni Settanta di stabilire la propria base operativa a Firenze per divulgare e specializzare un Metodo fondato sul recupero e affinamento delle potenzialità espressive insite in ogni essere umano attraverso “l’inesauribile incontro con la realtà”. Il suo Centro di Avviamento all’Espressione ha formato nel corso di quasi vent'anni molte generazioni di uomini di ogni età che volevano scoprire e rivelare la loro creatività, e in qualche caso anche qualche attore. Costa ha offerto tutto il proprio sapere alla collettività, ha creduto nell’uomo e lo ha aiutato nella ricerca della verità. Ha dedicato la sua vita al teatro cercando di restituirgli la sua alta funzione morale e sociale, impegnandosi alla riscoperta di un teatro dello spirito. Non ha mai cercato il facile consenso, anzi spesso lo ha evitato e nel suo rigore non è mai andato alla ricerca di ciò che è gradito, ma di ciò che è vero. Il Teatro della Pergola, rispondendo ad una delle sue fondamentali missioni, quella formativa e di attenzione ai giovani, riprende oggi il discorso interrotto circa vent’anni fa dal Centro di Avviamento all’Espressione per avviare un intenso programma di corsi e laboratori offerti alla cittadinanza come opportunità di riscoperta della propria espressività naturale attraverso lo strumento teatro, con particolare attenzione ai giovanissimi, agli anziani e alle scuole di ogni ordine e grado. Alla finalità formativa fondamentale si aggiunge oggi il vantaggio dell’opportunità lavorativa offerta a un gruppo -33-
di giovani neo insegnanti: i corsi sono infatti tenuti da giovani diplomati nel Metodo che, sotto la guida di Maestri esperti, si cimentano nella trasmissione di un sapere che pone al centro della propria attenzione l’uomo e che utilizza lo strumento teatro per aiutarlo nella riscoperta di sé e degli altri. Il Metodo Mimico di Orazio Costa nasce dal consiglio e proposito del grande regista francese Jacques Copeau di “ricominciare da capo” l’educazione dell’attore e, quindi, soprattutto dell’Uomo, a partire dall’osservazione dell’attività motoria del bambino, interpretata come vocazione alle arti del movimento anziché come semplice testimonianza della spinta all’espressione. Basato sul recupero e l’affinamento dell’attitudine mimica e delle sue estensioni all’educazione della voce, è stato lungamente perfezionato con la pratica dell’insegnamento presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, il Conservatorio di S. Cecilia, il Centro Sperimentale di Cinematografia, l’Institut des Arts de Diffusion a Bruxelles, infine a Firenze presso il Centro di Avviamento all’Espressione. È stato portato alla conoscenza degli specialisti dell’insegnamento dell’arte scenica nel corso di numerosi incontri internazionali e, esteso all’animazione scolastica, nella sua sperimentazione recente è stato oggetto anche di applicazioni in campo medico a fini terapeutico-riabilitativi, in campo pedagogico per la formazione fisica degli studenti con ampie estensioni ad altre pedagogie artistiche, alle attività sportive e a tutte le attività pratiche.
L A L A VA GNA CON L A SCRITTA 'EDUA RDO' VIENE CONSERVA TA NEI LOCA L I DEL TEATRO E FA RIFERIMENTO A L CORSO DI DRA MMA TURGIA CHE EDUA RDO DE FIL IPPO REA L IZZÒ NEI PRIMI A NNI O TTA NTA A L TEA TRO DEL L A PERGOL A . QUESTA CITA ZIONE HA ISPIRATO L A COPERTINA DEI Q U AD E RN I D E LLA P E RG O LA
Quaderni della Pergola - Numero 0 A cura di Angela Consagra e Gabriele Guagni Interviste e testi di Angela Consagra Progetto grafico ed impaginazione Gabriele Guagni L’articolo a pag. 30 Ospitalità sull’Amerigo Vespucci è di Alessandro Pirali L’articolo a pag.32 L’Avviamento all’Espressione è di Marco Giorgetti Hanno collaborato a questo numero
Clara Bianucci, Dalila Chessa, Elisabetta De Fazio, Raffaello Gaggio, Adela Gjata, Alice Nidito, Irene Padovani, Stefania Signorini Immagini La fotografia del Teatro della Pergola a pag. 3 è di Giacomo Costa Le fotografie dell’orologio a pag. 4, di Stefano Accorsi a pag.1 2, del bacio di Filippo Timi a pag. 20, di Tullio Solenghi a pag. 27, delle corde del palcoscenico a pag. 30 e della lavagna di Eduardo De Filippo a pag. 34 sono di Filippo Manzini La fotografia di Filippo Timi a pag. 1 8 è di Filippo Manzini, elaborazione a cura di
COLOPHON e lavagna
Clara Bianucci
La fotografia di Gabriele Lavia a pag. 1 5 è di Stefania Signorini Disegni di Dalila Chessa Il disegno di pag. 31 è di Mario Nerino Signorini Il materiale editoriale per i Quaderni della Pergola è tratto dagli incontri con le compagnie ospiti del Teatro della Pergola condotti da Marco Giorgetti, Riccardo Ventrella, Pietro Bartolini e l’Accademia Teatrale di Firenze; dalle interviste pubblicate su Pergola… in sala e su Fuoriscena ; dall’incontro con gli artisti per Sipario TV Per contattarci:
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Presidente Sergio Givone Consiglio di Amministrazione Ugo Caffaz, Stefania Ippoliti, Franco Lucchesi, Raffaello Napoleone Collegio Revisori dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto Lari Direttore Generale Marco Giorgetti