Quaderni della Pergola | Il Femminile

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Questo numero dei Quaderni della Pergola ha per tema il Femminile. Argomento delicato, facilmente sgualcibile, ma che ha così tanto da dire. Richiede apertura incontrare il Femminile nel mondo: aprire il cuore per abbracciare la vita nelle sue sfide e nelle sue meraviglie, schivare cazzotti e saper prendere carezze. Il Femminile danza, flessuoso si muove, non si spezza mai e sa piegarsi lanciandosi poi con dolcezza alto nel cielo. Il Femminile è presenza, autenticità. Nessuna maschera, solo verità. Abbiamo scoperto che il teatro è Femmina: questo ci hanno raccontato gli artisti incontrati, maschi e femmine, senza distinzioni. Nel teatro ogni sera nasce un’emozione, una storia, una musica, una nostalgia; si agita una tensione vitale, seducente, ammaliatrice, tra pubblico ed attori. Una forza misteriosa che non ha fine, che non ha età, che non inganna ma disvela. Il Femminile crea… Ed il Femminile inaugura anche la prima copertina accompagnata da un grifone. Figura simbolica ripresa da un particolare architettonico del nostro teatro. Il Grifone collega il cielo alla terra; leggerezza e potenza. E’ coraggioso, nobile, elegante, forte, astuto; protegge e sa difendersi… Quale migliore figura protettrice potevamo desiderare per il presente ed il futuro dei Quaderni? Ci auguriamo che possa meravigliarvi come ha fatto con noi…

2. Concita De Gregorio 3. Anna Marchesini 7. Carolina Rosi 11. Marina Massironi 13. Geppi Cucciari 15. Dal Teatro Niccolini… 16. Paolo Poli 19. André Benaim 23. Voci di donna 33. Francesca Archibugi 38. Carlo Verdone e Claudia Gerini 40. Luciana Timi 42. La parola al pubblico 43. Dalle prove di Una casa di bambola 50. La Storia racconta… 52. Éric-Emmanuel Schmitt 57. Azar Nafisi 59. Virgina Woolf 61. Toulouse Lautrec 65. Etica femminile e l’utopia di Rousseau 67. Samantha Cristoforetti 70. Alessio Boni e Marcello Prayer 72. Renzo Musumeci Greco 75. Dai Quaderni di Orazio Costa 76. A proposito del femminile


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Un posto per tutto di Concita De Gregorio

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

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alle donne passa la vita, sempre. Dalla pancia, dalla testa, dalle mani e dai ricordi. Dalla capacità e dal desiderio di tenere dentro, a volte dall’impossibilità di farlo. Quello che succede nel transito non è materia per dibattiti. Il segreto delle madri, anche quelle che non sanno o non vogliono esserlo: la capacità misteriosa di diventare un posto che accoglie tutto quello che succede nel cammino, tutto quello che viene e che c’è. La capacità di tenere insieme quel che insieme non sta. Di ricordare daccapo, ogni volta, da dove passa la vita e perché. La vita per fortuna dà un posto alle cose. Quando sembra che non ce ne sia uno per sé, guardarsi attorno aiuta. Le storie, anche poche storie incrociate senza averle cercate, parlano di questo: di come invece ci sia un posto per tutto, a saperglielo dare. Un posto anche per l’assenza. Di quante ombre sia pieno l’amore perfetto, e di quante risorse inattese. Di quanti modi esistano per accogliere quello che viene, quello che c’è. Tanti modi così diversi e tutti senza colpa, alla fine: i modi che ciascuno trova.


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Anna Marchesini FRAGILE E VIVA di Angela Consagra

Lei ha definito la parola teatrale come “volumetrica e fragrante, addirittura quasi croccante”… Ho una predilezione per la parola che è tutto: è figura, è musica; veramente ha un suo volume e un corpo fisico. Per me la parola non è lineare: può essere croccante, friabile, dura fuori e molle dentro… Sento che ha un sapore e così la rendo in scena: la parola è legata al corpo e alla gestualità, quindi ha spessore. Leggendo i classici, a volte capita di imbattersi in parole desuete che non si usano più ma che ancora dicono qualcosa: mi sembra allora che è come se avessimo scavato e trovato qualcosa, un piccolo tesoro tornato alla luce.

“Per esprimere la comicità occorre sentirsi tante cose insieme: un oggetto, un animale o perfino, come diceva Virginia Woolf, “un groviglio di oro e stracci…” E’ la parola che dà fisicità all’attore? La parola non è solo quella che esce con la voce, ma anche con il cervello: è l’intenzione con cui pronunci una battuta, il modo di portarla verso il pubblico. Uno dei pericoli dell’attore è che conosce come va a finire la storia

che racconta, mentre per essere veri bisogna cercare di recitare in maniera inconsapevole, come se si fosse all’oscuro di tutto e non si conoscesse la fine, ogni sera ancora per l’ennesima volta.

La comicità: che cos’è per Lei? È un concetto che contiene una miriade di suggestioni perché la comicità è fatta di vari ingredienti che, messi insieme, mettono in moto il fenomeno della risata. C’è un bellissimo libro di Pirandello, il saggio L’umorismo, che praticamente è una vera lezione sulla comicità. Come attrice, penso che la comicità abbia una partenza, a volte non sempre divertente; si tratta di un materiale che va vissuto fino in fondo e che subisce delle capriole, proprio come quelle di un equilibrista, per diventare qualcosa di comico, anche se prima non lo era. Non credo che si debba distinguere la comicità femminile da quella maschile, piuttosto un’eventuale distinzione si riferisce solo all’ingegno: si può parlare di comicità intelligente o no. Un attore non deve essere etichettato semplicemente come maschio o femmina, anche se naturalmente esistono dei temi – come, per esempio, il sesso o le dinamiche di coppia – che magari l’uomo sviluppa in un modo e la donna in un altro. Quello che davvero importa, alla fine, è che si possa parlare di comicità riuscita… Dietro ad una risata c’è, da parte di chi la procura, la conoscenza perfetta del meccanismo su cui si vuole giocare a fare dell’ironia: bisogna conoscere a fondo l’oggetto di cui si tratta per poterlo poi restituire con effetto comico. Si suscita la risata perché si coglie un aspetto degenerativo del meccanismo e per questo si confina con la satira e la parodia. Per un artista è comunque


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importante la credibilità e da questo punto di vista non ci sono differenze: l’esigenza è quella di rendere credibili, come se fossero vere, le parole che pronunci sulla scena, altrimenti nessuno né ride né piange…

il viaggio dello spettacolo: è come mettersi su un’imbarcazione piccola – tipo una canoa, per esempio – e scivolare sull’acqua lentamente, sciogliendo a poco a poco te stessa e appassionandoti: questo è il mio mestiere.

La comicità ha forza quando il maschile e il femminile si incontrano? Sì, credo che sia così. Per esprimere la comicità occorre sentirsi tante cose insieme: un oggetto, un animale o perfino, come diceva Virginia Woolf, “un groviglio di oro e stracci”…

Quale aspetto femminile è rappresentato dal teatro? Forse è una questione di doti: intelligenza, profondità, sensibilità… E sono caratteristiche che appartengono ad entrambi, donne e uomini. Probabilmente le femmine hanno una maggiore capacità di mettersi in contatto con le emozioni, di assorbire e farsi penetrare dai vari sentimenti che le attraversano. È la richiesta che il teatro poi fa a tutti, ovvero di essere sempre pronti e disponibili alla strada del racconto.

Come vive un’attrice l’attesa che la conduce verso il palcoscenico? La mia vita non è staccata dal palcoscenico, il luogo dove emergono anche le mie fragilità. Io arrivo in camerino prestissimo, anche per ‘respirare’ il teatro, in qualche modo… Per me è un luogo sacro. È come se fossi in un’oasi, una specie di bolla separata dalla realtà esterna. Comincio a truccarmi pian piano e a vestirmi, il momento prima di entrare in scena è sicuramente emozionante; il resto è tutto bello: il rumore del sipario che si apre, il primo applauso che ricevi e poi si parte per

FOTO GIAN MARCO CHIEREGATO

Quanto conta per un artista che sta sul palcoscenico la risposta immediata del pubblico che si esprime all’improvviso con una grossa risata o con l’applauso a scena aperta?


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È fondamentale, basta pensare che io non faccio mai la prova generale, anche i tecnici della mia compagnia fino all’inizio della tournée non sanno mai come sarà lo spettacolo. Mi manca quasi il coraggio di fare una generale senza la presenza del pubblico perché non ho una dote di narcisismo molto spiccata: so che certe cose le farò soltanto con il permesso degli spettatori,

“Lo spettacolo non è solo una prova di memoria, ci sono di mezzo anche delle emozioni che, se il pubblico è con te, crescono”

Se dovesse spiegare che cos’è per Lei il pubblico? Sono degli estranei che all’inizio ho il desiderio, perfino la presunzione, di trasformare con l’esperienza dello spettacolo: alla fine devono uscire come sconvolti, mi piacerebbe vederli con i capelli scarmigliati e tutti in disordine, molto diversi dal momento in cui sono arrivati a teatro. Devono aver vissuto un’emozione, che li ha portati dalla mia parte: sono dei soggetti che non conosco, non so come reagiranno alle mie parole, quali aspettative ripongano in me… Stanno famelici in attesa e man mano sento che ci avviciniamo, alla fine diventiamo un tutt’uno: il nostro è un viaggio, che ci rende amici.

Lei è un’insegnante dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica…

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

con la loro autorizzazione a rompere il silenzio e a raccontare. La patente per il palcoscenico te la dà il pubblico, semplicemente per il fatto che sta lì attento a sentire quello che dici. Lo spettacolo non è solo una prova di memoria, ci sono di mezzo anche delle emozioni che, se il pubblico è con te, crescono. È come una relazione amorosa, in fondo nel sesso più l’altro si scalda e più ti scaldi anche tu…

Sì, e nel futuro allenterò ancora di più l’impegno con il teatro proprio per dare spazio all’insegnamento e alla scrittura. Sto realizzando un nuovo libro e scrivendo anche un altro spettacolo teatrale… Amo l’Accademia. Mi è sempre parsa un luogo mitico, anche quando ero io stessa studentessa. Adesso sono un’insegnante un po’ anomala perché lavoro sulla comicità e sull’ironia, mentre all’Accademia queste discipline si studiano poco: ci si sofferma più su autori come Shakespeare o Ibsen… Chiedo subito agli allievi di scrivere un piccolo monologo di pochi minuti e all’inizio sono disperati: nessuno l’ha mai fatto prima e cadono nel panico. Io non dico mai come fare: sono loro stessi a dover trovare il tempo giusto e a mostrare veramente se stessi. Questi ragazzi arrivano a tirare fuori tante di quelle emozioni… La scrittura li mette in una situazione di nudità interiore e li trasforma: usciamo tutti felici, sia gli studenti sia io insegnante, da questa esperienza.


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Carolina Rosi AMORE, VITA, TEATRO Che donna è il personaggio che interpreta in Non ti pago, lo spettacolo che sta portando in tournée in questa stagione teatrale? Canonicamente è descritta come una donna molto irascibile e pronta a scattare: è la classica donna napoletana, piena di energia, forza e vitalità. Il regista, Luca De Filippo, ha voluto fare un allestimento non tradizionalista e ha pensato ad una figura femminile più remissiva all’inizio della storia, fino alla sua esplosione finale contro il marito che è diventato insopportabile...

“La vita di noi teatranti è fatta di mesi di convivenza, di viaggi e cene insieme: ci deve essere armonia e ci si lega con persone che intellettualmente ti sono vicine” È una visione che va molto contro la mia natura perché io nella realtà, come temperamento, sarei proprio come la tipica donna descritta nella commedia: pronta a partire in quarta per qualsiasi cosa! Quindi, in accordo con la regia, cerco di trattenermi fino ad arrivare ad un’insofferenza e ad una rabbia finale che dovrebbero risultare più serie, con una connotazione meno comica.

Quando è in scena, cosa ricerca in una collega di lavoro, nelle altre attrici che le sono accanto? Credo molto nel dialogo vero. Benché si recitino delle parti che sono imparate a memoria, tutte noi ci portiamo dietro il nostro stato d’animo di quel giorno e quindi diventa fondamentale cercare ogni volta una complicità nuova di dialogo: le parole non sono le mie e anzi ripeto quelle scritte dall’autore, ma la sensazione che deve instaurarsi sul palcoscenico è amichevole, come se stessimo chiacchierando per davvero tra di noi. In Non ti pago, insieme agli attori, siamo quattro donne in scena: c’è chi ha più esperienza, conosce la tradizione ed è avvezza ai trucchi del mestiere, e chi affronta il palcoscenico da poco tempo, in modo giovane e ingenuo, nel senso più buono del termine... Siamo tutte diverse, ognuno con una sua sfumatura del femminile.

Sulla scena emerge questa sintonia e il fatto che come Compagnia vi vogliate proprio bene l’uno con l’altro ... Ci ha unito la tragedia che ci ha coinvolti tutti come Compagnia: la scomparsa del nostro capocomico Luca De Filippo. Negli ultimi anni Luca ha tentato sempre di formare dei cast dove il valore umano delle persone, al di là della bravura, fosse importante. La vita di noi teatranti è fatta di mesi di convivenza, di viaggi e cene insieme: ci deve essere armonia e ci si lega con persone che intellettualmente ti sono vicine, gioisci se uno degli altri attori ha successo…

Per Lei il teatro è un viaggio? Ho scoperto recentemente che il teatro è veramente necessario alla


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mia vita… All’inizio in teatro mi ci sono ritrovata: mi sono innamorata di Luca e per 25 anni la nostra storia è andata avanti, condividendo questa vita teatrale. Forse la mia non è stata una scelta a priori perché ero più propensa al cinema, anche pensando a mio padre Francesco Rosi. Quando

coscienza. Non avevo mai fatto prima una tournée senza Luca, il teatro era condividere insieme la vita e il lavoro: capire di stare bene anche da sola sulle tavole del palcoscenico è stata una rivelazione. Ricordo che glielo raccontavo e lui sorrideva, ne era contento… Sapevo di essere forte e fragilissima allo stesso tempo, così il teatro ha continuato a darmi la carica.

C’è stato mai un momento in cui hai pensato di smettere di fare teatro? No, mai. Se non riusciremo più a proporre il nostro teatro nei grandi posti istituzionali, allora magari ritorneremo alle origini e ci esibiremo nelle cantine… Il teatro è nato così, facendo di tutto per sopravvivere. In questa fase poi io sono disposta a rischiare, anche economicamente: bisogna essere liberi di poter scegliere il testo e la messinscena che davvero si desiderano, senza compromessi.

Avverte la responsabilità di dover portare avanti una tradizione?

FOTO FILIPPO MANZINI

Luca è stato male e io sono dovuta comunque andare a Milano a fare lo spettacolo senza di lui – con la sostituzione di Gianfelice Imparato – ho capito che Luca mi aveva insegnato tutto e che mi aveva reso il palcoscenico indispensabile. Amo il teatro e ne ho preso

Non è assumersi una responsabilità in senso negativo, piuttosto ne avverto l’esigenza: prima di tutto è un dovere, nei confronti di Eduardo. E’ un autore che non si studia nelle scuole, tutti devono imparare a conoscerlo. E poi anche nei confronti di Luca: 40 anni di lavoro con la sua Compagnia non si possono buttare dalla finestra… Si è creato uno stile, sinceramente non la vedo come una cosa così complicata da portare avanti: collaborando con registi che apporranno qualcosa di loro e affiancandomi di volta in volta, in base ai vari progetti, ad attori diversi. All’inizio soffermandoci sul repertorio e poi istituendo dei gruppi di giovani per dare uno spazio alla


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drammaturgia contemporanea, magari di autori napoletani: la tradizione ha senso e viene ancora più rispettata quando si mette a confronto con il nuovo. Oggi Eduardo De Filippo viene rappresentato in tanti Paesi stranieri, forse si potrebbe pensare ad ampliare i testi tradotti oppure creare degli scambi: quando qualche anno fa con la Compagnia di Luca De Filippo abbiamo rappresentato La grande magia, già pensavamo ad un incontro con la Francia perché questo testo è entrato nel repertorio della Comédie Francaise: è bello vedere come due compagnie, una italiana e una straniera, rappresentino lo stesso testo e ne diano una loro chiave di lettura. Il futuro per me costituisce una sfida, è una cosa che mi dà una grande energia e che mi spaventa anche un po’… Ho riscontrato un affetto tale nei confronti di Luca, che credo neanche lui si aspettasse, e quindi sono fiduciosa.

Rimane anche la responsabilità, come ha accennato prima, di riuscire a far conoscere Eduardo De Filippo alle nuove generazioni stando al ritmo con i giovani… Sì, per esempio Luca aveva deciso di mettere le commedie di Eduardo su ITunes, cercando delle piattaforme più accessibili; tanti anni fa aveva già pensato ad un canale telematico in TV dedicato al teatro, dove venissero trasmessi tutti gli allestimenti e le prove degli spettacoli. Luca era pieno di idee formidabili, anche se la pigrizia e il ritmo della tournée a volte forse poi rallentavano i progetti...

Suo padre, il Maestro del cinema Francesco Rosi, che cosa le ha insegnato? Artisticamente tante cose, stare su un set vuol dire veramente imparare:

mio padre ha sempre saputo esattamente cosa voleva. Umanamente mi ha insegnato l’onestà intellettuale e lo sforzo di rimanere sempre se stessi senza scendere a compromessi. Mio padre faceva parte di una generazione che in qualche modo era sempre rimasta fedele ai suoi principi. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“La mia valigia contiene sempre tanta curiosità ed energia, che provengono dal desiderio di fare: non c’è mai la stanchezza, piuttosto l’amore” Che cosa contiene adesso la sua valigia di attrice? Ho tutto da imparare, la mia è una valigia metà piena e metà vuota... Il percorso è in salita perché non mi considero ‘un’attrice fatta’. La mia valigia contiene tanta curiosità ed energia, con il desiderio di fare: non c’è mai stanchezza, piuttosto amore. Per dirla come Mastroianni: “questo mestiere è un gioco bellissimo e ci pagano pure per farlo...” (A.C.)


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Marina Massironi L’INCANTO DEL TEATRO Il viaggio della tournée: che esperienza è per un’attrice? Sono una nomade, adoro i cambiamenti e i viaggi. Già quando avevo tre anni sono partita da casa mia per andare con i vicini in vacanza. Anche se dopo un po’ mi prende la nostalgia di casa, mi piace molto il ritmo della tournée. Importante però è la compagnia con cui intraprendi il viaggio e con cui condividi l’avventura: nel caso de La scuola - lo spettacolo che stiamo

Per una Maestra della scena come Franca Valeri, la comicità è mistero. Non potrei trovare una definizione migliore di quella di Franca Valeri, che io rispetto enormemente. Dipende molto dal tipo di comicità che intendi proporre, ma è vero che per riuscire ad ottenere una risata i tempi giusti sono importanti. Lo spettacolo in genere ha una sua musicalità, fatta di ritmo e tono, e fondamentale rimane la reazione del pubblico: la commedia si modula con gli spettatori che ti stanno davanti e che rispondono alle tue battute. Dal palco avverti la risata

“Il pubblico è il mio referente magico. Mi commuove vedere la gente che esce di casa e viene a teatro” portando in tournée - il lavoro è corale. In scena e fuori scena c’è un’estrema attenzione reciproca: non ci sono differenze dal punto di vista dell’energia tra noi attrici e gli altri attori maschi, anzi è l’unione che ci rende forti, proprio come compagnia, per realizzare il nostro spettacolo: un viaggio in continuo movimento, che non raggiunge mai la meta finale.

Che cosa contiene la sua valigia di attrice? In realtà c’è una microcasa. La valigia dell’attore è sempre pronta, sempre disponibile a cambiare stagione, vestiti, pelle…

e misuri la capacità delle tue parole, ne calibri l’efficacia. A volte il pubblico è caloroso e ride di più, altre volte devi conquistare pian piano l’attenzione della platea. Non è tanto una questione di differenza tra Nord e Sud del Paese, dipende piuttosto da quanto è pronto il pubblico rispetto al teatro, da quanti spettacoli è abituato a vedere.


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Lei è stata la spalla comica femminile di Aldo Giovanni e Giacomo, un trio tutto al maschile; è possibile parlare di comicità al femminile? Non credo che ci sia una divisione tra maschile e femminile riguardo alla comicità, semplicemente esiste la comicità proposta da una donna e la comicità

Come si crea un gruppo in scena? Quali caratteristiche ricerca nelle altre attrici con cui condivide il palcoscenico? Quando sono in scena ricerco la stessa cosa, sia in una donna che in un uomo. Desidero trovare una corrispondenza, una sorta di ‘anima gemella’ che lavori con la medesima energia. Un essere umano che ha rispetto di te, disponibile anche a discutere e a sostenere un confronto per costruire insieme lo spettacolo. Un’attrice non smette mai di imparare. Ecco perché è importante continuare a sperimentare e non adagiarsi mai su un risultato.

Il momento del trucco, la preparazione in camerino prima di una rappresentazione: come si vivono, da attrice, quegli istanti particolari ed unici che conducono verso la scena?

FOTO FILIPPO MANZINI

proposta da un uomo. Gli uomini hanno i loro discorsi, un senso della goliardia che è differente da quello delle donne quando si ritrovano a loro volta. In scena però il contrasto funziona e il confronto maschile-femminile vince.

Con estrema concentrazione. Non posso salire sul palcoscenico senza essermi concentrata e distaccata, in qualche modo, dalla quotidianità che lascio fuori dal teatro. Il momento del trucco serve per concentrarmi, così come il fatto di arrivare sempre con anticipo in scena: cammino sul palco e controllo le mie cose, mi metto già nello stato di inizio dello spettacolo, proprio per riscaldarmi dall’interno e non arrivare fredda alla rappresentazione. Come attrice ti può capitare di replicare uno spettacolo anche più di 200 volte: non bisogna allora vivere la scena con abitudine ma conservare una propria spinta vitale, per non ripetersi mai. Il pubblico è il mio referente magico. Mi commuove vedere la gente che esce di casa e viene a teatro: insieme condividiamo un incanto. Sia come attrice, sia quando divento spettatrice io stessa, lo spettacolo è sempre un’esperienza fortissima. (A.C.)


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Geppi Cucciari L’EMOZIONE CHE ACCENDE Qual è la forza dell’ironia? Dipende se la comicità è un mestiere oppure no… Credo che la forza dell’ironia sia assoluta, un condimento essenziale per esprimere qualsiasi IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“L’ironia è il modo migliore per dire quello che pensi, con una maggiore possibilità di essere perdonata” contenuto nella vita di tutti i giorni. Se l’ironia è legata al mio mestiere diventa il piatto principale, non solo il condimento. L’ironia è sempre diversa: c’è quella del teatro e quella del cinema, quella che emerge in un momento in

cui sei sola oppure quando sei coinvolta in uno spettacolo con tante persone che ti guardano… L’ironia è il modo migliore per dire quello che pensi, con una maggiore possibilità di essere perdonata se ciò che dici è politicamente scorretto.

In che modo l’ironia teatrale differisce rispetto all’ironia che si vede in TV? Sono linguaggi diversi che pretendono strumenti differenti per veicolare il pensiero. Chi viene a teatro è uscito di casa, ha cercato un parcheggio per la macchina e pagato un biglietto per vederti: ancora oggi io mi emoziono, è una cosa a cui non mi abituerò mai e di cui sono molto grata e rispettosa. La capacità di ascolto del pubblico teatrale è alta, diversa dall’attenzione di chi sta a casa davanti alla TV, magari con un figlio in braccio e la possibilità di cambiare canale… Il pubblico è un’entità impalpabile che merita il massimo rispetto, ma alla quale ci si può anche a volte permettere di non accondiscendere completamente. Come autrice mi piace quando nella comicità si uniscono la scrittura e la preparazione di un testo con l’improvvisazione, cosa che a teatro a volte è più difficile perché gli altri attori ti danno la battuta che va usata all’interno del meccanismo dello spettacolo. Da questo punto di vista la televisione mi permette una maggiore improvvisazione: io lavoro su un copione ideato insieme ad altri autori, però poi aggiungo a quello che ho scritto me stessa e lo faccio ascoltando quello che mi succede in quel dato istante. Per due anni ho fatto un programma in diretta ogni giorno e la tensione, il timore di sbagliare, non mi abbandonavano mai. Certe volte ero totalmente libera di gestire i contenuti, altre volte lavoravo


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su contenuti altrui: l’importante è cercare di non perdere mai se stessi, con la consapevolezza di ricordare sempre dove siamo e quello che possiamo permetterci. È l’emozione che ti permette di rimanere sempre con i sensi accesi, per evitare l’errore.

le ricercatrici, le ingegneri o le impiegate… In realtà è anche vero che nel mio lavoro non esiste tanto la competizione uomo-donna, proprio perché la comicità femminile ha una sua specificità: a volte c’è più concorrenza proprio tra donne, per aggiudicarsi un ruolo o condurre un programma.

La televisione regala una popolarità enorme…

Esiste una comicità al femminile? Lo chiedi alla persona giusta: certo che si può parlare di comicità al femminile! Numericamente siamo di meno rispetto agli uomini, ma ognuna ha una sua unicità. Io, per esempio, ho i miei paletti legati alla comicità: non amo essere volgare. Questo Paese non è facile per le donne, sia che facciano le comiche o

Per quanto mi riguarda, uno dei lati negativi della popolarità è che prima di diventare vagamente celebre facevo delle cose assurde e buffe per strada, relazionandomi con i passanti nei ristoranti o nelle scuole, mentre ora non posso concedermi più questa libertà: se mi comportassi così, la gente crederebbe che lo faccio perché penso di potermelo permettere. Ho dovuto rinunciare ad una parte di me, la più sfacciata… Invece un dato positivo della notorietà è che gli spettatori a cui piaci ti fanno i complimenti e ti dimostrano affetto; a volte addirittura qualcuno viene a dirti che gli hai fatto compagnia mentre stava male, che lo hai fatto ridere con una tua battuta in una giornata triste… Queste parole del pubblico, per me hanno un valore assoluto. (A.C.)


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Dal Teatro Niccolini...

Ancora una volta

“C

hi è di scena!” risuonerà un’altra volta al Teatro Niccolini a Firenze dopo venti anni di silenzio. E’ una frase magica, viene urlata nei camerini prima dell’inizio dello spettacolo, dove gli attori si chiudono per concentrarsi. “Chi è di scena!” e gli attori si preparano, raccolgono le ultime cose e si di Orsola Lejeune avviano dietro le quinte per entrare sul palco. Non vengono usate frasi casuali, tipo “Siamo pronti” o “Inizia”: in teatro le tradizioni sono sacre, su queste cose non si scherza. L’attore si avvicina al palco, chiude gli occhi e inspira, nessuno osa rivolgergli parola, sta abbandonando se stesso per entrare nei panni del personaggio. “Signori, signori siamo al terzo segnale! Sta per iniziare lo spettacolo!” Le maschere avvertono nel foyer e per i palchi gli ultimi ritardatari, che si apprestano a sedersi. Ed eccoci tutti lì seduti. Le luci si abbassano e c’è qualche secondo di buio. E’ lo stesso momento in cui l’attore sta facendo la propria metamorfosi, lo stesso momento in cui il pubblico rimane con il fiato sospeso. Silenzio. L’aria vibra. Tutto questo è un rito, un rito sociale e di gruppo, in cui tutti vivono un viaggio della fantasia. L’animo bambino di ognuno viene risvegliato e che ci sia da ridere o da piangere, da angosciarsi o gioire, viene fatto tutti insieme: attori e pubblico. Il sipario si apre e lo spettacolo ha inizio. FOTO FILIPPO MANZINI


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Paolo Poli LIBERO E VERO La sua presenza sul palcoscenico del Teatro Niccolini ne ha celebrato la riapertura, dopo più di vent’anni dalla chiusura… Qual è il suo legame con questo teatro? Anche nel ’78 mi capitò di partecipare ad una riapertura del Teatro Niccolini: era un locale chiuso da tempo, da adattare alle corrette norme di idoneità, e prima era stato anche un cinematografo… In quell’anno il mio spettacolo era composto da un misto di parole e canzoni eseguite con un pianoforte a mezza coda, insieme a me c’era la ex moglie del mago Zurlì… Ho sempre lavorato molto bene al Niccolini; ci ho fatto anche la commedia dialettale fiorentina e ricordo in particolare uno spettacolo proposto nel mese di maggio: le signore sventolavano il programma come se fosse un ventaglio e in sala la gente rideva alle battute

“Il nostro mestiere è come l’amore: si fa e si distrugge, tutto allo stesso tempo” comiche in dialetto… In quest’ultima attuale riapertura del teatro – grazie anche all’aiuto del critico Valentina Grazzini che è una persona carina e garbata – abbiamo proposto al pubblico una chiacchierata fatta sul palcoscenico, come se fosse stata un’intervista di

circa un’ora e mezzo… È un vero momento di festa quando riapre un teatro, anche se all’entusiasmo iniziale deve poi aggiungersi una pratica quotidiana: l’importante è lavorare perché il teatro viva e funzioni, cosa complicata e per niente scontata.

Nella sua lunga e poliedrica carriera, c’è un talento femminile che pensa di avere sviluppato? Sai, in teatro l’eccesso è finto ed è dato dal travestimento. Fin dall’antichità le donne sono state penalizzate: non facevano teatro, soltanto gli uomini potevano recitare Shakespeare. Al lavoro c’erano i maschi: si truccavano e si mettevano una parrucca con le trecce, e quelle erano le fanciulle… Adesso, al contrario, sono le donne ad aver sviluppato un carattere virile perché lavorano ed escono di casa: hanno tolto i veli e tagliato i capelli corti come gli uomini. Il carattere, invece che accentuare la femminilità, è diventato virile anche nelle donne.

I suoi spettacoli si sono sempre distinti per alcuni elementi fortemente riconoscibili come il travestimento o la parodia. In che modo è possibile definire la sua particolare concezione del teatro? Io non lo definisco. Solo sulla tomba riusciranno a mettermi il nome, con la data di nascita e di morte… Il nostro mestiere è come l’amore: si fa e si distrugge, tutto allo stesso tempo. Da quando, ventenne, ho cominciato a recitare, fino ad ora che ho quasi novant’anni, sai quanta acqua è passata sotto i ponti, quante forme artistiche e modi per esprimermi ho attraversato! Da giovane avevo un altro fisico, un altro tipo di voce, altri lumi… Certo, un piccolo fuoco interiore è rimasto inalterato – la


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personalità fa sempre capo a una scintilla interiore – però gli accidenti della vita mutano moltissimo: non sono più quello che ero a trent’anni. Comunque esiste un dato di fatto: mi sono laureato sul teatro naturalista e invece ho sempre proposto una forma teatrale che di naturalistico non aveva proprio niente. Credo che per affrontare il palcoscenico quello che conta davvero sia il cervello, la voglia di sperimentare. E del resto ormai non lavoro più, sono in pensione: mi trovi che sono qui sul letto, a leggere…

indossavano il loro vestito migliore per venire a teatro perché era un’occasione sociale e rituale, una sorta di messa laica; ora tutti arrivano con la tuta per correre e le scarpe da ginnastica: il teatro è diventato simile a quando si sta a casa davanti al televisore. Il pubblico si è molto assimilato. La TV e la radio hanno stratificato il gusto della gente: si ride quando si sente un’idiozia e

Un teatrante non si immagina mai in pensione. Prima facevo lunghe tournée, che duravano mesi e mesi: oggi capita che mi invitino per una serata teatrale a fare qualche chiacchiera… Ma ci si adatta a tutto: in vecchiaia non si fa altro che dormire e mangiare, come i poppanti… Per fortuna si rimbecillisce un po’, se rimanesse la carica della gioventù si impazzirebbe.

Che cosa significa per Lei il pubblico? Certo non dico come Jean Louis Barrault: “Qu’est ce que le théatre? Un rendez-vous d’amour”. I francesi sono così letterari… Gli spettatori sono quelli che mi hanno dato da vivere, non penso a loro in maniera filosofica: quando non pagavano il biglietto e il teatro era vuoto, questo mi interessava. Un tempo viaggiando per l’Italia mi accorgevo delle differenze tra le grandi città, come Milano o Roma, e i piccoli luoghi di provincia: il pubblico in periferia era più attento ed affettuoso perché aveva poche occasioni di divertimento letterario. A partire dal punto di vista della scena, vedo cambiato il mondo: prima gli spettatori

FOTO FILIPPO MANZINI

a volte gli attori addirittura recitano come i presentatori televisivi: sembra sempre che stiano vendendo qualcosa, urlano e dicono di continuo: “Che meraviglia!”… Esprimono una gioia finta, un entusiasmo di pragmatica.


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Nel corso del tempo è cambiato il suo modo di sentirsi libero sul palcoscenico? Io sono invecchiato sul palcoscenico. Fare teatro significa che tu racconti una storia e qualcuno ti sta ad ascoltare… Sotto questo profilo non vedo delle differenze particolari rispetto al passato: in tutte le forme di manifestazione intellettuale e artistica, la censura c’è

razione è identico. Ci sono sempre stati gli imbecilli, così come i letterati e gli illuminati. Forse prima si rifletteva di più, anche perché c’erano meno distrazioni. Il vecchio poeta Palazzeschi, che ho conosciuto, mi diceva: “Questa penna biro non mi convince; preferisco l’inchiostro perché mentre inzuppo, penso”. Adesso tutto è veloce, si ha sempre fretta… D’altro canto ogni epoca è fatta di relazioni

FOTO FILIPPO MANZINI

sempre stata. Perfino Terenzio vide il pubblico alzarsi e andare via: ai tempi degli antichi romani la prosa non piaceva, i suoi contemporanei gli preferirono uno spettacolo di orsi!

Una costante del suo modo di fare teatro sono sempre stati gli aneddoti del passato, le curiosità legate al piacere della lettura. Anche se viviamo in una realtà multimediale, certe cose non sono molto diverse dal passato: il piacere della nar-

umane, purtroppo questa è la società: non si può vivere in una torre d’avorio, bisogna mescolarsi agli altri.

Quindi oggi si sente libero? Io aggiro gli ostacoli. Solo la gallina, che è scema, continua a battere la testa contro la rete, mentre la scimmia ha capito che per cogliere la banana esistono due possibilità: bisogna arrampicarsi sull’albero oppure si può salire mettendo una seggiola sopra all’altra, alla fine si arriva comunque alla cima… (A.C.)


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Andrè Benaim I SEGRETI DI UNO SPAZIO Che cosa trova affascinante nel teatro? Mi piace molto intervallare lavori di architettura con impegni legati al teatro, anche perché sento di portare nell’architettura delle cose essenFOTO FILIPPO MANZINI

“È un teatro che nella sua semplicità racconta molto: non è più quello del ‘700 né ‘800 o ‘900 ma è un misto, con il tentativo di mantenerne l’anima” zialmente teatrali: alcuni tagli, le luci, certi effetti… Del teatro mi attraggono l’imprevedibilità e la sorpresa continua, il sipario che si apre facendo apparire un universo ancora sconosciuto e in cui io devo cercare di entrare per arrivare a capire il più possibile. Visto

dall’altra parte, dalla prospettiva di chi fa il teatro, la sfida entusiasmante è quella di tentare di trasmettere quello che vogliamo che il pubblico riceva, che gli spettatori recepiscano un messaggio e si abbandonino alla storia.

E invece cosa può regalare l’architettura al teatro? Mi sento molto architetto dentro il teatro. Credo che l’architettura possa aiutare a realizzare una giusta lettura degli spazi. Quando anni fa ho lavorato ad uno spettacolo a Segesta, per esempio, che è un posto già di per sé bellissimo, come scenografo mi sono accorto immediatamente di non poter prescindere dal luogo in cui mi trovavo: pensai allora ad una moderna e geometrica soluzione architettonica che andasse in contrasto con quell’architettura preesistente del Teatro Antico di Segesta, consumata dal tempo. È bello perché in teatro non c’è una regola: ogni volta ti reinventi e devi rimetterti in gioco. Se esiste una cifra stilistica, permane a livello profondo. Ogni scena è un mondo, frutto della lettura di un testo e del rapporto con il regista: gli spettacoli più belli sono quelli dove regista e scenografo riescono a trovare un’intesa, fatta anche di discussioni e contrasti, ma soprattutto di confronto. Con Luca Zingaretti, per esempio, per arrivare ad un progetto scenico parliamo molto e buttiamo giù delle idee insieme: è nel rapporto con il regista che sta la forza del risultato.

Com’è nata l’avventura del restauro del Teatro Niccolini di Firenze? Il mio legame col Niccolini nasce dal lavoro fatto con Carlo Cecchi negli anni Ottanta, quando lui era direttore con Roberto Toni del Teatro Niccoli-


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ni. Questo teatro mi conquistò subito, proprio per la profonda magia data dallo spazio: è il fascino di un luogo che proviene da secoli di vita vissuta precedentemente, fin dal 1652. All’epoca i membri dell’Accademia giocavano e ballavano in questi locali già esistenti, fino a quando non venne loro in mente di realizzare un luogo all’interno per fare degli spettacoli:

ai non-accademici, rivolgendosi a tutto il pubblico, e dunque di ampliarsi. Si acquistarono le case contigue e si trovò lo spazio per girare la platea all’italiana ed inserire i palchi. Da questo punto di vista il Teatro della Pergola è molto più antico perché nato subito con il suo impianto originale di teatro all’italiana, ma come luogo di spettacolo nacque prima il Niccolini.

“In teatro non c’è una regola: ogni volta ti reinventi e devi rimetterti in gioco. Se esiste una cifra stilistica, permane a livello profondo”

Cosa ha significato contribuire all’apertura di un teatro chiuso da tanti anni?

FOTO FILIPPO MANZINI

al primo piano, dove ora c’è lo scalone che porta dentro il teatro, si partiva già con la platea e poi seguiva un palcoscenico lunghissimo… Dopo circa 100 anni lo ‘stanzone teatrale’ era circondato da quattro ordini di palchi: l’obiettivo era di aprire il teatro anche

Sul Teatro Niccolini ho fatto, ai tempi dell’università, l’esame di restauro e la tesi di Laurea. Quindi partecipare alla riapertura del teatro per me è stato un sogno che dura da più di trent’anni. Ad ogni possibile ipotetico compratore c’ero sempre io a pensare varie possibili soluzioni strutturali del teatro, è stata una sorta di Leitmotiv della mia esistenza. Da quando nell’84


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bruciò la canna fumaria della pizzeria sottostante – che ci costrinse a lavorare di corsa per ripristinare il teatro: si sostituì il riscaldamento a carbone prima utilizzato al Niccolini, si levarono i vetri del lucernario, si tolse la moquette del primo ordine dei palchi… – a quando una Sig.ra Rusconi, che aveva comprato la Libreria Marzocco, voleva collegare il teatro con il bel cortile che li divide. Attualmente i marmi che si trovano all’interno, anche se sciupati, sono rimasti così com’erano sempre stati: è importante mantenere quel certo sapore di consumato dagli anni, i segni della storia. Oggi il Teatro Niccolini appartiene alla famiglia Pagliai, che ha l’onore e il dovere di continuarne la storia.

Cosa si aspetta dal futuro per questo Teatro? Mi auguro che riusciate, come Teatro della Toscana e anche grazie all’Opera del Duomo, a farlo vivere nel migliore dei modi possibili. Sento questo teatro un po’ come un figlio e credo che debba essere senz’altro considerato come uno dei luoghi importanti della città, partecipe della vita cittadina. Tutti i teatri, secondo me, FOTO FILIPPO MANZINI

Qual è l’idea portante di questo restauro? Una scommessa è stata quella di dover aggiornare il Teatro Niccolini alle tecniche impiantistiche contemporanee, ma senza stravolgerlo. Prima del restauro il teatro era cupo, dipinto di scuro, mentre l’idea che abbiamo perseguito è stata di lasciarlo il più naturale possibile e senza arricchirlo troppo, dandogli però luminosità. Nei palchetti, per esempio, per appendere i cappotti sono stati mantenuti i gancetti di ferro di allora… È un teatro che nella sua semplicità racconta già moltissimo: non è più quello del Settecento né dell’Ottocento o Novecento, ma è un misto di questi periodi. Il tentativo è stato quello di mantenerne l’anima. Il colore verde che è presente oggi è un colore settecentesco trovato sotto a vari strati di colore e serve, per me, proprio a ridare fiato alle origini del teatro. Il Teatro Niccolini è passato attraverso quattro secoli, sempre conservando una sua forza.

dovrebbero essere luoghi “liberi” sempre aperti, sia per i cittadini che per gli stranieri che vengono a Firenze. (A.C.)


Sorridi donna, sorridi sempre alla vita anche se lei non ti sorride. Sorridi agli amori finiti, sorridi ai tuoi dolori, sorridi comunque. Il tuo sorriso sarà luce per il tuo cammino, faro per i naviganti sperduti... Il tuo sorriso sarà un bacio di mamma, un battito d’ali, un raggio di sole per tutti.

Alda Merini


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VOCI DI DONNA


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Sappiate amare Liala, una penna per le passioni muliebri di Riccardo Ventrella

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na penna per animare i sogni di donna. Della letteratura d’appendice, quel genere che consentiva soprattutto alla parte femminile del pubblico di sognare leggendo, e che sceneggiati e telenovelas non hanno ucciso del tutto, Amalia Liana Negretti Odescalchi è stata maestra indiscussa, a tratti inarrivabile, longevissima e sempre ispirata. Per cominciare, è bene precisare che ad Amalia Liana Negretti Odescalchi il dominatore per eccellenza, ovvero il Vate D’Annunzio, volle dare il nome di Liala, col quale è universalmente conosciuta. Il poeta andò alla ricerca di uno pseudonimo che contenesse in sé la parola “ala”, perché Amalia Liana Negretti Odescalchi era fuor d’ogni dubbio appassionata del genere maschile che allora più faceva battere i cuori muliberi, ovvero l’ufficiale dell’Aeronautica. Per un pilota, il marchese Vittorio Centurione Scotto, Liala lasciò il marito Pompeo Cambiasi. Quando Centurione Scotto si inabissò col proprio idrovolante nel Lago di Varese mentre si allenava per la Coppa Schneider, ella elaborò il lutto in due modi: legandosi a Pietro Sordi, un altro pilota che vide la propria carriera militare interrotta proprio da questa relazione con una donna ancora sposata, e scrivendo un romanzo d’amore, Signorsì, ambientato proprio nel mondo “Nasce grazie a Liala la letteratura dell’aviazione militare, e popolato di quei personaggi che Liala conosceva popolare moderna in Italia, che vede bene per averli frequentati e amati. un nuovo pubblico, le donne” Da lì in poi prende il via una produzione letteraria che conta ben diciannove romanzi nel periodo che termina con il chiudersi della Seconda Guerra Mondiale, con titoli come Farandola di cuori, La casa delle lodole, Brigata d’ali. Le trame di questo periodo sono tutte molto simili tra loro, con la descrizione di ambienti altoborghesi, popolati di ufficiali e dame con i loro amori, dove poco spazio hanno le classi inferiori. La popolarità non viene a Liala solo dalla pubblicazione dei romanzi: dal 1940 inizia a scrivere su periodici Rizzoli come “Novella”, “Annabella” e “Cineillustrato”, e tra il 1946 e il 1954, dirige il settimanale di novelle, posta del cuore e moda “Confidenze di Liala” pubblicato da Mondadori. Sono queste attività che la trasformano in un vero e proprio idolo per le sue lettrici, un modello di comportamento, l’incarnazione ora di un’amica ora di una confidente, in grado di offrire consigli di tutti i tipi. Nasce anche grazie a Liala la letteratura popolare moderna in Italia, che vede un nuovo pubblico, le donne, come protagoniste assolute e, soprattutto, come consumatrici. Diviene così popolare che alcune madri tengono a battesimo le figlie col suo nome: la scrittrice si premurava di premiarle inviando come regalo alle neonate una medaglietta d’oro con incisa la scritta da


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Liala a Liala. Autopromuove il suo personaggio grazie a libri di ricordi come Voci dal mio passato e Diario vagabondo, e romanzi autobiografici come Ombre di fiori sul mio cammino. Si trasforma in un marchio di fabbrica tramandato di madre in figlia per almeno tre diverse generazioni, che da quelle oleografiche copertine col nome della scrittrice ben vergato in corsivo traggono importanti informazioni per l’educazione sentimentale. Non teme Liala nemmeno il trascorrere del tempo: negli anni Sessanta la sua scrittura si adatta alle mutazioni che il miracolo economico ha generato nelle sue lettrici, soprattutto le più giovani. Ecco che i titoli si fanno più insinuanti, da Il profumo dell’assente a La sublime arte di amare, e le tematiche si adeguano all’incalzare della modernità. La critica letteraria snobba con ironia la riduzione di Liala, poco abituata com’è a gestire i fenomeni che provengono dalla produzione di carattere popolare; la Chiesa vede di cattivo occhio questi romanzi, che traviano le giovani. Negli anni Settanta, a poco a poco, con “Liala diviene così popolare che l’avanzare dell’età e di una malattia agli occhi scema anche il ritmo della alcune madri tengono a battesimo scrittura di Liala che pubblica l’ultimo le figlie col suo nome” romanzo nel 1985. Non è un caso che il vuoto da lei lasciato venga immediatamente colmato da una collana di grandissimo successo, ancor oggi esistente: la Collezione Harmony. Dal 1958 si era ritirata a Villa La Cucciola, dimora nei pressi di Varese dove spira il 15 aprile del 1995. In un ultimo gesto di elegante vanità, viene tumulata con indosso un abito di Valentino. In cinquant’anni di attività, con oltre ottanta romanzi nella propria bibliografia, può a ben titolo rivendicare di aver contribuito a costruire l’aggettivo “femminile” in Italia. Svanisce leggera e discreta, come aveva spesso vissuto, con un colpo d’ala, rimembrando una famosa frase dei suoi romanzi: se si potessero spiegare le ragioni di un folle amore, si troverebbe il rimedio al gran male d’amore.


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Silvia, rimembri ancora di quella passione I casi della vita di un’attrice che non ha rinunciato a essere donna di Matteo Brighenti

Silvia Frasson in Santa Giovanna dell’immaginazione

S

ilvia Frasson è la voce gentile di una passione combattiva. “Questo mestiere – mi rivela d’un fiato – è il mio modo di essere al mondo, fare politica, stare nella società, di conseguenza parla tanto di me”. Essere donna e fare l’attrice sono gli occhi di un amore che ogni sera si rinnova e ricomincia dal primo appuntamento, dai dubbi e dai palpiti del corteggiamento. “Metto in gioco tutto – continua – e metto in crisi tutto. Il mio teatro dice a chi ascolta: fatevi avanti, guardate da vicino. Lo sforzo è totalizzante, spero che lo apprezzino”. Si rivolge alla visionaria Giovanna D’Arco, la sanguinaria Caterina de’ Medici, santa Mustiola, la verace Sara Pecorari, l’irrealizzata Claudia, specchi di conflitti e grandi contrasti interiori a cui l’artista originaria di Chiusi, in provincia di Siena, offre un riscatto, non tanto sociale, quanto emotivo. Lo fa con le arti della scena, il prodigio della presenza, l’entusiasmo della scrittura. Perché Silvia Frasson è una ‘narratrice immaginifica’, scrive le parole e il corpo dei personaggi anche quando non sono i suoi, ma di altre voci, altri inchiostri. La narrazione è il treno su cui è salita, l’interpretazione è un panorama che guarda dal finestrino.


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Un doppio scavo, quasi, raccontare raccontandosi, ricercare sé dentro di sé per poter essere compresa, capita e diventare perfino un esempio. “Chiunque scrive – mi dice con convinzione – scrive di sé. Scrivo di getto e solo una volta che lo spettacolo è finito capisco cosa sto raccontando di me. La cosa più sorprendente è la risposta del pubblico, vedere che il mio modo di guardare e sentire colpisce la sensibilità degli altri”. L’incontro con la narrazione avviene per caso agli inizi del 2000 al Teatro Verdi di Milano quando è ancora allieva della Civica Scuola di Teatro ‘Paolo Grassi’. Una sera il collega di corso Damiano Michieletto, oggi riconosciuto uno degli eredi di Luca Ronconi, la porta ad assistere a Passione con Laura Curino. “Mai stata a niente del genere prima di allora – ricorda – un’attrice sola in scena, però vidi mondi, caratteri, grandi eventi. Cominciai a piangere e continuai anche quando Damiano me la presentò: sembrava l’incontro tra Bernadette e la Madonna a Lourdes”. E anche la sua passione trova il tempo per essere libera di accadere. Si diploma nel 2001 con Santa Giovanna dell’immaginazione, il primo spettacolo di narrazione, tuttora in repertorio, in cui paragona la fede della Pulzella d’Orléans alla sua vocazione per il teatro. Il caso, dunque, va lasciato succedere. Per farlo, però, bisogna mettersi in cammino. “Ci sono arrivata seguendo l’istinto – “ Silvia Frasson è una ‘narratrice confessa – che mi portava verso una immaginifica’, scrive le parole e il cosa di cui non sapevo niente di niente. Mi c’è voluto un po’ per capire di cosa corpo dei personaggi anche quando si parlava quando si parlava di teatro”. non sono i suoi, ma di altre voci, Le prime recite al liceo classico nella vicina Montepulciano, poi l’iscrizione altri inchiostri. La narrazione all’Università di Perugia, lasciata dopo è il treno su cui è salita” tre mesi, perché le materie di studio non la interessano. Insieme a quattro amici allora gira l’Italia e va a fare provini in tutte le più importanti scuole per attori. Prova e riprova, riesce a entrare alla ‘Paolo Grassi’. “Venivo da Chiusi – prosegue – quando sono arrivata a Milano ero confusa e sperduta, come in quella storia del topolino di campagna che arriva in città. Comunque, ero sempre felice, di una felicità estrema”. La scuola era uno spazio di libertà, protetto, il sessismo del mondo del lavoro era lo scoglio di un mare che restava fuori dalla porta. “È molto difficile essere donna e attrice – conclude amara – nell’uomo conta prima la bravura, nella donna no. Un regista mi ha detto chiaramente che se mi vestissi e comportassi in un certo modo lavorerei di più”. Ma Silvia Frasson è decisa a non indietreggiare dalla passione che ha nel teatro come luogo di avvicinamento a chi più di tutti non conosciamo, noi stessi. Un credo che la aiuta a capire e tenere la giusta distanza da ciò che avviene dentro e anche intorno a lei. Non ha mai inseguito le luci della ribalta, non comincerà oggi, sulle colline dei suoi 40 anni, compiuti e sorridenti.


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Risveglio di attrice con pupazzi L’entusiasmo dell’impegno a teatro di Marta Cuscunà

“L

’arte non è uno specchio con cui riflettere il mondo”, scriveva il poeta e rivoluzionario russo Vladimir Majakovskij, “ma un martello con cui scolpirlo”. Sull’incudine del teatro Marta Cuscunà ha messo le questioni di genere: “sono cruciali per la nostra società, la parità tra uomini e donne è alla base di tutte le altre forme di uguaglianza e solidarietà”.

Raccontare storie, tutte vere, per la giovane artista di Monfalcone, in provincia di Gorizia, ha la forza di una rivoluzione pratica, concreta. Spettacoli come È bello vivere liberi!, ispirato alla biografia della staffetta partigiana Ondina Peteani, e La semplicità ingannata, sulle clarisse del Santa Chiara di Udine che nel ’500 trasformarono il loro convento in un luogo di libertà, sono utopie realizzate non solo nella Storia, ma anche nella biografia di Marta Cuscunà: le hanno permesso di essere l’attrice premiata che è oggi, dal Premio Scenario per Ustica del 2009 al Franco Enriquez del 2013. “Le figure femminili che ho riscoperto sono state un esempio che ha cambiato la mia via – racconta – posso realmente dire che l’energia dei modelli cambia chi li segue”.

“Possiamo andare avanti all’infinito a ragionare sul femminile ma se non affrontiamo anche il maschile non otterremo mai grandi risultati, solo briciole”

Il maschile, rimasto in secondo piano fino a ora, si è ripreso la scena nel suo ultimo lavoro, Sorry, boys. “Possiamo andare avanti all’infinito a ragionare sul femminile – afferma – ma se non affrontiamo anche il maschile non otterremo mai grandi risultati, solo briciole”. Nel 2008 diciotto ragazze di un liceo americano, tutte under 16, rimangono incinte contemporaneamente. Una coincidenza o forse un patto segreto: avrebbero deciso di partorire nello stesso momento per aiutarsi una con l’altra e allevare i bambini tutte insieme, in una specie di comune. Sulla scena ci sono soltanto alcune “teste animatroniche”: il teatro di Marta Cuscunà, infatti, è principalmente teatro di figura, la sua è una compagnia di pupazzi. “Le parole non bastano – precisa – quando i personaggi si trovano sulla soglia tra il diventare marionette in mano ad altri e sperimentare forme di riscatto inimmaginabili e inaspettate. Allora, in quel preciso momento, mi faccio aiutare dai pupazzi”. In È bello vivere liberi! è la deportazione di Ondina ad Auschwitz, ne La semplicità


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ingannata è il varcare la soglia della clausura, in Sorry, boys pupazzi sono tutti i giovani e adulti inermi davanti alla gravidanza collettiva e manovrati per l’appunto da una donna, la Cuscunà, che si intravede dietro di loro. “A differenza degli altri spettacoli non c’è più un mio monologo – spiega – ci sono solo le teste dei personaggi dentro dei trofei di caccia, come nella serie fotografica We are beautiful di Antoine Barbot. Non volevo, con la mia presenza, diventare metafora della scelta delle ragazze”. Paola Villani, che ha realizzato la scenografia su indicazione e immaginazione della capocomica/burattinaia, si è servita di una quarantina di freni di biciclette per creare un meccanismo in grado di animare le

Marta Cuscunà in È bello vivere liberi!

FOTO MARCO CASELLI NIRMAL

teste nel modo più realistico possibile. Quasi una tappa ciclistica fatta di movimenti facciali. “Per fortuna ho avuto grandi maestri” – ricorda – “Joan Baixas, uno dei più famosi registi di teatro visuale, mi ha tenuto a bottega da lui a Barcellona, José Sanchis Sinisterra per la drammaturgia, Christian Burgess, il direttore della Guildhall School of Music & Drama. Niente, però, sarebbe mai accaduto senza il laboratorio ‘Fare Teatro’ ideato e condotto da Luisa Vermiglio nel 2001 per il Comune di Monfalcone”. Un teatro impegnato, dunque, in temi attuali, duri, scomodi, ma sorprendentemente pieni di ironia: la densità dei contenuti non frena lo spirito vitale e propositivo di Marta Cuscunà. “La cosa bella è riuscire a trasmettere l’effetto che fanno su di me le storie che racconto – conclude – cioè sentire la necessità di reagire. Se quello che abbiamo intorno non è ciò che veramente desideriamo dobbiamo avere la convinzione di poterlo cambiare”. Nessun diritto è un’isola, intero in se stesso. Ogni diritto è un pezzo del cambiamento, una parte di te e di me. (M.B.)


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Ma l’amor suo non muore Lyda Borelli, e il divismo al cinema

C’

è una frase di uno dei maggiori esegeti del divismo, Roland Barthes, che riflette sul turbamento che nelle masse generò il primo piano femminile nel cinema, soprattutto il primo cinema: un focus sul volto che diviene uno stato assoluto della carne, assolutamente irrevocabile. L’impatto delle immagini in movimento sull’immaginario collettivo fu assolutamente devastante, perché avvicinava la prospettiva della visione fino a livelli di dettaglio che il teatro, pur dotato di parola, non poteva avvicinare. La mistica della visione del corpo delle attrici si compose lentamente come una disciplina a sé stante, inedita e sconvolgente, con diverse sacerdotesse: molte tra di loro erano italiane, prodotto di una fiorente industria cinematografica che poi la Prima Guerra Mondiale con le sue conseguenze ridusse quasi a zero. Lei, Lyda Borelli, fu regina insieme alla Bertini del coro delle sacerdotesse. Attrice teatrale, giunta giovanissima alla ribalta grazie a Eleonora Duse che le affida il ruolo della protagonista nella Fernanda di Sardou, si lega a personaggi di grande sensualità, come la Salomè di Wilde. E “Decadenza, modernismo, echi dei poi arriva nella carriera della Borelli il preraffaelliti si mescolano nella cinema, e col cinema anche Ma l’amor mio non muore. Difficile oggi anche figurazione di una donna non solo riuscire a immaginare la ricezione altissima eppure procace” di questo film diretto da Mario Caserini, un melodrammone a fosche tinte nel quale la Borelli interpretava l’eroina destinata a soccombere nel finale, per la generale lagrimazione. In questo testo filmico si codificano molte regole del divismo femminile, dall’occhio bistrato e perennemente umettato nel primo piano espressivo, quello che più cattura emotività e passione, alla gestualità esasperata, a quel gesto di “attaccarsi alle tende” per disperazione che diverrà un marchio di fabbrica. Decadenza, modernismo, echi dei preraffaelliti si mescolano nella figurazione di una donna non altissima eppure procace, con un volto regolare e la bocca sottile, pronta a bucare lo schermo insieme ad un naso proporzionato e ben centrato. Le pose di esagerata drammatizzazione sono soprattutto un gesto estetico, la realizzazione di una traiettoria estatica, la materializzazione della sofferenza melodrammatica. Bisognerebbe compilare un catalogo dei nomi dei personaggi portati sullo schermo dalla Borelli, sempre di gusto esotico: Lolette nella Donna nuda, Grazia di Plessans in Marcia nuziale e Thea di Marlievo nella Falena, tutti di Carmine Gallone e derivati da Bataille, Marina di Malombra


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nell’omonimo da Fogazzaro e Alba d’Oltrevita in Rapsodia satanica di Nino Oxilia, forse il suo titolo più celebre, versione femminile del mito di Faust, che la conferma campionessa di un genere gotico col quale si lega a vari influssi letterari, non ultimo quello della sottovalutata Scapigliatura. La popolarità delle dive del muto, come la Borelli, la Bertini, la Menichelli, la Almirante Manzini si propaga a livelli rimarchevole per un’epoca nella quale la cultura di massa è ancora in fase prototipale. Così com’è venuto, però, scema nei cascami della fine della guerra mondiale, che conduce piano piano la cinematografia italiana ad un ruolo di secondo piano. La Borelli esce di scena, impalmando l’industriale Vittorio Cini, uno degli uomini più ricchi dell’epoca. La sua vita da favola prende poco a poco

una piega triste, che culmina nella morte in un incidente aereo del figlio Giorgio, cui poi sarà dedicata la Fondazione Giorgio Cini, operante ancora oggi. Vittorio Cini fu prima internato a Dachau, poi accusato alla fine del secondo conflitto di collaborazionismo. Rimase infine coinvolto nel disastro del Vajont, ma a quel punto Lyda Borelli già non c’era più: morì il due di giugno del 1959, festa della Repubblica. In quel momento i suo film erano stati ampiamente dimenticati (saranno riscoperti dal rinnovato interesse storiografico in un periodo successivo) e più nessuno ricordava che c’era stato un tempo in cui il verbo “borelleggiare” era entrato di prepotenza nel vocabolario, a indicare quell’insieme di gesti affettati e decadenti che indicavano dolore, patimento estremo, sacrificio dell’eroina. Rimane la frase che Antonio Gramsci vergò per lei, intuendo alla perfezione lo sforzo della fisicità nel farsi verbo e significato, il che è poi la sostanza stessa del divismo: “la Borelli è l’artista per eccellenza del film in cui la lingua è il corpo umano nella sua plasticità sempre rinnovantesi”. (R.V.)


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Trent’anni oltre il teatro Il Workcenter, 1986/2016

L’

attività del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards si fonda su una pratica di lavoro fra le più innovative e radicalmente legate alla tradizione; affronta cioè le tecniche performative alla luce del teatro e delle antiche radici delle arti drammatiche. Qui gli elementi dell’artigianato artistico sono veicolo dello sviluppo individuale. I trent’anni del Workcenter che cadono in questo 2016 non sono solo una ricorrenza, un’occasione retrospettiva per rivisitare quanto il gruppo ha fatto e creato, ma il momento propizio per volgere lo sguardo in avanti ai nuovi progetti che lo attendono. Dopo il Master Course, guidato da Richards a gennaio al Teatro Era, con 26 partecipanti venuti da nove paesi, Mario Biagini ha diretto un seminario sulle arte dinamiche a Milano, e laboratori all’Accademia di Brera di Milano, ad Anversa in Belgio e ad Atene, mentre Cécile Richards ha tenuto un laboratorio a Namur in Belgio e ha presentato una nuova creazione, L’heure fugitive, a Bologna. Sempre nell’ambito del trentennale Thomas Richards è intervenuto con un contributo sul rapporto tra azione performativa e pratica conoscitiva al seminario organizzato a Milano da Mechrí Laboratorio di filosofia e cultura. Il 17 marzo in occasione dell’uscita del III volume dei Testi (1954-1998) di Grotowski, curato e tradotto da Carla Pollastrelli, si è tenuta la presentazione pubblica al Teatro della Pergola con la partecipazione di Mario Biagini, Renata Molinari, Carla Pollastrelli e Thomas Richards. L’attività del trentennale proseguirà nella primavera con diversi eventi che coinvolgeranno i due gruppi del Workcenter: tra questi, l’Open Program terrà alcuni Open Choirs (Cori Aperti), incontri partecipativi aperti a tutti basati sul canto e la danza, al Teatro Studio di Scandicci - da poco gestito dalla Fondazione Teatro della Toscana – uno dei luoghi che ospiterà le attività del Workcenter a Firenze. Nel corso dell’anno, i due team, diretti rispettivamente da Thomas Richards e Mario Biagini, saranno impegnati a presentare i loro lavori, a guidare attività pedagogiche e incontri teorici in America, Europa, Asia, e qui in Toscana. Il programma clou del trentennale prevede un complesso articolato di presenze e interventi che si dispiegherà a Firenze verso la fine dell’anno: incontri pubblici con la presentazione di documenti filmati, le diverse opere e gli eventi performativi del Focused Research Team in Art as Vehicle e dell’Open Program, e infine la presentazione del IV volume dei testi di Grotowski, a conclusione del progetto editoriale che ha reso disponibile al mondo del teatro e della cultura lo straordinario patrimonio degli scritti di colui che diede vita al Workcenter, trent’anni fa a Pontedera.


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Speciale cinema La regista

Francesca Archibugi MAESTRA DI CINEMA Quale genere di film le piace girare e guardare, a sua volta, da spettatrice? Mi annoiano molto i film di stile americano dove ad un tratto della storia irrompe l’inseguimento, così IMMAGINE CLARA BIANUCCI

come quelli di guerra o in cui i maschi giocano troppo a pallone… È una questione di gusto personale: mi piacciono le commedie sentimentali, e ‘sentimentali’ non è solo un aggettivo

qualificativo: sono delle opere in cui si mette in scena il sentimento, di ogni tipo: l’amore, l’amicizia, l’odio, l’invidia, il rancore… Tutta quella massa di stati d’animo che abbiamo dentro e che, nella maggior parte dei casi, tendiamo a negare. Quando giro un film in genere amo descrivere quelle storie in cui il personaggio viene letteralmente sbattuto in una situazione complicata, per scoprire con apprensione e amore quanti modi diversi esistano per affrontare situazioni non facili. Quando viviamo un problema tutti noi riveliamo il nostro stile di vita: più si alza la difficoltà e più viene fuori il tratto essenziale, quello più nudo e vero, del carattere. Anche altri registi lavorano seguendo questa concezione: si prende un personaggio e si getta in una situazione critica… Il metodo di Scorsese, per esempio, è quello ‘del cazzotto in faccia’: al personaggio dai un forte cazzotto e vedi come reagisce… Come tutte le persone che per mestiere raccontano una storia, cerco di descrivere una delusione, di focalizzarmi sulle cose che non vanno: è interessante spiegare per immagini il punto in cui la vita ‘si infetta’, in qualche modo, e si crea una crepa nella quotidianità che ti mette


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in gioco e ti sprona ad una reazione. Mi sono resa conto che nei miei film – da Il grande cocomero a Questione di cuore o Verso sera – è sempre presente la malattia o il luogo dell’ospedale perché io trovo che sia un meccanismo avvincente: quando si rompe il corpo e sei costretto a fermarti, comincia ad aggiustarsi la psiche. Si avvia un processo di ricostruzione narrativa della persona e del personaggio. L’immedesimazione con la storia che racconti spesso è totalizzante: ti capita di passare tanto tempo con i personaggi, a volte anche di più che con le persone reali… Solo pian piano, con il passare del tempo, l’autore di un film riesce a

“Fare un film è come imbarcarsi per un viaggio transoceanico: ti prepari prima e studi le rotte e i venti, ma quando stai in mare sei libero di navigare” separare la fantasia dalla vita reale: è il lavoro più difficile per una persona che sta tante ore ad immaginare qualcosa che non c’è.

Nei suoi film i personaggi spesso cadono nell’errore ma denotano sempre una profonda umanità… Questa è la caratteristica principale di qualsiasi narrazione. L’Odissea – che è la storia delle storie – è un viaggio irto di incontri complessi, così come Le mille e una notte oppure le favole del Nord o anche le nostre fiabe italiane: è sempre una fatica per i protagonisti tentare di arrivare alla soluzione finale. C’è bisogno di leggere o di vedere al cinema le fatiche che compiono gli altri, descrivere la felicità è meno interessante dal punto di vista narrativo: se si è felici non ci si

interroga sulle motivazioni, mentre è il momento di crisi che genere il pensiero e la narrazione.

Per la realizzazione di un film, che valore assume per Lei la fase della scrittura? Io scrivo con molta attenzione la sceneggiatura, è una lunga fase preparatoria al film. Per me stare seduta e scrivere significa la felicità, anche se non me la sono mai sentita di fare la scrittrice pura: nella mia personale visione la cima della piramide umana è costituita dagli scrittori, ecco perché non ho mai affrontato completamente la sfida di riempire una pagina bianca senza l’ausilio di un film. Il cinema è un’arte, per certi aspetti, anche distorta perché piena di cose e di persone: forse senti che in mezzo a questa confusione di elementi puoi buttarti con minore timore e senza nessuna presunzione… La scrittura è inscindibile dal mio modo di fare cinema. Dopo la stesura della sceneggiatura, io torno continuamente a tavolino a scrivere e rielaborare: durante i casting degli attori, dopo un sopralluogo… È incredibile come, per esempio, la scelta di un attore possa determinare la scelta di un ambiente: un’attrice come Valeria Golino, dagli occhi grigi e grandi, deve essere collocata nella stanza giusta e senza un carico di colore. Le immagini di un film sono il risultato dell’emanazione dei personaggi che hai scelto tu. La fase in cui giri il film, a partire dalla scrittura, è fondamentale. Non sono particolarmente socievole nella vita, mentre sul set lo divento: si crea una forte osmosi con il gruppo di lavoro e questo mi provoca una grande gioia, permettendomi di scaricare tutto il bisogno di socialità che ognuno di noi ha dentro di sé. Il montaggio finale dà poi


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ancora un’altra versione della sceneggiatura: si riscrivono i dialoghi dopo che si sono montate le scene, il processo di approfondimento è costante. Fare un film è come imbarcarsi per un viaggio transoceanico: ti prepari prima e studi le rotte e i venti, ma quando stai in mare sei libero di navigare, anche con l’improvvisazione. Il cinema è un’arte che prevede una grossa preparazione tecnica, quindi ti obbliga a ritornare costantemente a scuola e a studiare per non farti cogliere impreparata.

semplicemente una regista, sono una regista-donna. Sono fiera di esserlo, ma io cerco di fare cinema in senso lato, non solo come donna. Il cinema, come in tutte le altre professioni dove si prendono delle grandi responsabilità e si gestiscono dei grandi budget, crea degli sbarramenti da questo punto di vista. Per una donna è molto difficile diventare una Maestra nel suo campo perché rimane a lungo una ‘promes-

Nel suo modo di fare cinema la musica assume un ruolo fondamentale… La musica fa parte della mia vita da sempre. Io e i miei fratelli abbiamo studiato musica fin da piccoli, ho sposato un jazzista che ha fatto tutte le colonne sonore dei miei film. C’è un osmosi tra lavoro e musica, musica e vita… Lui non legge nemmeno le sceneggiature: capisce da come sto, da come preparo il film e gliene parlo, quello che la musica deve diventare. Ho sempre la sensazione che le colonne sonore si facciano ‘come da sole’: non ragioniamo su eventuali pezzi da scegliere, piuttosto mi fa ascoltare dei temi in base alle emozioni che gli trasmetto, al sentimento che ci lega.

Essere una regista donna nel panorama cinematografico italiano è qualcosa che è cambiato nel corso del tempo? C’è stata un’evoluzione? La cosa che è identica, fin dagli anni Ottanta in cui ho esordito, è che tutti sempre continuano a vedere il fatto di essere una regista donna come una particolarità. È come se mi trovassi in un recinto a parte: non sono

sa’, anche a distanza di anni dal suo esordio: è come se alle donne venisse accorciata la statura culturale, molto di più rispetto ai colleghi uomini. Ho tanti amici registi maschi, che frequento: alcuni sono famosi e hanno vinto perfino l’Oscar, altri sono meno popolari di me… Quando siamo insieme l’interlocutore, per esempio durante un’intervista, guarda sempre gli altri uomini per cercarne l’approvazione con lo sguardo, magari saltandomi perché del mio consenso – anche inconsciamente – gli importa meno. (A.C.)


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Per il suo film d’esordio – Mignon è partita – fondamentale è stata la presenza delle sceneggiatrici con cui ha lungamente collaborato… Il contributo delle sceneggiatrici è stato totale: eravamo un blocco unico, stavamo sempre insieme. Ci sono delle cose nella vita che non sono strettamente solo di lavoro: loro mi hanno dato forza, coraggio, allegria… La voglia, per esempio, di telefonarsi alle tre

intenso, ma d’altra parte tutte le mie collaborazioni di tipo tecnico o professionale sono state così. Anche con gli attori dei miei film si vive sempre un legame fortissimo perché credo che se avviene uno scambio, le cose poi vengono meglio. Dopo questa grande sbornia di amore ed affetto, una volta finito il film sono stata spesso rimproverata di avere abbandonato le persone con cui ho collaborato. La mia non è superficialità o cinismo: è che alla fine delle riprese sono pronta a buttarmi completamente in un’altra avventura emotiva. Ogni film è, a suo modo, passionale e totalizzante.

Come sceglie gli attori?

IMMAGINE DALILA CHESSA

di notte perché ti viene un’idea oppure andare a bere qualcosa insieme, per raccontarsi delle cose e tirare fuori la creatività. Gli sceneggiatori sono come degli ostetrici o delle levatrici: ti aiutano a partorire il pensiero. Per un periodo consistente della tua esistenza stai tutto il giorno a parlare e riflettere con loro: pian piano è come se montaste insieme a neve qualcosa di goloso e che prima non c’era. Con le mie cosceneggiatrici il rapporto affettivo è stato

Cerco di mettermi in contatto con ogni singola umanità. A volte scrivo avendo in mente un certo attore, altre volte faccio il cast prima della revisione della sceneggiatura… Può anche capitarti di essere convinta che un attore vada bene per quel ruolo e di colpo una settimana prima delle riprese ti accorgi di avere sbagliato. In un racconto di Asimov si parla della procreazione. Lui afferma che per procreare bisogna buttarsi in tre in una soluzione salina e a me sembra di fare lo stesso: per creare un film devi amalgamare insieme il regista, l’attore e il personaggio cartaceo, soltanto così può nascere il personaggio che si vedrà sullo schermo. Quando l’emulsione fra personaggio cartaceo e persona viva - in carne ed ossa - funziona, ecco che l’emozione arriva e parte il film… Un film non è mai una cosa immota, perché parla a tante persone diverse ma assecondando i sentimenti di ogni individualità. Il rapporto narrativo che si instaura è sempre di uno a uno: tu, autore, che parli ad ogni singolo spettatore.


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Speciale cinema Il regista e l’attrice

Carlo Verdone Claudia Gerini INTESA PERFETTA Dopo tanti film insieme, come si condivide il set? GERINI: Carlo è molto serio quando affronta il lavoro sul set; gli vengono in mente le inquadrature che vuole fare magari proprio all’ultimo momento, però ci fa divertire tutti. Intrattiene con molta facilità la troupe facendo le imitazioni. Una delle sue imitazioni storiche è quella di Giandalia, il suo aiuto regista: non si capisce

“Le donne che ruotano attorno a Carlo Verdone sono sempre caratterizzate e colorate, lui ci si rispecchia. Io stessa sono riuscita ad esprimermi perché insieme abbiamo costruito qualcosa” mai chi dei due stia davvero parlando in quel momento... Carlo è bravissimo a fare le voci e ci fa ridere sempre. Una volta abbiamo fatto un mese di riprese a Taormina in mezzo ai diluvi, quindi il lavoro si rallentava ma lui rimaneva serafico, non faceva trapelare il suo nervosismo. VERDONE: Quando si ha una partner ideale e coraggiosa come Claudia con cui condividere il set, è facile che la scintilla creativa venga fuori. Io

sono molto critico nei confronti dei miei film, però quelli girati con Claudia sono tutti molto importanti... Viaggi di nozze, per esempio, lo ritengo un film onirico: né comico né tragico, piuttosto talmente vero nel rappresentare quel vuoto pneumatico che spesso alberga nella coppia, quella solitudine del femminile e del maschile che alla fine ti fa addirittura arrivare a dire: “Lo famo strano?”, perché ormai si è consumato tutto e c’è bisogno di andare oltre per superare la noia... Il successo del film è il successo della nostra coppia cinematografica, eravamo veramente perfetti nei nostri personaggi. Le trovate più divertenti non erano scritte nel copione, ma le risate sono nate durante le prove e sono frutto dell’improvvisazione tra di noi. La famosa scena di quando le metto un piede in faccia è emersa dopo esserci messi a tavolino a pensare insieme, prendendo appunti con una matita. La scena, che è una delle più replicate quando fanno vedere uno spezzone di quel film, è nata veramente da una creazione mia e di Claudia. Questi risultati accadono raramente, deve esserci una forte empatia reciproca. Per arrivare all’improvvisazione, occorre una grande allegria e devi essere felice dentro, con accanto una partner che funziona: allora la creatività esplode come un’eruzione.

L’ironia che appare nei film si appoggia su dei tempi teatrali perfetti... VERDONE: Assolutamente sì. Per Claudia Gerini recitare in un mio film significa anche capire i miei tempi comici e quindi rispondermi a sua volta


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con dei tempi perfetti. Allora si ride con facilità perché il giusto tempo prepara esattamente la battuta. L’attore non è mai sicuro di quello che è in grado di trasmettere al pubblico: è il pubblico stesso che decide il successo di un film e certe volte bisogna avere l’umiltà di attendere pazientemente il giudizio degli spettatori. E questo anche se a volte la gente può commettere uno sbaglio: si tratta di tante teste e quin-

“Per arrivare all’improvvisazione, occorre una grande allegria e devi essere felice dentro, con accanto una partner che funziona: allora la creatività esplode come un’eruzione” di tante opinioni differenti... Mai dire: “Ormai stai al trentesimo film, come vuoi che vada?”, perché è un pensiero davvero sbagliato. Per esempio, in C’era un cinese in coma, un film forse più

amaro e cinico rispetto a tutti gli altri, affiorava un Carlo Verdone diverso e il successo alla fine andò in pari. Ecco che io mi sono fermato: ho pensato che fosse un segnale ben preciso che mi stava mandando il pubblico: forse mi ero stancato io, forse a loro volta si erano stancati gli spettatori… Allora per un anno e mezzo ho lasciato il cinema, sono andato in giro per il mondo e ho viaggiato.

Dopo aver raggiunto il successo, è difficile riuscire a mantenerlo? VERDONE: Se il pubblico si aspetta da me sempre il Verdone di Viaggi di nozze, io non posso più darglielo… Diventerei patetico: sono passati tanti anni, è necessario adattarsi a quello che sono adesso. Certamente i miei film in futuro si muoveranno comunque nell’ambito del comico, ma con un pizzico di malinconia in più e recitati anche da attori più giovani. La coralità è importante perché così avviene uno


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scambio: io dono l’esperienza che ho accumulato, mentre prendo da loro l’energia. Serve un’amministrazione molto rigorosa e disciplinata del proprio mestiere, fatta da tanti no e pochi sì, cercando di non ripetersi… Io ho fatto tanti tipi di film, tutti estremamente diversi. GERINI: Anch’io ho fatto delle scelte, dopo Viaggi di nozze sai quanti personaggi simili a Jessica avrei potuto interpretare? Ho sempre chiesto consiglio a Carlo perché, oltre ad essere il regista e il partner sul set, per me è un amico. Seguo il cuore e dico anche dei ‘no’; ho cercato sempre di mettermi in gioco, pur di non annoiare il pubblico. Nei film le mie donne sono totalmente diverse: mi piace cambiare capelli, trucco, look, e non ho paura ad indossare una parrucca. Per un’attrice la trasformazione è importante: così entra nel personaggio e si riesce a capirlo. In un’interpretazione comunque porti la tua storia, quello che hai vissuto e che è scritto nei tuoi occhi, anche se è importante riuscire ad annullarsi per fare crescere il ruolo dentro di sé. VERDONE: Lei ha una scaramanzia: quando sta per iniziare un film mi fa sempre prima una telefonata, come se cercasse un’energia che passa dalle onde del telefono. E’ una cosa che mi fa tenerezza… Le voglio molto bene. GERINI: Carlo è uno dei pochi autori ad aver scritto dei bellissimi ruoli femminili, che si ispirano alle donne. In Io e mia sorella, per esempio, la protagonista è un personaggio nitido, così matta e con un amore sconfinato per questo fratello che non riesce ad afferrarla… Le donne che ruotano attorno a Carlo Verdone sono sempre molto caratterizzate e colorate, lui ci si rispecchia. Io stessa sono riuscita ad esprimermi perché insieme abbiamo costruito qualcosa: ovviamente il suo è il personaggio portante, però

la parte femminile ha sempre un grande spazio e lui sa come avvalersene con grande intelligenza. Ama enormemente le donne, mentre in genere le figure femminili spaventano sempre un po’ il IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“Nei film le mie donne sono totalmente diverse: mi piace cambiare capelli, trucco, look e non ho paura ad indossare una parrucca” regista perché possono apparirgli magari troppo aggressive… Quando leggo una sceneggiatura, spesso mi capita di pensare: “Bella la parte di lui!”, mentre i ruoli femminili sono più di contorno... Con Carlo questo non avviene mai, ed è una cosa preziosa. (A.C.)


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Speciale spettacolo La madre dell’attore

Luciana Timi UNA MAMMA LO SA Quando Filippo era piccolo, Lei già pensava che potesse diventare Filippo Timi: l’artista del palcoscenico che tutti conosciamo? Era il suo sogno. Io gli ho detto di mettercela tutta per riuscire a realizzarlo, l’ho sempre spronato e gli dicevo: “Vai,

non avrà avuto più di tre anni: era uno di quei tipi di circo dove camminano sulle sfere e lui ne rimase incantato, cominciò a muoversi nelle mie braccia per l’entusiasmo e non si è più fermato. È partito da questa voglia di magia e di palcoscenico: ricordo quando un po’ più grande metteva le puntine da disegno sotto le scarpe per ballare il tip tap… Mi diceva che gli piaceva ballare, e io l’ho lasciato sempre libero. Ha provato anche molti sport: judo, pallavolo, i pattini… Fino a quando un giorno è partito dall’Umbria per Torino: doveva accompagnare un suo amico, c’era una prova di teatro e ha conosciuto Luca Ronconi. Da lì poi abbiamo guardato sempre in avanti, anche se le preoccupazioni ci

FOTO ANTHONY FAVAZZA

Filippo Timi ne Il Don Giovanni

“Il teatro è l’interpretazione di un pezzo di vita…” buttati e prova la tua strada: il punto fermo siamo noi”. Lui è nato così: estroverso, fin da piccolo. Un giorno lo portai con la sorellina al circo vicino a Perugia,

sono state: il mondo dello spettacolo per noi genitori, due operai, non è facile da capire… Ma lui non si è più fermato. Per molto tempo, almeno una volta all’anno, tornava a casa per portarmi a ballare e mi diceva: “Mamma, ti porterò in prima fila”…


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Qual è stato il momento più emozionante? C’è stato un istante preciso in cui ha pensato: “Ce l’ha fatta, è diventato un artista”? Ogni volta è un’emozione diversa, non ci si abitua mai. Da Favola, uno dei suoi primi spettacoli, fino a vederlo interpretare adesso Una casa di bambola non smetto mai di agitarmi per l’emozione.

Che cos’è che la agita? Sono in trepidazione quando lo vedo sul palcoscenico: da mamma si vivono dei sentimenti forti e contrastanti. È una forma di apprensione mista ad orgoglio. Come famiglia ne siamo molto orgogliosi e anche il suo paese, l’Umbria, lo è. Filippo è attaccato anche a Firenze perché mia mamma era toscana. Lui ama il suo dialetto e la sua identità.

che gli portavo i pacemaker dismessi: era per farlo partecipe del mio lavoro e della sofferenza degli altri. Io e mio marito abbiamo vissuto il dopoguerra e abbiamo voluto portare i nostri figli nella realtà delle cose: bisogna scoprire e vedere che non è tutto luce intorno a noi, ma che esiste invece anche la sofferenza. Era giusto che Filippo conoscesse entrambi i lati dell’esistenza: ho cercato di farlo partecipe della sofferenza degli altri, proprio per portarlo ad aiutare gli altri.

Negli spettacoli di Filippo Timi è spesso presente l’immagine della mamma, anche con dei video che la ritraggono… Lui mi vorrebbe sempre sul palcoscenico. È come se dovessi far parte anch’io del suo modo di fare teatro. Non so se forse l’abbiamo un pochino viziato perché mi sono lasciata spesso fotografare o truccare da lui: ne Il Don Giovanni, per esempio, c’è proprio un mio video con la parrucca, tutta riccia: mi aveva filmato quando ero un po’ più giovane. Ho avuto sempre fiducia in lui perché è una persona buona: che sia bravo o meno non lo so, però sicuramente è buono d’animo, buono nel vero senso della parola… Forse ha preso da me, magari vedendomi nel mio lavoro: ero un’infermiera in un laboratorio di cardiologia e quindi in casa nostra c’è sempre stata un’attenzione e una cura verso il prossimo. Infatti Filippo nei suoi libri ha scritto

Che cos’è per Lei il teatro? Sono felice perché vedo tanti giovani che vanno a vedere gli spettacoli di Filippo: guardano una storia raccontata e così capiscono le cose… Il teatro è un’emozione, un’interpretazione di un pezzo di vita… (A.C.)

Filippo Timi con la mamma Luciana


La parola al pubblico Plurale Femminile #ROX/1 Visioni di luci e colori sfumature notturne di Alice Nidito

echi ripetuti parole non dette parole dette piano sbadigli di sogni E’ tutto qui… …trattenuto in un respiro di apnea E poi ci sono voci che sento risuonare dentro di me; hanno il sapore del mare e del vento; punteggiatura sottile e precisa di quest’anima errante, fuggitiva, presente, autentica. Chiuse le stelle l’alba si spalanca.


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Dalle prove di Una Casa di bambola...

Il potere di essere se stessi

“C

da Andrée Ruth Shammah

onsidero Una casa di bambola un testo in cui le donne si rendono conto di avere sbagliato ed esagerato… Sono una donna e ne ho fatto una lettura libera, non mi sono sentita in colpa per aver guardato in che stato d’animo stava il maschio. Nella lettura che ho fatto dei singoli uomini c’è un pugno comune, ne abbiamo cercato l’umanità. Ognuno di loro è obbligato ad essere un eroe: di fronte alla donna, alla società, all’amore. Per quello che riguarda il femminile, se si prende alla lettera Ibsen e si leggono le note che lui stesso fa, ci accorgiamo subito che Nora dice delle bugie e continua ad inventarsi delle cose: ha dei sogni e questa voglia di vivere sovreccitata, in una specie di adrenalina continua. Idealizza di avere un marito eroico e questa adrenalina che la spinge fa sì che quando lui si rivelerà diverso da come si era immaginata, lei prenda la decisione di andarsene. Nora non è vittima né ribelle, semplicemente è una donna con tutte le sue contraddizioni. E io trovo che non ci sia niente di più bello di una contraddizione…”


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“I

da Filippo Timi

l pensiero che abbiamo cercato di fare intorno a questo classico è di capovolgerlo nel rapporto tra maschile e femminile. Io creo il mondo del maschile: un mondo sconfinato, che si contrappone all’universo femminile, altrettanto sconfinato. Ogni donna, a suo modo, rappresenta anche il maschile perché piena di sfaccettature. Ecco perché spesso si paragonano le donne ai gioielli: sono degli universi in cui a volte ci si perde o da cui si vorrebbe scappare. Confrontarsi con una donna è come vivere in una casa degli specchi: tu sei convinto di avvicinarti, lei ti allarga le braccia, tu corri e pam!, ci sbatti contro e ti becchi una testata… Tu, uomo, hai sbagliato qualcosa e non lo sai. È questo il nostro problema: non sappiamo di avere sbagliato. È nel confronto con il femminile che si accendono il fuoco e la contraddizione: il pepe e il sale, sono le due componenti che creano un’unità. È solo attraversando una tensione che si arriva ad un incontro. Ogni rapporto, e più in particolare ogni storia d’amore, è fatta di due individui che si incontrano. È come se fossero due orologi che hanno lo stesso tempo: dopo un po’ uno dei due perde un secondo, e lì si sballa tutto. A sballare sono gli orologi interni, orologi che segnano una presa di coscienza. Quando entro in un teatro, io innegabilmente penso alla pancia di una nave. Questo è l’aspetto più femminile del teatro: un mondo fatto di legno che nutre lo spettacolo perché le mani hanno fatto vibrare con gli applausi tutta quella grande cassa armonica del teatro e queste vibrazioni rimangono, il ricordo si emana… Questo è un aspetto che io trovo femminile del teatro, poi mi viene in mente la frase di Carmelo Bene: “L’attore è la femminilità portata a coscienza”, perché per essere attori bisogna essere femmine e non femminili. Infine chiudo con una specie di inno, una speranza: il teatro deve diventare nelle sue parti più concrete aperto al femminile perché le posizioni importanti e i protagonisti sono tutti uomini.”


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“H

da Marina Rocco

o la sensazione che ci sia un grande potere nella femminilità e io, che sono una donna, è pazzesco che non sia mai entrata prima in contatto con quel potere, per lo meno non in maniera consapevole. Anche Nora non è conscia del suo potere, quindi gira per diverse direzioni e diventa quello di cui ha bisogno al momento. E se non si è consapevoli del proprio potere, non se ne avverte neanche la responsabilità. Invece trasformarsi per ottenere quello che vuoi è un potere magico. Questa è una tematica femminile molto forte e quando Andrée dice che le donne alla fine hanno lasciato l’uomo da solo riflette l’essenza di questa storia: lo spettacolo infatti finisce con un uomo solo in scena. Si è interrotta una relazione tra uomini e donne… Per anni le cose non sono andate bene e ad un certo punto c’è stata una separazione, un’assenza di comunicazione e di dialogo. Ad ogni replica dello spettacolo aspettiamo il miracolo di un confronto: il maschile e il femminile che rimangono uno di fronte all’altro, guardandosi. Con la consapevolezza del potere della femmina, contraddistinto rispetto a quello del maschio. Sto scoprendo solo di recente questo potere femminile, anche se sapevo già che le donne seducevano, che dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna e che la storia di alcune donne ha cambiato il mondo. Le seduttrici che vediamo ancora tutti i giorni, il modo in cui le donne ottengono quello che vogliono: la domanda è se vogliamo renderci conto di questo nostro potere, ammettere di averlo, per cominciare un dialogo con l’uomo. La sfida è di arrivare a sapere chi sei in quanto donna e poi, più in generale, come essere umano.”


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La Storia racconta...

L’attrice dalla “voce d’oro”

“I

di Adela Gjata

l nome di un attore è scritto sull’acqua”, osservava nell’Ottocento, con una punta di amarezza, David Garrick, facendo riferimento al carattere effimero dell’arte teatrale. La stessa cosa non si può affermare del tutto di Sarah Bernhardt, l’attrice più celebrata e ammirata tra l’Otto e il Novecento, musa di drammaturghi come Victorien Sardou – Fédora, Théodora, La Tosca e Cléopâtre, eroine dalle morti spettacolari, furono scritte per lei – di scrittori della caratura di Marcel Proust, dei pittori Alfons Mucha, Bastien-Lepage e Georges Clairin che nel 1876 la consacrò in un trionfale e seducente ritratto.

Definita nel fiore della giovinezza l’ottava meraviglia del mondo e ancora negli anni del declino, intorno alla Grande Guerra, la più grande personalità francese dall’epoca di Giovanna d’Arco, la Bernhardt è stata una diva ante litteram. Su nessuna attrice in tutta la storia del teatro si scrisse tanto, su nessuna si diffusero tanti pettegolezzi veri e falsi, su nessuna si rovesciò mai un tal diluvio di elogi e di censure. Già negli anni Sessanta del secolo scorso, fu calcolato che incollando l’uno all’altro gli scritti sulla Bernhardt se ne ricaverebbe una striscia lunga tanto da avvolgere la terra intera, e che ammucchiando le sue foto apparse nella stampa, si raggiungerebbe l’altezza della Torre Eiffel. L’attrice parigina irradiava un magico magnetismo: dal viso ammaliante alla grazia felina di movenze all’armoniosa voce, al suono della quale anche il più severo dei critici rinunciava a criticare. Sarah Bernhardt “La voix d’or” l’aveva celebrata Victor Hugo, “una carezza che ti sfiora come dita” per fotografata da Jules Lemaître, mentre il letterato inglese Maurice Baring paragonava quella voce Félix Nadar, ad “una sinfonia di flauti d’oro e di arpe sommesse: un’alba argentea, illuminata da 1860 ca guizzanti bagliori, da dolci stelle e da una nitida falce di luna”; soavità che sapeva


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tuttavia prorompere minacciosa e squillare con la forza di una tromba, specie in quei lunghi crescendo vocali che i francesi chiamano tirades. Sarah – o Rosine, il vero nome della Bernhardt, usato soltanto nella prima fanciullezza – diventò presto un idolo femminile. È ancora oggi impressionante vedere le cronache delle folle adoranti durante le tournée statunitensi, o gli ammiratori gettare per terra i loro indumenti affinché vi camminasse sopra. L’attrice possedeva un infallibile istinto che, unito al fervore emotivo, ipnotizzava lo spettatore “svegliando i sensi e addormentando l’intelligenza”, per dirla con le parole del poeta Arthur Symons. La sincerità interpretativa le era quasi estranea, i suoi personaggi raramente raggiungevano l’approfondimento e la poesia di Eleonora Duse, l’altra grande stella del firmamento scenico dell’epoca. Il segreto della Bernhardt non risiedeva nemmeno nella figura fisica. In un’epoca in cui l’ideale della bellezza femminile era una rosea Venere tutta fossette e curve opulenti, il corpo di Sarah, di fragile costituzione – miniera florida per tanti caricaturisti – e il volto smunto dai tipici lineamenti di giovane Faraone, costituivano l’antitesi di quell’immagine. Gli occhi felini, di un limpido azzurro, si scurivano dardeggiando minacciosi lampi verdi nei momenti più infuocati. La bocca, ora appassionatamente espressiva, si increspava poco dopo in una piega scaltramente affettata. “Il lama ha un sorriso come quello di Sarah”, scrive a questo proposito Jules Renard. I folti cappelli, biondo rossiccio, assumevano un atteggiamento ribelle nel disordinato viluppo in cui usava raccoglierli. La bellezza di Sarah risiedeva anzitutto nell’esuberante vitalità, nel portamento regale, a tratti urtante, nei gesti stravaganti, nella perfetta cadenza dei Georges Clairin, distici rimati, nell’appassionata dedizione al teatro, nella complessa personalità. A Ritratto di Sarah varie riprese, nella sua vita inquieta, si dedicò alla scultura, alla pittura, al piano- Bernhardt , forte, alla letteratura, al tiro con la pistola, alla pesca, alla caccia degli alligatori. Il 1876 suo fascino era frutto – anche e soprattutto – di uno sconfinato egotismo e di una straordinaria mitopoiesi personale: le foto dentro la bara dove usava riposarsi, oppure quelle al fronte, con la gamba amputata tra i soldati francesi, i gattopardi e i puma che vagavano nel suo salotto, le ingenti ricchezze, le pazze spese e i numerosi amanti scandalizzarono rendendola immortale. “Una terribile creatura soprannaturale”, citando Max Beerbohm, saggista e caricaturista londinese, irruente come un vulcano, che sbalordiva, schiacciava ed esaltava il pubblico. Nel 1916, quando la Bernhardt volle organizzare un’altra tournée a New York alla veneranda età di settantun anni e nonostante la gamba sinistra amputata, il suo impresario americano profetizzava: “Sarà ricordata come la donna il cui influsso su quanti la videro e la ascoltarono fu un mistero psicologico che non sarà mai spiegato”.


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Éric-Emmanuel Schmitt UNA MAMMA ELEFANTE Votre lien avec Florence: d’où vient – il? Je vois que quelques uns de mes textes sont représentés dans un très beau palais du XVI° siècle – le Relais de Santa Croce – et j’en suis ravi. Dans ce lieu les spectateurs ont pu assister à la mise en scène des Variations énigmatiques, de L’intruse et de C’est un beau jour de pluie, ainsi comme au Teatro della Pergola on a pu voir Le Visiteur. En particulier L’intruse et C’est un beau jour de pluie sont tirées du recueil des nouvelles Odette Toulemonde et autres histoires: Lucia Poli en est tombée amoureuse et ces textes sont devenus un spectacle. Il y a un lien profond et indéniable entre mon écriture en langue française et l’Italie, qui dépasse les barrières linguistiques et les diversités. Comme auteur quelles sont les différences, surtout d’un point de vue de l’écriture, entre un roman et une nouvelle? Et comment un texte passe – t – il au théâtre? Mon premier mode d’expression c’est le théâtre : c’est l’origine, mon arbre natal, tandis que le roman pour moi vient après. La nouvelle constitue la synthèse de tous les deux: elle maintient l’économie du théâtre , donc elle exprime l’essentiel, et en même temps elle conserve cet épaisseur du temps que nous retrouvons dans les romans. Souvent les grands

Il suo legame con Firenze: da dove nasce? Vedo che alcuni dei miei testi vengono rappresentati in un bellissimo palazzo del XVI secolo – il Relais di Santa Croce – e ne sono felice. In questo posto gli spettatori hanno potuto assistere alla messinscena delle Variazioni enigmatiche, de L’intrusa e di Una bella giornata di pioggia, così come al Teatro della Pergola è stato possibile vedere Il visitatore. In particolare L’intrusa e Una bella giornata di pioggia sono tratti dalla raccolta di racconti Odette Toulemonde e altre storie: Lucia Poli se ne è innamorata e questi testi sono diventati uno spettacolo. C’è un legame profondo ed innegabile tra la mia scrittura in lingua francese e l’Italia, che supera le barriere linguistiche e le diversità.

Come autore quali sono le diversità, proprio dal punto di vista della scrittura, tra un romanzo e un racconto? E come avviene poi il passaggio di un testo verso il teatro? Il mio primo mezzo di espressione è il teatro: è l’origine, il mio albero nativo, mentre il romanzo per me viene in un secondo momento. Il racconto costituisce la sintesi di entrambi i generi letterari: mantiene l’economia del teatro, quindi esprime l’essenziale, e allo stesso tempo conserva quello spessore del tempo che ritroviamo nei romanzi. Spesso i grandi drammaturghi - come, per esempio, Pirandello, Cechov o Williams - amano scrivere dei racconti proprio perché lo scrittore sente di avere lo stesso potere evocativo ed immediato che ha il teatro: l’autore allora è in grado di gestire sia il tempo del lettore che quello dello spettatore.


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dramaturges – comme, par exemple, Pirandello, Cechov et Williams – adorent écrire des nouvelles parce que l’écrivain sent d’avoir le même pouvoir évocateur et immédiat que possède le théâtre: l’auteur est capable de gérer soit le temps du lecteur que celui du spectateur. Qu’est ce qu’il vous attire du théâtre? Je suis un philosophe: mon seul métier a toujours été celui d’enseigner à l’université. Donc je suis attiré par le théâtre parce que je le considère un puissant mode d’expression philosophique. Le théâtre c’est l’affrontement, la rencontre, le duel et le débat. Les personnages vivent plusieurs expériences et les spectateurs aussi vivent plusieurs expériences. C’est pour cela que quand j’écris une pièce j’ai bien présent le quatrième mur: le public voit représenter mes paroles et c’est pour cela que je n’écris pas pour moi – même mais surtout pour les autres. Ecrire ne veut pas dire seulement exprimer soi – même mais veut dire se rapporter avec quequ’un qui a son propre identité, différente de la tienne, en réussissant à établir un lien. Plus en général, quand on commence à écrire un livre on ‘signe’ un contrat avec le lecteur: l’important c’est de lui être toujours fidèle. Vos textes aux styles différents décrivent plusieurs histoires de femmes: est – il difficile raconter l’univers féminin en tant qu’homme? Mon point de vue sur les choses est inévitablement masculin mais c’est vrai qu’il y a une femme en moi qui a beaucoup de choses à dire. Je trouve qu’il est plus intéréssant d’explorer le monde avec le regard d’une femme: une femme voit plus de choses d’un homme. Pour

Che cosa la attrae del teatro? Io sono un filosofo: il mio unico mestiere è sempre stato insegnare all’università. Quindi sono attratto dal teatro perché lo considero come un potente mezzo di espressione filosofico. Il teatro è scontro, incontro, duello e confronto. Tante esperienze vivono i personaggi, tante esperienze sperimentano gli spettatori. Ecco

Saverio Marconi in Variazioni enigmatiche al Relais Santa Croce

“Una donna vede più cose che un uomo, è più complessa. Quando una donna dice sì, in realtà vuole esprimere mille cose… forse anche un no!” perché quando scrivo uno spettacolo teatrale ho sempre ben presente la presenza della quarta parete: il pubblico vedrà rappresentate le mie parole e del resto io non scrivo solo per me stesso, ma pensando anche agli altri. Scrivere non significa soltanto esprimere se stessi; anzi vuol dire rapportarsi con qualcuno che ha una sua identità, diversa dalla tua, riuscendo a creare un legame. Più in generale, quando si comincia a scrivere un libro si ‘firma’ un contratto con un potenziale lettore: l’importante è cercare di non tradirlo mai.


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moi la femme c’est la complexité. Quand une femme dit oui ça veut dire mille choses... et peut être pas oui! Donc écrire du point de vue féminin c’est passionant: si je parle des hommes je suis très intellectuel, mon corps est silencieux. Tandis que quand j’écris d’un point de vue d’une femme j’ai un corps, l’esprit, un coeur. D’où viennent-elles vos idées pour vos livres? La création d’une histoire a un processus très long presque féminin parce que l’évolution d’une idée c’est comme la gestation d’un enfant qui pousse lentement. Je suis comme une maman éléphant et je sens que tout nourrit mon enfant, tout ce que je vois et je sens autour de moi. C’est très naturel et passif. Ecrire c’est comme accoucher...mais sans douleur! Donc vos livres sont comme des enfants pour vous? Oui et j’aime tous mes enfants! Vous avez dit que vous ne pouvez pas écrire sans connaître le début et la fin de l’oeuvre que vous allez réaliser... La première phrase d’un livre est fondamentale parce qu’elle parle des personnages et de l’histoire: on doit tout saisir dans une phrase. La première phrase c’est le fil de la pelote et il n’y a plus qu’à tirer le fil. J’ai besoin de savoir le début et la fin parce que chaque livre est un rendez – vous avec la fin. Pendant l’écriture, puisque je sais la fin, j’essaye de me surprendre, de faire que ce ne soit pas tout droit. Non seulement vous êtes un écrivain mais aussi le directeur artistique et un acteur du Théâtre Rive Gauche de Paris:

I suoi testi, se pur con stili diversi, descrivono molte storie di donne: è difficile, come uomo, raccontare l’universo femminile? Il mio punto di vista sulle cose è inevitabilmente maschile, ma è vero che c’è una parte femminile in me, che ha tante cose da dire. Penso che sia interessante esplorare il mondo con uno sguardo femminile: una donna vede più cose che un uomo, è più complessa. Quando una donna dice sì, in realtà vuole esprimere mille cose… forse anche un no! Quindi scrivere del lato femminile del mondo è appassionante: se parlo di uomini sono molto intellettuale e in qualche modo anche silenzioso, invece quando scrivo dal punto di vista di una donna ho un corpo, uno spirito e un cuore.

Come nascono le idee per i suoi libri? La creazione di una storia segue un processo estremamente lento, direi quasi femminile perché la maturazione di un’idea è simile alla gestazione di un bambino che cresce piano. Sono come ‘una mamma-elefante’ e sento che tutto nutre il mio bambino, tutto quello che vedo e sento intorno a me. Si tratta di uno sviluppo molto naturale e passivo, alla fine si può dire che scrivere sia come partorire… ma senza dolore!

Quindi i suoi libri sono come dei figli per Lei? Sì, e amo tutti i miei figli!

Lei ha detto di non poter scrivere senza conoscere la prima e l’ultima frase dell’opera che realizzerà… La prima frase di un libro è fondamentale perché racchiude in sé la pre-


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jouer sur scène, c’est quoi comme avventure? J’ai fait l’acteur pour remplacer un acteur malade: en France c’est une tradition que l’auteur remplace un acteur malade. J’aime beaucoup réciter. J’aime tellement jouer que j’ai peur de changer ma vie. Quand je joue le soir je suis incapable d’écrire pendant la journée parce que l’énergie est différente. Ecrire c’est se IMMAGINE CLARA BIANUCCI

senza dei personaggi: dobbiamo capire tutto dall’incipit di una storia. La prima frase rappresenta il filo di una matassa: una volta avviato l’inizio, non resta altro che srotolare… Ho bisogno di sapere sia l’inizio che la fine perché ogni libro è un appuntamento, verso cui tendere con curiosità. Anche se conosco la trama, cerco di sorprendermi e faccio in modo che non sia tutto lineare: i cambiamenti e i colpi di scena incollano il lettore al filo della narrazione.

Oltre ad essere uno scrittore, Lei è anche il direttore artistico e uno degli attori del Théatre Rive Gauche di Parigi: salire su un palcoscenico, che tipo di avventura è?

“Sono attratto dal teatro perché lo considero come un potente mezzo di espressione filosofico. Il teatro è scontro, incontro, duello e confronto” retirer du monde et se réinventer, c’est échapper du temps; jouer c’est s’offrir au temps, c’est s’offrir au public: à 21h on rit, à 21h10 on pleurt, à 21h15 on est cocu et à 21h30 on est réconcilié. Au théatre on est tous soumis au destin.

Ho cominciato a recitare per sostituire un attore malato: in Francia è una tradizione che l’autore si presti a questo tipo di sostituzioni. Amo molto recitare. Mi piace così tanto che cerco di non farlo spesso perché ho il timore che possa cambiarmi la vita. Se recito alla sera, non riesco a scrivere durante il giorno perché l’energia è diversa. Scrivere vuol dire ritirarsi dal mondo, reinventarlo e fuggire dal tempo; recitare invece significa offrirsi al tempo e al pubblico: alle 21 si ride, alle 21.10 si piange, alle 21.15 si è cornuti e alle 21.30 si è riconciliati. In teatro siamo tutti sottomessi al destino. (A.C.)


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Azar Nafisi IL CUORE CHE SI MUOVE Il libro La repubblica dell’immaginazione racconta in chiave simbolica il potere che i testi classici esercitano sulla nostra esistenza. E in uno dei suoi libri più celebri, Leggere Lolita a Teheran, la letteratura rappresenta un mezzo per aprirsi degli spazi di libertà… La repubblica dell’immaginazione rappresenta una sorta di sequel di Leggere Lolita a Teheran, dove la letteratura viene concepita come un’occasione di libertà in un luogo represso come l’Iran, il mio Paese d’origine. Durante la mia infanzia a Teheran ero riuscita a crearmi una personale ‘repubblica dell’immaginazione’, un luogo dove

“La letteratura è un memento sul potere della scelta individuale” potevo spiccare il volo con la fantasia e liberarmi dal peso delle noiose regole della mia vita quotidiana di allora. Però quando sono arrivata nel mio Paese di adozione, gli Stati Uniti, mi sono resa conto che la repressione e la chiusura possono manifestarsi in molte forme: in Occidente il pericolo non è da imputarsi solo alla detenzione o alle torture, bensì all’indifferenza e alla cosiddetta “coscienza dormiente” che ci fa perdere la nostra più vera capacità di sentire. Io, come altri scrittori,

avendo abbandonato la mia patria per andare in America è un po’ come se mi fossi radicata ‘nell’assenza di patria’: sento che devo essere un’outsider, in qualche modo, per essere pienamente dentro alle vicende che mi circondano e che mi riguardano profondamente.

I lettori oggi possono dirsi liberi? Come diceva Nabokov “i lettori nascono liberi e liberi devono rimanere”. E la letteratura è un memento sul potere della scelta individuale: ogni lettore è libero di decidere di fermarsi e di non andare avanti nella sua lettura. Ma è vero che spetta anche al lettore tenere in vita un libro, non solo all’autore: per farlo entrambi devono dunque essere sempre all’erta di fronte alle ingerenze del potere. Non si dovrebbe smettere mai di mettere in dubbio il potere costituito, ma non è così scontato che ciò accada.

L’Iran rappresenta per noi occidentali un posto lontano e sconosciuto… Che Paese è l’Iran per Lei? A tutti quelli che mi chiedono per conoscere l’Iran che cosa devono leggere o fare, io rispondo di non soffermarsi sull’aspetto politico perché è una situazione in costante cambiamento. Per citare ancora Nabokov: “I governi vanno e vengono, mentre rimangono solo le tracce di genio…” La poesia epica iraniana dell’XI secolo, quindi risalente a più di mille anni fa, nega quella che è la condizione attuale della nazione: nei versi dei poeti si parla di donne libere non solo di scegliere il proprio marito ma anche l’amante che le intrattiene per una sola notte… Anche in una nostra poesia medioevale, da cui probabilmente è stata tratta ispirazione per la storia di Tristano e


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Isotta, esiste una protagonista femminile che dice al re: “Tu sei troppo vecchio per me, ho bisogno di un uomo più giovane”, quindi una figura di don-

“L’Iran è un Paese molto simile all’Italia: colorato, sensuale e sofisticato”

na coraggiosa e spregiudicata... L’Iran è un Paese molto simile all’Italia: colorato, sensuale e sofisticato, ma questa bellezza emerge solo nella cultura non nella politica. Per capire l’Iran bisogna leggere la poesia, è lì che risiede davvero la nostra identità.

Se dovesse dare una definizione di scrittura? Che cos’è per Lei la scrittura? Risponderò con una citazione di Primo Levi: “Io scrivo per riconnetter-

mi alla comunità umana”, quindi per me la scrittura contiene in sé questa idea di unione con il mondo e allo stesso tempo di collegamento con se stessi. La scrittura innanzitutto è indagine: quando si comincia a scrivere non si sa realmente dove si andrà a parare. È un po’ come innamorarsi: ci si avvicina ad una persona senza sapere bene perché... È il cuore che ti muove, non la ragione. Quello che posso affermare con sicurezza è che non si scrive per raggiungere la popolarità. Personalmente ho sempre paura di prendere seriamente il successo: l’unica cosa positiva è che grazie al successo ho la possibilità di scrivere e di intrattenere uno scambio con i lettori. Dopo la grande affermazione di Leggere Lolita a Teheran mi avevano detto: “L’ultima cosa che puoi scrivere adesso è un altro libro di memorie che riguardi la tua storia”, ma io non ho ascoltato e ho scritto La repubblica dell’immaginazione che appartiene profondamente al mio vissuto. Voglio essere una scrittrice, coraggiosa e libera. (A.C.)


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Per la libertà intellettuale femminile Virginia Woolf e il caso di Judith Shakespeare di Carlotta Guidi

Frutto di due conferenze tenute da Virginia Woolf presso l’Università di Cambridge nell’ottobre del 1928, Una stanza tutta per sé rimane ancora oggi uno dei più significativi gioielli narrativi, nonché vero e proprio manifesto femminista, che l’autrice di Mrs Dalloway ci ha lasciato. Partendo dal tema centrale del discorso, le donne e il romanzo, il saggio devia fin da subito verso un’analisi, lucida e “spietata”, sull’infelice condizione culturale del “gentil sesso”: perché la scrittura e il pensiero rimangono ancora attività appannaggio dell’uomo? E perché alle donne è stato negato il diritto di accesso alla creatività? Da queste riflessioni e attraverso la ricostruzione della storia letteraria femminile, nasce l’immaginaria figura di Judith Shakespeare, sorella talentuosa del grande poeta inglese, la cui vicenda esprime emblematicamente quella storia di privazione dei diritti e degli spazi privati che, se concessi, avrebbero permesso alle donne di dedicarsi alla scrittura. «La libertà dipende da cose materiali. La poesia dipende dalla libertà intellettuale». E sarebbero stati sufficienti una stanza tutta per sé e cinquecento sterline annue come condizioni minime necessarie per l’autonomia femminile. Ma Judith è un talento destinato a rimanere inespresso; e d’altronde «chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando questo si trova prigioniero e intrappolato nel corpo di una donna»?

“I

di Virginia Woolf

mmaginiamo, giacché ci riesce così difficile conoscere la realtà, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, chiamata Judith, diciamo. Molto probabilmente Shakespeare studiò – poiché sua madre era ricca – alla “grammar school”; gli avranno insegnato il latino – Ovidio, Virgilio, Orazio – e qualche elemento di grammatica e di logica. Era, come si sa, un ragazzo irrequieto, il quale cacciava di frodo i conigli, e forse anche i daini; e dovette anche, prima di quanto avrebbe voluto, sposare una donna dei dintorni, che gli diede un figlio un po’ più presto del solito. Questa avventura lo spinse a cercare fortuna a Londra. Si interessava, a quanto pare, di teatro; dicono che abbia cominciato facendo la guardia ai cavalli presso l’ingresso degli attori. Presto imparò a recitare, divenne un attore di successo, e si trovò al centro della società contemporanea; vedeva tutti, conosceva tutti, sfoggiava la sua arte sulla scena, il suo spirito per strada, e riuscì perfino a essere ricevuto nel palazzo della regina. Intanto sua sorella, così dotata, supponiamo, rimaneva a casa. Ella non era meno avventurosa, immaginativa e desiderosa di conoscere il mondo di quanto non lo fosse suo fratello. Ma non aveva studiato. Non aveva potuto imparare la grammatica e la logica, e non diciamo leggere Orazio e Virgilio. A volte prendeva un libro, magari


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IMMAGINE CLARA BIANUCCI

un libro di suo fratello, e leggeva qualche pagina. Ma poi arrivavano i suoi genitori e le dicevano di rammendare le calze o di fare attenzione all’umido in cucina, e di non perdere tempo tra libri e carte. Questi ammonimenti saranno stati netti, benché affettuosi, poiché si trattava di persone agiate, che sapevano come debbono vivere le donne, e amavano la loro figlia; anzi, è molto probabile che ella fosse la figlia diletta di suo padre. Forse riusciva a riempire di nascosto qualche pagina, su nell’attico; ma poi aveva cura di nasconderle o di bruciarle. A ogni modo, non appena arrivata alla pubertà, ella era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane. La ragazza protestò che il matrimonio era per lei una cosa abominevole; sicché suo padre la picchiò con violenza. Poi, cambiando tono, la pregò di non fargli questo danno, questa vergogna di rifiutare il matrimonio. Le avrebbe regalato una bella collana, oppure una bella gonna, diceva, con le lacrime agli occhi. Poteva forse disubbidirgli? Poteva forse spezzargli il cuore? Eppure la forza del suo talento la spinse al gesto inconsueto. Una sera d’estate Judith fece fagotto con le sue cose, scese dalla finestra e prese la strada di Londra. Non aveva ancora diciassette anni. Gli uccelli che cantavano sulle siepi non erano più musicali di lei. Ella possedeva, come suo fratello, la più viva fantasia, il più vivo senso della musica delle parole. Come lui, si sentiva attratta dal teatro. Bussò alla porta degli attori; voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. L’amministratore – un uomo grasso, dalle labbra spesse – proruppe in una gran risata. Disse qualcosa sui cani ballerini e sulle donne che volevano recitare; nessuna donna, disse, poteva essere attrice. Egli accennò invece...ve lo potete immaginare. Nessuno le avrebbe insegnato a recitare. D’altronde non poteva mangiare nelle taverne, né girare per le strade a mezzanotte. Eppure il genio di Judith la spingeva verso la letteratura; ella desiderava cibarsi abbondantemente della vita degli uomini e delle donne, studiare i loro costumi. Infine (poiché era molto giovane, e di viso somigliava molto a Shakespeare, con gli stessi occhi grigi e la fronte curva) Nick Greene, l’attore-regista, ebbe pietà di lei; Judith si trovò incinta di questo signore, e pertanto – chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando questo si trova prigioniero e intrappolato nel corpo di una donna? - si uccise, una notte d’inverno, e venne sepolta a un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso Elephant and Castle.”


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Speciale arte Toulouse Lautrec

Maria Teresa Benedetti LUCI E OMBRE SU MONTMARTRE Recentemente in Italia si sono avvicendate due mostre dedicate a Toulouse Lautrec, una al Palazzo Blu di Pisa e l’altra all’Ara Pacis di Roma: c’è un collegamento tra queste due esposizioni? È una pura coincidenza. In Italia non abbiamo neanche un’opera di Lautrec e le mostre sono state poche. Le opere di questo artista sono difficili da trasportare perché disegnava e dipingeva su materiali ‘provvisori’, di-

“L‘immagine della donna per Lautrec è stata importantissima: prova un’ammirazione sconfinata per le cantanti e per le attrici, chi si esibisce su un palcoscenico diventa sua amica”

Maria Teresa Benedetti Curatrice della mostra Toulouse Lautrec: luci e ombre di Montmartre

ciamo così: molti suoi dipinti non sono su tela, ma fatti su cartone, con un uso del colore molto diluito. Quindi sono opere fragili, che con il tempo hanno bisogno di cure sempre maggiori.

Perché un artista che ha vissuto e lavorato alla fine dell’Ottocento come Toulouse Lautrec riesce a

parlare ancora al pubblico di oggi? È un artista che proviene da una grande sofferenza, c’è un’umanità in lui che prevarica la sua condizione di aristocratico dell’epoca. Toulouse Lautrec è in grado di ritrarre con estrema verità ed indulgenza il disagio che sorge dalle manifestazioni più basse della vita: nelle sue immagini esalta la femminilità e la bellezza ma abbraccia anche tutte le condizioni esistenziali, fino ad arrivare a rappresentare nelle sue opere le donne che annegano i loro dispiaceri nell’alcol o le prostitute. È con grande riserbo e allo stesso tempo potenza che racconta, nella serie Elle, la vita quotidiana delle donne che abitano in una casa chiusa: donne che si lavano, si pettinano, si vestono e vanno a letto malinconiche. In loro si riflette il senso del passare del tempo, sono delle creature in cui aleggia la desolazione. Questo lavoro di Lautrec avrebbe dovuto avere un esito trionfale: era stato realizzato da un artista che aveva dimestichezza con questo mondo ai margini ma allo stesso tempo così unico, invece l’esito fu non eclatante. Permane una forte sensazione di pudore nei confronti di questo universo femminile da parte dell’opinione pubblica e Lautrec coglie l’aspetto più doloroso, abbraccia gli aspetti più degradati senza ferocia: ne sottolinea anzi l’umanità.

La mostra dedicata a Toulouse Lautrec a Pisa – da Lei curata – aveva un sottotitolo: Luci e ombre di Montmartre… L’idea portante di quell’esposizione è stata rivolta prevalentemente all’o-


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pera grafica dell’artista e ha comporta- te anche a livello più ampio rispetto to un’indagine su dieci anni della sua alla pittura. È una concezione dell’arte attività: dal 1890, anno in cui ha rea- ‘alta’, che non prevede differenza tra lizzato il primo manifesto, fino al 1901 arte primaria e arte decorativa. Touche è l’anno della sua morte. È stato un louse Lautrec aveva un segno magniperiodo molto fecondo in questo ambi- fico, sia in pittura che nell’opera grafica: era entrato in rapporto con Van Gogh – quindi di riflesso anche con l’arte giapponese – e con Degas. Le sue immagini ritraggono la vita brillante di Parigi che lui ha frequentato, ma sono immagini di una realtà talvolta brutale e dura: non si tratta solo di un realismo della visione, ma di un realismo nutrito di demonismo che è vicino dunque al simbolismo. Nell’esperienza di questo pittore convivono tutta una serie di elementi che ne fanno una specie di summa artistica della fine del secolo. Aveva stabilito la sua dimora nel quartiere parigino di Montmartre, un luogo pieno di caffè in cui poteva sedersi ad un tavolino e soffermarsi a guardare le varie manifestazioni della vita del quartiere, da quelle eleganti fino ai livelli più bassi e violenti della società.

Forse Toulouse Lautrec è riuscito più di ogni altro artista a rappresentare in maniera realistica l’universo femminile?

“Toulouse Lautrec ha saputo cogliere quel delicato legame tra gli artisti e il loro pubblico: le sue opere illuminano i protagonisti sulla scena, ma anche gli spettatori che gli stanno intorno” to; il manifesto era allora considerato come l’affresco della nuova generazione, capace con la particolare evidenza del segno e del colore di divulgare l’ar-

Sì, è vero. La sua condizione era quella di un uomo che aveva delle grosse limitazioni fisiche: gli arti inferiori non erano cresciuti, ma il suo corpo e la testa erano quelli di un uomo che si esprimeva in tutta la sua virilità erotica. L‘immagine della donna per lui è stata importantissima: prova un’ammirazione sconfinata per le cantanti e per le attrici, chi si esibisce su un palcoscenico diventa sua amica. Queste figure femminili lo amano perché con la sua arte lui diffonde la loro immagine: tra loro c’è un rapporto di amicizia, ma allo stes-


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so tempo di interesse perché Lautrec è in grado di farle conoscere e renderle popolari. Lo scambio umano che si instaura tra questo artista e le donne è generoso, anche molto affettuoso; è un personaggio che ha pagato con la fine precoce della vita – a soli 36 anni – il suo comportamento libero: era un uomo che beveva e che si è ammalato di sifilide, ma sempre guidato da una personalità che si è messa in gioco totalmente.

Nelle sue opere emerge tutto il fascino e la magia dell’apparato che vive dietro le quinte di uno spettacolo, un mondo complesso e caratterizzato da un’estrema verità… Toulouse Lautrec ha saputo cogliere quel delicato legame tra gli artisti e il loro pubblico: le sue opere illuminano i protagonisti sulla scena, ma anche gli spettatori che gli stanno intorno. Quando era al Moulin Rouge ad ammirare le ballerine di Cancan – uno degli spettacoli più in voga nella vita parigina – disegnava all’istante, cogliendo dei magnifici ritratti dell’umanità che lo circondava, sempre con quest’aria distaccata. Lui stesso è parte del pubblico: è il primo ad emozionarsi ed impressionarsi davanti ad una scena particolarmente spettacolare, il primo a gridare ammirato di fronte ai movimenti fondamentali di ogni ballerina come una spaccata o un gesto di trionfo… Lautrec si esalta e ha un tipo di partecipazione sempre molto diretta; è un sostenitore del teatro di avanguardia, crea i manifesti per le rappresentazioni e partecipa alle scenografie: Henry de Toulouse Lautrec è una personalità intrinseca al teatro tout court – dal cabaret all’avanspettacolo, fino ad ogni tipo di rappresentazione teatrale – e ne cattura l’unicità, il fascino più umano e vero. (A.C.)


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Speciale arte Toulouse Lautrec

Claudio Parisi Presicce IL DISEGNO COME FIRMA

liti. È una testimonianza lucida, priva di compiacimento ornamentale, quella con cui l’artista seppe trascrivere, nel suo disegno dal contorno spigoloso e sintetico, vicino al cloisonnisme di Gauguin, lo spirito del tempo. Colto in teatri e café-chantants, circhi e maisons closes, e reso per sintesi di tipi umani scrutati nell’essenza da un’osservazione acuta e che, purtuttavia, non giudica. Prota-

“C

Claudio Parisi Presicce Sovrintendente Capitolino ai Beni Culturali

he importa. Farò un bove!”. Così, all’età di quattro anni, il bambino Henri de Toulouse-Lautrec, che non sapeva ancora scrivere, chiese ai suoi genitori di poter lasciare, anch’egli, la propria “firma” nel registro degli invitati al battesimo di un fratellino. Prima espressione, forse, di quella propensione di essere, con il disegno, testimone del proprio presente. Quel disegno che tanta parte avrebbe avuto, poi, nella produzione artistica della sua brevissima esistenza. Intensa fu la sua attività di illustratore di libri, giornali e riviste, così come quella di grafico pubblicitario per la realizzazione di manifesti e cartelloni teatrali, nuovo veicolo comunicativo di cui si avvalse il gusto nuovo a cavallo dei due secoli. Sono cronaca illustrata, fotografie disegnate di guizzi di vita fermati in un’istantanea le affiche giunte sino a noi. Per raccontare, con tratto sicuro e svelto, lo spettacolo della vita. Fu il celebre manifesto del Moulin Rouge a sancire l’esordio di Lautrec nella litografia, tecnica giovane in cui l’artista si lancia con passione sperimentando sempre nuove soluzioni. Come il crachis, di sua invenzione: colore schizzato sulla pietra con l’ausilio di spazzolini per conferire, alle opere finali, effetti pittorici inso-

gonisti i corpi, attraverso la posa e la gestualità. Ma anche i caratteri, individuati da brevi accenni caricaturali. Di cantanti, attrici, pagliacce, acrobati o ballerine fermati in un’istantanea. Una ricerca, oltre la forma, più a fondo, dell’umana essenza. Travalicando la maschera del trucco o dell’acconciatura; bucando il fragore o il tramestio di fondo. Per arrivare in quella quieta permanenza in cui ciascuno è solo nella folla. Libero da pesi di appartenenza. A corpi non conformi o a status elevati.


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Etica femminile e l’utopia di Rousseau di Alice Consigli

IMMAGINE DALILA CHESSA

N

el romanzo pubblicato nel 1761, Julie o La Nouvelle Héloïse, Jean Jacque Rousseau ci descrive il susseguirsi di un colloquio epistolare che coinvolge due giovani, Julie e Saint-Preux, nella quieta cittadina svizzera di Clarens. L’originalità di quest’opera non risiede, tuttavia, nella storia d’amore che tragicamente si consuma tra i due amanti, quanto nell’inedita rilevanza che l’illuminista francese conferisce alla figura femminile. Al fine di comprendere ciò che il filosofo vuole comunicarci attraverso il personaggio di Julie, l’opera deve essere prima contestualizzata all’interno di una più ampia critica che l’autore avanza contro la società a lui contemporanea. Fondata sulla disuguaglianza e l’ingiustizia, la società esistente è, per Rousseau, generatrice di passioni competitive, alienanti ed egoistiche che spingono l’uomo a proiettarsi fuori dalla propria interiorità, a misurarsi con l’altro in un continuo meccanismo mimetico dal quale non riesce a liberarsi. Il filosofo francese riconosce nel sentimento dell’amor proprio, derivante dal bisogno insoddisfacibile del confronto, il movente di tali desideri, che rendono l’individuo dimentico di ogni differenza e autenticità personale, presupposti invece ineludibili per la conquista della felicità. È così che l’illuminista invita l’uomo a intraprendere un iter emotivo per riconquistare la propria interiorità, il proprio Sé. L’esortazione rousseauiana consiste nel trasformare l’amor proprio in amor di sé, a riappropriarsi di un nucleo originario e primitivo in grado di sottrarci da quella spirale del superfluo che le dinamiche emulative, con le loro patologie, necessariamente innescano. Questo percorso di riconquista della propria interiorità non avviene però senza difficoltà. Esso presuppone un vero e proprio cambiamento di rotta delle proprie passioni. L’individuo deve trasformare il movimento centrifugo delle proprie energie, che lo porta a disconoscere il proprio Io e la propria originalità, in un movimento centripeto di riacquisizione della propria primitiva autenticità, a ricomporre quella scissione identitaria che la società moderna inevitabilmente provoca. Julie è uno dei pochissimi personaggi descritti dall’autore che riesce a intraprendere questo percorso emotivo. Anzi Julie è, per Rousseau, il modello esemplare di questo percorso, è colei che riesce a riappropriarsi di quelle facoltà originarie e primitive che appartengono alla sua natura di donna. Essa riesce a sviluppare un amore di sé che si declina in amore verso l’altro,


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IMMAGINE CLARA BIANUCCI

in philia e pietas, in sentimenti di spontanea solidarietà che sono il presupposto necessario per ogni convivenza che si voglia considerare giusta. Julie, disinnescando i meccanismi mimetici e competitivi, si fa promotrice di passioni complici e solidali capaci di guidare la piccola comunità di Clarens, un luogo in cui convivono ancora i valori di uguaglianza e giustizia. Julie impiega se stessa ad occuparsi dell’altro, dei suoi desideri, perché è nel soddisfacimento dell’altrui felicità che risiede la sua stessa realizzazione. L’altro non viene mai percepito come presenza estranea o esterna all’Io, l’altro è sempre parte integrante della sua interiorità, motore di ogni sua azione. Julie è capace di cura, di senso di responsabilità e sensibilità verso il bene della collettività, tutte predisposizioni che Rousseau attribuisce alla donna in quanto tale, poiché risiedono, come lui stesso afferma, nella sua natura materna. Come già Aristotele aveva riconosciuto, la donna è dotata di un insieme di modalità affettive che rientrano nella sua originaria funzione di madre; essa è capace di una naturale tensione verso l’altro, il cui soddisfacimento viene prima di ogni possibile autoaffermazione, tutte facoltà, che fanno sì che Julie si configuri come la conditio sine qua non per l’autoconservazione di un ordine sociale basato su valori solidaristici. Come d’altronde la filosofia non smette mai di dimostrare, la tesi rousseauiana non è però priva di un’intrinseca contraddittorietà. Lo stesso autore riconosce che la riconquista della propria originarietà implica, nella donna, una rinuncia alle proprie passioni, un sacrificio identitario. Julie infatti, nel momento in cui aderisce a se stessa, viene condannata ad un’esistenza meramente relativa, proiettata verso il soddisfacimento dei bisogni altrui per realizzare il bene della comunità; la figura femminile diviene quindi espressione di un’identità mutilata, destinata a astenersi da un’autoaffermazione per aderire alla propria natura. La protagonista riuscirà infatti ad affermare se stessa solo in un gesto estremo di morte in nome di un amore irrealizzabile ed eticamente inaccettabile. Il paradosso emotivo intrinseco alla figura di Julie è il fattore che segna la tragicità del suo personaggio e della condizione della donna in generale, e questo l’autore è il primo ad ammetterlo. Ciononostante, Rousseau è il primo filosofo moderno a scovare nell’individualità femminile una modalità empatica che solo questa è in grado di coltivare. Al di là della sua irreparabile tragicità, Julie è l’unica possibile promotrice di un modello etico e sociale alternativo, basato sugli ideali di cura e responsabilità; è l’unica in grado di dar vita ad un’esperienza di convivenza collettiva che pur nella sua utopica realizzazione non cessa ancora oggi di esercitare un certo fascino.


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Samantha Cristoforetti QUELL’ISTANTE IRRIPETIBILE Coraggio, spregiudicatezza o piuttosto incoscienza... Che cosa occorre per diventare la prima donna italiana ad andare nello spazio? Non saprei... Nell’immaginario collettivo il coraggio istintivamente si associa alla figura dell’astronauta, ma personalmente ho sempre identificato il termine coraggio al fatto di riuscire a fare una cosa, di qualsiasi tipo, nonostante se ne abbia un estremo timore. Ognuno di noi ha paura per cose diverse, in particolare pensare di andare

“Il vocabolo più adatto a descrivere il sentimento che attraversa tutti gli astronauti è il verbo ‘osare’: occorre necessariamente buttarsi nelle cose senza fare il calcolo di quanto possano essere rischiose...” nello spazio per me è sempre stato un fatto naturale; a farmi paura sono altre cose: per esempio, immergermi con una tuta da sub in una grotta in fondo al mare a 2000 metri di profondità... Invece volare in aereonautica militare come pilota o andare nello spazio sono attività che mi hanno sempre attirato. Credo comunque che il vocabolo più adatto a descrivere il sentimento che attraversa tutti gli astronauti sia il

verbo osare: occorre necessariamente buttarsi nelle cose senza fare il calcolo di quanto possano essere difficili o rischiose... Osare significa che quando ti trovi davanti a due strade, una in discesa e l’altra in salita, scegli sicuramente di percorrere quest’ultima: anche se ogni tanto può capitarti di sbattere il naso contro il muro, capisci che le difficoltà sono importanti per aiutarti ad aumentare la fiducia in te stessa.

In un periodo così delicato dal punto di vista degli equilibri internazionali, una missione nello spazio assume anche un valore simbolico di cooperazione tra diversi Paesi... Il simbolismo è davvero importante, ma la nostra avventura rappresenta allo stesso tempo un valore pratico: ormai da diversi decenni pratichiamo una collaborazione efficace per niente scontata tra tanti Paesi che continuano a vivere momenti di tensione reciproci. Basta pensare alla particolare relazione tra Stati Uniti e Russia, alla turbolenta storia che le ha contraddistinte, mentre nei programmi delle stazioni spaziali si collabora da sempre in maniera pacifica ed efficiente in un contesto operativo. Per mantenere una stazione spaziale in funzionamento sono necessari vari meccanismi di collaborazione per un obiettivo comune, un lavoro in real time in tempo di pace.

C’è mai stato un momento in cui, in quanto donna, ha pensato che fosse per Lei più difficile arrivare a certi risultati? Andare nello spazio è talmente complicato, e lo è per tutti: sia per le donne che per gli uomini… L’astronau-


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ta è un mestiere che ha una forte risonanza mediatica e dà grande visibilità, ma esistono tante altre professioni che richiedono carriere davvero impegnative e difficili. È vero però che la figura dell’astronauta, forse più di qualunque altra, è capace di accendere nel cuore e nella mente della gente la passione.

cresciuta in un piccolo paese e questo posto mi ha permesso di stare molto a contatto con la natura e di vivere delle piccole avventure quotidiane, spesso libera dalla supervisione e dal controllo continuo degli adulti. Forse è lì che si è sviluppato il mio spirito di esplorazione, anche perché alzavo la testa e

Fin da piccola voleva diventare un’astronauta: come nasce questo amore per lo spazio?

guardavo un cielo stellato meraviglioso: c’è poco inquinamento luminoso in montagna e l’universo si svela in tutto il suo fascino.

È stata una combinazione di più fattori, non c’è un istante preciso dove tutto si è scatenato. È un desiderio che risale all’infanzia, al tempo in cui leggevo i libri di fantascienza e a scuola studiavo geografia astronomica: i pianeti, le stelle, il sistema solare... Sono

È vero che gli astronauti possono portare con loro nello spazio solo una piccola borsa? Lei che cosa ci ha messo dentro? Avevo una borsetta, una specie di


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scatola da scarpe, che è andata su nello spazio prima della nostra partenza. Ci ho messo degli oggetti che mi potevano servire: delle felpe per stare un po’ più calda, dei pantaloni comodi per il fine settimana e tante paia di calzini perché mi avevano detto che ne servivano molti... Alla fine non era vero, ho sprecato del posto prezioso nella borsetta e mi sa che qualcuno mi ha fatto uno scherzo! Un’altra piccola borsa è invece volata con me nella navicella spaziale e ci ho messo dentro delle cose per me più preziose: piccoli oggetti che mi hanno dato parenti ed amici per portarli nello spazio e poi farli ritornare, dopo questo viaggio unico, di nuovo sulla Terra.

rebbero servite. In questa fase di riorganizzazione fu presa la decisione di non rendere di nuovo idoneo ad essere lanciato nello spazio il mio equipaggiamento personale: la sottotuta, i guanti, tutti quegli oggetti necessari per intraprendere una passeggiata spaziale. In quel momento tutto il lavoro che avevo IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Qual è stato il momento più emozionante della sua missione nello spazio? Sicuramente il mio picco di entusiasmo e felicità è stato quando sono arrivata sulla stazione spaziale: un momento che sintetizzava tutto, il compimento di un viaggio lunghissimo che includeva anni e anni di preparazione. Dopo il lancio, l’approdo alla stazione spaziale racchiudeva un incredibile senso di possibilità... La felicità assoluta credo che sia un ideale irraggiungibile, però il momento più vicino alla felicità per me credo che sia stato quell’istante nello spazio.

E il momento invece che le ha procurato maggiore tristezza ed amarezza? È stato poco prima del volo nello spazio. Ci fu un incidente che coinvolse le attrezzature di cui avevamo bisogno per il nostro viaggio; nelle settimane successive all’accaduto è seguito un lavoro importante, di ripianificazione e di sostituzione delle cose che ci sa-

“Quando ero piccola alzavo la testa e guardavo un cielo stellato meraviglioso: c’è poco inquinamento luminoso in montagna e l’universo si svela in tutto il suo fascino” fatto per anni per qualificarmi a fare le passeggiate spaziali – un impegno faticoso per una persona piccola come me, soprattutto per l’ingombro e il peso della tuta spaziale – si è volatilizzato. Questa è stata la sola vera grande delusione per me, ma – ripeto – ciò è accaduto prima della mia missione. Dello spazio nella mia memoria conservo soltanto la bellezza. (A.C.)


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Alessio Boni Marcello Prayer IL CHIARO E LO SCURO Nello spettacolo I duellanti si racconta di un duello tra uomini che dura tutta la vita, uno scontro che confina inevitabilmente anche con l’amicizia e che si basa su un codice d’onore, molto maschile…

nei doppi dell’io: in scena io e Alessio Boni – l’altro duellante – ci guardiamo in faccia: è uno sguardo fisso, come se guardassimo noi stessi, il nostro io più profondo. Sono sempre due anime che si muovono e si rincorrono, che non riescono mai a dialogare se non attraverso il duello. Dentro lo spazio teatrale è difficilissimo spostare il fuoco dello sguardo e puntarlo bene, fissando l’altro che sta di fronte a te; al cinema invece basta fare dei primi piani sugli occhi e riesci a scorgere la tensione di uno sguardo che sfida un altro sguardo. È un duello degli occhi, che riflette un’intimità misterica: uno scambio a livello di anime e non di salottificio let-

FOTO FILIPPO MANZINI

“Non c’è diversità tra maschile e femminile: l’anima è unica, non ha genere“ PRAYER: Sono due anime, due esseri umani che non si prenderebbero mai a sciabolate a causa di una donna… I colpi che si danno, l’agonismo con cui combattono, sconfinano

terario… Da questo punto di vista dei rapporti umani non c’è diversità tra maschile e femminile: l’anima è unica, non ha genere. Credo, più in generale, che non si possa fare questo mestiere ed essere un teatrante senza riconoscere il talento, anche femminile. La differenza tra maschile e femminile è una differenza di natura, non di anime. Ogni persona ha in sé il maschi-


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le e il femminile: tu, uomo, non puoi evitare di fare i conti anche con il tuo femminile… BONI: Io e Marcello Prayer ci conosciamo talmente bene, sia umanamente sia professionalmente, che riusciamo a sdoppiarci e ad inserirci uno nel monologo dell’altro… In scena rappresentiamo veramente il chiaro e lo scuro dell’individuo: capisci che il nemico più grosso che si ha nella vita è sempre dentro di te, nel tuo subconscio più profondo, e che quindi ti appartiene. Sono due uomini che si scontrano, è un monito prettamente maschile perché appartiene al codice cavallere-

il ruolo del cattivo oppure sei l’eroe positivo, ma sempre entri in rapporto con una donna. La sensibilità femminile di un’attrice o di una regista è molto importante; mi sono accorto di quanto la donna sia portata, a volte più di certi uomini, alla letteratura e alla sensibilità dei sentimenti. Questo tipo di attenzione e di confronto, nel corso della vita,

“Con questo mestiere sviluppi una personale ricerca dei sentimenti umani e ne acquisisci la completa unità, che contiene in sé un equilibrio tra maschile e femminile“

FOTO FILIPPO MANZINI

sco dell’Ottocento napoleonico. Ma si potrebbe pensare anche a due donne che interpretano “i duellanti”: in teatro si può fare tutto… Con questo mestiere sviluppi una personale ricerca dei sentimenti umani e ne acquisisci la completa unità, che contiene in sé un equilibrio tra maschile e femminile. Miri a raggiungere costantemente una grande verità e onestà. Interpreti

mi è stato donato dalle donne come mia madre - che è una persona veramente speciale - e dalle attrici con cui ho collaborato: analizzando insieme i testi che poi andavamo a rappresentare cercavamo di capire gli stati d’animo e i sentimenti, i più delicati. L’attenzione per la parola, per la sua forza e per la capacità che ha di arrivare a ferirti: questi sono insegnamenti femminili. (A.C.)


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Dietro le quinte Il Maestro d’armi

Renzo Musumeci Greco

TEMPO, VELOCITÀ, MISURA La scherma è una sua tradizione di famiglia, si tramanda di generazione in generazione? È una specie di obbligo di famiglia, che prevede almeno un membro di ogni generazione della nostra famiglia dedi-

Musumeci Greco è un luogo dove, dal 1878, si fa scherma, sempre nello stesso luogo: in pieno centro a Roma. Il posto è talmente particolare che pochi mesi fa è stato decretato dalla Regione Lazio come una Casa-Museo, e ne siamo molto orgogliosi. Nella nostra Accademia si pratica la scherma in tutte le sue ramificazioni: da quella amatoriale a quella più agonistica, fino alla scherma legata al sociale con schermitori in carrozzina o con la sindrome di Down… Accogliamo appassionati da tutto il mondo e un aspetto molto importante per noi è quella parte della scherma che riguarda lo spettacolo: cinema, teatro e lirica, dove avvengono delle ricostruzioni storiche.

Come nasce il mestiere di Maestro d’armi?

to alla scherma, ed è così da circa metà dell’Ottocento. I miei figli, due maschi, sono ottimi schermitori e anche se adesso si dedicano alla regia cinetelevisiva e all’organizzazione di grandi eventi, mi dispiacerebbe se non portassero avanti questa tradizione: in fondo è questa attività che ci ha dato prestigio, notorietà e anche un certo benessere. L’Accademia

L’Accademia Musumeci Greco è un luogo dove si è attraversata la storia d’Italia attraverso la scherma. Mio bisnonno era un garibaldino, un laureato farmacista – cosa rara all’epoca in Sicilia – che si è venduto tutto per assoldare picciotti da impiegare nelle rivolte, in modo da arrivare alla famosa stretta di mano a Teano che fece l’Italia… Questo carattere epico e cavalleresco, anche abbastanza fiero e furibondo, si tramanda ai primi del Novecento ai suoi figli che sono stati grandi interpreti dei duelli cavallereschi. Il duello era una moda dell’epoca e aveva delle regole tra gentiluomini: così si risolvevano le offese e si difendeva l’onore delle famiglie. Esistevano quattro gradi di offesa, tutto dipendeva dal luogo e dal tipo di sgarbo che veniva fatto, se in pubblico o in privato: ricevevi allora un biglietto da visita con il guanto e si combinava il duello.


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Cominciava una trattativa tra i padrini dei rispettivi avversari sul tipo di arma da utilizzare, il luogo previsto, l’abbigliamento da tenere… I duelli cavallereschi tramontano con la prima guerra mondiale e si assiste invece all’avvento di Cinecittà, del Centro Sperimentale di Cinematografia e dell’Istituto Luce. Mussolini credeva molto nel cinema come mezzo di propaganda ed incentivò tutti quei film che prevedevano grandi battaglie. Mio padre che era un famoso schermitore dell’epoca fu precettato dai registi e dai produttori – nella Hollywood sul Tevere – per insegnare agli attori a duellare e conquistò una fama internazionale. Oggi si girano pochi film in costume; soltanto nella prosa e nella lirica il duello non tramonterà mai perché si continuerà a mettere in scena Shakespeare, Goldoni, Dumas, Verdi o Wagner…

Durante la preparazione ci fù un lungo duello fra la Lollobrogida e una sua avversaria sul set: pare che si fossero sfidate per dimostrare chi fosse la più brava e la più bella.

E la scherma praticata in teatro che tipo di difficoltà comporta? In uno spettacolo non puoi interrompere un duello, come magari può capitare al cinema o in TV. In teatro crei una coreografia di duelli e sai che non puoi sbagliare: l’errore non è ammesso perché c’è il pubblico che ti sta guardando. Ne I duellanti con Alessio Boni e Marcello Prayer lo scontro tra i due è vi-

“Duellare è pericoloso, quindi richiede concentrazione e coordinazione: due doti principali necessarie ad ogni attore”

IMMAGINE DALILA CHESSA

Si combatteva per difendere l’onore delle donne? Per difendere l’onore in generale. Alcune leggende dicono che in passato si siano sfidate anche delle donne: in un film del ’54, La donna più bella del mondo, Gina Lollobrigida impersonava Lina Cavalieri, ballerina e cantante italiana in scena a Parigi nei primi del Novecento.

sivamente spettacolare: pian piano devo fare in modo che non abbiano paura l’uno dell’altro e che non si facciano male perché le armi sono vere, anche se non tagliano. Sono delle riproduzioni esatte di sciabole degli inizi dell’Ottocento, anche molto pesanti perché se non fossero di acciaio o ferro non farebbero rumore. Il duello allora per il pubblico risultereb-


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be abbastanza ridicolo. Ogni epoca ha la sua arma e spesso mi capita di collaborare con il costumista per decidere quella più giusta per uno spettacolo o un film.

Nella scherma applicata allo spettacolo si possono quindi vivere anche dei momenti pericolosi? Con l’avvento del digitale al cinema o in televisione è possibile intervenire su uno sbaglio in fase di post produzioIMMAGINE CLARA BIANUCCI

Un ricordo che più le è rimasto nel cuore. Indimenticabile rimane l’ultimo film girato da Visconti: ricordo l’emozione di stare io stesso, insieme a mio fratello, in pedana con la maschera come controfigura di Giancarlo Giannini. Ho tanti ricordi che porto con me, fin da bambino: mio padre che mi portava con sé sul set di film come Ben-Hur e io vedevo queste scene immense oppure Cleopatra che si muoveva intorno a me…

Dal punto di vista tecnico, qual è il momento più emozionante nella scherma? La scherma è come se fosse un’unione, tra il pianoforte – l’esecuzione di note bellissime ed efficaci – e gli scacchi. È come giocare a scacchi a duecento all’ora: negli scacchi fai un movimento per indurre l’avversario in scacco matto, un movimento che magari hai pensato per ore… Nella scherma quel gesto dura due decimi di secondo e chi ti sta di fronte è veloce come lo sei tu.

“Mio padre che mi portava con sé sul set di film come Ben-Hur e io vedevo queste scene immense oppure Cleopatra che si muoveva intorno a me…“ ne, mentre in teatro questo è impossibile. Abbiamo delle norme di sicurezza rigorosissime e sono gli attori stessi a rendersi conto che, quando stanno uno di fronte all’altro, l’errore li punisce inesorabilmente. È tutto molto dettagliato sul copione: Amleto, per esempio, che attacca alla testa o Laerte che para di quinta… Se gli attori sono concentrati ed allenati non possono sbagliare.

Lei è anche uno degli insegnanti della Scuola di recitazione dedicata ad Orazio Costa… La scherma è una materia assolutamente indispensabile perché ti regala l’eleganza e la postura fondamentali per la scena. Duellare è pericoloso, quindi richiede concentrazione e coordinazione: due doti principali necessarie ad ogni attore. I concetti della scherma sono tre - tempo, velocità e misura - le stesse caratteristiche che richiede il palcoscenico: la misura è quella distanza che devi tenere rispetto agli altri attori sul palcoscenico; la velocità e il tempo sono importanti per intervenire in maniera tempestiva nelle battute e nelle entrate in scena. (A.C.)


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Dai Quaderni di Orazio Costa Sulla bocca incantata ode l’aria I il soffio ancora della vogliosa canzone. Il capo che il marmo guadagna rimpiange il conforto di calde vergogne. Ancora per poco ai crescioni 5 misti gli sparsi capelli e l’onde, strane le inventano acconciature inutili. Ormai si chiude dell’acque il lento sguardo I0 e un verde sonno l’accoglie e di sogni l’imbalsama. Affonda e d’acque si sposa. O sale [17] Ofelia, sorgendo dalla veste che si gonfiò sull’onda, Orazio Costa, I5 Dalle poesie di presa tutta da un maritale Luna di casa disumana stretta che la circonda. IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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A proposito del femminile Gabriele Lavia

Erotica tensione Un talento femminile del vostro mestiere Esteriormente in quello che faccio, nelle mie regie, io sono molto ordinato, mentre internamente è il contrario: sono estremamente disordinato. Forse questo potrebbe essere il mio aspetto interiore femminile. L’ordine esteriore mi serve proprio per bilanciare la mia confusione interiore. E invece tutte le donne che ho conosciuto, compreso le mie figlie, hanno un’inquietudine che si manifesta all’esterno.

L’aspetto attraente del femminile

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Un uomo del femminile ama delle cose straordinariamente fisiche, l’amore della mente viene molto dopo. Il rapporto che invece si instaura tra il regista e le sue attrici è particolare, davvero difficile da spiegare, anche perché i personaggi femminili sono pochi rispetto ai ruoli maschili nelle opere teatrali. Ma sono dei personaggi importanti, che vanno curati molto. Non è semplice trovare un’attrice che corrisponda perfettamente a quello che tu pensi sia il personaggio. Quando un regista sceglie un’attrice, inutile illudersi, è sempre compromesso da un’attrazione fisico erotica che tocca anche un livello mentale… In qualche modo il teatro è un accadimento erotico: in fondo “tutto è eros”, diceva Platone; noi ci avviciniamo alla conoscenza e alla verità tramite l’eros. Andare a teatro è un fatto erotico, così come recitare o studiare: la tensione che ti prende e ti appassiona non riguarda solo l’attrazione sessuale, ma si nasconde e dissimula in tutte le cose.

L’aspetto negativo del femminile A parte i luoghi comuni che hanno gli uomini sulle donne, direi che ci infastidisce solo quello che nasconde comunque una forte attrazione verso il femminile. Ogni uomo ha sicuramente avuto almeno un rapporto turbolento con una donna nella sua vita, così come le donne pensano certe cose negative sugli uomini… Evidentemente c’è un’antica incomprensione dei sessi ma che conduce, come fine ultimo, all’attrazione reciproca. Forse non riusciremo mai a comprenderci, ma questo è il bello perché così non smetteremo mai di cercarci.


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A proposito del femminile Lino Guanciale

Fattore seduzione Un talento femminile del vostro mestiere Chi fa teatro deve necessariamente diventare, non dico maestro, ma almeno decente portatore di seduzione. Sicuramente la seduzione è un linguaggio femminile: gli uomini che hanno una spiccata attitudine di questo tipo non fanno altro che manifestare quella parte di femminilità che c’è in loro… Chi fa teatro, ripeto, non può esimersi dall’affrontare il tema: per esempio, mi è capitato di riflettere per lavoro sul mito di Don Giovanni – in uno dei miei ruoli ho interpretato Mozart – e ho capito che Don Giovanni non è la figura di un macho, bensì quella di un raffinato intellettuale, anche vagamente femminile in certi suoi aspetti… Però ogni donna non gli resiste, anche in virtù della sua abilità strategicoseduttiva: si tratta di un bellissimo talento muliebre, di cui anche noi maschi dobbiamo dotarci.

L’aspetto attraente del femminile

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

E’ una domanda complicata… Una qualità che mi ha sempre attratto nelle donne è la loro intuitività ovvero una certa sveltezza, un guizzo presente nello sguardo e nella testa che creano il mistero attorno ad una psiche, indipendentemente dalla bellezza. Per me il fascino è legato alla capacità di leggere dentro di chi ti sta davanti e mi colpisce molto una personalità femminile in cui questo tratto sia forte. E questo è fondamentale anche sul palcoscenico: si dice spesso che il teatro è un luogo da uomini - c’è chi teorizza una cosa simile e uno di questi, per esempio, era Luca Ronconi - e in passato è stato così: c’è stato un periodo in cui recitavano solo gli uomini. Invece io credo che per stare in palcoscenico occorra quel sentimento e quell’intuitività tipica delle donne: per tanto tempo il teatro è stata una cosa maschile, mentre al contrario il palcoscenico è sicuramente femmina.

L’aspetto negativo del femminile La possessività!


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A proposito del femminile Rocco Papaleo

Accogliente sensibilità Un talento femminile del vostro mestiere Non se ho sviluppato proprio un talento femminile, però possi dirti che mi piacerebbe molto se fosse così. Penso ad uno dei complimenti più belli che io abbia mai ricevuto: ero alla proiezione di uno dei miei film, non ricordo se Basilicata coast to coast o Una piccola impresa meridionale, e al dibattito che seguiva una signora si è alzata in piedi e mi ha detto: “Volevo dirle che questo film sembra che l’abbia fatto una donna…”. E io ne sono stato orgoglioso. Se questa mia parte femminile è così esplicita, non posso che esserne fiero. Io sono sempre dalla parte delle donne.

L’aspetto attraente del femminile

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Mi piace la loro sensibilità. E mi attrae anche l’istinto materno che ogni donna, al di là che sia madre oppure no, ha dentro di sé e il senso di responsabilità che implica il fatto di essere portatrici di vita. Sento l’universo femminile come un mondo più ragionevole, amorevole e accogliente.

L’aspetto negativo del femminile Non c’è una vera e propria peculiarità che rifuggo nelle donne. I caratteri negativi che mi vengono in mente e che possono darmi fastidio sono aspetti da imputare sia agli uomini sia alle donne: sui difetti non trovo che ci siano differenze tra i sessi.


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A proposito del femminile Massimo Ghini

Femmina, femmina... Un talento femminile del vostro mestiere Mia moglie Paola mi dice sempre: “Sei tu la vera donna di casa”, e ha ragione: sono un esteta e ho un’attenzione maniacale per i dettagli. E poi, per esempio, sono più materno che paterno… Credo di avere, sotto tanti punti di vista, un ego femminile. Gli attori, per loro natura, sviluppano una lato al femminile. Siamo talmente deboli dal punto di vista psicologico: spesso ci troviamo a dover interpretare il ruolo di quello che non siamo e ostentiamo sicurezza, mentre la verità è che siamo fragili.

L’aspetto attraente del femminile

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Credo che sia proprio la femminilità stessa. Bisogna considerare e rispettare quella differenza di essenza tra i generi - la mascolinità e la femminilità - che ci rende unici. Ultimamente purtroppo c’è un po’ di confusione, stiamo mescolando i ruoli… Io sono cresciuto in un universo femminile: mia madre, le mie sorelle, tutte donne con una grande forza. Mia mamma è stata una donna separata nel ’57, lavorava e tirava su tre figli; era una donna sempre in prima fila, che è stata anche licenziata per le sue idee politiche… Ma allo stesso tempo era una donna sempre molto elegante e molto ‘femmina’, attenta all’aspetto e ai vestiti. È bello riuscire a mantenere quell’unicità che ti fa uomo o che ti rende donna, con una propria connotazione.

L’aspetto negativo del femminile L’aspetto che un po’ mi infastidisce è proprio la contraddizione che spesso si vive nei confronti dell’atteggiamento di cui ti dicevo prima: quando la donna nega di proposito la sua femminilità. Il percorso storico e culturale compiuto dall’universo femminile verso l’emancipazione è stato giustissimo, ma in un certo senso ha complicato ancora di più i rapporti e un naturale modo di essere.


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Quaderni della Pergola Materiale raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Dalila Chessa, Adela Gjata, Carlotta Guidi Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli La fotografia di copertina, l’album fotografico Dal palcoscenico di “Una casa di bambola”, la fotografia della seconda di copertina e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini La fotografia a pag. 10 è di Chiara Zilioli La traduzione dal francese dell’intervista ad Éric-Emmanuel Schmitt è di Clara Bianucci

Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Maurizio Frittelli, Raffaello Napoleone, Duccio Traina Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci Direttore Generale Marco Giorgetti

L’introduzione al Quaderno a pag. 2 di Concita De Gregorio è tratta da Una madre lo sa. Tutte le ombre dell’amore perfetto (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2008) Nella sezione dedicata a Toulouse Lautrec sono state inserite le seguenti immagini: Divan Japonais 1893, Jane Avril 1893, The Seated Clowness (Mademoiselle Cha-UKao) 1896, ©Museum of Fine Arts, Budapest 2015 Gli Speciali Cinema dedicati a Francesca Archibugi, Carlo Verdone e Claudia Gerini sono stati ispirati dagli incontri con gli artisti condotti da Mario Sesti nell’ambito della Mostra del Cinema di Roma e del Cityfest 2016 di Roma Per le pagine dedicate a Azar Nafisi si ringrazia il Festival Pordenonelegge 2015

© 2015 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA © 2015 EDIZIONI POLISTAMPA

Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 7378711 (15 linee) info@polistampa.com www.polistampa.com

Per l’album Dalle prove di Una casa di bambola si ringrazia il Teatro Franco Parenti di Milano Si ringraziano per la collaborazione Gabriele Guagni, Simona Mammoli, Silvia Martin, Costanza Venturini


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.


Siamo brutti, ma la vita è bella... Toulouse Lautrec


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