Quaderni della Pergola | 1
Il nuovo numero dei Quaderni della Pergola
2. Stefano Benni
ha per tema la fantasia.
3. Claudio Longhi
La fantasia è l’ingrediente prezioso ed
6. Ugo Chiti
immancabile nel fare il teatro.
8. Alessandro Preziosi
Ed è anche spesso ingrediente necessario
11. Valeria Solarino
per accedere da spettatore alla visione di
13. Giulio Scarpati
ciò che accade sul palcoscenico del teatro.
17. Alessandro Benvenuti
La fantasia è un viaggio nell’inverosimile
19. Gianluca Ferrato
dove tutto è possibile, ci salva dall’orrore dei
23. A cercare l’ippogrifo
nostri tempi e dalla ripetizione di schemi quotidiani, sociali, consolidati ed imposti. E’ la fantasia che spinge i bambini ad incontrare e sperimentare ogni angolo di questa Vita. E’ un dialogo intimo; ognuno ha il proprio, unico ed irripetibile. L’arte vive e si alimenta di fantasia; ma anche l’uomo senza fantasia è condannato a morire. In questo numero, metteremo alla prova la
32. Il Teatro della Toscana al Fringe Festival 34. Barnaba Fornasetti 36. Meryl Streep 39. Tom Hanks 42. Viggo Mortensen 45. Impressioni (intime) d’autore 49. Paola Cortellesi 52. Renzo Arbore 55. La Storia racconta...
nostra capacità di fantasticare, come nostra
57. Il mimo Grey
abitudine, attraverso i racconti di registi,
60. Virgola
attori, star di Hollywood, scrittrici, mimi,
63. Dietro al sipario della fantasia
illustratori, pittori, fotografi e visionari
64. La parola al pubblico
antichi e contemporanei.
65. Muriel Barbery
Nessun giudizio è ammesso ma solo
69. Dal diario di una giovane scrittrice...
applausi per chi ha ancora oggi coraggio di
71. Pablo Picasso
osare…
74. Glauco Mauri
E così buona avventura!
76. Ritratti di fantasia
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Dove ancora non sei stato... di Stefano Benni
E
ra ormai mezzanotte, ho provato ad appisolarmi ma sopra di me sentivo i passi del nonno che ballava il tango con la sua fantasmessa spagnola. Che esista o no, è un gran passatempo per lui. Balla con donã Lupinda due volte alla settimana, ed è una bella compagnia. Si può essere innamorati di un fantasma? E di una persona vera? E cosa distingue una persona vera da un fantasma? Avete letto il Manuale di caccia al fantasma di Hector Plasma? No? Per forza l’ho inventato io. Avete scoperto un’altra mia piccola mania. Invento libri e racconto di averli letti. Fingo così bene e li rigiro nel cervello così a lungo che forse a quel punto potrei anche scriverli. Ma fantasticare è piacevole, scrivere è faticoso. da Margherita Dolcevita, Collana I narratori, Feltrinelli 2005
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
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Claudio Longhi POSSIBILI VISIONI di Angela Consagra
Nei suoi spettacoli, il racconto della Storia – quella con la esse maiuscola – viene sempre legato all’elemento fantastico? Non credo che si tratti di una scelta precisa, non c’è mai stato un ragionamento esplicito in questa direzione. È una di quelle cose che accade e dal momento che avviene ripetutamente, c’è da chiedersi quale possa essere la ragione profonda che sta alla base di una determinata scelta. Sicuramente è il desiderio di accogliere, in maniera più
“Credo che lo spazio sia fondamentale per le mie regie: si parte da un luogo fisico per immaginare come poterlo usare in direzione fantastica e funzionale alla rappresentazione” o meno consapevole, una piccola eredità brechtiana proprio nella direzione che dà Brecht dello straniamento e che può essere intesa in tanti modi diversi. Una delle possibilità è quella di prendere una storia e di travestirla, spostandola nel tempo. Penso, per esempio, a quando Brecht racconta di Hitler, del disastro della Seconda Guerra Mondiale e della spedizione di Stalingrado: la narrazione avviene attraverso l’Antigone; anche ne La resistibile ascesa di Arturo Ui, Brecht opera un travestimento: la vicenda di Hitler diventa la vicenda di un gangster americano… Si assiste comunque alla contaminazione tra l’elemento re-
ale e una sovracostruzione fantastica: un’operazione che allontana il racconto, ma con l’obbiettivo di far capire meglio quello che è successo. Il travestimento fantastico serve un po’ come una lente di ingrandimento, in modo da rendere più chiare determinate dinamiche. Per la nostra ritrascrizione fantastica della Storia, credo che agisca molto probabilmente un modello di questo genere: è una dinamica strana quella che si crea, sostanzialmente è una forma di allontanamento e avvicinamento al tempo stesso. Se allontani una cosa la vedi meglio perché riesci ad oggettivarla: si crea allora una distanza fantastica, in cui i messaggi divengono più chiari.
Registicamente qual è il primo aspetto su cui si sofferma? Non ci avevo mai pensato prima, ma credo che lo spazio sia fondamentale nelle mie regie: si parte da un luogo fisico da usare però in direzione fantastica e funzionale alla rappresentazione. Anche la musica è un elemento importante, sotto vari profili: aiuta gli attori a stare insieme sul palco, spinge a ragionare sui problemi di ritmo e di atmosfera, ha una forte capacità di comunicazione… Mi viene in mente una poesia che elenca proprio quali ingredienti occorrano per elaborare una poesia: si parte prendendo un piccolo fatto vero, possibilmente fresco di giornata, e si finisce dicendo che il poeta debba scrivere con un’incisiva forza icastica, tale da imprimersi nella mente del lettore. Si conclude con le parole: “Attento, tu che leggi, manda a mente”, allo stesso modo la musica è uno dei modi attraverso cui si può dire allo spettatore: “Attento, tu che guardi, manda a mente” perché il suo potere evocativo è talmente incisivo… E questa è anche esattamente la ra-
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gione per cui Brecht usa la musica nei suoi spettacoli. Un altro fattore molto importante negli ultimi lavori che ho fatto è la collaborazione con il gruppo di attori che costituiscono l’ensamble
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
di Carissimi padri...: insieme cerchiamo un modo particolare di lavorare, di stare dentro agli spettacoli e alla città che li ospita. Seguiamo un principio di coralità che è visceralmente calato dentro le dinamiche di costruzione
degli spettacoli stessi, con dei lavori di gruppo sulle drammaturgie e sulla promozione delle stesse. Il fatto di coinvolgere anche parte della cittadinanza nei nostri spettacoli è legata ad un’idea didattica del fatto teatrale, nell’accezione più alta e nobile del termine. Io ho fatto tante cose nella vita, lavorando quasi sempre intorno al teatro, trovandomi ad attraversarlo da tanti punti di vista e forse uno dei ruoli in cui più mi riconosco è quello del professore. Penso che ci sia bisogno di insegnare e di formare il pubblico; anzi questa costituisce una grossa resp ons abilità per noi teatranti: soprattutto quando avviene che la proposta di insegnamento - il messaggio serio che si vuole trasmettere - possa essere letta in una chiave divertente e giocosa.
All’attività di regista, Lei unirà anche l’attività di Direttore dell’Emilia Romagna Teatro… È una nuova sfida ma anche, come succede spesso nella vita, un passo che arriva dopo tanti passi che portavano in
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quella direzione… Squarzina diceva che essere direttore di un teatro è qualcosa di simile alla regia: è come occuparsi dell’educazione teatrale di una città. So che quando parlo di educazione scatta-
l’idea del puro spettacolo in sé, svincolato dall’idea di un progetto e di un gruppo da portare avanti, mi stava stretta. Se amiamo questa esperienza che è il teatro e vogliamo cercare di difenderla, biFOTO FILIPPO MANZINI
no dei sospetti, anche di tipo paternalistico: le parole educazione e ideologia sono state impropriamente rottamate, invece sono termini che dovremmo continuare ad usare perché ancora sopravvivono. È un’operazione registica anche concepire una stagione o una programmazione, come se fosse una sorta di grande spettacolo trasversale che abbraccia tanti spettacoli diversi al suo interno e che si articola dentro una rete paranarrativa costituita dal progetto globale. Tutto ciò credo che abbia a che fare con una revisione dello statuto del regista e della sua identità: da tempo
“Se amiamo il teatro e vogliamo cercare di difenderlo, bisogna impegnarsi anche politicamente, prendendo posizione all’interno di una città” sogna impegnarsi anche politicamente, prendendo posizione all’interno di una città. È così che intendo la concezione di direzione di un teatro: non so se poi avrò gli strumenti o la capacità per farlo, ma è forte la voglia di provarci e mettermi in discussione.
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Ugo Chiti LA SCINTILLA DI UN’IDEA Il suo sodalizio con l’ensemble di attori di Arca Azzurra va avanti – in maniera continuativa – dal 1982, tanto che ormai viene definito “autore di compagnia”. In effetti il mio ruolo è quello di essere l’autore di compagnia, cioè colui che scrive e inventa dei personaggi per delle persone di riferimento e avendo quindi bene in mente determinati fisici, delle voci e delle personalità chiare e definite. E poi, soprattutto, l’autore di compagnia persegue una certa progettualità che, da sempre, è uno degli elementi caratteriz-
“Devo avere una visione preliminare dello spazio e della scena, allora sono tanti gli elementi che arrivano, a volte sono addirittura eccitanti” zanti dell’Arca Azzurra. Un rapporto di questo tipo è possibile solo quando esiste una fiducia reciproca: l’attore dà la sua possibilità a incontrarsi su tutti i piani con il regista, quindi è una situazione proprio di fusione.
Un aspetto che caratterizza la scrittura, e di riflesso, la compagnia è l’analisi di alcune tematiche che ritornano nei suoi spettacoli: il recupero della lingua toscana e della memoria
contadina, un lavoro di riscrittura originale sui classici della letteratura… La scrittura alta o colta costringe ad una sorta di spiegazione interna, a un ritmo che deve essere corretto, quindi per quanto mi riguarda diventa antiteatrale. L’uso di una lingua dalla connotazione popolaresca o dialettale arricchisce perché tu non sai se quella parola strana è uno sbaglio grammaticale o se è un elemento di invenzione, allora ti dà più possibilità espressive. Così hai l’opportunità di far arrivare violentissima la narrazione, di darle un carattere forte, oppure di renderla sospesa e allusiva.
Come vive la fase preparatoria di uno spettacolo? È sempre molto difficile iniziare la scrittura, ma non tanto la fase che la precede. Io devo avere una visione preliminare dello spazio e della scena, allora sono tanti gli elementi che arrivano, a volte sono addirittura eccitanti; magari sto in treno e arriva un’idea: può essere l’annotazione per una scena o un costume, poi nascono dei frammenti e della battute… La fase delle prove per me è sempre felicissima perché si tratta di una scrittura ‘viva’. Scrivo pensando subito alla regia teatrale: ho già in mente l’immagine della scena ed essendo stato anch’io attore recito le diverse battute. La macchina della regia cinematografica è molto più complessa: anche se il regista è quello che in assoluto decide tutto, è la troupe che muove lo schema del cinema. L’organizzazione è affidata ai capigruppo di ogni settore che a loro volta hanno tutta una gerarchia dietro, perciò il regista domina ma nello stesso tempo è anche lui consegnato agli altri.
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La sua scrittura ha questi due registri: l’aspetto drammatico, che fa riflettere, e la parte più ironica. Qual è l’effetto più difficile da ottenere? La paura del ridicolo mi rende automaticamente critico: quando sento che tutto potrebbe scivolare nella drammaticità più assoluta, in modo quasi spontaneo riesco a cambiare
dolore e questo in qualche modo alleggerisce il racconto, ma ne aumenta anche la tragicità. È un meccanismo automatico; nel momento in cui uno
“La paura del ridicolo mi rende critico: quando sento che tutto potrebbe scivolare nella drammaticità, cambio prospettiva”
FOTO FILIPPO MANZINI
prospettiva. Io per natura sarei anche diventa troppo invasivo, spunta l’altro, una persona incline ad entrare nei la- e allora avviene un incastro: quanbirinti del drammatico, ma nella scrit- to di drammatico, quanto di comico… tura è come se risuonasse automatica- Ahimé, è la misura del vivere, uno gemente un campanello di allarme che nera l’altro. mi fa alleggerire il tono. Allora una cosa alimenta l’altra; l’elemento troppo ironico mi porta a un desiderio di spengergli la luce all’improvviso, o di gettarlo in una situazione meno rassicurante, e invece l’elemento troppo drammatico mi fa allontanare: è come una sorta di fuga dalla percezione del
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Alessandro Preziosi VERTIGINE DI SOGNI In Romeo e Giulietta, Lei interpreta Mercuzio, un personaggio pieno di fantasia… Si dice che Shakespeare scrivendo questo personaggio si sia lasciato prendere un po’ la mano, nel senso che si tratta di una figura in cui si riscontra tutta la sua forza provocatrice dal punto di vista letterario e in cui si manifesta in maniera estemporanea il gioco della parola teatrale. Mercuzio è l’equilibrio tra la dolcezza, il sogno e il suo rovescio, che è quello di essere un incubo acido. Mercuzio rompe la storia, e la sua morte la incanala nella tragedia. È un perso-
“Per essere attori occorre sostenere una tensione continua verso la fantasia o meglio la follia, che rappresenta il coraggio che ci vuole per affrontare il palcoscenico” naggio osceno, nel senso che fa cose fuori dalla scena… Il mio compito è quello di far arrivare il personaggio fuori dal palco, in modo che non sia una figura autoreferenziale: perché sia teatralmente poetico questo personaggio deve andare verso il pubblico, l’altra faccia della medaglia… Ho letto una volta una cosa estremamente interessante: Shakespeare ha dovuto far morire Mercuzio per non morire lui stesso…
Chi è la Regina Mab, del celebre monologo pronunciato da Mercuzio in Romeo e Giulietta? In uno dei monologhi più famosi della storia del teatro, quello della Regina Mab appunto, lui parla di sogni e la sua fantasia si combina in maniera molto leggibile con un aspetto anche macabro. È l’inintelligibilità dei concetti a renderli belli. Si racconta del sonno del pomeriggio: perché il sogno se lo rintracci nel diurno hai tutto il tempo per rielaborarlo. È l’altra faccia dura e cruda dell’amore. Prima della morte di Mercuzio la tragedia stenta a partire, c’è una specie di irrisione sotto il profilo narrativo anche del concetto di tempo: è come se, attraverso questo personaggio che Shakespeare mette in scena, si preparasse la molla del tempo che fa scattare il congegno drammaturgico. La mancanza di tempo diventa allora una sorta di ossessione da parte di tutti i personaggi. Shakespeare è stato il primo autore che ho affrontato all’inizio della mia carriera, ho interpretato Amleto e prodotto un Sogno di una notte di mezza estate, La dodicesima notte e chissà quanti altri Shakespeare farò… È un autore che rappresenta una fonte di studio molto importante per gli attori, capace di sostenere e formare il rapporto esistente tra recitazione e pensiero. Shakespeare ti suggerisce una dimensione verticale dell’esistenza, nel senso che attraverso la sua scrittura l’approfondimento è continuo e non si smette mai di scoprire nuove cose.
Per costruire l’interpretazione di un personaggio, quanto conta la fantasia? Più che di semplice fantasia, io parlerei proprio di capacità di creare… Bisogna avere una grande immagina-
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zione per riuscire a capire e sviluppare un personaggio. La fantasia è qualcosa che appartiene al nostro intimo; in particolare, io sono una persona che nel quotidiano fantastica molto e invece quando lavoro sto con i piedi per terra: ho ben chiaro ciò che voglio comunicare con la recitazione e mi muovo sempre da un presupposto dichiaratamente fantastico. Per essere
forza, senza un’adeguata tecnica si finisce per fare un incubo o un sogno pomeridiano che ti allontana dal mestiere. Non credo di essere un metodico. Ogni volta io inseguo un pretesto, cerco qualcosa, ‘quel qualcuno’, per non pensare a quel passo inevitabile verso il palcoscenico. Ottenere la concentrazione necessaria, con il tempo è diventato un qualcosa che si innesca FOTO JASMINE BERTUSI
attori occorre sostenere una tensione continua verso la fantasia o meglio la follia, che rappresenta il coraggio che ci vuole per affrontare il palcoscenico.
Nel mestiere di attore, quanto c’è spazio per la tecnica e quanto per l’immaginazione? L’una è il presupposto dell’altra. La tecnica permette all’immaginazione di potersi esprimere in tutta la sua
“Shakespeare suggerisce una dimensione verticale dell’esistenza, si scoprono sempre nuove cose” rapidamente e sono diventato più sicuro, ma il giorno in cui smetterà di battermi forte il cuore credo che dovrò lasciare il passo ad un altro. Sento il direttore di scena quando chiama i 5 minuti che mancano per salire sul pal-
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co e vivo quei momenti proponendomi ogni sera un obiettivo sempre diverso, di miglioramento e di assestamento di tutte le cose.
che dimostrino un’attenzione forte e coerente nel campo dello spettacolo dal vivo, in tutte le sue declinazioni, utilizzandone anche tutte le possibili applicazioni multimediali. Non a caso la nostra società si chiama KHORA, proprio per ribadire il senso della collaborazione con cui siamo abituati a lavorare. Per noi vale lo scambio reciproco di idee e competenze, ed è stata proprio questa sollecitazione a determinare la natura della scelta di unirci: insieme decidiamo, insieme soffriamo e gioiamo…
Quanto la popolarità può influire sul mestiere di attore?
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Insieme al suo compagno di scuola Tommaso Mattei e ad Aldo Allegrini, Lei ha fondato KHORA.teatro, una Compagnia di produzione teatrale… La nostra società è nata con il tentativo di riuscire a collaborare con tutte quelle persone che sono vicine al nostro comune interesse ovvero
Credo che la popolarità vada ben oltre quello che è il mestiere, il percorso più concreto di un attore, ma si tratta di qualcosa che viene ancor più accentuato basandosi sui tanti aspetti mediatici che influiscono sul mondo dello spettacolo. La popolarità rischia di farti cambiare la percezione della realtà delle cose: può provocare una trasformazione della tua identità, soprattutto rispetto a come gli altri ti vedono.
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Valeria Solarino ANIMA GENEROSA Occorre avere fantasia per esprimersi nel suo mestiere di attrice? Sì, è importante avere fantasia per riuscire a ricreare delle emozioni in scena. È necessario andare a ricercare quelle immagini legate alla propria esistenza, che fanno parte di te, perché le hai lette o vissute: la fantasia ti aiuta nell’elaborazione scenica, insieme ad un’estrema concentrazione. In modo diverso, sia al cinema che in teatro, quello che gli attori tentano di fare è ricreare
Quanto spazio c’è nel suo mestiere per la tecnica e quanto per la fantasia, l’improvvisazione? La tecnica in teatro è importante perché è la base, è quello che ti insegna la scuola. In realtà però ciò che costituisce un’interpretazione è dato dall’essenza della persona: attraverso di te passano le parole, le azioni, tutti i sentimenti, che costruiscono una storia. La tecnica è un po’ come quando impari a camminare: si tratta di un movimento basico, però poi ognuno lo sviluppa in maniera differente. E lo stesso vale per la prepaFOTO FILIPPO MANZINI
“Mettere una parrucca con largo anticipo, collocare oggetti in camerino: piccole certezze che contribuiscono a togliermi agitazione e che mi danno sicurezza” una verità: anche se non sei davvero tu quel personaggio che interpreti, le nozioni che sei chiamato a comunicare al pubblico devono essere sincere come se le stessi vivendo in quel momento. Credo che agli attori serva anche il sentimento della generosità, proprio per veicolare delle emozioni. Se gli attori riescono a provare veramente con passione ciò che raccontano sul palco o un set, magari davvero arrivano a toccare il cuore del pubblico. Allora la recitazione non è soltanto una rappresentazione, ma qualcosa di vero.
razione alla scena: la ritualità che ti porta in camerino a vivere quei momenti in attesa del palcoscenico si crea in modo irrazionale. Per esempio, io stessa ho scoperto di fare alcune cose mentre aspetto che inizi lo spettacolo e le ripeto sempre: non è scaramanzia, ma ho capito che certe cose fatte in certi orari mi danno tranquillità… È importante ricercare la concentrazione massima, allontanando tutto quello che ti distrae: se mi do delle regole, la concentrazione arriva. Mettere una parrucca con un largo anticipo, collocare alcuni oggetti in
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camerino: sono tutte cose pratiche ma che contribuiscono a togliermi agitazione, delle piccole certezze che mi danno sicurezza. È come se in questo modo si potesse ricreare un ambiente protetto e così iniziare a lavorare.
ovvero quella che cammini e chiunque ti riconosce per strada portandoti a vivere una vita fuori controllo… Mi fa piacere quando qualcuno mi ferma: so che hanno seguito il mio lavoro, non è una popolarità venuta dal nulla… Sento che
“Se gli attori riescono a provare con passione ciò che raccontano, arrivano a toccare il cuore del pubblico. Allora la recitazione non è solo una rappresentazione, ma qualcosa di vero”
c’è un affetto e un impegno da parte del pubblico nei miei confronti: magari mi ha conosciuto in un film, poi è andato a cercarmi in un altro ruolo, anche in alcune parti difficili da ritrovare… Forse la popolarità, così come i tanti complimenti, hanno effetti negativi per l’attore perché possono indurre ad adagiarsi un po’ sugli allori: allora si tende a dare per conquistato il mestiere e invece ogni volta che l’attore comincia un lavoro è come se ricominciasse completamente tutto da capo… Dopo aver raggiunto con il tempo e l’esperienza un certo grado di maturità e di consapevolezza, si riparte sempre da zero. Ogni volta che entro in scena, so che devo dare il massimo, esprimendo tutta la mia interiorità.
Il pubblico: una sua definizione. Diciamo che senza il pubblico, noi attori non avremmo motivo di esistere. Il pubblico dunque è la cosa più preziosa che abbiamo.
Da attrice, come si vive la popolarità legata al suo mestiere? Io non ho una popolarità assoluta,
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Giulio Scarpati VERITÀ,PASSIONE, PRESENZA Nel suo mestiere quanto conta l’improvvisazione? I testi da interpretare si arricchiscono con il tempo perché tu, attore, sul palcoscenico scopri sempre qualcosa: una battuta detta in un modo diverso, un gesto particolare, ti permettono di scavare sempre un po’ di più e di trovare un tuo senso. La parte creativa è legata all’immaginazione interiore, un attore la sperimenta tutte le sere per-
“È bello quando il pubblico arriva a leggere i pensieri del personaggio e capisce anche quello che non dici” ché il pubblico reagisce diversamente e anche tu sei diverso, replica dopo replica; se arrivi a conoscere bene il personaggio, qualunque cosa accada di imprevisto sai come il personaggio potrebbe reagire: improvvisi, ma sempre restando dentro a quello che è il ruolo. L’improvvisazione fa parte di un’abitudine, quella del racconto. Il pubblico, che tutti i giorni è differente, vede lo spettacolo sempre come fosse la prima volta ed il compito dell’attore è di proporre ad ogni replica la stessa immediatezza di comunicazione. L’aspetto più complicato è riuscire a far sembrare che un’azione, imparata a memoria dopo mesi di prove, è come se accadesse in quel preciso momento. Devi sempre reinventarti e dare
freschezza alla battuta: questa è la parte più difficile del mestiere di attore.
Un attore come fa a non perdere mai questo istinto alla creatività? Non devi mai pensare di aver risolto qualcosa in scena: il sentimento che trovi è sempre una soluzione aperta perché il massimo non si raggiunge mai. I grandi interpreti della storia del teatro sono stati capaci di recitare rivelando una grande capacità di penetrazione dell’animo umano ed entrando nella complessità del racconto, attraverso però una estrema semplicità espressiva. È bello quando il pubblico arriva a leggere perfino i pensieri del personaggio e capisce anche quello che non dici: senti allora che un percorso emotivo è stato attivato. L’obiettivo del teatro è il pubblico: le storie che vengono raccontate devono emozionare gli spettatori facendoli ridere o piangere, così come la scelta delle scene e dei costumi: tutto il lavoro teatrale è fatto per il pubblico. Se la platea che hai davanti non ti ascolta e non partecipa, allora si tratta di un teatro morto o che comunque non ha ragione di esistere. Senza pubblico non c’è teatro.
Come vive il camerino e quella delicata fase, per un attore, di preparazione alla scena? Le tecniche di concentrazione per la scena sono talmente varie e diverse per ogni attore… A volte mi capita di scherzare fino all’ultimo istante prima di entrare in quinta, altre volte ho bisogno di stare più per conto mio… Il camerino vive l’angoscia dell’attore che ogni sera deve riuscire a provare la stessa intensità di emozioni, anche in quelle occasioni in cui lo stato d’animo da cui si parte è pieno di altre cose… Dovresti cercare di ripulirti completamente dalle ansie e dalla quotidianità per entrare nel per-
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sonaggio e salire sul palcoscenico, che è una zona franca di libertà. Però non sempre è facile: magari stai vivendo un tuo momento di sofferenza personale e ugualmente devi entrare in sintonia con quel racconto che sei chiamato ad interpretare, che ti allontana da te stesso. In questo senso il teatro è una vera magia: nel momento che entri sul palco
“Devi sempre reinventarti e dare freschezza alla battuta: questa è la parte difficile del mestiere di attore” le tue problematiche passano subito in secondo piano e diventa importante solo una cosa: comunicare i sentimenti del personaggio che stai raccontando. E se lo fai con verità e passione, il pubblico in un certo senso ti autoalimenta e ti fa restare sempre di più in quella storia.
La sua valigia d’attore oggi è diversa rispetto a quando ha cominciato? Prima di tutto la mia valigia oggi contiene l’esperienza che ti dà veramente tante cose: direi che si possono chiamare certezze, anche se quel tremore prima di iniziare lo spettacolo non va mai completamente via
del tutto. Ho visto perfino un’attrice straordinaria come Giulia Lazzarini tremare alle prove di Strehler: ho sempre pensato che se capitava a lei, sicuramente la paura non abbandonerà neanche me e forse questo vale per tutti gli attori, proprio per costituzione. Questo batticuore che hai dentro ti spinge a non fermarti e a non pensare di essere un attore arrivato, anzi ogni sera senti ancora una volta in più che devi conquistare sul campo quello che
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sei. È una spinta interiore che ti mantiene vivo e che ti induce a scoprire sempre nuove cose, ad andare verso diversi
FOTO FILIPPO MANZINI
orizzonti, senza farti mai sentire appagato. Nella mia valigia inoltre ci metto le tante attrici e i tanti attori che ho visto
lavorare: Lucia Morlacchi, Anna Maria Guarnieri, Sergio Fantoni, tutte persone con cui ho collaborato e verso cui ho un debito di gratitudine perché con la loro bravura e professionalità sono riusciti a farmi comprendere qualcosa in più riguardo al mio mestiere di attore. Osservandoli quotidianamente dalla quinta mentre stavano in scena o recitando accanto a loro, mi hanno dato molto. Alla fine tutti loro rappresentano il tuo bagaglio ed è in questo modo che senti di preservare dentro di te la memoria teatrale… Il teatro è fatto anche di queste tante piccole cose impalpabili, che sono irripetibili perché appartengono ad una rappresentazione dal vivo, molto difficile da fissare. Una registrazione non ti restituirà mai quella certa emozione, però tu quel moto dell’anima l’hai vissuto dentro di te: ecco perché gli incontri che hai avuto sul palcoscenico ti danno esperienza e si sedimentano nel profondo.
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Alessandro Benvenuti OGNI SCOMMESSA, UNA MAGIA Che cosa significa per un attore interpretare un personaggio? È sempre un viaggio fantastico? Sì, è un viaggio che ti porta a capirti meglio e a renderti conto di quanta attinenza ci sia nei ruoli che interpreti con quello che è il tuo carattere. Quando ti ritrovi a dover recitare dei personaggi che mostrano dei grossi difetti, magari sei in grado di comprendere quanto questi difetti appartengano
“Il nostro è un lavoro di scavo e di conoscenza. La recitazione ti consente di crescere fino all’ultimo giorno della tua vita. E io vorrei continuare a crescere all’infinito” anche a te, per esempio… Studiare un personaggio è sempre una specchiatura di sé, vuol dire guardarsi dentro e capire quali siano le similitudini tra te e l’individualità che stai interpretando. Lavorare su un personaggio come Arpagone, il protagonista de L’Avaro, ti porta a fare delle riflessioni anche su quello che è il tuo rapporto con il denaro e con i figli… Questa considerazione vale quando ci si pone il problema di essere più veri e sinceri possibili in scena, allora il gioco di appropriazione del personaggio è maggiore e si finisce inevitabilmente a fare i conti
di quanto le sfumature espressive e caratteriali riguardino anche te. Il nostro è sempre un lavoro speculativo, di scavo e di conoscenza, quindi è meraviglioso perché ti costringe a riflettere su quello che sei e a dominare in qualche modo il tuo narcisismo. Il narcisismo è necessario all’attore, ma può diventare anche qualcosa di terribile, se non viene tenuto a bada. Io mi considero una persona estremamente fortunata perché il mio mestiere è quello che volevo fare da bambino e soprattutto perché la recitazione ti consente di crescere fino all’ultimo giorno della tua vita. Interpretare un personaggio significa mettere in atto un nuovo viaggio di conoscenza anche dal punto di vista tecnico: ogni sera superi uno scalino in più e capisci di essere cresciuto ancora… Io vorrei continuare a crescere all’infinito.
Forse un aspetto molto prezioso del vostro mestiere è che riuscite ad accendere anche la fantasia del pubblico… In scena viene raccontata la vita, che non è fatta di plastica ma è piena di sentimento. Noi attori siamo i rappresentanti ideali di chi ci sta guardando, siamo i rappresentanti dell’anima delle persone: il pubblico va al cinema o a teatro per vedere qualcosa che lo riguarda, ed è il pubblico stesso a decretare se ti vede oppure no come un suo rappresentante. Perché il matrimonio tra attori e spettatori si completi, bisogna che il racconto migliori entrambi. In fondo la funzione del teatro è sempre stata questa: un luogo dove si va per ascoltare, dibattere e crescere. Per fare il teatro è indispensabile che ci sia almeno un attore, ma anche almeno uno spettatore. È la regola primaria. Una volta, tanto tempo fa, mi è capitato che
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noi attori sul palcoscenico eravamo in quattro a fare lo spettacolo e il pubblico era costituito da una sola persona, Paolo Lucchesini, meraviglioso critico de La Nazione che poi è diventato un
se ne va, tu diventi meravigliosamente vuoto e pronto ad accogliere il testo che hai imparato a memoria. Non ho un approccio simile per tutte le sere. A volte gironzolo per il palcoscenico e parlo con tutti finché non si apre il sipario, a volte individuo quelle stupende poltrone nei camerini che ti consentono ti stare lì come una vecchia signora in attesa di essere chiamato per la scena, altre volte mi chiudo in un totale mutismo oppure butto gli occhi dietro la testa e li chiudo: vedo un buio totale pieno di geroglifici strani e da questa sorta di meditazione improvvisamente esco fuori con un’energia diversa… Ultimamente ascolto musica di tutti i tipi prima di iniziare lo spettacolo oppure mi perdo nelle persone che ho accanto: quando stai bene con gli altri attori, si è felici di andare in scena insieme e ci viene da ridere e scherzare… Ogni recita, ogni luogo, ogni sera, hanno un’anima. Io devo capire come entrare in relazione con ogni singola emozione, con l’atmosfera del teatro in cui mi trovo.
Se dovesse dire che cosa contiene oggi la sua valigia d’attore?
FOTO CARLOTTA BENVENUTI
mio amico. Noi abbiamo avuto quindi la nostra prima recensione esibendoci in un teatrino, L’Arcadia di Firenze, perché abbiamo fatto lo spettacolo per un solo spettatore…
Come ci si prepara ogni sera al mestiere di attore? Quando sento molto la pressione di ciò che sto per fare, io sbadiglio, e anche rumorosamente! Così la tensione
Tanto studio, tanti esperimenti… Ogni spettacolo per me è un esperimento nuovo, un continuo lavoro sulla drammaturgia naturalmente comica. Il minimo comune denominatore dei miei testi è essenzialmente la comicità, che di anno in anno matura. Per me la valigia di attore è un oggetto pieno di scommesse e che contiene tante buste chiuse: non so neanche io che cosa ci sia dentro, ma ogni tanto sento il bisogno di aprirne una e mi butto in un nuovo esperimento… Spero di riuscire ad aprirle tutte: so che sono lì, tante sorprese che mi aspettano, e sono felice di questa consapevolezza.
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Gianluca Ferrato OLTRE OGNI CLICHÉ... Guardando la sua interpretazione di Truman Capote, emerge un suo approccio al palcoscenico molto legato alla fantasia: a questo proposito Lei ha scritto che per la prima volta nella sua carriera è diventato, in qualche modo, una maschera…
Il suo mestiere di attore le permette di diventare un individuo diverso, qualcosa che ‘è altro da sé’… È vero, interpretare sulla scena questo personaggio è stato, come direbbe Tania Cagnotto, un triplo avvitamento con salto carpiato! Quando arrivi a vincere una medaglia d’oro è qualcosa di estremamente prezioso, IMMAGINE CLARA BIANUCCI
È stata la prima volta nella mia vita in cui è avvenuta questo tipo di trasformazione. Ho fatto riferimento alla due straordinarie interpretazioni di Truman Capote fatte al cinema da Philip Seymour Hoffman e Toby Jones: ho amato i loro film, ma per la trasposizione in palcoscenico ho cercato di dimen-
“Se riesci a non perdere la forza creativa e a dominare tutta la materialità dell’esistenza, quando arrivi sul palco trovi la bellezza” ticarmele… Spesso si dice così agli attori: “Impara la tecnica e scordala!”; ecco perché, portando alla luce questa figura, ho cercato di proporre soprattutto quegli elementi che fiorivano in maniera naturale e suggeriti anche dalla potenza del testo di Massimo Sgorbani: parole che sono ben collocabili nella natura di questo personaggio, così irriverente, iconoclasta e anche malinconico. Anzi, per dirla con Pasolini, quella di Truman Capote era “una disperata vitalità…”.
e non tanto al cospetto degli altri ma davanti a te stesso. Per essere attori bisogna sapere osare, anche scegliendo di fare questo mestiere come più si desidera: per esempio io in passato ho fatto anche il musical e il cabaret con Michelle Hunziker, cioè quanto di più apparentemente lontano da Truman Capote, ma l’importante è fare tutto e il contrario di tutto… Questo può essere anche un aspetto pericoloso del mestiere perché in questo Paese devi essere sempre riconoscibile, tutti tendono a confinarti in un cliché. Io ho cercato di superare queste rigidità esprimendo me stesso e la mia fantasia diventando ogni volta in scena, appunto, altro da me.
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Per un attore che cos’è il personaggio? Costituisce ogni volta un viaggio fantastico o piuttosto una sfida? È un viaggio nella fantasia, nelle possibilità, nel privilegio e anche nella solitudine… Alla fine sei tu, solo con te stesso, a pronunciare le battute là sopra FOTO NERI ODDO
il palcoscenico e per citare Strehler “la parte devi dirla chiara e forte, fino alla fine…” Certo che il nostro mestiere è un privilegio perché puoi esprimerti attraverso quello che più ti piace e arrivare al cuore della gente: in questi ultimi anni ho monologato tanto, in spettacoli accompagnati dalla musica e che erano
dedicati a Mia Martini o a Lucio Battisti, quindi ho avuto la fortuna di raccontare cantando, ed il canto è sempre stata la mia passione. Sicuramente il rischio della ripetitività, quando proponi lo stesso spettacolo per tante sere, c’è, ma sta a te trovare sempre ragioni per salire sul palcoscenico… Aveva ragione Paolo Poli quando diceva che una volta che una cosa l’hai detta, l’hai detta, nel senso che non si può tornare indietro: il teatro non è il cinema, la parte non si può rifare, e questo è un aspetto magnifico del nostro mestiere perché tutte le sere ti porta a prepararti come se fosse la prima volta, o anche l’ultima... Strehler ci diceva: “Pensate che oggi sarà l’ultimo giorno, che non avrete un’altra chance…”: è un concetto forte perché se tu vai là sopra il palco pensando che alla fine morirai, sai che devi lasciare un segno. Per passare dalla quinta al palcoscenico, l’attore deve avere un gran coraggio: il coraggio di prendersi la propria vita sulle spalle, con la consapevolezza che sia una vita imperfetta, fatta anche di certi aspetti che non si vogliono dire ma che la recitazione svela con verità. E questo anche se sul palcoscenico si ricerca il verosi-
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mile, non il vero, e anche se questo mestiere te lo porti sempre dietro perché è qualcosa che non finisce in camerino. Noi attori abbiamo a che fare con le parole che sono la nostra salvezza: tutto passa attraverso la parola; per un poeta come Caproni, ogni linguaggio nasconde un inganno e quello della scena forse
di un nome famoso può minare la fantasia di questo mestiere: la contingenza e il quotidiano della tua vita tendono a sequestrarti, sei tu che devi essere bravo allora a non smarrire l’incanto… Se riesci a non perdere la forza creativa e a dominare tutta la materialità dell’esistenza, quando arrivi sul palco trovi la FOTO CLARA NERI
è il più grande. Oggi, abituati al cliché televisivo, le parole appaiono spesso come cadaveri e sta proprio a noi teatranti lavorare per ridargli vitalità e senso.
E’ difficile, quando si vive un blocco dal punto di vista artistico, ricreare quella fase più fantasiosa del mestiere? Le contingenze possono essere deleterie: il problema, per esempio, di mettere insieme il pranzo con la cena e di mandare avanti la propria piccola o grande carriera che sia… Avere un obiettivo da perseguire senza i vantaggi
bellezza. Il problema è che ormai stare là sopra, sul palcoscenico, è solo l’ultimo anello di un lungo e faticoso iter: devi sempre convincere gli altri che hai le carte in regola per farlo questo mestiere, trovando delle persone che credano nel tuo talento e ti diano una nuova possibilità. È difficile soprattutto perché ormai si scommette solo sui giovani: per scommettere sugli adulti ci vuole intelligenza ed è anche per questo che ringrazierò sempre Marco Giorgetti, Direttore Generale della Fondazione Teatro della Toscana, per avermi dato un’ulteriore opportunità.
Around here, however, we don’t look backwards for very long. We keep moving forward, opening up new doors and doing new things, because we’re curious... And curiosity keep leading us down new paths.
Da queste parti, comunque, non guardiamo indietro a lungo. Andiamo sempre avanti, aprendo nuove porte e facendo cose nuove, perché siamo curiosi... E la curiosità ci porta verso nuovi orizzonti.
Walt Disney
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A CERCARE L’IPPOGRIFO Tra letteratura, calcio e teatro
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Le galassie in copertina Urania, e la fantascienza in Italia
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a narrazione fantascientifica in Italia, lo si sa bene, non ha una grande tradizione tra gli scrittori, e come tutta la letteratura di genere ha sofferto nel nostro Paese di quella diffidenza “crociana” che le ha impedito di di diventare “letteratura alta”: questo nonostante i successi di un romanzo Riccardo come Le meraviglie del duemila di Salgari, nonostante l’impegno di scrittoVentrella ri di grande popolarità come Yambo, al secolo Enrico de’ Conti Novelli da Bertinoro, e Luigi Motta; nonostante penne nobili come quella di Giovanni Papini si siano cimentati in narrazioni di fantascienza e che agli albori del Novecento sia fiorita una piccola ma significativa produzione ripubblicata qualche anno fa dalla casa editrice Nord in un’antologia dal titolo Le astronavi dei Savoia. Poco serviva quindi richiamarsi all’Ariosto, e alle tante narrazioni fantastiche che immaginavano la Luna tra tardo Quattrocento e Seicento, mentre negli altri paesi, soprattutto quelli anglosassoni, il genere andava assumendo una propria, elevata dignità letteraria. La grande diffusione della letteratura di fantascienza internazionale in Italia inizia, invece, negli anni Cinquanta ed è legata ad un nome: Urania. Alla musa dell’astronomia, nonché protagonista di uno dei primi esempi di racconto fantascientifico moderno in Italia (Relazione del primo viaggio alla Luna fatto da una donna nell’anno di grazia 2057, scritto da Ernesto Capocci di Belmonte nella prima metà dell’Otto“I film di fantascienza sono stati cento), Mondadori dedicò a partire dal la porta di un mondo di evasione, 1952 una rivista di racconti e una collaracchiuso nel futuro o incastonato na di romanzi. Mentre la rivista visse lo tra le stelle, dove lo sguardo umano spazio di pochi numeri, la collana ebbe una fortuna immensa, che l’ha portata ha sempre desiderato di andare” nel tempo a toccare le centomila copie di tiratura. L’idea di Urania fu di Giorgio Monicelli, fratello di Mario, imparentato con i Mondadori in quanto la zia aveva sposato Arnoldo, il fondatore della casa. Traduttore dal francese, e appassionato del genere, inventò anche la parola fantascienza mutuandola dall’originale inglese, science-fiction. Il primo titolo pubblicato è Le sabbie di Marte, di Arthur C.Clarke, e in breve sequenza sono introdotti tutti gli autori dell’età classica del genere: Heinlein, van Vogt, Asimov, Hamilton e il controverso Hubbard, poi fondatore di Scientology. Il primo italiano ad essere pubblicato è Emilio Walesko con L’Atlantide svelata, seguito da Luigi Rapuzzi e Franco Enna, quest’ultimo prolifico e poco ricordato autore di genere. Nel 1958 uscì anche la prima pubblicazione in Urania di un autore di culto assoluto come Philip K.Dick, Il disco di fiamma. A Monicelli, in rotta con lo zio, successe Carlo Fruttero, presto raggiunto dal suo storico socio Franco Lucentini: i due
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guidano Urania nel periodo di maggior successo, quello contrassegnato dallo storico logo con la banda rossa e soprattutto dalle immaginifiche illustrazioni dell’olandese Karel Thole, fin dal 1959 illustratore delle copertine. Tanta parte del successo di questa collana deriva dalle inconfondibili illustrazioni di Thole, visionarie e colorate nel loro caratteristico oblò rosso che le incorniciava al centro della copertina bianca. Per nulla parenti della classica illustrazione di fantascienza americana degli anni Cinquanta, ricca di dettagli di astronavi e astronauti, le opere di Thole erano sospese tra metafisica e surrealismo, con tocchi ora di De Chirico ora di Magritte. Attraenti nella loro angosciosità, caratterizzano in modo ineludibile le varie uscite di Urania, il cui aspetto esteriore è uno dei grandi capolavori di quella straordinaria forma d’arte che fu la grafica editoriale in Italia negli anni Sessanta. La collana prosegue con grandi successi di tiratura anche negli anni Ottanta, quando a Fruttero e Lucentini succede Gianni Montanari, che implementa tra i classici anche alcuni nomi di autori contemporanei e della nuova onda cyberpunk, come William Gibson, e promuove un rinnovato movimento di scrittori italiani. Nonostante una flessione in tempi recenti, che l’ha portata a una periodicità mensile, Urania continua a sfornare almeno sei romanzi nuovi all’anno, alternandoli con i capolavori. La fantascienza si è spesso contaminata col fantasy, genere che oggi ha sicuramente un successo superiore; ma questi libretti inconfondibili, come già lo erano stati i gialli che dal loro aspetto avevano preso anche il nome, seppure esponenti di una passione settoriale, sono entrati nell’immaginario collettivo proprio per il loro esterno, per quei singolari disegni, per quella sottile banda rossa. Per molti sono stati la porta di un mondo di evasione, racchiuso nel futuro o incastonato tra le stelle, dove lo sguardo umano non arriva a vedere con mezzi normali ma ha sempre desiderato di andare.
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Il gioco delle parole e del caso
Matteo Cecchini rilegge Rodari con “La Gramma della Fanta”
di Matteo Brighenti
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a Storia non si fa con i se e i ma, le storie sì. La fantasia, gettata nella mente come un sasso nello stagno, provoca infinite reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni. E può essere insegnata e imparata da tutti, perché è di tutti. “Lo sosteneva Gianni Rodari, sicuramente ciò che più ci ha affascinato – afferma Matteo Cecchini – è l’idea che la fantasia non sia appannaggio di pochi, come invece voleva il Romanticismo, che ha creato un alone di mistero attorno al processo creativo, elevando gli artisti al di sopra di tutti”.
Esiste, dunque, una ‘grammatica della fantasia’. L’insolito accostamento può sembrare un ossimoro, eppure l’omonimo saggio di Rodari, dall’esplicito sottotitolo Introduzione all’arte di inventare storie, è il resoconto di attività di scrittura creativa realizzate dall’autore nelle scuole elementari attorno al 1970, discusse ed elaborate nei corsi di formazione da lui tenuti a docenti delle scuole di Reggio Emilia. Non si tratta di una gabbia per la creatività, ma di un “Fantasticare è diverso da fingere: percorso tra i sentieri dell’immaginario pensato per educare a produrre testi orifanno capolino le nostre ginali, anche sfacciatamente insensati, speranze per il futuro” e ha ispirato La Gramma della Fanta, lo spettacolo scritto da Aiazzi/Cecchini/ Tempestini, diretto da Matteo Cecchini e prodotto da Prospettiva Capaneo. In scena ci sono Giulia Aiazzi e Lorenzo Tempestini. “La Gramma della Fanta: ci piaceva come suonava, nel suo essere un po’ dada – racconta il regista – in più, visto che il primo spettacolo che io e Giulia abbiamo fatto s’intitolava Sogno di una notte di mezzo Estathè, ci è sembrato stupidamente divertente che in questo ci fosse di mezzo la Fanta”. Alla base delle tecniche descritte del maestro di Omegna c’è l’invenzione del ‘binomio fantastico’, già presente nel famoso Quaderno della fantastica del 1943 con l’espressione ‘duello di parole’, appresa dai Surrealisti francesi. Le parole non sono colte nel loro significato, ma estraniate, spaesate, liberate dalle catene verbali quotidiane e messe l’una accanto all’altra in un cielo mai visto prima. Allora sono pronte a generare una storia. Ne La Gramma della Fanta quel binomio è rappresentato da una ragazza, un’attrice, Giulia, che impersona se stessa in scena, e la scuola (l’istituzione per antonomasia). Accanto lei il suo fidanzato, nel frattempo diventato marito,
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Lorenzo. “Ci sono solo un tavolino nero e un toy piano – spiega Matteo Cecchini – Giulia s’affanna, Lorenzo sta. Le parole scelte a caso per il ‘binomio fantastico’ furono ‘ragazza’ e ‘maialino’. Sono state loro a esigere la coppia Giulia-Lorenzo, una coppia scenicamente reale”. La realtà si incrocia con la fantasia, che per Cecchini non ha niente a che spartire con la finzione. “A mio avviso – prosegue – la fantasia ha una dimensione mentale, la finzione, al contrario, assume aspetti concreti. Fantasticare è diverso da fingere: fanno capolino le nostre speranze per il futuro”. Giulia, dopo essersi presentata, rivela il suo sogno, avere un figlio, e si pone subito dalla parte di chi, forte della teoria, pensa di saper controllare tutto. Ben presto, però, si accorge che la pratica è un’altra cosa e che la variabile ‘vita’ ha FOTO ILARIA COSTANZO comunque il sopravvento. Il fantastico si screzia così di irrealizzabile. “Esatto – conferma Matteo Cecchini – come si dice nello spettacolo «l’unico modo per avere un figlio oggi è averlo qui (in scena)». Se l’idea di una fantasia democratica è stata il fulcro delle nostre riflessioni, successivamente ci siamo domandati quanto fosse utopica e/o concretamente realizzabile”. In una dimensione spazio-temporale quasi fiabesca, tra gioco, convenzione teatrale, follia, reali desideri, La Gramma della Fanta riflette, in definitiva, sulla fantasia non solo come espediente per fuggire da ciò che del mondo ci disturba, ma soprattutto come risorsa per comprenderlo e cambiarlo, nella contraddizione del nostro essere sempre alla finestra della sorte. “Tutto non dipende e dipende solo da noi – conclude Cecchini – per dirla con Rodari: «una storia può nascere da due parole, due parole scelte a caso, però bisogna saperle scegliere»”.
Giulia Aiazzi ne La Gramma della Fanta
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“La carne in te tremava, l’essere in te luceva” Valter Malosti e i mondi in scena di Testori e James
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a fantasia è una porta nella casa dell’Io. Aperta dall’artista perché il pubblico la attraversi e nell’eco di paure e desideri sia capace di riscoprire verità profonde, perdute. Per il regista e attore Valter Malosti, anima e direttore artistico della compagnia Teatro di Dioniso, il palcoscenico è la ferita dell’altro che abbiamo dentro e vuole uscire. “Il compito principale di chi fa teatro – afferma – è lasciare libero lo spettatore di costruirsi la sua propria fantasia. Per questo, le immagini, i suoni, le parole che uso sono ‘perturbanti’, travalicano l’ordinario”. I suoi spettacoli Le Maddalene. Da Giotto a Bacon e Giro
di vite. Concerto di fantasmi da Henry James, coprodotti con Orizzonti Festival 2016 di Chiusi, rappresentano un ‘dittico’ emblematico del tormento e insieme della redenzione di chiudere gli occhi del quotidiano per aprirne altri, nuovi, sui nostri conflitti più interiori e laceranti. “Come gli spettatori anche gli attori devono sapersi abbandonare – riflette Malosti – a quell’onda oscura e urgente che è alla base dell’atto creativo. La loro immaginazione è altrettanto fondamentale, sennò le parole sono vuote e le azioni solo pensiero”. La regia, allora, è simile al lavoro del direttore d’orchestra, segue una
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partitura composta dalla vita che si crea nello spazio del palcoscenico. E al pari delle grandi bacchette, Valter Malosti sa suonare anche uno strumento solista: è nato come attore ‘selvaggiamente’, a partire dalla fisicità e non dalla ragione, e all’inizio degli anni Novanta ha recitato per Luca Ronconi, un maestro esigente e generoso da cui ha appreso la capacità di leggere i testi e muoverli in scena. Le Maddalene e Giro di vite stanno così in perfetto equilibrio in zone pericolose, come funamboli che camminano sul vuoto lungo una corda tesa: dolcissimi e terribili. Nel libro d’arte Maddalena del 1989 Giovanni Testori compie un “un sunto, strozzatissimo, di storia dell’arte” lungo il cammino della Grande Peccatrice nei secoli. Un “maddalenesco tragitto” composto da schede sulle singole opere scritte in forma di poesia, schede-versicoli, come lui le chiamò, per una singolare opera letteraria, penetrante e istrionica, in cui l’autore disse di voler fare “il lingua in bocca” con le effigi pittoriche della Lagrimosa Redenta. “Mi interessano i materiali che abbiano una forza eversiva – interviene Valter Malosti – mi faccio “Come gli spettatori anche gli attori affascinare da ciò che sta dentro le padevono sapersi abbandonare role. Testori ha una violenza linguistica che mi dà subito la sensazione di un all’onda oscura dell’atto creativo” atto scenico”. Ne Le Maddalene in scena, accanto a lui, ci sono la danzatrice Lara Guidetti e Lamberto Curton al violoncello, che esegue dal vivo le musiche originali di Carlo Boccadoro, mentre il suono e live electronics sono di G.u.p. Alcaro. La parola si fa musica in questa indagine artistica e carnale: l’esecuzione di Malosti è rock, il ritmo è serrato, violento, in dialogo con la danzatrice, il video e le proiezioni dei quadri, sincronizzate con luci e suoni. Quasi una Maddalena è la protagonista di Giro di vite, dal romanzo di Henry James del 1898, un’istitutrice morta in circostanze misteriose che nel diario racconta le apparizioni di fantasmi ai due bambini affidati alle sue cure. Un ideale relitto di salotto borghese ospita Irene Ivaldi: indosso ha un desueto vestito a lutto ed è impedita nei movimenti da una piccola ‘gabbia’ di microfoni. Valter “Il compito principale di chi fa Malosti rende corpo le parole di James, teatro è lasciare libero lo spettatore parole il corpo dell’attrice, e corpo e parole insieme le luci e i suoni ancora di costruirsi la sua fantasia” una volta di G.u.p. Alcaro. “È un piccolo giallo soprannaturale, le frasi sono come degli indizi. Con Irene Ivaldi – precisa Malosti – abbiamo lavorato su una drammaturgia parallela che scorre dentro la protagonista. Si deve sentire la vibrazione di questa fremente donna imprigionata, veicolo di un’ossessione verso il bene, che alla fine sarà sconfitta”. Siamo di fronte a un ‘teatro sensibile’, dunque, diretto a colpire i sensi per interpretare e reagire: una vite che si conficca, penetra a volte non senza dolore, ma comunque consolida il coraggio di guardare al di là di quello che già conosciamo. (M.B.)
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Dall’altruismo alla fantasia Storia di Gigi Meroni, il beatnik del gol
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ell’ottobre 2017 saranno passati cinquant’anni da che il calciatore Gigi Meroni iniziò ad attraversare Corso Re Umberto, a Torino. Era domenica, nel tardo pomeriggio. Il Torino, la squadra di Meroni, aveva superato la Sampdoria in casa col punteggio di quattro gol a due, non senza difficoltà. I doriani, infatti, avevano rimontato per due volte i granata prima che negli ultimi dieci minuti Moschino e Combin, autore di una tripletta, indirizzassero la partita verso la parte torinista. L’allenatore Edmondo Fabbri, inaspettatamente, dette il rompete le righe, contravvenendo alla regola del ritiro post-partita. E Meroni si trovò ad attraversare Corso Re Umberto, insieme al compagno di squadra Poletti, per raggiungere una cabina dalla quale telefonare alla compagna Cristiana, onde recuperare le chiavi di casa. Giunti sulla mezzeria, i due arretrarono di un passo per evitare un auto, e furono investiti da un’altra che procedeva nel senso opposto. Poletti fu colpito di striscio mentre Meroni, preso in pieno, ruzzolò nell’altra corsia e fu colpito da una seconda automobile. Morì qualche ora dopo al Mauriziano dove l’aveva portato un passante, perché l’ambulanza era rimasta bloccata nel traffico. Finì così la vita terrena dell’uomo che aveva fatto conoscere all’ancor grigio calcio italiano la fantasia non solo dei colpi alla palla sul campo, ma anche quella della vita di ogni giorno. Ala destra, inserito a buon diritto nella grande dinastia degli specialisti italiani del ruolo che fa del saltare l’uomo in vista del cross la sua specialità (Meroni, Domenghini, Causio, Conti, Donadoni), Meroni era il classico figlio dell’Italia
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povera della guerra. Orfano di padre, nacque al calcio nell’oratorio e poi nel Como, nel mentre che si manteneva disegnando cravatte. Lo acquistò il Genoa che poi, tra le proteste dei tifosi, lo vendette nel 1964 al Torino per una cifra allora astronomica per un giocatore di calcio, e di soli ventuno anni. Il dribbling ubriacante e la velocità di esecuzione erano le grandi armi di Meroni, e lo rendevano difficilissimo da marcare. Più spiazzanti ancora, per il calcio puritano dell’epoca, erano i capelli lunghi, i baffi, alcune eccentricità (girava per Torino con una vecchia Balilla e sovente portava una gallina al guinzaglio) e soprattutto la relazione more uxorio con Cristiana, una ragazza straniera regolarmente sposata a un regista italiano, pur se in attesa di annullamento del matrimonio. Al Toro stabilì un’intesa immediata col centravanti argentino Nestor Combin: nella stagione 1966/67 segnarono insieme sedici reti, con Meroni miglior marcatore della squadra. Per il 1967/68 Meroni ritrovò un poco “Il dribbling ubriacante e la velocità gradito compagno odi strada, l’allenato- di esecuzione erano le grandi armi re Edmondo Fabbri, che da selezionatore di Meroni, e lo rendevano dell’Italia lo aveva fatto penare per continue discordie nell’infausta spedizione difficilissimo da marcare” ai mondiali inglesi del 1966, conclusasi con la disfatta coreana: Meroni aveva giocato una sola partita delle tre, quella con l’Unione Sovietica. Meroni mise comunque a segno subito una rete alla seconda giornata, la prima delle due che consentirono al Torino di superare il Brescia. Poi, dopo un pareggio a Firenze, la fatale partita con la Sampdoria. In ventimila presero parte ai suoi funerali, ostacolati dalla Chiesa per via del rapporto “proibito” con Cristiana. Per uno strano copione del destino, la giornata successiva aveva in programma il derby con la Juventus. Il match si chiuse con la vittoria del Toro per quattro a zero, miglior risultato della squadra dopo la tragedia di Superga. Tre reti le segnò il grande amico di Meroni, Combin, sceso in campo nonostante la febbre e la quarta Alberto Carelli, il nuovo numero sette. Di Meroni rimangono le foto che lo ritraggono puntare l’avversario, a calzettoni abbassati. Per uno strano scherzo del destino il suo investitore, l’allora giovane neo patentato Attilio Romero, diverrà nel 2000 presidente della squadra, dopo una carriera in Fiat che l aveva portato anche ad essere il portavoce di Gianni Agnelli, ovvero della concorrenza juventina. (R.V.)
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Cieli di Scozia Il Teatro della Toscana al Fringe Festival
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a ritualità dell’avvicinarsi ad Edimburgo è quasi sempre la stessa, una ritualità per l’appunto: il volo molto presto al mattino, da Pisa; il passaggio dall’estate italiana a quella scozzese, che assomiglia molto di più a una debole primavera; l’autobus a due piani che arriva in città dall’aeroporto, e costeggia il noto Murrayfield, il tempio del rugby; e poi il centro di Edimburgo, che pare proprio un altro mondo. Siamo tornati qui dopo tre anni e le due esperienze del 2012 e del 2013 con la Compagnia Francesca Selva e Maurizio Lombardi, ospiti del Fringe Festival. Non si può descrivere l’atmosfera del Fringe senza esserci mai andati una volta, un festival il cui programma assomiglia all’elenco del telefono di una città di medie dimensioni, dovendo ospitare oltre tremila spettacoli in poco più di venti giorni. Ogni angolo, ogni muro tappezzato di manifesti e locandine, la strada principale, il Royal Mile, invaso da quelli che fanno promozione per gli spettacoli. Il Fringe è una guerra di pubblicità combattuta con ogni mezzo ma soprattutto col passaparola, col misterioso diffondersi delle voci di bocca in bocca che decreta il successo o l’insuccesso. Siamo tornati qui con il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, che per la prima volta nell’anno del suo trentennale visita il Fringe grazie alla partnership con il Rose Bruford College di Londra per una personale di due settimane. Siamo arrivati di prima mattina, come sempre, e come sempre incontriamo il nostro referente, Carlo Pirozzi: abruzzese con studi fiorentini, si è trasferito qui alcuni anni fa per studiare i fenomeni di immigrazione italiana in Scozia e oggi lavora all’Università. Per noi è il vero sindaco di Edimburgo, conosce tantissima gente e la sua compagnia è fondamentale. Raggiungiamo il Workcenter che sta per debuttare con il primo lavoro, The Living Room, nella venue che ospiterà tutta la rassegna a loro dedicata. La “venue”, ovvero il luogo dove si fa lo spettacolo, è fondamentale al Fringe Festival perché da essa può dipendere il destino di una rappresentazione. Non c’è luogo durante la manifestazione che non possa trasformarsi in “venue”: oltre ai teatri ci sono i magazzini, i negozi, i fondi vuoti, le gallerie d’arte, le piazze e persino le chiese. Per il Fringe abbiamo individuato una delle più prestigiose, la Summerhall, ovvero la vecchia scuola reale di veterinaria riconvertita in un grande hub culturale per spettacoli, mostre e performance. Allungata ai confini dei tranquilli prati del Meadows, il grande parco del centro di Edimburgo, si trasforma durante il festi-
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val in un alveare con decine e decine di spettacoli, il cui programma giornaliero è aggiornato pazientemente dagli operatori su una grande lavagna. Il tempo di un caffè nel grande bar e già siamo in fila per entrare allo spettacolo. Le file al Fringe sono sempre piuttosto lunghe e molto disciplinate, perché ovunque tu sia hai sempre accanto un altro spettacolo in corso. Saliamo alla Upper Church, una nuova location dove non eravamo mai stati, e lì si dispiega la magia di The Living Room, una riflessione sulla creazione a partire da uno spazio intimo come può esserlo una stanza. Tra gli spettatori, disposti su sedie e divanetti tra le tartine, i dolcetti che fanno parte del clima ospitale evocato dallo spettacolo, si riconosce alla perfezione la “gente del Fringe”, una singolare miscela di persone di nazionalità diverse, dalle diverse motivazioni, ma unite dalla passione e dalla curiosità per il Teatro. Questa è la particolarità unica di questo luogo, il clima di fervore e complicità che unisce per un mese chi si avvicenda ad assistere agli spettacoli in programma. Una voglia di essere, prima ancora che di esserci, di scoprire ma anche di essere utile all’altro che ti sta accanto consigliandogli uno spettacolo. Il senso di comunità che si crea è un sentimento davvero unico, che solo qui si assapora a questo livello. Lo spettacolo finisce, la platea si scioglie quasi con riluttanza tanto era bello il clima che si era creato: ma è già tempo di andare verso un altro spettacolo. Con tutte le cose da fare noi potremo vederne un altro solo, sempre alla Summerhall, ed è già tempo di ripartire. Il Workcenter, invece, si è fermato ad Edimburgo fino all’inizio di settembre per presentare altri due lavori, alcuni film e per tenere un workshop. Noi abbiamo compiuto il percorso inverso, partendo sempre abbastanza presto: riportiamo il leggendario formaggio delle Isole Aran, che sarà messo a dura prova dall’estate italiana, e un senso di malinconica gioia per aver condiviso questi momenti unici. Una visita a Edimburgo non si dimentica mai. (R.V.)
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Barnaba Fornasetti IMPERFETTA ARMONIA È sua l’idea di un nuovo progetto legato a Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni: da dove nasce la fascinazione per quest’opera così rivoluzionaria? La fascinazione mi è stata trasmessa dal direttore d’orchestra, Simone Toni, che è praticamente nato sotto il segno di Mozart. E l’ho visto così appassionato che mi ha contagiato. Il Don Giovanni è forse l’opera più rap-
FOTO RAY TARANTINO
presentata al mondo e, anche se universalmente conosciuta, questa nostra proposta vuole dare una nuova interpretazione: la nostra ricerca mira ad
una messinscena più contemporanea dell’opera. Il Maestro Simone Toni ha studiato il libretto originale, con gli strumenti antichi, proprio per tornare alle origini di questa raffigurazione e conferire allo stesso tempo una maggiore contemporaneità. È una rappresentazione unica perché è la prima volta in Italia che il Don Giovanni viene allestito nella sua versione filologica integrale, utilizzando delle scenografie e dei costumi inediti.
Per la realizzazione delle scenografie a quali particolari riferimenti iconografici si è ispirato? L’elemento fantastico domina la realtà della scena? Mi sono ispirato al materiale dell’archivio Fornasetti che è molto vasto (più di 13 mila decori). Più che di ispirazione si trattava dell’imbarazzo della scelta. Il risultato è stato tradurre in immagine la visionarietà di Mozart interpretata da Simone Toni. L’elemento fantastico e metafisico domina sicuramente la scena sottolineando il ritmo della musica. L’artigianalità di Casa Fornasetti si riflette nella realizzazione scenica; del resto il teatro è già di per sé un’operazione di artigianato, in questa versione del Don Giovanni la manualità e l’abilità tipica dei Fornasetti vengono sottolineate ancora di più dal fortepiano di Mozart che abbiamo
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fatto riscostruire e che abbiamo decorato con le tecniche fornasettiane.
In che modo il suo lavoro si è accordato con gli altri elementi – regia, costumi, luci, musica… – necessari alla rappresentazione? Nel teatro tutto deve muoversi insieme, non ci sarebbe magia altrimenti. Di per sé il mio lavoro è stato quello
di decorare. Ogni elemento vive di se stesso; la scommessa è stata quella di trovare una chiave per fondere le varie componenti artistiche attraverso le immagini. E la prima rappresentazione del Don Giovanni (la versione praghese) ti permette di creare una perfetta armonia tra antico e moderno.
Che cosa significa per Lei accogliere l’eredità di suo padre Piero Fornasetti? Com’è cambiato questo storico marchio legato al design e alla decorazione, riconosciuto a livello internazionale? Ha significato raccogliere una realtà di immaginazione strabordante, un
metodo creativo praticabile anche oltre Piero e che ritengo estendibile in molti campi, anche al di là del design. Si tratta di una materia – la decorazione – che si può applicare in mille settori. Il teatro, e in particolare l’opera, mi sembrano per la loro natura i più congeniali.
“Nel teatro tutto deve muoversi insieme, non c’è magia altrimenti”
Per Filippo Timi, che nelle scorse stagioni ha realizzato uno spettacolo partendo da quest’opera, Don Giovanni ha una profonda coscienza di sé e più che nella sua tensione verso l’innamoramento va inteso nel suo rapporto con l’immortalità… Don Giovanni è innamorato di se stesso, ha bisogno di continue conferme. L’amore c’è, è fortemente presente, ma è rivolto verso di sé. Il mito di Don Giovanni è sicuramente intrigante e non smette mai di appassionare il pubblico perché, essendo un mito, non perde mai di splendore. Al mondo non esiste niente di più affascinante dell’amore e della morte, e Don Giovanni li incarna entrambi.
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Speciale Hollywood Attori a confronto
Meryl Streep THE QUEEN La sua formazione di attrice è cominciata con il teatro, in particolare collaborando con Joseph Pfaff e Mike Nichols… Da piccola pensavo di fare la cantante: mia madre il sabato mattina faceva un’ora di macchina per portarmi a New York a prendere lezione da una famosa insegnante di canto e così per due anni, fino a quando ho cambiato idea perché volevo fare la cheer leader! Ho cominciato la mia formazione di attrice con il teatro, anche se in realtà io non credo di essere formabile. Mi è subito capitato di lavorare con i più grandi registi del mondo tra cui Jose-
“Tutte le donne che interpreto meritano un loro posto. Quindi finché mi scelgono, voglio continuare a fare cinema” ph Pfaff, che mi ha dato il mio primo ruolo in teatro, e Michael Cimmino. Mi ricordo che quando ho fatto il provino per Il cacciatore praticamente la sceneggiatura era vuota, nel senso che spettava a noi attori riempire con l’interpretazione quella pagina emozionale. Lo stesso è capitato a me e a Dustin Hoffman in Kramer contro Kramer: il regista Robert Benton ci aveva lasciato una possibilità e ci
chiedeva cosa ne pensassimo della storia, soprattutto in quelle parti del film in cui il libro non specificava una determinata emozione… Ero all’inizio della mia carriera e dunque pensavo che fosse quella la norma: il regista che arriva e ti chiede: “Ma tu in questa scena cosa diresti? Quali potrebbero essere le battute del personaggio?”, invece poi ho capito che tutto avviene in maniera molto diversa e che di solito il regista tende a mantenere la sua linea interpretativa. Per me oggi recitare significa la stessa cosa di quando ho cominciato. Tutte le donne che ho avuto la fortuna di interpretare hanno la stessa importanza della prima. Non ho diminuito l’entusiasmo: amo questo lavoro. Non ricordo nessun personaggio che io non abbia amato, perché ciascuno merita amore.
Recitare sul palcoscenico o davanti alla macchina da presa: quali sono le differenze per un’attrice? Mi piace molto sentire il respiro, vivo e attento, delle persone sedute in una sala teatrale. Sul palcoscenico si avverte quando il pubblico trattiene il respiro per l’emozione della storia che viene raccontata ed è bello anche sentire la risata degli spettatori, che arriva improvvisa e ti afferra l’anima. L’energia e la carica che si possono percepire al cinema sono completamente diverse, anche se l’intensità è la stessa: sullo schermo il più piccolo dettaglio, ogni movimento minimo, può avere una profonda risonanza. Il cinema è fatto di tanti strati espressivi che aiutano a stabilire con gli spettatori un’intima empatia.
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Dal punto di vista dell’attrice, come si riesce ad interpretare sempre nel modo giusto e a rendere credibili delle figure femminili che nella realtà possono essere differenti da Lei? Dando loro verità. Tutte noi donne abbiamo sperimentato i medesimi sen-
nostro. In The Iron Lady, per esempio, interpretavo Margaret Thatcher, una donna davvero diversa da quella che sono e da quello che penso, ma posso parlare di simpatia o comunque comprensione nei suoi confronti perché è una donna entrata in un mondo maschile, non accogliente o amichevole. Il fatto che si tenda
timenti: l’amore, la gelosia, un senso di malinconia e anche un certo sdegno nei nostri confronti da parte degli uomini quando ci ritroviamo a ricoprire un posto che si suppone non debba essere il
a minare la credibilità delle donne nel proprio mestiere oppure a limitarne la libertà ci accomuna tutte, al di là di ogni credo o differenza sociale. Le donne nella loro totalità mi colpiscono sempre e in
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particolare sono incuriosita dalle altre attrici, cerco di studiarle e di capirle. Le protagoniste dei film di De Sica rimangono determinanti per comprendere il nostro mestiere: ho visto quei film per la prima volta in un momento in cui non c’erano molti ruoli interessanti per le donne nel cinema americano e ne sono stata folgorata. Nelle rassegne dedicate ai film stranieri all’università si scoprivano queste creature dal tratto
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esotico che rappresentavano un altro mondo, soprattutto per me che vivevo immersa in una piccola vita provinciale. Sophia Loren, Simone Signoret, Anna Magnani: sono attrici che mi hanno incatenato alla mia poltrona di spettatrice e che sono state una vera rivelazione, delle interpreti pure e profonde. È bello quando ci accorgiamo che gli attori mettono in scena il dono dell’immaginazione, quando sviluppano un’empatia per il dolore e la gioia degli altri esseri umani: si fanno carico di tali sentimenti e li impersonano sulla scena, in modo che gli spettatori possano identificarsi in ciò che vedono. Questa è la capacità di coinvolgersi che dovrebbe essere propria di ogni attore, una qualità che io credo veramente preziosa.
Avverte mai il peso di aver vinto tre Premi Oscar? Il peso di essere considerata brava lo avverto quando arrivo la prima volta su un set e mi trovo insieme agli altri attori. Sento di dover smantellare una specie di muro che ci separa e che non aiuta il lavoro di squadra, come se ci fosse una distanza preventiva e imbarazzata che crea solo artificio e non verità. Così me ne libero per lavorare insieme, perché la recitazione è trovare un feeling reciproco. Mi sbaglio spesso, dimentico le battute, mi muovo in direzioni diverse da quelle che mi indica il regista e tutti si rilassano. Anche sul set del film di Stephen Frears Florence, Hugh Grant mi ha detto di avere paura a lavorare con me: credo però che abbia detto una sciocchezza per farmi piacere! Amo i personaggi e devo raccontarne la storia se penso che sia meritevole di attenzione. Tutte le donne che interpreto meritano un loro posto. Quindi finché mi scelgono, voglio continuare a fare cinema.
È difficile riuscire a nascondersi in un personaggio e non prevaricarlo? Alcuni registi dicono che è come se avessi già provato a fare anche la regista, proprio perché cerco l’identificazione e di indagare ogni ruolo profondamente. Non sento la necessità di dirigere, anche se ammiro chi riesce a fare entrambe le cose. Io ho sempre voluto recitare: amo immergermi nella soggettività, senza avere un punto di vista più globale della situazione. Non percepisco quello che faccio come un lavoro, la recitazione è per me un piacere colpevole… È qualcosa che ho provato fin da ragazzina, quando mi sono chiesta come sarei diventata se fossi stata mia nonna. La imitavo, mi truccavo facendomi le rughe… È così che tutto è iniziato. Con questa curiosità.
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Speciale Hollywood Attori a confronto
Tom Hanks ISTINTO D’ATTORE Perché ha scelto di diventare un attore? Quando da piccolo cominci il tuo percorso a scuola, capisci che è la legge e che per diversi anni non puoi sottrarti: come si fa a sopravvivere al mondo accademico, ad un contesto che sentivo comunque troppo rigido e ripetitivo per me? L’unica possibilità è stata l’ironia, cercare di ridere quanto più possibile… Durante gli anni del liceo ho scoperto che, accanto alle materie canoniche come matematica, storia,
“Il patto che ho stabilito con il pubblico è che a ogni film io riparta da zero. Il pericolo di restare per sempre nei panni di un personaggio è alto” sociologia o inglese, si poteva studiare anche recitazione: è stata un’emozione entrare nell’aula dove era stato costruito un palcoscenico, con le luci e le poltrone destinate al pubblico… Ho pensato subito che sotto ci fosse un imbroglio: esisteva una classe da frequentare in cui potevo studiare ma senza stare fermo o annoiarmi, ho scelto subito il corso di recitazione e alla fine ho preso il massimo dei voti. Allora mi sono divertito, così come ac-
cade oggi quando mi ritrovo ad interpretare un nuovo ruolo e a tentare di restituire credibilità ad una storia: il mio è ancora divertimento puro.
E dopo tanto cinema il suo debutto nel teatro è avvenuto nel 2013 con l’ultima piéce scritta prima della sua scomparsa da Nora Ephron, grande sceneggiatrice con cui aveva già collaborato in film come Insonnia d’amore o C’è posta per te… Essenzialmente credo che nel suo profondo Nora nasca come autrice teatrale, anche se ha iniziato la sua carriera da giornalista ed è stato proprio il giornalismo a segnare il suo modo di vedere il mondo: è stata una scrittrice ed una regista attenta ai fatti che la circondano, a come scegliere il metodo giusto usato per descriverli. Lei mirava ad una rappresentazione della verità; il suo desiderio era sempre stato quello di scrivere per il palcoscenico perché riteneva che fosse il modo migliore per raccontare storie, anche molto differenti tra loro. Un’opera teatrale dura per sempre, nel senso che uno stesso testo può essere interpretato più volte da attori diversi ed acquisire una veste nuova: questo è uno degli aspetti più affascinanti e misteriosi del teatro. Anche nei film in cui Nora ed io abbiamo collaborato, ci siamo comportati come se stessimo facendo del teatro: organizzando tante prove, allestendo il set come se fossero degli arredi teatrali e girando quelle scene così lunghe - anche di 20 pagine - seguendo le posizioni indicate dettagliatamente nelle didascalie. Alla fine credo che ogni attore dovrebbe cimentarsi anche nella regia, assumersi quella responsabilità, e
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dovrebbe accadere anche il contrario: tutti i registi dovrebbero fare gli attori. Sia al teatro che al cinema, è importante capire quale sia la preparazione e l’elaborazione mentale necessaria per svolgere il mestiere, per valutare quanto sia impegnativo il lavoro degli altri.
fare un cattivo solo se questa sfida ha un senso. Mi piacciono quei film in cui i ruoli dell’eroe e dell’antagonista costituiscano un archetipo, in cui la differenza tra buono e cattivo non sia sempre così evidente. Quello che mi interessa di più del mestiere dell’attore è studiare la con-
Nella sua lunga ed intensa carriera è difficile trovare un film con il ruolo del cattivo…
dizione umana, scavare nell’interiorità del personaggio: solo così può esserci una crescita. I ruoli dei cattivi dei film alla James Bond non fanno per me, perché alla fine sono troppo lineari e non influenzano davvero la sceneggiatura.
Al cinema non ci sono grandi sfumature per i ruoli del cattivo. Spesso i cattivi non sono originali: io vorrei
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Forrest Gump, Big, Philadelphia, Il miglio verde, Salvate il soldato Ryan, Apollo 13, Cast Away, Il ponte delle spie, Il codice da Vinci, Angeli e demoni, Inferno… Sono tutti film in cui il carattere del personaggio che interpreta emerge in tutta la sua umanità. Come si riesce a scegliere il ruolo più giusto da interpretare? Scelgo i ruoli leggendo e studiando i vari copioni. Devo arrivare a capire qual è il reale tema del film e quanto il futuro personaggio da interpretare possa darmi, in termini di introspezione personale. In genere non amo rivedermi perché il passato non cambia: sullo schermo la tua immagine rimane fissa e i film restano sempre uguali, mentre la mia individualità si trasforma e muta seguendo il corso del tempo. Secondo una concezione filosofica dell’esistenza, è meglio non guardarsi mai indietro perché c’è il rischio che il passato ti possa risucchiare. Sono concentrato sull’attimo presente, così resto tranquillo. Anzi, mi sento l’attore più fortunato al mondo: il segreto per avere una longevità artistica è seguire il proprio modo di essere, cercare di non tradirsi mai, soltanto in questa direzione si può tentare di capire cosa significhi essere dei professionisti. Quando negli Stati Uniti mi fermano per strada - anche degli stranieri o europei che si trovano lì in vacanza - facendomi dei complimenti per dei miei vecchi film come Big oppure Forrest Gump, in realtà non mi preoccupo: non penso di essere riconosciuto solo perché ingabbiato in dei cliché che rimangono nella testa delle persone, senza la possibilità di liberarsi dall’immagine che gli altri si sono costruita di te… Il rischio c’è, e per questo a volte dico no a certe proposte che mi arrivano: non ci si può ripetere. Potrei fare perfino Forrest Gump 8, ma
non voglio: il patto che ho stabilito con il pubblico è che a ogni film io riparta da zero. Ogni film è un’avventura e una grande esperienza. Lo spettatore quando esce dalla sala deve rendersi conto di aver visto qualcosa di inaspettato. Il pericolo di restare per sempre nei panni di IMMAGINE CLARA BIANUCCI
“Soppesare un no è comunque una cosa molto difficile per un attore. Io sono davvero competitivo quando scelgo un ruolo” un personaggio è alto. Non mi sono mai dato dello stupido per un rifiuto perché prendo decisioni d’istinto. Soppesare un no è comunque una cosa molto difficile per un attore. Io sono davvero competitivo quando scelgo un ruolo.
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Speciale Hollywood Attori a confronto
Viggo Mortensen QUEI MOTI SOTTILI DELL’ANIMA Spesso nei sui film Lei, attore, è stato diretto da altri attori: che tipo di esperienza è, proprio dal punto di vista dell’attività più pratica del suo mestiere? Dipende molto dagli attori con cui hai a che fare… Nel caso di Ed Harris o Matt Ross (registi rispettivamente di Appaloosa e di Captain Fantastic) si tratta di attori con un sincero interesse per l’intero processo creativo di un film: non si soffermano soltanto sulla recitazione. Sono bravi, sia come registi che come
“Essere artisti significa essere presenti, ricordare, rendersi aperti e pronti a qualsiasi cosa” attori, e mi piacerebbe lavorare ancora con loro al teatro o al cinema. In quanto attori, per loro la preparazione è tutto e stanno molto attenti a ciò che possono ricevere, dal punto di visto delle emozioni e degli stati d’animo, dagli attori coinvolti nel film. Questi registi-attori capiscono quanto il segreto di una buona recitazione stia nella giusta reazione che si instaura tra i vari componenti presenti su un set. Tutto deve contribuire per riuscire a trasformare i personaggi che si interpretano in delle persone vere, capaci di arrivare al pubblico e di
risvegliarne i sentimenti più nascosti. A volte però incontri degli attori che ti dirigono in maniera molto diversa, che si preparano davanti ad uno specchio ripetendo ogni momento ed emozione del film: sono registi inflessibili, poco inclini all’improvvisazione.
E più in generale, qual è il suo rapporto con la regia? Credo che un regista, per poter essere efficace con gli attori, debba essere un po’ come un mago: sul set al regista non è necessario urlare per ottenere un’atmosfera calma e attenta, piuttosto deve farti credere per tutta la durata delle riprese che ciò che state facendo è un gioco, senza nessun tipo di pressione. Ovviamente dentro di sé il regista è quello che sente più pressione di chiunque altro perché tutto il percorso dipende da lui e dalla sua capacità di utilizzare al meglio ogni momento. Mi piacciono quei registi che lavorano duramente in fase di casting e poi durante l’elaborazione del film osservano e basta, senza entrare nelle questioni più quotidiane della crew. Un film può richiedere una serie intricata di ciak e vari interventi sulla fotografia, però il vero regista secondo me sa anche come delegare. Io ho scritto un paio di sceneggiature, sto cercando i finanziamenti per poterle trasformare in dei film… Personalmente mi piacerebbe diventare come David Cronenberg: vorrei riuscire a comportarmi sul set allo stesso modo.
Qual è stato il più grande insegnamento che ha ricevuto da Cronenberg? Credere che la telecamera senta e veda assolutamente tutto. Alcuni re-
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gisti al contrario non osservano i dettagli e non parlano con gli attori, poi in fase di editing si innervosiscono se la sequenza girata non risulta troppo chiara. Se ti metti nelle mani di Cronenberg e ti affidi a lui, puoi arrivare a descrivere quei sottili moti dell’anima che in genere è molto difficile riuscire a tirare fuori ed esprimere sullo schermo. Un buon film è il risultato di un livello di compromessi che ognuno fa come collettività, e come collettività intendo proprio la squadra coinvolta nella fase di elaborazione del film. Per Cronenberg conta l’opinione di tutti, chiunque può dare un suggerimento: non importa se è qualcuno della crew o sono io, c’è una visione democratica della vita sul set che mi intriga. Penso davvero che questo sia il modo giusto di lavorare.
Mi piaceva il modo in cui mia madre parlava insieme a me dopo il film: lei non era un’attrice, ma sarebbe potuta esserlo… Onestamente da piccolo non avevo mai pensato di diventare un attore: ero timido e l’idea di stare in piedi di fronte alle altre persone mi terrorizza-
Quando ha deciso e perché di fare l’attore?
va… Volevo diventare un esploratore o un giocatore di football, è solo ad un certo punto e in maniera improvvisa che ho desiderato di essere un attore. Avevo più o meno 22 anni ed è avvenuto un passaggio: dal semplice guardare ed es-
Andavo al cinema con mia madre quando ero un bambino. Guardavamo i film muti che erano complessi da seguire per me che avevo intorno ai 4 anni.
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sere intrattenuto da uno spettacolo o da un film, rimanendone più o meno commosso, al pormi delle domande intorno a quello che avevo visto. Mi interrogavo sul fatto di quanto tutto mi sembrasse reale, tanto da farmi dimenticare di trovarmi in un cinema o in una sala teatrale. Ho anche scritto una poesia, tanto tempo fa, riguardo a questa idea di uscire da un cinema in un pomeriggio grigio autunnale deciso a farmi trattare diversamente dalla vita per via della storia in cui mi ero identificato e che mi dava il diritto di pensare ad un cambiamento. Ogni spettatore può sentire di avere lo stesso diritto all’immaginazione: questa è la magia dei film… Ho cominciato a chiedermi tecnicamente come facessero a costruire una storia, come riuscissero a commuovermi, e questa curiosità mi ha condotto verso il mestiere di attore. E questo anche se all’inizio sono stato respinto più volte.
Le piace di più interpretare ruoli da eroe o antieroe? Si tratta di innamorarsi del personaggio e accettarne il punto di vista incondizionatamente. Amo tutti i personaggi che ho interpretato, anche quando mi capitano certe tipologie di individui che non vorrei mai incontrare o quando si tratta di mettere in scena le debolezze umane. È bello cambiare marcia, provare cose che sono difficili. Prima di calarmi totalmente in una storia, mi chiedo: “Cosa succedeva prima di pag.1? Cosa è avvenuto nel passato di questo personaggio?”. Queste semplici domande mi permettono di arrivare sul set in maniera appropriata, pronto per ascoltare e per diventare quella persona. L’arte ha molto a che fare con il ricordare, l’interpretare e l’essere presenti a se stessi… Essere artisti significa rendersi aperti e pronti a qualsiasi cosa.
È vero che Lei non voleva interpretare Aragorn, il protagonista de Il Signore degli Anelli che le ha regalato la popolarità a livello mondiale? Sì, non avevo letto il libro ma mio figlio sì… È stato lui a convincermi ad accettare. Il fatto che fosse un film che saremmo potuti andare a vedere insieme è stato un motivo convincente. Essere attori significa imparare a comportarsi come fanno i bambini e non pensare mai all’imbarazzo che certe azioni ti potrebbero provocare… In alcuni momenti de Il Signore degli Anelli, il pubblico vede una serie di personaggi verdi e trasparenti ma in realtà lì non c’era niente: io e Orlando Bloom recitavamo davanti al nulla, in piedi con il costume e la spada, e ci sentivamo degli idioti. Ecco, quando sei un attore devi credere che quei personaggi buffi e immaginari esistano davvero, soltanto così gli spettatori potranno credere che quella del film sia una dimensione reale. Se tu per primo ci credi, gli altri ti seguiranno. Agli attori spetta il compito di scoprire cose che gli altri non vedono: è l’aspetto più eccitante e misterioso del gioco della finzione.
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Impressioni (intime) d’autore...
Natura sogno degli dei “Comoedia est imitatio vitae, speculum consuetudinis, imago veritatis” di Tobia Pescia
L’
arte deve essere verosimile ed il teatro, più di ogni arte, per poter assurgere al suo profondo fine ultimo, cioè la catarsi dello spettatore, deve rispecchiare mimeticamente la realtà. Questa la lezione che Aristotele ci ha consegnato nella sua Poetica. Una lezione che ha fatto proseliti per oltre due millenni. Solo col Settecento la potenza delle affermazioni aristoteliche è andata stemperandosi nel grande mare delle passioni immaginifiche dettate dal nascente Romanticismo. Il teatro moderno spesso contraddice volutamente questa asserzione aristotelica in quanto anche luogo del non reale, del fantastico. La natura stessa sembra non essere aristotelica. Infatti essa spesso mette in scena il più fantastico e fantasmagorico degli spettacoli. La natura non si limita a imitare se stessa, si supera, va oltre. Reinventa i canoni del fantastico a seconda del medium con cui la guardiamo e a seconda della sensibilità di chi la guarda. Ed è per questo che la natura opera attraverso infinite dimensioni dello spazio/tempo, la fantasia è solo una di queste.
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Paola Cortellesi
SCALINO DOPO SCALINO La sua carriera di attrice e di comica è iniziata con il teatro…
Alla scuola di teatro noi allievi seguivamo il Metodo Stanislavskiy e in realtà la direzione dell’insegnamento seguiva un percorso più cinematografico che teatrale. È stata una scuola davvero fondamentale per me perché la maggior parte della mia formazione è avvenuta in scena: ho avuto la possibilità di abbinare subito le lezioni con la pratica, facevo audizioni tutti i giorni e di continuo… Mi ricordo il Sistina, per esempio, dove si doveva cantare
“I nostri Maestri del cinema hanno raccontato un’Italia piena di disgrazie ma con umorismo, ed è a quel genere di commedia che io ambisco” e recitare insieme: l’importante era riuscire a osservare gli altri, i vecchi grandi del mestiere, e così imparavo tanto da quel mondo teatrale fatto di regole, di disciplina e di prove che non conoscevo. La sperimentazione vera l’ho fatta nei teatri off e nelle cantine del mio gruppo di allora: i miei compagni di scuola erano Claudio Santamaria e Massimiliano Bruno, con i quali siamo rimasti sempre amici e con cui ho condiviso un lungo percorso. A vedere i nostri spettacoli non veniva praticamente mai nessuno, quindi do-
vevamo ingegnarci e spronare la nostra fantasia: abbiamo fatto di tutto, i buttadentro per il pubblico e i tecnici di noi stessi, dovevamo cavarcela da soli perché il proprietario ci forniva lo spazio teatrale e basta. Montavamo le quinte e ci occupavamo di allestire l’intera messa in scena; una cosa bellissima era la valigia con le gelatine delle luci che pesava tantissimo: sembrava la valigia di cartone degli emigranti e noi la portavamo in tutti i teatri, si faceva di tutto per vivere la scena e capire come si sviluppa lo spazio del palcoscenico. Il mestiere di attrice è quello che volevo fare, soprattutto a teatro, ma sono stata fortunata perché ho avuto anche la possibilità di sperimentare la TV e il cinema.
La popolarità è arrivata facendo le imitazioni? Non avrei mai pensato di intraprendere un percorso del genere, non credevo di essere adatta per il mestiere di imitatrice. Invece durante un mio spettacolo teatrale fui notata da alcuni autori televisivi e, grazie a loro, iniziai facendo parodie sia in TV che alla radio lavorando con Serena Dandini o con la Gialappa’s band. È con la scrittura che un personaggio prende vita e si crea il divertimento. Il successo al cinema lo devo ad Aldo Giovanni e Giacomo, del resto io sono un’appassionata della comicità italiana: già da piccola guardavo tutti i vecchi film insieme a mio padre, adoravamo quei capolavori della grande commedia all’italiana. Sono un’attenta spettatrice e ho scoperto molte cose attraverso il cinema, vedere tutti quei film mi ha dato tanto perché mi ha fatto provare delle emozioni… Ecco perché recitare in una commedia è sempre stato il massimo per me. I nostri Maestri
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del cinema hanno raccontato un’Italia piena di disgrazie ma con umorismo, ed è a quel genere di commedia che io ambisco: si entra nel dettaglio di una storia per raccontare il Paese
“Serve una buona dose di autoironia per raccontarsi e la fantasia aiuta: l’immaginazione è qualcosa di assolutamente imponderabile”
Interpretare un personaggio storicamente esistito come è accaduto nella fiction dedicata a Maria Montessori o diventare invece un personaggio di fantasia: che tipo di differente preparazione comporta? Il personaggio realmente esistito è forse più complicato da interpretare, nel caso della Montessori mi sono documenta e ho letto tante pubblicazio-
FOTO GETTY IMAGES
attraverso vari linguaggi e diverse sfumature, andando veramente in profondità. Ognuna delle mie scelte è stata fatta come se si trattasse di salire uno scalino in più; spero di migliorare ancora, anche se devi sempre lavorare pensando di fare il massimo e magari rivedendo ciò che hai fatto dopo un po’ di tempo, dopo aver assorbito dentro di te le emozioni, puoi pensare allora di poter crescere.
ni: cercavo di capire, anche attraverso i racconti delle sue ex allieve, quale fosse il suo carattere… Per questo tipo di personaggi è necessario un lungo lavoro di ricerca per riuscire ad essere più aderente possibile alla realtà, se è questo che si vuole raccontare: penso, per esempio, ad un regista come Sorrentino in cui la narrazione dei personaggi reali diventa invece totalmente antinaturalistica… Anche nella resa
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dei personaggi di fantasia ci si ispira molto alla realtà: componi una parodia imitando tante persone che conosci, nessuno sa quale pezzo di sé tu hai messo dentro quel personaggio e la realtà in genere è piena di spunti. Nelle imitazioni ci sono i personaggi della mia famiglia e gli amici, le persone che incontro: basta un gesto per inventare un carattere e far partire l’immaginazione.
mentre in teatro ciò che racconti in scena deve essere immediatamente credibile e accettato dal pubblico che ti sta davanti – ma entrambi mantengono ugualmente una profonda forza comunicativa. Serve una buona dose IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Quindi i suoi personaggi mantengono sempre degli elementi più personali, lontani dalla sceneggiatura originale? Tutti gli attori compiono questo tipo di operazione prima di arrivare sul set e iniziare le riprese di un nuovo film. Quando facciamo la lettura con il regista di una sceneggiatura si sviscerano gli aspetti principali e si parla del futuro personaggio da interpretare. L’attore si fa la propria idea del ruolo, riflette su quello che diventerà, e porta qualcosa di nuovo rispetto alla scrittura, qualcosa anche di sorprendente. Da sceneggiatrice io stessa – ho iniziato il lavoro di sceneggiatrice con il film Scusate se esisto! ed è stata un’esperienza bellissima – capisci che devi apportare alla scrittura quegli argomenti che hanno un’urgenza per te, gli stessi che ho prima affrontato anche in teatro: le donne che vengono discriminate e faticano, in quanto donne, ad essere assunte sono temi che mi stanno molto a cuore. Non voglio raccontare storie in cui le donne si piangono addosso ma il mio desiderio è di fare delle commedie: storie in cui si ride di queste questioni, anche con gli uomini, ma per riuscire a parlarne insieme. Il cinema e il teatro sono due linguaggi assolutamente diversi – al cinema la storia è suggerita dalle immagini,
“Non voglio raccontare storie in cui le donne si piangono addosso. Il mio desiderio è di fare delle commedie in cui si ride di certe questioni, anche con gli uomini” di autoironia per raccontarsi e la fantasia aiuta: l’immaginazione è qualcosa di assolutamente imponderabile, veramente non ha confini.
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Renzo Arbore RAZZOLANDO NELL’INCONSUETO Il suo mestiere ha sempre, in qualche modo, indirizzato i gusti del pubblico: a partire dagli anni Settanta è stato il referente della comunità della musica, lanciando tanti artisti verso la popolarità… Io sono stato il primo disc jockey nella storia della radiofonia italiana, insieme ad un signore che è stato il mio compagno di banco all’esame per Maestro Programmatore di musica leggera - ancora il termine disc jockey neanche esisteva – e quel signore si chiama Gianni Boncompagni. Non
canzone era A Chi, di Fausto Leali ed era stata scritta da Mogol. Ho portato la canzone in radio e ha venduto 1 milione e 400.000 copie di dischi… La molla che mi ha sempre mosso verso l’azzardo e l’immaginazione, anche di ciò che pare impossibile, è la passione. Nelle mie scelte non sono mai stato semplicemente sollecitato dal denaro e anzi credo che la cosa più importante sia assecondare le proprie passioni, qualunque esse siano: collezionare farfalle o auto d’epoca, parlare con gli spiriti… Tutto va bene se si coltiva il proprio sogno. Non bisogna dimenticarsi mai che per coronare una passione c’è bisogno anche di approfondimento e di tanto studio.
Da ragazzo aveva mai pensato di lavorare nel mondo dello spettacolo?
Non so… Io avevo solo l’amore per la musica e un talento, che era quello di ascoltare molto. Ero il più timido e taciturno della comitiva e ascoltavo “Mescolare la musica con il tanta musica: quella della mia genedivertimento è la mia priorità - lo è razione con il rock’n roll di Elvis Presley, ma non solo: spaziavo da Frank sempre stata - anche nei programmi Sinatra a Chuck Berry, dalle canzoni che mi hanno reso famoso: napoletane che venivano suonate nei vicoli alle canzonette ironiche e diverimportante è l’improvvisazione, da tenti di Carosone o di altri dell’epoca… abbinare con l’umorismo che per Ascoltavo tutto ciò che mi capitava a me non può mancare mai” tiro, perfino la musica per banda che di solito si snobba ma che invece è caesistevano le radio private, c’era solo pace di regalarti tanta felicità: basta Radio Rai, e devo dire che siamo stati pensare alla canzone di Mina Quani primi a lanciare i cantanti dell’epo- do la banda passò… Erroneamente si ca. Si sceglieva una canzone bella e si è pensato che la canzone sia un’opera lanciava poi ripetutamente nei cana- artistica minore, fino a poco tempo fa li radiofonici, fino a farla diventare si chiamava addirittura canzonetta, un successo. Ho cominciato questo poi piano piano ci siamo accorti che tipo di attività con una canzone che questi nostri artisti nei tre minuti in avevo sentito in un locale notturno cui si deve incidere un disco sono in di Sorrento e il cantante si sgolava: la grado di esprimere delle piccole opere
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d’arte. Io sono molto appassionato di musica americana, ma la mia matrice di origine è legata ai compositori italiani. Insieme a personaggi come Fred Buscaglione, Bruno Martino, Renato Carosone, Andrea Mingardi, Peppino Di Capri, Fred Buongusto, Gino Paoli, Mina e anche uno sconosciuto Gigi Proietti ci siamo esibiti nei night club dove si suonava la buona musica: do-
vevamo conoscere tutto il repertorio, fatto di almeno 200 canzoni, da proporre agli americani che venivano in vacanza in Italia. I nostri cantanti italiani hanno scritto testi profondi, molto vicini alla poesia, proprio come alcuni cantanti francesi che hanno composto dei veri testi poetici. Certe melodie sono destinate ad essere eterne perché i testi sono bellissimi. Oggi
assistiamo alla dittatura del mercato e nell’arte il mercato ha una certa importanza perché ti permette di diffondere la musica che hai inventato, anche quando la critica non ti considera. Siamo diventati più rispettosi del mercato addirittura degli americani perché se una canzone vende è comunque grandissima, al di là dell’effettiva qualità.
La sua passione per la musica è dunque aperta ad ogni tipo di genere? L’essenza della mia ricerca è percorrere strade nuove. Quando facevo L’altra domenica avevo uno slogan per i miei collaboratori: “Occorre razzolare nell’inconsueto”, quindi tentare di allontanarsi dall’ovvietà. Adesso questa nuova generazione musicale può trovare una sua
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espressione su YouTube: la rete è diventata una miniera straordinaria di creatività, uno strumento utile per riuscire a capire le nuove tendenze e anche per sentire musicisti che non arrivano in Italia tramite i canali istituzionali della TV e della radio. È così che ho scoperto
dana e io invece facevo esibire due musicisti di strada che giravano in mezzo al pubblico. Cercavo sempre di andare da altre parti, questo è stato il mio pensiero costante, e ancora oggi mi diverto a trovare nuovi percorsi. Mescolare la musica con il divertimento è la mia pri-
“La molla che mi ha sempre mosso verso l’azzardo e l’immaginazione, anche di ciò che pare impossibile, è la passione”
orità - lo è sempre stata - anche nei programmi che mi hanno reso famoso, da Indietro tutta a Quelli della notte: importante è l’improvvisazione, da abbinare con l’umorismo che per me non può mancare mai. Tutto il varietà che propongo è totalmente improvvisato. Per fare musica oppure teatro o cinema, per qualsiasi forma d’arte, occorre ascoltare senza pregiudizi anche quelle cose che non ti interessano o che sono diverse dalla tue perché, per inventare, è necessario arrivare a rimuginare come fanno le mucche quando ingurgitano l’erba: si mescola quello che si ha e si ottiene qualcosa di diverso.
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la musica messicana e la musica di Capoverde, con un autore come Diego La Cicala: non lo conosce nessuno, ma nottetempo sentire una musica struggente di questo compositore ti fa addormentare languidamente… Io ho sempre fatto il contrario di quello che proponeva la TV abituale: bastava ribaltarne la prospettiva. Per esempio, Domenica In aveva la grande orchestra su una imponente pe-
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La Storia racconta...
I “capricci” del conte Gozzi di Adela Gjata
N
ella Venezia crepuscolare del Settecento, in bilico tra gli ultimi bagliori del fasto aristocratico e i moti illuministi, tra la riforma teatrale di Goldoni e le eccentriche avventure di Casanova, emerge la figura curiosa e contraddittoria del conte Carlo Gozzi. Aristocratico di famiglia e di spirito, scrittore conservatore e insieme rivoluzionario, amante delle lettere e degli scherzi, nonché protagonista di scandalose vicende amorose, Gozzi visse per lungo tempo di luce riflessa, in quanto antagonista di Goldoni nella celebre polemica letteraria. I sostenitori dell’autore della riforma teatrale lo descrissero come un nobile decaduto e squattrinato, burbero e retrogrado, una sorta di emblema del progressivo tramonto della Serenissima nel secolo dei lumi.
Gozzi fu universalmente conosciuto, apprezzato o criticato, sulla base delle Fiabe, l’opera sua più nota, esito di un vivace spirito di opposizione al realismo ‘borghese’ dell’avvocato Goldoni, da un lato, e al romanzo sentimentale dell’abate Pietro Chiari, dall’altro, scrittore alla moda. A loro volle dimostrare che il pubblico applaudiva perfino le fole della nonna recitate all’improvviso. Da qui l’invenzione di un nuovo genere teatrale: le fiabe sceniche, ispirate a una poetica dal gusto retrò che mescola bizzarrie fantastiche con la comicità beffardamente realistica delle maschere d’arte. La prima favola, L’amore delle Alexander Golovin, tre melarance (1761), non fu che una caricata parodia dei suoi acerrimi avversari: copertina della rivista Chiari (Fata Morgana) e Goldoni (Celio Mago). Preso all’incanto del suo stesso gioco, L’amore delle tre il Gozzi scrisse, tra il 1761 e il 1765, altre nove fiabe – tra cui Il corvo, Re Cervo, la melarance diretta da fortunata Turandot, La donna serpente, l’estrosa Augellino belverde –, quasi tutte per Vsevolod Mejerchol’d, la compagnia di Antonio Sacchi, in arte Truffaldino, ultimo rappresentante dell’e1915 sangue commedia all’improvviso.
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Frutto di un’assoluta libertà creativa e di una spiccata fantasia, i “capricci scenici” di Gozzi evocano mondi lontani ed esotici abitati da principesse bellissime e spietate come Turandot, oltre che da semifate innamorate di mortali, bramose di perdere la propria immortalità (La donna serpente). Il tempo e lo spazio smarriscono i loro connotati, gli animali ragionano, l’acqua danza, i pomi cantano, una cerva bianca come la neve, dalle corna d’oro, si trasforma in principessa che a sua volta diventa serpente per poi ritornare donna, gli uomini si tramutano in statue e le loro anime passano da un corpo all’altro, gli affetti si stravolgono al punto che una madre getta nel fuoco i suoi figli, una moglie scaccia il marito che adora. L’invenzione, insomma, si sostituisce alla ragione, la finzione subentra alla realtà, secondo un disegno che si rivela, tuttavia, sempre preciso e, a suo modo, persino razionale. Il mondo evanescente, illusorio, folle delle fiabe gozziane non è, infatti, effetto di una fantasia sbrigliata e ingenua, ma il frutto di una tenace ricerca del “meraviglioso”, di una vivace capacità immaginosa, protesa verso la realizzazione di uno spettacolo puro, capace di condurre il pubblico a una pausa di gratuita felicità, esorcizzando nella rappresentazione di un mondo remoto e fatato i problemi della vita.
Se la critica italiana decretò la sconfitta storica di Gozzi nei confronti di Goldoni, egli diventò un modello agli occhi dei letterati dello Sturm und Drang: da Schlegel, che lo collocò accanto a Shakespeare nell’Olimpo dei drammaturghi, a Schiller, che tradusse liberamente la sua Turandot, diretta da Goethe nel 1802 al Teatro di Weimar, successivamente rielaborata da Adami e Simoni per la Turandot pucciniana; e ancora Lessing, Hoffmann ed Horn che vide realizzato appieno nei suoi testi teatrali l’ideale della poesia romantica. Nella Russia della rivoluzione le favole di Gozzi diventarono per la generazione dei formalisti simbolo di una teatralità fantasiosa e pura, in opposizione al naturalismo di Stanislavskij e Cechov, ispirando spettacoli memorabili quali la Turandot di Vachtangov (1922); L’amore delle tre melarance stimolò l’ingegno di Mejerchol’d – alla quale intitola una rivista d’avanguardia – e del compositore Prokofiev che nel 1921 la presentava in anteprima mondiale all’Opera di Chicago davanti a un pubblico insieme scandalizzato e felice.
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Firenze contemporanea Il mimo Grey
Luigi Benassai NELLA PIAZZA DELLA VITA Essere un mimo: perché si sceglie di fare questo mestiere? All’inizio avevo altre idee, molto simili alle scelte classiche che una persona fa quando vuole lavorare nel mondo dello spettacolo: mi affascinava la TV, un certo tipo di autenticità, di bonarietà e di spensieratezza degli showman di un tempo. Ultimamente la televisione è cambiata diventando più arrogante e maleducata, invece il mimo per definizione è il contrario. Per
“ Sei tu, solo con la tua umanità, a doverti affermare come presenza teatrale e a catturare l’attenzione dei passanti” la cultura italiana la piazza - il luogo dove il mimo può esprimersi - è sempre stata importante: è come un salotto a cielo aperto, dove la gente si ritrova per manifestare la propria opinione oppure per incontrarsi nel tempo libero… La piazza è luogo sociale per eccellenza. Se all’interno di un contesto così aperto un attore si esibisce, anche i passanti che si fermano ad osservare lo spettacolo diventano a loro volta attori inconsapevoli di uno squarcio di vita. Tutto allora è rappresentazione.
Lei è diventato riconoscibile, rendendo popolare il suo mestiere, esibendosi davanti agli Uffizi… Si deve scegliere la bellezza per riuscire a dare dei messaggi, ho la necessità di agganciarmi ad un passante per potermi esibire e quindi l’atmosfera è tutto. Bisogna trovare quei posti in cui il cosiddetto cerchio scenico possa crearsi, con un flusso di pubblico curioso e attento. Nei primi anni da mimo mi truccavo e andavo in strade piccole per timidezza, quella è stata la mia prima formazione seguita da un’impostazione di tipo accademico. In questo modo sono cresciuto e ho iniziato i mei primi spettacoli a piazza Navona a Roma, incontrando anche dei mimi francesi che mi hanno aiutato tanto: c’era una sperimentazione vera dettata da una passione reciproca tra artisti che mi ha preparato bene alla strada, un posto dove può capitarti di tutto: la gente è varia e questo incontro continuo ti mette alla prova. In teatro il pubblico è dietro la ‘quarta parete’, è invisibile per l’attore, mentre in strada tutto è interazione. Sei tu, solo con la tua umanità, a doverti affermare come presenza teatrale e a catturare l’attenzione dei passanti.
Il suo personaggio che mimo è? Si chiama Grey ed è una persona che ricerca la leggerezza, vuole essere amico di tutti e si indispettisce quando vede qualcosa di sbagliato. Si aggancia con ironia a qualunque cosa accada di fronte a lui e con un suo personale grado di poesia cerca il racconto: vede le persone che camminano e si appoggia su certe caratterizzazioni oppure si sofferma su questi nuovi fenomeni di costume legati alla tecnologia quo-
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tidiana come può essere, per esempio, la mania di farsi un selfie… È un modo buffo per rappresentare ciò che la gente normalmente fa: l’uso dell’ironia è l’unico modo per raccontarci come siamo. L’attore sta in piazza e osserva, annota
“Uno spettatore capisce subito un mimo, non importa che i due parlino la stessa lingua”
quello che succede e partendo da questi spunti reali inizia l’improvvisazione. Il mio spettacolo si chiama Jail, La prigione: con queste caratterizzazioni, che arrivano dalla Commedia dell’Arte, si vive un momento di vera autenticità. L’esibizione, prima di sorprendere il pubblico, deve sorprendere me stesso.
Quindi l’elemento fantastico per Lei parte sempre dall’osservazione della realtà? Gli esseri umani nascono come esseri di fantasia e di purezza, è la vita che li allontana da questo stadio primario. Il personaggio che propongo si riallaccia alle origini dell’uomo, abbattendo le convenzioni sociali: il mimo cerca di ottenere la fiducia di chi passa in quel momento davanti a lui, anche se non ci conosciamo davvero spesso le persone sono colpite dalla generosità dell’esibizione. Io per loro sono un giullare e un clown, una figura che tenta di stimolarle per farliegiocare e renderle protagoniste a loro volta: alcuni spettatori diventano affettuosamente complici dei miei sketch e, avendo contribuito a far ridere gli altri, spesso ricevono gli applausi di tutto il gruppo che si è fermato a guardare la mia performance.
Perché ha chiamato Jail, La prigione, il suo spettacolo così legato all’immaginazione? L’idea è di mettere in scena una situazione futuristica apocalittica, dove l’onestà e la fantasia siano vietate per legge all’uomo. Tutti diventano degli automi e devono obbedire a delle rego-
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le rigide; il mio personaggio è uno degli ultimi esseri viventi rimasti dotati di fantasia ma viene acciuffato e sbattuto in cella. Era sempre stato abituato ad esprimersi negli spazi aperti in totale libertà, adesso si trova rinchiuso. La fantasia magicamente gli dà la possibilità di sopravvivere perché la sua mente è aperta, va oltre la realtà di quelle quattro mura… Attraverso la follia capisce i suoi limiti ma anche dove la sua fantasia può arrivare e sconfinare: oltre le barriere che spesso noi stessi ci costruiamo e che ci allontanano dai nostri sogni, dalle nostre passioni e dall’amore.
momento di ilarità e intrattenimento. Stando nelle piazze è come fare un viaggio: si incontra la gente più disparata e bisogna arrivare a capirne le
Il linguaggio utilizzato dal mimo non ha dunque barriere? Il mimo deve saper gestire lo spazio in cui si trova e muoversi rimanendo sempre se stesso. L’artista di strada accoglie il viandante, il turista e il cittadino, ma naturalmente i cittadini sono inglobati nel ritmo della giornata quotidiana e passano più velocemente. I turisti vogliono essere coinvolti, hanno del tempo a disposizione e noi gli regaliamo un
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
differenze culturali. Il potenziale della comunicazione dell’individuo umano va oltre all’espressione verbale, anzi è il corpo a predominare attraverso gli occhi o il movimento delle mani… Uno spettatore, colpito da un’azione o da un gesto, capisce subito un mimo, non importa che i due parlino la stessa lingua.
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I mestieri dell’Arte L’illustratrice
Virginia Azzurra Di Giorgio (Virgola) L’ARTE DI ANIMARE UN DISEGNO
tutti oggetti semplici che si muovono nello spazio e si trasformano. Il risultato è che si assiste ad una creazione e nasce qualcosa che è altro: un temperamatite non sarà più un semplice temperamatite ma può diventare, per esempio, anche un binocolo… In definitiva Virgola può dirsi un’illusione e allo stesso tempo un gioco. Ho cominciato questo progetto per un mio divertimento e all’inizio le immagini erano solo cartacee, però mi sono accorta in un secondo tempo che era difficile mantenere le immagini integre: gli oggetti tridimensionali a cui attingo sono spesso deperibili – penso, per esempio, ad un fiore che appassisce – e quindi per tutta una serie di motivi le immagini si sono trasformate in libri di fotografie, diffusi anche su Facebook e Instagram.
In che modo questo progetto cambia sapendo che tali immagini non rimarranno cartacee, ma che andranno anche sul digitale?
Chi è Virgola? Virgola è un progetto nato tre anni fa e si tratta sostanzialmente di un personaggio che interagisce in uno spazio bidimensionale, il foglio di carta, sovrapponendo oggetti tridimensionali presi dal quotidiano: una forcina, un temperamatite, dei trucioli di matita,
Cambia l’approccio. Dallo spirito di divertimento iniziale, c’è stato immediatamente un passaggio di diverso tipo e i disegni sono diventati oggetti di marketing, con richieste che sono arrivate da brand commerciali o da alcuni privati. Il progetto si è evoluto in termini commerciali, in una direzione professionale, e il mondo della rete ha contribuito a sviluppare ancora di più questo meccanismo. Cambia forse la visione dell’oggetto in sé: la creazione ora non è più soltanto un divertimento ma è un lavoro, che mi piace molto, e che implica di rispettare una dead
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line e scadenze varie. Avverto le pressioni dei brand coinvolti che spingono perché il mio lavoro arrivi al termine il prima possibile e che sia fatto nel migliore dei modi… Lavorare con la fantasia è molto bello – si aprono scenari e immaginari impensati – però non è semplice: alcune idee ti vengono fuori subito, per altre invece occorre più tempo perché si possano esprimere appieno.
Sono stata ispirata spesso da una melodia e anche se può sembrare assurdo una canzone riesce a incastrarsi perfettamente in un immaginario vicino alle arti visive.
Dal punto di vista creativo, come è possibile riuscire ad inventare sempre nuove cose? E come si riescono a superare i blocchi creativi? Non è facile, ma credo che ognuno debba sempre guardarsi dentro e ricercare quelle motivazioni per le quali si è cominciato. Disegnare è sempre stata la mia valvola di sfogo e quando sento un blocco dal punto di vista artistico cerco di superare questo squilibrio andando indietro con il pensiero, ritornando a ricercare e vivere quelle motivazioni che mi hanno spinto a disegnare per la prima volta. È un percorso che l’artista deve fare e a cui sa di non potersi sottrarre. Io dico sempre che i bambini prima di scrivere imparano a disegnare e personalmente non riesco a pensare ad un futuro senza il disegno. A volte può essere necessaria una pausa, ma solo per un breve periodo.
Da quali spunti quotidiani parte l’idea fantastica? Le scelte legate ai disegni stanno all’interno di una dinamica del gioco: si prende un oggetto qualsiasi e si impagina in altro modo. Gli stimoli esterni provengono dalle altre arti che comunque completano il disegno come può essere, per esempio, la musica.
Lei è laureata in storia medievale, quindi si è formata su un’iconografia di tipo classico; in che modo queste immagini tradizionali l’hanno aiutata a costruire un tratto così contemporaneo e fuori dagli schemi? A prima vista i miei disegni sembrano distanti dalle immagini medioevali, però è anche vero che nel Medioevo i disegni erano molto stilizzati: le figure medioevali io le vedo più vicine
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all’arte contemporanea e non all’arte rinascimentale… Come atmosfera il mondo delle immagini del Medioevo presenta delle tecniche che si basano su linee e forme, su pieni e vuoti, che non sono poi così lontane dal tratto
gura femminile che volontariamente non ha colore di capelli né viso: lei non esprime un’emozione, non ha sopracciglia né bocca, ecco perché arriva al pubblico nel modo più trasversale possibile. È un quadro aperto, come una
“ Il disegno è un linguaggio universale e la fantasia è esercizio; bisogna mantenersi allenati per rimanere bambini”
tela bianca, e infatti molti mi scrivono: “Oggi l’ho vista così malinconica…”, invece nello stesso momento altri commentano: “È bellissima, oggi emana felicità…”
moderno. Il disegno è un linguaggio universale: mi scrivono tante persone che provengono da tutte le diverse parti del mondo e che appartengono a culture diverse. Per esempio, mi scrivono anche donne arabe e il mio personaggio non indossa assolutamente il velo. Quello che arriva, a tutti indistintamente, è un’intima sensazione che attraversa le culture. La protagonista di Diario di Virgola è sempre la stessa fi-
Che cos’è per Lei la fantasia? Non so definirla bene perché è una cosa troppo grande, intima e personale: è come se mi chiedessi che cos’è l’amore… Nella mia visione personale della fantasia da una parte è necessario ritrovare il proprio Io bambino e contemporaneamente ci deve essere anche un pizzico di tecnica: la fantasia è esercizio, bisogna mantenersi allenati per rimanere piccoli.
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Dietro al sipario della fantasia di Gabriele Guagni
FOTO FILIPPO MANZINI
È
mattina presto, o almeno così sembra a noi teatranti abituati a considerare la sera il momento principale della giornata, quando un gruppo di giovanissimi si affaccia timido all’imponente ingresso del Teatro della Pergola. I piccoli uomini e le piccole donne salgono lentamente le scale che conducono al foyer, con lo sguardo vivace di chi si aspetta possa apparire da un momento all’altro una qualche meraviglia, e si guardano intorno curiosi in quel luogo che gli è stato presentato come il Teatro. I grandi sanno che qui, seduti su più o meno comode poltroncine in velluto, troveranno la fantasia che si fa parola in una storia e nel racconto di un attore. I piccoli invece sognano che quella enorme tenda oro e vermiglio si apra su un intero mondo immaginario, ma un mondo immaginario che davanti ai loro occhi si manifesterà come reale. Anche oggi che la nostra immaginazione è continuamente stimolata da mezzi v i siv a me nte assai più complessi, il teatro continua ad affascinare per la sua capacità di costruire la fantasia, facendosi casa, giardino, castello e molto altro allo stesso tempo. La fantasia diventa quindi patrimonio culturale da scoprire un poco alla volta, come in una caccia al tesoro dove i giovani esploratori sono guidati, sopra e sotto il palcoscenico, alla scoperta del Teatro tra enigmi e misteri. Perché solo quando si sarà conosciuto tutto quello che si nasconde intorno alla scena, potremo farci meravigliare ancora di più da ciò che vediamo quando comincia lo spettacolo. La fantasia che i loro occhi brillanti di curiosità trovano dietro una porta socchiusa, nel riflesso di uno specchio, nel movimento inatteso di una tenda, e in tutti gli altri posti dove noi grandi spesso ci dimentichiamo di guardare, anche a Teatro.
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LA PAROLA AL PUBBLICO Piccole memorie
di Alice Nidito
Tra le onde e l’infinito Un cavaliere frondoso Baffi di nuvola Castelli di lenzuola Appare e scompare. Una principessa sopra la montagna Monete di conchiglia Pioggia di sassi Sale di pollini Si accende e si spegne. Sotto le coperte volano parole Aquiloni di sogni Melodie d’incanti Pinoli, gocce di calendula e poi quell’edera tra la terra e il cielo…
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Muriel Barbery TRA INCANTO E DISINCANTO
Vita degli Elfi, il suo ultimo libro, è l’invenzione di universo fantastico e molto diverso rispetto al suo romanzo precedente, L’eleganza del riccio, dove raccontava la Francia dei giorni nostri…
Dopo l’enorme successo de L’eleganza del riccio, ci ho messo nove anni a scrivere questo nuovo romanzo… Credo che il principale fattore scatenante per la scrittura di un libro siano gli incontri della mia vita reale: sono le scoperte La Vie des Elfes, votre dernier umane ad ispirarmi. E ci vuole tempo roman, c’est l’invention d’un per questo: conoscere delle persone con univers fantastique, très différent le quali desideriamo di vivere un’avpar rapport à votre roman précédent, L’élégance de l’hérisson, ventura, qualunque essa sia, è una cosa preziosa. In questi anni ho tentato dispeoù vous racontiez la France ratamente di scrivere ma le parole mi d’aujourd’hui... Après le grand succès de L’élégance de l’hérisson, j’ai mis neuf années à écrire ce nouveau roman... je crois que le principal déclencheur pour l’écriture d’un livre ce sont les rencontres dans ma vie réelle: ce sont les découvertes humaines qui m’ont inspiré. Il faut du temps pour ça: connaître des gens avec lesquels nous avons envie de vivre une aventure, quelque qu’elle que soit, c’est quelque chose de précieux. Pendant ces neuf années j’ai désespérément tenté d’écrire mais tout me semblait si mau-
“La bellezza ricorda all’uomo che una vita libera è possibile” IMMAGINE CLARA BIANUCCI
vais que j’ai envoyé tout ça à la poubelle jusqu’à ce qu’un jour les choses ont repris de nouveau leur magie. Dans La Vie des Elfes les personnages appartiennent à un monde parallèle où bougent les forces du bien et du mal, qui sont étroitement en rapport avec la nature et avec la sphère des sensations. Les faits se déroulent en Bourgogne et en Abrus mais dans ces lieux – faits de montagnes,
sembravano scadenti, fino a quando un giorno è tornata la magia. Nella Vita degli Elfi i personaggi appartengono ad un mondo parallelo e immaginifico dove si muovono le forze del bene e del male, che hanno relazioni molto strette con la natura e con la sfera delle sensazioni. Le vicende si svolgono in Borgogna e in Abruzzo ma in questi luoghi - fatti di montagne, pianure, vigneti e coste dal
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de plaines, de vignobles et de côtes d’un charme millénaire et non contaminé – il me semble qu’il puisse encore s’exprimer un sentiment miraculeux et primitif du monde, un sens de l’enchantement que nous cherchons sans répit.
Comment avez-vous pris la décision d’écrire un roman lié au genre fantasy? C’est la faute au Japon, où j’ai vécu. Le Japon a été pour moi une expérience non seulement esthétique mais aussi spirituelle. En général les très beaux jardins qui entourent les temples et les lieux de culte ne sont pas construits comme en Occident: tout est en bois, avec des galeries ouvertes et des arbres. C’est ici que l’esprit se nourrit et l’émotion qu’on ressent est de perfection absolue, de pureté et de beauté inouïe. C’est un sentiment puissant qui émerge de la nature et de la terre, et j’ai pensé que c’est comme si ces jardins avaient été déssinés par des êtres fantastiques comme, par exemple, peuvent être les elfes...C’est pour cela que le fil conducteur de ce nouveau roman sont devenus les elfes: de cette façon on s’éloigne de l’imperfection des êtres humains pour s’abandonner dans la poésie de l’imaginaire. J’ai lu tout ce qui peut se lire dans ce genre, comme La Trilogie de Talkien, et ce qui m’avait frappé c’était qu’il s’agissait d’un grand roman sur l’agonie d’un monde enchanté: la magie qui va devoir céder la place à un monde qui est brutal et inhumain. L’homme contemporain expérimente de façon permanente le désenchantement, quelque chose contre lequel il faut lutter.
Le monde où nous vivons est donc plein de désenchantement? Le monde occidental est rationnel, au contraire le faite d’avoir parcouru l’Asie m’a enseigné à voir comment
fascino incontaminato e millenario sembra che possa esprimersi ancora un sentimento miracoloso e primitivo del mondo, un senso dell’incanto che cerchiamo senza tregua.
Com’è avvenuta la decisione di scrivere proprio un romanzo legato al genere fantasy? A causa del Giappone, dove ho vissuto per due anni. Il Giappone è stata un’esperienza non solo estetica, ma anche veramente spirituale. In genere dei bellissimi giardini circondano i templi e i luoghi di culto giapponesi non sono costruiti in pietra come in Occidente: tutto è in legno, con delle gallerie aperte e gli alberi che le circondano. È qui che lo spirito si nutre e l’emozione che si prova è di assoluta perfezione, di purezza e di una bellezza inaudita. È un potente sentimento, che emerge dalla natura e dalla terra, e ho pensato che è come se questi giardini fossero stati disegnati da degli esseri fantastici come, per esempio, possono essere gli elfi… Ecco perché il filo conduttore e la guida di questo nuovo romanzo sono diventati gli elfi: in questo modo ci allontaniamo dall’imperfezione degli esseri umani per calarci nella poesia di un mondo immaginario. In passato avevo fatto delle letture di genere, come la Trilogia di Tolkien, e ciò che mi aveva colpito di quelle pagine era che si trattasse di un grande romanzo sull’agonia di un mondo incantato: la magia che alla fine deve necessariamente cedere il posto ad un mondo che è brutale e disumano. L’uomo contemporaneo sperimenta in maniera permanente il disincanto, qualcosa contro cui è necessario lottare.
Il mondo in cui viviamo è dunque pieno di disincanto? Il mondo occidentale è razionale,
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l’âme et le corps ne sont pas deux entités séparées. Nous avons grandi avec une croyance Cartésienne et absolutiste qui soutient la séparation de l’âme du corps. En Asie les hommes ont la conscience d’appartenir à la nature qui voit comme un milieu nourrissé. J’adore ce sentiment oriental de l’indivisibilité du monde: le monde visible et invisible, les biens matériels et immatériels finissent par se
invece l’aver percorso l’Asia mi ha insegnato a vedere come l’anima e il corpo, la natura e l’uomo, non siano due entità separate. Nella tradizione occidentale ciò è molto sorprendente perché siamo cresciuti con un credo cartesiano e assolutista che propugna la separazione dell’anima dal corpo. In Asia gli uomini non credono che la natura gli appartenga, anzi hanno coscienza di appartenere FOTO ZOE GUERRINI
superposer. L’écriture agit d’une façon alla natura che per loro è un ambiente étrange: souvent nous exprimons des da nutrire e non un oggetto da sfruttachoses que nous ne savions même pas re. Adoro questo sentimento orientale de penser, nous découvrons ce qui est au dell’indivisibilità del mondo: visibile fond de notre coeur et nous naviguons ed invisibile, materiale ed immateriale dans des eaux inconnues mais qui nous finiscono per sovrapporsi, così come le appartiennent profondément. Le seul emozioni più elevate e quelle più terremoyen pour moi de garder l’enchan- ne e concrete. La scrittura romanzesca tement c’est celui d’écrire des romans. agisce in modo strano: spesso esprimiaC’est extraordinaire de voir comment mo cose che non sapevamo nemmeno di les hommes puissent être capables du pensare, scopriamo quello che è in fonpire mais aussi, grâce à l’art, de garder le do al nostro cuore e navighiamo in acmieux de la vie. que sconosciute ma che ci appartengono
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Et comme écrivain croyez-vous que la littérature puisse, de quelque façon, imfluer sur la réalité qui nous entoure?
FOTO ZOE GUERRINI
profondamente. Il solo modo per me di mantenere l’incanto è scrivere romanzi. È straordinario come gli esseri umani siano capaci del peggio ma anche, grazie Plusieurs histoires témoignent com- all’arte, di mantenere il meglio dell’esiment les personnes soumises á des con- stenza vissuta. ditions atroces, parfois jusqu’à la brutalité dans des camps de concentration, ont E come scrittrice crede che la réussi á survivre grâce à la poésie qui letteratura possa, in qualche avait la fonction de leur rappeler que la modo, incidere sulla realtà che ci vie humaine pouvait être différente de circonda? cette horreur. La littérature peut faire Molte storie di autori di tutte le nabeaucoup pour soulager la souffrance zionalità testimoniano come le persone humaine: la beauté et l’art rappellent à sottoposte a condizioni atroci, a volte perfino nella brutalità dei campi di concentramento, siano riusciti a sopravvivere grazie alla poesia che era in grado di ricordargli che la via umana poteva essere diversa da quell’orrore. La letteratura può fare molto per allievare la sofferenza umana: la bellezza e l’arte ricordano all’essere umano che una vita libera e senza ingiustizie l’homme qu’une vie libre et sans inju- non soltanto è possibile, ma che anzi stices non seulement est possible, mais deve costantemente essere ricercata. A qu’elle doit être aussi constamment casa sulla mia scrivania, per esempio, recherchée. Chez moi sur mon bureau, conservo una piccola Venere primitiva par exemple, je garde une petite Venus molto antica, credo che addirittura risalprimitive très ancienne, je crois qu’elle ga al periodo avanti Cristo: quest’opera è date jusque la période avant Christ: c’est una delle prove concrete della longevità oeuvre est témoignage de comment l’art dell’esperienza artistica, testimonianza soit l’une des formes de résistance plus di come l’arte sia una delle forme di reforte, capable de surmonter les contin- sistenza più forti, capace di scavalcare le gences et le temps, toutes les fragilités contingenze e il tempo, tutte quelle fraet la caducité qui appartiennent à l’être gilità e la caducità che appartiene all’essere umano. humain.
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Dal diario di una giovane scrittrice...
VIVA VIVA LA BEFANA!
“L
a befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte…” Ancora oggi quando mi capita di sentire questa filastrocca ho un senso profondo di paura. Arrivava il Natale con i suoi mille regali, le feste e le lucine dell’albero. Un’atmosfera calda e rassicurante, che profumava di biscotti di nel forno e coperte calde, libri che arrivavano ricoperti da carte colorate e tanti naOrsola stri meravigliosi. Potevo dormire fino a tardi la mattina e leggere fino a tarda notte, Lejeune di nascosto, sotto le coperte. “Perché sei sempre stanca?” La mamma si preoccupava parecchio del fatto che appena mi sedessi, mi addormentavo. “Ora ti porto dal dottore.” Non mi ci portò mai, stavo bene, a parte la stanchezza continua. Lei non sapeva che passavo le mie notti con una torcia sotto le coperte a leggere e rileggere qualsiasi libro mi capitasse tra le mani, immersa in un mondo di fantasia e meravigliose avventure. Le vacanze di Natale mi permettevano di leggere fino a quando volevo, senza avere gli occhi che mi si chiudevano dopo pochi minuti. Questo era per me il Natale, insieme a un uomo bonario, vestito di rosso e con la barba lunga, che la notte passava, si mangiava i biscotti e beveva il bicchiere di latte. Il problema era quando le vacanze iniziavano a volgere al termine, sarebbe finito il tempo libero e soprattutto si avvicinava l’Epifania. “Io l’ho vista. L’anno scorso sono rimasta sveglia e mi sono affacciata in cucina. Aveva lasciato la sua scopa sporca appoggiata là alla porta e lei si aggirava IMMAGINE CLARA BIANUCCI nel buio.” “Ti ha vista?” “Sì, a un certo punto mi ha vista, sono inciampata e ho fatto rumore.” “Che cosa hai fatto?” “Che dovevo fare? Sono scappata! Era bruttissima e mi è venuta addosso che sembrava mi volesse mangiare. Stai sempre attenta la notte della Befana.”
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Questa era mia sorella che mi raccontava il suo incontro notturno con la Befana e mentre me lo raccontava, io riuscivo a vedere tutto. A forza di leggere avevo sviluppato una fantasia sfrenata, ero molto brava a trasformare le parole in immagini che viaggiavano libere nella mia testa e le parole di mia sorella mi raccontarono una storia cupa e angosciante. Quella sera trattenni la mamma vicino al letto. “Non te ne andare…” “Che cosa c’è? Dormi, che domani ci saranno tutte le caramelle che la Befana ti ha portato ad aspettarti al risveglio… Buonanotte.” La mamma non sapeva che questa era una delle peggiori frasi che potesse dire. Affondai nelle coperte, lasciando fuori solo gli occhi, controllando che non si avvicinasse nessuno. La schiena rigorosamente rivolta verso il muro e gli orecchi tesi a percepire ogni singolo rumore. Rimasi così diverse ore, sperando che la befana decidesse di rimanere in cucina e non le venisse in mente di aggredirmi durante la notte, poi caddi in un sonno agitato. La mattina dopo aprii gli occhi e vidi la luce che entrava dalla finestra, quella notte ero sopravvissuta. Corsi in cucina e trovai i miei fratelli già in piedi che stavano svuotando le loro calze, tirando fuori una gran quantità di dolciumi che durante tutto l’anno erano assolutamente vietati in casa mia. Iniziai a guardare anche dentro la mia: caramelle, cioccolatini, lecca lecca e… c’era in fondo un piccolo pacchettino, lo aprii e ci trovai dei sassetti neri. “Che cos’è?” “Carbone.” Disse la mamma. “Ahaha hai trovato il carbone!” Mia sorella mia stava deridendo “Vuol dire che sei stata cattiva!” In realtà poco dopo lo trovò anche lei e anche gli altri miei fratelli. “La befana lo sa che a volte litigate o vi acciuffate, o urlate. Quel carbone l’anno prossimo si trasformerà in caramelle se fate i bravi.” La mamma ci stava spiegando il motivo di questa novità. Raccolsi tutte le caramelle e le detti a mia sorella. “Cosa fai? Non le vuoi le tue caramelle?” La mamma era basita. “No, non le voglio. Domani le compro con i soldi che mi ha dato la nonna per Natale.” “Perché non le vuoi?” “Chissà che la Befana non le abbia avvelenate.” La mamma non capiva e continuava a guardarmi stupita, mia sorella continuava a ridacchiare, contenta del doppio bottino e continuando a canterellare fra sé: “La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte, con le toppe alla sottana, Viva viva la Befana!” Questa storia della Befana tutt’ora non mi piace molto. La notte dell’Epifania uso ancora affacciarmi alla finestra e sentire nell’aria l’agitazione di tutti quei bambini persi fra sogni agitati. Quella notte ha ancora il profumo dell’attesa e di qualcosa che sta finendo, ha un suono nostalgico e anche un po’ pauroso. Io le caramelle me le compro da sola.
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Speciale Arte
Pablo, un vita da esploratore di Sandra Gesualdi
Pablo Picasso, Portrait de Marie-Thérèse
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ue occhi immensi sempre aperti sulla realtà. Curiosi, spalancati, pionieri. Incuriosito da nuovi profili, affamato di concretezza, pioniere di linguaggi, Pablo sa di essere un precursore tanto da spingersi con irruenza dove altri si erano appena affacciati. E lì che il genio si fa tale: nel momento in cui osa rompere gli schemi, fratturare il pensiero dominante, uscire dalla tela o riempirla di cambiamento. Consapevole che dopo di lui l’intera arte del XX secolo avrebbe percorso strade nuove, fin da subito è semplicemente Pablo Picasso. Gli piace il suono sobillante della doppia esse, per questo sceglie il cognome della madre, in fondo tutti i maggiori artisti del mondo avevano quel doppio suono: Matisse, Poussin, Rousseau.
Pablo l’instancabile. Produce oltre 20.000 opere tra pitture, incisioni, disegni, acqueforti, sculture, ceramiche e lascia al mondo capolavori universali come Les demoiselles d’Avignon e Guernica. Picasso, appena ventenne, viaggia tra la Spagna e la Francia, osserva e carpisce. La Parigi d’inizio Novecento è il suo cantiere dove incontra prostitute al bancone di squallidi bar, vecchi mendicanti, famiglie povere, solitudine ed emarginazione in una società davvero piena di contraddizioni. Eroi senza nome che si
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aggirano come fantasmi nelle metropoli e che lui celebra con tinte monocrome blu, grigie e verdastre. Come se quei grandi occhi fossero velati di tristezza e malinconia e le figure scarne e meste come gli operai incisi nell’opera Pasto frugale del 1904. Ma Picasso è un fiume in piena e possiede un’innata predisposizione alla meraviglia, premessa per una fervida fantasia. Tutto lo colpisce. Dai saltimbanchi circensi che inserisce in rosee scenografie, alle sculture polinesiane o le maschere africane da cui trae le sue ispirazioni future. Nel 1907 espone i corpi geometrici delle sue Ragazze d’Avignone. Cinque nudi di donna scomposti, appuntiti e spavaldamente FOTO DAVID DOUGLAS DUNCAN
Pablo Picasso danza davanti a Baigneurs à la Garoupe (1957) nell’atelier della sua villa La Californie, Cannes, luglio 1957 © D.D.Duncan; © RMN-Grand Palais/ Musée Picasso de Paris © Succession Picasso by SIAE 2016
inseriti in un caos prospettico in cui ogni regola compositiva è sovvertita. Arte e vita, sesso ed energia, colore e pennellate decise, sempre. E quell’esaltazione di fondo che gli permette di rappresentare una realtà che esiste ma non si vede, di dichiararsi inventore di visioni, di offrire più e diversi punti di vista all’interno della stesso quadro. Infranti i modelli, impostato il Cubismo, Pablo continua a esplorare il mondo che gli passa davanti. Assembla sulla tela materia e giornali e inventa con Braque il collage, sogna Minotauri e simboli surrealisti, torna al figurativo senza mai smettere di sperimentare tecniche nuove. E poi Pablo Picasso ama, tanto. Vita e donne, tante donne. Modelle, compagne, madri, amiche, poetesse, ognuna di loro è fonte d’ispirazione e occupa un
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posto d’onore nella ricca galleria di volti femminili che dipinge incessantemente in tutte le sue opere. È già un artista affermato quando incontra per caso quella giovane francese dal caschetto biondo: «Lei ha un viso interessante posso farle un ritratto?». Marie-Thérèse è bella e i suoi occhi azzurri gli ricordano il mare, se ne innamora follemente e ne fa una delle sue muse più note. Nel capolavoro del ‘37 la Walter appare vivace e sensuale con i lineamenti divisi in due. All’opposto di quelle sagome deformate presenti nella Guernica, la sua opera simbolo e manifesto dell’orrore che ogni guerra provoca. FOTO DORA MAAR
Pablo Picasso su una scala mentre dipinge Guernica nell’atelier di - rue des Grands-Augustins, Parigi, maggio-giugno 1937 ph. © Atelier L. Clergue Alla soglia dei novant’anni la composita tavolozza di Pablo Picasso si riempie © D. Maar; © RMN-Grand di tanti colori accesi e la sua fantasia sembra finalmente concretizzarsi in quella Palais /Musée Picasso de vivacità fanciullesca inseguita e perseguita da sempre. «A tredici anni dipinge- Paris; © Succession Picasso vo come Raffaello. Ci ho messo tutta la vita per imparare a dipingere come un by SIAE 2016 Due grandi mostre in corso a Verona e Roma, celebrano il genio spagnolo. Una retrospettiva all’AMO, Arena Museo Opera fino al 12 marzo con oltre 90 opere che coprono tutto il suo periodo creativo, dal 1895 fino agli anni ’70. Mentre all’Ara Pacis, fino al 19 febbraio è allestita Picasso Images. Duecento fotografie che raccontano l’uomo, il personaggio e la sua densa esistenza da pittore.
bambino» dirà.
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A proposito di Orazio Costa Ricordi di un Allievo
Glauco Mauri VERO MAESTRO Tra i suoi Maestri c’è stato Orazio Costa… Un pensiero su di lui. Io e Andrea Camilleri abbiamo fatto tre anni insieme all’Accademia d’Arte Drammatica – lui studiava regia e io per diventare attore – e Orazio Costa è stato il nostro Maestro. Degli insegnamenti che ho ricevuto io ricordo la tenerezza burbera di Wanda Capodaglio, l’ironia e la partecipazione umana di Sergio Tofano, la cultura e l’allegria di Silvio D’Amico e poi, in particolare, a Orazio Costa io devo moltissimo perché mi ha insegnato tutto. Da lui ho imparato un’infinità di
“La vera scuola è l’umanità, la tecnica e la memoria vengono dopo” cose: come stare sulla scena e affrontare un testo, come usare la tecnica e assaporare tutta la poesia del teatro…
In che modo il Metodo Mimico di Orazio Costa le è servito come approccio verso il teatro? Per me conta subito il sentimento, quel particolare colore o una certa sfumatura… È il corpo dell’emozione che, come su un tavolo anatomico, cerco di sezionare con il bisturi della ragione per arrivare a comprenderlo. È l’emozione che mi fa partire a scegliere un testo o
un personaggio, solo in un secondo momento entrano in gioco la riflessione e la razionalità. Questo è stato uno dei primi insegnamenti di Orazio Costa, una persona che a prima vista dava l’impressione di essere così seria e una figura anche piuttosto rigida… In realtà era un insegnante pieno di umanità. Lo sento e lo vedo ancora parlare: “Ognuno di voi salga sulla pedana!”, e con grande naturalezza si cominciava la lezione.
Lei ripete spesso che il teatro ti insegna a diventare uomo, prima che attore: questo è uno dei dettami più importanti che vi ha trasmesso Orazio Costa? Senza dubbio! Noi attori abbiamo una grande fortuna: i nostri compagni nella vita hanno il nome e il carattere dei personaggi che siamo chiamati ad interpretare. Ogni personaggio è come se fosse un amico con cui ragionare, ecco perché dico spesso che il teatro mi ha fecondato di poesia, cultura e umanità. La tecnica è alla base di tutto, ma per essere sinceri al di là dello strumento tecnico occorre lasciar fiorire la fantasia che è il fondamento del nostro mestiere. C’è differenza tra recitare ed interpretare: quando reciti descrivi la geometria del personaggio, mentre l’interpretazione esprime qualcosa in più, è entrare dentro la complessità dell’animo umano e toccarne i sentimenti. La vera scuola è l’umanità: vivere in mezzo alla gente e sperimentare le emozioni, la tecnica viene dopo, insieme alla memoria e alla tradizione da cui non si può prescindere.
Secondo Peter Brook il tempo per un attore è come se si fermasse
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perché, ogni sera, sul palcoscenico ha modo di ritornare indietro e ricominciare da capo a raccontare la sua storia… Ormai la mia vita è talmente connaturata con il mio lavoro che non so più ricordare quale sia stata la finzione e quale la realtà... Agli inizi del ’46 sono capitato in una filodrammatica di soli uomini e dovevo suggerire nascosto appunto nella buca del suggeritore. Un giorno il direttore mi ha chiamato per vedere se sapevo anche stare sul palco, così per gioco, e da lì è cominciato tutto. Da piccolo io ero piuttosto robusto, nessuno mi voleva a giocare a calcio, ed ero anche un bambino pieno di pudore. Invece sul palcoscenico mi trasformavo: in quello spazio magico potevo inventarmi come volevo ed è là sopra che un brutto può diventare bello, un timido un eroe e un ignorante un poeta… Questa è una cosa bellissima che appartiene al teatro.
Ma bisogna avere una certa dose di follia per affrontare il palcoscenico? Sì, certo. E la mia non è presunzione: bisogna andare in palcoscenico assumendosi la responsabilità di affermare la propria personalità, qualunque essa sia. In questo modo ribadisci l’importanza e l’unicità del palcoscenico: gli spettatori ti guardano, magari non sono d’accordo con te, ma ti ascoltano.
Il Metodo Mimico di Orazio Costa, proprio dal punto di vista tecnico, come si può spiegare? La mimica insegnata da Orazio Costa non era quella dell’ulivo o della quercia da riprodurre: si partiva dagli elementi naturali per ricreare la mimica dei sentimenti. Costa ci chiedeva: “Fammi la mimica della parola parossismo oppure della parola lago” e la sfida era quella di riuscire a catturare il senso di quei termini facendoli tuoi, a partire dalla tua interiorità.
FOTO FILIPPO MANZINI
Ogni parola ha una sua personalità: la parola è come una foglia, fatta di venature, e tutte vanno considerate e rispettate. Per me la parola è anche più importante della mimica: io posso anche stare seduto su una sedia fermo e indossando una maschera, ed è la parola allora che si prende il compito di evocare il teatro. Orazio Costa non mi ha mai detto di recitare o interpretare come faceva lui, piuttosto ha cercato di tirare fuori la mia personalità. Questo è il modo di trasmettere conoscenza dei veri Maestri.
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Ritratti di fantasia Maria Cassi
Cavalcando un albero... Che cos’è la fantasia? Per me è vita. La fantasia ci accompagna per tutta la nostra esistenza, da quando si nasce fino a quando si muore. Il mio primo incontro con la fantasia è stato con un albero nel giardino di casa dei miei genitori: saltavi in groppa ad uno dei suoi rami ed era come se ti trovassi a cavalcare… Quest’albero è stato il mio compagno di giochi capace di condurmi verso immaginari sconfinati. Era anche un luogo di accoglienza dove potevo andare a ricoverarmi in quei momenti in cui non mi sentivo particolarmente capita. Con la fantasia giri il mondo, pur rimanendo nella tua stanza. La fantasia è capace di consolarti e di farti vivere meglio.
Nel suo mestiere quanto c’è spazio per la tecnica e quanto per l’improvvisazione?
IMMAGINE DALILA CHESSA
La fantasia è il perno centrale del divertimento che tutte le sere entrando in scena devi rinnovare. Questo sentimento è collegato ad una tecnica, ad un lavoro ben preciso, e va a costituire l’artigianalità del mio mestiere. L’improvvisazione ha dei canoni specifici, quasi matematici, perché è come scrivere una partitura musicale: sul palcoscenico si va di contrappunto e di armonia, con delle regole scritte a cui va aggiunta la capacità interpretativa. La fantasia è anche stupore, un sentimento che per me va sempre di pari passo con la tenerezza.
Quando si sperimenta un blocco artistico, come si fa a riattivare la fantasia? Quando ti capita di vivere questa fase, ti prende il panico. A volte è proprio la testa, il corpo, a chiedere di fermarti. Per uscire da questa paura bisogna fidarsi di quello che il tuo fisico ti chiede e da quel momento vedi che tutto è più facile: ti apri immediatamente. La paura ti chiude e ti fa diventare egoista, anche con te stesso. Ti sembra che in quei momenti non stai facendo niente, invece quello che stai vivendo è un vuoto pieno perché, nel momento in cui apri il tuo cuore, ti arrivano le idee. Certe volte per ripartire verso nuove avventure bisogna riposare e darsi meno aspettative.
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Ritratti di fantasia Virgilio Sieni
In caduta libera Che cos’è la fantasia? È una forma di attenzione, di concentrazione e consapevolezza. Allo stesso tempo è anche un volo. La capacità di volare e di non soffermarsi su degli schemi fissi fa parte della fantasia; bisogna far sì che il vocabolario che sempre muta nel corso del tempo sia in ogni istante arricchito da elementi che arrivano dall’oggi. La fantasia di per sé significa apertura, caduta libera, qualcosa che pone l’individuo nella piena libertà. Anzi, la fantasia direi che rende liberi e per accoglierla occorre essere sensibili e ricettivi.
Nel suo mestiere quanto c’è spazio per la tecnica e quanto per l’improvvisazione? C’è spazio ovviamente per entrambi questi aspetti, anche perché la tecnica si evolve attraverso una disciplina e una capacità di improvvisazione che costituiscono il senso stesso della fantasia. La tecnica infatti si rinnova costantemente con la fantasia. Il rapporto tra tecnica e la capacità di stare nell’improvviso, rinnovandosi continuamente, crea una risonanza costante tra questi due aspetti fino ad arrivare a confonderli. IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Quando si sperimenta un blocco artistico, come si fa a riattivare la fantasia? Io invito a fare una bella passeggiata in un bosco di notte oppure, prima di mettersi a sedere, girare follemente per tre volte intorno a una sedia… Bisogna fare qualcosa che non ricalca le azioni, magari piene di routine, che hanno portato a quello stato di apatia creativa. Cadere in una sorta di stagnamento delle idee è umano, ecco perché occorre che l’energia rientri in circolo. Bisogna attivarsi da tutti i punti di vista e in tante maniere, perseguendo il raggiungimento dell’equilibrio: spesso si tratta di riavvicinarsi alla natura e di fare esperienza di sé, proprio come individuo. Spesso i blocchi emotivi derivano da un atteggiamento molto chiuso e ottuso indirizzato verso un unico argomento: ecco perché il mio invito è invece di aprirsi a tutto e di cercare i dettagli del corpo. La più semplice azione può includere anche qualcosa di estremamente rivoluzionario.
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Ritratti di fantasia Francesco Bonomo
Arrendersi a se stessi Che cos’è la fantasia? La fantasia è la capacità di spostare la visione da un’altra parte, di guardare le cose da un altro punto di vista, con degli occhi più liberi che ti permettono di allontanarti dal gretto materialismo e di immaginare altre vite. La fantasia non è una cosa astratta perché attinge dai nostri retaggi del passato e dai saperi che stanno nel nostro inconscio in modo da trasfigurare quella che è la realtà. La fantasia, che di per sé è un campo impalpabile e indefinibile, può essere ripetitiva perché è una pratica della mente da allenare costantemente, altrimenti può diventare stantia. È confrontandosi con gli altri, accogliendo le idee e le suggestioni di altre persone, che la propria fantasia viene spronata.
Nel suo mestiere quanto c’è spazio per la tecnica e quanto per l’improvvisazione?
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Io provengo da un percorso di formazione attento alla disciplina, attraverso una serie di incontri ho studiato e sviluppato molto la tecnica. Adesso, con l’esperienza, mi sento più libero dal pensiero della tecnica. È come per i musicisti: per anni si esercitano e poi improvvisamente non devono provare più quel pezzo perché arrivano ad un punto in cui non si pensa più a come muovere le mani… Per quanto riguarda gli attori si può parlare di tecnica vocale e di tecnica fisica, da abbinare però costantemente alla tecnica dell’emozione.
Quando si sperimenta un blocco artistico, come si fa a riattivare la fantasia? I blocchi artistici sono dovuti alla stanchezza o all’esaurimento di un determinato ciclo. Per riattivare la fantasia penso che sia necessario allenarsi con disciplina proprio all’allenamento di questa fantasia che non può esistere senza la curiosità. Bisogna quindi mettersi in una condizione di interessamento verso le cose chi ci circondano, stimolati dal mondo esterno, per riuscire così a crearne uno tutto nostro. Inoltre spesso è necessario arrendersi anche al fallimento: nel momento in cui l’idea non arriva devi fermarti e svuotarti dalle tue ossessioni, anche con pratiche meditative. Per accendere la fantasia occorre studiare se stessi, ma mantenendo sempre un’apertura verso la vita e una curiosità verso gli altri.
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Ritratti di fantasia Shel Shapiro
Liberi di sognare Che cos’è la fantasia? È la disponibilità a sognare. Non può esserci ripetitività nella fantasia perché ognuno di noi possiede la sua fantasia, che si esprime in maniera sempre differente: la fantasia comincia quando nasci e finisce quando muori. La fantasia non ti abbandona mai. Magari durante il corso della tua esistenza vivi momenti alterni: un giorno è come se fossi sulle montagne russe e in altri periodi invece soffri di depressione, ma il sentimento della fantasia non smette di abitare il tuo animo.
Nel suo mestiere quanto c’è spazio per la tecnica e quanto per l’improvvisazione? Dipende molto dal tipo di lavoro che stai facendo: se ti occupi di teatro o se fai musica, se devi seguire le direttive di un regista oppure se stai autogestendo la tua creatività… Il binomio di improvvisazione e di tecnica è estremamente elastico, non si può incasellare: è la soggettività, l’intima vocazione personale, che meglio esprime questo concetto. IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Quando si sperimenta un blocco artistico, come si fa a riattivare la fantasia? Si passa dalla disperazione e ci si autoconvince che esistano delle motivazioni più importanti per angosciarsi. Quando non si riesce a combinare nulla e passa anche del tempo, è difficile trovare la chiave giusta per uscirne… Certe volte questa fase può essere anche un processo molto duro e arduo da superare. Se tu cerchi di andare verso la società, questa poi è in grado di restituirti qualcosa: energia, sorrisi, perfino delle incazzature che servono molto durante il processo creativo. A vent’anni è ancora molto facile sognare, o meglio deve esserlo, invece alla mia età bisogna darsi da fare perché altrimenti ti blocchi dietro a montagne di parole dette dagli altri. Il potere tende a toglierti gli stimoli di ragionamento, così diventi più manovrabile e infatti io non sono d’accordo con lo slogan del ’68 che propugnava “la fantasia al potere”: nel momento in cui la fantasia prende potere non è più, proprio per costituzione, fantasia. È importante che ci sia il potere di usare la fantasia, questo sì!
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Quaderni della Pergola Materiale raccolto da Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini, Matteo Brighenti, Riccardo Ventrella, Orsola Lejeune, Clara Bianucci, Tobia Pescia, Clara Neri, Zoe Guerrini, Adela Gjata, Gabriele Guagni, Sandra Gesualdi, Raffaello Gaggio, Dalila Chessa, Simona Mammoli
Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it
Progetto Grafico Walter Sardonini/Social Design Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli Interviste Angela Consagra
Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com
Le fotografie di copertina, dell’editoriale e della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini Le fotografie dell’album Impressioni (intime) d’autore… sono di Tobia Pescia La traduzione dal francese dell’intervista a Muriel Barbery è di Clara Bianucci
Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Antonio Chelli, Barbara Felleca, Maurizio Frittelli, Raffaello Napoleone, Duccio Traina Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci Direttore Generale Marco Giorgetti © 2016 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA © 2016 EDIZIONI POLISTAMPA
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La traduzione dall’inglese dell’intervista a Viggo Mortensen è di Raffaello Gaggio Le interviste a Meryl Streep, Tom Hanks, Viggo Mortensen e Paola Cortellesi sono frutto delle conferenze stampa e degli incontri con il pubblico degli attori in occasione della Festa del Cinema di Roma 2016 L’intervista a Renzo Arbore è ispirata all’incontro con l’artista organizzato dal Campus della Musica al Teatro dell’Opera di Firenze L’intervista a Muriel Barbery prende spunto dall’incontro con la scrittrice tenutosi al Salone Internazionale del Libro di Torino 2016 L’intervista ad Ugo Chiti è tratta da una precedente intervista pubblicata sulla rivista Fuoriscena
La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.
Se l’uomo non immagina, si spegne... Danilo Dolci