Quaderni della Pergola n.10

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Il numero 10 dei Quaderni della Pergola è ispirato al viaggio. I Quaderni per loro natura sono contenitori di pensieri ed emozioni erranti, viaggiano di mano in mano incontrando sguardi, curiosità e pensieri sempre nuovi. I Quaderni sono arrivati alla decina tappa di un percorso avvincente e pieno di sfide. L’immaginazione e lo stupore sono stati fedeli compagni di viaggio. In questo numero dieci abbiamo scalato montagne, oltrepassato i confini fisici dei nostri corpi, attraversato le nostre anime, scavato nelle nostre paure; abbiamo visitato Marte e fotografato Paesi lontani; pedalando in salita abbiamo scoperto quanto sia importante conoscere i propri limiti e cercare nuovi traguardi. Abbiamo ascoltato promesse di viaggi ancora da realizzare e ricordi indelebili di viaggi lontani nel tempo. La meta è lontana e, timida, non si fa afferrare. E così il teatro, con il suo mistero, ogni sera cambia faccia e accoglie respiri e applausi sconosciuti e rivelatori. Gli attori lo sanno: ogni recita è un viaggio. E in quel viaggio spettatori ed attori diventano complici di emozioni, giochi, sfide, sogni… Vita! E così allacciate le cinture di sicurezza… pronti… si parte! Bon voyage!

2. Claudio Magris 3. Luca Zingaretti 7. Emilio Solfrizzi 11. Umberto Orsini 14. Elisabetta Pozzi 17. Dai viaggi dell’anima… 19. Partiamo 29. Ricordando Luca De Filippo… 30. La parola al pubblico 31. Dalla Pergola ai teatri del mondo… 38. Elio Germano e Pierfrancesco Favino 41. Dal diario di una giovane spettatrice… 42. Tim Robbins 44. Dacia Maraini 47. La Storia racconta… 49. Dedicato a Orazio Costa 51. Paolo Conte 54. Mario Brunello 57. Mario Botta 59. Hervé Barmasse 62. Fosco Maraini 64. Giovanni Bignami 65. Folco Terzani 68. Michel Hardy 70. Zerocalcare 73. Exit Enter 76. Cartoline dagli attori


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On the road

“C

di Claudio Magris

i sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro, della seduzione e dell’avventura; la ventesima o centesima volta in cui si parla con un amico o si fa all’amore con una persona amata sono infinitamente più intense della prima. Ciò vale pure per i luoghi; il viaggio più affascinante è un ritorno, come l’odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca. “Perché cavalcate per queste terre?” chiede nella famosa ballata di Rilke l’alfiere al marchese che procede al suo fianco. “Per ritornare” risponde l’altro.”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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Luca Zingaretti GUARDANDO SEMPRE OLTRE di Angela Consagra

Un regista che dirige gli altri attori, ma che è lui stesso in scena; quali sono le difficoltà di questo tipo di lavoro? È una fatica improba. Il lavoro del regista parte da una solitudine rumorosissima, nel senso che è sconfinata: il regista veramente è solo perché sta a lui prendere la decisione finale. È come il capitano di una nave in mezzo alla burrasca: tutti ti aiutano a condurla, però quando la barca si arena sugli scogli la colpa è del capitano. Funziona nello stesso modo a teatro, al cinema o in TV: sei tu, alla fine, a decidere la

“Il regista è come il capitano di una nave in mezzo alla burrasca: tutti ti aiutano a condurla, però quando la barca si arena sugli scogli la colpa è del capitano” direzione da prendere e te ne accolli la responsabilità. Quando sei attore e contemporaneamente regista, devi lavorare per almeno otto ore al giorno con gli altri attori e non trovi mai uno spazio per fare tu stesso le prove. Vuoi sempre raggiungere la perfezione dal punto di vista registico, mentre rischi di andare in scena che ancora non sei entrato completamente nei panni dell’attore. Inoltre anche durante le repliche la tua visione da regista non si

ferma mai, continui a stare attento ad ogni più piccolo particolare. Noi ogni due giorni, anche adesso che siamo in tournée con The Pride, rimettiamo lo spettacolo in prova e cerchiamo di migliorare ancora una scena, di fermarci su una pausa in più… Il rigore è fondamentale e solo adesso, che lo spettacolo per fortuna sta andando benissimo ed è acclamato dal pubblico, comincio a rilassarmi e ad entrare realmente nel mio personaggio.

Come attore e regista, quanto è importante pronunciare nel modo giusto una certa battuta? Un attore che è giusto per la sua parte, può anche dimenticarsi le parole precise: fondamentale è riuscire ad esprimere comunque una forte energia comunicativa, in maniera quasi aggressiva. Durante le prove spesso dico le battute usando altre parole: non è importante ricordarsi tutto correttamente, piuttosto è la carica energetica con cui quella battuta si deve dire che non può mai diminuire.

Essere attori è un viaggio continuo… Da dove è partita questa strada per Lei? Sono diventato attore quasi per caso. L’unica cosa che poteva indurmi a pensare al fatto che sarei potuto diventare un attore è il mio carattere: per natura io sono una persona inquieta, che è continuamente alla ricerca di qualcosa… Il mestiere dell’attore, oltre a darti la possibilità di viaggiare proprio fisicamente, appaga anche un desiderio più intimo e profondo perché aiuta a farti delle domande. Essere attori significa anche mantenere dentro di sé una spinta in avanti, la voglia di guardare sempre oltre e non accontentarsi mai.


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Un attore si trova mai a vivere con ripetitività, con una certa routine, il rapporto con il proprio personaggio? Io nasco come attore di teatro. I miei primi quindici anni di carriera sono stati dedicati esclusivamente alle repliche fatte sera dopo sera di uno stesso spettacolo, poi è arrivata la televisione ed il successo di Montalbano. Ad un certo punto mi ha preso la nostalgia e sono tornato al ritmo del teatro. Per quanto riguarda la tua domanda, direi che dipende tutto da che tipo di attore sei, dal personaggio che stai interpretando… Secondo me quando si entra in scena bisogna stare dentro alle emozioni: la sofferenza, l’amore, la tristezza, la gioia, tutta la gamma di sentimenti che toccano l’animo umano devono passare – come una potente scossa elettrica – dall’attore che sta recitando fino al cuore dello spettatore. Scocca una scintilla che dà il via a questo rapporto, unico, tra l’attore e il suo pubblico. Si tratta di un giro virtuoso che dal palcoscenico porta energia verso gli spettatori, mentre a sua volta dalla platea sale questo sentimento - un misto di energia e concentrazione - che ti fa percepire il pubblico nel suo insieme, come se fossero tante lucine che si accendono e che alimentano questo circuito emozionale. Ecco perché in scena non è possibile barare mai: devi esserci nella recitazione, essere sempre presente a te stesso senza perderti mai.

Per il suo ritorno a teatro, dopo un lungo periodo dedicato alla televisione e al cinema, Lei ha sempre scelto autori di testi contemporanei… Teatralmente io mi sono formato sui classici e quando sono ritornato a pro-

porre degli spettacoli mi sono interrogato proprio sull’essenza del teatro, sulla sua esigenza più profonda: la necessità che il teatro ha continuamente di rinnovarsi, riuscendo così a parlare agli spettatori. Credo che sia fondamentale indurre chi guarda uno spettacolo ad un prezioso momento di discussione, di gioia o di riflessione. In futuro non escludo FOTO DANIELE ROMANO

“Un attore può anche dimenticarsi le parole precise: fondamentale è riuscire ad esprimere comunque una forte energia comunicativa, in maniera quasi aggressiva” di rappresentare anche dei testi classici. Non importa che si tratti di un contemporaneo o di un classico: l’importante è riuscire a creare un’emozione.


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Un attore che ha una popolarità enorme, conosciuto attraverso la televisione da milioni di persone, come vive il fatto di essere famoso, riconosciuto e fermato per strada? Non vedo particolari svantaggi legati alla popolarità e non sono d’accordo con chi afferma il contrario. Si fatica tanto e si lavora continuamente per

“Per natura io sono una persona inquieta, che è continuamente alla ricerca di qualcosa…”

può capitare che in alcune giornate tu sia anche di cattivo umore… Queste sono comunque delle semplici sciocchezze perché vedo soltanto vantaggi e non svantaggi nella popolarità.

L’applauso: che momento è per un attore? Esistono tanti tipi di applausi: quello fiacco e di circostanza oppure quello fatto da un pubblico di gente emozionata per quello che ha appena visto sul palcoscenico… Alla fine di uno spettacolo quando gli spettatori vogliono dirtelo che hanno provato

FOTO FILIPPO MANZINI

trovare il proprio spazio d’espressione: quando un attore arriva al successo non può poi lamentarsi degli effetti della notorietà… È vero che forse vedendoti quasi quotidianamente sullo schermo a volte tutti ti trattano come se dovessi essere sempre allegro e pimpante, mentre sei un essere umano e

un’emozione, quando ti urlano “Bravo!” e applaudono a palmi tesi, ritmando con foga anche l’applauso: questa è una gioia sconfinata ed è sempre come se fosse la prima volta per un attore, un’emozione che non si può descrivere. Si vive il momento assaporandone l’autenticità.


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Emilio Solfrizzi IN VIAGGIO SORRIDENDO Il viaggio che un attore compie nei personaggi e nella storia che sta interpretando è anche, in qualche modo, un percorso dell’anima? Indubbiamente lo è; si tratta di un viaggio emozionale, che tocca l’anima. Credo che gli attori bravi siano quelli che riescono il più possibile a spogliarsi realmente di sé e ad entrare nei panni di un altro: questo è il vero viaggio che gli attori compiono ed è un privilegio che loro hanno. I modi per raggiunge-

“Tentare di far raggiungere un istante di felicità agli spettatori: questa tensione continua costituisce una grande responsabilità” re questo livello di compenetrazione e di intensità con un nuovo personaggio sono diversi: un attore come Dustin Hoffman, per esempio, si prepara moltissimo dal punto di vista fisico e per il film Il maratoneta dice sempre di ricordare che correva e correva… Ciascuno segue un metodo, il più giusto per ognuno di noi, per arrivare con intensità e coraggio a rappresentare un mondo ‘altro’, lontano da ciò che si è.

Che cosa c’è nella sua valigia di attore? Una volta gli attori giravano in lunghe tournée di piazza in piazza

portandosi dietro il proprio baule: dovevano avere pronto con loro tutto l’occorrente per mettere in scena almeno due o tre ore di repertorio… Oggi la valigia è diventata più piccola: lo spazzolino, un libro oppure l’iPad per rimanere in contatto con il mondo…

Quale strada l’ha condotta verso questo mestiere? Ho avuto la fortuna di frequentare un liceo che, oltre alla palestra, aveva anche un teatro. I nostri insegnanti ci spingevano a frequentare il palcoscenico, un luogo di incontro e di scambio nel rapporto con gli altri. Avevo capito che, per esempio, stando sul palco tutte le ragazze ti venivano a parlare... Era un modo per mettersi in mostra con loro e per ottenere che gli amici stessero sempre vicino a te: un piccolo momento di gloria nel percorso scolastico! Inoltre io ho fatto la scuola con il mio amico Antonio Stornaiolo, che è in qualche modo ‘l’altra metà di me’ perché abbiamo formato per anni il duo comico Toti e Tata e abbiamo percorso insieme questa strada del teatro. Ancora oggi d’estate o nei momenti di pausa facciamo degli spettacoli insieme, che ormai sono diventati di repertorio. Per me rappresentano quasi una vacanza perché avverto come una sorta di deresponsabilizzazione: nel corso del tempo è cambiato il nostro modo di affrontare il pubblico e infatti adesso abbiamo acquisito una certa forma di rilassatezza, frutto degli anni condivisi che si sono accumulati. C’è meno ansia rispetto ai nostri inizi, siamo più maturi: rimane soltanto la gioia di incontrare un amico sul palco, con il quale ci divertiamo un sacco. In scena quando si è un duo si affida il proprio essere, il modo personale di sentire i tempi comici o drammatici, all’altro


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che ti sta accanto e che ti aiuta ad affrontare il pubblico. È uno scambio di straordinaria generosità.

Riuscire a far sorridere il pubblico: se ne avverte la responsabilità? Io in scena sento sempre in maniera potente e forte questo tipo di responsabilità. Più in generale avverto comunque di continuo la responsabilità del

bisogna essere capaci di farla arrivare anche nei momenti positivi. Tentare di far raggiungere un istante di felicità agli spettatori: questa tensione continua costituisce una grande responsabilità. E in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, con tutte le notizie che ci arrivano dal mondo, comunque rimango un ottimista. Mio padre ha vissuto la generazione della guerra, invece io sono nato negli anni Sessanta - in pieno boom economico - e credo che questo mi abbia aiutato molto nell’intraprendere delle scelte, anche quelle più rischiose. A 25 anni con gli amici di scuola ho aperto un teatro, preoccupandomi poco dei problemi materiali e anzi con una fiducia assoluta nelle nostre possibilità. Oggi ai giovani - vedo la generazione dei miei figli - manca forse proprio la capacità e la possibilità di guardare in avanti, l’ottimismo e la speranza di riuscire a realizzare qualsiasi cosa, caratteristiche tipiche di chi si affaccia al futuro.

Essere tra i protagonisti di una popolare fiction televisiva – come, per esempio, è stata la fortunata serie TV Tutti pazzi per amore – regala la notorietà e fa in modo che un enorme numero di persone imparino a riconoscerti …

FOTO MARCO DELIA

fare che è comunque una parte del mio tratto caratteriale. Secondo me non si può andare a cercare la risata semplicemente in chiave catartica, creare un momento comico soltanto quando si deve fuggire dalle cose tristi… La risata

Sicuramente raggiungere la popolarità ha tanti vantaggi e contribuisce a migliorare la tua esistenza, però è vero che quando diventi un personaggio conosciuto la gente ripone molte aspettative nei tuoi confronti. Ed in particolare questo vale quando sei un comico: il pubblico ti percepisce come una figura ancora più familiare, capace di fare subito battute e divertirti. Ho sempre pensato che i propri miti non si dovrebbe mai arrivare a conoscerli perché inevitabilmente il


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contatto con la realtà può deluderti: l’idealizzazione che ne avevi fatto può non corrispondere perfettamente a ciò che ti trovi di fronte. Molto spesso la vita di un artista viene idealizzata dal pubblico, mentre la carriera di un attore è soggetta a molti alti e bassi: la precarietà, sotto diversi punti di vista, è forse l’aspetto più imprescindibile di questo mestiere. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

La preparazione in camerino poco prima di uno spettacolo: quello spazio e quel tempo unici che separano l’attore dal ruolo che dovrà interpretare; come si vivono quei preziosi momenti? Io non ho riti scaramantici, anzi avendo uno sguardo comico nei confronti della vita sono uno che tende a sdrammatizzare tutto. Però posso dirti che provo a vivere questo passaggio mantenendo costantemente l’emozione. Cerco di non perdere mai la

voglia di andarci, in palcoscenico, e di fare bene il mio mestiere: il tentativo è quello di riuscire a non meccanizzare mai i miei gesti e le battute dello spettacolo. Sono consapevole che ogni sera è un nuovo incontro, un evento che ha una storia a sé, e in quanto tale lo vivo: nella sua unicità. Essendo un essere umano - quindi perfettibile - a volte magari posso riuscirci di meno, ma la ricerca di questo obiettivo non si allenta mai. A me piace enormemente anche fare cinema, però l’emozione che ti dà il teatro quasi non si può spiegare… Lo spettacolo non ha filtri: ci sei tu e di fronte il pubblico, e questo incontro è una magia. Se entrambi – gli attori e gli spettatori – aderiscono alla convenzione del teatro e si lasciano trasportare in questa avventura meravigliosa che è il tempo dello spettacolo, ecco che può nascere una bella storia d’amore. Del resto il pubblico è come se fosse un altro attore della serata, che spesso determina perfino il ritmo della rappresentazione. A volte dipende dal pubblico se lo spettacolo dura di più o di meno: i tempi si dilatano anche in base alla reazione della platea e questo tipo di scambio reciproco influisce inevitabilmente sulle emozioni di ogni attore, sulla sua partecipazione o sulle sue fragilità.


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Umberto Orsini TRA EMOZIONE E RAGIONE L’attore è un mestiere in continua evoluzione? Sì, è un viaggio continuo. In particolare nello spettacolo che stiamo portando in giro in tournée, Il prezzo, abbiamo la fortuna ed insieme l’onere di avere in scena con noi il regista Massimo Popolizio. Ecco che il lavoro sui personaggi e sulla rappresentazione si muove di

discuto mai con un regista che ha delle idee; il mio fine ultimo è quello di fare un buono spettacolo, mi interessa solo di proporre al pubblico un buon prodotto: a volte può essere fortemente emotivo, a volte politico o rude… Ne Il prezzo la messinscena è acida e drammatica, ma allo stesso tempo anche ironica. L’acido del nostro spettacolo è l’acido che alberga in certe famiglie, nelle quali si scopre il coperchio e non si trovano delle grandi tragedie ma si convive piuttosto con dei piccoli drammi. Lo scopo ultimo e primario di quello che faccio, da quando sono a capo della mia Compagnia e spendo dei soldi per realizzare uno spettacolo, è affrancato da qualsiasi tipo di compromesso. L’unico obiettivo è la ricerca della qualità. Ogni spettacolo portato in scena ha la sua forma e il suo diverso tipo di attore, ma il marchio di qualità è l’unico aspetto riconoscibile. La mia attenzione – anche di spettatore – punta su quelle proposte più valide, e sempre alte qualitativamente. Il teatro deve staccarsi dall’usuale proposta dei mezzi televisivi e questo anche se io la TV la guardo: Gomorra, per esempio, è una serie italiana che mi è piaciuta molto… Con la mia Compagnia ricerchiamo la qualità non per fare un teatro di nicchia o snob, anche se io sono molto snob ed arrogante in questo senso: cerco di portare in giro degli spettacoli non casuali e questo tipo di sforzo richiede fatica. Seguo l’arroganza dei Maestri che ho avuto io stesso nel corso della mia lunga carriera: la loro verità era l’eleganza, la stessa che anch’io perseguo.

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

continuo, anche perché lui chiede a noi attori delle cose sempre molto sensate, mai sciocchezze… I registi io li ascolto perché non sono un regista, anzi ho sempre avuto bisogno di un regista perché amo il dialogo e la contraddizione. E non

Il lavoro dell’attore su un personaggio è un viaggio emotivo? Dipende da attore ad attore... Per me non è mai un viaggio emotivo, piuttosto il mio è sempre un viaggio della ragione. Porto dentro di me i ruoli, ma non mi si


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appiccicano mai completamente addosso. Io parlo di un teatro che nasce dalle analisi delle emozioni, non si può fare questo tipo di teatro soltanto partendo

tazione: tutti gli spettatori, in qualche modo, si rispecchiano nei personaggi e ritrovano loro stessi, anche quando non gli somigliano e sono troppo distanti da loro. La strada per colpire il cuore dello spettatore non risiede solo nell’emotività: si può restare affascinati anche dall’abilità. Lo spettatore che sta seduto in platea non può che essere stupito e ammirato dall’abilità attoriale.

Si arriva mai ad un punto di arrivo in questo mestiere?

FOTO FILIPPO MANZINI

dalle semplici emozioni. Sono io a dover emozionare il pubblico che deve guardarsi nello specchio della rappresen-

Quando si ha un traguardo, allora si arriva ad un punto finale... Per distrazione non mi sono accorto che il traguardo è già passato e quindi continuo a pedalare, andando avanti senza fermarmi. Il traguardo è già alle mie spalle, ma io non l’ho visto. Continuo a salire la montagna della vita e cerco il traguardo, senza trovarlo. Tutto sommato questa è una mia visione cinica dell’esistenza, un modo di affrontare sia la vita che il teatro.


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Dopo tanti anni, che cos’è il pubblico per Lei?

Lei ha trascorso la sua vita in tournée, che cosa contiene ancora la sua valigia di attore?

Il pubblico è un ostacolo. Ma è anche un complice. Anche se spesso ti tradisce. In Il ritmo della tournée non mi piace, ogni spettacolo ci sono delle ‘spie’, alcune anche se non mi pesa farla. Ogni sera si battute – anche spiritose - fatte apposta vive una scoperta perché si toccano le per afferrare l’attenzione del pubblico. varie città italiane e si sperimentano le Quella sera magari nessuno ride alla differenze. Il senso dello stupore che il battuta stabilita e allora sai che non ri- pubblico è capace di darti, quello è idenderanno neanche alle altre: tu capisci che il segnale che arriva non è esaltante, così tu stesso dai meno... La replica di quello spettacolo risulta avvelenata da entrambi – pubblico ed attore – e si crea comunque una complicità, o meglio un concorso di colpa. La reazione del pubblico varia da sera a sera e cambia con l’età. Il pubblico migliore è sempre quello delle donne, soprattutto quello della domenica pomeriggio: hanno “Porto dentro di me i ruoli, visto tutto e sono generose, hanno una certa memoria teatrale. Sono sempre ma non mi si appiccicano mai stato amato dal pubblico femminile del- completamente addosso” la domenica: potrei definirmi un “attore delle matinée”, come viene chiamato il tico dappertutto. Mi sorprendo quando pubblico femminile negli altri Paesi tipo penso che le persone sono uscite fuori l’Inghilterra o l’America. Le signore an- di casa di sera, hanno parcheggiato la cora si ricordano di quando interpreta- macchina oppure preso l’autobus per vo I Fratelli Karamazov, uno sceneggiato venire a teatro a vedermi recitare... La andato in onda 45 anni fa, cioè lontano sensazione è sempre esaltante! Nella da noi come potrebbe essere Via col ven- mia valigia non mancano mai i libri che to... Mi stupisce questo affetto del pubbli- purtoppo sono troppo pesanti, ma adesco, è una di quelle mitologie che casual- so c’è il Kindle e ho almeno 200 libri da mente resistono nel tempo. consultare...

FOTO FILIPPO MILANI


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Elisabetta Pozzi UN TEATRO DI SABBIA Siamo abituati a vederla interpretare delle figure femminili estremamente forti o comunque carismatiche; che cosa deve avere un personaggio, proprio nella fase di lettura e di scoperta, per convincerla ad interpretarlo? Più che il personaggio guardo il testo. È da tanto tempo che non stavo all’interno di una grande compagnia di un teatro stabile come accade per Orestea, che stiamo portando in scena in questa stagione; l’ultimo spettacolo

“Io e mio marito andiamo in giro con un furgone, per cui mi porto la casa dietro. A mio modo sono una nomade, una circense che si sposta con la sua roulotte” fatto è stato Tutto su mia madre con la regia di Muscato: io stessa avevo tradotto il testo, siamo riusciti a produrlo e ad acquistare i diritti: sentivo mio il progetto e mi ha dato una soddisfazione incredibile. Nel corso della mia carriera ho interpretato così tanti personaggi, sono stata perfino Amleto… Anche un altro mio spettacolo di qualche tempo fa, Fahrenheit 451 - con la regia di Ronconi - è stata un’idea mia e di mio marito, con cui lavoro ormai sempre: sono tutte nuove sfide.

Il viaggio nel personaggio è un viaggio dell’anima? Indubbiamente sì. È un pezzo di vita che si trascorre insieme ad un personaggio che ti dà delle indicazioni e degli impulsi, ti stimola a pensare a quale potrebbe essere la tua reazione nella vita vera rispetto a ciò che compie il personaggio. Clitemnestra in Orestea ne fa di tutti i colori: è feroce, estrema, anche se è costretta a seguire gli dei che pretendono il sangue. In qualche modo bisogna rapportarsi al personaggio: lei vuole il potere, e questo è un fatto che ti spinge a porti delle domande… Perché ci devono essere soltanto i maschi a lottare? È una donna che dice di sé: “Io non mi piego…”, e visto in questa chiave ogni personaggio è un viaggio: perché ti induce alla riflessione.

Da attrice, che rapporto si instaura con il pubblico? Il pubblico è sicuramente il motivo per cui faccio questo mestiere. E mi piace capire cosa pensa il pubblico. Credo che a volte un attore o un regista abbiano delle necessità creative private, e non sempre corrispondono alle aspettative di chi viene a guardare un tuo spettacolo. Bisogna allora essere molto bravi a capire quello che ci sta succedendo intorno, veramente attenti a come le persone stanno reagendo a ciò che accade. Il teatro deve tornare ad avere una sua funzione civile e sociale, per condurre il pubblico a ragionare sui grandi temi che ci riguardano tutti. Questo si può arrivare a farlo sia con testi più antichi che contemporanei, l’importante è tenere conto del pubblico senza proporre un tipo di teatro gratuito o autocelebrativo. Io credo nel teatro di narrazione, il teatro nella sua forma più elementare: l’attore che racconta una storia e il pubblico che lo ascolta.


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Quale strada l’ha condotta verso il mestiere di attrice? Direi il fato! Non mi ricordo nemmeno quando ho cominciato: ero talmente giovane... Mi piaceva tantissimo andare a teatro, facevo danza e ancora oggi cerco di legare sempre i miei spettacoli con una coreografia in musica. Il mio inizio è stato con la danza classica, per poi seguire dei laboratori di ballerini contemporanei, tra cui un danza-

Il fu Mattia Pascal con Albertazzi e la regia di Squarzina. Era l’anno della maturità, da allora non ho più smesso di lavorare. E sono ancora qua.

Si arriva mai in teatro ad una destinazione? No, non si arriva mai. E questo vale per ogni ambito artistico, ma soprattutto per il teatro perché si tratta di una forma d’arte molto particolare, diversa da tutto il resto: gli spettacoli dal vivo si scrivono sulla sabbia perché vivono nel momento della rappresentazione. Non può esserci un punto d’arrivo. In quanti modi si può raccontare una storia? A seconda dell’epoca che vivi il tuo senso della narrazione cambia; dopo quello che sta accadendo nel mondo, per esempio, dove ci collochiamo noi? Già porsi queste domande e sperimentare delle ipotetiche risposte – tu come uomo o donna di spettacolo – ti fa capire quanto improbabile sia raggiungere un punto definitivo.

La sua valigia di attrice: che cosa contiene?

tore di Pina Bausch, e da lì ho cominciato a perseguire un’idea di teatro che mettesse insieme i vari campi artistici. L’idea di stare in scena mi è venuta in quinta ginnasio, avevo quindici anni: entrai nella Scuola di Genova e pian piano, dopo un provino, mi presero per

Io e mio marito andiamo in giro con un furgone, per cui mi porto la casa dietro. A mio modo sono una nomade, una circense che si sposta con la sua roulotte. Abbiamo una casa vera in cui stiamo benissimo, però in questo momento della nostra vita vagabondiamo e cerchiamo di girare l’Italia e il mondo. Mi porto dietro di tutto, mi sembra sempre di avere bisogno di qualunque cosa: sono il contrario dell’essenziale in viaggio perché ho un’insicurezza spaventosa. Come le lumache portiamo nel nostro furgone la casa: mio marito è musicista, quindi gli strumenti sono immancabili, facciamo dei veri e propri traslochi quando stiamo via per un po’…


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Dai viaggi dell’anima... Io vidi dal ponte della nave I colli di Spagna Svanire, nel verde Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando Come una melodia: D’ignota scena fanciulla sola Come una melodia Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola ... Illanguidiva la sera celeste sul mare: Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale Varcaron lentamente in un azzurreggiare: ... Lontani tinti dei varii colori Dai più lontani silenzii Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la nave Già cieca varcando battendo la tenebra Coi nostri naufraghi cuori Battendo la tenebra l’ale celeste sul mare. Ma un giorno Salirono sopra la nave le gravi matrone di Spagna Da gli occhi torbidi e angelici Dai seni gravidi di vertigine. Quando In una baia profonda di un’isola equatoriale In una baia tranquilla e profonda assai più del cielo notturno Noi vedemmo sorgere nella luce incantata Una bianca città addormentata


Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti Nel soffio torbido dell’equatore: finché Dopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto, Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervore Noi lasciammo la città equatoriale Verso l’inquieto mare notturno. Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le navi Gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano

lente:

Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzina Una fanciulla della razza nuova, Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia

a la fine di un giorno che apparve

La riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina: E vidi come cavalle Vertiginose che si scioglievano le dune Verso la prateria senza fine Deserta senza le case umane E noi volgemmo_ fuggendo le dune che apparve Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume, Del continente nuovo la capitale marina. Limpido fresco ed elettrico era il lume Della sera e là le alte case parevan deserte Laggiù sul mar del pirata De la città abbandonata Tra il mare giallo e le dune

Viaggio a Montevideo Dino Campana


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PARTIAMO Perché del resto alla fine di un viaggio c’è sempre un viaggio da ricominciare


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Parigi, o cara Il Teatro della Toscana torna in Francia dopo i fatti del 13 novembre di Riccardo Ventrella

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avorando all’interno di un edificio teatrale quasi si dimentica che il teatro è soprattutto un’arte viaggiante: quelle quattro mura rischiano di diventare il confine del mondo. Da quando siamo stati elevati al rango di Teatro Nazionale, però, le cose sono un po’ cambiate e più spesso ci capita di fare dei viaggi, per seguire spettacoli o specifici progetti. Il Teatro della Toscana a Parigi ha un piccolo ma fondamentale punto di riferimento: il Liceo Italiano Leonardo da Vinci. Nel cuore del settimo arrondissement, quartiere elegantissimo di ambasciate e istituti culturali stranieri, non si può non notare l’elegante facciata Art Nouveau dell’hotel particulier nel quale il Liceo ha sede, edificio disegnato da quel Jules Lavirotte che dello stile fu maestro assoluto. Il Liceo ha all’interno un piccolo teatro, che durante il fascismo fu convertito in palestra, ed è stato poi nuovamente attrezzato per piccoli spettacoli incontri grazie anche al progetto Les Liaisons Heureuses, promosso dal Mibact e diretto da Maurizio Scaparro a fine 2014 con il supporto della Pergola. In questo autunno, insieme a Scaparro e a “Sarà la suggestione Ferdinando Ceriani, avevamo messo in di ciò che è avvenuto, cantiere una seconda edizione di questa manifestazione al primo incontro, sulla sembra che tutti camminino Bottega del caffè e Giovanni Boccaccio, in un grande silenzio” avrebbe dovuto seguirne un secondo sulle culture del Mediterraneo con il poeta siriano Adonis. Poi è venuto il 13 novembre, e quello che sappiamo: per ragioni di sicurezza, l’iniziativa è stata annullata. Nonostante tutto, il 9 dicembre, giorno previsto per quell’incontro, siamo comunque tornati a Parigi, perché tanti impegni ci chiamavano lì. Charles de Gaulle, inteso come aeroporto, ci accoglie con un sole insolitamente caldo per questo periodo. Nei lunghi corridoi sotto la grande volta non c’è molta gente, mentre andiamo verso la stazione dei treni. Sarà la suggestione di ciò che è avvenuto, ma sembra che tutti camminino in un grande silenzio, un silenzio rispettoso. Il treno dondola piano verso la città; a Le Bourget c’è una conferenza internazionale, molti scendono e sulla piattaforma della stazione si vedono i primi nugoli di poliziotti, mentre il convoglio riprende la corsa. Da una RER all’altra, e poi la metro verso la stazione di Ecole Militaire. Usciamo nel cuore del settimo arrondissement, in un angolo degli Invalides, tempio delle glorie di Francia. La Tour Eiffel fa capolino dietro i tetti alti dei palazzi di Avenue de la Bourdonnais, mentre si va verso il Liceo. Una piccola sosta alla fontana di Champs de Mars, con il suo caratteristico ristorante con le tovaglie a quadri. È quasi l’ora di pranzo, e comincia l’andirivieni


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dei colletti bianchi che lavorano nei numerosi uffici governativi e diplomatici della zona. Il portone del Liceo, solitamente aperto, è chiuso: effetto degli attentati. Lo si continua a vedere anche negli occhi della gente. La vita continua, il lavoro prosegue, i turisti tornano a popolare musei e attrazioni, ma si fa tutto in un grande, rispettoso silenzio. Col Preside del Liceo Aurelio Alaimo parliamo di programmi: la Fondazione è determinata a proseguire la propria presenza in questo caposaldo della cultura italiana in terra di Francia. Tempo di mangiare qualcosa, di salutare un giovane cameriere catanese che lavora da poco in un ristorante della zona, e poi ancora la metro, la storica linea uno. Direzione Chateau de Vincennes, la Cartoucherie, questa straordinaria aggregazione di sale teatrale nella prima periferia parigina. AnFOTO RICCARDO VENTRELLA diamo a trovare il Workcenter Jerzy Grotowski, un’altra delle nostre grandi ricchezze, che per venti giorni è ospite dell’Association de Recherche des Traditions de l’Acteur. “Comportamento organico e azione intenzionale”, è il titolo dello stage, diretto da Mario Biagini e Thomas Richards. È uno dei tanti progetti che il Workcenter realizza in giro per il mondo (ne parliamo in un’altra sezione di questo numero dei Quaderni). Una breve sosta e poi Targa via, verso l’incontro con Michele Canonica che a Parigi rappresenta la Società Dan- del Liceo Italiano te Alighieri, ed è sempre stato per noi un partner fondamentale. Attraversiamo la di Parigi grande rotonda degli Champs Élysées, mentre è sceso il buio e si è abbassata una nebbia umida e fredda. La zona è piena di polizia perché al Grand Palais c’è una manifestazione internazionale. I militari armati deviano il passaggio di chi cammina sul marciapiede opposto, gentilmente ma con fermezza. Il grande villaggio di Natale allestito proprio nella grande piazza dei Campi Elisi risplende di luci e odora di mille cibi diversi. A cena si parla di molte cose, compresa la recente affermazione elettorale del Fronte Nazionale. Perché è accaduto, paiono chiedersi i francesi; perché avrebbe dovuto non accadere, sarebbe la giusta domanda da porsi. Il nostro viaggio è quasi finito: qualche commissione ancora, un morbido pain su raisins per interrompere la mattina e siamo già sul treno verso l’aeroporto. Il sole gentile del giorno prima ha lasciato il posto a un cielo plumbeo e basso. Ma la nebbia non fa perdere la speranza: Parigi, o cara, noi non lasceremo.


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Per l’alto mare teatrale “Teatridimare”, navigare e recitare lungo il Mediterraneo e oltre di Matteo Brighenti

L’attore e regista Francesco Origo al timone di Kahara

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ui dove il mare è aperto al dialogo il teatro è una promessa che gonfia le vele di porto in porto, e di applauso in applauso. L’attore e regista genovese Francesco Origo fende le onde da 15 anni (luglio-ottobre) e 25.000 miglia portando spettacoli nei porti della Sardegna, Corsica, Toscana, Lazio, Liguria, Calabria e Norvegia. Il suo progetto permanente di navigazione teatrale “Teatridimare” è unico al mondo. “Da giovane, d’estate, andavo a fare lo skipper con i marinai bretoni – racconta – hanno sempre vissuto il mare per lavoro e quindi con un rapporto molto concreto, organico, carnale. È come io intendo il palcoscenico, senza tante moine”. Ora che è inverno sta lavorando a “Thalassaki – Storie di vita di un piccolo mare” per Cagliari capitale italiana della cultura 2015. Origo viene dal ‘teatro ufficiale’: ha condiviso la scena con Lina Volonghi, Mariangela Melato e Carlo Cecchi ai tempi del Niccolini, a Firenze, e dal 1985 al 1996 ha insegnato recitazione alla Scuola dello Stabile di Genova. Poi si è trasferito in Sardegna, a Cagliari. “Avevo fatto indigestione del circuito italiano – spiega – un attore in tournée si ritrova in un condominio viaggiante, nella routine di un microcosmo piccolo borghese”. Allora, nel 1999 fonda la Compagnia çàjka (‘gabbiano’, in russo, come il dramma di Cechov, autore molto amato dallo stesso Cecchi) e nel 2001 prende il largo con “Teatridimare”. Fedelissimi compagni di avventura, Barbara Usai ed Enrico Incani.


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“Se metti una mano o un piede in acqua – prosegue Origo – vieni avvolto da molecole di una materia che unisce tutto il mondo e ti permette di navigare. Per i sardi il mare è un nemico, io invece l’ho visto da subito come una via di apertura verso nuove frontiere culturali”. Il furgone con cui la Compagnia si sposta in lungo e al largo diventa così un Kutter di 14 metri, un progetto Sciomachen in kevlar, 8 posti letto e un pescaggio di 2,5 metri, che, oltre a ospitare gli attori-marinai, trasporta scenografie, costumi, service audio-luci, attrezzeria e materiali pubblicitari. Kahara è una signora del mare che ha permesso a Origo e al suo equipaggio di affrontare qualsiasi traversia. “Furgone, casa, sala prove – precisa – spesso proviamo in navigazione, al timone ci pensa il pilota automatico, ma se regoli bene le vele non ce n’è neanche bisogno. Abbiamo avuto applausi da “Se metti una mano o un piede altre barche in mezzo al Tirreno, e abin acqua vieni avvolto da molecole biamo suonato per i delfini”.

di una materia che unisce tutto navigare”

La Compagnia çàjka naviga lontail mondo e ti permette di no dalla costa, si avvicina a terra solo quando deve attraccare: nei contratti hanno messo la clausola che l’arrivo è garantito fino a burrasca forza 7. Si approda il giorno precedente allo spettacolo e viene allestito il palco sulla banchina: il porto diventa una platea e Kahara il dietro le quinte. In mezzo, non un teatro di strada, ma in strada, in luoghi che diventano teatrali perché Origo e i suoi li fanno diventare tali. “Non è il pubblico che va a teatro – riflette – è il teatro che va dal pubblico, per questo costruiamo spettacoli di forte impatto, che arrivino alla maggior parte delle persone, ma senza rinunciare alla grande letteratura”.

E allora vanno in scena Le furberie di Scapino di Molière, favole di Gozzi, vaudeville dello stesso Origo o di Enrico Bonavera, ‘allievo di bottega’ di Ferruccio Soleri e collaboratore dell’Odin Teatret di Eugenio Barba. In Norvegia, su invito dell’International Theatre Ensemble Studium Actoris di Fredrikstad, “A teatro come in mare c’è quest’anno sono stati attori di Blu, dendivisione di tutto e spartizione tro il vascello Najaden, appena restaurato, portando nella sua stiva tutta la del tutto in un paradigma di civiltà. tenerezza, il dolore e l’ingenua emozio- Ognuno deve avere la propria ne di un Ex-voto del mare, che ha dato voce e reso onore a chi nel mare si è autoresponsabilità in un lavoro perso. che però è collettivo, comunitario” “Teatridimare” è quindi una fabbrica teatrale viaggiante fatta di creatività condivisa, che coniuga linguaggi e intreccia scambi di professionalità, realizzando anche masterclass e laboratori per non professionisti. “A teatro come in mare – conclude Francesco Origo – c’è divisione di tutto e spartizione del tutto in un paradigma di civiltà. Ognuno deve avere la propria autoresponsabilità in un lavoro che però è collettivo, comunitario. E come il mare è più forte di noi così è il pubblico che determina il nostro successo o insuccesso”.


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Verne: odissea negli spazi paralleli La stupendevole lettura scenica di Teatro Sotterraneo

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l viaggio è la scommessa vinta del giocare. Tutti i giochi possibili, non uno soltanto. Con un libro o sul palcoscenico. Le pagine de Il Giro del mondo in 80 giorni di Verne sono le quinte da cui Teatro Sotterraneo ha lanciato le parole come dadi sul tavolo dell’immaginazione. “Il gioco per noi è qualcosa di molto serio – afferma Daniele Villa – è il rapporto tra creazione e regole, in una dinamica di partecipazione del pubblico”. Da Londra a Bombay, da Bombay a Yokohama, da Yokohama a New York, e da New York a Londra: 4 puntate, da luglio scorso a dicembre, di un ‘reading da tavolo’ che attraversando Pistoia ha chiuso il cerchio sulla corsa contro il tempo di Phileas Fogg e del suo cameriere Jean Passepartout. In scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri e una grande mappa del mondo di stampo ottocentesco. Di Daniele Villa l’adattamento, collettivi il concept e la regia, coproduzione Associazione Teatrale Pistoiese/Teatro Sotterraneo.

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“Abbiamo rintracciato i fatti che dovevano assolutamente essere riportati – spiega Villa – il romanzo era intatto, abbiamo solo aggiunto degli innesti che ci hanno permesso di fare il giro del mondo con gli occhi di Verne, vecchi di due secoli, e con i nostri, attuali”. Il deserto americano de“Il gioco per Teatro Sotterraneo scritto nel romanzo, ad esempio, divenla scommessa vinta del viaggiare tava il pretesto per una giocata sull’Area 51 e i rapimenti alieni. È la filosofia insieme attorno al focolare dello steampunk: sguardi anacronistici dell’affabulazione” dentro un’ambientazione storica. Sara Bonaventura e Claudio Cirri, infatti, erano vestiti come un damerino e una damina dell’800 eppure si comportavano come due imbonitori, carte alla mano come in un quiz televisivo, e una domanda, provocazione e penalità dopo l’altra seguivano l’andamento della storia sulla grande mappa come un Monopoli del mondo di Verne. “Sara e Claudio – interviene Villa – leggevano il racconto e i giochi che si attivavano (la recitazione a questo stadio era diretta, quasi da entertainer), e poi, con cambi di atteggiamento e piccole sfumature, restituivano tutti i personaggi del racconto”. Il testo, quindi, trattato come un ipertesto, attraversato cioè non in verticale, studiando il periodo storico di riferimento o la biografia dell’autore, ma in orizzontale, ovvero scovando gli spiragli in cui fare entrare l’immaginario presente. Un modo per ‘recuperare’ i classici nell’ambito della sperimentazione. Teatro Sotterraneo, pe-


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raltro, è un collettivo di ricerca teatrale, nato a Firenze nel 2004, che lavora nell’ambito del teatro contemporaneo, in continuo movimento fra creazioni originali, regie di testi e sperimentazione di opere fuori formato. Nella formazione originaria c’erano anche Iacopo Braca e Matteo Ceccarelli: hanno iniziato in un garage al di sotto del livello stradale (da qui il nome) e sono arrivati a vincere un Premio Ubu Speciale. “Siamo partiti dalle nostre urgenze o pulsioni – ricorda Villa – poi con L’origine della specie, nel 2010, e Il signor Bruschino al “Rossini Opera Festival”, nel 2012, ci siamo confrontati con opere già esistenti. Il Giro del mondo in 80 giorni sta dentro questo percorso: i classici sono ineludibili e fonte di un patrimonio immaginativo trasversale a più pubblici”. La ricchezza del progetto su Verne rappresenta anche la responsabilità della Compagnia nei confronti di Pistoia, in quanto residente presso l’Associazione Teatrale Pistoiese: Il Giro ha coinvolto anche diverse realtà musicali del territorio.

Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Il Giro del mondo in 80 giorni, Puntata 1, Villa di Scornio, Pistoia

FOTO GABRIELE ACERBONE

Dunque, il gioco per Teatro Sot- “Per noi il teatro è un esercizio di terraneo è la scommessa vinta del intelligenza e cittadinanza: ci preme viaggiare insieme attorno al focolare dell’affabulazione, come già fu per il che questo sia ciò che offriamo al prodigioso ciclo di letture alla Pergola pubblico a ogni lavoro” de Il deserto dei Tartari, regia di Andrea Macaluso. “Fogg alla fine ottiene 20.000 sterline – conclude Daniele Villa – quelle che ha speso per compiere il giro. Come lo spettatore: ciò che guadagna è l’essere stato dentro al viaggio. Per noi il teatro è un esercizio di intelligenza e cittadinanza: ci preme che questo sia ciò che offriamo al pubblico a ogni lavoro, a prescindere dalle soluzioni formali”. (M. B.)


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La vocazione del giovane Guglielmo Il Meister di Goethe, viaggio verso il teatro

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ell’amore di Goethe per il viaggiare c’è ben poco da dubitare. Il suo lungo itinerario in Italia, iniziato grazie a un passaporto falso all’inizio di settembre del 1786 e terminato quasi due anni dopo, rappresenta un passaggio fondamentale nella vita dello scrittore. In qualche modo, è il suo Bildungsroman, a contatto con quella civiltà classica (o meglio, con l’immagine che dell’Italia allora si aveva) tanto agognata: così agognata che Goethe trascura Firenze, dove resta solo qualche ora, per catapultarsi a Roma e trovare il contatto con le rovine. Non è affatto giovane Goethe, quando intraprende questo viaggio, avendo da pochissimo compiuto i trentasette anni, o meglio non è giovane per quell’epoca. Proprio quelli sono gli anni della composizione di un testo molto lungo e altrettanto complesso, che ha a che fare col viaggio e col teatro: le due parti del Wilhelm Meister, che incorniciano il viaggio in Italia.

“Perché il viaggio, si sa, non deve mai lasciarti come ti ha trovato alla partenza”

Per quanto siano molto più citati che letti, i due diversi libri e le loro storie sono abbastanza noti, soprattutto i Lehrjahre che chiudono la vicenda. Fin da bambino, giocando con le marionette, Guglielmo Meister ha mostrato una particolare predilezione per il teatro e diventato adulto e in procinto di decidere del proprio futuro trova nell’amore per la giovane attrice Mariane, legata però a sua insaputa anche a un ricco mercante. Il povero Guglielmo già compie un errore fatale, come quello di cercare di legarsi sentimentalmente a qualcuno che frequenta il palcoscenico; ne compie anche un più bizzarro, attratto sinceramente dall’occasione di allontanarsi dall’atmosfera borghese della casa paterna. Ritiene Guglielmo che la sua missione sia quella di fondare un teatro nazionale che contribuisca allo sviluppo della cultura del suo popolo. Il buon Meister sarebbe stato in sintonia con il processo storico di riforma che la Pergola ha attraversato negli ultimi mesi. Dopo aver scoperto l’inganno di Mariane, e le scivolose seduzioni del teatro, Guglielmo cambia però idea e si convince a seguire le tradizioni familiari. Parte quindi per un viaggio d’affari che dovrà servirgli come preparazione per il suo futuro nel mondo del commercio, e sarà proprio nel corso di questo itinerario che si imbatterà di nuovo nel teatro. Perché il viaggio, si sa, non deve mai lasciarti come ti ha trovato alla partenza. Meister si imbatte in una compagnia di attori girovaghi, di cui fanno parte un’arpista, la bella Philine e Mignon, una giovane abilissima acrobata, strana creatura dai ca-


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pelli neri, enigmatica nei suoi abiti da ragazzo. Wilhelm la riscatta, acquistandola dal suo padrone, e da questo momento Mignon sentirà di appartenergli come sua figlia del cuore. In occasione di un’esibizione della compagnia presso una dimora nobiliare, Wilhelm fa la conoscenza del mondo aristocratico, si innamora della bella padrona di casa e si accosta per la prima volta, attraverso l’invito di Jarno, all’opera di Shakespeare. Progetta allora di rappresentare l’Amleto, e di interpretare egli stesso il ruolo del protagonista. Dopo un lungo soggiorno al castello, gli attori decidono di raggiungere la compagnia di Serlo e durante il percorso Wilhelm viene ferito da un gruppo di malfattori. La “bella Amazzone” incontrata ora per la prima volta resta una figura misteriosa. La compagnia di Serlo prepara la rappresentazione dell’Amleto, che ottiene un buon successo. L’attrice Aurelia, sorella di Serlo, dopo l’incendio che distrugge il teatro, incarica Wilhelm di rintracciare Lothario, suo amante infedele. Il viaggio di Wilhelm deve ora prendere un’altra direzione, ma prima il racconto si interrompe per presentare, attraverso “le confessioni di un’anima bella” esposte nel sesto libro, una serie di personaggi e di fatti determinanti. La personalità intraprendente di Lotario attrae Wilhelm in una sfera diversa, lontana dal teatro; gli presenta però anche il nesso che ha legato finora il suo destino alla misteriosa Società della Torre. Wilhelm scoprirà ancora che Felix è il figlio che egli ha avuto da Mariane; che Mignon è la figlia del rapporto incestuoso dell’arpista con la sorella; che Natalie, la sorella di Lothario, è la “bella Amazzone”. E sarà infine proprio il definitivo incontro e l’unione con Natalie a indicare a Wilhelm la soluzione del proprio destino. Per quanto lungo e ingarbugliato, il Meister nelle sue due parti è il più bel racconto del teatro attraverso la lente del viaggio. Due secoli dopo Wenders saprà fare qualcosa di simile con il cinema girando Nel corso del tempo. Evidentemente, i tedeschi ogni tanto perdono al gioco del calcio ma sanno raccontare il viaggio come pochi altri. (R.V.)

Illustrazione di Gustav Heinrich Naeke dal Wilhelm Meister


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Sulle strade del Workcenter

Tra Brasile e Taiwan, passando per Pisa

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e c’è un corpo teatrale quasi sempre in viaggio, è certo quello del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. Che porta spesso il proprio knowhow ai quattro angoli del globo. Su queste pagine vi racconteremo sempre qualcosa dei loro itinerari, e iniziamo in questo numero partendo dal Brasile: Cantando Estradas: Encontros com o Open Program, progetto svoltosi durante il mese di maggio 2015, ha promosso l’incontro e lo scambio di saperi, pratiche e creazioni attraverso una residenza artistica itinerante dell’Open Program diretto da Mario Biagini, una delle squadre attive presso il Workcenter. Partendo dalla città di Campinas, nello stato di San Paolo, e toccando Hortolândia, São José dos Campos, Piquete, São Luiz do Paraitinga e Ubatuba, si sono svolte una serie di attività alla ricerca della “contaminazione” e dello scambio di saperi tra il lavoro dell’Open Program e quello portato avanti dai diversi gruppi e comunità visitate. Presentazioni dal vivo e proiezioni di film, laboratori che hanno portato a includere i partecipanti nelle opere performative dell’Open Program, incontri con comunità tradizionali afro-brasiliane, con gruppi teatrali dilettanti e professionisti, con studenti e professori universitari, incontri e scambi col grande pubblico hanno caratterizzato il mese del Workcenter in terra brasiliana. In luglio è stata la volta di Taiwan, con il Focused Research Team in Art as Vehicle di Thomas Richards impegnato in un progetto che è la nuova tappa di uno scambio con il locale U-Theatre, il cui direttore artistico, Rou-yu Liu prese parte negli anni Ottanta all’Objective Drama Program di Grotowski. Il primo seme dello scambio fu piantato nel 2000, quando Rou-yu Liu venne a Pontedera per assistere a Action, creazione di Thomas Richards come ultimo passo del suo apprendistato con Grotowski. Nel mese di luglio il Workcenter è rimasto diciannove giorni a Taiwan, rappresentando The Living Room e impegnandosi in tutta una serie di attività performative e pedagogiche. In mezzo un ritorno a casa, il Summer Intensive Program nel mese di giugno alle Vallicelle, casa del Workcenter, con 37 partecipanti da 14 nazioni diverse che hanno lavorato sia con l’equipe di Thomas Richards che con quella di Mario Biagini a esplorare e approfondire le loro potenzialità creative. (R.V.)


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Ricordando con affetto Luca De Filippo...


La parola al pubblico Obliqua continuo a scavare negli abissi delle mie Paure di Alice Nidito

cavalco Ansia e Allegria ostacolo dopo ostacolo

..Più giù ..Più in basso Nel profondo..

perdendo la voce scoprendo gli occhi alzando le braccia le mani pulite i piedi nel fango un cuore che batte il Mio, il Tuo, il Nostro, l’Altro Essenziale, come Respirare, questo Camminare


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Dalla Pergola ai teatri del mondo...

Così lontani, così vicini

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di Gabriele Guagni

Teatro della Pergola, Firenze (foto Filippo Manzini)

’é ancora qualcuno che si ricorda di me laggiù!”, esclamavano gli attori con una punta enigmatica di nostalgia, e non si sapeva se alludessero a lontane ammiratrici o a qualche padrona di casa rimasta creditrice. Agli inizi del Novecento la tournée all’estero era un elemento fondamentale nella carriera degli attori italiani, Europa in primo luogo, ma non c’era attore che non potesse vantare al suo attivo anche l’esperienza di una traversata al di là dell’Atlantico, in particolare in America Latina, trascinandosi dietro cataste di valigie e vagoni di bauli.

Imbarcatevi, dunque, con noi in un’affascinante tournée fotografica tra alcuni dei più importanti teatri del mondo, scelti tra gli oltre 60 presenti nella nuova sezione Arti dello spettacolo del Google Cultural Institute, il progetto di Google a cui ha aderito anche il Teatro della Pergola con le riprese degli interni in street view e le mostre digitali su Eduardo De Filippo e Andreina Pagnani.


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Dall’alto: Teatro Real, Madrid; Globe Theatre, Londra (foto John Wildgoose) Nella pagina accanto: Royal Shakespeare Theatre, Stratford-upon-Avon (foto David Tett © RSC); Teatro dll’Opera di Roma, Roma (foto Silvia Lelli)


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A pag. 34 in alto: Hungarian State Opera, Budapest; (foto Juhasz Attila e Nagy Attila) A pag. 34 in basso: Berlin State Opera, Berlino (foto Matthias Baus) A pag. 35 dall’alto: Latvian National Opera and Ballet, Riga (foto Gunars Janaitis) Metropolitan Opera House, New York (foto Jonathan Tichler) In questa pagina: Theatro Municipal de São Paulo; San Paolo (foto Sylvia Masini e Ricardo Kleine)


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National Theatre, Londra Dall’alto Olivier Theatre, Dorfman Theatre (foto Philip Vile)


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Elio Germano Pierfrancesco Favino IL VIAGGIO DELL’ATTORE Quanto conta per essere attori il lavoro sulla reattività, la capacità di reagire spontaneamente a ciò che ti sta di fronte per costruire l’interpretazione di una scena? GERMANO: Conta moltissimo. Ogni film è sempre un nuovo viaggio. In Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, per esempio, io e Riccardo Scamarcio abbiamo girato insieme una delle scene più importanti inizialmente solo seguendo come era stato scritto il copione, poi cambiando le battute e facendo degli esperimenti sulla scena. Il montaggio è frutto dei vari pezzi girati e delle diverse modalità con cui ab-

“Il cinema ti permette di entrare dentro agli occhi di un personaggio e coglierne l’essenza più intima” biamo provato: questo meccanismo ha fatto sì che ci fossero degli imprevisti durante l’interpretazione. Personalmente mi trovo molto bene con questa modalità di lavoro perché mi piace entrare, attraverso l’improvvisazione, nella vita vera. Se ci si dimentica della propria consapevolezza, il naturale meccanismo di autocontrollo si spenge ed emerge l’emozione, con tutta la complessità dell’essere umano. Questo

è uno dei linguaggi – il cinema ne ha molti – proprio per raccontare la vita. La forza dell’attore è quella di sapersi esprimere anche nel momento in cui sembra inconsapevole di farlo: il cinema ti permette di entrare dentro agli occhi di un personaggio e coglierne l’essenza più intima.

Il vostro è dunque un mestiere in cui si mantiene costantemente un momento di libertà interpretativa oppure è necessario abbandonarsi totalmente ai dettami del regista? FAVINO: Per arrivare ad abbandonarti a ciò che ti dice un regista, bisogna avere la volontà di allontanarsi dalle proprie paure. Noi attori accettiamo di essere delle persone che vivono del giudizio degli altri, ma alla base di questa condizione c’è un grande ribollire di insicurezza, il timore di non andare bene. Si genera un rifiuto della sicurezza e di come socialmente venga considerata dal punto di vista dell’identità: nella vita tu sei identificabile in qualcosa, mantieni sempre una tua riconoscibilità, mentre l’attore per mestiere fa la scelta di cambiare di continuo identità. Bisogna immaginarsi di essere ciò che non si è ed è una scelta faticosa. L’attore deve mettersi a disposizione della macchina da presa e per riuscirci deve aver fatto un percorso interiore. Si lavora molto sull’ego: se hai iniziato questo mestiere per essere amato, arrivi invece a sceglierlo per amare… Un grande come Sergio Castellitto racconta sempre che pensava di partire per il viaggio dell’attore con una piccola valigia per arrivare solo alla fine ad averne una piena, invece si è accorto che il percorso è inverso: parti con una grande valigia e poi forse ti ritrovi in tasca qualcosa… L’attore deve


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essere capace di alleggerirsi del proprio peso e mettersi a disposizione delle cose che accadono profondamente, in chiave quasi spirituale.

Oltre alla passione per il cinema, voi condividete anche quella per il teatro. FAVINO: Una delle cose che mi piace di più è entrare in teatro e sentire l’aria che vibra, l’energia che si sprigiona dal palcoscenico… Si tratta di un’attrazione amorosa, direi addirittura quasi sessuale, verso il luogo teatrale. Dal punto di vista architettonico il teatro è nato per creare una comunità che si riunisce per vedersi rappresentata: il pubblico aspetta che le luci si spengano e che cominci una storia, che parla ad ognuno di noi. In Italia ci sono tanti teatri quante chiese, non è un caso: siamo figli di una tradizione che ha sempre sentito l’esigenza di volersi rappresentare sia attraverso il sacro che il profano, nella parte più laica. È come in una messa: lo spettacolo crea una comunione di individui chiamati a celebrare insieme il rito del teatro. GERMANO: Sicuramente alla fine di uno spettacolo sei soddisfatto, proprio fisicamente: arrivi ad affermare un testo, fino all’ultima fila, compien-

do un grande sforzo fisico. Il teatro è una cosa anche molto sportiva e che ti aiuta a sfogarti, ad esprimere con il corpo la tua energia. In particolare, io soffro molto il ritmo quotidiano lega-

“Lo spettacolo crea una comunione di individui chiamati a celebrare insieme il rito del teatro”

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

to al teatro: tutte quelle ore durante il giorno che ti separano dalla performance serale… Devi aspettare le nove di sera e tutto il giorno stai in una città che non conosci molto e non puoi distrarti: devi sempre essere presente e concentrato sullo spettacolo. Poi vai a letto a notte fonda perché, dopo ogni rappresentazione, ti occorre del tempo per smaltire l’adrenalina della scena… Al cinema invece lavori anche


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dodici ore di fila e la giornata è tutta dedicata alle riprese che si fanno sul set. In teatro però ci sei tu, attore, e c’è il pubblico: insieme siamo chiamati a ricercare una verità. Quando lavori al cinema tu, attore, ti fai carne per essere oggetto di una ripresa e diventi un

FOTO ANSA

ingrediente della cucina di un cuoco: il regista, con l’aiuto del montatore, che prepara il film.

Quale strada vi ha portato verso il mestiere di attore? GERMANO: Ho cominciato a fare questo mestiere per amore del teatro, per il gusto di recitare in sé, senza

nessuna mira di arrivare al successo e stare su un podio. E questo, devo dire, mi ha salvato molto. Quando ti piace un lavoro, ti piace proprio farlo, al di là dell’esigenza di vedere per forza un risultato: una cosa che spesso può arrivare anche a schiacciarti. L’attore è un mestiere che devi inventare sulla tua pelle: non è come altri lavori - il muratore, il falegname o il pittore, per esempio - che si apprendono vedendo una tecnica; l’attore lavora con il corpo che si esprime secondo la propria sensibilità. L’unico modo per imparare è sperimentare su te stesso, capire qual è la tua ricerca umana in modo che diventi una ricerca professionale. FAVINO: Anch’io avevo un unico e solo desiderio: volevo recitare. Per tanto tempo ho fatto provini e tutti mi dicevano: “Guarda, sei bravissimo, ma hai il labbro da caratterista…” Se come attore non hai un volto canonico, alla fine però ti capita una cosa: arriva un momento in cui le cose vanno tutte al loro posto, la tua faccia assume una sua caratteristica e la tua unicità diventa interessante per una storia. Credo che gli attori siano attraenti per quello che non sanno di avere, e questo penso che sia valido proprio per tutti gli esseri umani in generale. Il cinema sa fotografare questo aspetto: a catturare lo spettatore è quel qualcosa che sta in mezzo tra l’uomo e il personaggio, un qualcosa che l’attore non conosce, quella parte di sé fuori controllo che deve riuscire a liberare. Soltanto così lo spettatore può arrivare ad avvicinarsi, a sua volta, al vero significato della recitazione. Il cinema è destinato a cristallizzare la vita: ferma per sempre quel dato momento in un fotogramma e allora la morte non esiste. Uno dei motivi per cui si sceglie di essere attori è proprio per fottere la morte.


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Dal diario di una giovane spettatrice...

Una poltrona a Broadway di Caterina Baronti

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

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uando ho comprato i biglietti per il mio volo (solo andata) verso gli States, avevo soltanto due cose certe: la prima erano i chili (limitatissimi) della valigia, la seconda è che sarei andata a Broadway. Come tutti sanno, tranne me naturalmente, un biglietto di prezzo medio è compreso tra i $90 e $110. Così, tutta contenta del mio acquisto, che ritenevo anche vantaggioso, mi sono ritrovata in terzultima fila ad assistere alla prima de Il Fantasma dell’Opera. Nonostante il musical sia uno dei più conosciuti, bisogna anche dire che se le bambine solitamente crescono con una principessa che cerca il suo principe azzurro, io sono cresciuta con la fantasia di una ballerina che cerca il suo angelo della musica. La vita mica è uguale per tutti. Fatto sta che per due ore e mezza, dall’inizio alla fine, dai primi applausi agli ultimi, io ho pianto. E ho continuato a piangere dal Majestic Theather, nella 44esima fino a casa mia nella 86esima Upper West Side. Ho pianto perché ero lontana da casa, sola, senza poter condividere con nessuno ciò che avevo visto; ho pianto perché ero a New York, nel primo viaggio vero, o meglio di sopravvivenza, e in ultimo, perché andare a teatro e vedere il mio personaggio preferito è stato come per un bambino a cui piace Toy Story trovarsi Buzz Lightyear davanti. Cioè, con la mente, per due ore e mezza sono tornata indietro nel tempo, ripercorrendo il giorno in cui i miei genitori mi portarono al cinema, il giorno in cui comprai il DVD, il giorno in cui lo feci vedere alle mie amiche e risero tutto il tempo, ferendo il mio mito. Ma in quella poltrona della terzultima fila, con la faccia paonazza, ho capito quanto io fossi fortunata, ho capito l’unica vera magia che il teatro è. La possibilità di farsi raccontare una storia, lasciarsi attrarre e viaggiare con essa. Analoga ma differente da quella del cinema, perché il teatro è qui e ora, se la storia è la stessa il viaggio cambia ogni sera.


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Tim Robbins

“Voglio raccontare che cos’è l’Actors Gang Prison Project, uno dei progetti della mia compagnia teatrale. Nel 1995 quando stavo girando Dead Man Walking, Sorella Helen Prejean - autrice del libro su cui si basa il film - mi illuminò con una verità: “Ogni uomo” - disse - “vale molto più del suo peggior errore”. I detenuti negli USA sono stati sempre dipinti come una perdita di tempo e di risorse. C’è sempre stata poca compas“I want to talk about the Actors’ Gang sione a Hollywood per le persone che Prison Project. In 1995 when I was fil- sbagliano. Avevano commesso degli ming Dead Man Walking, Sister Helen errori, ma non sbagliamo tutti? Come Prejean who wrote the book upon which Compagnia ci siamo interessati per più the movie was based illuminated a truth di trent’anni dei problemi sociali. Abto me. “Every man” - she said -“is worth biamo sempre creduto che la missione more than their worst mistake.” We had, di un’organizzazione artistica sia quella in our depiction of criminals in the United di far brillare una luce sulle ingiustizie States, painted them as a waste of time del sistema governativo e di rivelare l’i-

LA MISSIONE DI UN ATTORE

Tim Robbins con la sua Compagnia, The Actors’ Gang

and resources. There was very little compassion in Hollywood for the criminal. They were people that made mistakes, but haven’t we all? As a theater company we have for more than thirty years been interested in addressing social issues within our country. We have always felt that the mission of an arts organization is to shine a light on injustices within our system of government and to expose the hypocrisies of our leaders. Our work in

pocrisia dei nostri leader. Il lavoro nelle prigioni è stata una naturale estensione del lavoro sul palco. Non sapevamo se quello che avevamo da offrire sarebbe stato utile, ma sapevamo una cosa: non ci interessava solo esibirci per i detenuti, volevamo di più. Abbiamo tenuto 8 settimane di workshop con uomini e donne, lavorando come lavoriamo con i nostri attori. La dedizione, l’impegno fisico, l’assoluta verità emotiva e l’one-


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the prisons was to be a logical extension of our work on stage. But we had no idea whether what we had to offer was going to be helpful to the inmates. We knew one thing however. We had no interest in going into prison, performing for the inmates, and getting the hell out. We knew that if we were going to work in prison that we had to commit to working in prison. We decided that we needed to do eight week workshops with the men and women. Eight weeks of the work that we do, working with the inmates as we work with our own actors. Were not quite sure why it caught on and worked as efficiently as it did but we suspect that the commitment we demand from our participants, its highly physical nature and its absolute demand for emotional truth and honesty were all factors that led to its success. We soon came to understand that just as the work had transformed us as actors that we were capable of transforming lives within prison. In other words the will and efforts of a bunch of actors has transformed the culture within prison. This is what art is capable of achieving. So why, when we are faced with economic hard times, the first programs that we cut always seem to be in the arts and in arts in education? Art is a necessity, an essential element to a society’s health. Not a luxury. Not an afterthought, not a frivolity. Art is a discipline as important if not more important than science of mathematics. Art informs the human spirit. It informs our capacity for empathy and sensitivity. Art opens the heart and provides lessons in diversity, tolerance and respect for others. And yes, Art opens us all to love. Not safe Art. Not pacified Art. But Art that challenges the way we think. Art that challenges the way we live. Art that even challenges you and your own power within your community.”

stà richiesta sono stati tutti fattori che ci hanno condotto al successo. Siamo arrivati a capire che così come quel tipo di confronto ci aveva cambiato come attori, allo stesso modo eravamo stati capaci di trasformare l’esistenza di chi ci aveva seguito. Il lavoro di un gruppo di attori ha trasformato la cultura nelle prigioni. Questo è ciò che l’Arte è in grado di ottenere. Allora perché quando ci troviamo in difficoltà, i primi programmi ad essere tagliati sono sempre quelli che riguardano l’Arte? L’Arte è una necessità, un elemento essenziale per la salute della società. Non un lusso. Non

un pensiero ulteriore o una frivolezza. L’Arte è una disciplina tanto importante quanto lo sono la scienza e la matematica, se non di più. L’Arte forma lo spirito umano, nutre la nostra sensibilità. L’Arte apre il cuore e ci fornisce lezioni di diversità, di tolleranza e rispetto verso gli altri. E sì, l’Arte ci apre tutti all’amore. E non parlo di Arte sicura né di Arte pacifica, piuttosto penso all’Arte che sfida il nostro modo di pensare e di vivere.”


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Dacia Maraini “TEUTONICA DACIA” La bambina e il sognatore, il titolo del suo ultimo libro, è altamente evocativo… Per la prima volta il protagonista è un uomo e la narrazione si snoda seguendo una voce maschile. Come ha affrontato, da scrittrice, questa sfida? Il titolo è stato suggerito dai personaggi del romanzo. C’è una bambina che scompare, Lucia, e c’è un sognatore, il maestro Nani. La storia parte da questi due personaggi. Da principio ho avuto qualche perplessità perché è il mio primo libro che ha come protagonista un uomo, ma poi ho seguito la voce del personaggio e mi sono sentita a mio agio. Il maestro Nani non è un macho, né un viriloide con la mania del dominio. Per questo non è stato difficile.

Se dovesse scegliere un ricordo di viaggio legato a tre uomini importanti della sua vita: suo padre Fosco Maraini, il suo compagno Alberto Moravia e il suo amico Pier Paolo Pasolini, di cui recentemente sono stati ricordati i quarant’anni dalla scomparsa? Dovrei scrivere venti pagine per raccontare i tanti ricordi di viaggio. Mio padre era uno sportivo piuttosto brusco: mi buttava nell’acqua dicendo:

nuota! e io imparavo, se non volevo affogare. Con lui facevo lunghissime camminate in montagna e qualche volta tornavo a casa con la febbre. Solo nello scalare le rocce alte mi rifiutavo perché soffro di vertigine. Con Alberto e Pier Paolo abbiamo fatto dei bellissimi viaggi in India, in Africa, nello Yemen. Erano due viaggiatori straordinari, curiosi di tutto, adattabili a qualsiasi difficoltà: abbiamo dormito sotto le tende, nei seminari, perfino una volta in una caserma diroccata. Viaggiavamo in zone non turistiche e ci poteva capitare di non mangiare perché non c’era un ristorante o un negozio per centinaia di chilometri. Una volta, appunto, dopo ore e ore di Land Rover su strade dissestate, ci siamo fermati in un villaggio chiedendo qualcosa da cucinare. Ci hanno portato delle uova. Le abbiamo pagate e poi ci siamo fermati sotto un albero per cuocerle su un fuoco improvvisato. Quando le abbiamo aperte abbiamo scoperto che erano state svuotate e riempite con della sabbia. Ci siamo rimasti malissimo, tanto più che abbiamo dovuto ripiegare su delle scatolette di alici sott’olio di cui eravamo disgustati perché erano tre giorni che mangiavamo solo quelle.

Sua nonna paterna è inglese, sua nonna materna cilena, suo padre viaggiava per mestiere: pensando ad una simile ‘congiunzione astrale’ si può dire che il suo spirito nomade fosse scritto nel destino? Certo, ho ereditato la passione del viaggio e infatti non mi stanco mai di andare in giro. Ma siccome viaggiare costa e poi da soli è un poco noioso, cerco di mettere insieme i viaggi di lavoro (conferenze, presentazioni, con-


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vegni, incontri) con qualche giorno di esplorazione, visite ai musei, gite in zone sconosciute.

Quale strada ha seguito e poi l’ha condotta verso il mestiere di scrittrice? Come ho detto, vengo da una famiglia di scrittori. Mia nonna Yoi Crosse Pavlowska scriveva, mio padre ha sempre scritto, anche mio nonno Enrico Alliata scriveva, di filosofia e di cucina vegetariana. Credo di avere ereditato da loro il piacere della lettura e della scrittura. Io ci lavoro con le parole: sono come dei mattoni che servono a costruire una storia, non conosco altri strumenti per esprimermi.

Quando scrive pensa mai ai suoi potenziali lettori? No, mi rifiuto di pensare a chi leggerà i miei libri. Lascio che le ricerche sui lettori le facciano gli editori. Se mi capita di pensare a un lettore ideale, immagino qualcuno che mi assomigli e sia interessato alle cose che mi stanno a cuore.

Sono nata viaggiando è un filmdocumentario sulla sua vita… Quanto è importante viaggiare per riuscire a scrivere? Ogni libro è un viaggio? Si arriva mai ad un punto di arrivo? Non si arriva mai a un punto di arrivo. Si viaggia per capire se stessi e il mondo. Ma non è una regola valida per tutti. C’è chi, come Salgari, ha scritto dell’Oriente stando seduto a casa sua; c’è chi preferisce conoscere i treni, le navi, gli aerei e spostarsi di persona per potere raccontare.

La sua attitudine al viaggio - la voglia di esplorare e fare sempre nuove scoperte - è cambiata nel corso del tempo? No, non è cambiata. Sono aumentati gli impegni e gli inviti da parte di molti Paesi anche lontani. Tanto per fare un esempio, nei prossimi mesi ho un viaggio negli Stati Uniti per un giro di conferenze nelle università, ho un invito a Bilbao, uno in Scozia, un altro in Giappone.

“Non si arriva mai a un punto di arrivo. Si viaggia per capire se stessi e il mondo. Ma non è una regola valida per tutti” Lei ha definito il teatro come un “processo di conoscenza”; in tutta la sua esistenza di intellettuale e di scrittrice, Lei si è occupata molto del teatro… Perché? Qual è la spinta che la convince continuamente a tornare verso il teatro? Il teatro è il luogo sociale per eccellenza. Simbolico e sociale, il palcoscenico è l’ideale per mettere in scena un conflitto. La narrativa racconta il mi-


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stero del passaggio del tempo, invece il teatro sottolinea il mistero dell’azione umana e simbolicamente la drammaturgia si lega sempre al presente: anche quando si racconta qualcosa del passato, nel teatro hai la percezione che diventi immediatamente attuale. FOTO FILIPPO MANZINI

Ed è questo che a me interessa: l’aspetto fortemente sociale presente nel teatro.

In uno dei suoi sogni ricorrenti ha descritto una delle paure del suo inconscio: essere attrice, stare in palcoscenico e dover recitare una battuta, ma la voce non esce… Per questo non ho mai fatto l’attrice. Avevo paura di non ricordare le battute. Non ho mai avuto una buona memoria. Ma ho fatto tanto teatro dietro il palco, dietro le quinte, occupandomi delle luci, dei costumi, della regia, ho fatto perfino da suggeritrice. Mi piace lavorare con gli attori.

Com’è la giornata-tipo di una scrittrice? Occorre disciplina per arrivare alla scrittura? Margareth Von Trotta, con cui ho scritto due sceneggiature, diceva che io ero la vera teutonica fra le due. Lei arrivava in ritardo, fumava, divagava. Io ero puntualissima, come sono sempre stata, e lavoravo incessantemente senza stancarmi. In questo mi sono trovata bene con Pasolini che aveva una capacità di lavoro straordinaria. Quando abbiamo scritto la sceneggiatura del Fiore delle mille e una notte, lavoravamo dalle sette di mattina fino a mezzanotte, senza fermarci che per prendere un panino e un caffè.

“Non ho mai avuto una buona memoria. Ma ho fatto davvero tanto teatro dietro il palco, dietro le quinte, occupandomi delle luci, dei costumi, della regia, ho fatto perfino da suggeritrice. Mi piace lavorare con gli attori”

Una sua definizione di scrittura. Che cos’è la scrittura per Lei? La scrittura è una passione, un piacere, una fatica, una disciplina a volte dura, ma mai noiosa. E’ il piacere che si prova a scrivere che ti fa sopportare le stanchezze, le delusioni, l’enorme quantità di tempo che perdi per inseguire una idea, un personaggio, una parola.


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La Storia racconta...

Una vita in moto perpetuo di Adela Gjata

Domenico Fetti, Ritratto dell’attore Tristano Martinelli, inventore di Arlecchino, 1621-1622

Una vita in viaggio quella degli uomini e delle donne di teatro, nomadi per antonomasia, apolidi e insieme cittadini di tutte le ‘piazze’ teatrali che incontrano nel loro cammino. Il viaggio è un elemento endemico del mestiere, gli attori si spostano in primis per guadagnarsi da vivere, ma questa è solo una parte della verità. La pratica del ‘recitar viaggiando’ scaturisce, anche e soprattutto, da altre motivazioni, più sfuggenti e intime; è animata dal fascino della scoperta, si plasma nel vortice delle passioni, è in cerca della libertà. Non si spiegherebbe altrimenti il coraggio di intraprendere viaggi lunghissimi e talvolta assai rischiosi come quelli delle compagnie dei secoli scorsi. Una delle immagini più suggestive dei viaggi teatrali ce la suggerisce la biografia di Goldoni, quando appena tredicenne abbandonava Rimini e gli studi di filosofia per unirsi alla barca di una giocosa compagnia di comici in un avventuroso tragitto per mare verso Chioggia. La sottile seduzione del teatro che cambiò letteralmente il percorso di vita del giovane Goldoni facendolo imbarcare sulla scialuppa dei desideri è, insieme alla lotta per la sopravvivenza, tra le ragioni generanti le tournée teatrali nel corso dei secoli. Non sappiamo se il viaggio degli attori abbia avuto inizio in una determinata epoca o se invece sia sempre esistito all’interno e a fianco di altre migrazioni. I primi spostamenti avvenivano in groppa di muli e cavalli, o sopra esili barchette che seguivano le correnti dei fiumi e delle maree, imbarcazioni cariche di paure e speranze. Più grave era l’impaccio provocato dalle ingenti merci che gli attori erano costretti a portarsi dietro, principalmente quelle necessarie alla messa in scena, le cosiddette ‘robbe’ dei comici. Nel Cinquecento per raggiungere Firenze da Mantova, all’epoca due epicentri del teatro italiano, erano necessari anche dodici giorni di viaggio. Spesso si trattava di percorsi costosi e lunghi anche mesi interi, avventurosi e pericolosi, che dovevano misurarsi con le avversità climatiche, le insidie delle paludi, gli attacchi dei briganti nei vali-


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chi di montagna, le malattie e la morte, ma anche con gli ostacoli amministrativi e giurisdizionali delle stazioni di posta. Mimetici secondo i bisogni, i grandi comici dell’Arte furono portatori di tanti passaporti quanti erano gli stati da attraversare. Una volta arrivati nella ‘piazza’ teatrale di turno, superato il buio dell’ignoto del viaggio, gli attori dovevano confrontarsi con i pregiudizi morali, linguistici e sociali degli abitanti del luogo. Solo quando riuscivano ad abbattere superstizioni e differenze, creando un dialogo duraturo con i nuovi spettatori, solo allora il viaggio diventava vittorioso e lo spettacolo un momento di festa, di guadagno e di gloria.

Casimiro Brugnone de Rossi, La barca dei comici, 1850 circa

Nelle tournée dei primi comici dell’Arte, tra il Cinque e il Seicento, il desiderio del viaggio si scontrava con la paura dell’incognita, il fascino della libertà con la salvaguardia di sé, il bisogno della protezione dei signori committenti con l’indipendenza imprenditoriale, elementi che foggiarono il carattere di quella kermesse multiforme e sorprendente che fu la Commedia dell’Arte, prima esperienza del teatro europeo moderno. I grandi attori di quel periodo scelsero una condizione di vita precaria e instabile per fuggire dalla sudditanza dei padroni: viaggiare il mondo poteva significare conquista della libertà, di fama e di ricchezze. Da qui l’invenzione del Capitano Spavento da Vall’Inferna di Francesco Andreini le cui gloriose avventure altro non sono che la teatralizzazione della vicenda personale dell’attore pistoiese. Le stesso Arlecchino fu un’invenzione del viaggio. Lo zanni più popolare di tutti i tempi, mantovano solo per l’anagrafe dell’attore che per primo lo recitò – Tristano Martinelli –, non era né bergamasco né francese, bensì lo straniero che si inventa la sua identità durante un viaggio verso la corte francese di Enrico IV, sposo di Maria dei Medici, tra l’autunno del 1600 e la primavera del 1601. Nel corso di questo lungo e faticoso tragitto, Martinelli scrisse Compositions de Rhetorique, un libro strampalato con diverse pagine bianche, altre ornate di incisioni spesso replicate, dove l’attore si presentava come “Monsieur Don Arlequin, comicorum de civitatis novalensis”, comico della civiltà di Novalesa dunque, la più grande stazione di posta che separava il Piemonte dalla Francia. L’identità di Martinelli attore combaciava con il nome della frontiera dalla quale egli apparì per la prima volta ai mecenati e agli spettatori francesi. Arlecchino veniva al mondo da una linea di orizzonte, tra le nebbie alpine e la caligine onirica dell’inventiva teatrale.


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Dedicato a Orazio Costa

Slanci, cadute, voli di Gianluca Brundo

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

A

pensarci, dopo più o meno quindici anni, fu un particolare destino a farci incontrare, a far incrociare due viaggi: quello del Maestro, Orazio Costa, giunto quasi al termine e quello dell’allievo, il mio, appena all’inizio nella via dell’Arte. Sì, è vero, prima di quell’incontro avevo già conseguito il diploma presso la Bottega Teatrale Vittorio Gassman, avevo appreso il mestiere – cosa importantissima, avevo debuttato con Gassman, Pagliai, erano arrivati i primi riconoscimenti, ma... Questa avversativa, oggi, la sento così forte in me, perché dentro vi è tutto un mondo, vi è tutto quel viaggio, iniziato a casa Costa. Ecco, forse è questo il punto centrale, perché proprio lì a casa Costa tutto è cambiato. Ne posso ricordare perfino gli odori, di quando mi apriva la porta, lo avrebbe fatto per tre anni; soprattutto quello che arrivava dalla biblioteca, il mio mondo dei sogni, degli slanci, delle cadute e dei voli successivi. Costa era capace di tenermi pomeriggi interi su una parola, dopo aver diligentemente trascorso il tempo antecedente sul lavoro da sbrigare che mi impartiva e che cercavo di svolgere con il massimo impegno, lo stesso che mettevo nel mio famelico apprendistato.

Il mestiere era in tasca, ma quanto conoscevo realmente di me? I suoi rimproveri, così forti, ma sempre rispettosi della persona, quanto sono serviti ad edificare, mattone dopo mattone, parola dopo parola, che uscivano una ad una, come le pecore dal recinto verso il libero pascolo, l’uomo Gianluca e di conseguenza l’attore? Mi pare oggi di poter dire che quello fu un vero e proprio viaggio iniziatico, scevro da misticismo o esoterismo ed invece fatto di lavoro, di applicazione, di disciplina, di demolizione e ricostruzione. Certo Costa trovò in me del terreno fertile perché condividevo per natura, la sua stessa natura, ma un grande Maestro è colui il quale è in grado di far sondare a te stesso le tue più intime inclinazioni, potenzialità, capacità espressive e creative, ed egli lo era, ah se lo era, un grande maestro! Non sto parlando di talento, quello non si insegna, non sta nella mente, né nel DNA, non si tramanda, o ce l’hai o non ce l’hai,


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appartiene all’anima, sto parlando dell’essere Uomo, dell’essere quell’unico uomo, diverso da ogni altro, irripetibile, verso la cui conoscenza, spendere una vita intera, non sarebbe una vita sprecata. Costa si chiese fino all’ultimo cosa fosse il Teatro ed egli era il Teatro! Non potete immaginare quanto mi manchino i suoi rimproveri; oggi mi rimprovero da solo, ma non è la stessa cosa. Ecco, forse in questo siamo molto simili, non certo nella grandezza perché è irraggiungibile, ma nella fermezza che ho, talvolta verso gli altri, ma soprattutto verso me stesso, perché questo fortunatissimo incontro, che tento di meritare giorno dopo giorno, mi ha insegnato quanto sia creativa la disciplina, quanta gioia vi sia nell’impegno, quanto meraviglioso gioco e divertimento nello studio. Mi ricordo, per contro, anche le risate, immancabili, in quell’aria di casa che si respirava, che si toccava con mano, pur nella serietà e nella consapevolezza che il Maestro mi ha tramandato, che il Teatro è l’ultimo baluardo per la propria rivoluzione, per conoscere se stessi nella collettività. Probabilmente il mondo non potrà essere cambiato ma le singole persone sì, una ad una, come quelle parole sulle quali FOTO FILIPPO MANZINI passavamo interi pomeriggi. Quando questo avviene, lo fa senza costrizioni, ma con un processo naturale e personale; personale come la rivoluzione in atto. E dietro ad ogni singola parola, ad ogni singola persona, quante diverse intonazioni, quanti colori, quante intenzioni, quanti sentimenti, si nascondono! È il gioco del teatro, è il gioco della vita. Non so se io sia diventato un uomo migliore con Costa e nonostante tutto il mio impegno, ma so che me lo chiedo sempre. Il viaggio continua. Mi manchi molto Orazio, Maestro mio e per ingannare la lontananza, porterò sulle tavole del palcoscenico della mia anima il più bello dei colpi di scena: continuerò a nutrirmi di poesia come tu mi hai insegnato.


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Il viaggio nella musica Musica contemporanea

Paolo Conte IMMAGINIFICO JAZZ Ogni concerto, per Lei, è un viaggio? In un certo modo lo è perché, per fare un concerto, ci si deve spostare e viaggiare molto. A volte lavoro all’estero e allora la distanza è davvero considerevole: te ne vai via di casa e parti IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“Il nostro mestiere è fatto di andate e ritorni continui”

mente al momento in cui sono davanti al pubblico a proporla: confido allora nella sensibilità del pubblico, ne avverto la presenza: non vedo gli spettatori nel buio della sala ma li sento… Inoltre suonare è un viaggio, soprattutto mi piace suonare insieme all’orchestra, anche se considero quel momento non come un viaggio vero e proprio: è come se fosse una stazione intermedia tra la fantasia del prima – la fase di ideazione e di composizione – e il silenzio del dopo, quando la musica è finita.

Quindi i suoi viaggi preferiti sono proprio quelli dettati dalla fantasia? Io sono un pessimo turista, ho pochissimo tempo per viaggiare realmente. Mi muovo con la fantasia. Però quando sono in viaggio cerco di annusare le città dove vado, ne cerco l’essenza più nascosta. Soprattutto giro per le capitali della musica come Vienna, Cuba oppure Chicago… In quei luoghi provo a raccogliere intimamente qualcosa che è già nell’aria ma che non affiora facilmente in superficie: bisogna esplorarne i lati più segreti.

Una canzone come Si sposa l’Africa - e più in generale tutta la sua musica - quanto è frutto di suggestioni letterarie?

Dipende dalle canzoni… In particolare Si sposa l’Africa l’avevo scritta seguendo un’originale suggestione: doper un lungo viaggio… Il nostro mestie- veva accompagnare un cartone animare è fatto di andate e ritorni continui, to che poi non è stato più realizzato. Si proprio fisici, ma è arricchito anche dal riflette tutta la mistura culturale dell’Aviaggio della fantasia. Il tempo della frica in quella canzone: dell’Africa antifantasia per me è la parte creativa di ca rimane il sapore della ritualità e della quando compongo una canzone, unita- magia di quel Paese, mentre in quest’A-


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frica moderna i due sposi si sono conosciuti usando i telefonini che sono come degli stregoni contemporanei: almeno per me, che non posseggo telefonini, lo sono davvero…

“La musica mi coinvolge visceralmente, quando si fa musica semplicemente si sogna e si sta come sospesi in aria...”

piamo che ad ogni parola corrisponde un certo significato, a cui è necessario prestare molta attenzione. Bisogna mettere in padella il linguaggio, saperlo cucinare, quindi spesso percepisci il peso delle parole perché ne avverti la responsabilità. Questo lavoro di elaborazione e di scrittura può diventare allora anche faticoso, mentre quando si fa musica semplicemente si sogna e si sta come sospesi in aria…

FOTO FILIPPO MANZINI

La fase della composizione di una canzone è ancora un momento di “sommo godimento”, come Lei stesso l’ha più volte descritta? Per me sì, è così. È il momento più ‘verde’ e pieno di speranze perché si tratta della fase iniziale. La musica mi coinvolge visceralmente e mi dà delle sensazioni astratte, che mi fanno stare bene; quando arriva il momento di mettere le parole alla musica devo farlo con precisione: siamo italiani e sap-

Il viaggio della musica, com’è iniziato e dove la porterà ancora? Dove la musica mi porterà ancora non lo so… È un’avventura, ancora tutta da vivere. Ho iniziato a pensare di fare questo mestiere ascoltando mio padre suonare: lui era un bravissimo pianista, anche se si esibiva solo a casa; inoltre nel periodo della gioventù ascoltavo molto la radio e i dischi, anche se in quegli anni era davvero difficile procurarsi i dischi più originali o sintonizzarsi su


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delle stazioni radio che dessero una musica alternativa, che tu intuivi diversa dalla solita musica che passava in radio. Le mie scelte si sono poi subito orientate sul fronte del jazz e in quel campo è avvenuto un viaggio per me, un percorso di scoperta e curiosità, una vera e propria caccia: volevo saperne sempre di più, cercavo di continuo di procurarmi nuovo materiale da ascoltare e su cui lavorare. Finché sono diventato io stesso addirittura un esperto in campo jazzistico: ho partecipato ad Oslo come rappresentante dell’Italia. Ricordo che era una specie di quiz delle radio europee: facevano sentire un frammento di un pezzo musicale e tu dovevi dire quel saxofonista come si chiamava… Eravamo molto preparati, arrivammo al terzo posto. Ho festeggiato recentemente i quarant’anni di carriera e devo dire che la mia è stata una strada piena di lavoro: non mi sono mai fermato e la musica – sia scrivere che fare concerti – è diventato il mio mestiere.

I suoi dischi in genere sembrano comunicare sempre una voglia di altrove, perfino una certa forma di malessere tipica di tanti artisti del Novecento… Spesso mi hanno domandato di spiegare il senso di esotismo presente nelle mie canzoni: è la voglia di ‘altrove’ dei novecentisti. Partendo dalle storie quotidiane e più semplici proiettiamo, per pudore e con una specie di alibi, il nostro immaginario in un mondo più colorato, direi quasi teatrale. Io ho usato molto questa tecnica del pudore - chiamiamola così - e tuttora è difficile per me non utilizzarla.

Il pubblico e la musica: cambiano con il tempo? La musica è sempre una bellissima

magia: non può mai cambiare il modo di definirla. E il pubblico, da certi punti di vista, è sempre uguale, pur cambiando nazionalità e linguaggio. Nonostante la barriera della lingua, ho sempre l’impressione di avere davanti lo stesso pubblico: la reazione e l’attenzione che si creano durante un concerto in Germania, Inghilterra, Olanda o Francia sono identiche a quelle degli italiani. Il pubblico - se dovessi definirlo - è un insieme di

IMMAGINE DALILA CHESSA

teste e di cuori: sono persone, che hanno la pazienza di ascoltarti. Ancora a volte mi domando perché scelgano di regalarmi così la loro fiducia… Naturalmente io il pubblico lo lascio anche molto libero di muoversi con indipendenza, di fare i viaggi come vuole, secondo la sensibilità e l’esperienza di ognuno.

In un concerto ogni singolo spettatore trova comunque qualcosa di differente, secondo Lei? Penso di sì; ormai mi sono conquistato un pubblico affettuoso: ci vogliamo molto bene, ci ricambiamo reciprocamente l’affetto e la stima. La nostra è una storia d’amore.


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Il viaggio nella musica Chamber Music

Mario Brunello IL SILENZIO DELLA MUSICA Lei è abituato a suonare nei teatri e nei monasteri, sulle cime delle Dolomiti o nel deserto: tutti luoghi in cui il silenzio è il denominatore comune. Il libro che ha scritto si intitola proprio Silenzio. Dal punto di vista del violoncellista, come si concilia il silenzio con la musica che invece è puro suono?

Si può dire che ogni concerto, per Lei, sia un viaggio? Sì, è un bel viaggio. Un viaggio preparato ed organizzato, nel senso che si sa sempre da dove si vuole partire e cosa si vuole fare. E questo anche se esistono delle deviazioni dal percorso, dei fuoristrada emozionali che rappresentano i momenti più interessanti per un artista. Inoltre andare e tornare per la stessa strada è comunque sempre una sorpresa, anche in relazione del livello di maturazione dell’opera che si presenta. Tutto in un concerto si sviluppa con le caratteristiche del viaggio.

Nel viaggio della musica si vive mai la sensazione di arrivare ad un punto d’arrivo?

No! E il mio è un no secco e deciso. Si percorre all’infinito la strada della All’inizio scrivere un libro sul si- musica, in movimento perpetuo. lenzio, per me che sono un musicista, poteva sembrare un controsenso. Però Il suo primo ricordo legato alla la scrittura è stata importantissima per musica. considerare il silenzio nella sua proÈ domenica mattina e so che mio fondità, anche se erano già molti anni padre può stare a casa un po’ di più… che diverse esperienze mi portavano Come prima cosa lui mette su un disco, sempre verso questo tema. Alla fine di un vinile, e io ricordo che mi svegliaquesto lavoro devo dire che gli elemen- vo aspettando il momento di sentire ti ‘suono e silenzio’ li considero vera- questa musica, in genere si trattava di mente alla pari: ognuno dei due ha una musica sinfonica perché gli piacevano sua identità e sono entrambi necessari i concerti d’organo. La domenica mattiper un musicista. È la stessa cosa che na significava per me l’attesa di questo accade in teatro: quando recita un at- momento. Penso di essere stato contore le pause e il silenzio fanno parte dotto verso la musica in maniera abbadella recitazione. E in musica il silenzio stanza casuale, non avevo l’intenzione costituisce la punteggiatura: ci sono le di fare questa vita da musicista… È la pause previste dal compositore, le pau- musica che si è presentata nella mia se impreviste, le pause assolutamente quotidianità con naturalezza ed è stanecessarie in quel momento, le pause to un bell’incontro, che pian piano si è che l’interprete tende a voler dare con rinforzato sempre più. La musica adesla sua interpretazione personale… so è diventata la vita.


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In genere si immagina la giornatatipo di un musicista scandita da orari ferrei, con obblighi ben precisi da rispettare… Sarebbe bello se fosse scandita da orari precisi, ne sento un po’ la mancanza! Mi piacerebbe alzarmi sempre alla stessa ora e dedicarmi allo studio. Al contrario io non ho orari; secondo me le esigenze date dai concerti e dalla partenze per la tournée costituiscono la differenza maggiore rispetto ad altri

Bach non può sostituire tutti, ma è a lui che cedo l’incarico di farlo.

Lei suona un violoncello del Seicento, riposto in una custodia rossa che porta sempre con sé… Tra un musicista e lo strumento che sceglie di suonare si instaura un rapporto particolare: è un’amicizia profonda, in cui si condividono segreti e piccole avventure. Il violoncello racconta tutto il tuo passato ed è lì sempre pronto a rac-

FOTO SILVIA FABBRI

tipi di mestiere più sedentari: non esistono giornate-tipo perché i viaggi sono per loro natura pieni di imprevisti. Le tournée sconquassano completamente la vita di un musicista.

Un suo artista preferito, quello che quando sa di dover interpretare la rende felice. Ho incaricato Bach come rappresentante di tutti gli altri compositori. So che

contare anche quello che avverrà… C’è bisogno di molta fiducia in questa relazione. Per quanto riguarda la custodia del mio violoncello adesso si tratta di un modello unico perché fatto dalla Ferrari: è una vernice rosso-Ferrari.

Se dovesse dare una definizione della musica, che cosa direbbe? Non so se la musica sia la cosa più importante dell’esistenza e dandole una


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definizione forse le si fa mancare qualcosa, ma in realtà la musica è tutto quello che si può dire, raccoglie ogni cosa. Non c’è altro da aggiungere.

“Il violoncello racconta il tuo passato ed è lì sempre pronto a raccontare anche quello che avverrà…”

voglia di portare il pubblico dentro il proprio viaggio. È un po’ come quando si chiede a qualcuno “Mi vuoi sposare?”: si aspetta una risposta. Penso però che i momenti veramente indescrivibili siano quelli che si sperimentano durante un concerto, quando stai suonando e avverti quella caratteristica stupefacente, tipica della musica,

IMMAGINE DALILA CHESSA

Per uno spettatore l‘istante precedente all’inizio di un concerto - quando in sala si instaura quel momento di silenzio e di attesa verso l’artista che inizierà a suonare – è un tempo carico di emozione. Un musicista che si prepara ad affrontare il pubblico e la musica come vive quell’attimo? A volte proprio quel momento lì dell’inizio è il più emozionante: senti che si sta raccogliendo l’attenzione di tutti verso la musica. In quell’attimo, fatto anche di tensione, si ha soltanto

data dall’attimo in cui accade qualcosa di nuovo. Soprattutto se si suona insieme ad altri e si condivide la magia dell’incontro, quella è emozione pura.


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Mario Botta VERSO LA BELLEZZA L’architettura è un’arte libera oppure deve sempre inevitabilmente fare i conti con il contesto che la circonda? Non è possibile pensare ad un progetto architettonico solo in direzione autoreferenziale: esiste sempre un luogo con cui occorre entrare in relazione. L’architettura è la presa di possesso della terra madre: non è uno strumento per costruire un sito, ma per identificarlo e radicarlo alla geografia stessa. E come geografia

una condizione di cultura magari già stabilizzata ad un’altra nuova: è in moto perpetuo. Quando affermiamo che l’architettura delle nostre città è brutta, dobbiamo considerare che così è anche la nostra società: la città fisica riflette quella sociale. Non è possibile pensare di realizzare figurativamente una città idilliaca se viviamo nella violenza e nella ghettizzazione. L’architettura da questo punto di vista è impietosa perché corrisponde alle speranze e alle attese dei cittadini. Quando ci muoviamo nelle grandi città, ci rendiamo conto che la storia del tempo risulta essere molto più forte della personalità dell’architetto: non si può dire che una costruzione sia bella o brutta, l’importante è che risponda in maniera virtuale ad un modello che sia in grado di entrare in una sperimentazione fisica. La bellezza è una tensione morale continua, un concetto che si trasforma e va avanti.

Ogni tempo conserva comunque un suo stile artistico?

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

non va intesa solo la struttura fisica, ma anche la storia, la cultura e la memoria, quelle che sono le radici di una società. L’architettura trasforma sempre una produzione di natura in una produzione di cultura, passa da

Le grandi contraddizioni fanno parte del nostro modo di vivere, non dobbiamo dunque scandalizzarci se uno stile si allontana dal pensiero e dal gusto predominante. Dobbiamo però mantenere una coscienza critica su tutto quello che realizziamo perché il punto essenziale è chiedersi cosa lasceremo alle generazioni future, cercare di capire come loro fruiranno di queste proposte artistiche. La grande spinta collettiva è il frutto della voglia incessante che l’uomo ha di osare nuove cose e scoprire nuovi sentieri di espressione. Questo è un fatto estremamente affascinante. L’essere umano è stato capace di andare sulla Luna, non dimentichiamocelo mai. Gli uomini però devono anche arrivare a


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comprendere i propri limiti: il paesaggio alla fine siamo noi stessi, eredi di una storia profonda che ci appartiene e che va rispettata. Attraverso la nostra sensibilità e il nostro sguardo, la realtà esterna – specchio della cultura e della bellezza di questo meraviglioso Paese che è l’Italia - subisce delle trasformazioni e si afferma.

“La bellezza deve spingere al cambiamento, non l’economia. È su questi temi che attualmente oriento il mio lavoro”

chiamo. E in una società attraversata dalla globalizzazione, la ricerca della propria identità passa dal senso di appartenenza ad un territorio e alla riconoscibilità di un paesaggio. Attualmente sto lavorando in sei città diverse sparse per il mondo e spesso mi ritrovo a lavorare con degli artisti locali a cui faccio delle critiche, anche violente, di ordine etico. A Shangai, per esempio, ho assistito alla costruzione di un’Accademia d’Arte e mi sono accorto che lo sviluppo della città seguiva i modelli dei grandi shopping center e dei moderni alberghi internazionali… Mi

L’ingresso del Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto L’architettura contemporanea quali problematiche è tenuta ad affrontare? L’architettura deve lavorare sulla memoria, soltanto così può crescere la città. In quanto uomini e cittadini abbiamo il diritto di vivere nella storia, perché è parte di noi stessi. La rapidità con cui viviamo gli eventi che accadono, è direttamente proporzionale al loro oblio. Più corriamo, più dimenti-

è stato detto che non ci sono alternative: è il ciclo economico a dettare legge. Credo fermamente invece che l’uomo debba accordarsi al futuro senza abbandonare un modello spaziale ideale, l’esempio di aggregazione umana più intelligente, flessibile e colto che la storia dell’umanità abbia creato. La bellezza deve spingere al cambiamento, non l’economia. È su questi temi che attualmente oriento il mio lavoro.


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Hervé Barmasse ARRIVARE AL LIMITE La montagna è legata alla storia della sua famiglia da generazioni: i Barmasse sono dei pionieri dell’alpinismo occidentale e famose guide del Cervino. Il suo bisnonno è celebre per aver esplorato tra i primi la Terra del Fuoco, in una spedizione che è rimasta mitica… Il fatto di condividere con il mio bisnonno, fino ad arrivare a mio padre, la passione per la montagna è stata una vera ricchezza. Tutti noi guardiamo al passato per poter vivere il presente e

“Tu e la montagna giocate una sfida uno contro uno. Non devi dimenticarti mai che ‘quell’uno’ davanti a te – la natura – è infinitamente più grande dell’uomo e non si può controllare” rivolgersi poi al futuro. Questa eredità è un regalo. L’alpinismo è una tradizione di famiglia, forse questa scelta era già scritta nel mio DNA, però c’è anche qualcosa in più. Il titolo del libro che ho scritto, La montagna dentro, parla proprio dell’innamoramento verso l’alpinismo, cercando di spiegare la passione e l’emozione che la montagna ti dà. Scrivendo un libro si compie veramente un viaggio dentro se stessi e si capiscono

tante cose. Sulla mia pelle ho sperimentato il trauma di un incidente che mi ha allontanato da una carriera nello sci: ero molto giovane e per me sciare era tutto. Per i dottori non avrei mai potuto neanche correre, invece grazie all’alpinismo ho potuto dimostrare il contrario. Spesso la vita ti pone davanti ad un muro, l’importante è reagire cercando di rialzarsi in piedi e trovare la forza per andare avanti.

Nel rapporto con la montagna, fondamentale è stato l’apporto di suo padre. Quando un figlio decide di correre dei rischi, e l’alpinismo è un’attività altamente pericolosa, il padre vorrebbe proteggerlo e non vederlo mai diventare né guida alpina, né tantomeno scalare montagne in solitaria, come a me invece oggi piace tanto fare. Anni fa mio padre però ha scelto di portarmi sul Cervino d’inverno, un’esperienza insolita: ancora oggi andarci in quella stagione è un viaggio e un’avventura vera. Lui mi controllava da vicino, ma subito mi ha detto: “Devi andare e cercare la tua strada, capire qual è il pericolo e vivere la gioia immensa che la montagna ti può regalare”. Quel giorno mi ha cambiato la vita. È a cominciare da quel punto che partono poi tutti i miei viaggi nel mondo: la Patagonia, il Pakistan, la Cina… In Patagonia la montagna comincia a farmi paura perché durante un’arrampicata rischio la vita: fino ad allora arrampicarmi era stata solo una grande emozione, invece quel giorno mi ha aperto gli occhi sui pericoli estremi di quest’attività. Per ritornare ad avere il coraggio di salire in montagna ho cercato ancora mio padre e insieme abbiamo affrontato una via nuova sempre sulla montagna di casa: il ‘nostro Cervino’.


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L’alpinismo praticato su pareti inviolate è ricerca ed esplorazione, ma è anche pericolo. Come si riesce a superare la paura che questo sport inevitabilmente comporta? Io sono il primo a sostenere che il vero alpinista deve rischiare, però con

“Esporsi a qualcosa che non conosciamo: questa è l’essenza dell’avventura”

la che si vive quotidianamente e che ci porta a scoprire veramente chi siamo: bisogna trovare il coraggio di cambiare strada, se ce n’è bisogno, cercando sempre di fare qualcosa di nuovo. Esporsi a qualcosa che non conosciamo: questa è l’essenza dell’avventura.

Prima di Lei soltanto Walter Bonatti, grandissimo alpinista, aveva aperto una via in solitaria sul Cervino negli anni Sessanta. Che cosa significa affrontare una scalata in solitaria?

attenzione! L’alpinismo praticato a certi livelli deve avere una sana dose di riCredo fermamente che non tutti schio: grazie alle sue doti di velocità e di possano affrontare la montagna da tecnica, l’alpinista riesce a fare qualcosa soli, in solitarie estreme: è una questioche nessuno mai aveva realizzato prima. ne che devi sentire dentro di te, senza Quando ti trovi in montagna da solo e obblighi o forzature. Anche se appametti in gioco la tua vita, avverti un for- rentemente sembra molto rischioso, a te senso di responsabilità nei confronti piccoli passi – e ripeto ‘a piccoli passi’ di te stesso. Sai che ti stai giocando tutto – si inizia ad entrare in questo mondo, ed è questo il sapore dell’avventura. Ma dove tu e la montagna giocate una sfiesiste anche un altro tipo di sfida, quel- da uno contro uno. Non devi dimenti-


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carti mai che ‘quell’uno’ davanti a te – la natura – è infinitamente più grande dell’uomo e non si può controllare. Per essere pronti ad accettare questo genere di sfida occorre svuotarsi di tutto quello che è il peso della vita – in montagna l’esistenza può esserlo – e stare sereni. Non sempre capita e a volte non si prosegue il percorso, anche se tutto è perfetto: la giornata è bella, il sole risplende, non ci sono nuvole all’orizzonte, ma qualcosa dentro di te inequivocabilmente ti dice che devi tornare indietro e non arrampicarti… La montagna in solitudine è il mezzo migliore per conoscersi.

aspetta di trovare il paesaggio descritto da quelle diapositive rimane deluso perché molto è cambiato: ci trovi i negozi, la birreria, la pizzeria, tutti i vari segni della civiltà che avanza… A me interessa l’idea dell’avventura e quindi ho cercato delle montagne ancora

Quando si ritorna da una scalata di questo genere occorre del tempo per assorbire le emozioni dell’avventura? Quando torno da una scalata per un giorno o due mi sento appagato e tranquillo, però qualche giorno dopo immancabilmente inizia il desiderio di un nuovo viaggio e guardo già al futuro e verso nuovi orizzonti. L’alpinismo diventa come una droga, non ne puoi fare a meno. La cosa più difficile, soprattutto nelle solitarie, è capire quando arrivi al tuo limite. Devi sempre essere capace di dire: “Questo appena raggiunto era il mio limite ultimo, non vado più in su…”. meno conosciute, spostandomi sul San Lorenzo e lì ho ritrovato la Patagonia del mio bisnonno: la natura, il bosco, la montagna e nient’altro… Il versante nord non era mai stato scalato e così Mio bisnonno era andato in esplo- c’è stata la scoperta di questa nuova razione per la Terra del Fuoco passan- via, chiamata da allora Caffè Cortado in Patagonia e io fin da piccolo ho do, in un ambiente unico: si parte dal sempre visto le vecchie diapositive in livello del mare e si va fino a tremila bianco e nero di quel mitico viaggio: metri di altezza. Il coraggio e la forza scopri questo mondo selvaggio e te ne di arrivare in vetta: quella è l’unica innamori perdutamente. Oggi chi si sfida che conta.

Alcune delle pareti della Patagonia che si è trovato ad affrontare sono tra le vette più impervie da esplorare…

IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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CITtadino della LUna in Visita di Istruzione sulla Terra: Fosco Maraini di Carlotta Guidi

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ifficile, se non quasi inutile, tentare di dare un ordine sistematico alle molteplici attività che occuparono la lunga e avventurosa vita del toscano per nascita, ma cosmopolita per vocazione, Fosco Maraini, padre della ben nota scrittrice e drammaturga Dacia. Alpinista, etnologo, orientalista, antropologo, fotografo, poeta, instancabile viaggiatore, non vi è campo del sapere e dell’agire umano in cui “Citluvit” (acronimo di sua invenzione per “CITtadino della LUna in Visita di Istruzione sulla Terra), non si sia cimentato e gettato a capofitto spinto da quella curiosità “etica”, così definita da Franco Cardini, che ha trovato il suo maggior nutrimento nell’antica “arte” del viaggio. Per comprendere la vita e l’opera di questo intellettuale italiano ante litteram è utile individuare i più significativi “luoghi del cuore” che hanno tracciato la sua personale parabola esistenziale, primo fra tutti la villa paterna di Poggio Imperiale, a Firenze, in cui gli oggetti meravigliosi e i grandi libri illustrati dei genitori alimentarono nel piccolo Fosco il fascino verso terre a lui ancora sconosciute. Poi il Tibet, sognato e “venerato” fin da bambino, le cui porte si aprirono inaspettatamente nel 1937 quando lesse per caso, sopra il foglio di giornale stropicciato che avvolgeva i suoi scarponi da sci, la notizia che il grande antropologo e orientalista Giuseppe Tucci reclutava giovani esploratori per la sua imminente spedizione in Asia centrale. E infine il Giappone, il luogo che per Fosco è stato “non più una cosa che si prende o si lascia; è una frazione del sangue, un’essenza delle selve interiori” (Incontro con l’Asia, p. 31). All’interno di questo “microcosmo” geografico, Maraini si è saputo muovere con la libertà dello studioso fuori dagli schemi, ora divertendosi ad indossare l’abito del fotografo che con sguardo antropologico documenta la millenaria tradizione ittica praticata dalle Ama, le “donne del mare” dell’isola di Hèkura, ora quello dell’alpinista-esploratore pronto per l’ascensione al picco Saraghrar sull’Hindu-Kush. Delle sue meravigliose avventure su e giù per il mondo ci rimangono oggi i documentari, l’archivio fotografico e i libri di viaggio. Tra questi, Segreto Tibet (1951) e Ore Giapponesi (1957) già sono entrati a far parte dei grandi classici della letteratura odeporica del XX secolo, entrambi straordinari “diari di bordo” in cui la narrazione antropologica lascia ampio respiro al dato “emotivo”: il contatto simpatetico con l’altro, inteso come individuo concreto, la vita vera dei popoli via via incontrati, si rivelano per l’autore la vera molla del suo incessante movimento. Così, negli scritti di Maraini, il viaggio della letteratura e il viaggio della vita combaciano in un dialogo continuo e interscambiabile e, da esploratore innamorato quale è sempre stato in oltre sessant’anni di nomadismo, questo “pellegrino per venerazione e curiosità” si scopre allora essere stato, attraverso le varie forme espressive di cui si è servito, uno degli ultimi sinceri umanisti del nostro secolo.


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C’è vita su Marte?

Giovanni Bignami

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ella storia l’essere umano è sempre stato spinto all’esplorazione, al gusto di andare a cercare cose nuove. Nel 1961, solo 4 anni dopo la conquista della cima dell’Everest – il punto più alto, mai raggiunto prima dall’uomo – l’umanità arriva nello spazio, grazie al russo Gagarin che compie un giro attorno alla Terra. Qualche anno dopo attraverso la missione dell’Apollo 8 si compie una circumnavigazione lunare, ma non viene ancora risolto il problema della discesa sul suolo della Luna. Solo con l’allunaggio del 20 luglio del 1969 per la prima volta degli esseri umani sbarcano sulla Luna e le parole di Neil Amstrong – “Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità” – celebrano questo viaggio unico. Ma proviamo ad andare al di là della Luna e a pensare a nuove conquiste: sugli asteroidi, per esempio, la quantità percentuale di platino è infinitamente maggiore che sulla Terra, la loro composizione è davvero interessante perché si tratta di un gruppo di metalli di cui la Terra scarseggia. Nel libro che ho scritto insieme ad Andrea Sommariva, Oro dagli asteroidi e asparagi da Marte, viene spiegato quanto potrebbe essere proficua l’idea di realizzare delle miniere sugli asteroidi: i metalli rari valgono come l’oro, politicamente hanno un peso e la NASA sta già pensando in modo molto concreto di realizzare questa impresa. Anche perché un’esperienza del genere sarebbe un allenamento fantastico per mandare gli uomini nello spazio e approdare finalmente su Marte. Di fatto quando saremo arrivati su Marte avremo bisogno di un posto dove vivere: stare fuori all’aperto sulla superficie è pericoloso, con un’atmosfera così sottile il rischio è quello di prendersi delle radiazioni o delle meteoriti che ti cadono addosso… Bisognerà allora costruire degli appositi tunnel dentro i quali sarà possibile coltivare qualcosa da mangiare, magari cercando di fare un orto su Marte. Il grande risultato a cui è arrivata la NASA è che la pianta più idonea per essere coltivata nello spazio potrebbe essere l’asparago: cresce dappertutto e inoltre la terra di Marte è sabbiosa e ricca di ferro, quindi verrebbero degli asparagi buonissimi e molto alti perché la gravità su quel pianeta è un terzo di quella usuale… In un futuro, neanche troppo lontano, i ristoranti famosi potrebbero portarti da mangiare un vassoio di asparagi appena scesi dall’astronave, a chilometro zero: gli asparagi da Marte!”


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Di padre in figlio

Folco Terzani

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Folco Terzani insieme al suo babbo Tiziano Terzani

uando è arrivato il momento mio babbo – Tiziano Terzani – ha deciso di tornare a morire nella sua terra, la Toscana. Lui era fiorentino, ma in verità si è identificato più con le montagne vicino a Firenze che con la città della cultura e dell’architettura rinascimentale. Per mio babbo queste montagne erano molto più belle dell’Himalaya perché erano quelle della sua terra; alla fine ha lasciato questo posto divino sopra le nuvole sull’Himalaya per andare a morire sempre nella natura, ma in quelli che erano i sui luoghi. Mio babbo nella vita aveva fatto un percorso: era partito dalla natura – da questo posto vicino a Firenze magico e pieno di bellezza in cui andava da piccolino – e lo aveva abbandonato per andare in Paesi come l’Asia, dove aveva visto tutte le cose dell’uomo: le guerre e i sistemi politici, questo allora gli interessava. Alla fine c’è stato un processo di distacco da questo tipo di faccende politiche perché gli viene detto che ha poco da vivere: lui, che era grosso e forte, con una mente precisa e lucidissima, cambia completamente la sua impostazione di vita.

Prima si trasferisce sull’Himalaya, cercando di tornare ad essere un tutt’uno con la natura: per riuscire a comprendere al meglio le cose grandi della vita, quelle davvero importanti, devi arrivare inevitabilmente a staccarti dalla continua distrazione che è la quotidianità, fatta di tecnologia e materialità. Mio babbo ci era riuscito andando a vivere sull’Himalaya, in un posto talmente alto: c’erano soltanto due casine, un amico indiano più vecchio di lui e due corvi a fargli compagnia…


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Il successivo passaggio è stato andare nelle sue montagne, vicino a Signa, negli ultimi mesi della sua vita. In questo periodo ha dovuto fare una sorta di download, come si fa con i computer prima di essere spenti: si trasferiscono i dati da un computer ad un altro. Mio babbo era talmente cosciente di quello che stava accadendo che mi ha chiamato e mi ha detto: “Se ti interessa, ti racconto quello che ho ancora in testa e così il mio pensiero passerà a te…” Questo è il percorso che abbiamo fatto insieme, io e lui, per alcuni mesi. È stata una cosa bellissima. Tramandare la vita – le nostre idee, tutto quello che abbiamo imparato negli anni – è avere la voglia di dare realmente qualcosa ai propri figli: mio babbo voleva essere sicuro di dire precisamente le cose che aveva dentro perché continuassero… Io ho registrato tutti i nostri discorsi e alla fine abbiamo pubblicato questo libro, La fine è il mio inizio. Ad un certo punto non avevo più niente da chiedergli, mi aveva detto tutto e così ha smesso di lavorare. Dopo due giorni è morto. Era uno che lavorava tanto ed è una cosa difficile da capire di lui: nell’immaginario collettivo è identificato come un pacifista, una persona calma e tranquilla. Invece era una delle persone più dure che io abbia mai conosciuto: un individuo tosto, con tutti. Mi dicevano che addirittura i suoi datori di lavoro avevano paura di lui perché metteva soggezione: era forte, duro nel rispetto delle regole ma in maniera benevola.

FOTO CHIARA ZILIOLI

Da quella durezza è venuto fuori un tipo di pensiero diverso: negli ultimi anni della sua vita era cambiato, non era più la persona che magari avevi conosciuto prima, quando faceva il giornalista e parlava di politica… È diventato semplicemente un uomo che guarda la vita cercando di comprenderla, al di là del suo mestiere. Il viaggio più importante, alla fine, è il viaggio della vita. Il suo mestiere l’aveva già fatto bene, ecco perché voleva arrivare a capire cos’è veramente questa esperienza che attraversiamo: un viaggio dell’anima. Quando ha cominciato ad arrivare a queste riflessioni, si è spostato verso il bisogno della non-violenza e del pacifismo, proprio come passo ulteriore a parti-


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re dai problemi tra ricchi e poveri, dai conflitti sociali e dalla necessità di portare giustizia nel mondo: tutto quello che aveva sperimentato durante la sua esistenza con il lavoro di giornalista. Il suo pensiero si era evoluto e infatti era arrivato a vedere le cose con un tale distacco che non riconoscevo più la persona che le pensava: quando ho letto le sue lettere contro la guerra mi sono chiesto chi le stesse scrivendo… Ancora oggi – le ho rilette dopo gli attentati di Parigi – sono rimasto impressionato dalla sua capacità di capire l’importanza della non-violenza: è difficile arrivarci con il pensiero perché è molto più semplice reagire arrabbiandosi. E del resto lui stesso aveva fatto sempre così. Invece arrivare ad esprimere questo tipo di amore disinteressato è una cosa meravigliosa e giusta: soltanto come si fa a rendere pratica questa idea di amore assoluto? L’idea che qualcuno ti dà uno schiaffo e non glielo rendi, questa è una cosa sublime: il tentativo di arrivare a quel tipo di amore deve esserci, è un anelito verso cui bisogna sforzarsi di tendere, soprattutto nei momenti più difficili e non solo quando andiamo tutti d’accordo. Prima di morire ho chiesto a mio “Quello tra me e mio babbo è stato babbo se avrebbe voluto fare ancora un fantastico viaggio fatto insieme. qualcosa e lui mi ha risposto che se fosse vissuto più a lungo si sarebbe but- Era bello ascoltare le sue esperienze tato nel movimento della pace. L’unica perché in fondo quello che lui aveva cosa che gli era ancora rimasta da fare. Sarei stato davvero curioso di vedere cercato di insegnarmi era quello che come avrebbe realizzato questa nuo- lui faceva: andare a vedere il mondo” va sfida: è complesso il pensiero della pace, richiede una certa rinuncia per arrivare a qualcosa di grande. L’unica regola che può esistere è che noi siamo anime in corpi sulla Terra; non esistono più i Paesi né le religioni: quando arrivi al dunque, ad affrontare il percorso della tua esistenza, si va oltre a tutto questo. Quello tra me e mio babbo è stato un fantastico viaggio fatto insieme. Era bello ascoltare le sue esperienze perché in fondo quello che lui aveva cercato di insegnarmi era quello che lui faceva: andare a vedere il mondo. E lui credeva in quello che faceva. Ci raccontava sempre tutto: l’Asia, il Vietnam, la Cina, i luoghi che lui andava a visitare e quelli in cui portava tutta la famiglia a vivere per dei periodi… Se devo lasciare un pensiero finale su mio babbo, vorrei sottolineare la sua immensa capacità di aprirsi a tutto, che è la vera grande esperienza della vita. Ed è grande non soltanto per i Paesi, le culture, le religioni che attraversano la nostra vita, ma anche per la natura che ci circonda: le lucciole all’inizio dell’estate, le montagne che ci circondano, le stelle sopra di noi che sono così belle e lontane… Sentire insomma che il viaggio dell’anima è molto più lungo e profondo di quello del corpo.


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Viaggiando empiricamente

Michel Hardy

“I

l mio ‘viaggio’ ebbe inizio tanti anni fa a Vienna, mia città natale, per poi portarmi in metropoli come New York e Parigi… ma si è fermato soltanto una volta arrivato in Italia. Appartengo a due mondi e due culture che si sono incontrate e fuse inevitabilmente in me. Viennese di origine e italiano di adozione, ho potuto coniugare la mia forma mentis nordica con l’apertura e creatività dell’anima italiana. Questo connubio si rispecchia nel mio modo di concepire la vita, nelle mie scelte e nelle mie scoperte! Sento la lontana influenza di “amici nordici” come Freud e Jung, cresciuti nel mio stesso contesto culturale, anche se mi riferisco più alla loro enorme sensibilità di tracciare strade inedite per l’uomo che al loro operato. Ho iniziato il mio viaggio con una laurea nelle Belle Arti e solo in seguito attraverso una ricerca personale che mi ha portato ad approfondire tematiche filosofiche e psicologiche, spirituali e religiose ho deciso poi di dedicarmi totalmente all’ascolto e alla comprensione dell’altro. Ecco che così cominciò il viaggio più importante della mia vita… quello con me stesso!

“La

Motore e ispirazione di tutto fu - e continua anche ad esserlo adesso - niente di meno che il mio corpo! Intendo la dimensione corporea come contenitore emotivo, sensoriale ed empirico dell’uomo, costretto ad assimilare tutto ciò che passa giorno dopo giorno dall’esperienza della vita ma che la mente elabora puntualmente in maniera diversa. Quest’ultima, infatti, mente mente fondamentalmente, ignora quasi sempre la ‘realtà empirica’ ossia ciò che realmente è, dedicandomentre il corpo non sa neanche si piuttosto alla libera interpretazione come si faccia!” della stessa e meravigliandosi se strada facendo affiorano ‘incongruenze’ che ben presto viviamo come disagi, disturbi o patologie. “La mente mente fondamentalmente” affermo spesso ironicamente durante i miei seminari, mentre il corpo non sa neanche come si faccia! Esso infatti esprime la nostra realtà in modo accurato, senza filtri e sovrastrutture interposte, riportando sempre il sentire reale dell’individuo. Non si fa deviare da ideologie, né opinioni né cerca di adeguare la realtà sempre al proprio favore, come invece la mente fa. Così molti anni fa ho fondato l’Approccio Empirico ovvero una diversa maniera di accostarsi ai fatti di sempre e, allo stesso tempo, uno strumento inedito per comprendere se stessi; come se fosse un’inedita grammatica dell’essere in grado di generare nuove comprensioni e consapevolezze, ampliando la capacità di riconoscere le cose sul piano del nostro ‘sentire’ ancora prima di volerle capire. Esplorandoci attraverso il corpo scopriamo le radici oltre il velo, ritrovando il bandolo della matassa che da sempre ci sfugge ma che regolarmente si ripresenta nella nostra esistenza. E tutto ciò che fino allora non eravamo in grado di afferrare si rivela sul piano emotivo e sensoriale, pronto a sorprenderci


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e a essere finalmente colto anche dalla nostra mente analitica. Attraverso questo ‘diverso’ modo di approcciarci al proprio corpo le persone si rendono libere, diventano consapevoli di un “bagaglio” arretrato che da sempre si portano appresso e che a volte risulta di un peso mortale. Il nostro sentire fa da catalizzatore, ricollegandoci all’ordine naturale delle cose, e diventa portatore della nuova verità che la mente spesso disattende. Dopo tutti questi anni di lavoro in questo campo, eseguito con tantissime persone in tutto il mondo, mi accompagna ancora lo stesso stupore nel vedere il cambiamento che avviene in chi si avvicina all’Approccio Empirico. Si tratta di un vero e proprio percorso di autoconsapevolezza che, attraverso la ricerca della ‘verità corporea’, accosta l’individuo a un sentire più autentico e diverso di sé; lo scopo di tale indagine è il riconoscersi nella realtà empirica ossia in ‘ciò che veramente è’, senza far filtrare la propria verità attraverso convinzioni mentali preconfezionate, piene di aspettative di ogni genere. Ciò non accade andando in palestra o spalmandosi creme di bellezza, ma riappropr i a ndo si della nostra parte più sensoriale e collegandosi con i moti corporei più repressi: i propri rimpianti e rimorsi, la rabbia arretrata e il resto del bagaglio che appesantisce la nostra vita. Soltanto mettendoci in ascolto con la parte più profonda e segreta di noi stessi il corpo diventa un ‘altoparlante’ del vero Sé, rilasciando il bagaglio emotivo inutile. Ciò significa liberarsi dalle insidie del proprio dolore, dalle proprie ferite emotive; e man mano che le resistenze calano scopriamo di far parte di un ordine; e non ne facciamo soltanto parte, ma scopriamo che L’ORDINE SIAMO NOI! Si tratta di un vero e proprio viaggio con se stessi, l’unico che valga la pena di essere vissuto a pieno! La mia funzione in tutto ciò è aiutare le persone a fare i passi più appropriati, per diventare i capitani della loro nave! Bisogna affrontare la propria paura di salpare e prendere rotta sul mare aperto; bisogna fare esperienza della nostra parte ombra per sentirsi padroni della propria nave e cominciare a spiegare le vele. Questo viaggio dura una vita intera ed è il fulcro di ogni esistenza, l’unico criterio che alla fine ci fa dire “è valsa la pena!”. Siamo abituati più a fare che a essere. La società moderna guarda più all’esteriorità e all’individualismo, che al modo in cui ci sentiamo dentro. In verità si viaggia abbastanza, ma questo lascia il tempo che trova se non iniziamo a conoscere prima i paesaggi dentro di noi. Il viaggio esteriore acquista valore dal momento in cui si accosta a quello interiore, acquisendo soltanto così visione e apertura, comprensione e verità. In caso diverso la vita rischia solo di essere consumata e non vissuta. E se non lo fai tu, nessuno potrà farlo al posto tuo. “

Michel Hardy, laureato a Vienna e Counselor-Trainer FAIP (Federazione Ass. Italiane Psicoterapia); ridefinisce la ricerca del Sè attraverso una nuova metodologia esperienziale, ossia l’Approccio Empirico; uno dei massimi esperti in materia di autostima; fautore di un realismo pro-positivo atto a riscoprire le dinamiche empiriche che determinano l’ordine naturale. In Italia www.centrostudimichelhardy.it


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Michele Rech “ZeroCalcare”

La storia infatti comincia con la morte di sua nonna…

La mia responsabilità è stata di riuscire a scrivere e disegnare senza tradire quella che era la mitologia familiare. Avevo in testa di fare qualcosa che rendesse giustizia alla nostra storia, con tutte le complicazioni del caso: c’è anche del dolore nel racconto, che va a toccare intimamente mia madre, e quindi la gestazione del libro è stata Con la realizzazione di un graphic complicata perché avremmo dovuto decidere insieme quali particolari racnovel, ovvero di un romanzo a contare ai lettori e quali parti invece fumetti, è arrivato al Premio lasciare più o meno nell’ombra… QueStrega. Com’è avvenuto questo sta storia parte da una serie di buchi passaggio a partire dal fumetto nella trasmissione della memoria deltradizionale? Non so se mi ero immaginato di la mia famiglia: io stesso ho incontrato fare un graphic novel, nel senso che nel corso degli anni dei fatti che non quando ho iniziato a disegnare Dimen- tornavano, cose che non coincidevano tica il mio nome non pensavo esatta- nei vari racconti che si tramandavano. mente ad un romanzo… In verità non Queste lacune della memoria affondaho una grande fantasia con le storie: no le radici nel periodo della guerra, quando mia nonna era molto giovane. “Penso che l’identitarismo La storia della famiglia si incrocia ansia un male perché nel mondo che con la fuga di alcuni nobili russi che scappano dalla Rivoluzione di di oggi dobbiamo aprirci, questa Ottobre: sono migranti che viaggiano è l’unica vera possibilità” verso Cannes o Nizza e che vanno a ricreare in Costa Azzurra una piccola quando ho provato ad inventarne di Russia. La mia famiglia è originaria di nuove partendo da zero, come se si quelle parti. trattasse di una sceneggiatura, devo dire che non sono mai riuscito a reaIl suo modo di scrivere mette in lizzare delle cose che mi soddisfacesscena l’esistenza quotidiana e il sero appieno… Ho avuto la fortuna senso di appartenenza ad una che il plot del libro mi sia stato concittà, Roma, e più in particolare segnato dalla vita: alla morte di mia ad un quartiere, Rebibbia. Che nonna qualche anno fa mi sono state cos’è l’identità, rispetto al luogo, rivelate una serie di cose relative alla per Lei? mia famiglia, pezzi del vissuto delle E’ complicata la questione dell’igenerazioni che mi hanno preceduto, dentità, si tratta di un argomento conche costituivano di per sé storie estre- traddittorio. Io penso che l’identitarimamente rocambolesche e piene di smo, vissuto in una chiave che ti porta elementi di avventura. Il loro racconto a rifiutare chi non appartiene alle tue mi sembrava già un romanzo. tradizioni e alla tua storia, sia un male

COSÌ PARLÒ L’ARMADILLO


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perché nel mondo che viviamo oggi Lei ha cominciato a fare fumetti dobbiamo aprirci, questa è l’unica vera online e pubblicando le sue strisce possibilità. Però io ho una mia identità, sul blog zerocalcare.it… a cui sono molto attaccato, in maniera Ho cominciato a fare fumetti in viscerale. Questa identità riguarda il maniera più continuativa utilizzando posto geografico dove sono cresciuto: Internet. La rete è un posto di scambio, Rebibbia, che è il mio quartiere. È un dove tutti commentano e ciò può essepezzo di Roma che chiama per ana- re molto stimolante perché ti dà dei felogia il resto del mondo, soprattutto edback sul tuo lavoro, proprio durante di un certo mondo: i centri sociali e la fase di ideazione. Io sono una persona

la scena punk, tutto un universo che rappresenta la minoranza della minoranza. Il quartiere ha un peso fortissimo. Rebibbia è il capolinea della metropolitana, quindi viene percepito già di per sé come un posto molto lontano. In realtà dista soltanto venti minuti dalla stazione Termini, non è solo il luogo dove sta il carcere: ci sono, per esempio, le casette basse e le palme… È una vera oasi. Il fatto di sentire tutti gli altri che dicono che quel quartiere è brutto ti rende ancora più attaccato al luogo: pensi che il posto è anche tuo, che devi difenderlo e contribuire ad affermarlo.

timida e in genere non faccio leggere a nessuno i miei fumetti quando ancora non sono finiti, invece mi sono accorto che in rete, inserendo subito delle storie brevi, la gente fa commenti in tempo reale regalandoti la voglia di continuare e di migliorare ancora. Da questo punto di vista, avere un blog è una cosa molto bella e stimolante, che dà libertà.

Arrivare a concorrere al Premio Strega: che tipo di soddisfazione crea in un disegnatore di fumetti? Io sono molto contento quando le persone mi dicono che hanno letto il mio libro e che gli è piaciuto; detto que-


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sto, però, non credo che il mio fumetto sia arrivato al Premio Strega per particolari meriti… Spesso in questo tipo di eventi si intercetta il movimento del mercato: il fumetto arriva alla cultura alta solo seguendo la motivazione di aver venduto tante copie… Esistono altri fumetti, sicuramente molto più belli

del mio, che non arrivano mai al Premio Strega perché rimangono fuori dal radar degli editori e non vengono mai letti.

La figura dell’armadillo nelle sue storie rappresenta la coscienza. Perché questa scelta? Mi serviva un personaggio per rappresentare la coscienza, con l’obiettivo di rendere più dinamiche le mie strisce. Altrimenti sarebbero state tutte storie in cui i miei pensieri venivano descritti tramite didascalie e invece impersonare come un altro personaggio la mia coscienza mi ha aiutato a realizzare dei controcampi narrativi. L’armadillo mi sembrava adatto perché è un animale che si racchiude su se stesso e che diventa impermeabile all’esterno… Lo uso per raffigurare l’aspetto più introverso del mio carattere.

Com’è la giornata-tipo di un disegnatore di fumetti? Praticamente in questo momento i fumetti si sono mangiati un po’ tutto il tempo… Mi alzo la mattina alle 8.30, metto su una chiavetta almeno quindici puntate di una serie TV e sul divano – con un librone di Star Wars sulle

ginocchia come tavolino – inizio a disegnare, fino a sera. Questo ritmo di lavoro può uccidere la creatività, nel senso che diventa difficile raccontare storie nuove di vita vissuta stando sempre a casa… Per fortuna, anche quando esco per mezz’ora mi succedono delle cose strane o buffe che si possono poi rielaborare; adesso sto lavorando sul viaggio fatto in Kurdistan perché sono stati i giorni in cui mi sono immerso in un tipo di vita più pratico. Alla fine è stato come se fosse un’esperienza di giornalismo a fumetti, anche se io sono partito per un interesse personale dettato da un’attenzione verso quei territori nata a Roma e suscitata dal quartiere che mi circonda, Rebibbia. Non avevo l’obiettivo di creare un reportage. Il punto di partenza è sempre il mio vissuto, tutto quello che tocca la mia esistenza.


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Firenze contemporanea Exit Enter

L’arte urbana e i suoi viaggi di Orsola Lejeune

E

xit Enter è uno street artist fiorentino la cui identità rimane sconosciuta, e alla domanda del perché usi il nome d’arte risponde con diverse motivazioni: “Il nome d’arte lo uso maggiormente per tutelarmi, inoltre penso che la mancanza di un’identità dia più importanza al lavoro che svolgo e non a chi sono.” Non è rimasta sconosciuta invece la sua arte che troviamo su parecchi muri nelle strade di Firenze. I suoi personaggi sono spesso rappresentati da uomini stilizzati che volano via attaccati ad un palloncino o sono accompagnati da cuori rossi, li troviamo mentre inseriscono una chiave in una serratura alla ricerca di un’uscita, troviamo monarchi circondati da ricchezze e acclamati da una grande folla, la sua poetica rimane non ben definita ma quello che è certo è che con pochi tratti puliti e definiti riesce ad esprimere in maniera chiarissima un concetto: “La mia poetica non so dirti qual è, io stesso sto cercando di capirlo, per ora non posso fare altro che studiare il pubblico e la poetica che esso attribuisce ai miei scarabocchi. I miei disegni sono rappresentazioni personali della visione che ho sul nostro mondo e le speranze di come vorrei che fosse.”

FOTO ADRIANA DESIDERIO

Le persone spesso additano i suoi disegni per strada e io stessa quando ne vedo di nuovi, attraverso la strada per poterli osservare da vicino. Racconta di aver iniziato a dipingere sui muri per caso, per divertimento, con amici che già lo facevano, per potersi esprimere senza i limiti di un foglio: “Ora so che a guidarmi è stato il mio inconscio e vari fattori esterni. Ho sempre disegnato molto ma l’arte per essere tale deve essere condivisa, purtroppo è difficile avere i mezzi per esporre in gallerie qui a Firenze, e con la street art ho trovato un pubblico che facesse vivere i miei personaggi. La città vuota e silenziosa ve la raccomando. Giro a notte fonda per i vicoli antichi e come un fantasma cerco di non farmi vedere, ma osservo attentamente chi passa, pochi rumori, mentre immagino e cerco il muro giusto dove disegnare mi ritrovo in momenti senza tempo, di cui ora sono dipendente.” La nostra generazione, che vive in un periodo di crisi, cerca escamotage per potersi esprimere, e la storia testimonia che sono proprio questi periodi i più stimolanti per gli spiriti artistici e che le passioni, quelle vere, trovano nuovi modi per rinascere. “Mio nonno è falegname e ha vissuto della sua arte. Da


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quando dipingo ho sempre sognato di fare lo stesso, guadagnare con la pittura e la decorazione è molto più difficile ma con un po’ di ingegno credo sia possibile. Io dipingerei anche senza compenso e molte commissioni mi divertono fornendomi occasioni per mettermi alla prova, non lo considero un vero e proprio lavoro, forse in rare occasioni.” Sui social network possiamo seguire questo nuovo artista che ovviamente si fa trovare solo con il suo nome d’arte e vediamo come abbia viaggiato in più città sia in Italia che all’estero, lasciando i suoi disegni come briciole di pane dietro di sé. FOTO ADRIANA DESIDERIO

“I miei disegni sono rappresentazioni personali della visione che ho sul nostro mondo e le speranze di come vorrei che fosse”

Ogni città reagisce a suo modo, soprattutto per questo tipo di arte che non è ancora stata definitivamente e ufficialmente accettata, alcuni la definiscono arte, altri atto vandalico, basta però anche solo un dibattito sul labile confine fra queste due definizioni per generare un progresso. “Ogni città è culturalmente diversa, ce ne sono alcune più preparate all’incontro con l’arte urbana, altre meno. Maggiore è il riscontro e l’apprezzamento in quei luoghi dove la cultura è più aperta e liberale.” Ci sono delle regole non scritte per questa forma d’arte e dipingere i muri di una città conosciuta è più facile che dipingere in una città nuova, è come conoscere la tela che si ha davanti oppure no: “Certamente è più facile dipingere in una città che conosci, ti dà la possibilità di muoverti meglio, sai quali sono i


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limiti da non oltrepassare, i posti migliori dove dipingere e dove non farlo. Quando vado in altre città preferisco sempre avere un contatto tra gli artisti locali per poter attingere dai loro consigli, è molto importante conoscere la città in cui stai operando.” Viaggiando in città sconosciute, con un’altra aria, un’altra atmosfera, dove si parlano altre lingue, trovare i suoi disegni è come trovare un amico che non avresti mai pensato di incontrare in quel contesto tanto diverso da quello quotidiano, e non importa la firma, il suo stile lo riconosci sempre, anche a distanza. Viaggiare per Exit non ha un senso vero e proprio, ma è come se lasciasse una piccola parte di sé attiva a suo modo, in tutti i posti dove è stato. Molti dei nuovi artisti si appoggiano ai social network per poter far riconoscere la propria arte, perché ne sfruttano la libertà e l’immediatezza, per poter raggiungere qualsiasi tipo di pubblico in modo poco dispendioso ma Exit Enter ama più i muri delle pagine virtuali “Con i social network puoi farti molta “pubblicità”, io non sono molto bravo a gestirli, faccio fatica a stare al passo con i tempi. La maggiore visibilità dei miei lavori è sulla strada, i social sono molto utili per i contatti, è uno spazio virtuale dove, chi è interessato, può contattarmi.” L’altro giorno sono passata per una strada del centro dove i muri erano stati ridipinti di fresco, e con gioia mi sono accorta che i disegni di questo artista erano stati tutelati con grande cura, addirittura uno che era stato imbrattato era stato ripulito. Quindi forse, anche se non ufficialmente, qualcosa gli è stato riconosciuto.

FOTO ALICE NIDITO

FOTO CHIARA ZILIOLI

Le sue opere possono piacere o meno, come tutta l’arte figurativa è soggettiva e spesso tocca corde interne di alcuni ma non di altri e le fa risuonare o meno, quello che è certo è che questo nuovo tipo di arte sta prendendo sempre più piede e sta incontrando sempre di più il consenso delle nuove generazioni. Abituati a vivere in vicoli urbanizzati e con molto cemento intorno, forse questa è proprio l’arte che rispecchia in un modo molto forte la nostra epoca, regalandoci un po’ di colore e fantasia là dove il grigio e il nichilismo stanno cercando di soffocarci.


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Cartoline dagli attori Marco Baliani

Vagando nella creatività Il viaggio e la tournée Ho sempre viaggiato in tutta la mia vita, sono proprio un nomade di natura: vivo a Parma, ma non conosco neanche bene le vie intorno a dove abito perché sto sempre in giro. Il mio girovagare coincide per la maggior parte con l’impegno del mio mestiere: sono in tournée oppure mi muovo per andare a vedere altri spettacoli e conoscere nuovi artisti. Il mio è un viaggiare sempre legato al momento della creatività; quando ho fatto dei viaggi come turista e di puro svago, per così dire, non mi sono divertito molto. Il motivo è che intraprendere un viaggio esotico, in una meta in cui le differenze sociali sono ampie e la povertà è diffusa, mi fa passare la voglia di essere un turista che è lì per fare le vacanze. Se devo andare a Nairobi, per esempio, preferisco avere una buona motivazione, magari per realizzare un progetto con i ragazzi di strada.

Il viaggio del cuore Un mese e mezzo di seguito in America, ospitato da diverse università. Ero stato invitato a mostrare il mio lavoro e così ho avuto l’opportunità di conoscere molte città: da New York a tutta la parte del Nord Est: Boston, Washington, il Vermont… Ho sperimentato il modo di vivere del popolo americano e ho vissuto in prima persone quelle che sono le differenze tra noi e loro, pur essendo entrambi cittadini occiIMMAGINE CLARA BIANUCCI dentali. Sono legato all’idea che se si va in dei posti davvero lontani, il motivo non può essere vedere il paesaggio: arrivare a capire un’altra cultura, questo è la sfida.

Il viaggio del futuro Una volta mi piacerebbe andare, però per un lungo periodo, in Paesi come la Birmania, il Vietnam, la Cambogia… Tutti luoghi che non si sono ancora tuffati nella nostra economia, quindi risultano non inquinati dal senso della competizione. Soprattutto mi attira il Vietnam: vorrei scoprirlo, vedendo come quel popolo si è ripreso dopo la guerra…


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Cartoline dagli attori Silvio Orlando

Biglietto di sola andata Il viaggio e la tournée È bello il viaggio, perché all’interno di un viaggio ce ne sarà sempre dentro un altro e poi ancora un altro... La tournée è un destino tragico meraviglioso toccato in sorte a noi attori; il fatto di legare il nostro mestiere allo spostamento è una caratteristica molto italiana: di solito nelle altre parti del mondo gli attori non si muovono, anzi aspettano il pubblico. Il viaggio del cuore È stato un viaggio fatto nel 2000, molto lungo: insieme a mia moglie siamo partiti per l’America centrale e quello è un tipo di viaggio che si sa quando si parte, ma non quando si torna. Avevamo un biglietto aperto, di sola andata, e abbiamo assaporato il gusto del viaggio... Dal punto di vista teatrale un viaggio che ho nel cuore è costituito da La scuola, lo spettacolo che sto portando in scena; è stato un po’ come fare il giro del modo per me: il progetto iniziale è stato mio, sono andato da Starnone per chiedergli una versione teatrale delle sue cronache scolastiche e poi siamo passati a proporre questa storia al cinema... In questi vent’anni attorno a questo progetto è scaturito, sotto il profilo creativo, veramente di tutto. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Il viaggio del futuro Non so dire bene quale potrebbe essere il mio prossimo viaggio... Essendo napoletano, il concetto del viaggio fa parte proprio del DNA, è sempre un motivo di dolore perché noi napoletani in fondo siamo abituati a vivere la partenza come un’umiliazione: in genere abbandoniamo la nostra città con lo scopo di trovare lavoro. Io stesso sono venuto via da Napoli per questo motivo, verso i trent’anni. Comunque a me piace viaggiare: superata la prima fase della partenza, quando ancora provo della nostalgia per il luogo che ho appena lasciato, non tornerei più.


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Cartoline dagli attori Federica Di Martino

Un posto chiamato felicità Il viaggio e la tournée Noi attori italiani siamo attori di giro, non stanziali. E nello specifico io adoro il viaggio, amo quella dimensione che porta ad andare sempre ‘verso qualcosa’… Non mi interessa tanto l’arrivare né l’andare via: andare verso, questo mi dà il senso del viaggio.

Il viaggio del cuore Un viaggio che risale a cinque anni fa. Sono partita da sola per andare un mese a New York ed è stata un’esperienza estremamente formativa: pur essendo una città così grande e dispersiva, mi sono sentita subito a casa. Stavo da sola, quindi ero molto concentrata sul mio essere là: volevo vedere, studiare, scoprire cose… Un altro viaggio che ricordo con affetto enorme è stata la mia prima tournée, appena uscita dall’Accademia. Con uno spettacolo di Luca Ronconi siamo andati a Milano, Genova, Parigi, Cracovia: ricordo il sentimento esaltante che provavo in quella prima tournée internazionale.

Il viaggio del futuro

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

E’ quello intorno al mondo. E quindi ancora troppe mete mi mancano: da anni, per esempio, sogno di affacciarmi in Costa Rica. Pare che sia il Paese con il più alto tasso di felicità nella popolazione, quindi vorrei toccare con IMMAGINE CLARA BIANUCCI mano se questa notizia è vera… Nel nostro Paese ormai si vive un malcontento diffuso da tanto tempo, per cui questa idea della Costa Rica - dove la popolazione pare viva con poco e sia molto felice – mi intriga molto. Con il mestiere di attrice si viaggia molto nella propria emozione perché per lavoro giri con gli spettacoli, però nel mondo c’è ancora tanto che voglio vedere.


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Cartoline dagli attori Daniele Pecci

Prossima meta Oriente! Il viaggio e la tournée Il mio rapporto con il viaggio è molto complesso e laborioso perché io amo soprattutto il momento dell’arrivo. In tournée ho imparato ad apprezzare anche la fase degli spostamenti: si vive la tournée e quel modo un po’ nomade di avere una valigia sempre dietro, di fermarsi a mangiare all’autogrill e di fare tutto quello che si fa quando non si ha un tetto sulla testa… La canzone di De Gregori La valigia dell’attore esprime bene la nostra condizione; ho amato subito questa canzone: stavo interpretando i Sei personaggi di Pirandello e nel verso in cui si canta “siamo il padre e la figlia” mi è sembrato di ritrovare proprio le parole di Pirandello. De Gregori utilizza immagini molto forti e molto vere, anche nella loro apparente tristezza. Tutto è riscattato dall’amore e dalla passione per il mestiere dell’attore, e questo è molto poetico.

Il viaggio del cuore Ricordo un viaggio in Scozia, che è una terra bellissima, ormai tanti anni fa… Ero un ragazzino ed è durato almeno una ventina di giorni: abbiamo girato tutta la Scozia in macchina e ci siamo fermati dappertutto. Un viaggio speciale, in una terra incredibile e con delle atmosfere quasi da dramma shakespeariano. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Il viaggio del futuro Devo ancora andare in Oriente! Sono stato, per esempio, in Australia, però mai né in Cina né in Giappone. Quelle mete mi affascinano perché mi sembrano le più esotiche di tutte… Un aspetto del viaggio che vorrei non mancasse mai nel mio futuro è il viaggio dell’attore intorno al suo personaggio: tutta la tua attenzione si focalizza sulla figura che dovrai interpretare, quindi è come se tu fossi trasportato proprio in un’altra dimensione: questo è sicuramente il viaggio più lungo ed impegnativo di tutti!


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10 Quaderni della Pergola La parte redazionale è a cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini La parte monografica Partiamo è a cura di Matteo Brighenti e Riccardo Ventrella

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com www.teatrodellatoscana.it

Tutte le interviste e gli articoli dedicati a Giovanni Bignami e Folco Terzani (ispirati dalla rassegna Il libro della vita organizzata da Scandicci Cultura) sono di Angela Consagra

Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli

Progetto Grafico Walter Sardonini / SocialDesign

L’articolo dedicato a Michel Hardy è a cura di Alice Nidito La fotografia di copertina è di Fosco Maraini (Lungo la carovaniera Gangtok - Gyantse, sulla vasta pianura dei Pun - sum (“dei Tre Fratelli”), poco a nord del passo Tang - la (4650 m.), 1937-1948 ca., Fosco Maraini/Proprietà Gabinetto Vieusseux©Fratelli Alinari)

Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Maurizio Frittelli, Stefania Ippoliti, Raffaello Napoleone, Duccio Traina Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Roberto Lari, Adriano Moracci Direttore Generale Marco Giorgetti

La fotografia dell’editoriale e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini La fotografia di a pag. 63 è di Chiara Zilioli Hanno collaborato a questo numero: Clara Bianucci, Dalila Chessa, Adela Gjata, Teresa Gottardo, Gabriele Guagni, Carlotta Guidi, Orsola Lejeune, Simona Mammoli Per la consulenza dall’inglese si ringrazia Raffaello Gaggio L’introduzione ai Quaderni a pag. 2 di Claudio Magris è tratta da L’infinito viaggiare, Editore Mondadori (Collana Oscar contemporanea) 2008 L’articolo di Tim Robbins è parte del suo intervento in occasione del Forum dei Sindaci di tutto il mondo in ricordo di Giorgio la Pira “Unity in Diversity”, organizzato dal Comune di Firenze.

© 2015 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA

Le interviste a Hervé Barmasse e Zerocalcare sono frutto degli incontri del Festival Pordenonelegge 2015

© 2015 EDIZIONI POLISTAMPA

Le interviste a Elio Germano e Pierfrancesco Favino prendono spunto dall’incontro con gli attori nell’ambito del Cityfest 2015 di Roma condotto da Mario Sesti

Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 7378711 (15 linee) info@polistampa.com www.polistampa.com

L’intervista a Mario Botta nasce dell’incontro con l’architetto organizzato dal Festival della Letteratura di Torino 2015. Si ringraziano gli Amici della Musica di Firenze per la gentile collaborazione


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.


La strada è vita... Jack Kerouac


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