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Il numero 5 dei Quaderni della Pergola inaugura, insieme allo spettacolo Sei personaggi in cerca d’autore per la regia di Gabriele Lavia, questa nuova stagione di prosa. E lo fa rinnovando il proprio aspetto, decidendo di vestirsi con gli elementi di stile che caratterizzano l’attuale immagine grafica della Fondazione Teatro della Pergola. È un Quaderno che si rinnova e si arricchisce di più elementi: tra innovazione e tradizione, tra arte e storia, con immagini e visioni. Continuando a dare voce agli artisti e alle maestranze, a chi brilla sul palcoscenico e a chi lavora dietro le quinte. Fino ad accogliere e dare spazio a chi sapientemente offre il proprio punto di vista critico su questo variegato mondo culturale e di spettacolo. Un Quaderno che abbraccia nuove visioni di pensiero ma che non vuole tradire la sua anima poetica e libera, accettando il rischio ed il compromesso; nella consapevolezza e responsabilità di non deludere i lettori affezionati e pronto ad aprirsi a nuovi curiosi lettori. Il Quaderno numero 5 inaugura dedicandosi alla vita degli attori: uomini e donne fatti di anima e corpo che ogni sera donano un pezzo di vita, di speranza, di sogno, di riflessione e di amore a tutti noi. Le luci si abbassano, si alza il sipario, la musica inizia, appare l’attore… Che lo spettacolo abbia inizio!
4. Enrico Magrelli Il mestiere dell’attore 5. Giancarlo Giannini Un gioco serio 8. Ottavia Piccolo Un abito sempre diverso 10. Elio Germano Dentro l’emozione 13. Valeria Golino Non temo più le parole 16. Silvio Orlando Un’avventura affettiva 19. Federica Di Martino Scritto nel destino 21. Anna Ferzetti La responsabilità di essere attrice 23. Lucia Lavia La gioia di essere attrice 28. La riproduzione vietata 30. Sull’essere lo stuntman di Gabriele Lavia 32. Eduardo e Pirandello, cantata dei giorni gelidi 34. L’autore come padre 36. La parola al pubblico 37. Dal palcoscenico della Pergola Gabriele Lavia parla agli attori 43. La Storia racconta... 45. I mestieri del cinema Francesco Piccolo Giuseppe Tornatore 50. Firenze Contemporanea Museo Novecento William Kentridge 56. Dai Quaderni di Orazio Costa
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Il mestiere dell’attore di Enrico Magrelli
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i piacciono, ci coinvolgono e ci emozionano il lavoro concreto e faticoso di chi regala la vita ai personaggi, l’impegno e la determinazione nel trovare la temperatura emotiva di un ruolo, l’empatia e l’intelligenza di un interprete che si allontana da se stesso e si immerge, in apnea, nelle parole e nei pensieri di qualcun altro per poi riaffiorare avendo scoperto un reperto dimenticato, un frammento di verità, un momento di irriducibile vitalità.
Un attore è un esploratore e un viaggiatore - e molto altro - per conto terzi. E quei ‘terzi’ siamo tutti noi. Spettatori di storie di oggi e di ieri, prossime alla nostra quotidianità e lontane storicamente dal brusio dell’oggi.
Dal Premio Gian Maria Volonté a Elio Germano, (Festival La Valigia dell’Attore a cura di Giovanna Gravina) IMMAGINE DALILA CHESSA
Molti attori attraversano la scena e ci accompagnano nella narrazione con un’idea o una scintilla di ribellione. Talvolta i loro personaggi sono come rosi da una febbre, da un’ansia, da un dolore, da domande profonde che cercano risposte non semplici. Risposte che l’attore vuole trovare insieme a tutti noi.
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Giancarlo Giannini UN GIOCO SERIO di Angela Consagra
Che posto occupa il caso nella sua scelta di diventare attore?
La passione per l’elettrotecnica e per l’invenzione non ha mai smesso di accompagnare la sua vita di attore? Durante i miei tempi di solitudine nell’arco della giornata, momenti che io trovo bellissimi, ho sempre cercato di inventare delle cose. Mi piace pensare di poter realizzare quello che non c’è. L’idea della giacca elettronica usata da Robin Williams nel film Toys, da me realizzata, nasce da questo piacere di curiosare nella materia che più mi piace, l’elettronica. Non è una materia fredda, come a prima vista si potrebbe pensare, piuttosto necessita di un gioco di pensiero e di una fantasia notevoli. Alla fine sono le stesse qualità che occorrono per interpretare un personaggio.
Io nella vita volevo costruire gli aerei. Da piccolo avevo seguito una scuola di aeromodellismo che è stata molto importante perché mi ha insegnato il valore del tempo: un aspetto che ha contribuito alla formazione del mio pensiero su tante cose, anche sul mestiere di attore. Nell’elettrotecnica si parte da un disegno su carta per arrivare, montando tanti piccoli elementi con precisione e senza fretta, a Giancarlo Giannini è uno dei costruire l’oggetto finale. Se ci si pensa docenti del Centro Sperimentale bene, la stessa cura e la stesso tipo di di Cinematografia. Insegnare a attenzione, servono per la messinscerecitare bene è possibile? na di uno spettacolo o la realizzazione È divertente il dialogo che si indi un film. Direi che il caso è stato fon- staura con gli allievi, ricevo molto dai damentale nel mio percorso di attore. giovani… Insegnare a recitare in realtà In realtà il mio destino era di andare è impossibile, ma esistono dei piccoli in Brasile come elettronico, ma su sug- trucchi che possono essere trasmessi. gerimento di un mio amico libraio tentai il provino in Accademia. Neanche “Bisogna scavare nel sapevo dell’esistenza dell’Accademia profondo della propria di Arte Drammatica, la parola Accadeindividualità per mia mi aveva fatto pensare alla scuola per cadetti… Per gioco feci il provino, scoprire quello che si l’ultimo su novecento allievi, e lo supevuole comunicare” rai. Ho cominciato a lavorare nel Sogno di una notte di mezza estate diretto da Al Centro Sperimentale, oltre allo stuBeppe Menegatti e con Carla Fracci dio dei monologhi, ho voluto fortemenche ballava nello spettacolo, recitavo te che i ragazzi imparassero almeno con Gian Maria Volonté, la gente ap- una poesia a memoria. Nella poesia si plaudiva e tutto mi sembrava così fa- racchiude una capacità comunicativa cile… Questo mestiere per me non ha talmente inespressa che, imparandomai smesso di essere un gioco, un gio- la a leggere, l’attore può sperimentaco serio, che ancora continua e non so re con forza e coraggio la sua via di quando finirà. espressione. Bisogna scavare nel pro-
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fondo della propria individualità per scoprire quello che si vuole comunicare. Il mio amico Vittorio Gassman, per esempio, diceva di conoscere almeno trentasette ore di poesia a memoria… I metodi di insegnamento a cui mi riferisco sono sistemi di analisi su se stessi, raccolte di reminiscenze personali che
provengono da Stanisvlaskij, ma anche da Freud e Brecht. Lo studio che propongo agli allievi si basa sul Metodo che ho imparato in Italia dal grande Maestro Orazio Costa, partendo dalla capacità mimetica, dall’abilità nell’esprimere ed imitare le cose tipica dei bambini. Dico sempre ai miei studenti che non sono loro a recitare ma è il pubblico che recita per loro. Credo infatti che l’attore sia un segno nello spazio e quando racconta qualcosa, anche di doloroso, non ne soffra veramente. Recitare interpretando i personaggi fa parte del gioco del teatro: le scene sono finte e gli attori dei maghi che invitano il pubblico ad una favola. Ed il pubblico è disposto a crederci, recitando così la parte per cui è chiamato in causa.
Ha affermato di vivere molto di solitudine. Come si concilia questa sua vocazione al silenzio con il mestiere di attore? Io quando studio un ruolo esagero molto, proprio fisicamente: magari mi metto a imitare gli animali per entrare meglio in certe dinamiche del personaggio da interpretare. Per prepararmi ho bisogno della solitudine. Chi fa l’attore e vive continuamente il gioco della fantasia, è come se sperimentasse una nuova esistenza ogni volta che si apre il sipario. È una sensazione molto bella, che cambia il senso della realtà e della normalità. Una felicità in più da vivere, che appartiene solo all’attore. Io, per esempio, credo nella vita di essere stato un timido ma, grazie al mio mestiere, di avere imparato a rompere quello specchio che mi divide dagli altri riuscendo così a rappresentare qualsiasi cosa. Molti studi hanno rivelato che una delle più grandi paure dell’uomo sia quella di mostrarsi e parlare davanti ad un pubblico. L’attore è chiamato quotidianamente a combattere e vincere questa paura.
Ad un certo punto della sua carriera, per ragioni burocratiche non legate strettamente al palcoscenico, ha deciso di abbandonare il teatro. C’è qualcosa che il teatro le ha insegnato rispetto al cinema? Teatro e cinema sono due tecniche completamente diverse. Quello che lega queste due cose è il mestiere dell’attore. Una bellissima espressione di Jean Louis Barrault definisce perfettamente questa figura: “L’attore è colui che con il suo movimento incide uno spazio e con la sua voce incide il silenzio”. Movimento del corpo e capacità vocale: questa è l’essenza dell’attore, soprattutto dell’attore teatrale che deve sapere come far
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arrivare la voce ed essere visto fino all’ultima fila. Il cinema rappresenta un’altra forma di racconto: con la macchina da presa si fanno dei salti enormi, si passa dall’inquadratura degli occhi ad un dettaglio delle mani.
Lei è anche uno dei più grandi doppiatori italiani.
aneddoti e personaggi legati al suo mestiere di attore… Nel corso degli anni ho lavorato con tutti i migliori. Nel libro parlo delle persone che hanno lasciato un segno nella mia anima: Vittorio Gassman, di cui ricordo la forza sullo spazio del palcoscenico e al contrario la timidezza che si
Se dovessi descrivere con un agget- “Credo nella vita di essere stato un tivo il lavoro del doppiatore sicuramentimido ma, grazie al mio mestiere, te direi ‘mostruoso’, un po’ pensando alla costruzione di Frankenstein: il di avere imparato a rompere quello corpo di una persona, con la voce di un specchio che mi divide dagli altri altro… Noi italiani siamo bravissimi nel riuscendo così a rappresentare doppiaggio. È un dono saper doppiare gli altri attori, come quando sei intonato qualsiasi cosa” o stonato. A me è sempre riuscito facile farlo, fin dai tempi dell’Accademia d’Ar- portava dietro nella vita di tutti i giorni; te Drammatica in cui per guadagnare Marcello Mastroianni, così diverso da qualche soldo andavo a fare il brusio di Vittorio nella quotidianità, e così uguale sottofondo al doppiaggio pronunciando a lui nel gioco della recitazione. Il cinela parola ‘rabarbaro’ mentre i protago- ma insieme a Mariangela Melato, il suo nisti sullo schermo dialogavano tra di magico senso dell’improvvisazione, la loro. La cosa difficile nel doppiaggio è capacità di cogliere la freschezza di un riuscire a far dimenticare la caratte- momento all’interno di uno schema preristica della tua voce originale e farla ciso come quello di un film. Sono stato sembrare, senza finzioni, proprio quella del personaggio nel film. In uno dei miei primi doppiaggi di Al Pacino, per esempio, per tentare di rendere ancora maggiore l’effetto di verità, decisi di doppiarlo senza vedere prima il film, in maniera istintiva. IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi): è il titolo della sua biografia, un libro ricco di
fortunato. Se, grazie al mio mestiere di attore, non avessi fatto tutti questi incontri forse oggi sarei un uomo diverso.
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Ottavia Piccolo UN ABITO SEMPRE DIVERSO Dopo aver fatto tanto cinema, tanta TV e soprattutto tanto teatro, che idea si è fatta del pubblico? Fra attori e pubblico si crea una corrente sempre. Quando la storia che si racconta è forte si instaura una partecipazione emotiva, qualsiasi sia il mezzo di comunicazione: televisione, cinema, teatro. Essere un’attrice significa anche questo: confrontarsi con un pubblico diverso e che, nel corso del tempo, cambia. Le luci si spengono e gli spettatori ascoltano. Andando in giro per la penisola, mi sono accorta che ultimamente la partecipazione del pubblico è attiva. Ci devi mettere il cuore e il cervello per ascol-
“Il buio della platea e il calore del pubblico: mi sembra di ricordarli o forse è solo un sogno...” tare le cose, c’è sempre più voglia di cultura: siamo un Paese pieno di Festival, la gente paga e fa la fila per andare a sentire magari la conferenza di un filosofo. Questa è una cosa meravigliosa: vuol dire che c’è voglia di teatro, di capire, di approfondimento. È vero che il pubblico con gli anni è cambiato, nel senso che è distratto dai telefonini o scrive le mail, ma ogni spettatore rimane il punto focale del lavoro dell’attore.
Ha iniziato la sua carriera di attrice da molto giovane… Avevo dieci anni e non ho mai smesso. Recitare è diventato il mio mestiere,
la cosa che mi ha dato da vivere per tutti questi anni. Dico mestiere ma in realtà è qualcosa in più: quando smetti di stare sul palco e torni alla normalità non smetti mai di pensarci. Nel momento in cui leggi e approfondisci degli argomenti, quando incontri le persone, sei sempre tu, con tutto quello che rappresenti. Diciamo che dopo un po’ il lavoro di attrice diventa il tuo abito, un modo di essere, un altro te stesso. Con il tempo ho trovato una mia ‘nicchia’ di espressione, alcuni spettacoli che mi piace fare, non mi imbarco in qualsiasi tipo di progetto. Negli ultimi anni, per esempio, collaboro molto con Stefano Massini, un autore teatrale bravissimo: io e la sua scrittura siamo in sintonia.
Quindi è riuscita a trovare quello che più le appartiene, l’abito giusto. Sì, ed è bello perché si tratta di un abito sempre diverso.
Lei non ha frequentato particolari corsi di recitazione; si può dire che la sua vera scuola è stata il palcoscenico? Non ho fatto nessuna scuola, è vero. Dico sempre che sono una figlia d’arte adottiva, nel senso che i figli d’arte, per via del mestiere dei genitori, nascono sul palcoscenico. Io non avevo parenti nel mondo dello spettacolo ma sono cresciuta stando in scena. Sono andata a bottega, come si diceva una volta, con i grandissimi: da attrici come Rina Morelli a registi come Luca Ronconi, Giorgio Strehler e Luigi Squarzina. Questi incontri hanno fatto sì che potessi migliorare professionalmente, ma anche umanamente.
Un ricordo tra tutti di questi intensi bellissimi anni… Forse la prima volta che ho ringraziato il pubblico in teatro. Non so se si
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tratta di un’immagine vera o di qualcosa che mi sono ricreata nel ricordo, come spesso accade… Eravamo a Modena e dopo i primi applausi si è riaperto il sipario, così mi hanno fatto entrare a ringraziare da sola il pubblico, senza il resto della compagnia. Mi hanno detto che ho salutato come se lo avessi sempre fatto, chiamando anche gli altri sul palcoscenico. Il buio della platea e il calore del pubblico: mi sembra di ricordarli o forse è solo un sogno…
gere la luce in un determinato punto, i colleghi che ti stanno accanto nello spazio della scena e che devi raggiungere… Si deve essere coscienti di quello che succede intorno. Non fare come certi attori che sembrano dormire e poi quando tocca a loro si svegliano, recitano quello che devono per tornare subito nel loro mondo… A me piace il confronto e cambiare la recitazione anche in base a quello che sta accadendo in quel momento sulla scena. Se si ascoltano gli altri, l’istante cambia ed è sempre tutto diverso.
Un’attrice in scena quali sentimenti porta sempre con sé? Non chiudi il cervello e il cuore fuori dalla porta, anzi emozione e ragione sono sempre dentro di te. Il tentativo è di depurare i pensieri dalle cose negative della vita: non voglio che mi influenzino quando sono sul palco. Bisogna affrontare l’incognita, anche la paura, che ogni spettacolo, sera dopo sera, ti dà. Mi concentro tecnicamente su ciò che devo fare, seguendo più Diderot che Stanisvlaskij: non vado in trance per interpretare un ruolo e sono sempre molto cosciente che sto facendo un lavoro, senza astrarmi mai completamente dalla realtà.
Forse è proprio questa l’essenza dell’attore: sapere bilanciare bene la quotidianità con il tempo legato al palcoscenico… Bisogna rendersi conto che essere attori è un lavoro. Ci sono delle cose materiali che si ripetono: i passi per raggiun-
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Che cosa c’è nella sua valigia di attrice? Metaforicamente tutta la mia vita. Realmente ci sono le foto della mia famiglia, del mio cane, una macchina per fare il caffè o il tè, tanti pasticcini per tutti i miei compagni di scena… In genere nel mio camerino staziona sempre molta gente perché mi piace fare confusione: non sono come quelle attrici che si devono concentrare stando in silenzio, piuttosto faccio casino fino all’ultimo momento che mi separa dal mio ingresso sul palco… Passo tanto tempo in camerino che diventa così la mia casa.
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Elio Germano DENTRO L’EMOZIONE Come vive un attore il momento del provino? Quando affronti un provino, all’inizio di fatto per il regista sei solo una faccia e non ancora una persona. Ci si confronta subito con il peggio del nostro lavoro, legato alle problematiche del mercato… Spesso l’esito dei provini non dipende dal valore dell’attore ma dalla faccia che stanno cercando in quel momento. Il tentativo è quello di riappro-
Elio Germano nei panni di Giacomo Leopardi sul set del film di Mario Martone Il Giovane Favoloso
priarsi di un’umanità, nonostante tutto. Il nostro è un mestiere in cui l’oggetto del lavoro va ritrovato all’interno del proprio corpo, ognuno dentro se stessi. È questa tensione profonda che io cerco sempre di inseguire, tentando di far accadere qualcosa di fronte alla macchina da presa, ogni volta mirando a catturare una possibilità in più.
La fase dei provini non finisce mai? Anche con registi che conosci già molto bene non termini mai di metterti alla prova e questo aiuta a comprendere se la dinamica del lavoro potrà diventare comune. Il mestiere dell’attore è veramente artigianale, la dimensione che si intraprende in un progetto si capisce lavorando e sudando insieme. Fare un provino è sempre un modo per conoscersi.
Quali sono i suoi grandi maestri di riferimento? Per me non esistono maestri ideali, piuttosto si continua sempre ad imparare grazie al valore umano degli incontri che si fanno. L’attore può soltanto affrontare il suo mestiere umilmente: è importante rapportarsi con i colleghi, non dimenticandosi mai che l’umanità che ci circonda è molto più complessa e interessante di quello che la recitazione cerca di riprodurre. La possibilità di fare incontri è la vera ricchezza dell’attore perché incroci persone incredibili, molto diverse da quello che sei, appartenenti a ceti sociali eterogenei. Questi scambi umani ti arricchiscono emotivamente e diventano fondamentali per riuscire a raccontare il viaggio compiuto dai personaggi da interpretare. L’attore deve essere pronto ad aprirsi agli altri, con coraggio e disponibilità, cercando di tirare fuori quegli stati d’animo che nella vita in-
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vece siamo costretti ad ingoiare per necessità o per convenienza. Nella realtà dobbiamo nascondere quello che proviamo, invece l’attore, grazie alla consapevolezza del gioco della recitazione, compie il movimento opposto: fa emergere e vivere fino in fondo le emozioni. Finalmente puoi sperimentare quello che nella vita non ti capita mai: cedere ai sentimenti in maniera totale, dall’odio all’amore.
Girare più film con lo stesso regista – come, nel suo caso, con Daniele Luchetti – aiuta a sviluppare un certo modo di lavorare? Luchetti è un regista che induce l’attore a ‘dire’ naturalmente una battuta. Perseguiamo la stessa modalità interpretativa: l’idea è quella di buttarsi con verità nelle storie, senza tentare semplicemente di imitarle. L’importante è riuscire ad abbattere la macchina cinematografica per immergersi nella realtà. Nel film La nostra vita, per esempio, la scena in cui io e mia moglie incinta ci precipitiamo verso l’ospedale è stata girata sul raccordo di Roma, correndo davvero fino al pronto soccorso con la macchina da presa messa in macchina dietro di noi e con i dottori che quando siamo arrivati non sapevano che si trattava di un film. In Italia il cinema, pur non avendo tanti mezzi, ha trovato la maniera di essere ugualmente ricco: prendendo la vita che già esiste, senza la necessità di doverla ricostruire in studio. È un modo di fare cinema che si avvicina al mondo anglosassone, dove si aiuta l’attore ad essere ‘più persona’ possibile e l’approccio al cinema diventa di tipo documentaristico. Il regista filma un’azione che accade realmente. La carriera di un attore si costruisce
sul coraggio delle sue scelte: sui
tanti ‘sì’, ma anche sui tanti ‘no’… Credo che le scelte non abbiano tanto a che fare con il coraggio, anzi io mi sento sempre molto vigliacco. Le mie decisioni sono egoistiche, nel senso che se giro un film come Diaz piuttosto che la pubblicità per una marca di pannolini, si tratta di puro egoismo: per la pubblicità mi pagherebbero tanti soldi, ma non mi piacerebbe essere riconosciuto dalla gente per strada essenzialmente per quel motivo. Preferisco rinunciare a dei soldi e lavorare con soddisfazione. Non si tratta di coraggio ma di egoismo verso se stessi. E poi la maggior parte delle volte non è che l’attore dice ‘no’: è il progetto del film a non partire…
Cinema e teatro: quali sono le differenze, proprio dal punto di vista della preparazione dell’attore? Io dico sempre che cinema e teatro sono due cose che partono diverse ma poi sono uguali. Spero di non essere frainteso ma, secondo me, dal punto di vista dell’interpretazione dell’attore, il teatro forse è più ‘uomo’ e il cinema
“Penso che l’uomo contemporaneo sia un essere umano scisso, un individuo fatto di tante personalità e che spesso ne emerga il lato meno autentico” invece più ‘donna’. Durante una rappresentazione l’attore compie un movimento in costruzione, con coscienza e consapevolezza guida lo spettacolo in una certa direzione, ne tiene le redini, mentre in un film deve essere completamente disponibile alle esigenze del regista, del montatore, del direttore della fotografia: sono gli altri a governare le immagini. L’aspetto che accomuna
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il cinema con il teatro è che entrambi partono dalla stessa esigenza, quella di tentare di ricomporre ciò che accade in quel dato momento all’interno dell’attore. Si vive una condizione di abbandono in entrambi i casi: in teatro il corpo agisce automaticamente, mentre al cinema
“Preferisco rinunciare a dei soldi e lavorare con soddisfazione. Non si tratta di coraggio ma di egoismo verso se stessi” l’abbandono è forse meno fisico, legato a dinamiche più intime ed emotive. Non esiste un modo solo di fare l’attore: il modo migliore è di essere più liberi possibile in scena. Fondamentale è riuscire comunque a dare qualcosa agli altri, donare un’emozione allo spettatore raccontando qualcosa.
Come avviene la costruzione di un personaggio? La preparazione è la parte più bella del lavoro, è il momento in cui cerchi la tua interpretazione personale per la storia che si va a raccontare. Nel film di Mario Martone, Il giovane favoloso, ho avuto la possibilità di avere dei mesi per studiare Leopardi, confrontandomi
con tutti i più grandi studiosi di questo autore, e andavo cercando nelle sue parole certe caratteristiche che via via mi aiutavano a raccontarlo. È stato un viaggio emozionante ed un grande onore. Dopo la fase di preparazione, in genere il mio lavoro prosegue in direzione di una comunicazione inconsapevole: sono convinto che ciascuno di noi comunichi certi sentimenti, nonostante la propria volontà, ed è questo che mi interessa indagare, proprio dal punto di vista professionale. La mia intenzione è di mettermi nei panni del personaggio afferrandone l’emotività nascosta. Penso che l’uomo contemporaneo sia un essere umano scisso, un individuo fatto di tante personalità e che spesso ne emerga il lato meno autentico. I miei personaggi, infatti, sono sempre tesi tra due fuochi, ed è una caratteristica che ho imparato a riconoscere a scuola, quando studiavo i grandi drammi shakespeariani: storie in cui i protagonisti vivono una necessità di interpretazione a cui la vita li sottopone. Però c’è sempre un punto in cui smettono di fingere che corrisponde al momento della liberazione, in cui si aprono all’emotività decidendo di piangere o di ridere senza freni. Questo mi attrae: quando alla fine il personaggio si riprende la propria umanità.
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Valeria Golino NON TEMO PIÙ LE PAROLE
creativa di un film tutto sia accettabile, soprattutto se nel sottofondo di questi rapporti esistono il rispetto e la volontà di realizzare insieme qualcosa di bello.
Quando è arrivata a recitare in America la sua impostazione attoriale è cambiata? Sì, mi sono accorta che una certa disciplina e un certo rigore erano necessari. L’America è il mondo dei metodi di recitazione e i registi sono allo stesso tempo anche dei tecnici che lavorano negli Studios, così ho imparato tanto sul mestiere del cinema, anche se è stato un periodo strano per me: ufficialmente la mia carriera andava benissimo, guadagnavo un sacco di soldi, ma io so che invece artisticamente non attraversavo una fase positiva. Direi che il termine ‘opaco’ potrebbe essere la parola giusta per riassumere quel periodo.
Lei è una delle poche attrici italiane che hanno avuto la possibilità di lavorare negli Stati Uniti…
FOTO ALICE NIDITO
Lei ha detto che non ha cominciato il mestiere di attrice seguendo una scuola, piuttosto il suo approccio alla recitazione è stato molto istintivo… Non partivo da una base vera di attrice, ma ho cercato di mantenere costanti quel senso di libertà e di coraggio iniziali: nei miei primi film sentivo di non avere niente da perdere, mi muovevo con una certa impertinenza e mi facevo anche un po’ ‘strapazzare’ dai registi italiani che ho incontrato, tutti con personalità molto forti. Per esempio, in uno dei miei primi film durante una scena non riuscivo a piangere, avevo solo diciotto anni, e il regista mi diceva: “Ti do uno schiaffo!”, proprio per indurmi all’umiliazione e infine alla lacrima. Penso che durante la tensione
Per gli italiani diventa difficile recitare all’estero perché la nostra industria cinematografica non ha più una forza esportatrice; in Francia, per esempio, l’industria è molto forte e gli attori sono delle vere star nel loro Paese, così è più facile lavorare anche in altri contesti. Io ho vissuto dieci anni in America e ho avuto l’opportunità di partecipare ai vari casting, anche importantissimi: ai tempi di Rain Man, il potere contrattuale di Dustin Hoffman era davvero enorme. Per le scene che non gli erano piaciute nel film il cast al completo è tornato a girare per la seconda volta fino all’Illinois… Pensa al potere di un attore che fa spostare tutti perché, riguardandosi, non si è piaciuto; alla fine, credo che lui abbia avuto ragione: il film infatti ha vinto l’Oscar!
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Con il film Miele ha debuttato nella regia; da attrice, come si vive questo passaggio dietro la macchina da presa?
Dal punto di vista della recitazione, come si riesce a dare sempre credibilità alle parole di una sceneggiatura pensata da un autore?
E’ bello guardare gli altri senza essere guardati. Per una volta è stato riLe parole hanno sempre un peso e posante dimenticarsi di sé. Facendo io io sono stata la prima a doverlo impastessa l’attrice, amo gli attori. Dirigere rare. Una volta la regista Margarethe Jasmine Trinca e Carlo Cecchi, due figu- Von Trotta mi apostrofò: “Smettila di re agli antipodi: il mio è stato un lavoro avere paura delle parole”. L’attore deve fisico, cercavo il contatto per riuscire a sentire e comprendere il significato trarre il meglio dalla loro recitazione. profondo di quello che sta dicendo, senJasmine ha affrontato con profondità za rendere tutto puramente colloquiae serietà il film, a volte non importava le o fintamente naturale, abbassandoIMMAGINE CLARA BIANUCCI
“L’attore alla fine ha un’unica necessità: deve sentirsi amato” ne il tono, come accade nelle fiction. A volte può capitare che la mancanza di intensità e di naturalezza derivi dalla sceneggiatura stessa, non dagli attori. Ricordo che nel suo primo film da regista, Lupo solitario, Sean Penn decise di riscrivere una scena vedendoci recitare. Era il contenuto a non funzionare, non l’interpretazione. In questi casi gli attori possono diventare molto utili al regista.
Il rapporto che si instaura tra attori e regista, come si può descrivere? neanche più che le parlassi: lei c’era Ogni regista ha il suo modo di consempre, comprendeva immediatamen- frontarsi con gli attori. Ci sono gli inte tutto. Carlo Cecchi ha un tempera- transigenti, che lavorano sulla distanmento diverso. Adoro la sua reticenza za e non sull’intimità, oppure c’è chi si e la leggerezza profonda che lo contrad- immerge in una fase quasi di innamodistingue, la sua tensione ad annoiarsi ramento con i suoi attori. Sono tutte subito: è stato come dirigere un cavallo possibilità e, per arrivare al risultato imbizzarrito. Per me è stata una scuola finale del film, io mi metto al servizio incredibile, ho imparato tanto da tutti di qualsiasi tipo di comportamento. gli attori e non escludo di tornare pre- Anche se l’attore alla fine ha un’unica sto alla regia. necessità: deve sentirsi amato.
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Silvio Orlando UN’AVVENTURA AFFETTIVA
nascoste dell’essere umano? Tutti noi, nella vita vera, veniamo spesso incuriositi e attratti dalle persone che non vogliono piacere agli altri per forza. Individui sgradevoli, che non hanno sorrisi e ‘rotondità’ di carattere, non smussano gli angoli per convenienza: anche per questo motivo ne rimaniamo affascinati. L’attore lavora anche su questi personaggi, figure straordinarie da indagare. Al cinema non mi è capitato tante volte il ruolo del cattivo, invece in teatro la finzione ti consente, anche tramite l’esagerazione del trucco e del costume, di trovare qualche appoggio in più per la trasformazione del personaggio. Quello che ricerco sempre, e spero che traspaia sia nei miei film che nei miei spettacoli, è di riuscire a mostrare la mia umanità al pubblico, così da indurli all’emozione. La scommessa è di riuscire a coinvolgere gli spettatori in una storia, portandoli dalla tua parte.
Quando un attore così popolare si trova a recitare davanti ad un teatro che applaude, qual è la differenza di sensazione rispetto alle manifestazioni di affetto dei fan del cinema?
In questa stagione teatrale sta interpretando Shylock, un personaggio shakespeariano davvero sfaccettato: è il ruolo di un cattivo, un uomo che provoca repulsione ma verso cui, allo stesso tempo, si prova anche una certa pietà. Un attore come riesce a rappresentare le parti più
Il pubblico, per definizione, è un’entità astratta. I fan del cinema sono un mondo sotterraneo, in realtà un attore non li vede. Però anche gli spettatori teatrali li senti solo in quel momento, magari porti in scena tanti spettacoli ma l’impressione è che si sedimenti tutto nell’attimo della rappresentazione; invece un film che prende il cuore della gente rimane nell’immaginario per tanti anni. È vero che in teatro ti trovi fisicamente davanti ad un pubblico diverso ogni sera e, malgrado l’esperienza, si combatte sempre per arrivare a dominarlo. Lo spettacolo non è mai un’opera finita, rimane perfettibile, anche per
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IMMAGINE CLARA BIANUCCI
questo le prove non mi bastano mai. Lo dico sempre ai registi: mi ci vuole tempo per arrivare a comprendere davvero, con coscienza e naturalità, il mio ruolo sulla scena.
Ma un personaggio famoso come affronta il pubblico teatrale? Bisogna vedere come hai abituato il pubblico: se sei stato capace nell’impostare la carriera cambiando, facendo delle scelte coraggiose, allora la gente ti segue. Però se abitui gli spettatori a vedere solo un unico tipo di spettacolo, poi raccogli pigrizia mentale.
All’attore cinematografico manca di sperimentare il momento diretto dell’applauso del pubblico… L’applauso a fine replica è un mo-
“I fan del cinema sono un mondo sotterraneo, in realtà un attore non li vede. È vero che in teatro ti trovi fisicamente davanti ad un pubblico diverso ogni sera e, malgrado l’esperienza, si combatte sempre per arrivare a dominarlo” mento liberatorio. E anche quando ne arriva uno a scena aperta, nel bel mezzo dello spettacolo, non ti basta mai. Noi attori vorremmo che il mondo si fermasse per guardare quello che facciamo: ci sono le guerre, i problemi, la crisi, e noi pensiamo che la gente dimentichi tutto per andare a vedere il nostro film. A pensarci bene è anche una cosa piuttosto infantile, ma alla fine l’attore
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vive anche per questo. Del resto il nostro lavoro si regge sull’insicurezza: si attraversano tante fasi e non c’è mai una parola definitiva. I risultati che si raggiungono non bastano mai, si è talmente soggetti al giudizio di chi guarda che poi si finisce per avere la tendenza a definirsi attraverso quello che dicono gli altri.
“Negli ultimi tempi dentro la mia valigia di attore ci sta di tutto, perfino mia moglie che mi segue in tournée” Si parla spesso di egocentrismo a proposito degli attori… Sì, è vero. Ma è una caratteristica che ci appartiene non tanto per la voglia di essere guardati e ammirati, piuttosto per il nostro grande desiderio d’amore. Il sentimento amoroso è uno stato d’animo complicato, difficile da definire, e con il pubblico accade lo stesso: non si smette mai di ricercare l’affetto della gente.
Un attore cinematografico è spesso riconosciuto e fermato per strada. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della popolarità? Mi sono accorto che esiste un pizzico di follia nel rapporto tra il pubblico e il personaggio noto. La gente non sa come sei in realtà e diventa rigorosa nell’osservarti: basta una parola fuori posto e sei subito giudicato. Comunque solo poche persone hanno questo tipo di preconcetti e in genere la notorietà è essenzialmente fatta di aspetti piacevoli. La popolarità si misura anche in base alle scelte che si compiono.
Che cosa pensa della situazione del teatro e del cinema in Italia?
Nel sistema teatrale la differenza di reazione se uno spettacolo piace oppure no è minima: ciò conduce ad una carenza di progettualità. Si ha l’impressione di scavalcare una fascia di pubblico che compra la poltrona d’abbonamento a prescindere dal gusto personale. Io ho sempre l’impressione di andarmene dai teatri senza essere riuscito ad esaurire l’attesa del pubblico, mentre il cinema è una macchina più costosa e quello che dicono gli spettatori paradossalmente è più importante.
Quale strada l’ha condotto verso questo mestiere? Io ho cominciato nei teatrini underground napoletani degli anni Settanta, è quello il mio punto di partenza. Il senso di benessere che ho ricevuto immediatamente dalla recitazione è una cosa che mi ha aiutato ad andare avanti, nonostante le difficoltà che questo tipo di vita comporta. Il palcoscenico è un buco nero in cui devi buttarti e ritrovarti, in qualche modo… Ogni sera stai in camerino, aspetti il pubblico e senti che devi vincere il panico della diretta, diciamo così. Al cinema, sotto certi aspetti, la concentrazione è ancora più difficile perché ti capita di girare una scena recitando davanti a decine di persone che pensano a tutt’altro e non a quello che stai facendo tu.
E con che cosa ha riempito la sua valigia di attore nel corso del tempo? Di tante cose. Forse anche di routine, un elemento della recitazione contro cui non si deve mai smettere di combattere. Negli ultimi tempi dentro alla valigia ci sta di tutto, perfino mia moglie che mi segue in tournée. Condividiamo questa vita, la produzione degli spettacoli, l’intera nostra avventura affettiva.
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Federica Di Martino SCRITTO NEL DESTINO Come si diventa attrici? Nel mio caso devo chiamare in causa il destino. Vengo da un piccolo paese dell’Abruzzo e faccio teatro amatoriale da quando avevo quindici anni. Era una passione e non avrei mai pensato
servizio in televisione, mi sembrava un miraggio… All’università così mi iscrissi a Giurisprudenza. Un giorno a Roma sono passata per caso davanti al Palazzetto di via Bellini, ho visto tutti gli allievi fuori e ho preso il bando di concorso. Una delle gioie più grandi della mia vita è stata proprio l’ammissione in Accademia. Non mi ero decisa prima perché in realtà, intimamente, mi sentivo incapace e ancora oggi, nonostante questo sia il mio mestiere, mi sento così. Provo una sensazione di grande inadeguatezza. Il mio desiderio, quando sono in scena, è quello di scappare via…
Qual è l’aspetto più difficile di questo mestiere? Non esiste una cosa in particolare, è tutto difficile. E non soltanto per l’aspetto tecnico o per il fatto di dover imparare una parte a memoria. Per me il difficile sta nel riuscire a dare ad ogni personaggio una sua autenticità, ricercandone la verità. In teatro diventa più problematico ottenere questo risultato perché devi far sentire la voce in un certo modo, invece al cinema o in televisione sei estremamente facilitato: hai un microfono addosso e puoi permetterti di parlare utilizzando i fiati. In questo modo è più semplice trasmettere le emozioni.
La sua preparazione alla scena: riti e superstizioni.
FOTO FILIPPO MANZINI
che potesse diventare la mia professione. L’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, di cui avevo visto un
Assolutamente nessuna ritualità o superstizione. Alla prima di uno spettacolo i momenti che ti allontano dalla scena si vivono con maggiore tensione, ma da questo punto di vista ho dovuto affrontare subito le mie paure: mi è capitato di sostituire la protagonista in uno spettacolo al Teatro Greco di Taormina con più di duemila spettatori. Avevo ventitré anni ed era una delle mie pri-
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me volte davanti ad un pubblico. Aspettavo di entrare e sentivo la platea urlare “Voce!” ai miei colleghi che, come da copione, recitavano in una scena fatta di
“In un attimo accade che sei dentro alla rappresentazione. Vai sul palcoscenico e cerchi di essere altro da te” brusii. L’attore dietro le quinte vive comunque una sua dicotomia e, a pensarci bene, è una sensazione pazzesca: da un lato mette tutto se stesso ed è presente nel personaggio che va a rappresentare, dall’altro è legato alla quotidianità e magari pensa a cosa deve fare una volta
è cambiato. C’è la televisione, ci sono i reality show e tutti possono recitare. Fino a qualche anno fa quando il pubblico era chiamato ad interagire con gli attori durante uno spettacolo, magari rispondendo a qualche domanda, c’era sempre un certo imbarazzo in sala. Oggi non è più così perché la gente è abituata a sentirsi protagonista. L’attore è svestito dunque della sua sacralità.
È ottimista per il futuro? Malgrado il momento drammatico che stiamo vivendo, credo fermamente nella forza del teatro come forma d’arte immortale. Il teatro muore subito dopo la rappresentazione: visivamente non permane, però ti resta dentro, e questa
FOTO FILIPPO MANZINI
uscito dal teatro, dove andare a mangiare… Però in un attimo accade che sei dentro alla rappresentazione. Vai sul palcoscenico e cerchi di essere ‘altro da te’.
E si incontra il pubblico… Che è l’altro attore dello spettacolo. Nella società in cui viviamo il teatro ha perso parte della sua rilevanza e nel corso del tempo anche il pubblico
è un’emozione insostituibile. Nonostante tutto, la gente ha di nuovo voglia di teatro. Gli attori sullo schermo oggi si possono vedere anche sui tablet e i cellullari, non importa andare al cinema. Qual è l’unico vero motore che ti spinge ad uscire di casa? L’attore vivo, che sta sul palcoscenico a pochi passi da te. Il teatro è la forma espressiva più antica dell’uomo e non può scomparire.
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Anna Ferzetti LA RESPONSABILITÀ DI ESSERE ATTRICE Com’è nata la passione per questo mestiere di attrice? Fin da piccola, seguendo le orme di mio padre (Gabriele Ferzetti ndr). Ricordo che quando sono nata mio padre faceva soprattutto molto teatro e andavo spesso a trovarlo, amavo molto stare dietro le quinte, vedere tutta questa macchina in funzione. La parola ‘teatro’ per me è uguale a infanzia, papà Lallo, tante emozioni, impegno, rispetto e rigore.
Si è sentita predestinata verso questo mestiere? Mi sono dedicata anche a tante altre cose, ma la passione per il teatro e per questo mestiere è stata sempre troppo forte. Per me fare l’attrice significa vivere questo mestiere a trecentosessanta gradi, non si finisce mai di imparare. Rendere credibile dei ruoli anche molto
“Teatro per me è uguale a infanzia, papà Lallo, tante emozioni, impegno, rispetto e rigore” lontani da quello che si è realmente nella vita è una sfida per me. E’ una continua ricerca. Quindi dirti se mi sono sentita predestinata non saprei, ma sicuramente adesso sto lavorando per far sì che il mio lavoro diventi sempre più valido.
Condividere la scena con un attore (Pierfrancesco Favino ndr) che
è anche il suo compagno nella vita, che tipo di corto circuito emozionale crea? Non è la prima volta che lavoriamo insieme ma nello spettacolo Servo per due è la prima volta che ci guardiamo negli occhi. Era capitato in una serie televisiva ma io entravo e lui usciva. Sul lavoro sono una persona molto determinata e riesco a scindere la vita privata da quella lavorativa. Sul palco mi nascondo dietro quel ruolo, anche se può capitare che certi sorrisi che ci scambiamo sul palcoscenico siano quelli di Anna e Pierfrancesco. Non posso negare che ci sia una familiarità, un’intesa diversa quando una coppia lavora insieme, ma anche un grande senso di responsabilità.
Zaira, il ruolo che interpreta in Servo per due, viene rappresentata come una figura femminile forte e indipendente. Quando abbiamo iniziato le prove, Pierfrancesco ha detto a tutti l’animale sul quale ognuno di noi avrebbe lavorato. Lì per lì eravamo tutti molto perplessi nonostante avessimo già fatto in passato esperienze simili. Poi è successo qualcosa di molto interessante, perché senza cominciare a lavorare sulle battute, i nostri personaggi prendevano forma, le relazioni tra di noi, il modo di rapportarsi era molto chiaro e ben definito. Quando abbiamo aggiunto il testo è stato tutto molto più semplice. Nel mio caso mi si richiedeva forza, femminilità e indipendenza. Sarai curiosa di sapere il mio animale? Non posso dirlo, è un segreto!
Quali sono gli aspetti più complicati della vita dell’attore? Sono la precarietà, gli orari impossibili, la difficoltà di far coincidere questi
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orari con quelli della famiglia e il coinvolgimento psicofisico dei ruoli che si interpretano. Penso che siano problemi che accomunano molti altri lavoratori al giorno d’oggi.
ne a meno. Parlerei ore di mio padre e di tutte le cose che mi ha sempre detto, ma sarebbe un racconto molto lungo…
Il primo ricordo che ha di suo padre sul palcoscenico?
Recentemente ho avuto la fortuna di lavorare nella serie web Una mamma imperfetta, una storia tutta al femminile scritta e diretta da Ivan Cotroneo. È stata un’esperienza rara e molto bella. Una storia così attuale, quella di raccontare un gruppo di donne sposate, con figli, che lavorano ma allo stesso tempo si imbattono in difficoltà, incomprensioni di coppia, insicurezze personali… Che dire, penso che ogni donna o coppia si sia identificata in una di queste storie. Ivan Cotroneo, grazie anche alla produttrice Francesca Cima che ha fortemente creduto in questo progetto, ha avuto la possibilità di entrare nelle nostre vite quotidiane raccontandoci con grande semplicità ed ironia.
E’ difficile ricordarne solo uno ma sicuramente quello più forte è stato quando abbiamo lavorato insieme. Avevo ventuno anni, ero terrorizzata dal giudizio; questa figura imponente che seguivo sempre e solo da dietro le quinte ad un tratto era lì con me, che mi guardava. Sicuramente è stato molto difficile, visto il carattere forte e chiuso che ci accomuna ma allo stesso tempo avere la fortuna di poterci condividere il palco (soprattutto essendo mio padre) è stata una grande gioia. Grazie a lui ho avuto il privilegio di crescere in questo ambiente, con i suoi lati positivi e quelli più difficili, e adesso non potrei più far-
Mi parli della serie Una mamma imperfetta.
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Lucia Lavia LA GIOIA DI ESSERE ATTRICE Com’è nato il desiderio di dedicarsi al mestiere di attrice? Non ho mai desiderato di fare altro. Infatti è strano per me vedere le mie amiche, che non sono attrici, indecise sulla strada da scegliere… È molto difficile trovare qualcosa che invece desideri fare ma io non mi sono mai interrogata su questo punto: ho sempre pensato di vivere sul palcoscenico. I miei primi ricordi legati al teatro risalgono a quando avevo sei anni: un Edipo Re che mio padre (Gabriele Lavia ndr) fece a Siracusa, con un teatro gremito di spettatori e mio fratello Lorenzo che recitava. FaceFOTO FILIPPO MANZINI
va il messaggero, all’interno del coro: mi ricordo il suo pezzo che pronunciava a voce piena, senza microfono… Quello che mi colpisce di più del teatro, da sempre, è il suo odore: è unico, proviene dal legno e da un misto di tante cose che appartengono solo a questo luogo. Ogni volta che entro in un teatro, fin da piccola, mi sento a casa.
Quando è in palcoscenico si sente in pace con se stessa? Durante il periodo intenso delle prove no, penso sempre: “Perché sono qua? Voglio andare a casa!”. Infatti un aspetto del mestiere che mi fa un po’ paura è il fatto di essere così nomadi, mentre io cerco sempre di mantenere un contatto con la mia casa e i miei amici che non fanno questo lavoro. Appena ho un giorno di riposo corro a Roma. Mi piace il teatro, sento che non potrei fare a meno di farlo, ma sono attratta anche dalla vita normale: quella cosa in cui uno alle otto di sera torna a casa e magari guarda il telegiornale…
Da attrice così giovane, come si affronta la scena? Il difficile, a causa della mia timidezza, è stato proprio imparare a guardare qualcuno negli occhi recitando una battuta. Sento molto la responsabilità di andare in scena, soprattutto in questo spettacolo. In Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello interpreto la Figliastra ed è il ruolo più grande e difficile che mi sia mai stato affidato. Ho sempre avuto delle belle parti da interpretare ma non da protagonista come questa volta. In questo spettacolo tutto è difficile. Le corse veloci da fare in spazi brevi, per esempio: è un meccanismo fatto di scatti e di frenate, sono movimenti artefatti ma che devono apparire naturali… L’aspetto
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più difficile del mio mestiere non è tanto il fatto di dover imparare una parte a memoria, ma è proprio stare sulla scena, e far sì che quello che stai immaginando sia vero. Ogni giorno sei contenta sempre per qualcosa in più, però mai pienamente soddisfatta e pensi: “Domani farò ancora meglio…” Questo è molto motivante, secondo me. Ho sempre desiderato di interpretare il ruolo della Figliastra e ora spero di farlo bene.
Quali sono gli insegnamenti della sua famiglia legati a questo mestiere? Ce ne sono tanti, ma credo che l’insegnamento più grande di mio padre sia stato quello di dirmi che il teatro, se non sei tu il primo a tradirlo, non ti tradisce mai. Bisogna avere rispetto ed amore verso il teatro, farlo con dedizione mettendoci tutto te stesso, soltanto
“Ogni giorno sei contenta ma non soddisfatta e pensi che domani farai ancora meglio” così riesci a continuare il mestiere: una parte più piccola, una parte più grande, senza smettere mai. E poi ci sono tanti altri piccoli insegnamenti tecnici come, per esempio, evitare le controparti quando si recita per lasciare spazio e concentrazione ai colleghi: se un attore dice una battuta non bisogna annuire per far sembrare che ascolti oppure non ci si deve mettere gli uni davanti agli altri perché il pubblico non vede… Anche mia mamma (Monica Guerritore ndr) mi dà sempre tanti consigli. Sono contenta quando viene a vedermi alle prove perché è una persona schietta, mi dice quello che pensa: oltre ad avere un occhio da spettatri-
ce, è prima di tutto un’attrice, con una grandissima esperienza e dunque può aiutarmi.
La sua prima volta in scena. Lo spettacolo era L’avaro, messo in scena da mio padre. Tra i suoi allestimenti questo è il mio preferito, l’ho visto talmente tante volte... Un giorno dietro le quinte mi hanno preparata con un cappello e dei trucchi, così sono entrata insieme al gruppo con le candele che andava verso mio padre che fingeva di dormire. Avevo circa otto anni ed ero emozionatissima. Stare sul palco è una sensazione assurda, una dimensione ‘altra’ ed è una caratteristica del mestiere che mi piace guardare anche in chi mi sta vicino: gli altri attori entrano in scena e il loro sguardo cambia, come se avessero varcato una linea invisibile. In scena io, Lucia, sono sempre me stessa ma sono anche qualcun altro. È il personaggio che vince.
Un’attrice come vede il pubblico? Credo, con il tempo, di avere cambiato opinione nei confronti del pubblico. Ho avvertito il peso di essere una figlia d’arte: hai l’impressione che le persone ti giudichino e pensino che non te lo meriti di stare in teatro… All’inizio entravo in scena con l’angoscia di sentire un pubblico critico nei miei confronti, invece mia madre mi ha detto di pensare che il pubblico mi è amico e sta dalla mia parte. Sto lavorando molto su questo punto e pian piano ci sto riuscendo. Ci sono sempre state le famiglie d’arte, e non soltanto nel mondo dello spettacolo. Spesso i figli fanno il mestiere dei genitori – per esempio, esistono famiglie di tassisti o di panettieri – e credo che sia una cosa bella: se avessi un figlio e scegliesse il mio lavoro ne sarei onorata e felice.
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Una notte di giugno caddi come una lucciola sotto un pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre su un mare africano. Luigi Pirandello
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FUORI L’AUTORE? Tra spettacoli in scena e anniversari che passano una riflessione sullo status dell’Autore oggi: realtà o fantasma, corpo vivo o doppione, creatore di realtà o creato dalla realtà? Al lettore ogni sentenza
« “Tutto ciò che accade, tu lo scrivi”, disse. “Tutto ciò che io scrivo accade”, fu la risposta.» (Michael Ende, La storia infinita)
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La riproduzione vietata C’è vita per l’autore oltre l’incantesimo? di Riccardo Ventrella
C’
è nel libro La storia infinita di Michael Ende un passaggio cruciale, saggiamente collocato nel punto in cui il complesso volume più si dipana tra immaginari e intricati viaggi, un passaggio che potrebbe essere sommariamente sintetizzato così: l’Infanta Imperatrice rimane prigioniera della dimora del Vecchio della Montagna Vagante, un simpatico signore che non fa che leggere il libro narrante la storia dell’Infanta Imperatrice, del Vecchio della Montagna Vagante e di Bastiano, intraprendente ragazzo che sta leggendo lo stesso libro del Vecchio della Montagna Vagante. Questo loop letterario si interrompe unicamente nel momento in cui Bastiano capisce di dover assegnare un nuovo nome all’Infanta Imperatrice: una volta resa personaggio, ecco che l’incantesimo si rompe. Fuori dalla straordinaria complessità narrativa della Storia infinita, testo metaletterario ancor prima che romanzo per ragazzi, che cosa insegna questo passaggio: che è il gesto autoriale a rompere l’inerzia di una narrazione senza senso e senza via di uscita, o addirittura a salvare un universo come avviene nel film tratto non senza palesi infedeltà da “L’uomo non si riflette questo libro.
ma si raddoppia, non si riproduce ma si duplica. È solo il testo che si specchia correttamente”
Il dramma dei sei personaggi, ciò che li rende particolarmente inquietanti, è proprio questo: sono alla ricerca di un gesto autoriale che li renda veri, e li sottragga al circolo vizioso di una vita mai vissuta. Sono alla ricerca, si potrebbe dire, di una conferma dell’esistenza in vita dell’Autore. Scaturisce dalla loro ansia un doppio interrogativo che riguarda tanto il loro status esistenziale (sono viventi nel nostro medesimo universo o creature di puro spirito?) quanto la cartella clinica dell’Autore (sarà o meno in grado di estrarli dalla categoria del puro spirito?). Ora, che l’Autore non stesse molto bene in salute ce l’hanno insegnato Barthes e Foucault. Sottratto alla mitica collocazione divina e demiurgica, di Creatore indiscusso, viene ridotto dalla critica strutturalista a un modo di produzione del discorso: non c’è più un Testo Unico, ma uno spazio a più dimensioni nel quale confluisce un numero a volte elevato di testi, senza nessuna marca di vera originalità. È il lettore qui ad essere centrale, in quanto luogo privilegiato di costruzione di senso. I cinquant’anni che passano tra i Sei Personaggi e l’elaborazione delle teorie strutturaliste sono serviti a sgretolare quella figura dell’autore che Pirandello mette in crisi da un altro punto di vista, maggiormente etico e psicologico. Nella
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sua scrittura sono i personaggi a chiedere udienza (e vita) all’autore, che è comunque chiamato ad un gesto di creazione senza però sapere se questo gesto sarà fautore di una qualche realtà comunicabile o semplicemente scrivibile, senza che ciò generi l’infinito senza uscita della Storia infinita. In mezzo è passata la fase acuta della crisi del romanzo classico, già in nuce quando Pirandello metteva in scena i Personaggi al Teatro Valle mercé Proust e Joyce, e l’irrompere della narrazione audiovisiva con la sua frammentazione e inversione di ruoli; per tacere, è ovvio, della riproducibilità tecnica che ha sottratto all’Autore vecchio stile altre competenze.
Sotto: La riproduzione vietata di R. Magritte.
Insomma, è come se si fosse perennemente nel celeberrimo quadro di Magritte La riproduzione vietata: l’uomo non si riflette ma si raddoppia, non si riproduce ma si duplica. È solo il libro che si specchia correttamente, e non a caso il libro è il Gordon Pym di Poe, romanzo sospeso tra diversi livelli di indefinibile realtà, narrazione autobiografica e quindi per definizione infedele. Il testo si riflette, non l’uomo: ciò che il testo vive, dunque, non è ciò che vive il personaggio che vi è contenuto, e con ogni probabilità l’autore che lo ha ispirato. Il dramma che ne consegue è irrisolvibile, come senza priva di speranze e soluzioni la seconda parte dei Sei personaggi. Da questa fase acuta della sua malattia l’autorialità non si è più veramente riavuta. Certo, abbiamo oggi una genia infinita di scrittori e creatori. Ma al tempo dei testi infiniti depositati in quell’enorme magazzino che è la Rete cosa possiamo dire degli Autori? Che manca a loro sempre qualcosa, quel quid che li sospende nel limbo tra Attori e Personaggi che Pirandello sa estrinsecare così bene. Sono come l’Infanta Imperatrice, gli Autori, preda del Vecchio della Montagna Vagante e alla ricerca di un Bastiano che pronunci un nome, e rompa l’incantesimo della creazione fantastica.
“Il dramma dei Sei personaggi, ciò che li rende particolarmente inquietanti, è proprio questo: sono alla ricerca di un gesto autoriale che li renda veri”
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Sull’essere lo stuntman di Gabriele Lavia Il mestiere del doppio a teatro di Giacomo Bisordi
A
l momento di stilare un curriculum vitae, si sa, l’abitudine è mentire. Millantare dietro formule anonime e sintetiche impieghi in realtà insignificanti che lo scorrere del tempo ed una memoria fragile renderanno invece sforzi lavorativi titanici. Talvolta però accade il contrario, che una formula come ad esempio ‘assistente alla regia’ non dica nulla della realtà, di ciò che è successo durante lo svolgimento di quell’incarico.
Assistere ad una regia può voler dire una vasta gamma di cose: dall’archetipico vettore di caffeina per la concentrazione del maestro di turno alla registrazione maniacale di tutto ciò che occorre sulla scena in fase di prova. Tra questi, una delle figure sicuramente meno note è quella del ‘doppio’. Ci sono molte strade per la costruzione di uno spettacolo; una di queste, molto affine con il disegno, è quella di scorrere nei primi giorni di prova l’intero copione, di costruirne tutti i movimenti realizzando così una vera e propria bozza che successivamente altri cicli di prove provvederanno a raffinare e a precisare. Secondo questa strategia, nei casi in cui il regista dello spettacolo è anche previsto in scena come attore è necessario durante tutto il periodo di prove qualcuno che lo sostituisca al momento della costruzione dei movimenti in modo che egli possa osservarli e valutarli dall’esterno. Il ‘doppio’ è questo: un sostituto del regista in scena, chiamato a compiere tutte le sue azioni e a dirne occasionalmente le battute.
“Nell’arco di poche prove il palco e la scena diventano un reticolato fittissimo di passi da tenere sempre presente per rispondere istantaneamente a comandi gridati dal mezzo della platea”
Da più di tre anni sono il doppio di Gabriele Lavia, ultimo di una schiera di coraggiosi predecessori che hanno svolto questo particolarissimo ruolo in tanti altri allestimenti del passato. Alla eterna domanda “che lavoro fa tuo figlio?” Mia madre può serenamente rispondere: interpreta Gabriele Lavia nei suoi spettacoli. E il moto di sorpresa che questa risposta suscita è facile intuirlo. Essere il ‘doppio’ significa anzitutto scriversi un’intera partitura di movimenti nel corpo; non c’è tempo per scrivere o appuntarsi nulla quando si è in scena. La memoria di tutto ciò che si è costruito la devo serbare nella muscolatura.
Sono lo strumento di tutte le indecisioni della costruzione; usando ancora l’analogia col disegno, sono l’equivalente di un tratto che viene ripetutamente corretto
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al momento di essere apposto sul foglio. Cancellato e riscritto. Cancellato e riscritto. Per ore. Nell’arco di poche prove il palco e la scena diventano un reticolato fittissimo di passi da tenere sempre presente per rispondere istantaneamente a comandi gridati dal mezzo della platea. – Mezzo passo a destra! Girati in senso orario! No, antiorario! Piegati in due! Prendilo a pugni! Di profilo! Di tre quarti! Troppo! Lentooooooo! No! – E l’esecuzione degli ordini del regista-sergente maggiore Hartman deve essere eseguita col ritmo e il respiro il più possibile prossimi a come poi saranno in scena nello spettacolo definitivo. O memorizzo tutto al millimetro, imparo in fretta l’intero spettacolo, come ogni singola scena sta in piedi col suo precisissimo ritmo oppure sono condannato al peggio. IMMAGINE CLARA BIANUCCI
Solitamente è nella prima fase delle prove che raccolgo lo sguardo dei compagni di scena. C’è un momento straordinario nel fare il ‘doppio’ che è quello in cui posso studiare per lunghissimi momenti lo sguardo degli attori con cui deve interagire, attori che lo percepiscono come un corpo estraneo, diverso ma col quale necessariamente devono sforzarsi di interagire. Il ‘doppio’ ama poter godere della loro determinazione e del loro sforzo mostruoso nel vedere in lui qualcos’altro, ciò che poi sarà al posto suo. Dopo che la prima bozza di movimenti è stata fatta, progressivamente il suo ruolo muta: partecipa sempre meno direttamente all’azione. Il regista mi sostituisce e il mio compito diventa quello di ricordargli direttamente in scena come deve essere fatto quel dato movimento. Se sbaglia, ho modo di rifarmi finalmente delle urla che ha ricevuto in fase di prima costruzione. Il maledetto problema è che quasi mai lui incappa in un errore. Prova dopo prova il mio ruolo si esaurisce e si dedica solo a momenti di pronto intervento, davanti alle ultime indecisioni delle giornate finali di allestimento. E così, al debutto dello spettacolo guardo finalmente da fuori per la prima volta la traccia di ciò che sono stato in scena e con la fine di quella prima recita inizio finalmente a rilassare i muscoli e a dimenticare tutto.
Da Il Giornale della Pergola (giornale. teatrodellapergola.com)
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Eduardo e Pirandello, cantata dei giorni gelidi
“F
are teatro sul serio significa sacrificare una vita.” Eduardo De Filippo parla dal palco del Teatro Antico di Taormina. Ha un abito blu, occhiali ‘corsari’ dalle lenti spesse, una vistosa sciarpa scozzese intorno al collo. di È il 15 settembre 1984 e sta ritirando il premio della Festa del Teatro per Matteo Brighenti “essere Eduardo, in Italia e nel mondo”. Il figlio Luca lo accompagna. Quella serata di trent’anni fa, che la Rai trasmise in diretta, fu il suo ultimo saluto al pubblico. Un ringraziamento guardato da lontano, da un’antica genealogia teatrale di personaggi che hanno trovato il loro autore nel palcoscenico. Autori e Capocomici. Come Luigi Pirandello.
“Il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni. Anche stasera mi batte il cuore. E continuerà, continuerà a battere. Anche quando si sarà fermato...” Eduardo De Filippo
C’è stato un tempo, infatti, in cui esisteva la funzione, ma non la parola “regista”. Di fronte all’anarchia del Grande Attore, ancora presente in Italia a inizio Novecento, quando all’estero erano già nati metteur en scene come Stanislavskij, Craig e Copeau, alcuni autori drammatici, tra cui Pirandello, decisero di diventare Capocomici per dirigere in proprio le loro opere. Nel 1929 fu Silvio D’Amico, funzionario ministeriale e critico militante, a stigmatizzare per primo, nel libro Il tramonto del grande attore, l’assenza tutta italiana di un “maestro di scena”, come lo chiamò inizialmente: è il battesimo del teatro di regia. Sul nome da dare alla nuova figura professionale Pirandello propose “demiurgo”, ma la spuntò il filologo Bruno Migliorini che, negli anni dell’autarchia linguista imposta dal Fascismo, propose al Convegno Volta del 1934 (voluto, anche se non diretto, da D’Amico) il termine “regista”, italianizzazione del francese “regisseur”.
Proprio a quella stagione risale il primo incontro di Eduardo De Filippo con Pirandello. Il 26 aprile ’33, al Sannazzaro di Napoli, Eduardo gli dedica un omaggio semiserio, proponendo il suo atto unico L’imbecille (tradotto in napoletano da Eduardo), la vecchia parodia Sei comici in cerca d’autore e Sik-Sik. La vicinanza artistica si rinnova con la messinscena di Liolà (traduzione napoletana di Peppino) e con la stesura, completata nel gennaio 1936, della commedia L’abito nuovo, dialoghi di Eduardo su scenario di Pirandello. Eduardo traduce anche Il berretto a sonagli di cui interpreta il personaggio di Ciampa. Il successo è tale che a pochi giorni dal debutto gli scrive Pirandello in persona: “Ciampa era un personaggio
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che attendeva da vent’anni il suo vero interprete.” Nella stagione successiva Eduardo ha in programma di mettere in scena L’abito nuovo, che ancora non è stato rappresentato. Pirandello assiste alla prima prova, ma muore improvvisamente il 10 dicembre ’36. Il lavoro verrà rappresentato al Manzoni di Milano il 1° aprile 1937, nell’allestimento di Mario Pompei. Eduardo e Pirandello si sono incontrati e riconosciuti
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
perché entrambi hanno dato all’opera della vita la concretezza della scena, precisandone, battuta dopo battuta, le pause, le concitazioni, le vibrazioni drammatiche e le note comiche. Entrambi registi cioè traduttori di se stessi sulle assi del mondo. A ogni costo.
“È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto” Eduardo De Filippo
Quella sera di trent’anni fa, infatti, Eduardo si congeda da Taormina e dal suo passato parlando ancora di sacrificio: “è stata tutta una vita di sacrifici e di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto.” Il cuore di Eduardo che batte ancora oggi è l’insegnamento a vivere ogni replica come la prima. Allora il calore dell’applauso scioglie il gelo del sipario tirato. Qualunque sia il palcoscenico. “Il cuore ha tremato sempre, tutte le sere, tutte le prime rappresentazioni. Anche stasera mi batte il cuore. E continuerà, continuerà a battere. Anche quando si sarà fermato...”
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L’autore come padre François Truffaut, e la politique des auteurs?
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orto così, a soli cinquantadue anni, un giorno di fine ottobre. Ucciso da un male che gli aveva consumato quel cervello che così tanto aveva impiegato, in diretta connessione col cuore, per fare un cinema che non si può non amare a prima vista, tanto è identificato con la vita. François Truffaut ha fatto dello schermo la tela sulla quale dipingere il proprio autoritratto, senza mai sottrarsi per un giorno al fuoco che sentiva ardere dentro, lo stesso che lo aveva portato da ragazzo di strada ad amare i film nel ventre buio di un cinema. Lo stesso che continuava a crepitare flebile quando si presentò dinanzi alle telecamere di Apostrophes, la mitica trasmissione condotta da Bernard Pivot sul canale francese Antenne 2: già malato, con pochi mesi ancora da vivere, Truffaut parlò in maniera appassionata del suo rapporto con Alfred Hitchcock consacrato dal celebre libro-intervista.
Ecco, in un certo senso abbiamo evocato François Truffaut non già per ripercorrere la sua filmografia, ma per ragionare sulla sua (e non solo sua) relazione con l’Autore. È noto che prima di sedere dietro la macchina da presa, tutta la generazione di Truffaut, la Nouvelle Vague, tenne in mano la penna della critica. E da quelle pagine iniziò un rivoluzionario processo di considerazione del cinema, da mero campo della riproducibilità tecnica, da arte industriale, a strumento di rappresentazione in mano a una intenzionalità “Negli anni Cinquanta il regista di autoriale. Pochi allora (siamo all’inizio un film era considerato un semplice degli anni Cinquanta), consideravano il regista di un film come un Autore, quemestierante, non certo un Autore” sta etichetta essendo talora riservata al massimo agli sceneggiatori. Non si concepiva che un meccanismo di creazione così parcellizzato in competenze diverse e affidato a un dispositivo meccanico di riproduzione della realtà potesse in qualche modo essere legato a una istanza così demiurgica. La Nouvelle Vague disse proprio questo, e lo disse andando a cercare le proprie esemplificazioni non nel cinema d’arte, ma proprio là dove l’industria raggiungeva il massimo grado d’influenza, a Hollywood. Dire che John Ford, Howard Hawks, Alfred Hitchcock o William Wyler erano Autori, e non semplici artigiani mestieranti, rappresentava un’affermazione scandalosa, in un certo senso. Non solo: ogni film di un regista, prima di appartenere a un genere, è un film di quel regista e fa riferimento a un’opera, a un corpus, all’insieme di una produzione non diversamente che se si parlasse di uno scrittore, o di un pittore. Ciò che
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oggi pare normale, allora non lo era affatto, e da quel momento in poi si chiamò politique des auteurs. In fondo, altro non era che la propaggine (o meglio, l’estensione) di una teorizzazione che il teatro aveva già abbracciato fin dall’inizio del Novecento, e che aveva portato all’introduzione del concetto prima sconosciuto di regia: tanto sconosciuto che determinò persino una diatriba linguistica, dalla quale si uscì adottando per definire il regista l’italianizzazione del francese régisseur. Si introduceva una figura ulteriore rispetto allo scrittore, un diverso genere di autore che operava come “creatore secondo”, applicando il proprio sguardo ad una materia già data. Un po’ quello che il regista cinematografico fa osservando il mondo, materiale primigenio che a lui è stato dato per poter essere rappresentato. C’è un aspetto della politique piuttosto particolare, che ci riporta vicini ai Sei personaggi. La costruzione di un auto- “Il cinefilo si trasforma in un re è un processo cine-figlio, che cerca nell’Autore e non solo critico: investe anche la nelle sue opere una sorta di figura sfera personale. È paterna” simile alla ricerca di un padre perduto nel quale si finisce per identificarsi. Il cinephile, il cinefilo, diventa un cine-fils, un cine-figlio: per chi come Truffaut non aveva mai conosciuto il proprio vero genitore il transfert è indubbiamente notevole. È lo stesso afflato col quale i sei personaggi vanno alla ricerca di un loro autore, di un padre in buona sostanza che dia genitorialità al loro essere creature di spirito, di fantasia. Un moto di insoddisfatta figliolanza che cerca nell’arte un proprio riscatto. Non c’è matriarcato, è un affare tipicamente maschile che si risolve, per Pirandello, nella sostanziale impotenza del capocomico (regista, si sarebbe detto poi) a farsi Autore. Mentre per Truffaut è la capacità dell’artigiano di farsi Autore che lo fa riconoscere come un padre. Sarà che il cinema è sempre scritto nell’anima. R.V.
La parola al pubblico Come sospesi di Alice Nidito
Nella parte più bassa di me ritrovo la luce della Verità. In quel Silenzio infinito le parole si perdono, la lingua si secca. Ascolto il battito del mio Cuore; sono presente ma non sono più Io. Cado all’indietro, divento Suono, divento Parola. Altro da me Specchio di me Gioco con me
A.
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Dal palcoscenico della Pergola
Gabriele Lavia parla agli attori Dal primo giorno di prova dei Sei personaggi in cerca d’autore.
“I
n scena l’attore espone non se stesso ma un mondo. Nel testo di Pirandello i Sei personaggi in cerca d’autore è il mondo di quei personaggi che irrompono nel teatro esprimendo dolore, incomprensione, lutto, vendetta e rimorso. E il pubblico si riconosce in questi sentimenti, nel mondo esposto dagli attori, e ritrova la verità. Poetare vuol dire mettere in opera ed è questo che compie l’attore: la poetazione del personaggio. Con la sua corporeità, vocalità e gestualità diventa sul palcoscenico il personaggio. Per questo io dico che il teatro è fare corpo. Il testo è indispensabile perché, installandosi nella corporeità dell’attore, nutre e fa sorgere il corpo dell’attore. Il testo ‘accade’ nel corpo dell’attore ed è un accadimento che avviene di fronte allo spettatore che si specchia così nella verità dell’Essere Umano.
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In qualunque scenografia, l’attore si trova sempre in uno stato d’animo, pronto a comunicare qualcosa. È l’animo dell’attore che crea il sentimento. Dunque l’attore non è altro che una tensione ontologica: l’attore dice il proprio ruolo, mira all’Essenza, attraverso le parole del testo che è stato a lui donato dall’autore.
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Il corpo dell’attore è qualcosa di naturale? No. La corporeità dell’attore, come quella di ogni essere umano, è fin da principio diversa dalla mera natura. L’uomo combatte contro la natura. Dunque il corpo dell’attore non è naturale: né per il modo immediato in cui si dà allo sguardo, né per il suo modo di essere se stesso.
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Il corpo dell’attore è un corpo sospeso fra il suo culmine e l’abisso. Il culmine è rappresentato dalla parte che si va a recitare: è il visibile, l’udibile, la migliore esecuzione possibile del ruolo da interpretare. L’abisso appartiene a se stessi. Il lavoro dell’attore è sempre un lavoro su se stessi. E l’attore è se stesso solo nel personaggio. Che cosa unifica l’attore e questo se stesso? La sua anima, intesa in senso greco come “respiro, alito, soffio”. Il respiro dell’attore corrisponde al respiro del personaggio. Il corpo dell’attore vibra con la natura, con il suo modo di essere in scena. E ogni scena è un mondo. Pirandello racconta di avere scritto il testo dei Sei personaggi per liberarsi da un incubo. I personaggi irrompono sulla scena ma sono eterni, fissati in una verità. Entrano in una realtà perché si attui nel presente la loro eternità. Sappiamo dallo stesso Pirandello che ci
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troviamo di fronte ad una commedia di fantasia “nera, beffarda e bizzarra”. Vi si racconta la storia di un mito. Il mito, sotto qualunque veste venga rappresentato, è sempre il racconto di un’origine. Nel caso di Pirandello l’origine della commedia presenta i sei personaggi mossi da una volontà: questi personaggi desiderano vivere. Tutto il loro sforzo, tutta la loro recitazione, non è altro che un tentativo di sedurre il capocomico per far sì che il loro dramma venga messo in scena. Ognuno il suo dramma. È anche la tragica storia dell’impossibilità di una società borghese – gli attori di una compagnia teatrale – di prestare la loro corporeità per rappresentare un mito.
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La storia di una società che ha perduto ogni rapporto con la propria Storia e quindi incapace di incarnarla. Una società che non incarna la propria storia non è una società di uomini ma di fantocci. Per questo Pirandello definisce la vita come una Grande pupazzata.”
...ogni scena è un mondo
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La Storia racconta...
Appunti sull’attore e il suo gioco di Adela Gjata
FOTO NADAR
Sopra: Sarah Bernhardt in Fedora di V.Sardou
P
rotagonista indiscusso dell’evento spettacolare l’attore è stato quasi sempre mezzo e fine del teatro: se nell’Antica Grecia era artefice della catarsi che doveva purificare l’animo dello spettatore, nella prima metà del XX secolo il drammaturgo e regista tedesco Bertolt Brecht gli delegava la missione utopistica di cambiare il mondo e le sue leggi per mezzo di un’operazione tutta razionale. La facoltà di fascinazione è insita nella radice etimologica del verbo attore che significa prioritariamente “colui che conduce” (dal latino ago-actum-agere) prima ancora di “colui che agisce”. Potremmo farci un’idea della sua fortuna percorrendo l’evoluzione terminologica nei secoli. Le origini dell’odierno attore o performer vanno cercate nel greco hypocritès (letteralmente “colui che interpreta”) e nel latino histrio (parola di origine probabilmente etrusca che godrà di tanta ambigua fortuna nei secoli a venire) o mimo (al quale erano diretti gli anatemi dei Padri della Chiesa nel Medioevo), che divenne successivamente comico, termine, quest’ultimo, che rimane in voga fino al XX secolo e che, contrariamente a quel che allude, connotava gli interpreti di tutti i generi drammaturgici codificati. L’arte dell’attore conobbe il primo periodo aureo nel Cinquecento con la nascita della Commedia dell’Arte e del professionismo teatrale, fenomeno che segnò il ritorno del teatro come istituzione della vita civile in gran parte dell’Europa occidentale. Isabella e Giovan Battista Andreini, Pier Maria Cecchini detto Frittellino, l’Arlecchino Tristano Martinelli o lo Scaramouche Tiberio Fiorilli, per fare qualche nome tra i più celebri, rappresentano l’ideale dell’attore completo che sintetizza in un’unica persona diverse specializzazioni. Un precedente magistrale i Comici d’Arte l’avevano avuto nel giullare del tardo Medioevo: giocoliere e acrobata, suonatore e cantante, ballerino e declamatore, narratore e mimo, questo «professionista del divertimento» – come li definisce Cesare Molinari – mantenne in vita nel millennio che va dal 476 alla fine del secolo XV non solo il teatro come istituzione, ma il suo linguaggio e soprattutto l’arte dell’attore. La seconda fioritura del mito dell’attore va cercata nel secolo del Romanticismo col fenomeno del grande attore: Eleonora Duse e soprattutto la conturbante Sarah Bernhardt tracciarono la via del divismo che servì a sua volta da modello allo star system hollywoodiano e agli one man show della spettacolarità odierna. Persino nell’epoca del teatro di regia l’arte drammatica si è rivolta all’uomo-attore e alla sua educazione psicofisica. I registi-pedagoghi del Novecento hanno cercato costantemente la formazione di un
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Sopra: Claude Gillot, Arlequin soldat gormand
interprete artigiano che impari il mestiere con lo studio e l’applicazione: dall’attore introspettivo di Stanislavskij a quello biomeccanico di Mejerchol’d, dall’«atleta affettivo» del visionario Artaud all’attore politico di Brecht e Piscator, dall’«attore sacro» di Grotowski al performer antropologo di Eugenio Barba, all’attore sincero di Copeau e Costa. Il minimo comune denominatore di tutte le speculazioni filosofiche del Novecento teatrale si potrebbe trovare nella nascita dell’attore rinnovato in quanto modello di una nuova umanità. Nonostante le gravose e talvolta utopiche missioni conferitegli nei secoli, non va dimenticato che l’essenza dell’arte attoriale risiede nel gioco. L’attore gioca, come si suol dire in buona parte delle lingue europee: basti ricordare il francese jeu o il tedesco Spiel. Il riduttivo recitare italiano se connota l’antico parallelismo fra l’attore e l’oratore, limitando il compito dell’attore nel dire, non coglie quel peculiare senso del gioco dove il divertimento e la riflessione sono facce della stessa medaglia. Il potere evocativo del gioco teatrale ha indotto poeti, scrittori e sociologi ad usare la metafora del teatro per raffigurare la nostra immagine nella vita di tutti i giorni. La vicinanza sostanziale tra l’arte dell’attore e quella di vivere nel mondo l’aveva già espresso in termini generali Shakespeare quando metteva in bocca ad Antonio la famosa battuta: «I hold the world but as the world, Gratiano,/ A stage where every man must play a part,/ And mine a sad one.». (Merchant of Venice). Nel Siglo de Oro spagnolo l’esempio più alto del confronto tra la vita e il mondo con lo spettacolo e l’edificio teatrale si trova ne El gran teatro del mundo di Calderón de la Barca, dove oltre all’autore, che è Dio stesso, e agli attori, che sono gli uomini, ci sono anche una specie di regista-scenografo (il Mondo che funge anche da pubblico e da teatro), e un suggeritore (la Legge). In epoche più vicine alla nostra la metafora teatrale della vita ritorna nei romanzi di Balzac (basti pensare alla Comédie humaine), nell’opera dello scrittore e patriota Ippolito Nievo e soprattutto nel fortunato saggio di Erving Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life (1959), reso noto in Italia dieci anni dopo con il titolo La vita quotidiana come rappresentazione, dove il sociologo canadese dimostra come ognuno di noi, nella quotidianità, è chiamato a interpretare un ruolo preciso, e spesso nell’arco di una stessa giornata ruoli diversi. Come l’attore di una compagnia all’antica italiana al quale è assegnato il ruolo del ‘caratterista’, piuttosto che del ‘brillante’, così una persona che a casa sostiene il ruolo della madre di famiglia, al lavoro può interpretare quello del medico o della bibliotecaria. Sebbene un’attività vicina al vissuto umano, quella dell’attore è spesso considerata una categoria poco aderente alla comune realtà. Talvolta ai margini, altrove venerato, l’anomalia dell’attore risiede, forse, nella distanza tra un’esistenza segnata da elementi di precarietà interiore (oltre che economica) e la capacità quasi sciamanica di penetrare l’animo umano e trasportare il suo interlocutore in un mondo altro, parallelo a quello reale, facendolo di volta in volta ridere o piangere, interrogarsi e sognare.
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I mestieri del cinema lo Sceneggiatore
Francesco Piccolo I MILLE VOLTI DELLA SCRITTURA Lei è un autore che scrive tanto per il cinema, collaborando spesso alla sceneggiatura con gli stessi registi: dai film di Nanni Moretti a quelli di Paolo Virzì. Quali sono le differenze, proprio dal punto di vista della scrittura, tra un romanzo e una sceneggiatura?
Lo scrittore si sente più libero in un romanzo rispetto al linguaggio, forse più codificato, del cinema? Credo che la libertà non sia una condizione esclusivamente positiva. Tante volte, mi è capitato di scrivere delle buone cose sotto costrizione; al contrario, magari ho scritto peggio pensando di essere la persona più libera del mondo. Ovviamente quando scrivi un libro scegli di raccontare
La scrittura di un romanzo è definitiva, invece la scrittura cinematografica non lo è mai per definizione perché costituisce il punto di partenza di un film. E questo anche se tu, sceneggiatore, devi scrivere pensando sempre che si tratti di un prodotto finito, cercando
“In fondo scrivere è anche questo: ingigantire i tuoi fantasmi fino a renderli terribili” di restituire un testo al massimo della qualità. Solo così l’attore potrà muoversi dentro quel personaggio. Lo sceneggiatore deve mantenere questa sentimento di compiutezza nella sua testa ma con la coscienza di avere in mano un’opera non terminata, un’opera che servirà a qualcun altro. Il fatto che le parole che hai scritto servano a terzi, che vengano prese fisicamente per essere incarnate da attori in carne ed ossa, è una sensazione davvero bella.
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
quello che vuoi, mentre la sceneggiatura si muove all’interno delle esigenze di un racconto. È la vera, reale, differenza. Il romanzo presuppone un lavoro solitario, la scrittura cinematografica invece si mette al servizio di un gruppo di persone che dovranno lavorare utilizzando le tue parole. Sono istanze diverse ma non c’è conflitto; anzi, per quanto mi riguarda, i due linguaggi convivono e si compensano proprio grazie alla loro differenza.
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Da quali ritmi è scandita la giornata tipo di uno scrittore? Scrivere è un mestiere bellissimo ed è anche un divertimento, però la sostanza della giornata di uno scrittore è infinitamente triste: si lavora da soli con se stessi. Anche per questo ho cominciato a scrivere per il cinema e la televisione: con l’obiettivo di trovare degli elementi esterni. Il rapporto con se stessi è necessario ma anche lievemente tragico perché stando da soli i fantasmi crescono. È un meccanismo che tutti gli insonni conoscono: ad un certo punto della notte tutto sembra mostruoso, gigantesco e terribile. E in fondo scrivere è anche questo: ingigantire i tuoi fantasmi fino a renderli terribili.
“Non si può mai chiedere ad uno scrittore se tutto quello che racconta sia vero: non importa che accada veramente, ma che si tratti di una bella storia” Cinema e scrittura: una definizione per queste sue passioni. La scrittura è proprio un modo di stare al mondo: non saprei vivere senza scrivere, ed è una cosa che ho scoperto presto nella mia vita. Sono diventato uno scrittore e ho scritto anche per il cinema, che per me significa concretezza. Chi scrive libri di solito si muove in un’astrazione dell’immaginario perché la pagina si costruisce nella testa dell’autore, ma non è visibi-
le. Il cinema dà realtà a ciò che scrivi.
Tutti i suoi libri sembrano essere autobiografici… Sì, in sostanza nei miei libri lavoro sempre su me stesso. Una delle questioni fondamentali nell’autobiografismo è la responsabilità del racconto. Ecco perché ho preferito raccontare le mie storie in prima persona: mi sembra che dire ‘io’ possa accumulare un maggiore senso di responsabilità verso quello che sto asserendo. Con l’uso della prima persona sono ‘io’, non qualcun altro, a compiere un’azione, anche la più sbagliata. Mi piace molto raccontare la parte contraddittoria che è in ognuno di noi e il fatto di utilizzare la prima persona come soggetto del racconto mi mette, come autore, al centro di queste contraddizioni. Ed ecco che il lettore, abituato ad identificarsi con il narratore, ne rimane spiazzato. Detto questo, non si può mai chiedere ad uno scrittore se tutto quello che racconta sia vero: non importa che accada veramente, ma che si tratti di una bella storia.
Con il romanzo Il desiderio di essere come tutti ha vinto il Premio Strega; qual è il suo prossimo desiderio? In questo libro uso un ‘io’ narrante, la mia vita, in corrispondenza della storia della nostra nazione. Sicuramente l’idea per il futuro è quella di riuscire a vedere l’Italia finalmente come un luogo vivo. Cercare un Paese migliore, questo è il vero desiderio.
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I mestieri del cinema il Regista
Giuseppe Tornatore UN MESTIERE BELLISSIMO Nel suo modo di intendere la regia ha affermato di essere stato folgorato da Roberto Rossellini… Sotto: Tornatore con il Premio Fiesole ai Maestri del Cinema 2014
Sì, tanti anni fa ho letto un’intervista dove parlava della sua visione della figura del regista che ho recepito subito come una lezione. Secondo Rossellini FOTO CHIARA ZILIOLI
è un mestiere in cui bisogna conoscere tutto quello che è necessario per realizzare un film: oltre ad occuparsi di regia e sceneggiatura, il regista deve intendersi anche di costumi, chiodi, colori, legno, fil di ferro, effetti speciali… Soltanto così il regista può tenere in pugno la complessità della situazione. Un film è come una nave, talvolta difficile da dirigere, e sapere fare di tutto dà la possibilità di evitare che possa andare a finire sugli scogli. Questa convinzione nasce anche a causa del mio periodo da documentarista: all’inizio della carriera giravo da solo e senza mezzi i primi video, quindi sono abituato a confrontarmi con i vari aspetti necessari alla realizzazione di un racconto.
È vero che prima di fare un film, dopo l’idea iniziale, ha bisogno di un lungo periodo di tempo per riflettere e decidere se la storia originale valga la pena di essere raccontata? In genere mi piace portarmi dietro un’idea per tanto tempo, covarla dentro me stesso, per essere sicuro sulla distanza che si tratti di una vera passione. La sconosciuta è un’idea che mi sono portato dietro per più di quindici anni, La Migliore Offerta ancora di più, lo stesso Nuovo Cinema Paradiso – il film che poi ha vinto l’Oscar – è stato pensato e immaginato per almeno dieci anni... Penso che più lunga sia l’incubazione e più rapida sia dopo la realizzazione del film, a partire proprio dalla scrittura. Il tempo ti porta a conoscere, profondamente, tutti gli aspetti della storia che vuoi raccontare: i vari punti
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deboli o tutte quelle possibilità narrative che invece si offrono nelle pieghe del racconto. Alla fine il film diventa una trascrizione automatica di tutto quello che hai raccolto nella testa. E questo dà maggiore sicurezza e la possibilità di procedere con determinazione nella fase lavorativa successiva. Anche se credo che si debba stare attenti alla troppa sicurezza: il sentimento della paura è il migliore amico di un regista. Se hai timore di sbagliare o che quello che stai raccontando non sia chiaro, secondo me hai più chances di realizzare qualcosa di efficace. La sicurezza e la spavalderia sono le peggiori compagne di viaggio di un regista.
E come avviene, dopo l’idea originale, il passaggio alla fase successiva della realizzazione di un film? Dopo che hai covato una storia a lungo e finalmente arrivi a metterla su carta, il mestiere di regista ti costringe all’ennesima riscrittura. Ecco che inizia la preparazione del film: scegli i ruoli, cerchi gli attori che devono dare corpo alla scrittura. Gli ambienti in cui giri non sono mai come li avevi pensati e allora continui a modificare il soggetto: talvolta gli attori possono non corrispondere esattamente alla fisicità che avevi in mente, talvolta devi inventare qualcosa di nuovo ed affrontare ciò che non era previsto. Finalmente cominciano le riprese e le cose si complicano ancora di più. Mille elementi imponderabili ti portano a chiarire ulteriormente alcuni elementi: i dialoghi che si fissano in maniera ancora più precisa, la fase della post produzione con il montaggio e il doppiaggio… È un’ottimizzazione continua, una fase di revisione instancabile ed è come ricominciare sempre da capo. Quando finalmente il film è finito, allora
si verifica un nuovo processo di riscrittura da parte dei critici e degli spettatori che trovano aspetti nel film che magari
IMMAGINE CLARA BIANUCCI
“Un film è sempre una sorpresa ed un’avventura, come se dovessi affrontare un campo minato portando con te soltanto un bambino: il tuo film” a te per primo erano sfuggiti. Penso che il bello del mio mestiere risieda proprio in questa inesattezza. Un film è sempre una sorpresa ed un’avventura, come se dovessi affrontare un campo minato e riuscire ad arrivare dall’altra parte senza saltare in aria portando con te soltanto un bambino: il tuo film, appunto, che devi proteggere e fare in modo che non venga ferito da nessuno. E a pensarci bene anche quando tu, spettatore, rivedi un film non vivi la stessa emozione: cambiano l’umore e le circostanze, non è mai la stessa esperienza. Questo è l’aspetto misterioso, a volte perfino sfuggente, di questo mestiere che è bellissimo.
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Firenze contemporanea Museo Novecento
Valentina Gensini
“EVERYTHING MIGHT BE DIFFERENT”
di Palazzo Pitti che nel corso del tempo, nonostante i molti sforzi dei diversi direttori che si sono succeduti, non ha mai trovato la possibilità di allestire spazi dedicati al Novecento. Tanto che negli anni Sessanta si decise, dopo la terribile alluvione, di fare un appello per rilanciare l’idea di un Museo di Arte Con-
FOTO LORENZO VALLORIANI
L’idea di un museo dedicato al Novecento è un’idea innovativa per Firenze, la città culla del Rinascimento che appare da sempre poco incline all’apertura verso l’arte contemporanea… Il Museo Novecento era atteso a Firenze da oltre cinquant’anni. Le collezioni d’arte contemporanea appartenenti al Comune sono confluite, fin dal 1914, alla Galleria d’Arte Moderna
temporanea. La risposta di artisti e artiste fu generosa: il risultato nel ’67 portò alla Mostra Gli Artisti per Firenze nel Salone dei Duecento a Palazzo Vecchio. È questo il nucleo del MIAC, il Museo Internazionale di Arte Contemporanea di Firenze, voluto fortemente a partire già da quegli anni dal critico e storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti. Si aggiunsero così altre donazioni di singoli artisti – penso a Mirko e a Ma-
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gnelli – e di tutte le opere straordinarie appartenenti ad Alberto Della Ragione. Il dramma dell’alluvione fece sì che da allora non si decise mai di firmare per un museo che raccogliesse tutte queste opere, con un grave danno per Firenze che avrebbe avuto da tempo un museo dedicato al Novecento e che ha visto dimezzata la propria potenzialità.
strumentazione multimediale. Nel Museo Novecento l’impostazione è ancora tradizionale, quindi la priorità assoluta è data all’opera che viene contestualizzata. Ma un lavoro importante è stato quello di mettere a disposizione del pubblico delle piattaforme multimediali, sia sonore che visive, lungo tutto il percorso espositivo. Si segue la logica dell’interdisciplinarità: le opere si rela-
Dalle opere di De Chirico a Morandi, da Emilio Vedova a Renato Guttuso, fino alla sezione fiorentina della Biennale di Venezia: il Museo Novecento è dunque legato alla città ma con una sua dimensione nazionale? Il Museo Novecento appartiene alla città in quanto museo civico, con una vocazione di attenzione al territorio, ma è un museo con opere di artisti nazionali. Ci sono più di mille e cinquecento opere ancora depositate negli spazi del Comune a disposizione del museo. È un patrimonio che va risvegliato e portato alla luce: ogni mercoledì, per tutto l’anno, ci sono conferenze e spesso le opere più importanti, non ancora esposte, vengono tirate fuori per un’occasione di rilettura critica.
Lo spazio in cui si trova il Museo Novecento - il Complesso dello Spedale delle Leopoldine in piazza Santa Maria Novella - si collega ad un’idea di fiorentinità rinascimentale aperta al multimediale e al futuro? Credo che un museo ideato oggi non avrebbe senso se non si avvalesse di tutti gli strumenti a disposizione, da quelli più tradizionali ai supporti multimediali che sono ormai disposti in tutto il mondo. Devo dire che i musei italiani tendono ancora a farne poco uso, forse pensando di contaminare l’arte con la
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zionano con la produzione musicale del tempo a cui afferiscono tramite le cosiddette ‘docce sonore’ oppure si accede ai documenti originali, come le corrispondenze cartacee o i telegiornali d’epoca, con i tablet. Abbiamo tentato di ridare voce ai protagonisti dell’epoca tramite una collaborazione con la Rai, l’Istituto Luce, la Mediateca Regionale Toscana, la Biblioteca Nazionale Centrale, il Gabinetto Vieusseux e molti altri. Grazie
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ad un pool di studiosi interdisciplinari e di storici dell’arte si sviluppano temi che vanno dalla storia nazionale a quella locale: si possono ascoltare, per esempio, le voci di Ungaretti e Luzi che leggono le loro poesie, guardare le copertine delle riviste più importanti della prima metà del Novecento oppure approfondire il discorso sul teatro, la moda e la letteratura dei vari periodi esposti.
“L’arte ci regala degli sprazzi di bellezza ma, come ci insegna appunto il Novecento, anche di non-bellezza. L’arte diventa allora consapevolezza di una potente esperienza ‘altra’ che innalza ogni uomo al di sopra del quotidiano vivere”
restituiti ad un presente, memori di intere generazioni che si sono succedute in un luogo che è stato filmato dai più grandi registi del mondo. Lo sguardo internazionale si posa su questa icona che è Firenze: torna il mito del Rinascimento, a volte glorificato, a volte usurato e perfino interrotto nei film di matrice neorealista che presentano una Firenze distrutta dalla guerra.
Il teatro occupa un posto particolare nel Museo Novecento?
Sì, nella cesura tra il primo e il secondo piano si introduce il tema del Maggio Musicale Fiorentino, sia in un’ottica interdisciplinare e sia perché il Teatro del Maggio rappresenta nello specifico un unicum: al di là degli scenografi professionisti, molti artisti visivi contemporanei hanno lavorato al servizio di opere liriche e balletti. De Chirico, Savinio, Sironi, Casorati, Severini: sono alcuni dei nomi presenti, Al termine del percorso il a testimonianza del teatro come luogo visitatore può ammirare un video in cui si mescolano le arti e si ricorre appositamente creato per il museo con tutti gli spezzoni di film ad un tipo di visualità autonoma, non semplice ancella della performance, se ambientati a Firenze… Tutto il museo è concepito come una così si può dire. E poi il teatro è presensorta di time machine, una macchina te anche nella cultura alternativa degli del tempo all’indietro che ci riporta dal anni Ottanta: i Magazzini Criminali passato prossimo a quello più remoto di di Federico Tiezzi e Sandro Lombarinizio secolo. A conclusione il visitatore di costituiscono la punta di diamante si ferma. Come la museologia insegna, di questa ricerca. Molti artisti hanno alla fine di un percorso faticoso occorre messo a disposizione i loro archivi, grasempre un momento di soddisfazione zie anche a Fabbrica Europa, Kinkaleri, in cui si deposita quello che si è visto. Si Virgilio Sieni, per documentare la vivaarriva all’altana e si assiste a questo vi- cità della scena artistica fiorentina. Si deo su Firenze. È un omaggio alla città dice sempre che Firenze sia impermeche diventa il pretesto per dimostrare abile alla contemporaneità, ma non è come il cinema non solo racconti ma co- vero: piuttosto la cultura ufficiale non struisca l’identità del luogo. Il genius loci ha lasciato lo spazio dovuto alla ricerfiorentino, tanto decantato dalla lette- ca artistica. Ma la ricerca, la voglia di ratura e dall’arte, viene testimoniato da sperimentare, non si sono mai fermate. cut up di un intero secolo di film. Dopo la visita al Museo Novecento siamo così Che cosa trova affascinante di
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FOTO LORENZO VALLORIANI
questo secolo, il Novecento? Direi tutto. Mi attrae il fatto che sia un secolo che restituisce la grande complessità dell’integrazione tra le arti: nel Novecento, ancora più che nel passato, non c’è stata musica senza arti visive, non c’è stato teatro senza collegamento con le ricerche di design o di architettura. Questi continui rimandi tra diversi campi d’espressione per me hanno un fascino incredibile: la contaminazione, una dimensione ibrida tra le arti, trovo che siano tutti aspetti di una ricchezza straordinaria.
Secondo Mimmo Paladino, uno dei più importanti artisti contemporanei italiani, l’arte è “un viaggio in grado di rendere visibile ciò che gli altri non vedono”. Una sua personale definizione di arte. L’arte è il surplus della nostra esistenza. Arte vuol dire tecnica, emozio-
“Arte vuol dire tecnica, emozione,sguardo sulla natura, attenzione al paesaggio e a tutte le punte più alte di espressione toccate dall’essere umano” ne, sguardo sulla natura, attenzione al paesaggio e a tutte le punte più alte di espressione toccate dall’essere umano. È la musica che accompagna le nostre giornate e, più in generale, l’arte è ciò che aggiunge un valore ‘alto’ alla nostra esistenza, al di là della contingenze e delle corse che spesso siamo costretti a fare nel quotidiano. L’arte ci regala degli sprazzi di bellezza ma, come ci insegna appunto il Novecento, anche di non-bellezza, criticità. L’arte diventa allora consapevolezza di una potente esperienza ‘altra’ che innalza ogni uomo al di sopra del quotidiano vivere.
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Firenze contemporanea L’artista visivo
William Kentridge QUANDO L’ARTE SI ANIMA A Firenze al Teatro della Pergola arriva in prima nazionale il suo spettacolo Ubu and the truth commission, il capolavoro sull’apartheid. In scena convivono gli attori, il teatro di figura e l’elemento multimediale; questi differenti aspetti come si uniscono insieme nella messinscena? Nella IMMAGINE DALILA CHESSA
sua visione dello spettacolo i pupazzi interagiscono con gli attori? I pupazzi, che accompagnano gli attori in scena, sono considerati come pura animazione. Lo spettatore è cosciente di trovarsi davanti a qualcosa di costruito e immaginato, sa che non sta guardando una fotografia o un documentario. Le proiezioni agiscono in modi diversi. A volte gli attori guardano dei disegni su un foglio di carta: le immagini che loro vedono in quel momento sono identiche a quello che gli spettatori osservano sullo schermo; il loro stato d’animo, il personale punto di vista, viene così amplificato e condiviso nel teatro. Altre volte lo spettacolo racconta dei momenti più descrittivi e vengono proiettate immagini storiche, come per esempio Fidel Castro o Nelson Mandela, oppure le proiezioni diventano parte del viaggio narrativo e commentano le scene con le parole.
Il suo lavoro di artista visivo presenta sempre degli elementi teatrali. La sua fascinazione per il teatro da dove ha origine? Non lo so. In realtà, fin da quando ero piccolo, sono sempre stato interessato al teatro. Volevo diventare un attore. L’università per me è stata un misto di politica, arte e teatro; in particolare, la recitazione faceva parte del programma di studi. Quindi ho frequentato una scuola di teatro per diventare un attore professionista e per un breve periodo l’ho anche fatto. Fino a quando ho incontrato a Parigi Jacques Lecoq, ho seguito un corso con lui e ho scoperto rapidamente che io, in sostanza, non ero un attore. Ma le
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strategie del lavoro che appartengono ai movimenti del corpo umano, unitamente al disegno, sono rimasti sempre fondamentali nella mia concezione artistica.
Quindi l’arte e il teatro… Vanno di pari passo, per quanto mi riguarda; l’arte e il teatro acquistano di significato soltanto attraverso l’uso del corpo.
I suoi spettacoli, in collaborazione con la Handspring Puppet Company di Joahannesburg, hanno acquistato una fama mondiale. Come cambia la percezione dell’arte nei diversi Paesi? Cambia molto, in relazione alle varie nazioni. In Colombia, per esempio, ultimamente si assiste ad un desiderio più diretto di impegnarsi nella politica e nelle questioni etiche; l’India è profondamente tradizionalista, dav-
vero intransigente verso certi aspetti del lavoro che in America, per esempio, non sono assolutamente presi in
“L’arte e il teatro acquistano di significato soltanto attraverso l’uso del corpo. Ogni essere umano guarda al fatto artistico inscrivendolo nella propria intima collezione di sogni e di paure. E l’arte deve aprirsi per accogliere tutte queste differenze” considerazione. Più in generale, ogni essere umano guarda al fatto artistico inscrivendolo nella propria intima collezione di sogni e di paure. E l’arte deve aprirsi per accogliere tutte queste differenze. FOTO MARC SHOUL
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Dai Quaderni di Orazio Costa
“Q
Sopra e nella pagina accanto: l’originale del Quaderno n°8 scritto dal Maestro Costa
uando mi sembra di esser vicino all’intuizione di qualche acuta verità sul mio mestiere ecco che mi par subito dopo di ricadere nell’ovvio. O vuol dire, come è purtroppo possibile che l’illusione di essere superiore all’ovvio banale ti porta ad illuderti d’un’acutezza che poi è inutile oppure, che sarebbe certo preferibile e sembrerebbe più verosimile, che la verità sta proprio accanto alla banalità. Sembrerebbe giusto che vedendole così vicine si preferisca la grossolana e più facile banalità senza tentare di definire la forse indefinibile verità. Tutto questo per dire che arrabattandomi, una volta di più a cercare la verità dell’intima ragione del recitare l’avevo colta, e forse dicevo bene, in una specie di effetto di “diffrazione”. Ma il vero è che volevo dire semplicemente “doppia rifrazione” che viene a dire “sdoppiamento” cioè un banalissimo concetto. Se non che prima di tutto è da studiare attentamente il fenomeno della “diffrazione” per vedere se se ne possa trarre qualche chiara analogia e poi si può cercare se non ci sia una parola più efficace dell’abiurato “sdoppiamento” a rendere questa abitudine allo “sfaldamento” che avrebbe la psiche dell’attore: una tendenza a dicotomizzarsi; una specie non patologica di sdoppiamenti della personalità, una predisposizione a vedere accanto alla propria personalità fissa un’altra capace di infinite variazioni. Ma si ricade in concetti abbastanza banali. Mi pareva un tempo vi esser molto più vi-cino con “l’istinto mimico” comune naturalmente a tutti ma esaltato nell’attore e quindi una attitudine a plasmarsi secondo i più vari suggerimenti senza fondamentalmente variare. Però l’evidenza del “sentimento generale, dell’animus” entro il quale questo fenomeno avviene mi è parso per un momento un fattore importante come se questo sentimento generale fosse lui a cercare lo sfaldamento (dicevo la “diffrazione” e mi piaceva), poi invece questo “sentimento generale” è proprio quel carattere della personalità invariabile vicino alla quale varia quella del personaggio. Siamo di nuovo e ancora al buio, anche se faremo credere il contrario. Ricorda il dubbio, le due - vie = teatro. E di seguito a ciò pensavo: una ragione una certezza non è teatro. Il teatro nasce nell’animo dell’attore o dal fatto di essere attore (doppia personalità) o (come è più bello e affascinante) dallo scoprirsi attore. Per esempio. Io gioco (cioè credo di essere io a “fare a”) e d’improvviso (ecco davvero il dubbio e lo sfaldamento e il diventare tri-vio. Volevo dire d’improvviso mi occupo di giocare e invece dico no. C’è prima un altro fatto e scrivo:) Io gioco e d’improvviso m’esalto e credo al gioco (conservando o no una sensazione di “star giocando” ? forse no) e mi sento “invasato” “ispirato” (il nume, l’apparizione del Nume - gli altri che continuano a giocare si stupiscono. Ecco un germe di spettacolo iniziale [...]”.
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Quaderni della Pergola A cura di Angela Consagra e Alice Nidito La parte monografica dedicata all’Autore e Regista è a cura di Matteo Brighenti e Riccardo Ventrella Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com
Le interviste sono di Angela Consagra Progetto Grafico Walter Sardonini/SocialDesign
Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com
Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli La copertina; la fotografia dell’editoriale; l’album fotografico della rubrica Dal palcoscenico della Pergola; le foto a pag. 15; pag. 25; pag. 56; pag. 57; la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini Hanno collaborato a questo numero: Elisabetta De Fazio, Claudia Filippeschi, Gabriele Guagni, Orsola Lejeune, Simona Mammoli La parte dedicata a Giancarlo Giannini prende spunto dalla conferenza stampa e dall’incontro con l’attore organizzato dal Festival Pordenonelegge in occasione dell’uscita in prima nazionale del libro di Giancarlo Giannini Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)
Teatro della Pergola Fondazione Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Raffaello Napoleone, Duccio Traina, Stefania Ippoliti, Maurizio Frittelli Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto Lari Direttore Generale Marco Giorgetti
Le interviste a Elio Germano e Valeria Golino sono state ispirate dagli incontri con i due artisti durante il Festival La Valigia dell’Attore e il Bif&st di Bari 2014 Per l’intervista a Francesco Piccolo si ringrazia il Festival delle Generazioni di Firenze L’intervista a Giuseppe Tornatore è frutto dell’incontro con il regista in occasione del Premio Fiesole ai Maestri del Cinema 2014.
La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la copertina dei Quaderni della Pergola.
Ogni uomo è un attore e tutto il mondo è un palcoscenico William Shakespeare