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Il numero 8 dei Quaderni della Pergola è ispirato al Potere. Una parola forte che suscita sentimenti contrastanti. Il Potere può essere vissuto come una parola minacciosa, legata al sopruso e al comando, ma può essere anche sentita come fonte di infinite possibilità e creazione. Il Potere è un viaggio dentro il mistero dell’Uomo, delle sue pulsioni: da quelle più basse ed oscure a quelle più alte ed illuminanti. La Musica, la Scrittura, il Cinema, il Teatro, l’Arte, la Politica attraversano questa parola in tutte le sue sfaccettature, senza cadere nella paura del giudizio morale e retorico ma restituendoci tutta la complessità del nostro vivere, del nostro tempo; del passato lontano e del presente, del nostro essere Uomini. È un racconto affascinante, contraddittorio e per questo necessario. Come spesso succede immergendosi nelle parole dette degli artisti incontrati, primaria risulta essere la responsabilità di essere Uomini e Cittadini; anime che si impegnano ogni giorno nella propria crescita personale/collettiva evolutiva. E una volta di più si accende in noi la consapevolezza della necessità di dare Potere al Teatro. E dalle righe di questo Quaderno, lo diciamo a voce alta!

2. Dacia Maraini 3. Filippo Timi 7. Lucia Mascino 9. Fabrizio Gifuni 15. Massimo De Francovich 18. Massimo Popolizio 21. Stefano Massini 23. Potere di Parole - Tragedie di Potere 32. Jeremy Irons 36. Dal diario di una teatrante 37. Dalle sale ballo del Teatro della Pergola 41. Appunti di un professore... 42. La Storia racconta… 44. La parola al pubblico 45. Francesca Della Monica 47. Toni Servillo 50. Gianrico Carofiglio 53. Antonio Pappano 56. Rosa Maria Di Giorgi 59. Cristina Giachi 61. Palazzo Strozzi 63. Dai Quaderni di Orazio Costa


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Il potere del teatro di Dacia Maraini

FOTO FILIPPO MANZINI

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pesso faccio questo sogno: sono sopra un palcoscenico in cui si sta rappresentando un testo teatrale, devo dire una battuta ma non mi viene, ce l’ho sulla punta della lingua ma mi sfugge. Vedo gli attori che aspettano la mia frase per rilanciare la loro e vengo presa da una paura cieca e disperata. Cerco freneticamente, cerco nella memoria la battuta che pure so di conoscere e che ho già ripetuto tante volte ma non riesco a trovarla. A questo punto mi sveglio in preda al panico con la gola stretta per l’angoscia. Eppure io amo il teatro e considero l’atto rituale dell’apertura del sipario un momento di grande emozione. Prima di tutto come spettatrice, e poi come autrice. Forse fare teatro significa proprio questo: vincere una paura profonda, ridare la parola a un silenzio primordiale che ancora minaccia i nostri sogni infantili.


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Filippo Timi UN FIUME IN PIENA di Angela Consagra

Nel suo spettacolo Favola si assiste ad una forma di ribaltamento narrativo e il registro favolistico cambia. Infatti il sottotitolo recita: C’era una volta una bambina e dico c’era perché ora non c’è più. In questo senso si può dire che Favola racconti un’illusione. Il teatro ha sempre il potere di creare l’illusione? È vero, questo spettacolo racconta di una trasformazione: le protagoniste – io e Lucia Mascino, che interpretiamo due casalinghe americane anni Cinquanta – per trovare l’amore, ed emanciparci, siamo costrette a fare un percorso e a superare delle paure e dei tabù, tutto un mondo fatto di convenienza e di

“Il teatro ha il potere di creare l’illusione, anzi a volte ha anche il potere di svelarla” convenzioni. Lo spettacolo inizia con una scena anni Cinquanta e si sente la musica di Doris Day in sottofondo; per sottolineare quest’atmosfera in scena c’è anche un albero di Natale comprato su e-bay e fatto arrivare apposta dall’Ohio… A me interessa indagare l’universo femminile quando si sperimenta un’emancipazione, che la donna dovrebbe in realtà già avere e invece purtroppo spesso

non è affatto così… Detto questo, il teatro sicuramente ha il potere di creare l’illusione - non c’è dubbio – anzi, a volte ha anche il potere di svelarla. La vita è un’illusione e di conseguenza quando la vedi rappresentata in teatro, quando sul palcoscenico succedono delle cose, magari questa doppia visione dell’esistenza – la vita vera e quella raccontata – creano un rafforzativo nell’animo dello spettatore. Ecco che, in questo senso, il teatro è capace di svelare una luce di coscienza.

Nel film di Marco Bellocchio Vincere ha incarnato il potere per eccellenza interpretando il ruolo di Mussolini… Dopo aver girato il film sulla vita e gli amori di Mussolini, mi è venuto in mente di fare uno spettacolo che fosse proprio qualcos’altro, una scelta totalmente opposta rispetto al ruolo di Mussolini. È nato così il personaggio di Mrs Fairytale di Favola: paradossalmente questo spettacolo è stata una conseguenza dell’esperienza e dell’indagine che sono stato costretto, anche piacevolmente, a fare su me stesso per arrivare ad un’interpretazione di Mussolini. Marco, il regista, come prima cosa mi ha chiesto di “cercare quel fiume nero” che stava dentro di me: un sentimento oscuro e profondo, che appartiene all’essere umano. Ce l’abbiamo tutti questa parte nascosta, che emerge quando cominci a chiedere, poi a pretendere delle cose e subito ti arrivano. Ottenere immediatamente ciò che desideri, sentire che hai il potere di farlo, è un sentimento pazzesco che ti cambia la faccia e l’identità. Il potere allora diventa una droga, qualcosa di veramente mostruoso, che ti conduce all’estremo. Ricordo di aver letto un saggio di estetica sul narcisismo dove venivano riportati gli esempi di questi grandi e terribili dittatori che


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vedevano gli altri individui non come persone reali, ma come delle immagini: una sorta di figurine bidimensionali, facili da schiacciare ed eliminare. Secondo questo studio, il gioco di potere è collegato al narcisismo, al bisogno continuo di affermazione. Questo è un ragionamento che si collega alla

di vista dell’egocentrismo, esploda… Dopo aver indagato il potere nel film di Bellocchio ho sentito il bisogno di trasformarmi in una donna anni Cinquanta, sottomessa e anche picchiata dal marito. Una donna che segue un suo percorso di libertà e di rivoluzione personale meraviglioso.

FOTO ACHILLE LE PERA

“Ottenere immediatamente ciò che desideri, sentire che hai il potere di farlo, è un sentimento pazzesco che ti cambia la faccia e l’identità” perfezione con il mestiere dell’attore ed io, infatti, faccio un lavoro su me stesso per non lasciare che l’ego monti a dismisura… Tu, attore, vai al cinema e la tua faccia sta lì, su uno schermo di due metri per otto: è quasi naturale che qualcosa dentro di te, dal punto

Un suo libro si intitola Peggio che diventare famoso; che rapporto ha con la popolarità? Peggio che diventare famoso c’è il non diventarlo, secondo me… I film è bello farli, indipendentemente dalla fama e dal successo. Il fatto che la gente ti riconosca per strada è una conseguenza secondaria. Ho la fortuna che le persone vengano a vedere i miei spettacoli: forse dipende dalla fama, certo, ma anche da quello sforzo fisico-emotivo richiesto dal teatro.


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La compagnia de Il Don Giovanni

Ho fatto un lavoro: se al pubblico è piaciuto, l’incontro a fine spettacolo fuori dal camerino è un abbracciarci reciproco. Devo ringraziarli per aver speso i soldi ed essere usciti di casa. Magari c’è chi ha convinto il proprio fidanzato a passare una serata in teatro, e magari alla fine lui si è perfino divertito…

a sostenere l’applauso soltanto applaudendo anch’io, a mia volta, il pubblico. Lo spettacolo si fa in due: servono gli attori e gli spettatori. Senza di loro io non ci sarei mai stato. A volte devono quasi fermarmi perché continuo ad applaudire dal palcoscenico: la gente magari pensa che io voglia più applausi, invece lo faccio perché sono troppo contento…

FOTO FILIPPO MANZINI

Come vive la parte finale del rito teatrale, il momento dell’applauso? È un momento orribile. Io non vorrei mai uscire a prendere un applauso. Per me è faticoso e imbarazzante: mi intimidisce ricevere gli applausi finali, ecco perché spesso la mia faccia appare corrugata e molto seria. Faccio muro e mi chiudo in me stesso… Il semplice fatto che le persone abbiano riso ed applaudito durante lo spettacolo, che non si siano alzate per andare via ma anzi mi abbiano addirittura dato la loro attenzione, questo è il punto vero, essenziale. Riesco

Cosa c’è nella sua valigia di attore? Per ogni spettacolo mi compro un beauty case: per Amleto è un vecchio portatrucco nero, con all’interno il sangue finto, le spatole per truccarmi, i proiettili di pistole finte... Tra le tante cose, conservo un pomello di una macchina che ho preso sul set del film The American girato insieme a George Clooney... Il beauty case di Favola è di Prada, in pelle bianca e nera, con tutti gli oggetti che servono al mio personaggio come le ciglia finte, mentre per Il Don Giovanni uso una scatola in metallo d’acciaio... Ogni spettacolo ha il suo piccolo kit.


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Lucia Mascino LIBERA E RUVIDA Con il personaggio di Mrs Esmerald è coprotagonista, insieme a Filippo Timi, dello spettacolo Favola... Sono veramente affezionata a questo spettacolo. Molte storie che raccontiamo sono vere e ci appartengono: alcune mie, le altre di Filippo, molti ricordi personali che si riflettono nei due personaggi. Sono i nostri racconti d’infanzia, episodi e memorie intime che si intrecciano nei nostri monologhi o nei vari dialoghi. Filippo spesso scrive i suoi spettacoli – già era successo con lo spettacolo precedente fatto insieme, Amleto – inserendo dei pezzi di vita reali, trasformando in parole teatrali i ricordi. In questo caso particolare di Favola, ci sono i racconti della nostalgia e delle paure di bambina...

“Amo quei personaggi che sotto sotto celano qualcosa e che contengono una parte inespressa: una bomba inesplosa emotivamente” Quali personaggi le piace interpretare? Di solito i personaggi che mi vengono assegnati sembrano estremamente lontani da quella che sono nella vita. Succede che Filippo Timi descriva per me delle figure in cui io non mi sarei mai vista: donne estreme, come anche la mia Donna Elvira ne Il Don Giovanni.

Evidentemente, avendo molta energia, le parti in cui sono costretta a spingere tanto per arrivare all’interpretazione fanno uscire qualcosa che in genere rimane nascosta dentro di me e mi rendono libera. Questa scrittura vince sul mio carattere, sul fatto di essere trattenuta nella vita di tutti i giorni; più in generale, i personaggi che mi piacciono sono quelli che riescono a toccarmi, in qualche modo, e che io riesca quindi ad abbracciare facendoli miei. Amo quei personaggi che sotto sotto celano qualcosa e che contengono una parte inespressa: una bomba inesplosa emotivamente, e questo vale sia per i ruoli drammatici che per quelli più comici. Sono personaggi che mi incuriosirebbero nella vita, che hanno una loro personalità nascosta o esposta. Raramente vedo dei personaggi femminili adulti nei film per cui dico: “Questo sì, che è un bel ruolo!”. Non sopporto più le ex mogli pazienti e ancora disponibili, le figlie ribelli tossiche ma in realtà tanto intelligenti. Ho appena fatto un ruolo molto bello nel film Freulein di Caterina Carone. Appena l’ho letto mi è piaciuto. Il personaggio si chiama Regina; per me è come Clint Eastwood in Per un pugno di dollari: libera, ironica, silenziosa e molto ruvida.

Sul palcoscenico, qual è il potere dell’ironia? L’ironia è una marcia in più: ti toglie di dosso quel finto serio che ci immobilizza, ma quando il serio non è finto la serietà senza vie di fuga è bellissima. L’ironia è vitale, sprizza gioia ed è travolgente. Negli spettacoli di Filippo è onnipresente e devo dire che, a volte, l’ironia può addirittura diventare pericolosa: quando senti una risata, ricevi un tale piacere in quell’istante, un’energia e una comprensione condivisa con il pubblico in grado di regalarti pienezza e


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fiducia. È una sensazione così potente da creare dipendenza. Se non arriva la risata, magari parte l’insicurezza: “Ecco, il pubblico non mi sta capendo…”. L’ironia è un’ottima arma per collegarsi al cuore dello spettatore, anche se un pubblico silenzioso ma attento viaggia comunque insieme a te in uno spettacolo. FOTO ALBERTO BEVILACQUA

ro comunque si tratta di un rapporto di fiducia tra attore e regista, e quella più ce n’è e meglio è. Al cinema il regista ti puo’ parlare pochi secondi prima della scena, a teatro invece questo succede solo se il regista è in scena con te. È quello che accade negli spettacoli, appunto, di e con Filippo: glielo leggi negli occhi quello che ti vorrebbe dire, con lui è come fare un passo a due di danza. C’è sempre qualcosa che accade lì e solo lì. Sono cose importanti, che ti esercitano ad uscire dall’idea che hai della scena e stare lì in quel momento.

Il pubblico: una sua definizione.

Dal punto di vista dell’attrice, che scambio di potere si instaura – sia a teatro che al cinema che in TV – con il regista? E come cambia l’interpretazione di un personaggio in base allo scambio che si crea? L’attore cammina guardando in una direzione sconosciuta, oltrepassa la linea, va al largo. Alle spalle può esserci qualcuno che si fida di te, qualcuno che ti ha già parlato del luogo dove stai andando o qualcuno che ti ha suggerito la ciambella da indossare o quella da bucare... Oppure che ti ha detto che fondale vorrebbe che tu trovassi. Insomma, può esserci qualcuno che ti sa guidare o ti sa mettere nelle condizioni di andare da solo e non sai nemmeno come; di sicu-

Il pubblico ti dà molto e vede tutto. In scena si vede come sono realmente le persone anche se stanno recitando un personaggio. Non si puo’ barare. Al cinema o in TV cerco lo sguardo di chi sta sul set perché possa essere un pubblico. Non ho ancora capito come si possa ricevere energia da una macchina da presa, ma il rapporto col pubblico è comunque laterale, non frontale, rispetto al testo e alle scene.

Come vive il momento di preparazione alla scena? Di solito mi concentro su un singolo pezzetto di scena e lo provo varie volte magari cambiandolo come mi viene. Cerco di salire al piano superiore del divertimento e dell’apertura per tuffarmi.


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Fabrizio Gifuni SCRITTO SUL CORPO Nel suo modo di concepire il teatro, il corpo e la parola sono due aspetti che appaiono indissolubilmente legati? Quando penso al teatro l’evidenza del corpo è la prima cosa a cui faccio riferimento, il primo elemento della scrittura scenica. Sul palcoscenico gli attori parlano innanzi tutto attraverso il corpo, ancor prima di pronunciare le proprie battute. L’incontro tra il corpo degli spettatori e il corpo degli attori determina quello che io chiamo ‘il campo magnetico’ del teatro; se uno spettacolo

“Ho sempre avuto una forte curiosità per i mille affluenti che formano il grande fiume della lingua italiana, per i dialetti, per il corpo a corpo con questo impasto straordinario che anima la nostra lingua” non è mai identico rispetto alla replica precedente è soprattutto perché i corpi degli spettatori cambiano di sera in sera e, nell’incontro con i corpi degli attori in scena, si può determinare un considerevole cambio di temperatura dello spettacolo. Il teatro è un gioco che si fa fondamentalmente attraverso i corpi, e la voce - e quindi la parola - non è altro che l’elemento più misterioso del corpo. Orazio Costa, il grande Maestro, è stato l’uni-

co a mettere prepotentemente al centro questo tipo di discorso: la parola nasce dall’esperienza del corpo, non sono due aspetti separati. Personalmente e partendo da queste considerazioni ho cercato in questi anni di portare il mio corpo al massimo livello di impegno: non per esibirlo o per compiere un puro lavoro funambolico ma per metterlo totalmente ed integralmente al servizio del testo che volevo raccontare. Per me il corpo rimane uno degli elementi più scatenanti e liberatori del gioco teatrale.

Il corpo, dal punto di vista del lavoro dell’attore, mantiene lo stesso valore anche nel cinema? Naturalmente sì, ma l’uso che se ne fa è molto diverso perché il cinema fotografa e riprende il più delle volte delle porzioni di vita in cui il corpo viene colto in una dimensione prevalentemente naturalistica, nella cosiddetta ‘vita di tutti i giorni’. Il cinema è più attento ai dettagli, alle micro espressioni del viso, mentre in teatro il corpo viene utilizzato anche in rapporto ad una distanza. Si recita non soltanto per lo spettatore della prima fila, ma anche per chi ha pagato il biglietto nell’ultimo posto più in alto del loggione e c’è bisogno di un uso del corpo più aperto e dinamico.

Tra i suoi Maestri ci sono alcuni dei nomi più importanti del mondo del teatro e dello spettacolo: Orazio Costa, Massimo Castri, Giuseppe Bertolucci, Luca Ronconi… Tutti loro hanno vissuto e trasmesso il teatro come una necessità ed è per questo che, quando sono in scena, avverto la loro come una presenza viva. Ci sono le loro voci, le cose che mi hanno suggerito o quelle che, da registi, mi hanno imposto e per cui magari ci siamo anche scontrati affaticandoci per arrivare ad


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una comprensione reciproca… Orazio Costa è stato il Maestro dei Maestri non solo perché è stato anagraficamente e concretamente maestro di alcuni di loro ma soprattutto perché è stato l’unico ad FOTO FILIPPO MANZINI

fatto la storia del grande Teatro di Regia di questo Paese; Giuseppe Bertolucci è stato un fuoriclasse che giocava in un campionato a parte, ha attraversato lasciando un segno tanto il cinema quanto il teatro, poeta figlio di un grande poeta, regista fratello di un grande regista… un uomo dotato di una formidabile libertà interiore che si traduceva in una totale libertà artistica. Non ti dava mai un’indicazione, ma disseminava il percorso di domande e attraverso la soluzione di queste domande ti portava a trovare il tuo sentiero. Un percorso simile a quello delle pratiche dell’inconscio che lui e suo padre Attilio - e anche suo fratello Bernardo - padroneggiavano così bene.

Lehman Trilogy, di cui Lei è uno dei protagonisti, è l’ultimo spettacolo diretto da Luca Ronconi: un suo ricordo o un’emozione di questa esperienza.

“Un attore sa riconoscere con precisione millimetrica che tipo di applauso viene fuori dalla sala, nel bene e nel male” aver dedicato un’intera esistenza al tentativo di capire fino in fondo che cosa fosse davvero il mestiere dell’attore, formando intere generazioni di attori, dal dopoguerra ad oggi; Massimo Castri e Luca Ronconi, insieme a Strehler, hanno

La verità è che non dimenticherò mai niente dei tre mesi e mezzo passati accanto a Ronconi durante le prove e dopo le prime repliche di Lehman Trilogy: quando Luca entrava in sala prove o in teatro si modificava la percezione dello spazio e capivi subito di cosa si parla quando si usa la parola ‘carisma’… Sono stati mesi durissimi ed entusiasmanti. Ha messo alla prova la mia resistenza come forse nessuno aveva mai fatto ma ha ricambiato tutto questo con un affetto commovente. Ronconi è stato un gigante del teatro, lo ha rivoluzionato e scardinato, con una passione, un senso del gioco e del divertimento inesauribili.

Quale idea di potere viene raccontata nello spettacolo Lehman Trilogy? Il potere della grande finanza. Il testo di Stefano Massini e lo spettacolo


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di Ronconi raccontano plasticamente la parabola del grande capitalismo occidentale e la sua trasformazione dalla metà dell’800 al primo decennio degli anni 2000. Dall’accumulo delle merci e dei capitali fino alla smaterializzazione degli stessi soldi e alle cosiddette bolle finanziarie. È il potere che ha determinato e in buona parte continua a determinare le sorti del mondo in quest’epoca storica. È un potere forte che decide quando e dove scatenare guerre, dove e quando rovesciare governi.

film che lo spettacolo, può essere letto curiosamente anche come un lungo flashback delle vicende raccontate nel film di Virzì. Ed è davvero bizzarro che io sia stato coinvolto in tutti e due i progetti senza che ci fosse alcun legame di

“Orazio Costa è stato il Maestro del Maestri, l’unico ad aver dedicato un’intera esistenza al tentativo di capire fino in fondo che cosa fosse davvero il mestiere dell’attore”

FOTO FILIPPO MANZINI

Nel film di Virzì Il capitale umano ogni personaggio sembra vivere una particolare sfaccettatura legata al potere, sia acquisendo che subendo potere; com’è declinato il potere nel suo personaggio? Il mio personaggio ne Il Capitale umano è esattamente un prodotto dell’ultimo segmento della parabola Lehman. Da questo punto di vista il testo di Massini, per chi ha visto sia il

uno con l’altro. Il Bernaschi de Il Capitale umano mette insieme due aspetti del potere, una certa arroganza e una sorta di disperazione di chi ormai non può più fermarsi.

Un autore come Gadda, nel suo spettacolo L’ingegner Gadda va alla guerra, viene accostato a Shakespeare e diventa una sorta di Amleto novecentesco...


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nostra lingua. Inoltre ho avuto la fortuna insieme ai miei compagni di corso di frequentare l’ultimo ciclo di lezioni di Orazio Costa all’Accademia lavorando per due anni su una nuova traduzione dell’Amleto che ognuno di noi conosceva a memoria: potendoci tutti sempre esercitare su tutte le parti, sia “Il potere legato alla popolarità è un maschili che femminili… Mi è venuto naturale sovrapporre Gadda al grande potere fasullo che si scioglie come principe shakespeariano dopo diverse neve al primo raggio di sole” letture de La cognizione del dolore dove il carattere del protagonista, Gonzalo Pirobutirro, alter ego dello stesso Gadda ha dei tratti fortemente amletici: un temperamento nevrotico tendente alla nevrastenia e un rapporto complicatissimo con la madre, proprio come il Principe di Danimarca. Entrambi con una profonda coscienza della propria statura intellettuale all’interno di un mondo in disfacimento: la realtà corrotta e marcia della Danimarca per Amleto, l’Italia dei primi decenni del Novecento per Gadda. Ma soprattutto entrambi, per resistere ad un dolore atroce - l’assassinio del padre e le nozze della madre con lo zio assassino e usurpatore per uno, l’esperienza del primo conflitto mondiale e dei campi di prigionia per l’altro - sono costretti all’estremo dei ragionamenti: essere o non essere, restare al mondo o farla finita… E tutti e due reagiscono allo stesso modo: decidono di restare in vita ma simulando una forma di follia. La ‘follia’ di Gadda sarà lo scatenamento di una lingua fantasmagorica fatta di IMMAGINE CLARA BIANUCCI carne, sangue e dolore che diventerà gua italiana più incredibile che si sia la sua corazza che gli consentirà di mai ascoltata forse dai tempi di Dante. frequentare ancora il consorzio sociaHo sempre avuto una forte curiosità le. In un’edizione de La Cognizione che per i mille affluenti che formano il mi ha regalato anni fa Pietro Citati si grande fiume della lingua italiana, per trovano molti appunti preparatori in i dialetti, per il corpo a corpo con que- cui Gadda fa riferimento al carattere sto impasto straordinario che anima la di Amleto. Nel mio spettacolo spesso i Mi sono appassionato a Gadda intorno ai vent’anni grazie a Paolo Terni, grandissimo musicologo e mio insegnante di storia della musica in Accademia. Ho iniziato a leggere il Pasticciaccio e non mi sono più fermato. Nel Novecento Gadda fa esplodere la lin-


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frammenti della tragedia shakespeariana si confondono con le parole di Gadda: le invenzioni, le follie linguistiche si sovrappongono.

La popolarità è una conseguenza del suo mestiere… Quali sono gli aspetti positivi e negativi legati alla popolarità? La popolarità dà potere?

L’applauso: che momento è per un attore?

Tutto dipende da come questa popolarità è stata acquisita. SempliceUn momento liberatorio. Un attore mente la popolarità in sé non significa sa riconoscere con precisione millime- nulla e non è necessariamente una trica che tipo di applauso viene fuori conseguenza diretta del mio mestiere. dalla sala, nel bene e nel male. Per me è Anzi in quest’epoca ci sono mestieri FOTO FILIPPO MANZINI

“Ho cercato di portare il mio corpo al massimo livello di impegno: non per esibirlo o per compiere un puro lavoro funambolico ma per metterlo totalmente ed integralmente al servizio del testo”

estremamente più popolari di quello dell’attore. Quando la popolarità è legata davvero, a una ragionevole profondità, al lavoro che hai messo in campo allora è come l’applauso sincero, un ringraziamento per ciò che fai. Altrimenti scivola facilmente in una cosa abbastanza ridicola per chiunque abbia un minimo di ironia. Il potere leil momento conclusivo di un processo di gato alla popolarità è un potere fasullo condivisione col pubblico, in questo sen- che si scioglie come neve al primo raggio di sole. so è quasi sempre una festa.


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Massimo De Francovich LA FORZA DEL TEATRO Quale idea di potere racconta Lehman Trilogy, l’ultimo spettacolo diretto da Luca Ronconi? Emerge il potere religioso, in particolare ebraico, che è estremamente profondo. I tre Fratelli Lehman arrivano, a metà dell’Ottocento, negli Stati Uniti e fondano in Alabama la Lehman Brothers, un negozio di tessuti, commerciando in cotone e occupandosi anche di compravendite ed affari vari. La loro idea religiosa, l’etica che perseguono, pertiene alla sfera della religione ebraica: ne seguono tutte le clausole e i riti, mentre alla fine della loro storia da questo punto di vista non seguono più nulla. In questo senso la perdita di valori è costante ed aumenta inve-

“La perdita di valori è costante ed aumenta invece il potere economico” ce il potere economico, la speculazione, il fatto di accumulare soldi per arricchirsi con altri soldi... Perdendo le loro radici etiche e religiose acquistano altro: il potere finanziario.

Per il Maestro Ronconi questo spettacolo è stato “un percorso di conoscenza”... È vero, lo ha detto, e credo che si riferisse proprio alla coscienza di questo smarrimento etico a favore della finanza. Noi tutti siamo stati toccati, in qual-

che modo, dal fallimento dell’impero dei Lehman: non si tratta soltanto dell’America, anche l’Europa ne è stata influenzata. Noi siamo figli della stessa Storia. Il testo di Stefano Massini - l’autore della Lehman Trilogy - percorre circa 160 anni di vita americana, ma alla fine quella storia diventa anche la nostra.

Un suo ricordo di Luca Ronconi. Erano alcuni anni che non lavoravamo più insieme, dopo numerosi spettacoli in cui avevamo condiviso la stessa idea di teatro. Ho ritrovato Luca Ronconi cambiato fisicamente ma era in una forma mentale strepitosa, piena di energia, quasi più profondo e fine di un tempo. Di conseguenza mi ha molto colpito la sua scomparsa e riempito di emozione.

Lei è stato interprete di film e spettacoli tra i più belli ed emozionanti degli ultimi tempi: dal teatro con Luca Zingaretti, La torre d’avorio, al film Oscar di Paolo Sorrentino La grande bellezza... Come arriva l’ispirazione per la giusta interpretazione? È un lavoro che non si compie mai in solitudine: sia in teatro che al cinema la scelta giusta, quella vincente, è frutto di un lavoro collettivo. Tra l’attore e il regista si crea una sorta di do ut des reciproco, in qualche modo, e l’aspetto decisivo per un’interpretazione dipende molto dalla scelta dell’argomento che si deve affrontare: è la storia che ti spinge, mettendo in moto tutta una serie di accadimenti artistici e di intimi approfondimenti. Mi è capitato di interpretare anche cose davvero ironiche ed irriverenti – penso, per esempio, alla serie Boris – e credo che rimanga fondamentale, sia per fatti comici che drammatici, riuscire a coinvolgere il pubblico, a portarlo sempre dalla parte dell’attore.


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Qual è l’aspetto più difficile del mestiere di attore?

sciuto, che ogni volta è necessario riscoprire. Direi che questo dovrebbe essere Sicuramente quando si è in tour- la qualità maggiore di un attore, forse il née il fatto di dover recitare, sera dopo lavoro più complicato che gli viene dato sera, per mesi lo stesso ruolo cercando in eredità. Si tratta di una specificità tutta teatrale: al cinema si prova qualcosa, “Il teatro è la cosa che ancora, dopo poi si cambia e l’approfondimento di un tanti anni, mi piace di più. Finché personaggio si coglie a volte anche in pochi minuti. Quando si gira, non si fanno avrò energia e memoria cercherò le prove come in teatro: il tempo è molto di continuare a farlo” stretto. E poi al cinema il padrone assoluto è il regista che ha in mano la visione di tutto il film, mentre all’attore è concesso uno sguardo parziale: spesso si comincia dalla scena finale a girare un film, si lavora in maniera spezzettata.

Quindi il teatro dà potere all’attore?

FOTO FILIPPO MANZINI

Ho cominciato a fare teatro alla fine degli anni Cinquanta e già allora si parlava di crisi del teatro. Ciclicamente torna questo tema. Il teatro sembra che non conti nulla, che venga bistrattato dalla società, però alla fine continua a sopravvivere. Il teatro è la cosa che ancora, dopo tanti anni, mi piace di più. Finché avrò energia e memoria cercherò di continuare a farlo perché è la mia vita. L’attore, grazie al suo lavoro, entra in sinergia con testi diversi e compie così un’operazione culturale: si passa da Brecht a Goldoni, da Pirandello agli autori contemporanei... Il continuo contatto con questi autori è veramente stimolante e mantiene sveglio il cervello: ogni volta l’attore è costretto a scalare un muro nuovo, completamente diverso da quello che aveva lasciato in precedenza. Da La Torre d’avorio alla di mantenere sempre pronta l’interpre- Lehman Trilogy, come già detto prima, e tazione, come se fosse appena stata im- più recentemente con Il vero amico di postata. Il risultato ideale dipende dalla Goldoni, per la regia di Lorenzo Lavia concentrazione, dal desiderio e dalla dove interpreto un ‘nuovo Avaro di ricerca di porsi come se ci si trovasse ad Moliére’: il cambiamento è costante, la ogni replica davanti a qualcosa di scono- testa rimane sempre giovane.


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Massimo Popolizio SILENZIO IN SCENA Nell’ultima regia di Luca Ronconi, Lehman Trilogy, la finanza con le sue regole ha il potere di incidere sulla vita delle persone fino ad arrivare forse a cambiare il destino di tutti noi… I tre fratelli Lehman, che sono partiti nel 1857 con il sogno dell’America, seguono un’idea di accumulo ancora etica: il guadagno del denaro è attaccato alla merce come, per esempio, la produzione del cotone; si tratta di soldi legati a delle cose materiali, utili ai bisogni essenziali dei cittadini. Poi le

“A me piacciono quei personaggi che vivono un arco dell’esistenza subendo una trasformazione, anche piccola: non i cattivi o i buoni tout court ma storie con protagonisti più sfaccettati” generazioni passano, gli eredi lavorano in borsa e le merci non ci sono più. Parte la speculazione dei soldi, quindi l’accumulo di soldi per soldi, e l’acquisizione del potere avviene a seconda di una diversa interpretazione del lavoro e dell’esistenza. Probabilmente i primi fratelli Lehman - a cui appartengo come personaggio - non si muovevano seguendo il potere: è un’idea che si è sviluppata nelle generazioni successi-

ve dei Lehman che arrivano a dimenticare le proprie origini e le tradizioni. È questo il punto di partenza di certi disastri economici che sono successi e che toccano la vita di ognuno di noi: gli ultimi Lehman avevano perso anche la concezione di essere degli esseri umani perché si sentivano degli Dei, in grado di definire il destino degli uomini. I loro stipendi arrivavano oltre l’immaginabile, la situazione era arrivata ad un punto che non si poteva più concepire. I Lehman avevano perso completamente la testa. Si trovavano in cima al potere economico, costruito su basi fasulle, e sono andati incontro alla rovina: dal vertice del potere, fino alla caduta.

In scena Lei è stato anche John Gabriel Borkman, il protagonista del dramma di Ibsen, un altro personaggio che faceva un uso spregiudicato della finanza... Il legame tra questi due spettacoli è dato dall’argomento – la finanza – ma le storie e i personaggi sono molto diversi. Borkman non pensa solo all’accumulo personale della ricchezza, anzi fa parte di quella borghesia illuminata che è impegnata per raggiungere il benessere dell’umanità. Borkman lavora per riuscire ad estrarre qualcosa dal profondo della terra - il ferro e l’oro - e lo fa per inseguire il suo sogno: tramite il prodotto di questi materiali l’uomo può migliorare la sua esistenza. Un po’ com’è stato in tempi più moderni Olivetti. Borkman è un utopista, mentre i Lehman rimangono dei realisti.

Un suo pensiero, un’immagine, del Maestro Luca Ronconi. Voglio raccontarne uno legato all’ultimo spettacolo, Lehman Trilogy appunto. Ricordo un suo abbraccio in


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camerino: un abbraccio non paterno, ma da compagni di viaggio. Continuava ancora ad avere le sue braccia forti… Credo che questo contatto non lo scorderò mai.

Come si arriva alla creazione di un personaggio? La costruzione di un personaggio dipende dalla linea del regista e soprattutto se anche tu hai un’idea da portare avanti… Per quanto riguarda gli attori, non hanno più nessun potere: forse in passato lo hanno avuto, oggi invece contano poco, sia per la realizzazione di uno spettacolo che nelle decisioni artistiche. Molto più semplicemente gli attori non hanno neanche il potere sulla loro vita perché, trattandosi di un mestiere precario, sono soggetti a periodi alterni di guadagno e questo influisce inevitabilmente sulla qualità della loro esistenza. Un tempo almeno gli attori decidevano quale spettacolo fare, invece oggi la scelta non è più possibile perché sono altri a dare la direzione: per non rischiare in genere si tende a scegliere ed investire sugli stessi titoli e i soliti autori. Invece a me piacciono quei personaggi che vivono un arco dell’esistenza subendo una trasformazione, anche piccola: non i cattivi o i buoni tout court ma, come avviene di frequente nella drammaturgia contemporanea, storie con protagonisti più sfaccettati.

chi guarda e ascolta. Quando il pubblico entra in questo tipo di predisposizione e si mette in attenzione verso qualcosa che sta accadendo in scena, l’energia che

“Il teatro mette insieme varie unità sul palcoscenico, ognuna con il suo spazio, per suscitare dinamiche nuove”

Un attore come vive il rapporto con il pubblico durante uno spettacolo? L’applauso è una cosa molto bella, anche se durante uno spettacolo a me fa piacere sentire la partecipazione del pubblico attraverso il silenzio. Un attore capisce che tipo di energia suscita dalla platea ed il sentimento più forte che può arrivare dipende dall’attenzione di

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

si crea è unica. Le diverse relazioni dei personaggi che vengono rappresentati, come queste figure si muovono fra loro e gli avvenimenti che provocano: sono tutti aspetti estremamente interessanti, soprattutto quando riescono a catturare


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lo spettatore. Il teatro mette insieme varie unità sul palcoscenico, ognuna con il suo spazio, per suscitare dinamiche nuove all’interno di un testo. Del resto la paura di affrontare il palcoscenico cresce con gli anni, andando avanti con questo mestiere non diminuisce e quindi per esorcizzarla io mi preparo molto: FOTO FILIPPO MANZINI

analizzo l’opera, studio, prendo tutte le informazioni sui personaggi e sulle situazioni che devono essere rappresentate. Importante è studiare la struttura: capire bene come sono scritte le battute, il modo in cui sono divise. Credo che un copione, tutto sommato, sia anche un fattore matematico.


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Ricordando Luca Ronconi

Addio Maestro... un pensiero di Stefano Massini

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icordare Luca Ronconi è parlare di figure talmente grandi, che diventa quasi difficile scegliere un ricordo… Io devo tutto a Luca Ronconi. Ho cominciato come assistente di Ronconi circa 15 anni fa. Per me fu un’esperienza fondamentale: collaborare con lui significava rendersi conto di quanto un tipo di teatro, completamente diverso da quello che avevo sempre visto, fosse possibile. Per la prima volta avevo a che fare con un teatro grande ed importante, dove le idee non scendevano a compromessi con le risorse, ma anzi si potevano liberare in chiave progettuale seguendo un uomo che aveva in testa un ‘sistema-teatro’. I grande Maestri come Luca Ronconi non hanno in mente uno spettacolo, piuttosto la loro è una messa in scena di un’idea di teatro della quale poi gli spettacoli sono figli. In questi anni Luca Ronconi mi ha insegnato il teatro inteso come percorso di conoscenza ovvero come un sistema in grado di dare allo spettatore nuovi codici per comprendere e stare nella realtà. Alla fine dello spettacolo il pubblico doveva uscire dal teatro migliore di quando ci era entrato, diventando capace di indagare nuove forme di analisi del reale. Ecco perché a volte si dice: “Ronconi amava molto il teatro della scienza o il teatro dell’economia”; in realtà è che tutto per lui obbediva all’idea radicale di un teatro che può permettersi di non regalare al pubblico un semplice svago. Inoltre Luca Ronconi possedeva una straordinaria fantasia creativa, con una grande capacità di giocare – e sottolineo giocare – con la scena: nel suo teatro si immaginano soluzioni, si vedono possibilità di relazioni tra attori, che vanno oltre gli schemi del teatro stesso. Perfino dal punto di vista drammaturgico, Ronconi è stato in grado di rompere il testo come sequenza di battute. Ha portato in scena dei materiali letterari che apparentemente non erano teatrali, ma che nelle sue mani dimostravano di esserlo. Sentivi che lavorando con lui tutto diventava possibile – Ronconi, per esempio, avrebbe potuto mettere in scena perfino l’elenco telefonico! – perché aveva la capacità di andare alla radice delle cose e trasformarle in materiale che potesse servire al pubblico.


Ai bambini delle scuole elementari fu chiesto: «Cosa faresti, se tu avessi il potere assoluto nel paese?» Le risposte più frequenti furono: darei casa ai poveri, farei pulire le strade, eliminerei i politici corrotti, pianterei più alberi. Il potere ai bambini, allora!

Tiziano Terzani


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POTERE DI PAROLE TRAGEDIE DI POTERE Quattro volti del potere di apparire Vivi per essere la meraviglia e l’ammirazione del tuo tempo (William Shakespeare, Macbeth)


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Giovan Carlo de’Medici principe e impresario Prima di perfezionarsi il Teatro della Commedia che fo alzare in questa città di Riccardo Ventrella

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el potere odierno si dice che non sia troppo attento alle questioni che riguardano la cultura, e men che meno agli edifici che la contengono e la promulgano. Vi fu però un periodo assai più lieto, per certi versi, di quello odierno durante il quale il potere si rispecchiava proprio nei manufatti culturali, ordinati secondo un cangiante sistema di priorità. Dal Cinquecento in poi i teatri acquisirono in questa cosmologia tassonomica dell’esibizione del potere attraverso la cultura un posto particolare e in costante crescita. Non c’era famiglia governante che non volesse adornarsi di un teatro, preferibilmente di corte e individuato dunque nel palazzo del potere; oppure collocato al di fuori, nel tessuto urbano. In questo curioso intreccio, nella città di Firenze spicca la figura di Giovan Carlo de’ Medici, figlio secondogenito maschio del Granduca Cosimo II e di Maria “Non c’era famiglia governante che Maddalena d’Austria. Mentre il fratelnon volesse adornarsi di un teatro” lo Ferdinando II veniva avviato ai fasti del Granducato, Giovan Carlo pareva destinato alla carriera militare, obiettivo ben presto virato verso l’ottenimento della veste cardinalizia, stesso percorso seguito dal fratello Leopoldo mentre Mattias compì esattamente il tragitto inverso. I tre fratelli, indipendentemente dalle loro “professioni” ufficiali, furono però grandi amanti delle scienze, delle arti e soprattutto del teatro. Si trovarono, soprattutto Giovan Carlo, in quello straordinario crocevia che fece di Firenze la culla dell’allora nascente dramma in musica. Non molti anni prima in via de’ Benci, nel palazzo Bardi, l’omonima Camerata aveva elaborato gli stilemi del recitar cantando, quel “Giovan Carlo si spese per tutta cadenzare la parlata corrente per adattarla al canto che rappresentò il primo la vita per facilitare le attività sorgere del melodramma. In Firenze le di spettacolo del tempo” applicazioni furono particolarmente fiorenti, soprattutto nell’ambiente della corte che si avvaleva del Teatro degli Uffizi, e Giovan Carlo fu iniziato presto a quel piacere che per lui rappresentò poi una vera e propria occupazione. Mentre la Commedia dell’Arte dava i suoi frutti più maturi, e iniziava a trovare anche


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fisse basi in teatri in muratura, il melodramma cercava spazi nuovi. Il problema dell’edificio-teatro si poneva in maniera sempre più evidente, e Giovan Carlo con instancabili relazioni epistolari si spese per tutta la vita nel facilitare le attività di spettacolo del tempo. Già protettore della Compagnia dei Concordi, che dava i propri spettacoli in uno standone di Via del Cocomero (oggi Ricasoli, dove sorge il Teatro Niccolini), fu dalla parte dei neonati Immobili quando i Concordi non furono più concordi e si scissero in due diverse Accademie. Usò la propria influenza per farsi dare un terreno sul quale sorgeva un fabbricato industriale in disuso, un tiratolo dell’Arte della Lana vittima del crollo del predominio fiorentino su quel mercato e sito nella zona ove i tiratori abbondavano, tra le odierne vie Bufalini, del Castellaccio, degli Alfani e della Pergola. Mandò il suo architetto di fiducia, il Tacca che era poi uno scultore, in giro per i teatri del nord a saggiarne le forme, e quando egli fu di ritorno gli commissionò uno “stanzone” come non se ne erano mai visti, circondato da ordini di palchi sovrapposti. La storia successiva quasi tutti la conoscono: si codificò così la forma del “teatro all’italiana”, o a palchi sovrapporti per l’appunto, in quella che si chiamò e da allora si chiama la Pergola. Il potere ebbe il potere di far nascere un teatro. Vero è che il buon Cardinale si dimenticò di alcuni dettagli, per esempio di bene definire con l’Arte della Lana la natura della cessione di quel tiratoio; e quando vinte dagli eccessi nel mangiare e nel bere ad esser tirate furono le cuoia di Giovan Carlo, nel gennaio del 1663, ebbe inizio una lunga battaglia legale che impegnò per diversi anni gli Immobili. Questo, come l’aver lasciato centotrentacinquemila euro di scudi di debito alla morte, non offusca certo la buona memoria che si deve avere del Cardinale, che fu oltre che un botanico, anche un importantissimo conoscitore d’arte. Acquistò moltissime opere di contemporanei per la collezione medicea e anzi, può essere considerato come il vero iniziatore della vocazione museale della dinastia tra Galleria Palatina di Palazzo Pitti e Uffizi. Il fratello Mattias gli sopravviverà quattro anni, vinto dalla gotta, mentre Leopoldo morirà improvvisamente nel 1675. Ferdinando II era invece spirato nel 1670, per un ictus causato dall’idropisia della quale soffriva (non eran gente in salute, questi Medici). Con il suo successore Cosimo III la dinastia entrò decisamente in crisi: si sarebbe estinta insieme a parte della grandezza di Firenze con Gian Gastone nel 1737. Ma ricorderemo sempre Giovan Carlo per il gesto di aver dato alle mura della Pergola un significato imperituro.

Ritratto del cardinale Giovan Carlo de’ Medici, Galleria Palatina, Firenze


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I Campione dell’Italia siamo noi Viaggio al termine della famiglia con Gli Omini di Matteo Brighenti

FOTO DARIO GAROFALO

Francesca Sarteanesi, Francesco Rotelli, Luca Zacchini

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ar presente il presente. L’infinito de Gli Omini è fatto di strade, mercati, bar. Prima che la realtà sia scena e la gente diventi pubblico. Nessuna idea preconfezionata o verità da esportare: guardano e ascoltano la vita vera. Oggi suoniamo pericolosamente vecchi.

“Adesso è il passato – riflette l’Omino Luca Zacchini – questa è l’aria che si respira in giro.” Del resto, il campione delle famiglie, La famiglia Campione, ruota attorno a un’atmosfera indietro nel tempo di chissà quanti anni. Lo spettacolo è il risultato più recente dell’indagine socio-umanistica che la compagnia toscana porta avanti da quando è nata, nel 2006, e torna alla Pergola (19-22 maggio 2015) dopo l’anteprima dell’anno scorso e la vittoria del Premio Franco Enriquez 2014 per l’innovazione teatrale e l’impegno sociale applicato alla scena. Al momento, Gli Omini sono, oltre a Luca Zacchini, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Giulia Zacchini, mentre Riccardo Goretti è uscito dal gruppo a fine 2011. L’obiettivo, da sempre, è far ridere, su qualsiasi argomento, senza remore. “Stiamo in un paese una settimana, dieci giorni, per cercare di capire chi ci ospita – spiega l’Omino – poi mettiamo in scena un’istantanea, a tinte più o meno forti, che nasce e muore in una sera. Tutto parte dal posto, insieme alla gente.”


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Il senso della loro visione viene dalla selezione e dal montaggio: la riflessione è demandata agli spettatori, il perché, di chi e cosa hanno riso. Per La famiglia Campione Gli Omini si sono dati un tema specifico: capire come viviamo, in famiglia, la famiglia. Cominciano così diverse indagini e svariati laboratori, un progetto che ha coinvolto cinque comuni della provincia fiorentina e più di 80 giovani. “Volevamo raccontare una famiglia in particolare – precisa Luca Zacchini – aperta, quasi spaccata, un ex marito, un nuovo compagno, i nonni che vivono in casa con i figli dell’ex marito e del nuovo compagno. Alcuni aspetti in particolare ci riguardano in prima persona, i nostri genitori ci si sono riconosciuti, ma non ne fanno un dramma nella vita e non l’hanno fatto nemmeno dopo aver visto “La realtà ti cambia, tanto lo spettacolo.” I Campione sono tre gequanto se la racconti” nerazioni, nonni, genitori e figli, nove personaggi interpretati da Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini, più la giovane Bianca (Giulia Zacchini) che ha messo una porta fra sé, la casa e la famiglia: si è chiusa in bagno e non intende uscire. “Ai Campione interessa solo che mangi – afferma l’Omino – nessuno si chiede quale possa essere il suo problema né quindi riesce a capirlo.” Bastano piccoli accorgimenti, un vestito, una postura, un tono di voce diverso e Gli Omini tratteggiano per sommi caratteri un quadretto familiare di provincia che non ha occhi per vedere a che punto è arrivato il suo disastro. “Le cose non vanno bene e se la rifanno l’uno con l’altro, non con se stessi – ammette Luca Zacchini – per noi è un modo per testimoniare la mancanza di curiosità che registriamo nelle nostre interviste. Ne La famiglia Campione le persone si dovrebbero voler bene o almeno conoscersi e invece il disinteresse è lampante, figuriamoci cosa “Il potere è l’arroganza di succede tra estranei.”

se la vivi,

una gerarchia in scala, non c’è violenza perché sono tutti vinti e arresi, ma c’è comunque un più forte e un più debole”

Il potere è l’arroganza di una gerarchia in scala, non c’è violenza perché sono tutti vinti e arresi, ma c’è comunque un più forte e un più debole. Si parlano a colpi di sarcasmo, come si schiaffeggia qualcuno per capire se è svenuto, con un dialetto toscano che sa di pranzo che si raffredda con il passare delle generazioni, a favore dell’italiano sgangherato dei giovani. La realtà ti cambia, tanto se la vivi, quanto se la racconti.

“Agli inizi avevamo un taglio più disincantato – riflette l’Omino – a forza di stare a contatto con le persone il cinismo, forse, ha lasciato spazio a un’amarezza di fondo. Siamo diventati sicuramente più umani, non per questo meno cattivi.” Anche con Bianca, la più in gamba e fragile dei Campione. “L’ottimismo è relegato in bagno – conclude Luca Zacchini – la speranza de La famiglia Campione si è barricata là dentro da una settimana.” E chi visse sperando sappiamo tutti che fine ha fatto.


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Teatro contropotere Vita, scelta e fatiche di essere Archivio Zeta

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i sale in montagna quando la pianura è irrespirabile. Lassù, sul Passo della Futa, nell’Appennino fra Toscana ed Emilia-Romagna, i registi e attori Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, la compagnia Archivio Zeta, hanno costruito la resistenza del loro fare teatro. “Nel 2002 abbiamo scoperto il Cimitero Militare Germanico della Futa – racconta Gianluca Guidotti – un imponente monumento a cielo aperto che raccoglie i caduti tedeschi della Seconda Guerra Mondiale morti sulla Linea Gotica e si estende a mille metri di altitudine IMMAGINE DALILA CHESSA per circa 36.000 lapidi. Solo lì, affidandoci ad assonanze con la nostra memoria storica, potevamo mettere in scena la guerra de I persiani di Eschilo.” Il tragico ateniese aveva partecipato a quel conflitto: in un cimitero quel testo ha ritrovato la sua forza originaria.

“Il teatro è il nostro modo di fare politica, le nostre parole sono politiche. Politica intesa come recupero delle nostre radici nel passato”

“Il teatro è il nostro modo di fare politica – interviene Enrica Sangiovanni – le nostre parole sono politiche.” Politica intesa come recupero delle nostre radici nel passato. Archivio Zeta, infatti, persegue con ostinazione un lavoro culturale sulla militanza dell’archivio: gli oppositori al regime dei colonnelli in Grecia scrivevano sui muri Zeta – è vivo quando uno di loro veniva ucciso.

Il passato, da un punto di vista teatrale, è proprio la tragedia greca. “Abbiamo iniziato dall’inizio – precisa Guidotti – più che di tragedia greca in generale, però, parlerei di un avvicinamento a Eschilo. Ci interessava il modo in cui affronta il potere o, meglio, il dominio. In Eschilo abbiamo trovato tutte le situazioni in cui un uomo domina o viene dominato.” “Poi le abbiamo rintracciate in Sofocle, Ibsen, Bernhard, Kraus – prosegue Sangiovanni – a noi piace frugare negli autori che si occupano di sopraffazione.”


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Allievi di Luca Ronconi, nel 1999 smettono di lavorare con il maestro perché sentono, fortissima, l’urgenza di trovare la loro strada. Nasce Archivio Zeta. In seguito, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet li aiutano ad avere un’attenzione per i luoghi inesplorati, a concepire un teatro quasi cinematografico. “La comunicazione è diretta e immediata – afferma Guidotti – un lavoro di artigianato sulla parola e la lingua italiana che approfondiamo facendo dei laboratori, per ritrovare la misura di ciò che abbiamo perso.” Quasi una scuola di democrazia, fondata però su testi che rappresentano potere, sottomissione, manipolazione: il teatro di Archivio Zeta è allora un atto di svelamento, mostra cosa può succedere se non siamo cittadini attivi, costruttori di comunità. “Penso che questa fosse la funzione del teatro quando è nato nella democrazia ateniese – ragiona Guidotti – l’estate scorsa al Festival di Volterra, grazie ad Armando Punzo, abbiamo portato un progetto che si chiama Logos: la radice ‘leg’ significa proprio ‘legare’. Abbiamo cercato di unire attraverso le parole la città franata per le grandi piogge invernali, ma anche, simbolicamente, il senso civile e civico.” Nel 2014 vincono il Premio Rete Critica per la miglior progettualità, per aver raccontato “il lato oscuro della condizione umana con un impegno e una tenacia capaci di radicarsi, coinvolgere e rinnovarsi”. Una scelta pagata sulla propria pelle. “Quel Premio è un riconoscimento a un modo anarchico di trattare con l’establishment teatrale – conclude Guidotti – dai nostri maestri non abbiamo ricevuto alcun aiuto, produzioni e spazi li abbiamo dovuti trovare da soli, tra mille difficoltà. E pur essendo riconosciuti dalla Regione Toscana, a Firenze non siamo ancora riusciti a portare un nostro spettacolo.”

FOTO FRANCO GUARDASCIONE

Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti ne Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus La radicalità di Archivio Zeta non è un’etichetta e il potere è un’osses-

sione artistica perché l’hanno subito e lo subiscono tuttora. Così, il prossimo progetto è rappresentare, a episodi, Il Pilade di Pasolini, sul rapporto del cittadino con il potere che governa, quindi con la democrazia. Il debutto, significativamente, il 25 aprile al Parco storico di Monte Sole, Marzabotto, provincia di Bologna, nei luoghi dell’eccidio nazista del 1944. (M.B.)


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L’orchidea nera Doris Duranti, oscuro potere della seduzione

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l divismo nel cinema dell’epoca fascista ha pochi eguali nella storia del cinema italiano. Soprattutto quello femminile fu prorompente, perché legato a esplosioni di sensualità prima sconosciute nell’Italia bacchettona e che le vestali del muto, dalla Bertini alla Borelli, avevano solo lasciato intravedere. Fu un divismo oscuro, quello femminile, perché spesso legato a doppio filo col regime, e per questo spazzato via dopo la guerra.

La bella livornese Doris Duranti ne fu parte meravigliosamente integrante. Nata in una famiglia benestante composta da un padre anarchico e antifascista e da una madre bigotta, ruba a quest’ultima i soldi per assistere allo spettacolo di Josephine Baker. Esce da teatro convinta che quella del palcoscenico sarà la sua vita, e l’agente Besozzi la invita presto a mandare alcune foto a Cinecittà. Doris non passa inosservata e viene chiamata a Roma per un provino: fugge nuovamente di casa, dopo aver rubato i soldi alla vecchia zia aprendo un cassetto con un ferro da calza e aver detto alla madre di doversi recare “Fu un divismo oscuro, quello in chiesa. Comincia da lì un’avventura femminile, perché spesso legato a che la porterà ad interpretare il ruolo della donna fatale in film come Cavalleria doppio filo col regime, e per questo rusticana di Amleto Palermi, Sentinelle in spazzato via dopo la guerra” bronzo di Romolo Marcellini, lo sciatorio Amazzoni bianche di Gennaro Righelli dove appare anche l’altra dea oscura del cinema fascista, Luisa Ferida, e Aldebaran del maestro Alessandro Blasetti, forse la sua prima apparizione degna di nota. Nel 1941 gira con Mario Bonnard Il re si diverte, ovvero il dramma di Hugo cui Piave si ispirò per il libretto del Rigoletto. Pur non essendo la protagonista, ruolo affidato a Maria Mercader futura moglie di Vittorio De Sica, si fa notare per una conturbante scena danzante. A notarla è soprattutto uno degli uomini forti del regime, Alessandro Pavolini, allora titolare del dicastero della Cultura Popolare. Fu un amore travolgente, assolutamente malvisto da Mussolini che però, con l’ombra di Claretta Petacci dietro la tenda, non ebbe mai troppi argomenti per far desistere il proprio gerarca. La carriera della Duranti procede sempre più spedita e sempre più ardita: dal bellico Giarabub di Alessandrini passa al ruolo della Contessa di Castiglione nell’omonimo di Calzavara che la dirigerà anche in Carmela, pellicola celebre perché la Duranti vi appare a seno nudo, in risposta all’analogo topless della rivale Clara Calamai nella Cena delle beffe di Blasetti.


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Le sorti della guerra volgono però al peggio e dopo il 25 luglio Pavolini deve riparare in Germania per rientrare solo dopo l’8 settembre 1943 per diventare sostanzialmente il numero due della Repubblica di Salò. Il cinema subisce continue battute di arresto: fallisce il tentativo di fare di Venezia una nuova Cinecittà e anzi la Duranti viene addirittura imprigionata dalle SS dopo essere stata scambiata per ebrea. Nei convulsi giorni di fine aprile 1945, che porteranno alla fucilazione di Pavolini, la Duranti riesce a riparare fortunosamente in Svizzera proprio grazie ai buoni uffici del gerarca: viene a conoscenza della sua morte solo alcuni giorni dopo. Tenta il suicidio, ed è salvata per il rotto della cuffia dalle suore. Per evitare noie diventa cittadina svizzera grazie al matrimonio d’interesse col proprietario di un cinema di Chiasso, tal Pagani, dal quale divorzia in breve tempo. Il cinema italiano non ha, ormai, più molte parti da offrirle: è allora che incontra il radiocronista Mario Ferretti, quello dell’uomo solo al comando riferito a Fausto Coppi. I due si trasferiscono a Santo Domingo, dove la Duranti rimane anche dopo la fine della relazione. Come l’antica rivale Clara Calamai in Profondo rosso, fa un’ultima apparizione sullo schermo nell’anno 1975 in Divina creatura di Peppino Patroni Griffi. Muore vent’anni più tardi, nel 1995, quasi dimenticata da tutti. Fece in tempo a vedersi raffigurata in una miniserie televisiva non eccelsa, realizzata da Alfredo Giannetti, nella quale era impersonata da Elide Melli. Ebbe come compagnia negli ultimi tempi solo tre cani e una schiera di domestici. Aveva fatto inchinare gerarchi e miliardari, ma volle una semplice lapide con la scritta Qui giace Doris Duranti, attrice, che ha molto goduto, sofferto, riso, pianto. (R.V.)

Doris Duranti


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Jeremy Irons AFFERRANDO LA VITA

“What I try to do, as an actor, is to explore, constantly, to find the risk and chances to fall even slamming my face if it’s worth it. Then maybe I get to be surprised by myself.” These are your own words. I would like to take the credit for all the characters that I played but I can’t, I’m just an actor. I have a script that I fol-

“Quello che cerco di fare come attore è di scoprire costantemente, di trovare modi di rischiare, di trovare opportunità di cadere, anche sbattendo la faccia se ne vale la pena, e poi forse arrivo a sorprendermi di me stesso”: sono parole sue. Mi piacerebbe arrogarmi il merito per tutti i ruoli che ho interpretato, ma non posso: sono un attore e seguo una sceneggiatura, mi immergo in una storia che però non è stata creata da me. Quello che faccio, in verità, è molto simile a ciò che fanno i bambini: mi immagino le cose e gioco. Fantastico di essere un individuo diverso, di trovarmi in un luogo nuovo e anche in un altro tempo. Allora cerco di diventare quella persona e di vedere il mondo attraverso i suoi occhi, di amare le stesse cose, di vivere come lei. Un attore deve arrivare ad una purezza che può raggiungere soltanto attraverso un grande lavoro interiore. Devi concentrarti su te stesso, trovare l’immediatezza e la semplicità che stanno alla radice di ognuno di noi. È una tecnica che deve essere appresa: la tecnica di aprire se stessi a emozioni, pensieri e persone reali, non a persone recitanti... Io odio recitare. Penso che quello che faccio alla fine sia molto semplice: io interpreto, sperando di portare un qualcosa in più a ciò che è già stato scritto. Noi attori aspiriamo tutti ad essere talmente dentro al ruolo, dentro al personaggio, da diventare e reagire come quella data persona senza nemmeno pensarci. Guidati dall’immaginazione, il corpo segue.

I suoi personaggi appaiono molto diversi gli uni dagli altri; come si arriva alla scelta di un ruolo? Nel corso della mia carriera ho interpretato molteplici ruoli. Mi annoio


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low and that give me the route into the story. That script is written by another mind. What I do is what every child does: I imagine I play. I imagine myself into a different person, into a different place, into a different time and I try to become that person, to see the world from the perception of that person, to like things like that person, to live like that person. An actor has to get through to that simplicity and you can get there just through a work within yourself. So you have to avoid all of that, you’re inside yourself and you must find the simplicity and the immediacy that lies at the root of each of us. It’s a technique that has to be learnt: the technique to open yourself to a real emotion, a real thou-

facilmente e ricerco il cambiamento, non mi interessa seguire orme già prestabilite. Quando mi arriva un copione, deve emozionarmi e magari spaventarmi, essere una sfida o costituire un rischio. Certo, ci sono ruoli che accetto per denaro e perchè ti danno potere; ho bisogno di quei soldi per realizzare altri progetti, in cui magari non c’è un

“Per i personaggi che interpreto trovo corde diverse che sono tutte in me, suoni e armonie differenti. Sperimento con esse ogni parte del personaggio nella sua pluralità, anzi ricerco il contrasto”

Jeremy Irons e Giuseppe Tornatore al Lucca Film Festival ght, real person, not an acting person…I hate acting. So I think what I do is very simple: I’m interpreting and hopefully adding to what has been written. What we hope will happen when we’re acting is that you are so inside a character that your body reacts truly without your knowledge. Imagining ourselves into that reality, our body will follow.

grosso guadagno, ma che mi stanno veramente a cuore. In fin dei conti sono una ‘prostituta’, nel senso che do me stesso in cambio di denaro. Ho passato sei anni ristrutturando una torre medievale in Irlanda perché era un progetto che mi affascinava e che pensavo fosse un rischio. La mia vita non è solo recitare: è vita, l’unica che ho. Il mio de-


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Your characters look pretty different from each other; how do you choose a role? In my career I’ve played many roles. I am easily bored and I seek the change, I’m not interested in putting my foot into a footprint that has already been done. When I get a story, it has to have

IMMAGINE CLARA BIANUCCI

something that excites me, which maybe worries me, it has to be a challenge, I try to make a risk. Now there are roles, which I take for money and for the influence they give me because I need those money to do a project, which doesn’t pay so much but which is much more interesting. I am after all a ‘prostitute’; I give myself to those who give me money. I spent six years doing up a

siderio di afferrarla in tutta la sua interezza e la volontà di non fare ciò che ho già fatto, mi hanno permesso di avere una carriera valida e di questo sono profondamente grato.

Alcuni dei ruoli che ha interpretato sono duri ed inflessibili, altri più vulnerabili. Quali toccano maggiormente la sua sensibilità? Quando penso ad un ruolo, mi viene in mente un calendario dell’Avvento fatto a forma di casa con tante finestrelle. A seconda della storia e a seconda del personaggio, è necessario aprire certe finestre: a volte tutte, altre soltanto alcune... Ciò che è all’interno di quella casa sono io con la mia identità. Potrei anche essere descritto come un pianoforte: per i personaggi che interpreto trovo corde diverse che sono tutte in me, suoni e armonie differenti. Sperimento con esse ogni parte del personaggio nella sua pluralità, anzi ricerco il contrasto. Sono come una serie di accordi declinati: ora in maggiore, ora in minore, ma alla fine è sempre la stessa famiglia di accordi, è la musica di Jeremy... La vera natura di ogni personaggio è percepita dal pubblico che lo sta ascoltando, mentre lui - il personaggio – in quel momento non conosce altra realtà al di fuori della propria: per esempio, un personaggio cattivo non sa di essere malvagio e pensa di comportarsi bene perché è tutto ciò che conosce. Nella vita vera a volte mi sorprendo a guardare gli altri e pensare: “Che cosa starà provando davvero quella persona? Cosa starà pensando?”. Non ne ho idea, lo posso solo immaginare. Ogni tanto lo sguardo nei volti di quegli individui mi fa percepire qualcosa, ma rimane soltanto una sensazione. Per arrivare a ricreare sulla scena quelle emozioni uniche, devo ricorrere al mio pianoforte e attingere alle mie corde.


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medieval tower in Ireland because that was a project that excited me and that I thought it was a risk. My life isn’t just acting, is life, the only one I’m going to get. For that attitude of grasping life, of not wanting to do what I’ve done before, has enable me to have a fairly valid career and for that I’m deeply thankful.

Some of the roles that you have played are severe and steely, others vulnerable. Which of them mostly touch your sensibility? I often think of a role as to an Advent calendar, you have the house with all the windows. Depending on the story and on the character, you will open some of those windows: sometimes all of them, some others just two or three. What is inside that house is me with my identity. I could be described as a Grand Piano: for the characters that I play I will find different strings, they’re all inside me, different sounds and different harmonies. I will experiment with them every aspect of the character in its own plurality enjoying the contrast. I’m made up of different chords: mayor, minor but basically that’s the sound Jeremy makes… The reality of every character is perceived by the listener while it – the character – in that moment, doesn’t know any other reality outside of its own: if a character is evil and selfish, he doesn’t know to be like this and thinks to behave because that’s everything he knows. In real life, I sometimes look at other people and ask to myself: ‘what does it feel to be like you? What are you thinking about?’ I have really no idea. I can only imagine. Sometimes that look in their faces can make me feel something, but it’s a guess. To reach on the scene those emotions I have to appeal to my piano and draw on my own strings.

“Un attore deve arrivare ad una purezza che può raggiungere soltanto attraverso un grande lavoro interiore. È una tecnica che deve essere appresa: la tecnica di aprire se stessi a emozioni, pensieri e persone reali, non a persone recitanti...”


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Dal diario di una teatrante...

L’emozione di un incontro di Simona Mammoli

IMMAGINE DALILA CHESSA

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on ricordo esattamente come e quando sia successo ma, da quel momento, tutto é cambiato. Una sorta di fede cieca mi ha attratto quasi incosciente in questo luogo chiamato teatro, in quest’ombelico magnetico dove la follia creativa è realtà. Quell’emozione che ancora oggi non so spiegare è il potere del teatro. È stato Amore. All’inizio non si conosce il potere dell’amore, non si sa cosa ci piace, cosa è stato a farci innamorare. L’unica cosa che possiamo fare è lasciarsi trasportare da questa emozione, assecondarne il bisogno. Il teatro è il luogo dove tutto può succedere, tutto può essere detto, il luogo della vita e della morte, il luogo dell’anima, del riso, del pianto, dell’incontro con se stessi, con gli altri e con il mondo. È un potere legato alla vita, alla sua mimesi, all’esistenza stessa dell’uomo, un potere che non ha confini spazio temporali, imprescindibile da qualsiasi volontà, da qualsiasi coscienza o raziocinio. Più cerco di trovare una definizione che ne racchiuda il senso, un insieme finito di parole, più mi rendo conto di quanto esso invece sia una moltitudine di vocabolari. La forza del teatro è la forza catartica che ha sulle menti e sugli animi, un potere fatto non solo di sensazioni ed emozioni, ma soprattutto di fragili e delicati equilibri tra le persone, il luogo e i suoi abitanti. Un mondo di rapporti, esistenze, accadimenti. La quotidiana rappresentazione del teatrino delle nostre vite che ogni volta che si apre il sipario affascina e inebria lo spettatore esso stesso ignaro protagonista di questa farsa. Come una scatola viva che protegge tutto quello che tiene dentro, il teatro sa cosa e chi deve proteggere, sceglie chi accogliere e chi no, ordina e comanda il mestiere dei tecnici che con antica e sapiente maestria assecondano ciò che il genius loci vuole. Suggerisce e sussurra all’orecchio di chi dirige, ciò che serve, ciò che deve essere fatto. Nessuno decide in teatro, se non il teatro stesso. Come un unico fluire di anime, emozioni, intenzioni. Un potere oltre il consueto concetto di potere, un potere che non può essere controllato, un continuo flusso in divenire da centinaia di anni. Il luogo dell’eterno vivere e mutare.


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Dalle sale ballo del Teatro della Pergola

Il deserto dei Tartari di Andrea Macaluso

La lettura teatralizzata de Il deserto dei Tartari per la regia di Andrea Macaluso fa parte della rassegna Il teatro a puntate

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otere come gerarchia, come fondamento di un sistema rigidamente strutturato, come forza cieca e ottusa che crea un mondo dove vigono regole ferree e assurde. Potere come possibilità, come illusione dell’uomo di decidere le sorti della propria esistenza, di inseguire il miraggio dell’eroismo, di condannare se stessi ad una vita inutile. La parola Potere non compare mai ne Il deserto dei Tartari, ma è evidente che questo straordinario romanzo di Dino Buzzati, uno dei più affascinanti e misteriosi capolavori della nostra letteratura, sia anche, al di là di tutto, una profonda riflessione sul potere e le implicazioni che esso ha sulla vita dell’uomo. Leggere ad alta voce tutto il Il deserto dei Tartari, dalla prima all’ultima parola, è un’esperienza unica. Per chi legge e per chi ascolta. Il testo, incarnandosi nelle voci degli attori, si fa vivo, tagliente, a tratti feroce. La narrazione viaggia sotto pelle, ad un livello più profondo: il racconto diventa impietoso specchio dell’esperienza personale di ciascuno e la tragicomica vicenda di Giovanni Drogo si rivela un lungo apologo che riguarda tutti, in prima persona. Per gli attori è un corpo a corpo con una parola spietata, che chiede un confronto con il proprio vissuto e non ammette scorciatoie interpretative. Per tutti è una sfida a guardarsi dentro, a porsi di fronte agli interrogativi fondamentali della vita e della morte, certi che non ci saranno risposte.


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Appunti di un Professore...

Un legame indissolubile di Renzo Guardenti

FOTO FILIPPO MANZINI

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eatro e potere: un legame indissolubile, al punto da costituire, nelle sue molteplici declinazioni, uno dei fili rossi che compongono la trama, neanche troppo segreta, della storia dello spettacolo dalle origini fino ai nostri giorni. Basti pensare alle grandi stagioni della drammaturgia, i cui protagonisti si sono trovati al centro di irresolubili conflitti di potere: Antigone per esempio, che da questo punto di vista non solo è sicuramente rappresentativa dell’intera parabola del teatro greco, ma è addirittura capace di ripresentarsi con una dirompente carica di attualità anche in produzioni novecentesche come quelle di Anouilh e Brecht; oppure le gigantesche e tragiche figure shakespeariane di Macbeth e Riccardo III; o ancora il Wallenstein schilleriano, o l’Amleto d e l l ’ H a m l e t m aschine di Heiner Müller, fino a giungere ai protagonisti di tragedie vere e recenti, come Anna Politkosvkaja. E l’elenco potrebbe continuare. Ma il rapporto tra teatro e potere si articola anche in altre forme: le arti della scena diventano, come nella Firenze medicea, l’occasione per la messa a punto di sofisticati sistemi di rinvii simbolici e allegorici destinati a celebrare le élites aristocratiche che negli spettacoli si rispecchiavano secondo un meccanismo, è stato detto, di autocontemplazione indotta; oppure ancora è il potere politico che si fa promotore delle attività teatrali, finanziando le produzioni, regolando gli organici delle compagnie, determinando in varia misura il repertorio, come nel caso della Comédie-Française, che per volontà di Luigi XIV divenne il primo teatro di Stato al mondo.


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La Storia racconta...

Lo spettacolo del Principe di Adela Gjata

Bernando Buontalenti, L’inferno, (IV intermezzo de La Pellegrina), 1589

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o sviluppo civile ed economico di un paese, è noto, va di pari passo con il progresso della cultura e delle arti. Una delle civiltà che ha maggiormente intuito lo strategico nesso tra il potere e la grandiosità spettacolare, è stata quella medicea. Non potendo competere con le grandi monarchie europee come potenza militare, estensione territoriale e vivacità commerciale, la Toscana si riserva una posizione di predominio nel settore delle arti e dello spettacolo, oltre che nella spregiudicata applicazione di questi a fini di potere. Nell’età laurenziana e soprattutto in quella granducale il teatro raggiunge una fioritura straordinaria, procurando a Firenze e alla dinastia tanto il consenso necessario del popolo quanto il prestigio internazionale. Il primato tecnico e la magnificenza degli spettacoli fungono da cassa di risonanza della grandezza del principe, le cui modalità non differiscono molto da quelle moderne di manipolazione del consenso. Durante la reggenza di Lorenzo il Magnifico il vuoto di ogni attività democratica è colmato dallo stordimento spettacolare; nei secoli a seguire l’uso encomiastico del teatro si fa largo in diverse corti straniere, soprattutto nella Francia di Maria de’ Medici, sposa di Enrico IV nel 1600 e madre del futuro Luigi XIII. Tra il Quattrocento e il Seicento la corte medicea diviene fulcro di ogni manifestazione pubblica che raccoglie, finanzia e stimola le sperimentazioni dei maggiori architetti, ingegneri civili, pittori, macchinisti e artigiani dell’epoca. Filippo Brunelleschi, Giorgio Vasari e Bernardo Buontalenti rendono concreta


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l’idea di Gesamtkunstwerk, quell’opera d’arte totale tanto agognata da Wagner che troverà nel melodramma uno dei massimi vertici espressivi. L’Euridice di Rinuccini e Peri cantata la sera del 6 ottobre 1600 nella Sala Bianca di don Antonio in Palazzo Pitti, l’evento che consacra la nascita del fortunato genere spettacolare, è punto di arrivo di oltre un secolo e mezzo di sperimentazioni che vedono il perfezionamento di un complesso sistema teatrale. I germi dello spettacolo barocco vanno infatti cercati negli intermedi cinquecenteschi: exploit coreografico-spettacolari che intervallavano la più noiosa rappresentazione delle commedie e che raggiungono l’apogeo nel 1589 con l’episodio della Pellegrina di Girolamo Bargagli, messa in scena per celebrare il matrimonio del granduca Ferdinando con Cristina di Lorena. Era elemento costante della politica medicea quello di legare lo sforzo economico tecnico ed organizzativo di un allestimento con un avvenimento importante – nozze o visite di personaggi illustri – che coinvolgesse il maggior numero possibile di persone influenti. La risonanza degli eventi spettacolari accresceva dalle descrizioni ufficiali dei cronisti del granducato – Vasari in testa – vere e proprie fotografie volte a illustrare agli assenti l’invenzione e le ricchezze profuse, fissando nel contempo l’avvenimento nelle pagine della Storia. Il mago degli intermezzi fiorentini era messer Bernardo Buontalenti, scenografo, costumista, apparatore e direttore di scena che coordinava l’insieme da una sorta di cabina di regia disposta in palcoscenico. I cinque intermezzi buontalentiani dell’89 sono considerati un prodigio scenografico e scenotecnico: le scene multiple e ingegnose, gli elaboratissimi costumi, l’atmosfera sinestetica, le danze, i suoni, canti, colori, fogge e fumi, le mutazioni a vista e soprattutto lo stupore delle apparizioni e sparizioni di nuvole e intere macchinerie reggenti Grazie e Dei dell’Olimpo, erano uno spettacolo senza precedenti.

Bernardo Buontalenti, Studi sul costume di una ninfa, (Intermezzi de La Pellegrina), 1589

Il primato tecnico e la nascita dei professionismo teatrale corrispondeva, inoltre, a un differenziato sistema di sale deputate allo spettacolo. Nella seconda metà del Cinquecento il fastoso spettacolo di corte si celebrava nel Teatro degli Uffizi, mentre i comici dell’Arte si esibivano nell’adiacente Teatrino della Dogana (detto anche della Baldracca, dal quartiere malfamato che vi sorgeva attorno), il primo teatro a pagamento della città destinato ai ceti subalterni, al cui fascino non resisteva neppure il Granduca che vi assisteva furtivamente dall’interno di palchetti celati da grate. Meno di un secolo dopo, lo spettacolo granducale fornisce al mondo intero il modello di un edificio che verrà a coincidere con l’idea del teatro che abbiamo tuttora oggi: la sala all’italiana, che si concretizza nella costruzione di due teatri cittadini in via del Cocomero (1656) e in via della Pergola (1657). Frutto della sinergia tra gli accademici Immobili e il protettore Giovan Carlo de’ Medici, la Pergola si configura nelle ambizioni del cardinale mediceo come un teatro che unisca la magnificenza del teatro degli Uffizi alla funzionalità dell’impresariato veneziano; opera dispendiosa e pretenziosa che realizza uno degli ultimi sogni di grandezza della dinastia.


La parola al pubblico A piccoli passi di Alice Nidito

Per non dimenticare – Io Sono Per ricordare – Respiro

In queste mani aperte il potere dei miei giorni

Cammino e ad ogni passo realizzo chi sono Nelle radici l’energia del passato sostiene questo corpo; Dietro la mia schiena sento mani lontane vibrare la mia storia

E un bisbiglio arriva inaspettato e dice a voce alta: Io Posso

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I mestieri del teatro Archeologa della voce

Francesca Della Monica OLTRE LA VOCE Come definirebbe il suo mestiere? È difficile. Il mio è un lavoro di ricerca della voce individuale e della rappresentazione del sé nella voce. Questo tipo di percorso è rivolto agli attori e ai cantanti, a chiunque voglia intraprendere un percorso personale profondo. Fare l’attore dovrebbe sempre essere un terreno di ricerca a 360 gradi. Anche se ci sono dei paludamenti convenzionali nella ricerca di un attore, sono sempre minori e meno importanti rispetto a ciò che avviene, per esempio, nel mondo della musica: il lavoro che spesso si fa in Conservatorio di fatto si riduce ad un adeguamento dei modelli e degli stili, rinunciando a quella

“Il mio è un lavoro di ricerca; il vocalizzo serve all’attore per uscire dal recinto domestico della quotidianità ed entrare così nell’universo mitico del teatro” che è la verità della propria voce. Oltre alla musica, io ho studiato filosofia, epistemologia e antropologia e direi che il mio modo di operare può definirsi come una sorta di archeologia della voce.

Questo tipo di ricerca parte della voce per arrivare a scavare nel profondo… Sì, indaga nel profondo di ogni diversa individualità e di ogni singola parola. Il mio lavoro scava nella fonetica, e nella costruzione di una drammaturgia in cui l’attore presta la propria carne pulsante e i propri processi di memoria. Tutto il meccanismo teatrale avviene attraverso il corpo e dunque la voce, che ne è parte integrante, deve rispondere ad una verità. IMMAGINE DALILA CHESSA

Il suo mestiere è quindi quello di vocal coach? Non amo molto chiamarlo così… Nel mio caso la ricerca è differente. Il termine vocal coach dà proprio il senso di allenamento, mentre io ritengo che il lavoro vocale non sia di tipo muscolare. È importante mantenere in efficienza lo strumento della voce ma essenzialmente non si tratta soltanto di questo: occore trovare tutte quelle combinazioni più profonde del proprio fare vocale, riconoscere la gestualità vocale. Per arrivare a


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questo risultato è necessario trovare degli archetipi o delle immagini personali, piuttosto che allenare per ore la voce. Se compi un allenamento senza arrivare ad una comprensione profonda di quello che stai facendo, alla fine stai eseguendo un semplice esercizio muscolare.

Come si svolge, dal punto di vista tecnico, la preparazione vocale? In genere quando si agisce con la voce, specialmente in musica, si pensa solamente alla categoria ‘tempo’ e non allo spazio. Invece il corpo risonante dell’attore riconosce lo spazio. Attivare i differenti spazi significa anche attiva-

teatrale – è capitato, per esempio, durante la preparazione dei Sei personaggi con la regia di Lavia – il gruppo che si riunisce crea un’azione come di specchio. È un passo inevitabile che abitua un attore all’ascolto dell’altro. In ognuno di noi vocali e consonanti si incarnano in maniera diversa, anche perché la parola agisce spazialmente: in un contesto quotidiano può essere agita in estensione ridotta, mentre in un contesto mitico come quello teatrale deve essere agita in un ambito ben più ampio. Il vocalizzo serve all’attore per uscire dal recinto domestico della quotidianità ed entrare così nell’universo mitico del teatro.

FOTO FILIPPO MANZINI

L’attore, arrivando a conoscere la propria voce, ottiene forse più potere in scena…

Francesca Della Monica ne Il deserto dei Tartari

re le differenti relazioni che si inverano nello spazio teatrale perché si tratta di un luogo fisico, è vero, ma anche di relazione. Dal punto di vista dell’attore, è uno spazio delle possibilità: la reazione a spazi diversi determina un funzionamento diverso dello strumento-voce.

In genere gli attori, prima di una prova, si riuniscono in cerchio per eseguire insieme i vocalizzi preparatori alla scena... Di solito a me piace lavorare singolarmente con i differenti attori, però nel contesto collettivo di una Compagnia

Assolutamente sì. Conoscere quelle che sono le dinamiche della voce costituisce una condicio sine qua non per potersi esprimere. Nello specifico, due attori che non abbiano fatto nessun tipo di lavoro su loro stessi, tenderanno ad attaccare la battuta sulla stessa tonalità: è naturale, perché se io ti parlo in una tonalità, tu mi rispondi nella solita tonalità. Per contravvenire a queste omologazioni, frutto di un’abitudine meccanica a cui un attore non può soggiacere, il mio compito è di avvertire gli attori di tutti questi meccanismi.

Che valore assume il teatro nella sua esperienza? Io lavoro sia nel teatro che nel cinema; collaboro da anni con Federico Tiezzi e con tanti altri artisti come, per esempio, Dario Fo e i grandi registi brasiliani… La vita del teatro, dopo gli studi al Conservatorio e all’Università di Filosofia, mi ha fatto trovare una sintesi e mi ha guidato nel passaggio dall’erudizione alla conoscenza.


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Toni Servillo FORGIATO NEL TEMPO Partendo dal titolo di un suo spettacolo, La parola canta: dal punto di vista dell’interpretazione, come si uniscono la parte più teatrale - la parola - e la musica? IMMAGINE CLARA BIANUCCI

icone più obsolete della napoletanità, ma che pure accoglie il bisogno perentorio di non rinunciare ad una identità sedimentata da quattro secoli di letteratura.

Quale particolare emozione o pensiero vuole far arrivare al pubblico? A questo proposito mi piace citare François Truffaut che sosteneva l’importanza delle canzoni, perché aiutano la gente, e faceva dire a un suo personaggio: “Le canzoni dicono la verità. Anche se sono sceme dicono la verità, ma del resto non sono sceme perché non lo sono mai”. E nel caso della canzone napoletana si tratta spesso di autentici capolavori della letteratura musicale mondiale.

Che città è Napoli per Lei?

La parola canta attraversa l’opera di autori classici, come Eduardo De Filippo e Raffaele Viviani, E. A. Mario e Libero Bovio, fino a voci contemporanee come quelle di Enzo Moscato, Mimmo Borrelli e Michele Sovente. Affrontando la sostanza verbale e sonora di poeti, scrittori e compositori, testimoni della città di Napoli nel passato e nel presente, affiora dunque la sintesi di una realtà che, tra pulsioni e pratiche, carne e sangue, rifugge le

Mi sento in debito con questa città che mi ha arricchito. Una ricchezza culturale senza pari che cerco di trasmettere in giro per il mondo nei suoi aspetti più nobili, riflessivi, tragici. In generale il mio lavoro si alimenta della complessità di Napoli, che ha ancora la dimensione ideale di una città comunque viva rispetto a tante altre. Una città dai mille volti e dalle mille contraddizioni, divisa fra l’estrema vitalità e lo smarrimento più profondo, una città di cui la lingua è il più antico segno, forgiato dal tempo e dalle contaminazioni.


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Nei suoi spettacoli, oltre a continui spunti di riflessione, è sempre presente l’elemento ironico. L’ironia è una componente fondamentale di condivisione con il pubblico: favorisce l’accadimento, in quel preciso istante fa scattare la sensazione speciaFOTO FILIPPO MANZINI

La vostra Compagnia, I Teatri Uniti, è riconoscibile per dei tratti scenici precisi: pensiamo, per esempio, al tipico uso delle luci o al palco aggettante che regge tutta la scena. Ho nei confronti dell’opera rappresentata un rispetto quasi accademico, dettato da una curiosità intellettuale molto forte. Quando scelgo un autore è perché amo quell’autore. Per questo ritengo che quello che ha scritto vada interpretato in tutte le sue sfumature. Non mi piace sovrappormi alle intenzioni dello scrittore, cerco invece di muovermi all’interno dei contenuti del testo ‘risollecitandoli’. Lo spazio è spesso l’unica forzatura, dovuta soprattutto a esigenze sceniche. Il nostro è, prima di tutto, un teatro di parola, legato al potere della recitazione. Mi piace molto l’idea di condurre gli spettatori quanto più possibile vicino agli attori, in un tentativo che non diventi didascalico, ma di semplice e concreto coinvolgimento.

Di Eduardo De Filippo, suo punto di riferimento, ha detto che è “un grande facitore di copioni”, nei quali “il profondo spazio silenzioso che c’è fra il testo, gli interpreti ed il pubblico va riempito di senso sera per sera sul palcoscenico, replica dopo replica”. Un attore, in scena, è conscio del potere che ha?

“Il nostro è un teatro di parola, legato al potere della recitazione, e con l’idea di condurre gli spettatori il più vicino possibile agli attori” le di esserci, a teatro, e non di subirlo. È come se, al di là del testo, ci fosse sempre un ‘retropensiero’ ironico che toglie pesantezza e letteratura al fatto teatrale.

Assolutamente, sempre, ed è per questo che ogni sera si va in scena con il cuore in gola. Mi sento profondamente legato ad Eduardo in quanto era un drammaturgo-attore che ha creato grandi copioni pronti per la recitazione. Non è stato solo il più grande attore italiano del suo tempo ma anche uno straordinario esempio di moralità e dedizione, è questo è ancora oggi molto importante per il nostro Paese.


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Gianrico Carofiglio IL POTERE DELL’ISPIRAZIONE Il potere dell’ispirazione, l’eco di un ricordo o di una particolare suggestione, come e quanto influenzano la costruzione di un libro? Non c’è dubbio che le idee per i libri, in particolare per i romanzi e i racconti, siano dappertutto. In dettagli apparentemente insignificanti possono nascondersi idee per tante storie. Una qualità necessaria che precede la scrittura è la capacità di un autore di soffermarsi sui particolari, cercando di cambiare il proprio punto di vista sulle cose. Ciò che conta davvero lo vediamo con la coda dell’occhio, non davanti a noi in maniera plateale. Se un elemento ci sfugge ed è poco visibile, ci stimola a cercarne il significato. La cosiddetta ispirazione si verifica nel momento in cui si sta scrivendo e le parole vanno al posto giusto in maniera quasi magica e comunque

“Maneggiare le parole è come maneggiare oggetti delicati e pericolosi: bisogna muoversi con cautela, consapevoli della responsabilità dello scrivere”

non essere più capace. E poi, d’un tratto, le parole vanno nell’ordine giusto: è una sorpresa inspiegabile. Qualcuno la chiama ispirazione.

Il suo saggio La manomissione delle parole contiene una riflessione sulla forza e l’importanza delle parole; quanto la scelta di un linguaggio, da parte di un autore, dà potere al messaggio che si vuole raccontare? Non sono appassionato all’idea degli scrittori che vogliono mandare dei messaggi; non mi piace l’idea di una scrittura pedagogica che mira ad ammaestrare. Naturalmente ciò non significa che i buoni romanzi o i buoni racconti non possano avere una dimensione etica. Il messaggio etico deve essere il risultato del percorso creativo, non la premessa. Deve venire fuori dalla storia e dai personaggi. La scelta della parola rimane fondamentale: non esiste uno scrittore vero che sia indifferente ad una ricerca – a volte anche ossessiva - delle parole precise per esprimere veramente quello che si ha da dire.

Secondo un autore come Francesco Piccolo non si può mai chiedere ad uno scrittore se tutto quello che racconta sia vero… Lei è d’accordo? I suoi libri mantengono comunque una memoria autobiografica?

Ogni personaggio riuscito è uno specchio dell’esistenza del suo autore, e questo indipendentemente dal fatto che il libro contenga fatti veramente accaduti o sia addirittura autobiogramisteriosa. Non capita spesso, anzi è fico. Poi ci sono scrittori che hanno una cosa rara e preziosa. A volte succe- voglia di parlare di questa cosa e altri de che stai scrivendo in modo faticoso che invece non vogliono. Tutte e due le da giorni, ti senti frustrato, ti sembra di scelte sono rispettabili.


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Lei ha detto che scrivere libri è riuscire a dare un senso alle cose attraverso le parole; quando scrive avverte questa responsabilità?

In passato è stato eletto Senatore; quale fascino esercita il potere della politica?

È indubbio che il potere possa costituire una grande fonte di fascino. Nulla Maneggiare le parole è come ma- di male se il potere non è fine a se stesso neggiare oggetti delicati e pericolosi: o non è addirittura rivolto a interessi bisogna muoversi con cautela, consa- personali. Ciò detto, in termini generali, pevoli della responsabilità che com- posso dire che la mia esperienza poliporta il lavoro della scrittura. Esistono tica (ormai esaurita per mia scelta) mi tanti abili giocolieri di parole ma non tutti sono veri scrittori. Il discrimine sta nella consapevolezza della responsabilità nella scelta delle parole.

Perché il personaggio di un avvocato, Guido Guerrieri, che è protagonista dei suoi romanzi piace così tanto? Non saprei… Forse perché il personaggio è il risultato di una combinazione tra toni crepuscolari e ironia, fragilità e forza; Guido Guerrieri è una figura complessa, nella quale coesistono caratteristiche fra loro opposte. Per questo, mi dicono, è un personaggio in cui è facile immedesimarsi.

Quanto influisce in uno scrittore, durante la stesura di una storia, la volontà del proprio editore? E il pensiero di quella che potrà essere l’opinione del pubblico? Il rapporto che si instaura tra scrittore-editore dipende da molti fattori: se hai un contratto con una scadenza e sei un autore che vende un certo numero di copie, l’editore cerca di ricordarti che quella data va rispettata… È il lavoro della scrittura nel mondo dei professionisti. Invece per quanto riguarda i lettori, quando scrivevo il primo romanzo pensavo spesso a quale sarebbero state ha confermato quello che sapevo già da le loro reazioni, cercavo di immaginar- prima: il potere non mi interessa e tromi quello che avrebbero provato leg- vo noiosi gli sforzi che in molti fanno e gendo. Ora, in verità, mi capita di meno. per conquistaro e mantenerlo.

FOTO FILIPPO MANZINI


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Scrittura e ironia sono due aspetti fondamentali del suo linguaggio. Che cos’è per Lei la scrittura? Il senso dell’umorismo e l’autoironia sono fondamentali strumenti di benessere piscologico. Se siamo capaci di ridere di noi stessi, prendendo le distanze da noi stessi, diventiamo sicuramente persone migliori. Ci distanziamo dal nostro ego, lo mettiamo in prospettiva e per conseguenza riusciamo a capire meglio le cose del mondo. La mia definizione di scrittura? La rubo a Scott Fitzgerald: “Scrivere è nuotare sott’acqua trattenendo il fiato”.

Come si coniuga il mestiere dello scrittore con il ruolo di Presidente della Fondazione Petruzzelli di Bari? Sono stato nominato presidente da poco, quindi è difficile per me raccontare come si possano, concretamente, coniugare le due cose. Semplicemente: non lo so ancora. Spero davvero di rendermi utile al Teatro, perché ho parecchie idee, ma per dare una giusta risposta alla sua domanda, temo che dovrà tornare a intervistarmi l’anno prossimo!


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Speciale Musica il Direttore d’Orchestra

Antonio Pappano

SFIDANDO IL TALENTO Un direttore d’orchestra esprime maggiormente il potere della musica rispetto ad un singolo esecutore al pianoforte? Personalmente il pianoforte, almeno per quella che è la mia vita oggi, è una specie di rifugio. Una cosa intima, nascosta, a cui posso anche dedicarmi da solo e in maniera molto meno esibita ed amplificata rispetto alle mie direzioni d’orchestra. Però io sono un performer, non c’è niente da fare, con il desiderio di collaborare con dei musicisti che stimo molto: ecco perché alla fine scelgo di suonare il pianoforte anche in pubblico. Credo che per Antonio Pappano sia un modo di conoscere un’altra parte del mondo del musicista, forse il lato più originale, perché io ho iniziato la mia carriera studiando il pianoforte: non avevo

mai sognato di diventare direttore d’orchestra, sono gli altri che mi hanno spinto un questa direzione.

Il suo sogno era di diventare pianista? Il sogno di mio padre, maestro di canto, era che suo figlio diventasse il più grande accompagnatore del mondo. Quando un musicista entra in contatto diretto con il suono, è tutta un’altra cosa: in genere, quando dirigo, sono io a dire agli altri ogni giorno come manipolare il suono; penso che sia positivo, ogni tanto, riuscire a sperimentare questo tipo di esercizio su me stesso. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Quindi il pianoforte diventa anche un momento di condivisione? Io non ho studiato al conservatorio, quindi ad una parte del mio sviluppo musicale ed artistico – il fatto di but-


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tarmi dentro la musica come pianista – sono arrivato relativamente tardi. La musica da camera è anche un’attività molto sociale: a scuola ti confronti con gli altri allievi, magari suonando musica insieme fino alle tre del mattino… Questo tipo di vita non l’ho vissuto: suonavo ai cocktail, per i cori o l’organo in chiesa, nei concerti strumentali e con cantanti, ma mai in maniera regolare. Adesso sto cercando di recuperare e noi in inglese diciamo better late than never: meglio tardi che mai…

Il direttore di orchestra è il punto di riferimento di tante persone… Come direttore d’orchestra, rispetto ad un esecutore, la mente lavora in un altro modo. Davanti a te hai cento persone, mica possono essere sempre tutti della stessa importanza, ed è questo il gioco: bisogna avere la padronanza delle partiture ed organizzare le gerarchie. Un concerto è anche una questione di equilibrio: tra mano sinistra e mano destra quando stai al pianoforte, tra collaboratori quando suoni con gli altri.

In un’orchestra è più complesso: devi riuscire a far seguire a tutti il filo della musica: capire da dove viene e dove va… Il direttore d’orchestra deve ispirare gli altri musicisti a suonare nel miglior modo possibile, portandoli veramente a sfidare il talento.

L’istante iniziale, quando il direttore d’orchestra alza la bacchetta per dare il via alla musica, è forse uno dei momenti più emozionanti di un concerto.

Per un interprete che debba esibirsi davanti ad un pubblico, stare dietro le quinte provoca già tanta emozione. Anche se hai provato per ore e ore, con l’obbiettivo di essere pronto ad ogni eventualità, non sai mai veramente come andrà a finire… Prima di entrare in platea, ho un piccolo rito: faccio un segno della croce, come preghiera per raggiungere la concentrazione di tutti: la mia e quella degli orchestrali. Ormai da tempo non uso più la bacchetta, allora in quell’attimo iniziale devo capire


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se il mio respiro e il mio gesto stanno dando il risultato che aspetto; a volte la risposta può essere no, quindi devo cercare di capire velocemente - stiamo parlando di un millisecondo – la ragione: le acustiche che nei teatri cambiano, per esempio, da una sala vuota dove si prova ad una sala piena di spettatori. La sensibilità del luogo per la qualità della musica è molto importante.

Il direttore d’orchestra che rapporto ha con il pubblico?

In una pellicola di Fellini si parla della figura del direttore di orchestra; alla fine i musicisti suonerebbero lo stesso senza il loro direttore? Sì, anche se dipende molto dal repertorio e dall’orchestra. Ogni tanto in prova mi allontano e vado in sala a sentire l’orchestra che suona: è un miracolo come fanno a stare insieme… Il direttore d’orchestra è ovviamente una figura di potere ed autorità, ma è anche una guida, e spesso guidare qualcuno IMMAGINE CLARA BIANUCCI

Come direttore d’orchestra sono sempre di spalle al pubblico, ma c’è una ricerca costante di atmosfera condivisa. Mi chiedo se il pubblico sta percependo le stesse cose che provo io, se abbiamo instaurato un feeling… Questo è un gioco molto bello, e anche misterioso. In una sala da concerto il pubblico rimane composto, quasi immobile, fino a quando l’ultima ombra del suono non se n’è andata: la concentrazione reciproca è al massimo.

Suonando in tutto il mondo, la musica diventa un linguaggio universale che mostra tutta la sua potenza? La musica sinfonica strumentale non ha parole e l’emozione dal palcoscenico passa in modo strepitoso, indipendentemente dal luogo geografico in cui ci troviamo. Credo che questo costituisca un vantaggio: il mondo diventa più vicino, i popoli e le culture si intrecciano. Con l’Orchestra di Santa Cecilia stiamo viaggiando in continuazione ed è una cosa bellissima perché portiamo il nostro carattere, qualcosa di molto italiano, dappertutto. Oggi tutto è omogeneo, tutto diventa uguale e globalizzato, invece la musica può essere un modo per soffermarsi sul made in Italy, sui particolari e le unicità.

“Il direttore d’orchestra, oltre che una figura di potere, è una guida e spesso guidare qualcuno significa dargli anche la libertà” significa anche dargli la libertà. La responsabilità che spetta ad un direttore è di far raggiungere all’orchestra un suo equilibrio: i musicisti devono entrare in contatto con il direttore prendendosi la responsabilità di ascoltarsi l’uno con l’altro. Soltanto così si crea la grande musica da camera.


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Rosa Maria Di Giorgi IL POTERE DI COSTRUIRE Quale potere ha esercitato su di Lei la politica? La politica, intesa come uno strumento per cambiare le cose, mi ha sempre affascinato. Già a scuola facevo la rappresentante: prima di classe, poi d’istituto, fino ad entrare negli organismi regionali di rappresentanza degli studenti. Pian piano sono arrivata ad occuparmi della politica di base nei

Resistenza, sono stati i primi a lottare per consegnarci i principi della democrazia. Noi sentivamo di dover seguire la loro scia e di essere protagonisti della politica, con un forte senso della partecipazione e molta fiducia nel futuro, quello che forse manca più ai giovani oggi.

Forse quello che manca oggi è la percezione di una politica in grado di migliorare la quotidianità dei cittadini… Purtroppo gli anni di Tangentopoli e della corruzione dilagante hanno contribuito a costruire una cattiva interpretazione della politica: la politica come strumento fine a se stesso, lontano dal concetto di servizio utile e necessario per il cittadino. Io ho avuto l’onore in passato di ricoprire il ruolo

Rosa Maria Di Giorgi, Senatrice della Repubblica Italiana

FOTO FILIPPO MANZINI

quartieri, con l’intento di cambiare auspicabilmente in meglio la vita quotidiana delle persone. Erano gli anni Settanta, cercavamo l’affermazione di tanti diritti che ancora non esistevano: i padri costituenti e poi chi ha fatto la

di Assessore alla Pubblica Istruzione e di Assessore alla Cultura: sono incarichi che ti fanno percepire quanto puoi fare per la vita degli altri, assicurandoti di garantire dei servizi. Se parti come amministratore locale, poi riesci a fare


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molto meglio il parlamentare e a seguire la politica più alta, secondo me… L’ente locale, attivo sul territorio, è il soggetto più vicino ai bisogni delle persone, dunque si tratta di un potere vero, che ti riempie di responsabilità.

Quando ha iniziato a fare politica, era già cosciente del possibile incarico che avrebbe ricoperto in futuro? Ricordo che negli anni Ottanta venne in visita a Firenze Alessandro Pertini, l’allora mitico Presidente della Repubblica. Noi eravamo dei ventenni pieni di energia e stavamo nei Movimenti per la Pace; come coordinatori del movimento un giorno incontrammo il Presidente e gli raccontammo quello che avevamo fatto, tutti insieme, nei mesi precedenti. Pertini mi disse: “Tu hai degli occhi pieni di energia, questa passione ti porterà molto lontano nella politica…”. Durante il mio percorso mi sono sempre ricordata di queste parole, e allora non ci pensavo neanche alla politica. Mi sono sposata giovanissima, ho avuto tre figli e sono diventata ricercatrice al CNR, un’altra delle cose bellissime della mia vita: stai dentro l’innovazione e cerchi di cambiare lo status quo delle cose, aspetto che io trovo appunto molto simile a ciò che deve fare la politica.

Un uomo e una donna vivono la politica in modo diverso? Assolutamente sì, e lo dico dopo tanti anni di politica perché forse prima avrei risposto in maniera diversa. L’uomo e la donna hanno un modo completamente diverso di fare politica, a tutti i livelli: la donna mette nella politica la sua caratteristica di concretezza, sia che si tratti di un consiglio di amministrazione che di una commissione comunale o di un incarico di governo. Si tratta proprio

di caratteristiche strutturali differenti tra maschile e femminile: noi abbiamo bisogno di essere concrete, e questo fin dai tempi primitivi, quando la femmina badava al figlio e doveva sfamarlo. Ecco perché, per esempio, già agli albori dell’umanità le donne sceglievano l’uomo più forte, in grado di andare a caccia e procacciare il cibo per i piccoli. Il senso di concretezza, l’operatività e l’esigenza di raggiungere un risultato derivano dalla nostra natura e dal carattere, da una necessità atavica di proteggere il figlio.

E una volta raggiunto il potere, è difficile poi riuscire a mantenerlo? Su questo punto il problema è ancora decisamente aperto. In Italia abbiamo una cultura dominante maschile, mentre in altri Paesi da molto tempo si è dato un ruolo diverso alle donne, dove dal punto di vista lavorativo non esistono le differenze. Da noi le donne sono meno pagate e poi, il fatto di fare i figli, è visto come un deterrente. A parità di compe-

“Non dobbiamo smettere di investire sul nostro patrimonio culturale e sul mondo della scuola, altrimenti assistiamo ad una caduta del pensiero civile ” tenze tanti nostri imprenditori tendono a scegliere sempre l’uomo perché alla donna va pagata la maternità. Questo è un aspetto veramente terribile della società. In un Paese civile la nascita di un bambino dovrebbe sempre essere una ricchezza, non un problema da rimuovere. Anche noi politiche, che siamo viste come donne di potere, viviamo tutti i giorni questo discorso della disparità: devi essere sempre pronta e in allerta


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per non perdere quello che hai guadagnato. Per quanto riguarda la possibilità di essere elette e rappresentate, molti considerano le quote rosa non funzio-

“La donna mette nella politica la sua caratteristica di concretezza, sia che si tratti di un CDA o di un incarico di governo”

IMMAGINE DALILA CHESSA

nali ed ingiuste: anch’io penso che sarebbe bello vivere in una società dove non ce ne fosse bisogno, purtroppo però dobbiamo ancora crescere da questo punto di vista: il cammino da fare è ancora lunghissimo. E occorre salvaguardarci con delle norme. Del resto, come donna la competizione la vivi sempre in maniera maggiore con gli uomini rispetto al confronto con le altre donne: certe battaglie parlamentari – penso, per esempio, allo stalking e al femminicidio – sono state votate da donne appartenenti a tutti gli schieramenti: abbiamo lavorato unendoci in maniera trasversale.

Gli aspetti positivi e negativi del potere. Il potere può essere molto affascinante: senti che fai delle cose, anche davvero belle, sopratutto perché ho avuto la fortuna di occuparmi in particolare di educazione, cultura, ricerca, università, teatro e fondazioni liriche. Sono stata nei Beni Culturali e quando vai a Pompei e in quel momento, quando stai governando, sai che sei tu a decidere quanti milioni di euro investire perché quel luogo ritorni ad essere un patrimonio del mondo e dell’umanità: tutto questo ti emoziona! Non dobbiamo mai smettere di investire sul nostro patrimonio culturale e anche sul mondo della scuola, altrimenti assistiamo ad una caduta del pensiero civile e del concetto di cittadinanza. L’aspetto negativo si manifesta quando l’esercizio del potere è legato al gusto della dominazione e al fatto di far valere la propria posizione. Ai giovani mi sento di dire: “non sacrificate gli affetti o le vostre passioni per ottenere il successo”. Si può fare tutto, pagando anche dei prezzi in termini di sacrificio e di fatica, ma soltanto così si riesce a lavorare con equilibrio e il potere non rimane l’unica cosa che hai. Non ci si deve mai attaccare al potere.

Che cos’è per Lei il teatro? Il teatro è guardare la nostra vita. In un’opera teatrale ho sempre cercato di ritrovare pezzi di esistenza, la mia e quella dell’umanità nel suo complesso. Il teatro semplicemente è la rappresentazione dell’umanità. Ed è anche uno strumento che ci induce alla riflessione, un luogo di formazione eccezionale. Ecco che formare il pubblico, fare in modo che le scuole non smettano di andare a teatro, diventa fondamentale. Il teatro così ti aiuta a crescere.


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Cristina Giachi LA COSCIENZA DEL POTERE

di ricoprire un ruolo è un modo di intendere il potere, non necessariamente negativo: avere una carica spesso ti permette di fare qualcosa per il bene della collettività. Più che pensare a due distinte identità maschili e al femminili, credo che si debba parlare di dinamiche che riguardano l’individuo, al di là del genere di appartenenza. Bisogna fare molto esercizio per non lasciarsi abbagliare dalla consistenza del pote-

Che cosa trova affascinante nella politica? Avere la possibilità, grazie alla politica, di fare qualcosa di concreto. È un aspetto che mi ha sempre attratto. Prima mi capitava di lamentarmi di quello che succedeva intorno a me; ecco che la politica è stata l’occasione per ‘alzarsi dal divano’, diciamo così, cominciando a lavorare in una direzione diversa, in modo da poter cambiare le cose. Il mio ingresso in politica è stato davvero casuale, non sono nata con l’idea che la politica sarebbe stata la mia vita... Insegnando all’università, il mio ruolo in politica si è sempre collegato, di conseguenza, al settore della formazione e della cultura. IMMAGINE CLARA BIANUCCI

“Sapere che stai decidendo qualcosa a nome di tante persone, ti dà un senso di potenza ma allo stesso tempo di vertigine” C’è una diversità, tra uomo e donna, nel modo di vivere la politica? Sicuramente viviamo la politica in modo diverso; del resto, le donne sono differenti dagli uomini in tutte le cose che fanno. In particolare il concetto di potere io l’intendo soltanto se esercitato in una certa direzione, come sempre dovrebbe essere, secondo me: conta solo il potere di riuscire a fare le cose. Il fatto

re: quando hai il potere di fare e occupi una posizione, alla fine puoi anche arrivare ad autoconvincerti che tu sei il potere, che lo incarni totalmente. Il potere dispotico è un pericolo. È necessario stare attenti: un ruolo di potere ti consente la libertà di prendere delle decisioni, è vero, ma non bisogna dimenticarsi mai che le tue scelte ricadono anche sugli altri. Anzi, il difficile è proprio cercare di gestire questa grande responsabilità.

La sensazione di riuscire a realizzare delle cose è comunque un sentimento inebriante?


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Cristina Giachi, Vicesindaco e Assessore all’Educazione, Università e Ricerca del Comune di Firenze

Sì, è così; sapere che stai decidendo qualcosa a nome di tante persone direi che ti dà un senso di potenza ma allo stesso tempo di vertigine. Mi è capitato di aver dovuto prendere alcune decisioni come vicesindaca perché il sindaco in quel momento non c’era: con l’emergenza del maltempo, per esempio, la città doveva essere messa in sicurezza e andava deciso in tempi rapidi se fermare la tramvia o chiudere una strada... Sono decisioni che possono avere una ricaduta, anche importante, sulla vita dei cittadini e tu lo avverti.

perdere la consapevolezza che viviamo una fase transitoria: ricopriamo un ruolo e ci occupiamo di una data funzione per un periodo di tempo. L’esercizio del potere alla fine è un servizio che si fa per la collettività per un dato tempo; a volte è anche molto pesante perché ti tiene sotto pressione e genera logoramento, in qualche modo. Spesso si dice il contrario: il potere logora chi non ce l’ha... Invece è giusto assumersi questa responsabilità soltanto per un po’: alla fine è importante sapere riconoscere quando cambiare.

In politica le quote rosa sono necessarie? Le quote rosa io le ho sempre viste come una medicina che nel nostro Paese è necessario prendere, non le ho mai concepite come un orizzonte politico o sociale. Non credo che debbano costituire un quadro interpretativo definitivo. Siamo fortemente squilibrati dal punto di vista della presenza di donne e uomini nei luoghi in cui si prendono le decisioni, quindi diventa inevitabile inserire periodicamente modalità di correzione. Tempo fa una delle mie proposte era stata l’introduzione di quote rosa a tempo, con il fine di bilanciare uno stato delle cose non egualitario. Una metafora per spiegare la situazione che si crea in politica quando si verifica una prevalenza solo in un senso, potrebbe essere che il mondo allora è come se venisse guardato con un occhio solo o come se si camminasse con un’unica gamba: in due le cose si fanno sempre meglio, no?

FOTO FILIPPO MANZINI

Quando si raggiunge il potere, se ne mantiene anche la percezione di precarietà? Si ha potere ma si può anche perdere... Questo aspetto costituisce un altro dei demoni da cui bisogna guardarsi: l’attaccamento al potere. Non bisogna mai

Che cos’è per Lei il teatro? Per me il teatro è la grande messa in scena della vita... Un luogo che apparentemente crea distrazione e invece, nell’intimo, riesce a farci approfondire le dinamiche fondamentali della nostra esistenza.


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Firenze contemporanea Palazzo Strozzi

Potere e Pathos, simbiosi millenaria di Sandra Gesualdi

L

e arti son prova tangibile che l’essere umano non può e non sa restare indifferente alla comprensione del sé e del circostante. Le suggestioni di una società che muta transitano spesso su un palco di teatro, si sciolgono tra le pagine di un romanzo o si solidificano in una scultura ben forgiata. Sovente l’affermarsi di inediti codici espressivi anticipa nuovi regimi politici e viceversa. Il potere ha fatto ostentazione di sé nella rappresentazione artistica ben sapendo che l’arte è una cassa di risonanza potente. Quando Alessandro Magno conquista l’Impero Persiano, allargando i confini geografici del mondo greco, dall’Africa settentrionale alle Indie, siamo nel IV secolo a.C.; si spinge nell’area estesa del Vicino e del Medio Oriente e innesca un precoce cosmopolitismo che lega Occidente ed Oriente sotto l’egida del suo impero. L’iconografia del condottiero vincente, raffigurato a testa alta e sguardo lontano si impone con Alessandro e su quel modello verranno raffigurati gli imperatori romani. Alla morte del principe macedone i suoi generali, incapaci di emularne carisma e forza, si spartiscono le immense conquiste e danno vita ai regni ellenici. Sono loro i nuovi committenti delle grandi opere e gli artisti si fanno interpreti di un’arte non più rivolta alla polis e all’intera cittadinanza ma al servizio del regnante e della sua corte. Incuriosito da nuove culture e popolazioni orientali e intento a magnificare le imprese del ricco potente di turno, l’artista si impegna nella ricerca del fasto, del grandioso fino alla definizione del particolare.


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L’arte ellenistica celebra il singolo con ritratti scultorei che ne legittimano l’autorità e notorietà o attraverso sculture dalle grandi dimensioni. Non solo, la nuova attenzione rivolta al privato piuttosto che al corpo civico della città, facilita l’osservazione del quotidiano e dell’uomo reale. Si introducono elementi antropomorfi alle statue e si pone attenzione su quei particolari espressivi del volto che denotano sentimento, pathos, compresi il dolore, la rabbia, la passione. Appaiano rughe, vene, muscoli, sapientemente plasmati grazie alla duttilità del bronzo.

“Il potere ha fatto ostentazione di sé nella rappresentazione artistica ben sapendo che l’arte è una cassa di risonanza potente”

Sopra Testa-ritratto maschile. Fine del II-inizi del I secolo a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale Nella prima pagina Atena (Minerva di Arezzo). 300-270 a.C.; Firenze, Museo Archeologico Nazionale

Firenze ha voluto pagare il debito di riconoscenza verso il greco mondo antico, a cui i grandi del Rinascimento si sono ispirati, riunendo a Palazzo Strozzi 50 capolavori mai esposti insieme e provenienti dai principali musei italiani e stranieri con la mostra Potere e Pathos. Bronzi del Mondo Ellenistico a cura di Jens M. Daehner e Kenneth Lapatin. Un viaggio nel mito, fra statue maestose di divinità, atleti, condottieri inserite in dialogo con ritratti storici dal forte impatto emotivo. Senza queste sculture il “nostro” Rinascimento, vanto e riconoscibilità, non avrebbe prodotto gli stessi profili, tanto che alcuni di questi pezzi hanno determinato lo sviluppo della scultura italiana, basti pensare a Michelangelo.

Tra questi vi è una testa-ritratto del II secolo a.C.di cui non si conosce l’identità, ma ben conservata; forse è un politico, forse un atleta, un mercante o un cittadino dell’alta società. Di lui ci rimane uno sguardo languido, la bocca socchiusa, ciglia ricamate e la sacca che conserva le lacrime intorno agli occhi. La leggera inclinazione del volto lo mostra inerme ed insicuro al pari di un uomo comune che appartiene al suo, ma anche al nostro tempo. Il potere usa il pathos per coinvolgere, attrarre, sedurre e rappresentare il sentimento dei più, in perfetta simbiosi. Facendo leva sulle emozioni e passioni si ottiene una forma d’influenza, si induce o persuade a nutrire determinate credenze e desideri, si creano quelle verità che Nietzche definiva “illusioni”. Il potere così inteso è la capacità di suggestionare e persino di formare in altri individui la concezione di se stessi e del mondo. In questa simbiosi si sviluppa l’enigma del sottile confine fra libertà e dominio che l’arte svela da secoli. Incrociare lo sguardo millenario di quell’uomo di 2000 anni fa, lo dimostra.


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Dai Quaderni di Orazio Costa

…Cosa c’insegna la mimazione dell’albero: a radicarci, a ramificarci sempre più sottilmente, a far foglie, e bere luce e a nutrircene, a far fiori e a lasciarli fecondare, a far frutti, a perder foglie e a resistere all’inverno, ad aspettare e quasi Orazio Costa, provocare il miracolo della Quaderno 37 Rinascita… IMMAGINE CLARA BIANUCCI


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8 Quaderni della Pergola La parte redazionale è a cura di Angela Consagra, Alice Nidito, Chiara Zilioli, Filippo Manzini La parte monografica Potere di Parole – Tragedie di Potere è a cura di Matteo Brighenti e Riccardo Ventrella

Via della Pergola 12/32 - 50121 Firenze Centralino 055.22641 www.teatrodellapergola.com

Le interviste sono di Angela Consagra

Info e contatti quaderni@teatrodellapergola.com

Impaginazione ed elaborazione grafica Chiara Zilioli

Progetto Grafico Walter Sardonini / SocialDesign

La fotografia della copertina; le fotografia dell’editoriale; le fotografie a pag. 17 e a pag. 49; l’album fotografico della rubrica Dalle sale ballo del Teatro della Pergola – Il deserto dei Tartari e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini Hanno collaborato a questo numero: Clara Bianucci, Dalila Chessa, Adela Gjata, Orsola Lejeune, Simona Mammoli

Fondazione Teatro della Toscana Presidente Dario Nardella Consiglio di Amministrazione Raffaello Napoleone, Duccio Traina, Stefania Ippoliti, Maurizio Frittelli Collegio Revisore dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto Lari Direttore Generale Marco Giorgetti

© 2015 FONDAZIONE TEATRO DELLA TOSCANA © 2015 EDIZIONI POLISTAMPA

Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 7378711 (15 linee) info@polistampa.com www.polistampa.com

La traduzione dell’intervista a Jeremy Irons è a cura di Raffaello Gaggio L’intervista a Jeremy Irons è stata ispirata dalla conferenza stampa e dall’incontro con l’attore nell’ambito del Lucca Film Festival Per l’intervista a Gianrico Carofiglio si ringraziano per l’amichevole collaborazione Fiammetta e Gennaro della Libreria dei Lettori


La lavagna con la scritta EDUARDO viene conservata nei locali del teatro e fa riferimento al corso di drammaturgia che Eduardo De Filippo realizzò nei primi anni Ottanta al Teatro della Pergola. Questa citazione ha ispirato la nascita dei Quaderni della Pergola come elemento figurativo delle prime copertine. E ancora continua ad essere un simbolo del nostro modo di concepire il teatro.


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People have the power... Patty Smith


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