Quaderni della Pergola
n. 1
Iteatro l numero 1 dei Quaderni della Pergola parla di e utopia. Di arte e utopia. Della ricerca,
costante, di qualcosa da realizzare. E della necessità di spingere oltre il pensiero. Di immaginare cose inimmaginabili. Di non smettere di sognare. Perché il teatro è il luogo del “non-luogo”, del “luogo bello e irraggiungibile”, spazio utopico ma anche concreto dell’essere umano. L’idea dei Quaderni della Pergola nasce e si ispira, anche nel nuovo formato, ai Quaderni del MIM che il Maestro Orazio Costa ha pubblicato, nel tempo, per il suo Centro di Avviamento all’Espressione. Contenitori della parola e del pensiero, di ricordi, di immagini e di storie, slancio vitale del teatro. Così nel passato. Così nel futuro.
SOMMARIO
5. Pierfrancesco Favino Un attore, un uomo
7. Fabrizio Gifuni
Teatro piazza aperta
1 1 . Teatri Uniti La Compagnia
1 2. Toni Servillo
La vita che continua…
1 6. Chiara Francini
Il paniere delle delizie
1 8. Mimmo Paladino La scena dell’arte
21 . Shalom Neuman Fusionism
24. Sergio Givone
La verità dentro una favola
26. La parola al pubblico Primo ricordo del teatro
28. Marco Balsamo
La passione di un produttore
31 . Baci dalla Pergola 34. Marco Giorgetti
Primo ricordo di Orazio Costa
36. Dietro le quinte Shhhh… fai piano!
L'operazione teatrale che noi stiamo mettendo in piedi è, a tutti gli effetti, un'utopia. Però io preferisco parlare di sogno, nel senso che le utopie sono per definizione irrealizzabili, mentre i sogni, anche se hanno bisogno di molta energia e passione, alla fine possono realizzarsi
Pierfrancesco Favino UN ATTORE, UN UOMO
D
opo tanto cinema e televisione, per il palcoscenico ha scelto un progetto teatrale collettivo con più di quaranta attori che si sono uniti per “sfidare la crisi strutturale della scena italiana”…
ste le stesse, anche se il racconto si snoda in tempi moderni. Pensiamo, per esempio, alla commedia all’italiana cinematografica degli anni Sessanta dove i ‘tipi’, certe figure e certi stereotipi, si ripetono… Ci sono degli archetipi di maschere all’interno della nostra tradizione popolare e abbiamo cercato di attingere proprio dalle caratterizzazioni più tipiche. Ci vuole coraggio per mettere mano ai classici e riproporli in maniera diversa: l’obbiettivo è comunque quello di rispettarli ma sapendo anche cogliere la modernità che portano con sé. Penso che il pubblico possa così percepire la profondità dei testi.
La nostra compagnia si chiama Gruppo Danny Rose – dal titolo di un film di Woody Allen – e lo scorso anno abbiamo scommesso su un progetto collettivo, tutto nostro, che sulla carta può sembrare anche una follia, un azzardo: quaranta attori che in un piccolo teatrino romano hanno messo in scena ventinove spettacoli nell’arco di un mese… Gli attori si avvicendano in scena, l’idea è quella di un gruppo democratico e lo Spazio Uno è un teatro con una storia importante alle spalle: anche se era diventato forse un luogo un po’ dimenticato, negli anni Settanta era stato un avamposto della ricerca teatrale.
Un personaggio senza lavoro e senza soldi come il suo Arlecchino ricorda le problematiche della nostra società. Credere di poter uscire dalla crisi rimane un'utopia? L’operazione teatrale che noi stiamo mettendo in piedi è, a tutti gli effetti, un’utopia. Però io preferisco parlare di sogno, nel senso che le utopie sono per definizione irrealizzabili, mentre i sogni, anche se hanno bisogno di molta energia e passione, alla fine possono comunque realizzarsi.
Insieme al Gruppo Danny Rose avete realizzato un nuovo modo di intendere la messinscena e lo spettacolo che debutta in prima nazionale al Teatro della Pergola ne è un esempio.
La nostra collaborazione si fonda, prima di tutto, sui rapporti tra le persone e abbiamo voluto intraprendere una strada diversa, sia per quanto riguarda le prove che per la tournée: lo spettacolo è frutto di vari laboratori e tra i tanti partecipanti sono state scelte due diverse distribuzioni di attori che si alterneranno nel corso delle recite in giro per l’Italia. Ci affidiamo ad un autore contemporaneo, Richard Bean: avevo già visto questo testo rappresentato a Londra e così abbiamo cominciato a lavorarci, a tradurlo e ad adattarlo. Servo per due prende spunto dalla storia del Servitore di due padroni di Goldoni, è uno spettacolo sulla Commedia dell’Arte ma rivisitato in chiave moderna.
Abbiamo chiesto a Stefano Accorsi – suo grande amico – la diversità tra cinema e teatro e lui ci ha detto che, pur essendo due mezzi molto diversi, entrambi nascono dalla necessità profonda di raccontare qualcosa…
Accorsi l’avrà letto da qualche parte (grande risata)! A parte gli scherzi, credo che la differenza fondamentale tra questi due mezzi di espressione sia la presenza del pubblico in sala, che ogni volta fa cambiare il tuo modo di stare sul palcoscenico. Io adoro questo contatto diretto. Sera dopo sera si avverte la presenza del pubblico e lo scambio è continuo, per questo il teatro non morirà mai: è un bisogno veramente rituale, antico, di condividere qualcosa, tra chi guarda e chi decide di essere guardato, proprio in ‘quel’ momento. Tutti insieme per condividere una sola cosa: il desiderio di riuscire a conoscerci più in profondità.
Il personaggio che interpreta in questo momento a teatro è quindi un moderno Arlecchino ossessionato dalla fame…
Le tipologie delle maschere nei personaggi che interpretiamo in Servo per due sono rima-5-
Al cinema ha recitato in prestigiose produzioni internazionali, con film visti da migliaia e migliaia di persone e dove la visibilità, rispetto ai numeri del teatro, è decisamente diversa…
movimenti di chi ti sta di fronte, addirittura come stanno sedute le persone, e tu, spettatore, puoi sentire il respiro dell'attore. Questo è uno scambio carnale.
Secondo Sandro Lombardi gli attori, nel passaggio dalla quinta al palcoscenico, fanno un salto che sembra piccolo ma che in realtà è enorme: fanno un passo e diventano ‘altro’. Come vive i momenti di preparazione alla scena?
La televisione arriva nelle case di tutti, mentre ormai molti capoluoghi di provincia sono sprovvisti di sale cinematografiche e quindi alla fine, secondo me, i film hanno sempre meno luoghi per essere proiettati. I teatri sono invece dappertutto, anche nei piccoli paesi di provincia. Il teatro è fondamentale per la comunità, e sono contento di incontrare il pubblico di persona, faccia a faccia: dai un volto al Paese, in qualche modo. Trovo una responsabilità maggiore a recitare in un piccolo teatro di provincia, piuttosto che sapere che potrei essere raggiunto da un pubblico, per esempio, americano ma che rimane comunque potenziale.
Io non so se è normale, ma mi sta capitando una cosa: andando avanti nel tempo ho sempre più paura e sempre meno certezze. Alla paura si reagisce all’inizio mascherandola con la forza e poi piano piano si accetta, ci si mostra per quello che si è, un po’ più svelati davanti agli altri. Così forse si riesce a comunicare meglio e del resto gli spettatori vanno a teatro per vedere le miserie, le capacità eroiche, le sofferenze, le gioie degli uomini rappresentate da quegli attori che recitano. Ecco perché l’attore non deve essere un semplice virtuoso del palcoscenico, ma uomo fino in fondo.
Lei ha detto che il pubblico presente in teatro è una cosa molto erotica, sensazione che la macchina da presa non ti dà…
C’è uno scambio erotico, nel senso che dal palcoscenico, ma anche dalla platea, si percepisce quando si crea quel silenzio, un istante di comunione. Allora tu, attore, puoi sentire tutti i
Il Teatro della Pergola è stato in passato anche la casa di Orazio Costa, uno dei maestri con cui Lei si è formato all’Accademia… Ho avuto la fortuna di avere Orazio Costa come maestro e, al di là della grande e storica tradizione del teatro, è anche per questo che sono onorato di proporre un debutto nazionale proprio alla Pergola. Io ho imparato tutto da Mario Ferrero e da Orazio Costa. Mi hanno insegnato il rispetto e la disciplina del mio lavoro; ancora oggi apro i diari di Costa e capisco meglio il mio mestiere. Penso alle sue parole e so che non smetterò mai di avere curiosità per una battuta, per le sue infinite possibilità.
«Non smetterò mai di avere curiosità per una battuta, per le sue infinite possibilità»
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Fabrizio Gifuni
TEATRO PIAZZA APERTA
C
ome è arrivato all’esigenza di essere, oltre che attore, anche autore dei suoi spettacoli?
di duemilacinquecento anni fa come parte integrante delle strutture sociali: andare in Senato a fare le leggi, andare al mercato o andare a teatro, erano tutte attività con un distinto peso valoriale, ma erano considerate esperienze ugualmente importanti per la Polis, che contribuivano a creare la coscienza e l’identità di una comunità. Non dobbiamo smettere di chiederci a che cosa servano, oggi, i teatri. Che compito possono continuare a svolgere. Cosa è cambiato. Pensiamo, ad esempio, alla smaterializzazione dei corpi prodotta dalla rete. I teatri, se non si fanno musei di se stessi ma tornano ad essere piazze aperte sulla città, stanno lì a segnalare l’evidenza e l’importanza dei corpi e degli sguardi, ancora più di ieri.
Sotto tanti aspetti ‘Na specie de cadavere lunghissimo è stato uno spettacolo decisivo nel mio percorso, proprio perché ha segnato uno spartiacque tra il periodo della mia formazione - che comprende il periodo dell’Accademia e i miei primi dieci anni di teatro in cui ho acquisito gli strumenti di base del mio lavoro - e una nuova fase, contrassegnata da un’esigenza più autoriale, in cui il lavoro di ideazione e di drammaturgia diventavano elementi sempre più indispensabili. Sentivo che il teatro era diventato un luogo troppo importante per potermi permettere il lusso di continuare a ‘giocare’ solo da interprete puro. Come invece continuo a fare al cinema con grande piacere. Il teatro mi è sembrato, a un certo punto, un luogo sempre più centrale, non solo per me, ma anche rispetto ai nostri tempi. Sono sempre più convinto che i teatri siano uno dei pochi luoghi rimasti in cui una comunità possa ancora ritrovarsi, liberamente, per condividere un momento di conoscenza, che passi attraverso l’esperienza di corpi vivi.
Per un attore, secondo Costa, uno dei modelli fondamentali sono i bambini… Sì, perché i bambini, in ogni istante, colgono quella che è l’essenza del gioco attoriale. Creano istintivamente regole e ruoli: “Facciamo che tu sei questo o che diventi quest’altro…” I bambini si danno delle regole da soli e all’interno di quelle regole che hanno inventato trovano il massimo della libertà e dell’abbandono.
Questo modo di vivere ed intendere il teatro proviene molto dal suo Maestro Orazio Costa?
«Il teatro è un luogo dove 'si spezza il pane insieme', in cui può determinarsi ancora un formidabile campo magnetico tra i corpi degli attori e i corpi degli spettatori»
Il suo insegnamento è stato il momento più importante della mia formazione. Dall’esperienza e dal pensiero di Costa sono maturate una serie di riflessioni che mi hanno accompagnato fino ad oggi. Non a caso Costa indicava nel teatro, e prima ancora nella poesia, una delle poche possibilità di salvezza dai tempi bui che ci circondano. Il teatro è un luogo dove ‘si spezza il pane insieme’, in cui può determinarsi ancora un formidabile campo magnetico tra i corpi degli attori e i corpi degli spettatori. D’altra parte, senza una partecipazione attiva del pubblico il teatro non è. O c’è vera condivisione o il fatto teatrale non esiste. Il teatro in occidente è nato più -7-
Perché ha scelto due autori come Pasolini e Gadda per realizzare il passaggio verso la scrittura?
Pasolini e Gadda sono due autori diversi quasi in tutto: per formazione, lingua, pensiero e visione della storia. Ma accostati contribuiscono a disegnare una specie di grande mappa cromosomica dell’Italia e degli italiani. Le loro parole ci raccontano cosa è accaduto a questo Paese, ci raccontano come eravamo, cosa siamo diventati (Pasolini), o forse cosa in fondo siamo sempre stati (Gadda). A questi autori sono dedicati i due spettacoli che compongono il progetto Gadda e Pasolini, antibiografia di una nazione, (titolo che contiene l’eco e la suggestione della definizione che Gobetti diede del primo fascismo), progetto interamente condiviso con Giuseppe Bertolucci, uno degli incontri più importanti della mia vita. Bertolucci era un uomo dotato di una straordinaria libertà interiore che si traduceva in una grande libertà artistica. Mi chiamò a lavorare nel 1 998, in un’edizione per Radio 3, dell’A rialda di Testori con Mariangela Melato. Poi nel corso del tempo si è creato tra noi un rapporto umano, oltre che artistico, molto forte. Giuseppe aveva conosciuto personalmente Gadda e Pasolini. Era figlio di Attilio Bertolucci, uno dei più grandi poeti italiani, che aveva accolto Pasolini a Roma quando era scappato dal Friuli. A questo incontro di anime, io e Sonia (l’attrice Sonia Bergamasco ndr), abbiamo dedicato un altro spettacolo, in forma di lettura, intitolato Attilio Bertolucci e Pierpaolo Pasolini, un’amicizia in versi. Giuseppe è stata l’unica
persona con cui avrei potuto condividere questo progetto. Per questo glielo ho proposto. E il suo talento e la sua generosità sono stati fondamentali.
E guardando questi spettacoli, che cosa si capisce del nostro Paese?
Pasolini ci parla della distanza tra la società dei padri e quella dei figli diventata voragine, della perdita dell’innocenza degli italiani, della mutazione antropologica, del genocidio culturale, dell’uso della televisione come strumento-clava del
Nuovo fascismo. Pensieri che oggi, comunque li si voglia valutare, risuonano in tutta la loro urticante interezza, mentre, con Pasolini vivo, sembravano solo le fosche previsioni di un eccentrico conservatore. Con Gadda si riflette sulla ferita originaria del Novecento, la Prima Guerra Mondiale, e sul ventennale flagello fascista. Gadda ci racconta le cause profonde che inducono gli italiani ad affidarsi, periodicamente, ad un istrione malato ed egotico. Ci spiega in termini medici come mai siamo attratti dall’entrare per poi riuscirne, a scadenze regolari, da maleodoranti paludi. Partendo da tutto questo e da tanto altro ancora abbiamo provato a mettere in scena un corpo a corpo con la Storia, con la poesia e con il teatro. Il corpo sta al centro della scena. Il corpo sostiene e genera ogni parola.
E’ ottimista per il futuro? E’ possibile un cambiamento? Non potrei lavorare, e in definitiva non potrei vivere, se in qualche misura non lo fossi… La
Ci vuole coraggio per salire in palcoscenico?
realtà va guardata il più possibile negli occhi per essere affrontata, anche con leggerezza. Tragico e comico del resto sono componenti costanti del nostro Paese. Il mio lavoro poi è fatto essenzialmente di gioco. Di luce e di buio. E il gioco è un formidabile strumento di cambiamento.
Penso al primo spettacolo che ho fatto, l’Elettra di Euripide con la regia di un altro mio maestro scomparso lo scorso anno: Massimo Castri. Un bellissimo debutto in una compagnia magnifica: Annamaria Guarnieri, Tonino Pierfederici, Galatea Ranzi. Il pubblico era sistemato soltanto sui palchetti e spiava la storia, che avveniva in platea, su un campo di terra arato, dall’alba al tramonto; io stavo nascosto per diverso tempo prima di entrare in scena e quando era il mio momento saltavo da un palco di secondo ordine e atterravo in platea iniziando ad inseguire Elettra. Per me quello è un ricordo indimenticabile. Mentre stavo lì quel quarto d’ora al buio accucciato, con il pubblico a fianco che non mi vedeva, in attesa di saltare, cercavo di non pensare minimamente a quello che stava per succedere. Un misto di paura e coraggio. Mi era toccato in sorte di saltarci dentro allo spettacolo. Una specie di rito iniziatico che mi è servito molto, credo, per capire intuitivamente, quasi inconsciamente, come si entra in un altro spazio e in un altro tempo. Un attore in definitiva si allena tutte le sere a far questo. A saltare nel tempo dell’immaginazione, a perdersi e a ritrovarsi nel tempo del sogno.
Lei conserva molti appunti presi durante le lezioni tenute in Accademia da Orazio Costa; in una di queste citazioni si parla della responsabilità dell’attore come “parte di questo tessuto esistente che è la lingua italiana”.
L’attore è costretto, che lo voglia o no, ad occuparsi concretamente e attivamente della propria lingua. Della nostra lingua se ne occupano gli scrittori, i poeti, gli studiosi. Cosa fa di diverso un attore? Riporta la parola nella sua sede naturale che è il corpo, staccandola dalla dimensione orizzontale della pagina scritta. Le parole hanno un peso. Gli attori si assumono la responsabilità di restituire il peso fisico di quelle parole. E di un’altra cosa ancora gli attori sono costretti ad occuparsi. Della memoria. Intesa sia come mnemotecnica - in fondo gli attori sono gli ultimi depositari dell’arte della memoria – sia come serbatoio di una coscienza storica da condividere.
La realtà va guardata il più possibile negli occhi per essere affrontata, anche con leggerezza. Tragico e comico del resto sono componenti costanti del nostro Paese. Il mio lavoro poi è fatto essenzialmente di gioco. Di luce e di buio. -1 0-
Teatri Uniti
LA COMPAGNIA A metà degli anni Ottanta, in un periodo dominato dagli individualismi e dall’omologazione delle idee, grazie alla convergenza organizzativa dei tre maggiori gruppi di ricerca teatrale dell’area napoletana, nasce la Compagnia dei Teatri Uniti. A un mondo diviso, personalistico e chiuso in se stesso, questa formazione contrappone l’apertura e l’unione dei teatri, lontano dalle semplici logiche di mercato. Tale risultato si ottiene dalla fusione di Falso Movimento – il gruppo guidato da Mario Martone, attento ai meccanismi della società dei mass media e all’intreccio dei linguaggi espressivi – con il Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller – dalla parte soprattutto della visualità pittorica e della sua utopia – e con il Teatro Studio di Caserta capeggiato da Toni Servillo, aggancio tra la memoria, la forza della tradizione teatrale e le suggestioni della realtà contemporanea. Ed è proprio Servillo a definire questa unione come “un incontro di lavoro ma anche un incontro sentimentale; una fusione che si accorda in pieno con la necessità che ha il teatro di trasformarsi, e risponde all’esigenza, comune alle tre compagnie, di rifondarsi, di aprire”. Secondo Martone il destino del teatrante è proprio quello “di rimettersi in cammino, ricominciare il percorso da una nuova origine che possa dar luogo ad affermazioni diverse” ed in tal senso, tra cinema e teatro, si muovono le produzioni dei Teatri Uniti, fino ad arrivare al 1 998 e al film Teatro di guerra che ribadisce inequivocabilmente un messaggio condiviso dall’intera Compagnia, dagli attori e i collaboratori che negli anni hanno seguito l’esperienza dei Teatri Uniti: l’affermazione del rito del teatro, della sua responsabilità civile nella società. Oggi Teatri Uniti si configura come un laboratorio permanente per la produzione e lo studio dell’arte scenica contemporanea. Intrecciando in maniera innovativa il linguaggio propriamente teatrale con quello della musica, delle arti visive, del cinema. Ed è l'aspetto sperimentale che in fondo caratterizza la Compagnia; se lo spettacolo va bene è, prima di tutto, perchè il gruppo è unito non solo sul piano artistico ma anche nella vita.
Toni Servillo
P
"LA VITA CHE CONTINUA..."
arlando del personaggio che interpreta nelle Voci di dentro lo definisce un “antieroe”, un “personaggio-uomo”. In che senso? Chi è Alberto Saporito secondo Lei?
autore è perché amo quell’autore. Per questo ritengo che quello che ha scritto vada interpretato in tutte le sue sfumature. Non mi piace sovrappormi alle intenzioni dello scrittore, cerco invece di muovermi all’interno dei contenuti del testo ‘risollecitandoli’. Lo spazio è l’unica forzatura, dovuta soprattutto a esigenze sceniche. La necessità è quella di rompere la prospettiva teatrale d’impianto ottocentesco, tipica dei teatri all’italiana che erano fatti soprattutto per una visione che favorisse il trompe-l’oeil e non tanto l’ascolto. Invece il nostro è, prima di tutto, un teatro di parola, legato alla recitazione. Mi piace molto l’idea di condurre gli spettatori quanto più possibile vicino agli attori, in un tentativo che non diventi didascalico, ma di semplice e concreto coinvolgimento. In Sabato, domenica e lunedì ricordo che
Il personaggio di Alberto Saporito è una straordinaria invenzione drammaturgica: un protagonista che è e diviene testimone della vicenda. Una protesi dello sguardo dello spettatore che osserva con emozione un mondo in dissesto.
In che modo lo spettatore di oggi può ancora rispecchiarsi nelle parole e nelle storie di Eduardo?
Eduardo scrive questa commedia sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, ritraendo con acutezza una caduta di valori che avrebbe contraddistinto la società, non solo italiana, per i decenni a venire. Mi sento profondamente legato ad Eduardo in quanto era un drammaturgo-attore che ha creato grandi copioni pronti per la recitazione. Non è stato solo il più grande attore italiano del suo tempo ma anche uno straordinario esempio di moralità e dedizione, e questo è ancora oggi molto importante per il nostro Paese. Perché dopo Sabato, domenica e lunedì, ha scelto proprio Le voci di dentro per tornare a
colpivano molto i suoi momenti di silenzio in scena, quando recitava stando seduto su una poltrona, addirittura con le spalle al pubblico: un silenzio assoluto, che era comunque fortemente espressivo. Nelle Voci
«L'ironia è una componente fondamentale di condivisione con il pubblico: favorisce l'accadimento, in quel preciso istante fa scattare quella sensazione speciale di esserci, a teatro, e non di subirlo»
mettere in scena Eduardo? Qual è il filo che lega i due spettacoli?
Sono due testi profondamente diversi, nelle Voci di dentro c’è l’espressione di un Eduardo più nero e cupo, sul filo della tragedia, mentre in Sabato, domenica e lunedì troviamo un tono di amara leggerezza di commedia sentimentale.
Il vostro teatro è riconoscibile per dei tratti scenici precisi: pensiamo, per esempio, al tipico uso delle luci o al palco aggettante che regge tutta la scena. Anche tra testi molto diversi tra loro, come si riescono a mantenere le stesse caratteristiche?
Ho nei confronti dell’opera rappresentata un rispetto quasi accademico, dettato da una curiosità intellettuale molto forte. Quando scelgo un -1 2-
ascoltare le proprie “voci di dentro”?
di dentro che peso assumono le parole e i re-
lativi silenzi?
Le voci di dentro non sono le voci della coscienza, ma quelle che vengono dal profondo. Talvolta è più facile ascoltare o non ascoltare le voci della coscienza, che riconoscere le voci del profondo caratterizzate da un allucinante senso profetico.
Lo stesso presente in gran parte della drammaturgia di Eduardo, spesso all’insegna di una parola che tende per sua natura al silenzio. Come viene espresso magnificamente nel personaggio di Zì Nicola, verso il cui silenzio tende tutta la parabola di Alberto Saporito.
I Teatri Uniti, di cui Lei è uno dei fondatori, nascono negli anni Ottanta. Com’è cambiata la vostra compagnia nel corso del tempo?
Un aspetto estremamente affascinante nei suoi allestimenti di Eduardo De Filippo è che mantengono sempre un rispetto per la tradizione riuscendo però, allo stesso tempo, a rinnovare questo autore. Come si arriva a coglierne tutta la complessità?
In realtà siamo rimasti una struttura leggera che lavora fra il teatro e il cinema, promuovendo l’attività dei giovani e realizzando esperienze di innovazione. Radicati a Napoli pur non avendo un teatro, restando mobili e cercando di avere un rapporto con le istituzioni più che con il sistema commerciale.
Eduardo definiva la tradizione come la vita che continua. La lettura di un testo è soprattutto un approfondimento, attraverso la pratica scenica, dei preziosi valori presenti in esso, per risollecitarli, riuscendo a cogliere l’eccitazione viva che essi trasmettono, portando il passato in rapporto con il presente.
Nei vostri spettacoli, oltre a continui spunti di riflessione, è sempre presente l’elemento ironico.
Non cerchiamo l’ironia fine a se stessa, anzi spesso la battuta divertente serve a sciogliere un momento di tensione, piuttosto che a cercare la risata a tutti i costi. L’ironia è una componente fondamentale di condivisione con il pubblico: favorisce l’accadimento, in quel preciso istante fa scattare quella sensazione speciale di esserci, a teatro, e non di subirlo. E’ come se, al di là del testo, ci fosse sempre un ‘retropensiero’ ironico che toglie pesantezza e letteratura al fatto teatrale.
Il suo primo ricordo legato a Eduardo De Filippo. Ho più volte ricordato l’emozione di assistere alle versioni televisive delle commedie di Eduardo e la scoperta di tutti quei personaggi in cui poi potevo rispecchiare i parenti e i membri della mia famiglia raccolta intorno alla televisione.
Nella realtà in cui viviamo oggi è difficile
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Nella Trilogia della villeggiatura di Goldoni, il vostro precedente spettacolo, le vicende si svolgevano scandite, appunto, dal tempo destinato alla villeggiatura: la partenza, il tempo dell’estate, il rientro. Nelle Voci di dentro il tempo eduardiano della realtà e quello dell’illusione finiscono per sovrapporsi?
scenza attraverso una relazione intima e profonda con tutti gli strumenti del tuo mestiere. Recitare al cinema è un'attività parallela che svolgo proficuamente e con piacere, spesso d'estate, scegliendo con cura sia le sceneggiature che gli autori che me le propongono.
Lei ha detto che Eduardo è “un grande facitore di copioni”, nei quali “il profondo spazio silenzioso che c’è fra il testo, gli interpreti ed il pubblico va riempito di senso sera per sera sul palcoscenico, replica dopo replica”. Un attore, in scena, ne avverte la responsabilità?
Essere due veri fratelli, per giunta nel ruolo di due personaggi a loro volta fratelli, moltiplica l'aspetto seduttivo che la commistione di realtà e finzione opera sul pubblico, è un invito a sciogliere la relazione scenica fra studiata naturalezza e calcolata immediatezza.
Con suo fratello avevate già condiviso la scena nello spettacolo di teatro-musica Sconcerto. Nelle Voci di dentro diventate fratelli anche in scena. Che corto circuito emozionale si crea?
Questa sovrapposizione continua fra il tempo della realtà e il tempo del profondo e la sua confusione con il sogno è un elemento di grande fascino del testo.
La preparazione alla scena: è un rito? Come si prepara?
Assolutamente, sempre, ed è per questo che ogni sera si va in scena con il cuore in gola.
Noi di solito ci riuniamo tutti quanti, ci diciamo Merda! e ci stringiamo le mani. E’ una tradizione; da tempo lo facciamo con molta semplicità, senza attribuire a questo momento nessun significato recondito. Prima di fare uno spettacolo, durante le prove, io ho molte paure. Vado sempre teso in scena. Superate però le prime repliche della tournée e l’ansia del risultato, alla fine diventa anche una gioia incontrare il pubblico. A quel punto non ho bisogno di esorcizzare la paura: per esempio, in una serata come questa, io non vedo l’ora di andare in palcoscenico, che cominci lo spettacolo, e che sia una bella serata!
Negli ultimi suoi lavori i personaggi vivono, in qualche modo, una crisi: quella della politica nel film Viva la libertà; una crisi esistenziale e sociale nella Grande bellezza. Nelle Voci di dentro la crisi dei suoi personaggi da quale utopia è generata? Da nessuna utopia. Sono la legittimazione di un presunto delitto, la mancanza di fede, intesa come fiducia, a determinare un senso di disorientamento generale.
Quanto il teatro influenza le sue interpretazioni cinematografiche? La pratica del teatro è un percorso di cono-
I fratelli Pepp e e Toni Servillo
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Chiara Francini
IL PANIERE DELLE DELIZIE
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a sua carriera è iniziata in teatro, addirittura ha studiato proprio a Firenze, al Teatro della Limonaia di Sesto; che cosa l'ha spinta a tornare al teatro dopo tanta tv e tanto cinema?
guarda il teatro, devo iniziare assolutamente ‘a fare memoria’ per fissare la parte. La Ginzburg aveva ragione, ma il suo testo è bellissimo perché parla di una storia d’amore meravigliosa, ogni volta che lo rileggo lo trovo cosi attuale, così vicino anche alla rappresentazione di quello che dovrebbe essere il rapporto perfetto, l’equilibrio di una coppia: amore assoluto e compenetrazione reciproca, un’alchimia tra uomo e donna. Del resto lo spettacolo è stato scritto da una donna pensando a tutte le donne e, più in generale, all’essere umano: si analizza in maniera perfetta il rapporto d’amore e si toccano tante tematiche andando anche in profondità, ma sempre con ironia, in maniera assolutamente leggiadra.
In realtà il teatro, può sembrare una banalità, ma è il mio primo amore. Ho iniziato a studiare alla Limonaia e sono stati tre anni meravigliosi, fatti di passione e di amore per il teatro: mi ricordo il periodo in cui fai le prove, e le fai per tante ore… E’ la sintesi perfetta del mestiere dell’attore la fase della formazione teatrale e quindi tornare a teatro è stata una scelta consapevole, una scelta di testa ma soprattutto di cuore. E poi - parlando sinceramente - quando sei riuscita a consolidare la carriera cinematografica e hai avuto una certa popolarità, diventa più facile riuscire a fare teatro, e puoi scegliere dei testi giusti per te. E’ in tournée con Ti ho sposato per allegria
Un'attrice, per mestiere, è abituata ad usare la parola in tutte le sue molteplici possibilità.
di Natalia Ginzburg; la stessa scrittrice pensava che nessuna attrice avrebbe mai imparato a memoria tutti i dialoghi presenti nel testo…
Talvolta l’uso della parola, anche in maniera ridondante o addirittura in direzione ossessivo- ripetitiva, può essere anche un metodo per alleggerire la vita. Sono laureata in Arte del dialogo e Retorica, quindi ho sempre inteso la parola come un microcosmo: secondo me, non esiste niente di più potente di una parola. E’ uno strumento per esprimere il pensiero, quindi bisogna averne rispetto e qualche volta timore… Uno dei miei miti è Umberto Eco, lo studioso per eccellenza delle parole: potrei morire se lo incontrassi, mi piace moltissimo!
Io ho una buona capacità mnemonica e, per quel che concerne il cinema, imparo facilmente di tutto… Invece, per quanto ri-
«Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo, per me l'arma giusta che ci aiuta a sopravvivere è l'ironia»
Da attrice, è difficile trovare dei testi che parlino di donne? Assolutamente sì. Viviamo in un mondo maschilista, siamo in un presente dove le donne vengono sempre ritratte come ‘le madonnine’, è difficile uscire da questo cliché. Ho la fortuna, e per questo ringrazio il produttore Roberto Toni, di fare uno spettacolo in cui la protagonista assoluta è una donna, e in genere non ci sono molti spazi per le donne sul -1 6-
Come vive la preparazione alla scena, il tempo che la separa dall’interpretazione del suo ruolo e dal confronto con il pubblico?
palcoscenico. Questo ruolo era già stato interpretato in teatro dalla grandissima Adriana Asti, al cinema l’aveva portato Monica Vitti… Sono attrici che diventano anche dei modelli di riferimento. Monica Vitti è riuscita a ritrarre l’immagine della donna in tutta la sua versatilità: un’attrice che ha lavorato con registi come Antonioni, che era contemporaneamente divertente, con i ruoli delle commedie, e drammatica, nelle sue interpretazioni più serie. Lei incarna bene quello che, in realtà, siamo noi donne: creature non soltanto belle e divertenti o soltanto drammatiche, ma siamo un po’ di tutto, un insieme di più elementi.
Sinceramente, per quel che concerne il cinema o la fiction, non ho assolutamente nessun tipo di ansie, invece in teatro c’è più angoscia. Tutto si affida all’istante che stai vivendo, quindi sei ‘nuda’, nel senso di indifesa, davanti al pubblico. Dieci minuti prima di andare in scena non ricordo nulla, ho il buio totale in testa… E’ l’emozione, che c’è sempre. E’ un po’ come quando ti trovi davanti a certi momenti cruciali della tua vita, in cui non puoi in nessun caso tornare indietro: puoi fare solo un passo, in avanti. Comunque non ho riti scaramantici particolari per sfidare questo momento: mio padre è un uomo profondamente concreto, e così mi ha insegnato a stare con i piedi per terra. Tendo sempre a cercare di fare il meglio e questo per una forma di rispetto non solo verso il pubblico, ma anche verso me stessa. Il lavoro è fatto per me di passione, ma anche di rigore: sono un po’ ‘calvinista’ in questo, ci vuole responsabilità.
L’ironia che la caratterizza profondamente come attrice, è anche una scelta di vita?
L’ironia, il sarcasmo, sono qualcosa di innato. Sono una persona con i suoi momenti, anche di estrema malinconia, ma cerco di praticare il sorriso e la leggerezza anche fuori dal palcoscenico o dal set, nella vita di tutti i giorni, perché credo che l’ironia salverà il mondo. Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo, per me l’arma giusta che ci aiuta a sopravvivere è l’ironia. Diciamo che l’ironia può essere sia un mezzo che un fine per combattere la crisi e i nostri tempi bui.
E quindi, per Lei, che cos’è il pubblico? Il paniere delle delizie!
«Monica Vitti è riuscita a ritrarre l'immagine della donna in tutta la sua versatilità»
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Mimmo Paladino
LA SCENA DELL'ARTE esempio indipendente dalla mia produzione artistica e me lo ha chiesto. Io non faccio mai ritratti, l’unica deroga è stata una mostra sulla scenografia allestita a Ravenna: in quell’unica occasione ho presentato dodici ritratti di drammaturghi e uno di questi era Eduardo De Filippo. Si tratta della famosa scena della commedia Questi fantasmi, quando dal balcone racconta al suo vicino come si prepara un buon caffè. Infine per le scenografie di Giocando con Orlando ho pensato a qualcosa di epico ma che fosse allo stesso tempo giocoso, come una giostra del Medioevo condotta da cavalieri fantasiosi. Mi sono venuti in mente i cavalli della battaglia di Anghiari ritratta da Paolo Uccello, il quadro che è agli Uffizi, e li ho trasportati in palcoscenico riempiendoli di colore.
Diciamo che ultimamente sto lavorando come un vero scenografo, ovviamente però chi chiede la mia collaborazione sa sempre che non è prettamente scenografica: il mio è un tipo di lavoro parallelo, in accordo con la regia e con l’interpretazione che il testo presenta. Lo spazio teatrale per un pittore è uno spazio inedito: chi lavora per il teatro si relaziona con le voci e la gestualità degli attori, si immerge nelle luci, comunque vive di un’atmosfera collettiva e questo aspetto costituisce una novità rispetto al lavoro quotidiano di un artista che ha a che fare con un quadro attaccato al muro o con una scultura nello spazio. Il pittore lavora nello studio, con la sua tela, mentre lo spazio del teatro rinnova una forma di magia antichissima che non si è mai spenta.
Ho letto che ha definito l’arte come “un lento procedere attorno al linguaggio dei segni”…
In questa stagione teatrale due spettacoli sono in tournée con sue scenografie: Giocando con Orlando con Stefano Accorsi e Marco Baliani, Operette Morali di Mario Martone; la copertina del programma di sala delle Voci di dentro dei Teatri Uniti è una sua opera…
E’ chiaro che più si procede e più questa idea diventa corposa, nel senso che l’artista ha a disposizione diversi segni linguistici per esprimersi: si può spaziare da un dipinto a una scenografia, ma anche addirittura a una sperimentazione con il cinema. Un anno fa ho realizzato un film, Don Chisciotte, con protagonisti Lucio Dalla e Peppe Servillo nei ruoli di Sancho Panza e del poetico cavaliere errante… Anche il cinema in fondo non è altro che uno schermo dipinto o una struttura di luce, è così che va inteso.
Con Mario Martone ci conosciamo da tempo, è stato uno dei miei primi incontri teatrali. All’inizio ero titubante ad accettare di lavorare alla messinscena delle Operette morali perché Leopardi mi sembrava un autore estraneo alla mia concezione figurativa, invece con Mario l’affiatamento è tale che non ho potuto rifiutare. Grazie a lui sono riuscito a comprendere l’aspetto estremamente visionario di Leopardi: anche se si tratta di uno scrittore concettuale, molto 'di pensiero', ecco che in scena ci sono le mummie, il venditore di almanacchi, il dialogo tra la terra e la luna, tutte immagini fantastiche e fortemente evocative… Anche con Toni Servillo ho una lunga consuetudine, in passato abbiamo fatto insieme delle letture dell ’Iliade e dell’Odissea al Mercadante di Napoli; Toni conosceva questo mio disegno che era un
«Sono tempi dove il mondo ignora l'emozione e il sogno, quindi forse l'arte adesso si trova un po' alla deriva...» -1 8-
© Mimmo Paladino
L
ei ha realizzato tante scenografie teatrali: in che punto l’arte e il teatro possono incontrarsi?
Š Mimmo Paladino
tra un mondo culturale e un altro, la concatenazione degli eventi è continua e nel tempo che viviamo questo diventa ancora più vero: la concatenazione culturale è universale, poiché i linguaggi si mescolano sempre di più.
Come può l’opera d’arte sopravvivere al tempo?
Se è arte sopravvive di per sé! E’ possibile che un certo pensiero artistico venga ignorato in un momento storico, per poi essere scoperto in un'altra fase, ma se è arte, arte vera, sopravvive sempre.
Lei ha girato tanti Paesi e partecipato alle più importanti esposizioni d’arte contemporanea del mondo; come cambia il modo di recepire l’arte nei diversi luoghi geografici? L’arte è un linguaggio universale. Un quadro dipinto in Italia e portato in America o in Giappone non cambia di potenzialità a seconda delle diverse località, anche se è la percezione di quel quadro a modificarsi. Le stratificazioni culturali sono differenti: guardo un quadro e ne leggo i segni occidentali, non posso scorgere tutte le implicazioni orientali, per esempio. Ogni quadro si porta dietro le sue radici.
E pensando proprio alla figura di Don Chisciotte, l’arte può riuscire a realizzare l’utopia? A rendere reali i sogni?
L’arte deve solo provocare sogni e utopie, non può fare altro. Se smette di provocare sogni e utopie perde di originalità. L’arte è in grado di rendere visibile “ciò che gli altri non vedono”, come diceva proprio Don Chisciotte, e sicuramente possiede delle possibilità intuitive che precedono tante altre discipline. L’artista si muove sempre con un’attenzione rabdomantica verso la realtà che lo circonda, e nel corso dei secoli ha sempre avuto questa capacità. Tutto ciò che in arte si intuisce, poi nella vita può realmente accadere. Sono tempi dove il mondo ignora l’emozione e il sogno, quindi forse l’arte adesso si trova un po’ alla deriva…
Shalom Neuman, l’inventore del Fusionism, ci ha detto di vivere l’arte come “un viaggio che non è mai uguale a se stesso”. Anche per Lei è così?
Sì, può essere così ma, allo stesso tempo, l’arte può anche ripetere se stessa. Non è mai qualcosa di estremamente inedito, l’arte anzi si appoggia a ciò che è stato fatto precedentemente e ancora più precedentemente. Non si assiste mai ad una frattura profonda -20-
I cavalli della sceno grafia di Giocando
con Orlan do
Shalom Neuman FUSIONISM
«Se il nostro mondo quotidiano è composto da stimoli che creano un continuo sovraccarico sensoriale, allora perché ci dovremmo limitare nelle arte visive, cioè nella pittura, nella scultura, nella stampa, nei video e nelle immagini digitali computerizzate?».
Ospite dell’edizione 201 3 del Premio Galileo 2000, durante il quale è stato premiato per la sua attività artistica, Shalom Neuman è stato il protagonista di una storica performance al Teatro della Pergola. Neuman è conosciuto come fondatore del movimento Fusionism, un tipo di espressione artistica che si basa sulla fusione, sull'integrazione e la mescolanza di diversi elementi, anche i più disparati, coinvolgendo pittura, scultura, suono, luce, video, collage e fotografia attraverso la capacità di assemblaggio dell'artista. Alla Pergola Neuman ha realizzato un progetto molto ambizioso: convogliare cento artisti di diversa formazione artistica in un unico e solo evento, una Temporary Autonomous Zone, un luogo che si trasforma in uno spazio libero, fuori dal tempo, dove ogni singolo artista è libero di esprimere la propria arte. L’obiettivo è fondere le singole discipline tra di loro, creando così un ambiente multidisciplinare e multisensoriale in cui gli artisti sono liberi di utilizzare qualsiasi mezzo a disposizione. In pieno stile Fusionism.
W
C
hat is art for you? What is your definition ofart?
he cos'è l'arte per Lei? Qual è la sua definizione di arte ?
L'arte è un linguaggio con un’intera gamma di emozioni e forme di espressione, allo stesso modo della parola scritta. Gli artisti hanno imparato a comunicare proiettando la filosofia, le scoperte scientifiche del proprio tempo nell’arte. L’artista è 'una specie di imbuto' che assorbe le influenze che definiscono il tempo in cui vive e i costumi della società, che a sua volta influenzano la propria arte .
Art is a language with the full range of emotions and forms of expression that written words have. Artists learn to communicate and also project the philosophy and scientific discoveries of their time. An artist funnels and absorbs the defining influences of his/her times and uses those influences in his/her art.
In your opinion, how can art approach the theater? And at what point art and theater come together?
Secondo Lei, in che modo l'arte può avvicinarsi al teatro? E in che punto l'arte e il teatro si incontrano?
Theater is an art form. Fusionism encompasses all art forms. Fusionism is the seamless integration of all artistic disciplines creating a multi-sensory art. Traditional theater is hierarchical. The playwright and director dictate the message the visual surroundings are subordinate to the narrative. Fusionism advocates alternatives and variations to that formula. There are limitless optional variations possible that should be and will be explored in the future.
Il teatro è una forma d'arte. Fusionism comprende tutte le forme d'arte. Fusionism è la perfetta integrazione di tutte le discipline artistiche, il cui risultato finale è un'arte multisensoriale. Il teatro tradizionale è gerarchico. Il drammaturgo e il regista suggeriscono un messaggio e tutto ciò che è visuale è subordinato alla narrazione. Fusionism porta avanti le alternative e le varianti per uscire da questa formula. Ci sono infinite possibili opzioni e variazioni che dovrebbero essere esplorate, e lo saranno, nel futuro. -21 -
You said that art for you is a “ Journey documenting our times “; after so many years of career do you continue to experience art as a journey? Like so many artists my journey as an artist has documented my life and my life's influences. This translates into simultaneously documenting the times in which we live.
Art can be the answer to the crisis that we are experiencing?
From the point of view of an artist I think we need to break down the barriers between people of all races and ethnic differences. We need to work together and be vigilant, preserve and protect our freedom and our democracy from the forces that are pushing us towards a corporate oligarchy. Art such as Fusionism can create a community and bring people together for the good ofall.
Can art be able to realize the utopia? Make dreams come true?
I don’t think anything can realize utopia. The ideal is there to strive for.
As a work of art can survive the test of time?
Fusionism is expansive, inclusive. There are no limits to the combinations, of disciplines and techniques one can invent. Fusionism integrates and liberates; it creates dialogue and community. It is what we desperately need to bring people together. It is a life affirming experience. Fusionism will survive the test of times because it opens doors for people to reinvent themselves. If society values an artwork's ideas, then the artwork has a chance to have a lasting impact.
Ha detto che per Lei l'arte è un viaggio mai uguale a se stesso; dopo tanti anni di carriera continua a vivere l'arte come un viaggio? Come tanti altri artisti, il mio cammino da artista documenta la mia vita stessa e tutto ciò che l’ha influenzata. Questo si traduce in una simultanea documentazione del tempo in cui viviamo.
L'arte può essere la risposta alla crisi che stiamo vivendo ? Dal punto di vista di un’artista, penso che abbiamo bisogno di abbattere le barriere tra le persone di tutte le razze e le differenze etniche. Abbiamo bisogno di lavorare insieme e di essere vigili, preservare e proteggere la nostra libertà e la nostra democrazia dalle forze che ci spingono verso una oligarchia aziendale. L'arte come il Fusionism può creare una comunità e unire le persone per il bene di tutti .
Può l’arte essere in grado di realizzare l'utopia? Rendere reali i sogni?
Penso che non esista niente che possa essere in grado di realizzare un'utopia. L'ideale è lottare per realizzare i propri sogni.
Come un'opera d'arte può sopravvivere alla prova del tempo ?
Fusionism è un’arte di espansione e inclusione. Non ci sono limiti di combinazioni, di discipline e di tecniche, tutto può essere inventato. Il Fusionism integra e libera allo stesso tempo, crea dialogo e senso di comunità. E oggi più che mai abbiamo un disperato bisogno di unire le persone. E' la vita che conferma l'esperienza. Il Fusionism sopravviverà alla prova del tempo, perché apre le porte alle persone dando a tutti la possibilità di reinventarsi. Se la società valorizza le idee scaturite dall’arte e dagli artisti, allora l'opera d'arte ha la possibilità di durare nel tempo.
performance al Teatro della Pergola Al centro Shalom Neuman mentre dipinge; nella foto a lato un momento della
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Sergio Givone
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LA VERITÀ DENTRO UNA FAVOLA
I
n passato ha discusso con Mimmo Paladino della figura di Don Chisciotte e del significato dell’arte, collegando il discorso anche al tema dell’utopia.
poeta tedesco romantico, Novalis, diceva che il mondo deve diventare favola e l’arte è in grado di compiere questa magia. Il mondo della favola non è più quello in cui si nasce, si vive e si muore veramente, ma è quello in cui ci si immagina di vivere, di nascere e di morire. Quando noi raccontiamo una favola a un bambino, è vero che precipitiamo nell’irreale, ma agli occhi del bambino il mondo glielo restituiamo più vero del vero, più reale del mondo com’è realmente. Per esempio, quando ricordo con i miei figli gli anni della mia infanzia sembra che io racconti delle favole: gli parlo dei contadini e delle mondine, del tempo di un lavoro contadino come oggi non riusciamo neanche più a immaginare, ma grazie a questi racconti che cosa scopro? Mi accorgo che facendo precipitare il mondo nella favola da lì, da questo pozzo di ricordi, viene fuori davvero un cappello magico da cui traggo delle verità.
C’è stato chi ha pensato all’arte come a un’utopia, pensiamo ai grandi autori del pensiero utopico, anche del Novecento, come Adorno o soprattutto Bloch: per loro l’arte è una forma di rappresentazione che non ha tanto a che fare con la vita così com’è, ma la vita come vorremmo che fosse. In questo senso arte e utopia hanno un legame molto stretto, però si è iniziato anche a diffidare di queste proiezioni: l’arte non può essere la realizzazione su un piano utopico, irreale, dei nostri desideri ma vogliamo di più, vogliamo che l’arte ci dica qualcosa di essenziale su di noi, sul nostro mondo. L’arte non può essere soltanto l’espressione dei desideri irrealizzati e irrealizzabili perché vogliamo verità. Questa idea dell’arte come utopia io la interpreterei in senso più forte dicendo che l’arte, e questo riguarda soprattutto il teatro, è uno spazio in cui il mondo che conosciamo, nel quale viviamo, viene fatto precipitare e ci viene restituito come non l’abbiamo mai visto, ma come effettivamente è. Un po’ questo accade con le favole: un grande
Seguendo questa logica, il teatro può essere quindi il luogo dove i sogni si realizzano? Esattamente. O meglio: il teatro è quel luogo in cui la realtà diventa sogno. Secondo Shakespeare noi “siamo fatti della stessa sostanza dei sogni”, ma per arrivare a questa conoscenza, per riuscire a capire, dobbiamo andare a teatro. E’ il teatro che svela il mondo. Si nasce, si vive e si muore, questa è la vita, ma dal palcoscenico ci viene restituita una verità più profonda, che ci dice tutto e ci conferma che la vita è sogno.
«Il teatro diventa un luogo dove la realtà si svela a noi nelle sue profondità, nei suoi sogni e anche nei suoi incubi» -24-
quanto tempo del nostro domandare. E’ chiaro che la tragedia non è la commedia. Nella commedia infatti la domanda “perché soffro?” trova una risposta. Ed è "perché non sei consapevole di come stanno veramente le cose, perché ti fai male senza capire come stai agendo": la gente ride, questa è la commedia. Invece nella tragedia il "perché" resta sospeso: la domanda rimane senza risposta, ecco la vera dilatazione del tempo teatrale.
In questo senso il teatro diventa uno spazio dentro il quale facciamo un’esperienza di conoscenza e di esplorazione, scoprendo quello che neanche sapevamo che il mondo fosse: un luogo dove la realtà si svela a noi nelle sue profondità, nei suoi sogni e anche nei suoi incubi.
Secondo Peter Brook il teatro è un mondo a sé, dove il tempo si percepisce in maniera diversa perché sul palcoscenico l’attore ha sempre modo di ricominciare da capo il suo ruolo e quindi la sua esistenza.
Essere allo stesso tempo filosofo, Assessore alla Cultura e Presidente della Fondazione Teatro della Pergola, che tipo di responsabilità comporta?
Il modello al quale è difficile non far riferimento è quello della tragedia: in teatro c’è un prologo, che ci dice cosa è successo, e c’è un esodo, dove prendiamo coscienza di quello che è accaduto. Il tempo si allunga e si fa più intenso perché noi ci interroghiamo, anche sulla nostra sofferenza. Il modello della tragedia è fondato sul personaggio di Dioniso, il Dio sofferente, e tutti i grandi personaggi della tragedia non sono altro che variazioni su questo tema. Dioniso sta sulla scena e fa una domanda inaudita per un Dio, chiede perché soffre. Ecco che risuonano argomenti che ci toccano, profondamente: perché sono al mondo e ho un destino di cui non riesco a capirne il senso? E perché gli Dei mi colpiscono ingiustamente? Questo ‘perché’ è come un risuonare senza fine, tra un prologo ed un esodo, e il tempo si dilata all’infinito, in
Ho delle responsabilità dirette perché devo presiedere un Consiglio di Amministrazione, cosa che naturalmente non facevo quando ero un semplice cittadino che andava a teatro, magari sognando una volta o l’altra di scrivere per il teatro… Anche se ora ho dei mezzi che mi permettono di intervenire direttamente nelle dinamiche politiche, la responsabilità che come intellettuale sento di avere nei confronti del teatro è la stessa di un tempo. E’ la responsabilità che si deve avere verso un luogo utopico, uno spazio nel quale noi ci confrontiamo con noi stessi e con gli altri, ponendoci le piccole e grandi domande della nostra vita.
*Professore ordinario di Estetica dell'Università degli Studi di Firenze, Assessore alla Cultura e Contemporaneità del Comune di Firenze, Presidente della Fondazione Teatro della Pergola
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LA PAROLA AL PUBBLICO
Qual è il tuo primo ricordo legato al teatro? Come dimenticare la prima volta dentro un teatro.. Fu Amore a prima vista.. Ricordo un Sospiro trattenuto, la mia piccola bocca semiaperta, gli Occhi attenti, spalancati davanti a me. Mi sorprese il suo forte odore di polvere e caramello, dolce e pungente.. Mi abbracciò l’oscurità e l’imponenza delle tavole di legno di un Palcoscenico immenso e spaventoso, destinatario dei miei sogni di piccola ballerina. Su quel Palco non c’era finzione, tutto quello che vi accadeva sopra e dietro le quinte era realtà, una realtà fatata e magica. Una realtà perfetta, non corrotta. Fu allora che decisi: era lì con Lui che volevo stare.. E lì accanto a Lui che sono stata in tutti questi anni, ed ancora adesso.
A distanza di anni l’emozione non è mutata, anzi è cresciuta, aumentata dai ricordi che legano gli anni trascorsi accanto a Lui, fianco a fianco, polvere e respiro, applausi e risate, abbracci e litigi.. Il suo ipnotico Incanto potrebbe essere descritto nel momento esatto in cui il pubblico riempita la sala con le sue rumorose chiacchiere, le sue risate, improvvisamente tace, il brusio si calma, le luci iniziano a spengersi e piano piano cala l’oscurità.. poi dal fondo della sala, in un punto indefinibile, si alza una leggera brezza, che accarezza la faccia ed il Sipario, fiero custode del mistero, oscillando in un walzer perfetto, si apre maestoso e leggero, gigante libellula rossa, delicata disvelatrice di sogni e magie.. E così.. “frou, frou”.. mentre si muove sinuoso.. ”frou, frou”.. mentre annuncia l’inizio dell’incanto.. ”frou, frou”.. ed il suo sorriso così spalancato introduce gli spettatori verso nuove realtà di sogni imperfetti.. E dentro quella visione, come fosse la prima, il mio Cuore sussulta.. A.
I MESTIERI DEL TEATRO
Marco Balsamo
LA PASSIONE DI UN PRODUTTORE
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om’ è nata l’idea di intraprendere questo mestiere?
invece faccio il contrario, creo rapporti. Mi piace che gli attori, gli organizzatori e i direttori dei teatri diventino un tutt’uno perché è più giusto, più bello e più creativo.
Ci sono cascato dentro in questo mestiere! L’ho sempre affrontato come un gioco, e per me continua ed esserlo, continuo a giocare ma con grande rispetto. Definirei il teatro un gioco molto professionale. Con tutte le persone con cui ho avuto la fortuna di condividere un progetto, ho condiviso questo spirito gioioso. Due amici di 'gioco' con cui ho la fortuna di lavorare sono Stefano Accorsi e Marco Baliani. Lavorare con loro significa lavorare guardando sempre avanti, costruendo sempre nuovi progetti. Siamo continuamente in evoluzione, sempre con nuove energie. Così mi piace lavorare, così mi diverto! Questa voglia di giocare con il teatro me l’ha trasmessa un Maestro del teatro francese morto da poco, Jérôme Savary; lui mi diceva sempre: “In francese ‘fare teatro’ si dice jouer, quindi 'giocare'. Fino a quando non ti accorgerai che il teatro è un lavoro sarà sempre bellissimo”.
Il produttore vive la responsabilità anche nei confronti del pubblico?
Ogni progetto è pensato a favore del pubblico, ma senza andare troppo ‘verso il pubblico’: cerchiamo di aggiungere sempre qualcosa di inaspettato, soprattutto nella scelta dei testi. Qualche volta intervengo nella parte più artistica della messinscena di uno spettacolo, ma il produttore in fin dei conti è un risolutore di problemi pratici. Ho avuto la fortuna di lavorare con attori che hanno scelto di fare teatro e hanno detto di no a qualcos’altro pur di affrontare la tournée, una volta iniziato questo percorso si sono totalmente innamorati del teatro. Ho collaborato per quindici anni con Silvio Orlando che veniva dal cinema e per quattordici anni il mio lavoro è stato convincerlo che non doveva abbandonare il teatro, anche se mi sono accorto che mi prendeva in giro: non avrebbe mai abbandonato il teatro! Non lavoriamo più insieme ma siamo amici e continuiamo a condividere la passione per questo mestiere.
Dal punto di vista economico, si avverte la differenza rispetto a qualche tempo fa?
Certo, avverti la differenza e la responsabilità di chi lavora per te e con te, perché, per quanto si dica che di cultura non si mangia, con il teatro campano intere famiglie. E poi, da produttore, senti anche il peso delle persone a cui vendi gli spettacoli, perché passi a loro l’onere del costo e le problematiche dei pagamenti. Bisogna sempre avere un rapporto con la realtà e rendersi conto di quello che si sta chiedendo: non si deve mai eccedere nelle richieste. Il mio modo di lavorare si può definire ‘a rete’: scelgo di collaborare solo con alcune persone con cui c’è rispetto e stima reciproca. Solo così si crea una rete reale di relazioni e di condivisione vera. Molti produttori mantengono i loro progetti distanti gli uni dagli altri, per paura di perdere l’attore oppure un rapporto importante; io
«Siamo continuamente in evoluzione, sempre con nuove energie. Così mi piace lavorare, così mi diverto!» -28-
Cos’è che fa scattare la scintilla e dire: “Questo progetto funzionerà”?
dovrebbe ricordarsi che il teatro è un momento di aggregazione sociale, che la gente non smette mai di cercare.
Bisogna crederci. Per esempio, abbiamo prodotto uno spettacolo, Art, con la regia di Giampiero Solari. Nessuno lo voleva fare, tutti quelli che leggevano il testo non erano convinti ma io pensavo che fosse perfetto per il nostro momento storico. Ho coinvolto nel cast Alessio Boni, Alessandro Haber e Gigio Alberti, lo spettacolo è stato forse uno dei più belli degli ultimi anni, molto intenso. In genere intervengo nella scelta del cast quando si forma lo spettacolo, ma un regista costa. Se un produttore paga un regista per poi dirgli ai provini cosa fare, allora è un cretino… Tutti pensano alle raccomandazioni in teatro, però non è così: il pubblico se ne accorge e va a finire che per prendere ‘l’attore o l’attrice di turno’ butti all’aria uno spettacolo costato anche 250.000 euro.
E’ difficile organizzare una tournée?
Complicato quasi impossibile! Le tournée sono un incrocio tra le esigenze temporali ed artistiche degli attori, e le esigenze del mercato.
Qual è il suo primo ricordo teatrale? E’ figlio d’arte?
Più di quarant’anni fa mio padre e mia madre fondarono a Napoli la Cooperativa italiana del Mezzogiorno Gli Ipocriti. Insieme penso abbiano fatto di tutto in teatro, anche me, ma sono quasi certo che non abbiano mai recitato. Posso dire di essere 'nato' sul palcoscenico, mi ricordo che da piccolo per me era tutto una grande magia. Ho girato quasi tutti i teatri d’Italia. Ho cominciato facendo l’amministratore di compagnia. Andavo in tournée seguendo la compagnia dal debutto all’ultima replica. Ho fatto tutta la gavetta. Tra l’altro, sono un bravissimo macchinista ed un discreto elettricista (spero che i miei tecnici non leggano l’intervista...). Ho sempre amato il palcoscenico. Mi capita a volte quando il teatro è chiuso e senza il pubblico, di mettermi a lavorare in scena con le sole luci di servizio, e mi accorgo di essere un privilegiato, stare su un palcoscenico vuoto a lavorare non ha prezzo. Pensate di essere soli sul palcoscenico della Pergola a lavorare, non sarebbe emozionante?
Un aspetto positivo e uno negativo di questo mestiere.
La passione è un aspetto sia positivo che negativo. Alla fine non stacchi mai, questo mestiere è distruttivo e costruttivo al tempo stesso. In Italia è difficile produrre per il teatro perché non è rispettato dai mezzi di comunicazione. In Francia, per esempio, le storie del grande cinema – come il film Carnage o Quasi amici – provengono dal teatro, inoltre la televisione francese propone quasi tutte le sere il teatro in TV. In fondo, anche il nostro Paese,
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a l l a d i ac
! a l o g r e P
Gabriele Lavia e Fed erica Di Mar tino I pilastri della societĂ ro Stab ile di Tori no Teatro di Rom a / Teatro dell a Perg ola / Teat
Alex Sa ssa tel li e Elsa Bossi Am leto Tea tro de l Ca rre tto
Isa
bella Ra gonese e Fa bri La comm edia di Orlan do zio Od etto En fi Tea tro
Filippo Timi e Elena Lietti
Amleto2
Teatro Franco Parenti Teatro Stabile dell'Um bria
Max Mal atesta e Veronica Gen tili La govern ante Teatro Stab ile di Cata nia
Roberto Valerio e Chiara Degani
Un marito ideale Compa gnia Anagni
Marco Giorgetti
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IL PRIMO RICORDO LEGATO AL MAESTRO ORAZIO COSTA
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Il mio primo ricordo legato a Orazio Costa risale a una sera, molto tempo fa, forse il 1 979, in un cinema parrocchiale del quartiere di Rifredi, il mitico Faro, uno di quegli incomparabili luoghi di quartiere che il ‘progresso’ ha cancellato. Ero con un gruppo teatrale di dilettanti nato per iniziativa della altrettanto mitica Arcangela Tosto per un‘Antigone, e Costa, che evidentemente in quel periodo stava girando fra i gruppi di dilettanti per conoscere la realtà fiorentina e selezionare possibili allievi, era venuto in incognito. Ricordo di averlo visto al bar del cinema e di essere rimasto folgorato, sapevo che stava per arrivare a Firenze per creare il Centro di Avviamento all'Espressione e quindi anelavo d’incontrarlo. Ma quella sera non ebbi neppure il coraggio di rivolgergli la parola. Volevo con tutto me stesso far parte del suo primo gruppo, questo incontro mi parve un segno. L’altro mio ricordo indelebile è la mia prima lezione con lui tenuta al Salone IV Novembre di via degli Alfani: per me una rivelazione. La prima cosa che mi colpì fu il rigore di questo Maestro che aveva un carisma assoluto. Oltre al rigore possedeva la capacità umana di tirar fuori da te i talenti più nascosti, partendo solo ed esclusivamente dal corpo. Durante la lezione parlava pochissimo e lavorava molto sulla respirazione, sulla scoperta di un corpo il più possibile disponibile a trasformarsi, a cambiare, che è l'elemento fondamentale del Metodo. Un altro aspetto fondamentale è che con lui si riscopriva il valore del silenzio: le sue parole erano misurate, mai una parola in più. Questo grande uomo è riuscito costantemente e in periodi molto diversi a far cambiare la mia vita, mi ha fatto capire l’importanza assoluta della costante ricerca e accettazione del cambiamento, come fondamento e chiave dell’essere, e dell’assenza del giudizio nel rapporto con essa e con gli altri. Questa è la grandezza di un Maestro: non mi ha mai detto "bisogna fare così" oppure “ così è giusto e così sbagliato”, non mi ha mai indicato una strada perché lui la riteneva giusta, ma ha fatto sì che io trovassi la mia strada autonomamente. Ho avuto l’onore di diventare Segretario Particolare di Costa e Assistente. Orazio Costa è stata una guida vera e lo è tutt’ora. I veri Maestri rimangono nella tua vita come guide assolute perché quello che hanno fatto per formarti ti resta e ti indirizza continuamente. C’è un filo che unisce tutti gli attori che hanno studiato con Orazio Costa. Anche se si tratta di artisti molto diversi tra loro – Favino, Gifuni, Lavia, Mauri – c’è un’etica comune del fare teatro che nasce dalla tradizione francese di Copeau e Jouvet e che parte dall’assunto che per essere davvero in quello che si fa, per essere dei professionisti, è indispensabile essere in reale rapporto con quello che si fa, che vuol dire essere presenti nel momento presente dell’agire.
*Direttore Generale della Fondazione Teatro della Pergola
»
Il frontespizio dei Quaderni-Giornali che Orazio Costa scriveva ogni giorno
DIETRO LE QUINTE
«
Shhhh... fai piano!
Se mi portassero alla Pergola bendata potrei capire dove mi trovo solo dall’odore, solo dalla presenza che è quasi palpabile intorno a me, solo per il silenzio bisbigliante che c’è quando è completamente vuoto. I suoi cunicoli sotterranei sono ormai accoglienti e conosciuti, posso spuntare da una parte all’altra usando molte strade, posso raggiungere varie parti del teatro evitando determinati passaggi: "Shhhh... ci sono le prove di là, fai piano!". Qui si può ricominciare a parlare di Antico, con la A maiuscola, senza cadere nell’errore odierno di considerare tutto vecchio, consumato, passato di moda, da gettare. C’è la storia del teatro, portata dietro come un bagaglio, con dignità e non come un fardello; il passato qui riacquista un suo valore con stucchi d’oro e velluti rossi. Qui trovano asilo l’arte e la cultura con tutto ciò che ne consegue: l’umanità, la sensibilità, l’estro. Sera dopo sera segui lo spettacolo, ti pare quasi di conoscere gli attori, impari il susseguirsi delle battute e quando vedi una loro indecisione ti riempi d’ansia: “Dilla, dilla…” pensi, ma loro sono attori e l’arte di improvvisare riesce sempre a stupirti, regalarti senso di ammirazione e un respiro di sollievo. - “Buonasera ha bisogno di una mano per cercare il posto?”- Pian piano il pubblico entra e si accomoda, i tre segnali di avviso sono stati dati, mi appresto a chiudere le porte e le tende, iniziano a calare le luci, il silenzio di più persone si fa sempre più intenso, l’aspettativa aumenta… Che lo spettacolo abbia inizio.
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Orsola Lejeune, maschera del Teatro della Pergola
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L A L A VA GNA CON L A SCRITTA 'EDUA RDO' VIENE CONSERVA TA NEI LOCA L I DEL TEATRO E FA RIFERIMENTO A L CORSO DI DRA MMA TURGIA CHE EDUA RDO DE FIL IPPO REA L IZZÒ NEI PRIMI A NNI O TTA NTA A L TEA TRO DEL L A PERGOL A . QUESTA CITA ZIONE HA ISPIRATO L A COPERTINA DEI Q U AD E RN I D E LLA P E RG O LA
Quaderni della Pergola
- numero 1
A cura di Angela Consagra e Gabriele Guagni Interviste e testi di Angela Consagra Progetto grafico ed impaginazione Gabriele Guagni Hanno collaborato a questo numero
Clara Bianucci, Dalila Chessa, Elisabetta De Fazio, Raffaello Gaggio, Adela Gjata, Alice Nidito, Orsola Lejeune Immagini La fotografia di copertina e la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo sono di Filippo Manzini. Le scritte sulla lavagna sono di Dalila Chessa Le fotografie edeilavagna cavalli di scena di Giocando con Orlando a pag. 20, di COLOPHON Shalom Neuman a pag. 22 e pag. 23, di Sergio Givone a pag. 24, della platea della Pergola rinnovata a pag. 25, la foto dei contrappesi a pag. 29, di Marco Balsamo a pag. 30, dei baci alle pag. 31 -32-33, delle poltrone di platea a pag. 37 sono di Filippo Manzini La fotografia di Toni Servillo a pag. 1 3 è di Stefania Signorini La fotografia di Pierfrancesco Favino a pag. 6 è di Fabio Lovino Il ritratto di Eduardo De Filippo a pag. 1 9 è di Mimmo Paladino Disegni di Dalila Chessa Per contattarci:
sala@teatrodellapergola.com quaderni@teatrodellapergola.com
Presidente Sergio Givone Consiglio di Amministrazione Ugo Caffaz, Stefania Ippoliti, Franco Lucchesi, Raffaello Napoleone Collegio Revisori dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto Lari Direttore Generale Marco Giorgetti
o 帽 e u s s e a d i v La Pedro Calder贸n de la Barca