Quaderni della Pergola n.2

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Quaderni della Pergola

n. 2



Q uesto numero dei Quaderni della Pergola indaga le dinamiche dell’amore, partendo dalla visione di uno spettacolo: il Don Giovanni di Filippo Timi.

Ogni artista che racconta la sua arte ci ha svelato una sfaccettatura della parola ‘amore’: la passione, la seduzione, la purezza. Il bisogno di emozionarsi, la ricerca della verità dell’anima. E ancora: la gioia e l’energia dello stare insieme, la condivisione di un sogno comune collettivo. Ma anche la paura e la follia. La leggerezza e il desiderio. Accorgendosi che, alla fine, il teatro è uno scambio d’amore che si rinnova ogni sera tra chi sta in scena, il pubblico e tutti noi che viviamo dietro le quinte.

SOMMARIO

5. Alessandro Gassmann Una passione autentica

7. Andrée Ruth Shammah Il cuore pieno di sfide

1 0. Filippo Timi

La seduzione dell'attore

1 3. Gli amori di Don Giovanni

Elena Lietti, Marina Rocco, Lucia Mascino

1 6. Daria Bignardi L'amore nelle parole

1 8. Gruppo Danny Rose 26. Alessandro Haber

Afferrando quell'istante di follia

28. Giovanni Vernassa Una lunga storia di teatro

31 . La parola al pubblico L'amore nel teatro

32. Roberto Incerti Una vita di interviste

34. Riccardo Ventrella

Metti una sera con la famiglia

36. Dietro le quinte

Cosa spinge un giovane attore ad innamorarsi del teatro?

37. Coppie dalla Pergola 40. Maurizio Scaparro

Don Giovanni e la seduzione dell'utopia


ÂŤPer fare emergere i personaggi ci abbiamo messo passione, soprattutto per dargli umanitĂ , per raccontare il loro cuoreÂť

Alessandro Gassmann e Manrico Gammarota alla presentazione del film di Alessandro Gassmann

Razza Bastarda


Alessandro Gassmann UNA PASSIONE AUTENTICA

P

arlando di Shakespeare Lei ha detto che è un autore che la affascina perché nelle storie che racconta, prima di affondare la spada, regala anche un sospiro di sollievo ai suoi lettori.

da Trevisan. Questo ampliamento narrativo riguarda Tyrrel, interpretato da Manrico Gammarota: in genere questa figura è ritratta semplicemente come un sicario, invece nella nostra messinscena Tyrrel diventa un essere umano. Man mano che il racconto avanza, soprattutto davanti all’uccisione di due bambini, scopre in maniera semplice, molto popolare, di avere una coscienza che lo farà soffrire e lo condurrà ad un mutamento verso la fine del racconto. Credo che sia la grande novità di questa edizione di Riccardo III: il tema della coscienza, quella voce interiore che spesso non ci fa dormire, che non possiamo sopprimere e che tiene conto delle nostre azioni: la voce dell’anima.

Il lavoro che abbiamo fatto sull’allestimento che portiamo in tournée - il nostro Riccardo III è partito dal linguaggio. Con Vitaliano Trevisan abbiamo cercato di realizzare una traduzione veloce e che saltasse a piè pari terminologie ormai non più utilizzate nella lingua italiana: volevamo fare uno spettacolo popolare, di forte impatto col pubblico, questa era la nostra meta primaria. Per fare emergere i personaggi ci abbiamo messo passione, soprattutto per dargli umanità, per raccontare il loro cuore. E’ vero che quando si racconta un dramma incredibilmente grande come quello di Riccardo III è necessario trovare, in alcuni momenti, la possibilità di alleggerire la parte drammatica per distrarre il pubblico. A volte un sorriso evidenzia ancora di più la parte crudele, il lato cruento, profondo e nero, che è l’essenza di Riccardo III. Personalmente mi piace questo escamotage, spesso succede così anche nella vita: quando si vivono dolori profondi, se ci si pensa bene, non si è mai completamente tristi, e anzi nel momento in cui percepisci che il dramma è talmente forte cerchi di smorzare la sofferenza, magari introducendo un lato ironico. È lì che si supera la linea del grottesco, e ogni tanto il mio Riccardo supera questo limite con grande divertimento. Ritrarre la crudeltà al cento per cento significa anche questo e pensiamo, per esempio, ai nostri politici: fanno molto ridere perché sono ridicoli, anche senza saperlo. La cattiveria diventa spesso ridicola. Riccardo III è uno dei primi testi scritti da

E quindi perché, proprio in tempi critici come quelli che stiamo vivendo, si sceglie di rappresentare un personaggio negativo e forte come Riccardo III?

Siamo in Italia, la conquista del potere è ormai accomunata al non rispetto delle regole e non bisogna mai cessare di riflettere su questo punto. Nel nostro Paese non vince sempre chi è nel giusto, vince piuttosto chi riesce a far prevalere le proprie idee, anche con la violenza e la sopraffazione sugli altri. I personaggi che ultimamente ho studiato e interpretato, sia in teatro con Riccardo III che al cinema con Roman di Razza Bastarda, sono simboli del male dei nostri tempi, anche se credo di essere riuscito a trovare un’anima in questi caratteri. Riccardo dichiara la sua cattiveria al mondo ed è sincero, diversamente dagli altri che lo circondano: ‘i falsi buoni’, ipocriti e leccapiedi. Io, nella vita, stimo di più una persona che mi dichiara la sua antipatia rispetto a chi mi dice il contrario di quello che pensa. I miei personaggi sono veri e non bugiardi, fino alla crudeltà: Roman per incapacità e per mancanza di una base culturale, Riccardo per mancanza di cuore. Sono due individui che si presentano per quello che sono e che non si nascondono. Inoltre sono storie che toccano tematiche che mi prendono molto: la prevaricazione dei diritti umani e la conquista del potere.

Shakespeare…

È un’opera complessa, non soltanto per le dimensioni del testo, ma per il numero dei personaggi: nella versione originale sono trentasei, mentre la nostra Compagnia – con dieci attori – ne mette in scena sedici. Nella nostra edizione in più c’è l’approfondimento di un personaggio, è una mia idea, poi sviluppata -5-


Nel suo modo di pensare il teatro, quanto è importante il cinema, proprio come tipo di linguaggio?

teatro stabile. Quest’ultimo è un mestiere davvero serio, da quattro anni sono direttore del Teatro Stabile del Veneto con grande soddisfazione. Il nostro è il teatro stabile che ha prodotto più drammaturgia contemporanea italiana negli ultimi anni, pur non essendo un grandissimo teatro stabile, ce ne sono di più grandi. Soprattutto abbiamo abbassato l’età media, sia di chi viene a recitare sul palcoscenico, sia di chi viene a vedere gli spettacoli nei nostri teatri di Venezia e Padova. Io ho quarant’otto anni e sono il più giovane direttore di un teatro stabile in Italia, invece sono vecchio: in Germania, Francia o Inghilterra i direttori hanno trent’anni e fanno molto bene il loro lavoro. In questo momento nel nostro Paese si sta preparando un programma per dare delle nuove regole al teatro italiano, ancora non sono definite: stiamo aspettando di capire cosa succederà, se cambieranno le cose…

Mi servo del linguaggio del cinema. Scelgo questo codice per creare la drammaturgia, nel senso che utilizzo un sistema di proiezioni, una sorta di montaggio cinematografico, che mi permette di non avere bui in scena e di accelerare il racconto, così non ci sono momenti di distacco narrativo: in questo nostro gioco teatrale non bisogna mai mollare l’attenzione. Il ritmo è veloce, senza cambi di scena e questo risultato si ottiene con un sistema di dissolvenze tipiche del cinema. Dal punto di vista formale, proprio visivamente, parto in genere da una base di disegni fatti da me e da lì cerco di raccontare al mio gruppo – scenografo, costumista, disegnatore luci e musicisti – il mondo che ho immaginato. Mia madre era pittrice, ho una mano abbastanza buona nel disegno da sempre.

E’ vero che ha imparato a conoscere Shakespeare da una botola, lavorando con suo padre?

Uno dei suoi sogni è interpretare Don Chisciotte a teatro; che cosa l’affascina di questo ruolo? La sensazione di potere dare forma, in qualche modo, all’utopia?

E’ difficile essere attori, registi e contemporaneamente direttori artistici di un teatro?

«Mi servo del linguaggio del cinema. Scelgo questo codice per creare la drammaturgia»

Sì, ho fatto la mia prima tournée a diciotto anni, come assistente attrezzista che stava in una botola del palcoscenico. Sopra mio padre e gli altri attori recitavano. Ho visto circa duecento repliche shakespeariane ed è stato un viaggio meraviglioso, mi sono divertito come un pazzo. Da tifoso assiduo, allo stadio Olimpico di Roma ero specializzato in fumogeni e dato che nel Macbeth di mio padre c’erano delle parti dove servivano dei fumi, mi ha strappato dalla curva sud e trascinato in teatro. A quello spettacolo risale anche la mia prima apparizione sul palcoscenico perché, ad un certo punto, il pubblico vedeva le mie mani… Anche oggi che sono attore e regista, dentro di me continuo a sentirmi sempre un macchinista. In tanti mi hanno chiesto se, mettendo in scena un testo di Shakespeare, emergano in me suggestioni legate a mio padre e, come spesso ho dichiarato, i miei spettacoli sono molto diversi perché sono spettacoli corali. Mio padre era un attore pazzesco, dimostrazione di eccelsa bravura, e io non ho mai avuto ambizione di arrivare a quei livelli. In particolare a me interessa lavorare sull’ascolto e sulle relazioni che intercorrono nel mondo, cercando di ricostruirle sulla scena per dare emozioni.

Forse perché ho sempre pensato che mio padre avrebbe dovuto interpretare quel ruolo e invece non l’ha mai fatto… Sono vicino ai cinquant’anni e potrebbe essere il tempo giusto per dare forma a questo sogno. E poi per fare Sancho Panza mi vengono in mente tante possibilità, anche se alla fine tendo a scegliere e a lavorare sempre con gli attori del mio gruppo: per esempio, Manrico Gammarota, che è in scena con me in teatro e al cinema, sarebbe perfetto. Ho sempre immaginato che cosa mi sarebbe arrivato, dal punto di vista dell’emozione, se Don Chisciotte l’avesse messo in scena Vittorio Gassman. Ecco che per qualche anno, il tempo della tournée, io potrei cercare di raccontare quello che provo, i sentimenti che entrano in campo realizzando uno spettacolo che mio padre non ha mai fatto.

Sono tre cose diverse, tre compartimenti separati: regia, recitazione e direzione di un -6-


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Andrée Ruth Shammah IL CUORE PIENO DI SFIDE om’è cambiato, dal 1 972, il modo di gestire e dirigere il Teatro Franco Parenti?

zione. Quindi noi l’anno prossimo, accanto ai nuovi spettacoli di Timi Skianto e Favola 2, produrremo anche uno spettacolo con Cecchi e contemporaneamente riprenderò un mio vecchio Molière, Il malato immaginario.

Prima di tutto bisogna pensare cos’era Milano quarant’anni anni fa: era una città diversa, l’Italia era diversa. A quel tempo il mio ruolo al Franco Parenti era quello di gestire due personalità forti e molto complicate come Franco Parenti e Giovanni Testori. I due avevano tali e tanti umori e indignazioni che già metterli insieme in un teatro era una scelta di posizione nella città. Erano gli anni Settanta, quelli degli anarchici e degli extraparlamentari. Il progetto del Franco Parenti era quello di essere un luogo polivalente: cinema, musica, dibattiti, e con Molière come padre spirituale del teatro. Lo stesso accade, in un certo senso, oggi: Filippo Timi, per esempio, che con questa carica eversiva riassume in sé tutta la modernità e l’interpretazione di un pubblico che cambia, non può diventare l’unico elemento sul quale il Teatro Franco Parenti si identifica. E non perché oggi io non ami Timi, come allora non amassi Testori, ma perché il Franco Parenti è un teatro, dunque una complessità, un’articola-

Al di là delle scelte artistiche, quali sono invece le problematiche legate all’organizzazione amministrativa del teatro? I debiti aumentano sempre di più, per cui occorre molta fantasia per essere un amministratore, molto più che in passato. E poi c’è il problema della città, della concorrenza, della diversificazione degli spettatori… Il Franco Parenti è una multisala, e ormai ho sviluppato certe doti intuitive per capire la giusta articolazione delle varie sale, tentando una programmazione che funzioni. Inoltre in questo teatro ci preoccupiamo di lanciare attori e questo non significa soltanto dargli delle parti da recitare: l’impegno è di portarli al successo, abituando il pubblico a vederli. Per fare debuttare un giovane ci hai creduto, gli hai dato dei consigli, sei stato alle prove, ti sei occupata di farlo crescere e di fare in modo che il teatro lo difenda. Non ti fermi al fatto che sia uno

La sala grande del Teatro Franco Parenti di Milano

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sconosciuto e che anche pochi spettatori per lui vadano bene. Cerchi di andare oltre. Per esempio, sono felice di far nascere nuovi registi, come Fabio Cherstich, che prima era con Timi e adesso è diventato il mio assistente, ha già fatto la regia di un testo di Carlotto e quest’anno allestirà L’inquilino di Fabio Banfo.

«Nel teatro la più bella regia del mondo è la regia che non si vede. Con il bisogno costante di mettere la vita dentro lo spettacolo, con il suo dolore e il suo spessore»

Quindi la voglia di sperimentare continua, sempre e comunque, a caratterizzare il Franco Parenti?

Credo che questo teatro, allora come adesso, debba evitare le scorciatoie. Il teatro non si fa riempiendo le caselle disegnate a tavolino, il teatro si fa giocando le partite. Forse è questo l’aspetto che è rimasto uguale del Franco Parenti, anche perché io sono sempre la stessa, con la solita passione di un tempo. E’ che non ci sono più maestri che dirigono, non si conosce l’arte del recitare, il pubblico stesso è completamente disorientato perché non ha più strumenti.

invasa dalle erbacce. L’idea è che dal nostro grande foyer, oltre ad accedere alle diverse sale, in futuro si possa anche entrare in piscina. Uno spettatore può venire a vedere uno spettacolo e poi andare in piscina, oppure si può fare teatro direttamente lì, con i bambini che magari dormono in palcoscenico e poi vanno a fare il bagno. Si può ipotizzare di creare una scuola di circo, con clown che si buttano in acqua… La piscina verrà inaugurata in occasione dell’Expo 201 5 e sarà gestita direttamente da noi, con le maschere che faranno anche i bagnini. E del resto pensiamo ai cattolici con l’oratorio, un luogo in cui si pregava ma si giocava anche a calcetto, o ai comunisti che si indottrinavano nelle case della cultura e ai fascisti, che avevano le case del fascio… Il nostro è un progetto laico teso a recuperare l’unione della mente con il corpo, anche se adesso sembra banale dirlo perché lo yoga e l’ayurvedica sono in voga, ma quando anni fa ho cominciato a parlare al mio consiglio di amministrazione di massaggi da fare in teatro mi guardavano come se fossi matta…

Accanto alle sale teatrali nascono, in questo teatro, nuovi spazi destinati al pubblico: la terrazza con il giardino, l’utilizzo di una piscina… Il Franco Parenti è l’unico teatro di Milano che ha la luce, negli uffici e anche in sala ci sono le finestre, a primavera si vedono le rose pur non uscendo dal teatro. C’è l’esterno con la natura che vibra, mentre i camerini sono la notte, tutti con la loro unicità: ogni camerino è diverso dall’altro perché gli artisti non sono tutti uguali. La piscina adiacente al teatro c’è sempre stata. Purtroppo è stata chiusa e stava morendo,

E come regista, a quale sfida sta pensando in questo momento?

Io amo le sfide, amo le cose impossibili. La Compagnia di Timi del Don Giovanni andava in scena la sera ma gli attori il pomeriggio erano liberi, quindi ho pensato di fargli provare Gli innamorati di Goldoni. Ci sono degli attori che voglio lanciare e penso ad una regia senza scene e costumi, penso ad un vuoto. La semplicità è un grande punto di arrivo. Con il bisogno costante di mettere la vita dentro lo spettacolo, con il suo dolore e il suo spessore. Gli innamorati, per esempio, per me hanno un sottotitolo che è “la paura dell’amore”. Allora l’obiettivo diventa non solo quello di mettere in scena un testo, ma è usare quel testo senza tradirlo e spingendo perché emerga tutto quello che può dire dentro di sé e che tu pensi di poter dire. Nel teatro la più bella regia del mondo, è la regia che non si vede. -8-


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Filippo Timi LA SEDUZIONE DELL'ATTORE

I

n teatro sta interpretando Don Giovanni, una figura emblematica e dalle tante sfaccettature…

Il potere di seduzione che esercita Don Giovanni non è poi molto distante dalla funzione dell’attore che deve riuscire ogni volta a sedurre il pubblico…

Dopo aver portato in scena Favola, uno spettacolo in cui interpretavo una donna anni Cinquanta, mi è nata la voglia di interpretare il personaggio di un ‘uomo uomo’, anche nel senso più brutale del termine… Allo stesso tempo ho cominciato a lavorare sul concetto del male, partendo proprio dalla figura del diavolo, e mi hanno invitato a fare un’intervista insieme a Dario Fo su un allestimento del Don Giovanni che era in scena alla Scala. Studiando il personaggio ho capito che Don Giovanni è il male per antonomasia, simbolo del male seducente.

Io vivo sempre questa condizione quando sono in palcoscenico, in questo caso di più. Un critico in un saggio del primo Novecento, è lo stesso che mi ha ispirato per i costumi, ha scritto che “l’anima di Don Giovanni è il suo costume”. Come idea è fantastica perché in fondo è una provocazione, estremamente significativa. Infatti contemporaneamente lo stesso critico scrive che “Don Giovanni è il più grande attore del mondo”: è un uomo che intuisce perfettamente che cosa desiderano le donne, come vogliono essere amate, e lui semplicemente attua il suo potere seduttivo affascinando l’animo femminile.

Secondo Filippo Timi, Don Giovanni ogni volta che si innamora ci crede, perdutamente…

Il suo Don Giovanni indossa in scena un mantello appariscente e colorato, fatto di parrucche: sono gli scalpi delle donne, il simbolo di tutte quelle che ha amato…

Sì, è vero. E non potrebbe essere altrimenti perché sono le donne stesse le prime ad amarlo. Secondo me Don Giovanni si innamora per davvero, ogni volta. Ha questa straordinaria capacità di vedere l’amore e di percepirlo in ogni donna, e questo è meraviglioso. Tutte le donne che incontra lo amano perché lui indovina quello che loro vogliono in quel momento, anche se si tratta di figure femminili profondamente diverse l’una dall’altra. E’ il dono che ha Don Giovanni, in questo è proprio autentico.

I costumi rispecchiano sempre il personaggio. In particolare il mio Don Giovanni, proprio come quello raccontato da Mozart e Da Ponte, si trova a dover battagliare con tre figure femminili: Donna Elvira, primitiva e romantica; Donna Anna che è marziale e infine Zerlina, che io definirei una porcellana e un fiore carnivoro allo stesso tempo…

Dopo aver interpretato questo spettacolo, cosa ha imparato sull’amore?

Che cosa ho imparato sull’amore… Forse che apparentemente si potrebbe anche invidiare un uomo come Don Giovanni, restare affascinati dalla sua figura e dalla sua bravura a sedurre, però interpretandolo così tante volte in scena capisci la componente drammatica del suo amore: la corsa sfrenata alla conquista significa non riuscire, nel suo intimo, a goderne davvero. Invece a me nella vita è capitato, per fortuna, di riuscire ad avere il tempo e l’attenzione per fermarmi a contemplare una storia, senza disperdermi così tanto. E’ bello quando riesci a concentrare l’amore, perché ne godi di più.

«Donna Elvira è primitiva e romantica; Donna Anna è marziale, infine definirei Zerlina una porcellana e un fiore carnivoro allo stesso tempo…» -1 0-


«Don Giovanni è il simbolo del male seducente»

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Filippo Timi scrive al Teatro della Pergola


GLI AMORI DI DON GIOVANNI Elena Lietti

N

E che cosa scopre, alla fine, di se stessa Donna Anna?

el Don Giovanni le figure femminili sono distinte l’una dall’altra. Il personaggio di Donna Anna come si definisce?

L’amore, banalmente. In particolare la capacità di arrendersi ad un amore che inizialmente sembra altamente improbabile, quello con Don Ottavio. Don Giovanni, pur rappresentando per lei l’amore violento, alla fine risulterà più un mentore che un nemico perché diventa lo strumento attraverso il quale trova la sua emancipazione, la connessione con se stessa.

Rabbiosa, mi verrebbe subito da dire, però in realtà il mio personaggio affronta una specie di archetipico viaggio dell’eroe e attraverso l’esperienza con Don Giovanni vive una rivoluzione, nel senso che cambia la sua natura, finendo per trovare forse neanche quello che credeva più di cercare. La rabbia è il mezzo che le permette di arrivare a scoprire un altro lato di sé. Nel processo di crescita del personaggio la regia di Filippo Timi è stata determinante, considerando anche che nella maschera che vestiamo sulla scena finiscono per confluire aspetti che ci appartengono, certi stimoli e impulsi che Timi ha colto e ha poi trasportato nella scrittura. Credo che una cosa che mi contraddistingua, trasferita poi all’estremo nel personaggio, sia il sarcasmo.

Don Giovanni dunque la aiuta, in qualche modo, a comprendere l’amore… Sono sorprendenti le dinamiche dell’amore, è questo che si capisce dallo spettacolo, ed è così nel Don Giovanni come nella vita, dove l’amore a volte ti coglie impreparata. Apparentemente Don Giovanni è un uomo disprezzabile, ma è un rapporto che aiuta Donna Anna a diventare libera, quasi in termini psicoanalitici: le circostanze la portano a connettersi con la sua ombra, con la sua parte repressa o dimenticata.

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Z

Marina Rocco erlina che donna è?

morarsi di Filippo Timi! Nella rappresentazione Don Giovanni mi offre più volte la cioccolata, me la fa provare e a quel punto io perdo la testa, ne rimango affascinata. La cioccolata diventa metafora della scoperta dell’estasi e della possibilità di realizzare tutti i nostri sogni più grandi. Filippo Timi mi ha detto: “Quando pensi alla cioccolata, pensa all’Oscar…”. Nel Don Giovanni di Filippo Timi, che ruolo

Sicuramente rappresenta la purezza, ma non intesa in maniera aulica, piuttosto si rapporta all’istinto e alla terra, al fatto di riuscire a prendere le cose esattamente per quello che sono.

Come viene sedotto il personaggio?

Zerlina viene sedotta mentre vive la sua vita tranquilla: lei è come una bambolina in un carillon, una bomboniera, immersa nella sua realtà fatta di lavoro e dedizione. Improvvisamente da un altro mondo arriva Don Giovanni e le prospetta cioccolato, gioielli, feste: ecco che Zerlina capisce che, oltre a quello che aveva conosciuto, c’è molto altro. Il tipo di seduzione che viene messa in atto è la scoperta di un altro mondo.

assume il pubblico? Lo scambio che si crea tra attori e platea può definirsi un momento d’amore?

Per me è fondamentale, io ho bisogno di sentirmi amata dal pubblico. In alcuni teatri, quando è tecnicamente possibile, scendiamo in sala a ballare con gli spettatori. Se non ci fosse il pubblico io 'mi ammazzerei', e del resto per noi attori non avrebbe senso esistere. Durante il tempo di uno spettacolo si crea uno scambio pazzesco: ogni città è diversa, quindi si costruisce un rapporto con la gente nato lì per lì, fatto di momenti, di emozioni che aspettiamo e di altre che invece non arrivano… E’ una cosa incredibile andare in tournée per l’Italia, ogni regione è profondamente diversa dalle altre, nei costumi e nel modo di essere, quindi lo scambio che si crea tra attori e pubblico cambia. Non è che semplicemente piace o non piace uno spettacolo, è che il pubblico, la massa di persone che ti ritrovi davanti, ha un suo carattere e un suo modo di esprimersi. Noi lo spettacolo lo facciamo lo stesso, a volte anche un po’ soffrendo, perché alla fine siamo tutti in cerca d’amore. Dopo aver recitato nel Don Giovanni, che

Quindi Zerlina si innamora di Don Giovanni o piuttosto è il miraggio della cioccolata che ricorre nello spettacolo ad attrarla?

Sicuramente si innamora di Don Giovanni perché è impossibile non innamorarsi di Don Giovanni, così come è impossibile non inna-

cosa ha compreso dell’amore?

Ho capito che non lo puoi catturare per sempre. Per vivere questo sentimento si deve accettare che scompare e riappare, è la condizione che fa parte dell’amore.

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I

Lucia Mascino

amore può essere addirittura straziante. Infatti ho riguardato più volte Via col vento, quel film può essere una grande fonte di ispirazione perché è la celebrazione dell’eroina romantica.

caratteri femminili del Don Giovanni hanno tutti una loro specificità; qual è il colore che contraddistingue il personaggio di Donna Elvira?

Al personaggio di Donna Elvira in scena sono legati tanti baci…

Non ho dubbi nel rispondere perché il mio non è un personaggio sfumato; la sua definizione è: la donna che ama, in maniera inesorabile, quasi fino allo sfinimento delle forze… E’ la donna che è stata sedotta e abbandonata, però rimane comunque certa dei sentimenti che prova e dell’amore dell’uomo, quindi non si arrende mai. Tanto è vero che il costume del mio personaggio rappresenta, in qualche modo, la stessa anima: è un lago che dilaga sul palco, una enormità rossa che grida con il braccio proteso e la bocca aperta: “Amore, dove sei?”. Non è semplice raccontare le donne, infatti il sentimento che avanza inesorabile fa parte dell'animo femminile ed è una caratteristica di fronte alla quale si può reagire anche spaventandosi, infatti Don Giovanni fugge!

La parte dei baci è cambiata nel corso delle rappresentazioni, diciamo che oggi Donna Elvira li subisce di meno perché l’idea è che la donna dà il suo sentimento, ma contemporaneamente lo esige. Lei vuole dare un valore numerico a questa infinità di amore ed è un aspetto che si ritrova nelle donne; pensiamo, per esempio, alle conversazioni telefoniche tra innamorati: “Mi ami? Ma quanto mi ami”.

Alla fine, seguendo la storia e le relazioni che continuamente segnano Don Giovanni, cosa si comprende dell’amore?

La cosa che accomuna le persone che amano è la fede perché amare significa ‘essere tutt’uno’ e bisogna crederci, fermamente. L’amore è una costruzione che si fa proiettandosi nell’ignoto e a volte devi riuscire a mantenerlo barcamenandoti nelle oscillazioni del presente, pur non avendo conferme. La cosa che mi colpisce è che, quando io nella vita reale provo l’amore, vedo la vita con i colori, il mondo non è più opaco. E questo anche se non è semplice tenere il cuore aperto, infatti l’amore è un sentimento raro.

Don Giovanni scappa perché si trova davanti troppo amore?

Sì, sembra essere troppo amore, anche perché Donna Elvira è esagerata in tutto. Recitare questo personaggio è bellissimo: è un colore pieno, non ha mezzi toni. Nella prima parte della tournée per descriverla abbiamo cercato una chiave legata alla comicità, invece da qualche giorno puntiamo sull’avidità del sentimento che la caratterizza: lei è totale, se grida

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Daria Bignardi L'AMORE NELLE PAROLE

Q

uale personale passione asseconda quando decide di scrivere un libro? E quando invece progetta l’idea per una puntata di un programma televisivo?

il suo rapporto con il teatro?

Un poco sì, anche perché io lavoro sempre e solo in diretta, in presenza del pubblico in studio. Col teatro ho un rapporto di fascinazione molto disordinato. Da ragazza seguivo Carmelo Bene come una grupie, ora seguo quasi soltanto il teatro d'opera, ma ogni volta che mi capita di andare a teatro per altre rappresentazioni mi dico che vorrei seguirlo di piú.

I libri nascono da un'esigenza profonda di esprimersi attraverso la parola scritta, raccontando una storia e lavorando in solitudine a un progetto lungo e difficile che acquista forma nel tempo. I programmi televisivi nascono da un lavoro di gruppo dove io agisco da guida e da autore principale. Una delle cose più importanti nei nostri programmi è riuscire a rappresentare attraverso i personaggi che intervisto lo spirito del tempo, nelle sue diverse sfaccettature.

E’ vero che non rinuncerebbe mai a scrivere?

Fino ad ora, avendo cominciato a pubblicare tardi, è per me un' esigenza primaria. Ho tante cose da raccontare. Ne ho bisogno, ho bisogno del rapporto coi lettori e con la parola scritta.

Quali sono i suoi libri o personaggi del cuore?

Scrivendo o intervistando i vari personaggi in TV Lei, alla fine, racconta sempre delle storie; è difficile scegliere le storie giuste? Si finisce per pensare a chi dovrà ascoltarle?

Sono troppi per essere citati, davvero. Una piccola folla eterogenea. Parlando del suo ultimo libro, L’acustica perfetta, ha detto che scrivendolo voleva

Non è difficile sceglierle ma trovarle: se una storia è giusta lo capisco subito, ma non sono tante le storie ad avere le caratteristiche giuste per il nostro programma. È una ricerca continua di storie nuove o punti di vista e approcci diversi a storie già raccontate.

raccontare l’amore assoluto, il grande amore romantico; quindi l’amore, un sentimento così complesso, può essere la risposta alla crisi, ai tempi bui in cui viviamo? Non lo so. Volevo raccontare un amore romantico ma invece è uscita la storia di un amore complicato e difficile. Temo sia vero il contrario: che in questi tempi narcisistici l'amore sia più raro e lontano.

Lei ha detto che fare un programma televisivo è un lavoro artigianale perché servono, per realizzarlo, tanti ingredienti; in questo senso la TV può avvicinarsi al teatro? Qual è

Nel libro è scritto che “l’amore è inspiegabile come l’amore”, ma in un’intervista Lei ha detto anche che “non ho mai capito niente sull’amore, per questo ho voluto scriverci sopra”; che cosa si riesce a capire, alla fine, dell’amore?

«Quel piccolo passo, in diretta, da dietro le quinte al centro dello studio, è in realtà lunghissimo. Se non lo riempissi di contenuti, di parole, non riuscirei a farlo»

Come dicevo prima, per me rimane un mistero, e come ogni mistero ha un fascino ed una forza enormi. I due protagonisti di L’acustica perfetta,

Arno e Sara, non si arrendono alle imperfezioni dell’amore, continuano a lottare. Ogni lettore è padrone del destino dei personaggi di un romanzo e ne definisce le scelte, però a me non sembra che Arno e Sara continuino a lottare, non insieme almeno. Anzi. -1 6-


In una puntata della scorsa stagione de Le Invasioni Barbariche ha ospitato Filippo Timi nei panni di Don Giovanni. Insieme avete brindato all’amore. Timi ha detto che tutte le donne che incontra Don Giovanni lo amano perché lui intuisce quello che loro vogliono in quel momento; allo stesso tempo, ogni volta che Don Giovanni si innamora ci crede, perdutamente, anche se alla fine scappa… Lei cosa pensa di questo personaggio che, in qualche modo, rappresenta l’emblema dell’amore?

quello di poter scegliere con più indipendenza i progetti lavorativi. Per il resto della popolarità, che comunque nel mio caso non è cosī enorme, vedo soprattutto gli svantaggi.

Secondo un grande attore teatrale come Sandro Lombardi un aspetto che caratterizza chi va in scena - diversamente da chi invece non ci va e rimane soltanto spettatore - è che si fa un passo dalla quinta al palcoscenico, che è piccolissimo ma in realtà enorme; da questo punto di vista come si affronta una diretta televisiva vista da milioni di persone? Se ne avverte la responsabilità?

È un grande personaggio drammatico, uno dei più belli e importanti. Il Don Giovanni di Timi poi è imperdibile, io l'ho visto a Milano e vorrei vederlo ancora.

Eccome. Quel piccolo passo, in diretta, da dietro le quinte al centro dello studio, è in realtà lunghissimo. Solo l'esperienza lo rende possibile, almeno nel mio caso. Io non nasco, almeno credo, con una vocazione per lo spettacolo, quindi quel passo non mi è mai venuto naturale. Se non lo riempissi di contenuti, di parole, non riuscirei a farlo.

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi della popolarità? Con la grandissima popolarità raggiunta grazie ai suoi programmi televisivi è cambiato il modo di confrontarsi con la gente e di vivere il suo lavoro? Francamente l'unico vantaggio mi sembra

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Gruppo Danny Rose Bruno Armando, Gianluca Bazzoli, Haydee Borelli, Claudio Castrogiovanni, Pierluigi Cicchetti, Ugo Dighero, Pierfrancesco Favino, Anna Ferzetti, Giampiero Judica, Marit Nissen, Stefano Pesce, Pietro Ragusa, Marina Remi, Diego Ribon, Eleonora Russo, Fabrizia Sacchi, Paolo Sassanelli, Luciano Scarpa, Chiara Tomarelli, Thomas Trabacchi, Valentina Valsania, Roberto Zibetti, Musica da Ripostiglio. Dall'alto a sinistra:

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Quaranta attori si sono riuniti nell’Associazione Culturale Gruppo Danny Rose, ispirandosi al titolo di un film di Woody Allen. Hanno gestito un piccolo teatro romano, lo Spazio Uno, presentando quasi trenta spettacoli, alternati tra loro, nell’arco di due mesi. In teatro gli attori hanno fatto di tutto: andavano in scena, accoglievano il pubblico, cambiavano le scenografie, pulivano. Dopo tanti seminari sulla maschera e la Commedia dell’Arte, corsi di acrobazia e clownwerie, in questo momento la Compagnia gira in tournée con Servo per due, uno spettacolo che prende spunto dal Servitore di due padroni di Goldoni, nato anche grazie all'incontro con Marco Balsamo e alla Compagnia Gli Ipocriti. Gli attori si scambiano di ruolo nei vari giorni di recite, alla maniera delle vecchie compagnie di tradizione o di repertorio. Tra i loro sogni futuri la speranza e la voglia di trovare una ‘casa’, uno spazio teatrale dove studiare sempre, con gli attori che come degli artigiani si preparano e si allenano ogni giorno, fanno le prove e ospitano altre compagnie. Un progetto teatrale collettivo. Perché, a volte, cambiare le cose è possibile.

Quale passione vi ha portato a far parte di questo gruppo? Paolo Sassanelli: La nostra Compagnia, REP

mo diventati una quarantina… E’ difficile riunire tante individualità, e poi con lo spettacolo Servo per due abbiamo imparato a dividere lo stesso ruolo con gli altri, abbandonando il proprio ego. Fare l’attore significa tante cose, c’è anche un po’ di rivalità e di sana competizione in questo mestiere; all’inizio era strano vedere un’altra attrice che interpretava il tuo ruolo, ma ci siamo aiutati gli uni con gli altri, mettendoci alla prova: abbiamo pianto, abbiamo riso insieme. Il nostro è un lavoro di gruppo: l’amore è anche in questo, nel lavoro che fai e come lo fai, nella passione che ci metti.

Gruppo Danny Rose, lavora per ribadire il senso del teatro intendendolo come un mezzo necessario, e piacevole, per la vita delle persone. E’ un viaggio complesso e faticoso, ma allo stesso tempo divertente ed eccitante perché seguiamo un percorso, tutto nostro. Il teatro per diventare un evento, uno spettacolo imperdibile, deve passare attraverso un lungo percorso, condiviso tra attori, regia e produzione.

Giampiero Judica : E’ difficile trovare in Italia

un gruppo di persone che abbia voglia di fare un percorso insieme – c’è un forte individualismo nel nostro settore – ma un gruppo di artisti, amici da tanto tempo, è riuscito a raggruppare intorno a sé tanti altri attori. Non ti nascondo che nessuno di noi ha più vent’anni, quindi con l’esperienza riuscire a creare un gruppo è ancora più difficile perché le personalità sono fortissime: saper trovare un punto di incontro non è semplice.

Claudio Castrogiovanni: Obiettivi comuni. Vivere il teatro non solo come un’esperienza commerciale ma anche come qualcosa quasi di spirituale, un momento di condivisione: è come stare attorno a un focolare, dove c’è chi ha storie da raccontare e chi ascolta.

Pierluigi Cicchetti: E’ un’esperienza nuova, abbiamo iniziato seguendo Paolo Sassanelli e Picchio (l’attore Pierfrancesco Favino ndr), abbiamo fatto i seminari di formazione tutti insieme… Abbiamo trovato una linea sulla quale poter indirizzare il lavoro, un linguaggio comune di ascolto valido anche per il futuro.

Anna Ferzetti: Quello che mi ha portato a far parte del gruppo è la passione per questo lavoro che è nata fin da quando ero piccola, seguendo le orme di mio padre (l’attore Gabriele Ferzetti ndr). Sono cresciuta dietro le quinte: le sarte vedevano questa bambina che girava per i camerini e mi davano le pantofoline per farmi stare buona… Ho provato a fare altro nella vita, ma la mia passione per il teatro è troppo forte. Il Gruppo Danny Rose è nato due anni fa con lo spettacolo Girotondo di Schnitzler, avevamo messo insieme una decina di persone, poi sia-

Valentina Valsania: Il Gruppo Danny Rose è

nato per una coincidenza di incontri, è un’alchimia. A volte non viviamo un’unità di intenti ma intorno ad ogni questione ci lavoriamo lo stesso molto, è interessante avere punti di vista diversi. -1 9-


Haydee Borelli: E’ stato assolutamente un ca-

sentimentali, si mettono alla prova nei momenti difficili.

so. Un’amica mi ha chiesto di fare uno spettacolo all’interno della rassegna allo Spazio Uno di Roma, è successo così a molti di noi: tramite chiamate di amici e conoscenze, alla fine ci siamo ritrovati dentro a questo gruppo. Non ci siamo scelti, è stato il destino. Abbiamo deciso di continuare a portare avanti il gruppo e da un inizio casuale, direi quasi rocambolesco, ci siamo presi degli impegni. A volte succede. Anche nell’amore, per esempio, è così.

Ugo Dighero: Nella mia carriera ho già avuto

esperienze di gruppo: la più importante è quella con i Broncoviz, abbiamo lavorato insieme quasi dieci anni fra teatro, cinema e televisione. Conosco quindi il valore di investire energie e idee che non siano solo su un progetto limitato, ma che seguano una prospettiva a più lungo raggio, con la possibilità di sviluppare un linguaggio comune. Questo è un aspetto che mi appassiona, anche se devo dire che quando mi hanno proposto di mettere insieme un gruppo di attori a Roma ero scettico: è una città con una forza centrifuga, è difficile che gli attori si aggreghino perché c’è molta competizione. Invece è successo.

Luciano Scarpa: Sono uno di quelli che ha

fondato l’Associazione del Gruppo Danny Rose. Volevamo riproporre un’idea di gruppo autentica, vera, con il sogno, o forse l’utopia, di poter creare una coscienza collettiva. L’idea è che ognuno di noi faccia parte di qualcosa che vada al di là di noi stessi, molto più grande delle nostre individualità. E ogni giorno facciamo i conti con le singolarità di ciascuno: tendiamo a volere essere unici come attori e l’idea del doppio cast – che dimostra che siamo sostituibili e allontana dall’idea che i personaggi siano di nostra proprietà – va proprio a scardinare queste pulsioni individualistiche. Ci sono stati anche confronti forti tra di noi, però da un litigio può venire fuori anche qualcosa di bello: se si supera un contrasto, spesso può nascere un’amicizia più solida. Le amicizie, come accade anche nei rapporti

Marit Nissen: Gran parte di noi lavora da tanto

tempo insieme e a me semplicemente sembra che ci sia sempre stato questo gruppo. Sicuramente quello che stiamo vivendo è un momento della vita artistica dove è necessario allargare se stessi e non lavorare soltanto per il proprio successo: far parte di un gruppo è una cosa più ampia di te, non pensi al microcosmo ma ti proietti verso il macrocosmo… Al di là dell’egocentrismo proprio dell’essere umano – e l’attore ne ha ancora molto di più – è bello ricordarsi sempre l’obiettivo più grande che ci siamo dati, dove non ci sono protagonisti.

Parte del cast di Servo per due prima della recita al Teatro della Pergola

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Che cosa avete imparato dal gruppo?

Luciano Scarpa: Quello che sto imparando dal

gruppo è sicuramente l’allontanarmi dall’idea individualistica del mio mestiere e di me stesso. Ci combatto ogni giorno.

Chiara Tomarelli: Spero di poter continuare

ad imparare e che questo progetto non sia soltanto un sogno. Credo che gli insegnamenti più forti siano stati a livello umano: una grande tolleranza, ma proprio considerandoti come la prima a dovere essere tollerata dagli altri. Ci sono le differenze, gli umori di tutti, e quindi occorre una grande capacità di ascolto: bisogna lasciar correre su alcune questioni e tenere sempre presente l’obbiettivo comune ‘alto’.

Bruno Armando: Devo dire che è stato anche

un bagno di umiltà. Io sono il più vecchio ed è molto più facile intraprendere queste spinte innovative quando sei giovane perché, alla mia età, ci vuole più coraggio. Così, entrare in questo progetto, per me è stato come fare un salto indietro e contemporaneamente uno nel futuro.

Roberto Zibetti: Credo che in un discorso corale, e soprattutto all’interno di quella scatola nera che rappresenta il palcoscenico, ciascuno abbia il diritto e il dovere di confrontarsi con la propria solitudine, con tutto quello che un personale percorso teatrale rappresenti. Mi sono accorto di dare spesso l’impressione di essere isolato, in realtà cerco semplicemente un’equidistanza che mi permetta di respirare in forma autentica. Però ho imparato un mucchio di cose: siamo in tanti ed è come quando giochi a biliardo, in ogni tua mossa devi rapportarti con ognuno degli elementi creativi e tecnici della compagnia.

Eleonora Russo: Sono una persona molto

ansiosa e questa angoscia l’ho vissuta in tutti gli spettacoli che ho fatto, prima che si aprisse il sipario. Questo con il gruppo Danny Rose è stato il primo spettacolo in cui per andare in scena non mi agito: probabilmente prima ero troppo concentrata su me stessa, invece ora sono completamente insieme agli altri, mi sento sorretta dal gruppo.

Gianluca Bazzoli: Io sono uno dei più giovani,

quindi ho imparato tanto, soprattutto stando vicino a persone con più esperienza di me. Quando entri in un gruppo ci sono degli aspetti che vanno gestiti, proprio a livello di energia: è stato bello conoscere i vari attori, scoprire come lavorano, il modo in cui si arrabbiano e in cui gioiscono. Piano piano arriviamo ad un linguaggio comune. Il primo giorno avevi accanto una persona che non sapevi bene come reagiva alle cose, adesso basta uno sguardo per capirsi, anche in scena… Comprendiamo subito quando qualcosa non va o se qualcuno va aiutato.

Stefano Pesce: Penso che quello che dovevo

imparare in questo frangente era di fare esattamente quello che mi è stato richiesto. Ho un’ abilità nello sfuggire a un compito preciso, faccio sempre qualcosa di più, e questo spesso è sbagliato, specie in una dinamica di gruppo. Ci combatto tutti i giorni.

Fabrizia Sacchi: Sono una delle fondatrici del

Gruppo Danny Rose. Quando Luciano Scarpa e Paolo Sassanelli si sono uniti con quest’idea mi hanno chiamato e da lì, insieme ad altri attori, abbiamo avuto il supporto di una banca… e il sogno si è concretizzato. Ho imparato molto dal gruppo, soprattutto dalla divisione in due cast di Servo per due. Non sono mai stata particolarmente attaccata ai ruoli, però questo è un passo ancora più in avanti: condividere il proprio ruolo con un altro attore, a livello paritario e non come una sostituzione, mi ha insegnato molto proprio umanamente. Significa vivere il gruppo come un’esperienza solidale, aiutandosi, e posso assicurare che non succede spesso tra gli attori. Non è per cattiveria, ma per forza di cose: spesso gli attori sono messi gli uni contro gli altri per conquistarsi il loro territorio, che è piccolo.

«Il teatro che abbiamo intenzione di fare noi è un teatro che avvicini il pubblico al suo spirito più autentico, la vita.»


Il tratto distintivo che caratterizza il vostro gruppo. Giampiero Judica: La grande ambizione che

Pierfrancesco Favino: Gli attori si avvicenda-

noi abbiamo, come gruppo Danny Rose, è il fatto di riuscire a mantenere il pubblico partecipe, nel senso che il pubblico diventa proprio un altro personaggio dello spettacolo. Vogliamo che il pubblico faccia parte del processo creativo. E questo sia per spettacoli come Servo per due, dove gli spettatori sono chiamati fisicamente sul palcoscenico per realizzare un momento comico insieme agli attori, sia per messinscene più drammatiche, in cui il pubblico potrebbe partecipare in altro modo, magari più sensorialmente, non so… Però è questo il codice che vogliamo mantenere.

no in scena, l’idea è quella di un gruppo democratico e la nostra collaborazione si fonda, prima di tutto, sui rapporti tra le persone. Abbiamo voluto intraprendere una strada diversa, sia per quanto riguarda le prove che per la tournée: lo spettacolo è frutto di vari laboratori e tra i tanti partecipanti sono state scelte due diverse distribuzioni di attori che si alternano nel corso delle recite in giro per l’Italia. In questa operazione teatrale ci sono momenti di euforia e altri di stanchezza, ma c’è anche il sogno: abbiamo scommesso su un progetto collettivo, tutto nostro. Con l’idea di andare verso il pubblico, anche in maniera fisica. Volutamente abbiamo scelto il testo di Servo per due, è l’unica opera di Goldoni in cui non c’è il cattivo! Ci andava di ricomporre in scena le coppie, l’amore, con la gente che esce dal teatro dicendo: “Hai visto, alla fine i personaggi ce l’hanno fatta…”.

Eleonora Russo: Siamo tutte personalità estremamente forti, quindi è un gruppo con delle individualità che ‘escono fuori’. Non è un gruppo di un colore solo.

Marit Nissen: E’ che siamo molto diversi, veniamo da tante esperienze, quindi siamo molto colorati…

Luciano Scarpa: Un gruppo si definisce col

tempo e noi siamo in una fase in cui stiamo ancora definendo chi siamo. La nostra caratteristica è quella di essere estremamente eterogenei, molto diversi l’uno dall’altro: chi viene dal teatro, chi dal cinema o dalla televisione, tutti con esperienze varie, ed è proprio questa la nostra ricchezza. Servo per due è il primo passo per noi, adesso dobbiamo pensare anche a realizzare un altro spettacolo, per definirci ancora di più come una compagnia di repertorio: un gruppo allargato che gira con più spettacoli. Non ci stiamo inventando niente perché era lo stesso sistema produttivo in vigore in Italia negli anni Cinquanta e ancora oggi, in alcuni Paesi stranieri come la Russia, è così: le compagnie di repertorio stanno in un teatro alcune settimane e fanno più spettacoli a rotazione.

Claudio Castrogiovanni: Il primo aggettivo

che mi viene in mente è scoppiettante, nel senso che il gruppo esprime un ribollire conti-

La Compagnia durante gli applausi del pubblico

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nuo di proposte e di borbottii, come una pentola che bolle… A volte occorre tenere il coperchio fermo, per non fare debordare il tutto, ma questo scoppiettio è sicuramente meglio di un elettroencefalogramma piatto e, secondo me, è questo che può salvare il teatro.

confrontarci sempre con un pubblico attivo, non passivo, che gode nell’andare a teatro.

Haydee Borelli: È un gruppo abbastanza

esplosivo, in cui vengono tirati fuori i nervosismi, le rabbie e le insoddisfazioni: tutto viene molto espresso. Questa caratteristica può portare a forti scontri che poi, una volta tirato fuori ‘il nero’, vengono velocemente riassorbiti.

Marina Remi: La caratteristica di questo

gruppo, quello che tutti stiamo facendo, proprio uno a uno, è lavorare sul proprio ego. Umanamente è molto interessante perché in un mondo in cui l’ego domina – non solo nel mondo degli attori ma in ogni ambito – sforzarsi invece di andare nella direzione opposta, mettendosi a volte anche da parte per favorire l’altro, è un fatto davvero rivoluzionario.

Ugo Dighero: Prima di un linguaggio comune

che ancora dobbiamo trovare e scoprire, sicuramente ci ha accomunato la serietà con cui abbiamo affrontato il lavoro, davvero impegnativo. Insieme abbiamo trovato la spinta giusta per capire che non si può stare ad aspettare che squilli il telefono e ti propongano un provino. E’ un momento difficile per il mestiere dell’attore, in cui tutto è molto opinabile, dove la meritocrazia e la professionalità non sono più le uniche certezze a cui un attore possa appoggiarsi. Sono tempi disastrosi proprio per la cultura in generale, ce l’hanno detto chiaramente in faccia: “Con la cultura non si mangia”. Ecco perché noi abbiamo contato totalmente sulle nostre forze e, unendoci, l’energia giusta per affrontare la crisi è arrivata.

Pietro Ragusa: Il tentativo, ci stiamo lavorando molto, è di valorizzare le differenze.

Fabrizia Sacchi: Il tratto caratteristico è che

vogliamo fare il teatro che ci piace, abbiamo tutti la stessa passione e la stessa speranza di far tornare il pubblico a teatro in maniera gioiosa e partecipativa. Il nostro sogno è quello di -23-


La dedica di Pierfrancesco Favino al Teatro della Pergola

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In tempi come quelli che stiamo vivendo, il gruppo è la forza? Luciano Scarpa: Sì, è con il gruppo che diamo

Ugo Dighero: Il gruppo può essere un tentati-

una risposta a questa crisi, che per certi aspetti è profonda perché si tratta di una crisi culturale. Attraverso il gruppo dobbiamo cercare un’energia nuova, un modo nuovo di fare il teatro e di essere - lo dice la parola stessa - una compagnia, una vera compagnia teatrale.

vo, non dico per sopravvivere, perché questo non è detto, ma almeno per parlare di argomenti tuoi con gente che capisce quello che stai dicendo e che condivide con te dei valori, alcune passioni. Già questo aspetto ci consente di andare, lo stesso verso la crisi o la catastrofe, ma almeno con il sorriso sulle labbra… E in un momento storico in cui a nessuno frega niente degli altri, noi abbiamo scelto di mettere in scena, con Servo per due, l’happy end, l’amore che alla fine trionfa e risolve i conflitti. La nostra storia in generale non funziona, mentre l’amore, proprio inteso singolarmente, per ognuno di noi, può essere una grandissima risorsa.

Pietro Ragusa: In tempi come questi il gruppo

è quasi necessario perché bisogna trovare un modo di fare degli spettacoli che riempiano le sale, altrimenti il teatro diventa qualcosa senza nessuna connessione con la realtà.

Thomas Trabacchi: Penso che i gruppi in ge-

nerale presentino delle difficoltà perché stare insieme è difficile, anche se l’unione fa la forza e non solo in questo mestiere, è una condizione valida proprio per l’essere umano. L’uomo è un animale sociale e all’inizio del secolo, per esempio, prima che si formassero le città alveari dove ognuno sta nella sua casa, era normale condividere con gli altri: nell’Italia contadina si facevano tanti figli e mentre si lavorava nei campi i bambini erano curati un po’ da tutti… Questo è lo spirito di gruppo.

Luca Pirozzi (Musica da Ripostiglio) : Il

gruppo è sicuramente una forza. In tempi di crisi uno spettacolo con più di venti persone in scena è veramente anomalo. Ciò è stato possibile grazie alla volontà e alla generosità del gruppo: molti – compreso un attore popolare come Favino – si sono abbassati la paga; la scelta è stata di prendere tutti, indistintamente, lo stesso cachet. In tempi di crisi si piange e ci si lamenta oppure si cerca di rialzarsi. Questo ha dato lavoro a tante persone: attori, musicisti, sarte, produzione, uffici stampa… E’ veramente un circo che si muove e la dimostrazione del fatto che, perfino in tempi di crisi, c’è sempre un’alternativa.

Diego Ribon: Avevo già fatto parte di alcuni

gruppi all'inizio degli anni Ottanta, caratterizzati da una grossa matrice politica, e trent’anni dopo ci dicono invece di mettere da parte le ideologie… Io che sono uno solitario, schivo e un po’ orso, mi batto con tutte le mie forze affinché, ancora oggi, si pensi in maniera collettiva e non personale.

«Il nostro vuole essere un teatro popolare interpretato da attori che hanno deciso di abbandonare le logiche delle produzioni tradizionali, per proporsi come compagnia allargata di repertorio: REP»

Stefano Pesce: Il gruppo è la forza. C’è chi sa

stare in gruppo, litigando il meno possibile, e chi invece accende sempre la polemica; chi calma le cose, chi sa tenere uniti… Per fare un gruppo serve un lavoro da parte di tutti, non esiste soltanto il leader, anche se si segue una gerarchia: non tutti hanno gli stessi compiti, qualcuno prende le decisioni e qualcuno le esegue… Ma quello che si fa, anche quando non si condivide una certa scelta, nasce comunque da un terreno comune più profondo. Bisogna imparare ad accettare le decisioni altrui, anche quando non si è d’accordo. -25-


Alessandro Haber

AFFERRANDO QUELL'ISTANTE DI FOLLIA

O

ltre ad essere un personaggio teatrale, la sua immagine è legata anche alla televisione e al cinema.

corpo, da me stesso, ciò che mi sembra giusto per quel determinato ruolo. Inizialmente i registi tendono ad imporsi e spesso capita di interpretare dei ruoli che sono già belli di per sé, come preventivati in precedenza, allora non rimane che proporli seguendo la direzione stabilita. In linea di massima però a me piace diversificare l’interpretazione, mi eccita di più…. È come fare l’amore sempre con la stessa donna: una tale noia, io decisamente amo il cambiamento.

Ad un artista la popolarità serve molto perché consente di fare delle scelte; fondamentalmente le mie decisioni tendono sempre a un senso poetico, culturale e sociale, cercano di non essere mai fini a se stesse. Certo, anch’io ho fatto delle cose per denaro, non posso negarlo, ma si è trattato sempre di attività almeno dignitose: alcune erano di forte impatto, altre meno, ma c’è sempre stata una ricerca della qualità. In più di quarant’anni anni di carriera non ho mai tralasciato una sola stagione teatrale e anzi ho perso anche molto cinema per questo, però non mi importa. L’importante è lavorare con soddisfazione.

Per fare l’attore è necessario utilizzare un po’ di follia?

Se decidi di fare questo mestiere, sei già fuori dai canoni: sarà per il tipo di vita, per questo gioco del travestimento e della bugia… Il fatto

Si dice spesso che in genere gli attori in Italia tendano a ripetersi, invece un aspetto che sembra emergere dalle sue scelte artistiche è la voglia di cambiare…

«nel momento in cui lo spettacolo finisce e c’è l’applauso, non siamo più il personaggio e contemporaneamente lo siamo ancora. Tu stai tornando in te stesso e l’applauso accompagna questo momento di smarrimento: è un piacere impalpabile che non riesci ad individuare totalmente, ma è anche un attimo di strana malinconia.»

Mi diverte trovare nuove strade, altre suggestioni ed emozioni. Mi piace colorare i personaggi: attraverso le mie esperienze, attingo dal mio vissuto e ogni volta tiro fuori da questo

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è che entriamo in altri personaggi, è come allontanarsi da se stessi oppure, allo stesso tempo, può essere anche un modo per ritrovarsi e per imparare a conoscersi un poco alla volta. È necessario recitare con determinazione ed entusiasmo, dimostrare abnegazione, una certa voglia di dare e di giocare… Siamo sempre appesi ad un filo, senza rete e senza certezze, abbiamo solo il talento che però è difficile da esprimere: se mancano il pubblico e il copione da recitare oppure se non arriva la telefonata giusta, allora si può anche impazzire. Io sono totalmente preso dal mio lavoro, la mia è una malattia cronica, fino al punto che veramente non so dove finisce l’uomo e dove comincia l’artista. Qualche anno fa sono diventato padre e, per esempio, non capivo se questo era un ruolo o era la vita, magari si trattava di una mescolanza… Per me la follia è costruttiva e intuitiva, può diventare addirittura creatività: basta riuscire, in qualche modo, ad avere la capacità di guardarla dall’esterno, bisogna distaccarsene per poi poterla afferrare e divorare.

C’è un momento della carriera in cui ci si

sente ormai ‘arrivati’?

No! E’ una parola che non ho mai usato, mi ripugna… Io voglio solo continuare a sognare, invece se uno è ‘arrivato’ significa che non ha più stimoli. Naturalmente oggi mi aggrappo ad alcune minime concretezze, ho raggiunto dei piccoli traguardi ma non sono mai definitivi: finché la voglia di mettersi in gioco e di sorprendersi sopravvive, allora è vero che ci sei, che sei ancora vivo. L’unico punto di arrivo è la morte. Mi accorgo che alcuni amici della mia età, estranei all’ambiente dello spettacolo, sembrano molto più vecchi di me; del resto, noi attori conduciamo una vita molto legata all’infanzia, giochiamo ancora con i colori e con i travestimenti. Però viviamo sempre sulla terra di nessuno, in un limbo incredibile: nel momento in cui lo spettacolo finisce e c’è l’applauso, non siamo più il personaggio e contemporaneamente lo siamo ancora. Tu stai tornando in te stesso e l’applauso accompagna questo momento di smarrimento: è un piacere impalpabile che non riesci ad individuare totalmente, ma è anche un attimo di strana malinconia.


I MESTIERI DEL TEATRO Giovanni Vernassa UNA LUNGA STORIA DI TEATRO

C

ome descriverebbe il suo lavoro?

allora il Teatro di Genova, per formare una cordata, con altri soci genovesi, che salvasse il teatro. Il Politeama rischiava infatti di diventare un garage. Mi tremarono le gambe: mio padre era morto improvvisamente da poco, avevo appena ventinove anni e mi imbarcai, insieme a mia sorella Barbara, in questa avventura. Con questa data nasce una svolta per l’Essevuteatro: continuiamo a distribuire spettacoli, ma comincia a realizzarsi un mio sogno, quello di creare un network di teatri, possibilmente privati, collegati tra loro. E dal ’98 con Claudio Bertini e Massimo Gramigni della PRG, dopo un pranzo insieme a San Frediano, decidiamo di costituire una società chiamata Antico Teatro Pagliano. Così prendiamo in gestione il Teatro Verdi di Firenze, dedicandolo alla prosa e al musical e più tardi, sempre in collaborazione con loro, seguiamo anche il progetto del nuovo Teatro Tenda, creando praticamente un teatro dal niente… Credo così fermamente nel teatro che ho pensato di investirci tutti i miei risparmi. Se tutti riuscissero a fare lo stesso, il teatro si autoalimenterebbe. Questa è la mia visione del teatro.

L’Essevuteatro è un ufficio di distribuzione di spettacoli teatrali, a livello di zona; si occupa di distribuire spettacoli in Toscana, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino Alto Adige. Le compagnie ci contattano per far circolare i loro spettacoli sul territorio del Centro Nord, questo è il lavoro svolto dall’Essevuteatro fin dal ’47, invece dal ’93 siamo diventati anche proprietari del Teatro Politeama di Genova, che era uno dei teatri più importanti d’Italia perché era diretto dal Teatro Stabile di Genova. Mi telefonò Massimo Chiesa, figlio di Ivo Chiesa che aveva diretto fino ad

Oltre ai teatri che ha citato, quali altre realtà appartengono alla vostra rete teatrale?

Da anni facciamo parte dell’Associazione che ha salvato il Teatro Puccini, siamo gestori dell’Europa Auditorium di Bologna e dal settembre 201 2 prendiamo in gestione anche il Duse, sempre a Bologna, dopo la dismissione dell’Ente Teatrale Italiano. E nel frattempo ho fondato l’Associazione “Voglia di teatro” con presidente Maurizio Costanzo, che comprende le imprese dei teatri più importanti in Italia, e Assoteatro, che è un’associazione di categoria sindacale, dove confluiscono circa settanta imprese teatrali, tutti uniti per scambiarsi idee e per riflettere sulle problematiche dei gestori di teatri. Vedi com’è cambiato il percorso dell’Essevuteatro nel corso del tempo? -28-


Il mestiere di organizzatore teatrale si tramanda di padre in figlio?

sa’, per Aggiungi un posto a tavola, nell’edizione storica dello spettacolo, quella con Johnny Dorelli; dopo trent’anni lo stesso Garinei ha ripetuto i suoi ringraziamenti ‘ai fratelli Vernassa’ per il nuovo allestimento di quel musical. Sono soddisfazioni che rimarranno sempre nel mio cuore, per tutta la vita.

Mio padre ha ricevuto la medaglia d’argento dall’AGIS per la sua carriera nel ’73, quindi significa che ha iniziato nel dopoguerra a fare questo mestiere. Prima i miei genitori erano stati degli artisti: mio padre faceva il comico e mia madre lavorava al Teatro Smeraldo di Milano, nel varietà con Macario. Questo per me è un anno particolare perché compio i miei trent’anni di teatro, ho cominciato facendo la gavetta con mio padre, e per il futuro mi auguro che i miei figli, sia Tommaso che Benedetta, entrino a far parte dell’Essevuteatro. Tommaso sta iniziando adesso, si occupa del nostro sito e di Internet, di quello che poi sarà il futuro… Dicono gli esperti che se riesci a mantenere un’azienda per tre generazioni, poi l’azienda difficilmente crolla.

Tutta la famiglia Vernassa lavora nel teatro?

Sì, noi Vernassa siamo quasi tutti nel teatro: mio fratello lavora all’Obihall, mia sorella oggi si occupa totalmente di Paolo Poli, ne segue la parte organizzativa, e si occupa anche di tante altre compagnie andando in tournée. E’ sempre stata un’amante dei progetti artistici ed è brava a trattare con gli artisti: li coccola, mentre io invece a volte ci discuto parecchio! Paolo Poli mio padre l’ha seguito da quando non lo voleva nessuno, gli faceva proprio da organizzatore, c’è sempre Paolo Poli in casa mia. Per me rimane un personaggio unico: è quel capocomico, produttore, primo attore che ancora oggi, ad ottantaquattro anni, segue piazza per piazza personalmente lo scarico e il montaggio delle scene. Altri personaggi legati alla mia famiglia sono Walter Chiari, che dormiva da noi, o Gino Bramieri… Walter Chiari mio padre non lo lasciava andare mai da solo, lo accompagnava e lo andava a riprendere perché altrimenti scappava: andava nei locali e invece doveva fare lo spettacolo…Walter Chiari era un personaggio pazzesco.

Che tipo di responsabilità ha eredito da suo padre?

Dopo la sua morte c’era solamente una cosa da fare: con grande umiltà, rimboccarsi le maniche e lavorare il più possibile per dimostrare nell’ambiente che non ero soltanto ‘il figlio di’… La cosa più bella è stata la solidarietà da parte dei produttori, degli organizzatori e dei gestori teatrali nei confronti miei e di mia sorella Barbara. Noi partivamo anche, per esempio, viaggiando per Firenze, Trieste, Udine, Pordenone, Trento, Rovereto in due o tre giorni: facevamo questo percorso e poi tornavamo a Firenze per cercare le piazze a questi produttori, quindi cercavamo di viaggiare la notte per essere la mattina in ufficio. Volevamo dimostrare di ‘esserci’, in qualche modo, che lavoravamo tanto e che saremmo andati avanti… C’è un aneddoto che racconto sempre e che mi riempie d’orgoglio, riguarda Pietro Garinei: lui ha mandato tanto tempo fa i ringraziamenti ufficiali a mio padre, ‘il Vernas-

Questo forte entusiasmo teatrale si è mai scontrato con la crisi economica che vive oggi il teatro? Il settore del teatro vive una fortissima mancanza di liquidità. Secondo me questo grave problema potrebbe essere risolto così: durante l’anno c’è una fase in cui i teatri hanno liquidità, ed è lo stesso momento in cui le compagnie vivono la crisi e devono produrre gli spettacoli, quindi accedono ad un prestito e -29-


pagano un forte interesse passivo. Il mio sogno è di fondare una banca dello spettacolo con il denaro che appartiene a tutti noi: i soldi vengono dati ad una banca nostra e prestati ad altri del settore, così si potrebbe ottenere liquidità con un bassissimo tasso di interesse. Sono stato anche a Lugano a parlare con dei banchieri fondatori di banche. Sarebbe una cosa pazzesca se tutto il teatro riuscisse a mettersi insieme e a non farsi più sfruttare con gli interessi.

una cosa impossibile, forse lo diventa quando la si affronta nel nostro ambiente perché è difficile mettere insieme più di due teste. Quando produci spettacoli con più imprese insieme, ecco che si è già in crisi, lo spettacolo non va in porto: ognuno vuol dire la sua a livello artistico, ma è sbagliato. Costruiamo un cartellone per dare emozioni e regalare sorrisi alla gente ma, in fondo, rimaniamo degli imprenditori.

Assolutamente no, infatti hanno già fondato una loro banca i farmacisti, gli agricoltori, i tabaccai, esistono anche delle banche di zona: per esempio, il consorzio di Scandicci ha fondato la banca per i suoi imprenditori, non è

Spesso basta vedere anche dieci minuti di un video per capire come sarà lo spettacolo; per quanto riguarda la parte commerciale è necessario avere un sesto senso, mio padre lo aveva e quando uno spettacolo funzionava diceva che “metteva porta”, era un suo modo per dire che i biglietti si vendevano. A volte mi interrogo sulla differenza tra il teatro ai tempi di mio padre e quello di oggi. In passato il teatro era di moda: i politici ci andavano, si facevano fotografare con gli attori perché era considerato un fatto importante, invece noi siamo diventati demodé. Dobbiamo ritornare ad essere di moda e i giovani possono aiutarci: il futuro è legato ad Internet, bisogna aiutare le compagnie giovani, bisogna scommettere sulle nuove produzioni. Valerio Binasco se invece che in Italia, fosse nato in Francia, Inghilterra o Germania, sarebbe già direttore artistico di un teatro stabile. E lo sarebbe oggi, non fra vent’anni.

E’ difficile riuscire a capire se uno spettacolo avrà successo al botteghino?

Non si tratta di un’idea utopistica?

«Credo così fermamente nel teatro che ho pensato di investirci tutti i miei risparmi. Se tutti riuscissero a fare lo stesso, il teatro si autoalimenterebbe. Questa è la mia visione del teatro»

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LA PAROLA AL PUBBLICO

L'amore nel teatro

ho chiuso gli occhi ed è apparso, davanti a me, un Teatro! ho sorriso e sono caduta dentro un Sogno; un sogno Reale pieno di Emozioni, Brividi, Lacrime, pieno di Musiche e di Profumi, immerso nei Gesti e nei Movimenti, accecante di Luci e Colori, assordante di Risate e di Parole.. tante, conturbanti Parole.. sono tornata Bambina, sono tornata all’Origine di Tutto. e in quel Tutto ho sentito l’Amore e nell’Amore ho sentito la Vita.. ho aperto gli occhi ed il Teatro è sfumato via.. e con Lui la Visione è scomparsa.. ma Qualcosa adesso è cambiato; Qualcosa si è trasformato; Qualcosa è rimasto.. Sono Io con il Cuore adesso Aperto, pieno di quel Tutto, pieno dell’Amore. A.


Roberto Incerti UNA VITA DI INTERVISTE *

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Fare il giornalista è stato un modo per occuparmi di teatro professionalmente. Per Repubblica ho scritto circa diecimila pezzi, ho intervistato tutto il teatro italiano e anche molto teatro europeo; tra l’altro, io sono il primo ad avere fatto un pezzo su Pieraccioni, Panariello e sul Pinocchio di Monni, Ceccherini e Pace. Fecero la prima di questo spettacolo al Variety e il teatro era vuoto, mentre alla seconda replica andò a vederli Benigni… La cosa mi incuriosiva, feci un’intervista in anteprima e loro vennero a fare le foto in redazione perché non avevano neanche le foto di scena. All’epoca Pieraccioni era uno sconosciuto, quindi averne scritto per primo mi ha reso felice…

val Sacro di San Miniato: uno spettacolo al buio, dove si sarebbero sentite solo le voci degli attori, una specie di radiodramma dal vivo. Un altro ricordo legato a Orazio Costa riguarda Gabriele Lavia: avevo letto che lui aveva pensato di proporre ad Orazio Costa di fare uno spettacolo all’aperto a Torino, in mezzo alle case. Mi parve un’idea bellissima, così chiamai Costa per fargli un’intervista e pareva che avesse accettato. Arrivò il momento di uscire il giorno dopo sul giornale e Costa non si fece trovare. Allora mi venne un illuminazione: cercai Gabriele Lavia che fu gentilissimo e disponibile, gli chiesi la cosa più banale ovvero come gli fosse venuta l’idea di ipotizzare uno spettacolo di questo vecchio Maestro in mezzo alle case, in un quartiere popolare di Torino. Lavia mi rispose così: “Mi meraviglio che quest’idea non sia venuta ad un altro” e così mi raccontò quello che per lui era stato Orazio Costa, un grande del teatro. Il giorno dopo trovai un messaggio di Costa nella segreteria telefonica, e mi dispiace di non averlo registrato: “Vede che lei è riuscito a fare il pezzo nel migliore dei modi, è stato molto meglio che se avesse intervistato me”. Ecco che in quel momento mi aveva insegnato a fare il giornalista, come si costruisce un’intervista. Una volta, per esempio, eravamo alla fine degli anni Ottanta, andai ad intervistare al Teatro Niccolini Carlo Cecchi. Aveva un carattere molto più scorbutico di adesso e non era facile ottenere un’intervista. Eravamo in camerino e Cecchi stava davanti a me, solo che era girato di spalle, per cui io gli facevo delle domande e lui biascicava delle risposte stando di schiena e tutte le volte gli dicevo: “Non ho capito!”. Alla fine venne una bella intervista, Cecchi rimase contento e da allora l’ho intervistato tante volte, anche se in modo forse meno ‘eroico’…

Tra i ricordi che più mi porto dietro - i miei personaggi del cuore, chiamiamoli così - direi che le interviste ai Maestri rimangono l’aspetto più importante del mio lavoro: Vittorio Gassman, ai tempi della Bottega a Firenze, con la sua idea di fare a Firenze una cittadella del teatro e che ricordo forse un po’ stanco ma gentilissimo; Marcello Mastroianni, incontrato quasi per caso in piazza Santissima Annunziata, che mi prese sottobraccio e mi portò con lui in un bar. Ordinò del whisky alle tre del pomeriggio e rispose alle mie domande. Ricordo con affetto un’intervista fatta sul palcoscenico della Pergola a Luca De Filippo, in cui mi raccontava delle prime che spesso suo padre sceglieva di fare proprio alla Pergola, di quanto lui amasse questo teatro e del modo in cui Eduardo si rivolgeva agli attori… Ci sono degli artisti che sono sempre in grado di dare un titolo a un pezzo, alcuni li ho intervistati tante volte: Giorgio Albertazzi, Paolo Poli, Orazio Costa, che non era per niente facile da intervistare. Una volta ebbi l’opportunità di intervistarlo alla Pergola, abitava al piano di sopra; mi raccontò del suo metodo di insegnamento del teatro, di quanto lui credesse nel lavoro dei giovani, e mi parlò anche con una vena di tristezza di un progetto mai realizzato che aveva in mente per il Festi-

Tanti personaggi li incontri più volte nel corso del tempo e alla fine si crea un rapporto: per esempio, Sandro Lombardi quando tornò a recitare dopo un periodo di malattia, affidò a me un pezzo, mi lasciò un’intervista in cui -32-


raccontava di questo suo periodo di solitudine, di un poeta come Mario Luzi che gli disse: “Alzati e risorgi”, di come questo lo aiutò poi a tornare a fare teatro. Ogni volta c’è un stimolo nuovo, non ti stanchi mai di ascoltare, perché sono artisti che fanno sempre uno spettacolo nuovo. E’ un nuovo viaggio che la cronaca, la parola scritta, fa insieme allo spettacolo. Il teatro è un luogo dove ho passato gran parte

della mia vita, è un termine di paragone in tutto quello che faccio. Il teatro rappresenta la mia professione, la passione, e mi aiuta a vivere. Voglio ricordare una riflessione molto bella di Sandro Lombardi, che faccio mia: “Mi piacerebbe che il mondo di oggi riuscisse ad adeguarsi alla bellezza del teatro”. Purtroppo non sempre è così.

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* Giornalista di Repubblica

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Riccardo Ventrella

METTI UNA SERA CON LA FAMIGLIA

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Voglio precisare: molto raramente mi capita di guardare fiction televisive. Questione di tempo, e anche di affezione agli sceneggiati della gioventù, nonché una sindrome post-Lost che mi fa essere discontinuo anche con le più celebrate serie che vengono dall’estero. Le poche volte che sono finito nella rete di una fiction RAI me ne sono dovuto pentire (ricordo con particolare amarezza quella su Gigi Meroni, personaggio da me molto amato, imbottita di umilianti errori storici). Per una serie di coincidenze mi è capitato di passare qualche sera in casa con mia suocera, evento che mi ha fatto sentire chissà perché un po’ alla Raimondo Vianello. Lì mi sono imbattuto in Una grande famiglia che avevo già occhieggiato senza darci troppo peso nel corso di qualche passaggio a casa dei miei. Ad attrarmi, improvvisa, un’inquadratura di Massimo Popolizio: che ci fa Massimo Popolizio in una fiction RAI, mi sono chiesto. Poi mi sono ricordato che c’era anche Alessandro Gassmann, Sonia Bergamasco (in Gifuni, tanto per completare un virtuale promo della nostra stagione di prosa); dai ricordi degli sceneggiati di Pupi Avati ( Jazz Band, che cosa straordinaria) Gianni Cavina e Lino Capolicchio. Piera Degli Esposti, addirittura. Si trattava della seconda serie, e nonostante mi mancasse del tutto la competenza spettacolare ho preteso di vedere le restanti puntate. Dai titoli di testa si capiva di più: al fianco di un regista competente e abile in questo tipo di prodotti c’erano uno scrittore/sceneggiatore efficace come Cotroneo, coinvolto anche nell’interessante esperimento della fiction-web Una mamma imperfetta nella quale spicca Lucia Mascino che vedremo al fianco di Filippo Timi nel Don Giovann i; e Monica Rametta, che ricordavo da quando lavorava con Corso Salani. Ergo, alla fine dell’elenco, che conclusione se ne deve trarre? Che un prodotto televisivo destinato al grande pubblico può essere di grande qualità, e per esserlo ha bisogno di professionisti preparati e attori capaci, guarda caso provenienti sempre dal magistero e dall’esperienza del teatro: Gassmann ha studiato col padre, Popolizio viene dall’ala di Ronconi, Cavina da quella di Franco Parenti e Capolicchio dallo sguardo di Strehler, come del resto Sonia Bergamasco. Il grande attore è una ricchezza della quale spesso ci siamo dimenticati, per fretta e per noia, obnubilata da altri miti e riti, dall’impazienza dei risultati facili, dalla fatica dell’apprendimento. I grandi attori, molti dei quali fortunatamente in età verde per la media del teatro, stanno facendo grande il rinnovato interesse per il palcoscenico: perché sanno trasmettere la loro ricchezza con generosità, perché lasciano percepire la forza della parola e dell’azione. Come i loro predecessori, senza far distinzione di mezzi, teatro o televisione, perché tutto è da rendere migliore. Siamo onorati di poter ospitare molti di loro alla Pergola. PS: non lasciatevi scappare Una grande famiglia 3 …

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o t r e p o c s e r ...u n c u o i n i r e m a c i e d a r u m e tra l . . . a l o g r e P a l l e d o r t a e de l T


DIETRO LE QUINTE

Che cosa spinge un giovane attore ad innamorarsi del teatro?

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Non c'è una cosa in particolare che mi ha fatto innamorare del teatro, mi sono avvicinato al teatro per caso e quasi immediatamente mi sono reso conto che per me era un incontro inevitabile. Non ne posso fare a meno perché mi dà un brivido, una scintilla di vita, mi fa sentire vivo, mi mette davanti alla vita vera. Il teatro crea un confronto continuo con te stesso, con la vita e con gli altri. Ed è per questo che voglio fare l’attore. Non esiste alternativa, un ‘piano B’ non ce l’ho, non me lo sono mai posto. Ho scelto di cominciare proprio con il teatro e non con il cinema o la televisione perché penso sia fondamentale cominciare da qui. Ciò non toglie che se ci sarà la possibilità di fare del cinema in futuro ne sarò contento. Il mio Maestro è Marco Giorgetti. Il suo insegnamento parte dal Metodo Mimico di Orazio Costa, anche se lui non ti insegna una tecnica precisa ma ti indirizza, ti fa vedere una strada possibile, ti dà la libertà di sperimentare. Marco Giorgetti è per me una guida in un percorso di riscoperta di un istinto che non si ferma solo al teatro, alla scena, al personaggio, ma che contamina la vita. Gli attori che mi piace vedere in scena? Uno su tutti è Gabriele Lavia. Quello che mi affascina è il suo immenso talento che esprime a 360°, in ogni aspetto della messinscena: dalla recitazione al testo, al disegno luci, ai costumi, alla scenografia. Avendo avuto l’opportunità di seguire le prove mi sono reso conto che la sua arte a volte mi creava dei dubbi e delle domande, aumentando la mia voglia di conoscenza e di confronto, portandomi ad una riflessione continua. Credo che la recitazione sia un'arte estremamente concreta, artigianale, e che sia importante l'osservazione diretta dei professionisti. Come si dice in gergo teatrale: “osserva e ruba”. Se mi chiedessero: “Ti piacerebbe fare una fiction?”, la mia prima risposta sarebbe: “no”. Seconda risposta: “sì, perché lì ti pagano”… E poi da cosa nasce cosa! Ad oggi mi piacerebbe molto interpretare, e perché no, curarne anche la regia, il testo Caligola di Camus. Questo autore scrive: “Tutto è consentito tranne la romanità". Quando ci penso ho 25.000 idee! Un altro testo del cuore è Il Pellicano di Strindberg, l'ho già studiato una volta e mi piacerebbe approfondirlo ancora. A volte penso che se non ci fosse il teatro non ci sarei neanche io, è una conditio sine qua non .

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Raffaello Gaggio, maschera e giovane attore del Teatro della Pergola

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coppie alla pergola 3 pag

a d e i Co p p

! a l o g r e P lla

Anna Ferzetti e Pierfrancesco Favino

Servo per due regia Pierfrancesco Favino e Paolo Sassanelli

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Peppe e Toni Servillo Le voci di dentro regia Toni Servillo

Giampiero Ingrassia e Simona Samarelli Stanno suonando la nostra canzone regia Gianluca Guidi

Monica Guerritore e Alessandro Riceci End ofthe rainbow regia Juan Diego Puerta Lopez

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Stefano Accorsi e Marco Baliani

Giocando con Orlando regia Marco Baliani

Gabriele e Lucia Lavia Tutto per bene regia Gabriele Lavia

Maurizio Scaparro e Massimo Ranieri

Viviani VarietĂ regia Maurizio Scaparro


Maurizio Scaparro

DON GIOVANNI E LA SEDUZIONE DELL'UTOPIA Sono stato sfiorato più d'una volta dall'ombra di Don Giovanni, o dall'ombra di qualcuno che si diceva Don Giovanni, anni fa vivendo e lavorando a Siviglia, città che lascia intravedere nei giardini, nei palazzi, nelle strade, le orme e le stimmate del Burlador. Lì è nato il Don Chisciotte frammenti di un discorso teatrale, lì nacquero anche alcune giornate di vitalissime riflessioni stimolate da studiosi spagnoli e italiani, con un titolo Don Juan y Don Quijote, la seducìon de l'utopia, che oggi mi appare quasi premonitore di quello che avrei cercato di fare qualche anno dopo: Don Giovanni raccontato e cantato dai Comici dell'Arte, (tratto dal Burlador de Sevilla di Tirso de Molina) spettacolo che, nel 2003, partendo da Roma, è andato in tournée in Italia e in Europa, successivamente Don Giovanni di Mozart per il Teatro Massimo di Palermo ed infine Don Juan di José Zorrilla. (Un Don Giovanni quest'ultimo che non nasce casualmente in Spagna e a Siviglia, è un opera che s'incontra con gli umori mediterranei e italiani, affronta il rapporto tra tragedia e festa, basti pensare alla festa di carnevale che introduce il dramma e la festa della fine.) Tornando al mio primo amore a Siviglia, ricordo che vivere con Don Chisciotte è stato un po' per me come assistere a un passaggio di consegne dell'ultimo dei cavalieri erranti al primo dei seduttori. Un eroe (Don Giovanni) che prese il posto degli Orlandi, dei paladini, dei grandi spadaccini delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi, i quali ammazzavano un incredibile numero di nemici, così come Don Giovanni conquistava le sue donne. Di tutti quei cavalieri, Don Giovanni avrebbe potuto incontrare solo l'ascetico, l'allucinato Don Chisciotte, il relitto di un mondo scomparso. E che incontro sarebbe stato!

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L A L A VA GNA CON L A SCRITTA 'EDUA RDO' VIENE CONSERVA TA NEI LOCA L I DEL TEATRO E FA RIFERIMENTO A L CORSO DI DRA MMA TURGIA CHE EDUA RDO DE FIL IPPO REA L IZZÒ NEI PRIMI A NNI O TTA NTA A L TEA TRO DEL L A PERGOL A . QUESTA CITA ZIONE HA ISPIRATO L A COPERTINA DEI Q U AD E RN I D E LLA P E RG O LA


Quaderni della Pergola

- numero 2

A cura di Angela Consagra e Alice Nidito Interviste e testi di Angela Consagra Ideazione grafica Gabriele Guagni Impaginazione e progetto grafico Chiara Zilioli Hanno collaborato a questo numero: Clara Bianucci, Biagina Cherubini,

Dalila Chessa, Elisabetta De Fazio, Raffaello Gaggio, Gabriele Guagni, Orsola Lejeune, Filippo Manzini Immagini La fotografia di copertina, la fotografia della lavagna di Eduardo De Filippo e tutte le foto dei Quaderni della Pergola sono di Filippo Manzini Le fotografia di Alessandro Gassmann e Manrico Gammarota a pag. 4 è di

Alice Nidito e lavagna COLOPHON

Le fotografie di Elena Lietti a pag. 1 3 e di Lucia Mascino a pag. 1 5 sono di

Achille Le Pera

Le fotografie del Gruppo Danny Rose a pag. 1 8 sono di Fabio Lovino La fotografia di Alessandro Haber è di Stefania Signorini Il cuore sulla lavagna in copertina, il disegno delle poltrone a pag. 33 e l’elaborazione grafica del cuore a pag. 40 sono di Dalila Chessa Per contattarci:

sala@teatrodellapergola.com quaderni@teatrodellapergola.com

Presidente Sergio Givone Consiglio di Amministrazione Ugo Caffaz, Stefania Ippoliti, Franco Lucchesi, Raffaello Napoleone Collegio Revisori dei Conti Giuseppe Urso Presidente, Adriano Moracci, Roberto Lari Direttore Generale Marco Giorgetti


e l o s l i e v o m e h c L ' a m o r r e st e l l e e l' a lt Dante Alighieri


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