Terre di Confine #2

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Rivista elettronica aperiodica redatta dal gruppo FantasyStory/FantasyRPG/AccP - www.crepuscolo.it - n. 2 / gennaio 2006

Anno II - numero 1

Fantascienza, Fantasy, Anime

SCIENZA

Intelligenza Artificiale

INTERVISTE C. Recagno G. Pueroni G. Stocco

LETTURA

D.A.D.O.E.S. Io, robot

MITI Orfeo

RACCONTO

Murtag e la Lorelei

CINEMA

L’uomo Bicentenario

FUMETTI Luc Orient

STORIA I Celti

ANIME

Alexander


N. 2

Anno II - numero 1

Un progetto FantasyStory/FantasyRPG/AccP

LE FOTO IN COPERTINA Sfondo tratto dal film “Io, Robot”, copertina dvd. Immagini d’anteprima tratte da: “L’uomo bicentenario”, copertina dvd; Luc Orient n. 9, copertina Editions du Lombard; Alexander copertina dvd n.1 Dynamic Italia. L’immagine del “Celta” è © Luca Terlazzi http://www.lucatarlazzi.com/


Sommario

TERRE DI CONFINE REDAZIONE EDITORIALE

FANTASCIENZA LETTURA CINEMA CINEMA CINEMA CINEMA LETTURA SCIENZA E TECNOLOGIA FUMETTO

PIN-UP: B. MOYNAHAN

IO, ROBOT IO, ROBOT L’UOMO BICENTENARIO IL MONDO DEI ROBOT I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE? INTRODUZIONE ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE LUC ORIENT

FANTASY MITI E LEGGENDE STORIA E CULTURA STORIA E CULTURA STORIA E CULTURA INTERVISTA GDR GDR GDR RACCONTO

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PIN-UP: JASMINE E MIRIAM

IL MITO DI ORFEO UCRONIA E DIDATTICA STORICA I CELTI E LA LETTERATURA FANTASTICA I CELTI TRA STORIA E LEGGENDA CARLO RECAGNO E GIACOMO PUERONI WARHAMMER WARHAMMER - THE DYING OF THE LIGHT STORIA DEL MUD MURTAG E LA LORELEI

92 100 104 122 134 144 150 154 190

PIN-UP: ROSSANE

ANIME CINEMA LA CITTÀ INCANTATA SERIE TV ALEXANDER ANIME 3D HAYABUSA V. GS

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REDAZIONE STAFF

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TDC N.2 - GENNAIO 2006

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Il n. 1 di Terre di Confine è disponibile per il download qui: http://www.crepuscolo.it/fantasystory/page.php


Editoriale L

a parte iniziale di questo numero di TdC è dedicata all’argomento “intelligenza artificiale”, un tema molto caro alla letteratura fantascientifica. La cinematografia l’ha riproposto svariate volte - alternando pellicole di dubbia qualità a piccoli gioielli - di solito attraverso i suoi volti più “accattivanti”: androidi e robot. La Fantascienza ne ha ormai sondato le molteplici profondità (filosofica, etico-morale, tecnologica, sociale, religiosa...), presentandoci ogni possibile e (attualmente) ipotizzabile scenario futuro, stimolando quesiti affascinanti e delineando incognite che, prima o dopo, occorrerà affrontare. La complessità del tema “intelligenza artificiale” deriva dall’incapacità di definire soddisfacentemente cosa è la “intelligenza”. Da questo punto di vista, il problema-intelligenza ha un gemello: si chiama problema-vita. Ambedue ispirano le stesse domande, e determinano il medesimo grado di lacunosità nelle risposte. Cos’è la vita? (cos’è l’intelligenza?) Quando o dove inizia la vita? (e l’intelligenza, quando o dove?). Pensare di poter rispondere alla seconda domanda è un miraggio. Con la prima ci si può riuscire solo a patto di restare sul vago e procedere per esclusione. Poiché l’unità base della vita è la cellula (funzionante), ne deriva che: NON è vivo tutto ciò che NON è composto di cellule, o che è composto di cellule NON funzionanti. Per esclusione, è (potenzialmente) vivo tutto il resto. Ciò che poi è composto di cellule in parte funzionanti e in parte no, è vivo ma potrebbe stare meglio. Una suddivisione generica. Eppure, a conferma del fatto che non si deve mai buttar via nulla, in alcune questioni si è rivelata funzionale, alleggerendo decisioni altrimenti complicate. Tanto per cominciare, grazie a questo modo di circoscrivere la vita siamo stati in grado di decidere come trattare socialmente “categorie” come: automobili, virus, sassi, esseri umani, ecc. Siamo riusciti a stabilire, per esempio, che alle prime tre non è necessario riconoscere dei diritti civili. Sull’ultima, con calma, stiamo ancora lavorando. Resta il fatto, comunque, che non riusciamo a definire cosa sia la vita (e gli organismi individuali) con sufficiente precisione da capire dove essa inizi. Neanche a mezzo referendum. Stesso dicasi per l’in-

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TERRE DI CONFINE telligenza (e l’individualità autocosciente). Ma il legame è più stretto ancora. Fino a oggi non era mai esistita intelligenza senza vita, mentre è esistita ed esiste tuttora (basta guardare i telegiornali) vita senza intelligenza. Il che ci ha portato a ritenere che la seconda potesse esistere - e quindi evolvere - solo come attributo (pur facoltativo) della prima. L’era dei computer ci ha sgretolato questa certezza, sostituendola con un sottile timore: che l’intelligenza, da frutto della vita, possa risultarne un giorno parassita; cioè che possa evolversi in una forma capace di replicarsi senza più l’ausilio di essa. La selezione naturale, si sa, è solo apparentemente pro-biotica: il suo campo di applicazione non è la vita in sé, ma la vita in quanto unica “cosa” capace di autoriprodursi. E, se questa capacità si estendesse alla non-vita, si trasferirebbero con essa anche gli automatismi naturali di evoluzione e competizione. La prospettiva c’inquieta perché tra due eventuali contendenti di nome “intelligenza animale” e “intelligenza artificiale”, a parità di complessità, ci sono ben pochi dubbi su quale sia il più adattativo. Un robot può programmare milioni di altri robot nel tempo che due esseri umani impiegano per produrre un paio di bambini (ammesso che esista ancora chi possa economicamente permettersene più di uno). In conclusione, il rapporto tra vita e intelligenza potrebbe non essere così intimo e duraturo come credevamo. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ci sta appunto mettendo la pulce nell’orecchio. Arsenali atomici e chimico-batteriologici, deforestazione e inquinamento permettendo, verrà probabilmente un giorno in cui intelligenza e vita prenderanno cammini separati. E quel giorno l’uomo sarà chiamato a decidere quale tra le due sia più importante. Sarà un bel dilemma.

MASSIMO DE FAVERI “La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta.” Isaac Asimov (1920 - 1992)

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AREA

FANTASCIENZA

“Allora, dottoressa Calvin, lei che cosa fa esattamente?” “Lavoro nel campo della robotica avanzata e della psichiatria, perlò la mia specializzazione è nelle interfacce fra hardware e wetware, per portare avanti il programma di antropomorfizzazione della U.S. Robotics.” “Quindi... lei qui cosa fa esattametne? “Faccio sembrare i robot più umani.” “Non era più facile dirlo così?” “Veramente no... No.”

Spooner/Calvin da Io, robot 2004 FILMOGRAFIA 11. Lord of War (2005) 10. Gray Matters (2005) 09. I, Robot (2004) 08. The Recruit (2003) 07. The Sum of All Fears (2002) 06. Serendipity (2001) 05. Whipped (2000) 04. Coyote Ugly (2000) 03. Trifling with Fate (2000) 02. In the Weeds (2000) 01. Row Your Boat (2000)

fonte: www.imdb.com


Bridget Moynahan


FANTASCIENZA

LETTURA

IO, ROBOT (I, robot) di ISAAC ASIMOV (1950) QUANTO DI UMANO C’È IN UN ROBOT? L’eredità visionaria di un illuminista contemporaneo

A

simov narra di galassie lontane e tecnologie impensabili, di futuri impalpabili e mondi astrusi. Eppure, quando plasma quella che tra tutte è l’invenzione che più ha influito sull’immaginario collettivo dagli anni ’50 ad oggi, non fa altro che porre l’uomo di fronte all’uomo. Perché tra le righe di questo genio che tanto ha scritto di voli interstellari, proprio lui che di volare aveva terrore, possiamo leggere sì di robot, ma così umani da far impallidire l’uomo stesso. Il filone letterario che Asimov inaugura con la celebre raccolta di racconti “Io, robot”, datata 1950, viene detto da molti “ciclo della robotica”… sarebbe indubbiamente più corretto denominarlo “della roboetica”. Robbie entra forse troppo in simbiosi con la bambina che accudisce, Herbie è un bugiardo incallito, Dave ha velleità dittatoriali, Cutie invece è nel bel mezzo di una crisi mistica. Sono forse questi dilemmi robotici? Risposta: sì! Da sempre l’uomo ha prima desiderato poi realizzato macchine che facessero il lavoro “sporco” al suo posto. Ovviamente il campo d’impiego è limitato: un buon software batterà indubbiamente il suo avversario in una partita a scacchi, Deep Blue insegna, ma di certo non è possibile pretendere che esso sia anche capace di scrivere un romanzo. La creatività è cosa di un mondo fatto di ossa e carne, non di circuiti. Particolare che Asimov non si permise di tralasciare quando delineò le caratteristiche di questi elettrodomestici tecnologicamente avanzati. Così, per ovviare ad invasioni di campo nel rapporto uomo-macchina, dotò queste ultime di un ingegnoso codice di comportamento costituito da tre dettami ormai famosissimi:

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1. UN ROBOT NON PUÒ RECAR DANNO A UN ESSERE UMANO, NÉ PERMETTERE CHE, A CAUSA DELLA PROPRIA NEGLIGENZA, UN ESSERE UMANO PATISCA DANNO. 2. UN ROBOT DEVE SEMPRE OBBEDIRE AGLI ORDINI DEGLI ESSERI UMANI, A MENO CHE CONTRASTINO CON LA I LEGGE. 3. UN ROBOT DEVE PROTEGGERE LA PROPRIA ESISTENZA, PURCHÈ QUESTO NON CONTRASTI CON LA PRIMA O LA II LEGGE. La loro formulazione risale ad una conversazione tenutasi tra lo scrittore e il suo editore il 23 dicembre 1940. Esse sono così chiare e ben esposte che oggi molti campi dell’intelligenza artificiale vi fanno riferimento. Eppure il genio con la paura del volo pare conoscesse bene il detto “le leggi esistono per essere infrante”, visto che il motore di ogni sua narrazione che vede per protagoniste macchine positroniche è basato sulla non osservanza di una delle tre leggi. Asimov assemblò per decenni dei robot difettosi, e lo fece coscientemente. E chissà quanto debba essersi

LETTURA: IO, ROBOT


IO, ROBOT divertito nel vedere l’uomo alle prese con la matassa da sbrogliare. Quello che alcuni critici definiscono paradosso è in realtà il punto forte dell’autore. Per far sì che i robot comprendano le tre leggi, essi vanno dotati di uno stato di coscienza permanente. In base alle leggi a cui essi debbono sottostare riescono poi a frenare gli impulsi della propria coscienza emotiva. Ma la complessità dell’essere tanto simili all’uomo, anche se resta sempre uno stato di imitazione e non di creatività, mista al convivere con l’umano stesso e con tutte le sue contraddizioni portano inevitabilmente l’entità elettro-meccanica ad un conflitto. Dove sta la critica? Nell’aver dato alla luce un genere di forza lavoro che il lavoro più che alleggerirlo lo crea, visto che come l’uomo, anche la macchina deve confrontarsi con la complessità del dilemma etico. Dove sta il genio? Nell’aver messo l’uomo di fronte a se stesso e averlo travestito da robot! Lo specchio davanti al quale ci pone lo scrittore non riflette solo la nostra immagine, ma anche i nostri problemi, poiché, per eludere le nostre resistenze, evita di sbatterceli in faccia, ma li maschera, li analizza e ci domanda infine di renderne conto. Chissà se in questo modo il Moscarda pirandelliano si sarebbe accorto del suo naso che pende! A rendere conto dei robot difettosi sono due ingegneri che spesso ritornano tra le pagine del libro: Donovan e Powell, capita loro pure di rischiare la pelle, ma solitamente, con la forza della logica, vengono a capo delle questioni più impervie. E il fatto insolito è che il più delle volte non è tanto la macchina che necessita di miglioramenti, quanto il comportamento umano d’essere compreso più a fondo. Le falle dei robot sono semplicemente generate dalle nostre stesse zone d’ombra. Di conseguenza serve anche un ottimo psichiatra. La robo-psicologa Susan Calvin è molto più a suo agio con le macchine che con le persone, poiché i robot sono fondamentalmente onesti. Solitamente gelida negli atteggiamenti e tenace nelle convinzioni, sarà davvero divertente vederla infuriarsi nei confronti di un suo paziente che scopre averle mentito. Ma quello resterà il suo unico slancio emotivo per tutta la raccolta. Sono questi gli addendi che vanno a comporre

un’operazione così innovativa e importante se si pensa alle svolte che ha comportato sia da un punto di vista sociale che scientifico, per non parlare dell’enorme contributo artistico. Esiste un prima e un dopo Asimov, quando la cosa che più si avvicinasse all’idea di imitazione della vita umana era Frankenstein e quando poi macchine ed esseri umani iniziarono a convivere pacificamente. La pubblicazione di questa opera non portò solamente alla nascita di un genere quasi a sé stante, ma contribuì, assieme al progredire tecnologico, alla formulazione di domande significative di natura prettamente etica. Difficile concepire quel tipo di grattacapi con cui le neuro-scienze ogni giorno devono fare i conti se estrapoliamo dal contesto l’idea di un essere artificiale. Impossibile pensare a Matrix senza quel gradino che è rappresentato dal duplice rapporto uomo-macchina. Il panorama odierno deve molto a quella conversazione tra uno scrittore agli albori e il suo editore. Eppure è singolare come Asimov abbia acquisito questa fanta-visione che nasceva ricca di un profondo spirito positivistico, per poi riproporne il negativo speculare. Che la realtà di questo tempo tenda al catastrofico non è una novità, ciò che lascia di stucco è che un uomo che non imparò mai ad andare in bicicletta, terrorizzato dall’altezza, astemio, tendenzialmente agorafobico, abbia guardato al futuro col sorriso sulle labbra e la speranza nel cuore. Isaac Asimov non è famoso per aver lasciato ai posteri opere di qualità letteraria sopraffina, anzi, la sua era una prosa stringata, pochissime descrizioni e dialoghi a fiumi. Nessuno stile ricercato, per non parlare del lessico, alquanto usuale. Questo suo libro, il primo pubblicato, ne è un perfetto esempio. Perché mai allora dar credito ad uno scrittore di media fattura? Forse perché egli ha sempre dimostrato di dar credito a noi. Quasi fosse un moderno Voltaire, Asimov, con il suo positivismo convinto, ha dimostrato che la logica e la ragione sono in ambito umano la tecnologia più preziosa. E, sfogliando le sue pagine, contempliamo come spesso capiti di dimenticare questo concetto, e come i robot non perdano occasione per riportarcelo alla memoria.

ROMINA “LAVINIA” PERUGINI LETTURA: IO, ROBOT

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FANTASCIENZA

CINEMA

IO, ROBOT QUANDO IL DISIMPEGNO CINEMATOGRAFICO NON È UN REATO

L’agente Del Spooner va fiero delle sue nuove Converse stile anni ‘70! Per chi di scarpe se ne intende, si tratta di una vera rarità nel 2035! Brutto periodo in cui esercitare la “professione” a Chicago, per uno che ha qualche problema La giornata inizia male per il detective Del Spooner (W.Smith): inseguimento e cattura di un potenziale scippatore robot... che stava solo portando la borsa alla sua padrona.

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con i cervelli positronici. Il numero di androidi è sempre più elevato, e l’azienda che possiede il monopolio di queste macchine conta di raggiungere un discreto traguardo: un robot per ogni umano. Robot che semplificano la vita, che pagano le bollette e portano la posta, che sbrigano le faccende di casa, in sintesi tutto il lavoro sporco del quotidiano vivere. A Del la storia non piace, questo nuovo genere di elettrodomestici non fa per lui, non crede nella loro infallibilità, e una spalla dolorante è sufficiente per rievocargliene il motivo.

Quando il loro inventore, il Dottor Lanning, muore, si rende conto che i suoi dubbi non erano poi così infondati. Sembra che l’autore dell’omicidio sia stato proprio un robot costruito personalmente da Lanning. E, anche se può sembrare solamente uno dei tanti androidi prodotti in serie, pronti per il lancio sul mercato, il presunto assassino è tutt’altro che un prodotto di massa. Non è immune ad attacchi d’ira, sbatte i pugni sul tavolo, desidera essere accettato, e al nome del suo modello di appartenenza, NS5, preferisce di gran lunga quello di Sonny. Spooner, dopo aver superato ostacoli decisamente impegnativi, arriverà alla verità. E non risolverà solamente un caso di omicidio, ma questioni ben più alte e rilevanti. Sarà in un primo momento ostacolato e in seguito, come ovvio, spalleggiato dall’affascinante – il corsivo non è un caso – Susan Calvin, collega del defunto dottor Lenning, specializzata in robopsicologia. Del e Sonny, al di là di questioni fisiologiche, sono due entità

CINEMA: IO, ROBOT


IO, ROBOT estremamente affini. Entrambi soffrono un particolare stato di alienazione che li allontana dal contesto, e questo loro essere “sui generis” li etichetta quali diversi. Proyas ha dimostrato di saperla lunga sull’argomento già dai tempi de Il corvo e di Dark City. I suoi protagonisti erano degli esclusi proprio perché capaci di guardare oltre la cortina di fumo che copre gli occhi delle masse. Ma se precedentemente era stato capace di delineare degli anti-eroi veramente originali e caratteristici, ricchi di sfumature e zone d’ombra, il protagonista di Io, robot è un cliché dalla prima all’ultima battuta del film. Il difensore dell’universo, senza macchia e senza paura, ha le spalle larghe e il sorriso ammiccante di Will Smith, difficilmente credibile nei suoi slanci luddisti alternati a dilemmi esistenziali. Probabilmente la colpa è di un copione che ha preferito sfiorare le tematiche più profonde piuttosto che affrontarle; così ci ritroviamo davanti un personaggio che, prima totalmente chiuso in se stesso, dopo qualche istante, senza sapere né come e né perché, si cimenta in confessioni profondamente emoti-

ve. Certo ci sarebbe voluto coraggio nel proseguire per la strada che la pellicola inizialmente sembra imboccare, ma è palpabile il timore di una presa di posizione anti-tecnologica. Anche perché poi il film avrebbe peccato di ipocrisia, visto che poggia su delle fondamenta chiamate “cinema digitale”. Insomma, il semi-demiurgo di Eric Draven schematizza eccessivamente. E magari si trattasse di

quell’economia di linguaggio scenico di cui, per esempio, HAROLD PINTER è maestro… purtroppo è un’economia, questa, di tutt’altra specie, che rispetta i dettami di mercato di quei grandi luoghi dove sgranocchiare quintalate di pop corn è divenuta tacita legge. Ma se blockbuster vogliamo considerarlo, almeno chiariamo che si tratta di un eccellente prodotto dal punto di vista tecnico: le

1) Spooner davanti al cadavere del professor Lanning (J.Cromwell), apparentemente suicidatosi. 2) Primo, poco amichevole incontro con Sonny. 3) Spooner e la dottoressa Calvin (B. Moynahan) cercano di rintracciare Sonny. La guida manuale di Spooner non è esattamente rilassante.

CINEMA: IO, ROBOT

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scenografie spesso bicromatiche, con un viraggio tendente a colori freddi, ci restituisce quella sensazione asettica propria di una realtà meccanizzata. Prerogativa di Pro-

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yas la scelta di puntare ad un im- totipi. patto visivo forte. Emblematici di Di certo parlare di impatto viquesta particolare linea di pensiero sivo non ha nulla a che vedere col sono gli occhi di Sonny, celesti, e discorso “effetti speciali”, che una non castani come tutti gli altri pro- volta tanto sembrano usati non del tutto a sproposito, come al contrario di frequente accade da qualche anno a questa parte. Va detto che la realizzazione del robot, per la quale è stata usata la stessa tecnica del Gollum de Il Signore degli Anelli, non dispiace affatto. È un piacere per gli occhi dal primo all’ultimo fotogramma. Un po’ eccessivo l’attacco dei robot all’interno della galleria, stanca l’occhio dello spettatore e non si capisce per quale assurdo 1) La caccia a Sonny. 2) L’interrogatorio del robot. Sonny nega di aver assassinato Lanning. 3) Spooner, inquadrato dal robot demolitore, si appresta ad entrare nella casa di Lanning in cerca d’indizi.

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CINEMA: IO, ROBOT


IO, ROBOT 1) Il ritiro dei vecchi robot, sostituiti in massa dai moderno NS5. 2) La dottoressa Calvine riceve l’ordine di deassemblare Sonny al termine di un ciclo di diagnostica. 3) Le indagini di Spooner iniziano a diventare “scomode”: gli NS5 cercano di eliminarlo attaccando la sua vettura in autostrada. Una delle scene più spettacolari del fillm.

motivo questi geniali androidi assalgano Will Smith uno alla volta, quando potrebbero benissimo dilettarsi in un bell’omicidio di massa. Intelligenti le due piccole “riverenze” che lo spettatore forse non noterà ad una prima visione, ma che vanno assolutamente citate. Perché la riverenza, o meglio, l’omaggio è un metodo decisamente elegante, più che altro intelligente, per far sentire lo spettatore parte della messa in scena. Ritrovare una realtà del proprio mondo lo rende maggiormente partecipe nel dipa-

narsi della trama. La prima la troviamo in una scena iniziale della pellicola: sul capo di un robot vi è la scritta “42”. Che altro non è se non la riposta alla domanda sulla Vita, sull’Universo e Tutto quanto.

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In sintesi, un piccolo ma significativo riferimento a DOUGLAS ADAMS, l’autore di Guida galattica per autostoppisti. Un momento decisamente carino richiama l’attenzione all’autore da cui Proyas mutua vari

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1) Gli NS5 procedono alla metodica distruzione dei vecchi robot. 2) Collegati a KIKI, gli NS5 fronteggiano la rivolta degli umani. 3) Mentre Sonny si precipita a salvare Susan, Spooner afferra al volo i nanodroidi. 4) Spooner iniettà i nanodroidi nel cervello positronico di KIKI.

elementi dell’intreccio filmico: il gatto di Lanning porta scritto sul collare la parola “Asimov”… Perché del resto è vero che c’è molto di ASIMOV nel film, ma non quanto un battage pubblicitario che ha forzato troppo in un solo senso, ha voluto farci credere. Farlo aderire forzatamente alla raccolta di racconti di ISAAC ASIMOV, con l’omonimo titolo, ha fatto infuriare non pochi affezionati dello scrittore. Due sole cose il film prende in prestito da quel libro: le tre leggi della robotica e l’affascinante (ritorna il corsivo) dottoressa Calvin. Il resto del film, o meglio, parti della trama sono tratti sì da Asimov, ma da un racconto – Il robot scomparso – che si trova in tutt’altra raccolta, ma che più di tutto non concepisce la figura di un eroe maschile che salva l’universo. Per quanto riguarda le tre leggi, beh, impossibile non sfruttarle all’interno della trama cinematografica, tanto per il magnetismo che suscita la loro perfetta formulazione, quanto per il loro continuo prestarsi a dei veri e propri paradossi, che nascono da una sempre e comunque fallace coscienza umana in conflitto con l’imperturbabilità cibernetica. La dottoressa Susan Calvin ha

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poco desiderabile, ma impiega an1) Sonny contempla il ritiro degli che pochissimo tempo per lasciar NS5. trasparire un certo interesse nei 2) Il sogno di Sonny (e forse confronti del protagonista. In quequello di Lanning) si avvera: tutti sto modo è vero che ci si assicura gli NS5 volgono il capo verso il una certa fetta di mercato, ma ci si “Liberatore”. guadagna pure un discreto nugolo di appassionato indignati. Durante la prima edizione del invece subito un’autentica metamorfosi durante la sua transizio- Grande Fratello vendettero per dine. Se tra le righe dei vari racconti verso tempo un’edizione di 1984 in cui fa la sua apparizione è una di ORWELL, con scritto sulla fascetdonna gelida, decisamente poco ta “Ecco la vera storia del Granattraente e che agli uomini prefe- de Fratello”. Tanto dolore per gli risce di gran lunga i robot, nel film orwelliani convinti, indifferenza da non solo ha le fattezze di Bridget parte dei reality-fan. Meglio lasciare ad Asimov ciò Moynahan, che tutto è tranne che

che è suo e a questo film il giusto valore che gli compete. Perché alla fin fine Proyas è un bravo ragazzo come lo è il suo “Io, robot”, ed entrambi il loro dovere lo fanno fino in fondo: divertono. Ma niente di più e niente di meno. Ciò non vuol dire che bisogna sedersi in sala ogni volta alla ricerca di un capolavoro. Capita che per una volta uno voglia solo ed esclusivamente divertirsi, che non gliene importi assolutamente di quella fantomatica e tanto bella sensazione che di solito esordisce con “…il film mi ha lasciato qualcosa dentro…” oppure “…mi sento cambiato…”. Io, robot non ci cambia la vita e non ne ha nessunissima intenzione, non ci lascia niente dentro e ne siamo pure felici, perché dopo tutti quei pop-corn di posto ne resta ben poco. Consideriamolo solo un piccolo break tra un Truffaut ed un Antonioni.

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FANTASCIENZA Will Smith (Del Spooner):

detective atletico e dai modi spicci; in seguito a un incidente in cui perse la vita una bambina, sviluppa una tenace ostilità nei confronti dei robot. Filmografia fantascienza/fantastico: Men in Black II, Men in Black, La leggenda di Bagger Vance, Independence Day.

James Cromwell (Dr. Alfred Lanning):

il più importante robotista esistente, autore delle “3 Leggi”; è costretto a suicidarsi per avvertire Spooner delle macchinazioni di KIKI.

Filmografia fantascienza/fantastico: Space Cowboys, Il miglio verde, Specie Mortale II, Star Trek - Primo Contatto, Deep Impact, Explorers.

Chi McBride (Ten. John Bergin):

superiore di Spooner; scettico su quelle che considera le paranoie del suo agente, dovrà ricredersi quando gli NS5 prenderanno d’assalto la centrale di Polizia. Filmografia fantascienza/fantastico: Sospesi nel tempo, Cosmic Slop.

Shia LaBeouf (Farber):

amico di Spooner; uno dei più “attivi” nella resistenza contro gli NS5. Filmografia fantascienza/fantastico: Constantine.

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Alan Tudyk (Sonny): il robot “spe-

ciale” costruito da Lanning, e destinato a guidare Spooner alla risoluzione del caso. Grazie alla sua capacità di libero arbitrio, è l’unico dei NS5 in grado di ribellarsi a KIKI. Filmografia fantascienza/fantastico: Serenity, Firefly (TV), Il destino di un cavaliere.

Bridget Moynahan (Susan Calvin):

“robopsicologa”, collaboratrice di Lanning; una preziosa alleata per Spooner. È grazie al suo intervento, che Sonny riesce a evitare la disattivazione. Filmografia fantascienza/fantastico: nessuno

Bruce Greenwood (Lawrence Robertson):

“l’uomo più ricco del mondo”, proprietario della US Robotics. Inizialmente sospettato da Spooner, sarà invece vittima di KIKI.

Filmografia fantascienza/fantastico: The core, Generazione perfetta, The soul collector (TV), Sleepwalkers (TV), The companion (TV), The Servants of Twilight (TV).

Adrian Ricard (G.G.):

la premurosa nonna di Spooner.

Filmografia fantascienza/fantastico: nessuno.

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IO, ROBOT SCHEDA TECNICA Titolo: Tit. originale: Anno: Durata: Paese: Produzione:

IO, ROBOT I, ROBOT 2004 110 minuti USA John Davis, Topher Dow, Wyck Godfrey, Laurence Mark

Distribuzione: 20TH CENTURY FOX Regia: Alex Proyas (Dark City, Il Corvo) Soggetto: Isaac Asimov, Jeff Vintar Sceneggiatura: Jeff Vintar, Akiva Goldsman Fotografia: Simon Duggan Musiche: Stephen Barton, Marco Beltrami, Buck Sanders Montaggio: Alexander Garcia, William Hoy, Richard Learoyd, Armen Minasian Scenografia: Patrick Tatopoulos Effetti speciali: John Nelson, Andy Jones, Erik Nash, Joe Letteri; WETA DIGITAL, DIGITAL DOMAIN, PATRICK TATOPOULOS DESIGNS INC. Costumi: Elizabeth Keogh Palmer Note: vincitore ASCAP AWARD 2005 “Top Box

Resto del Cast:

Office Film” (M. Beltrami); nomination OSCAR 2005 “Best Achievement in Visual Effects”; nomination SATURN AWARD 2005 “Best Science Fiction Film” e “Best Special Effects” (J. Nelson, A. Jones, E. Nash, J. Letteri); nomination IMAGE AWARD “Outstanding Actor in a Motion Picture” (W. Smith) Jerry Wasserman, Fiona Hogan, Peter Shinkoda, Terry Chen, David Haysom, Scott Heindl, Sharon Wilkins, Craig March, Kyanna Cox, Darren Moore, Aaron Douglas, Shayla Dyson, Bobby L. Stewart, Nicola Crosbie, Emily Tennant, Michael St. John Smith, Travis Webster, Roger Haskett, Tiffany Knight, Angela Moore, Ryan Zwick, Essra Vischon, Kenyan Lewis, Aaron Joseph, Simon Baker, Marrett Green, Lynnanne Zager

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a fuga dall’equivoco è nella differenza fra l’essere infinito e l’essere senza fine. Infinito è assenza della percezione spazio-temporale, in ogni punto, un modo di esistere non umano o, secondo le nostre facoltà, un non esistere. Non un insieme infinito di unità ma l’impossibilità di concepire l’elemento discreto poiché questo, ovunque e in ogni momento, si trasforma nell’infinito stesso. Totalità inafferrabile. La stessa riIn alto: la consegna del robot. Sotto: Andrew in attesa della sua prima attivazione.

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cerca di definizioni esaustive naufraga girando a vuoto, e discutere per giorni dell’infinito non basterebbe a descriverlo pienamente: esso è estraneo all’intelletto quanto ai sensi, così da non poter né rappresentarlo, né viverlo. Non la nostra mortalità è la ragione per cui ci rimane estraneo, bensì il fatto che, se fossimo in grado di percepirlo totalmente, cesseremmo di esistere in quanto uomini. Forse saremmo semplicemente morti. Altra cosa è

l’essere senza fine, che ci permette di lasciare inalterata la dimensione spaziale dell’esistenza e che, riguardo la percezione del tempo, comporta la successione eterna di attimi infiniti ma non l’infinità dell’attimo. Non possiamo rappresentarlo in un’espressione finita ma non è detto, almeno su un piano teorico, che non potremmo viverlo, poiché nella presenza del momento esso lascia inalterata la nostra esistenza spazio-temporale, manifestandosi come infinito nella totalità ma non nelle singole parti. È in questo limite parziale che l’essere umano in quanto tale percepisce l’universo, e che l’universo stesso esiste, a prescindere da una condizione di immortalità. Se si concede al robot una coscienza, presupposto implicito già dalle prime sequenze de L’uomo bicentenario, egli è senza fine ma non infinito, ossia percepisce il mondo allo stesso modo di un essere umano.

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L’Uomo Bicentenario L’evoluzione è il suo tratto distintivo dominante (“Le cose cambiano”, ripete) e Andrew, che viva duecento o duemila anni, si definisce nello spazio-tempo, falsificando l’assunto secondo cui non subirebbe gli effetti degli anni che scorrono. Semplicemente, non ne subisce gli effetti negativi. Non invecchia ma impara, ed ha memoria, come il film rimarca non casualmente nelle scene immediatamente successive alla prima grande ellissi temporale (quindici anni) messa in scena. I rintocchi assordanti degli orologi inducono gli umani, invecchiati da un fotogramma all’altro, a tapparsi le orecchie e imprecare (“Non li sopporto più, questi maledetti orologi”), salvo rivelare nelle battute seguenti che gli stessi orologi sono opera del robot, frutto del lavoro che Andrew ha imparato a svolgere. Qui è la chiave. Non solo nel fatto che egli non abbia difficoltà a considerare l’orologio come strumento utile alla vita (dimostrando la propria famigliarità alla percezione del tempo), ma soprattutto nel modo in cui l’effetto dei quindici anni trascorsi viene (metaforicamente) messo in scena per gli uomini e per il robot: rughe per gli uni, conoscenza per l’altro. Ma entrambi hanno sentito allo stesso modo i singoli istanti di vita, e il loro potere modificante. La scena successiva, puntuale, regala ad Andrew anche il possesso dei ricordi, e con esso l’esistenza di una biografia individuale da aggiungere alla facoltà impersonale di immagazzinare nozioni astratte. Posto davanti a una finestra al trentaset-

tesimo piano di un grattacielo, egli rifiuta di avvicinarsi in quanto memore dell’esperienza vissuta nella prima parte del film, quando la piccola figlia dei Martin lo aveva indotto a gettarsi dalla finestra della sua camera. Il robot manifesta una percezione del tempo così autentica che in più di un’occasione, addirittura, sembra dimostrare di avere fretta: quando racconta barzellette a raffica senza rispettare le pause della comicità (e viene rimproverato di non possedere “tempismo”), quando rivela che il suo stipendio mensile equivale al ricavo annuale di un grande industriale, quando si affanna nella ricerca dei suoi simili

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(affrontata percorrendo materialmente e faticosamente lo spazio) dopo aver annunciato quasi con sofferenza che l’impresa gli avrebbe occupato “parecchi anni”. La superiorità esperienziale di Andrew, piuttosto, risiede nell’evidenza che egli non solo ha consapevolezza del tempo, ma ne ha una coscienza totale e priva di lacune, per quanto mai infinita poiché, a sua volta, l’infinito può (forse) viverlo ma non rappresentarlo (neanche a se stesso) con un atto cognitivo o espressivo circostanziato. Da In alto: prime reazioni in casa Martin. Sotto: Andrew enuncia le 3 Leggi della Robotica

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una parte, il robot si fa custode umani. Dall’altra la sua biografia lettivi della memoria (ancora una come nessun altro, attraverso la individuale può essere conservata volta, un esito “negativo” del temletteratura, della storia e del sapere nel ricordo senza che gli effetti se- po trascorso) vi esercitino la loro influenza, o almeno senza che la esercitino a prescindere dalla volontà del soggetto. E, mentre la propensione del robot alle attività artistiche pare la più facile metafora della vittoria sull’oblio, egli vive il tempo con tale intensità da tradurlo in una memoria totale, per di più destinata a divenire strumento di un processo evolutivo che del tempo lineare e vettoriale rappresenta la migliore manifestazione. La risultanza è che Andrew dispone di un repertorio di dati riferito a duecento anni di esistenza (cui sommare tutto ciò che impara leggendo) dal quale selezionare i materiali utili alla costruzione di un percorso corrente. Può dominare il In alto: Andrew nella sua prima mansione da robot domestico. A sinistra: il robot manifesta doti artistiche, e il signor Martin (S. Neill) scopre dal fabbricante (S. Root) che si tratta di caratteristiche uniche (1); Andrew si cimenta in una esame di humour (2).

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L’Uomo Bicentenario tempo conferendo senso a un periodo lunghissimo, possibilità negata alle più ristrette facoltà intellettive umane, e corrispondente, invece, al potere onnisciente del cinema. Custode di durate diversissime e parimenti racchiuse nello spazio di due ore, il cinema può gestire una biografia bicentenaria trasmettendogli coerenza mediante la messa in scena degli elementi appropriati alla costruzione di un filo logico, subordinati a un tema (in questo caso, l’evoluzione verso un’esistenza umana) che funge da matrice per la traduzione di una cronologia continua, e totalmente posseduta, in un percorso coerente che non dimentica alcun evento essenziale. Se il cinema non possedesse le stesse facoltà di dominio In alto: Piccola Miss (E. Davidtz) annuncia al devoto Andrew il suo imminente matrimonio A destra: Andrew utilizza il suo sistema olografico per rievocare la cerimonia. In basso: ottenuta la libertà, Andrew parte “per il mondo” alla ricerca di un suo simile. Si renderà conto che non ne esistono.

sul tempo e sulla memoria che sono conferite ad Andrew, la rappresentazione del lungo periodo (dalla

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vita di un uomo, alla storia di una civiltà, a quella di un pianeta) si tradurrebbe nella disordinata emer-

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sione di ricordi concessa dalla memoria umana, negando la possibilità di quella linea evolutiva coerente che, in un gioco di scatole cinesi, rappresenta esattamente il progetto esistenziale del robot. Possiamo presupporre che lo stesso protagoIn alto: primo upgrade. Grazie al dottor Burns (O. Platt) Andrew ottiene sembianze umane. Sotto: piccola Miss presenta Portia (sempre la Davidtz) ad Andrew. Il primo incontro non è tra i più cordiali. Sotto a destra: col tempo, tra Andrew e Portia fiorisce l’amore.

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nista abbia vissuto lunghe fasi di vita in cui pensasse semplicemente a lavorare, o a mangiare, o a divertirsi, ma non siamo costretti a ipotizzarle, né la loro assenza dalla rappresentazione ci restituisce una sensazione di vuoto. La costruzione cinematografica le rende superflue rispetto al proprio intento comunicativo, che prima possiede il tempo (conosce perfettamente l’intera successione di eventi che lo compone), poi lo domina, scegliendo al suo interno le unità e i percorsi utili alla rappresentazione essenziale del tema e della sua traduzione

narrativa. Quando Richard chiede ad Andrew di “rivedere” la giornata appena trascorsa, il robot, selezionando all’interno della propria memoria totale, non propone né là totalità degli eventi né un’unità qualunque, bensì quella essenziale (un momento suggestivo del matrimonio di Piccola Miss) per una narrazione adeguata dell’arco temporale in questione, proiettandone l’immagine davanti a sé in una perfetta emulazione del cinematografo. Ma qualunque film, per quanto ampia possa essere la realtà che racconta, ha i suoi titoli di coda. In

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L’Uomo Bicentenario A destra e sotto: al capezzale di Piccola Miss; Andrew non può esprimere con le lacrime il dolore che prova. In basso a destra: secondo upgrade. L’apparenza umana di Andrew viene completata, in modo da poter sembrare “vivo” anche “internamente”

questo senso, che ci rimanda all’impossibilità di rappresentare il senza fine anche ammettendo di poterlo vivere, può leggersi la scelta conclusiva di Andrew, che decide di consegnarsi alla morte. Egli mette fine alla propria vita per dare inizio al film, o magari rinuncia all’esperienza vissuta del senza fine per tentarne una rappresentazione, ma non è detto che la scelta fosse obbligata. Gli sarebbe bastato, forse, completare la sua identificazione nel cinema e frazionare la propria biografia (virtualmente infinita) in racconti diversi, ognuno concluso al suo interno ma realizzabili in un numero (virtualmente) infinito di episodi, o di sequel. girato. come “uomo” si nasconde allora in L’ultimo film nella storia dell’umaLa vera ragione dell’anelito un bisogno di omologazione che sa nità, del resto, non è stato ancora di Andrew ad essere riconosciuto molto di biopolitica, e si fa tramite

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di un’ideologia discutibile, sfruttata dal regista per il compiacimento dello spettatore più maldestramente romantico. Lo stesso protagonista, con la sua battaglia ostinata in nome di una certificazione (il matrimonio), si fa complice di una morale troppo facile, quasi dimenticando di spostare la questione In alto: Andrew di fronte al Consiglio Mondiale, chiede il riconoscimento dello status di “essere umano”. Gli viene negato. Sotto: terzo e ultimo upgrade. Andrew acquisisce la mortalità.

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verso il suo fulcro autentico: non l’essere riconosciuto come umano, ma il vedersi conferiti gli stessi diritti riservati agli uomini, pur in una condizione di diversità naturale. In fondo, egli non ha ottenuto i presupposti biologici della nostra specie, impossessandosi piuttosto dei tratti intellettivi, emotivi e morali sufficienti a una convivenza in pari stato di dignità. La stessa condizione della mortalità non conferisce ad Andrew una conformazione umana (i suoi organi, cervello compreso, restano sintetici), limitando-

si a trasformarlo da robot imperituro a robot con scadenza, tanto da regalare qualche ragione al Rupert incaricato della trasfusione suicida: “se qualcuno diventa un essere umano, prima o poi fa qualcosa di infinitamente stupido” . Non si tratta solo di sostanze chimiche differenti, perché anche sul versante delle facoltà mentali il robot si differenza dall’uomo, risultando immensamente più intelligente da un lato e più ingenuo dall’altro. Due domande, allora. Primo: perché la rinuncia a una vita senza fine è condizione biologica sufficiente e non solo necessaria (visto che fisicamente Andrew non ha nient’altro di umano) ad essere considerato persona come le altre? Secondo: perché il robot accetta un’offerta in fin dei conti clamorosamente sconveniente, dal momento che anche come non-umano egli aveva la possibilità di essere parte della società, lavorare e amare, mentre l’unica possibilità esplicitamente negategli restava quella del matrimonio? In quest’ultimo termine

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L’Uomo Bicentenario A destra: il presidente del Consiglio (L. Thigpen) decreta finalmente in modo ufficiale la condizione di “Essere Umano” di Andrew. Andrew spira un istante prima di poter udire la notizia. Sotto: Galatea (K. Warren), anch’essa esteriormente cambiata in umana, obbedisce all’ordine di Portia e “stacca la spina”. Portia e Andrew sono liberi di “ricongiungersi” in un altro mondo.

sta la risposta ad entrambi i quesiti. Matrimonio, ossia un sacramento. Per essere uomo si deve essere mortali, ed essere mortali serve a ricevere i sacramenti. È inevitabile che il discorso converga verso il tema della religione e delle sue funzioni, conducendoci direttamente all’ultima battuta del film, quel “a fra poco” che l’amata Portia (appena decretata la propria eutanasia) rivolge a un Andrew deceduto da qualche istante. Quella possibilità di “vedersi fra poco” rimane l’unica conquista che il robot abbia davvero ottenuto solo dopo che il Gran Consiglio Mondiale ha decretato la sua condizione di uomo. Senza questa concessione, Andrew aveva già conquistato aspetto esteriore e sentimenti umani, la possibilità di lavorare, amare e avere una famiglia, ma non l’accesso all’esistenza post-mortem. L’uomo che definisce se stesso mediante la propria mortalità diviene così uomo che si arroga sulle altre specie un’unica autentica superiorità, quella spirituale, identificando tragicamente la matrice dell’animo religioso non nell’amore (che anche l’Andrew “senza fine” poteva provare), ma nel premio della resurrezione. Le

motivazioni addotte dal Consiglio per respingere la prima richiesta di Andrew, in una sorta di lapsus freudiano, svelano la menzogna e allungano la solita ombra sulle ragioni profonde della devozione religiosa: l’elevazione del robot a uomo non è ostacolata da qualche assunto secondo cui nella sua condizione egli non potrebbe vivere i principi d’amore dettati da Dio, ma dal pericolo che l’esistenza di un essere umano immortale generi troppa “invidia e rabbia”. Quel “ci vediamo fra poco” che chiude la pellicola pare sancire allora il com-

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pimento di una parabola cristiana, per cui l’Andrew che accetta il sacrificio viene ricompensato con una mortalità preferibile rispetto a quella che avrebbe vissuto sulla Terra (l’infinito anziché il senza fine?), ossia con il viaggio verso il Paradiso (bisognerebbe chiedergli se ci è arrivato). Ma la sensazione inquietante è che nessun membro della comunità umana, al suo posto, avrebbe accettato lo scambio.

* FEDERICO SPERINDEI

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Robin Williams (Andrew Martin):

il primo e unico robot che sia mai stato in grado di sviluppare sentimenti e sensibilità umana. Gli occorrerranno 2 secoli perché la sua reale natura venga ufficialmente riconosciuta. Filmografia fantascienza/fantastico: The final cut, Al di là dei sogni, Flubber - Un professore tra le nuvole, Jumaji, Toys - Giocattoli, Hook - Capitan Uncino, Popeye - Braccio di Ferro, Mork & Mindy (TV).

Embeth Davidtz (Amanda Martin / Portia Charney):

doppio ruolo, le due donne amate da Andrew. Filmografia fantascienza/fantastico: I Tredici Spettri, Il tocco del male, L’armata delle tenebre, Mutator

Oliver Platt (Rupert Burns):

lo specialista robotico che aiuterà Andrew a realizzare il suo sogno. Filmografia fantascienza/fantastico: Lake Placid, Il dottor Doolittle, Linea mortale.

Sam Neill (Richard Martin):

Wendy Crewson (Mrs. Martin):

padrone ed educatore di Andrew. Sarà per il robot un vero padre.

la “madre” adottiva di Andrew.

Filmografia fantascienza/fantastico: Jurassic Park III, Merlino (TV), Punto di non ritorno, Biancaneve nella Foresta Nera, Il seme della follia, Jurassic Park, Avventure di un uomo invisibile, Possession, Conflitto finale.

Lindze Letherman (Grace Martin):

Filmografia fantascienza/fantastico: Santa Clause (trilogia), Il sesto giorno, Le verità nascoste, The Eighteenth Angel , Escape Velocity, Murder in space (TV), Skullduggery , Labirinti e mostri (TV).

Hallie Kate Eisenberg (Piccola Miss):

la viziata ed egoista figlia maggiore dei Martin.

la figlia minore dei Martin. Occuparsi di lei stimolerà la crescita interiore di Andrew.

Filmografia fantascienza/fantastico: nessuno.

Filmografia fantascienza/fantastico: nessuno.

Bradley Whitford (Lloyd Charney):

il figlio spocchioso di Piccola Miss.

Filmografia fantascienza/fantastico: Il gemello perfetto, Robocop 3.

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Lynne Thigpen (President Marjorie Bota): Presidentessa del

Consiglio Mondiale, che decreta l’umanità di Andrew. Filmografia fantascienza/fantastico: nessuno.

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L’Uomo Bicentenario

SCHEDA TECNICA Titolo: Tit. originale: Anno: Durata: Paese: Produzione:

L’UOMO BICENTENARIO BICENTENNIAL MAN 1999 126 minuti USA Michael Barnathan, Chris Columbus, Gail Katz, Laurence Mark, Neal Miller, Wolfgang Petersen, Mark Radcliffe

Distribuzione: COLUMBIA PICTURES/BUENA VISTA Regia: Chris Columbus (Harry Potter e la Camera dei Segreti, Harry Potter e la Pietra Filosofale) Soggetto: Isaac Asimov, Robert Silverberg Sceneggiatura: Nicholas Kazan Fotografia: Phil Meheux Musiche: James Horner Montaggio: Nicolas De Toth, Neil Travis Scenografia: Norman Reynolds Effetti speciali: STEVE JOHNSON’S XFX, INC. Costumi: Joseph G. Aulisi Note: nomination OSCAR 2000 “Best Makeup”

(G. Cannom); nomination BLOCKBUSTER ENTERTEINMENT AWARD 2000 “Favorite Actor - Comedy” (R. Williams) e “Favorite Actress - Comedy” (E. Davidtz)

Kiersten Warren (Galatea): L’assistente robotica di Burns. Filmografia fantascienza/fantastico: 30 anni in un secondo, Independence Day, Grave Secrets: The Legacy of Hilltop Drive (TV)

Stephen Root (Dennis Mansky):

il capo della NorthAm Robotics.

Filmografia fantascienza/fantastico: The demon slayer, Night of the Scarecrow, Robocop 3, Buffy l’Ammazzavampiri, Ghost, Monkey Shines .

John Michael Higgins (Bill Feingold): il legale

del signor Martin.

Filmografia fantascienza/fantastico: Blade: Trinity, Sette giorni di vita, Stress da vampiro

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artiremmo volentieri in molti, se esistessero vacanze come quelle offerte a Delos, a patto di disporre di mille dollari da spendere, al giorno, per un periodo minimo di due settimane. La cifra appare oggi relativamente bassa, in fondo parecchi alberghi a cinque stelle fanno vedere i sorci verdi a una simile tariffa. Quando uscì il film, nel 1973, mille dollari a testa per quindici giorni erano invece un gran bel gruzzolo. E, in effetti, una vacanza del genere immaginato dallo scrittore e regista potrebbe davvero valere una simile spesa, nel senso che sulla carta offre ogni attrattiva Nel velivolo che li sta conducendo a Delos, John Blame (J. Brolin, a destra), turista “veterano”, risponde con pazienza alle domande dell’amico Peter Martin (R. Benjamin) alla sua prima esperienza delosiana.

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Il mondo dei robot

possibile per quanti richiedono un viaggio d’elite, fuori dagli schemi, decisamente lontano da atmosfere per famiglie, ricco di emozioni e di un briciolo d’avventura, ma sempre in piena sicurezza. LE REGOLE DEL GIOCO

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futuro autore del Jurassic Park, immagina che nel 2000 un’area improduttiva di basso valore commerciale, collocata nel bel mezzo del deserto venga rilevata da una ditta che fabbrica robot sofisticati. Scopo dell’acquisto: realizzare un parco dei divertimenti tematico, per adulti, una terra di sogno dove allestire scenari di sicura presa sul pubblico; tre villaggi a RICHTON,

tema, animati con androidi che interpretano personaggi diversi, e che sono indistinguibili o quasi dagli umani. Il grado di complessità delle macchine varia a seconda della “parte” da esse “recitata”. Come in una sceneggiatura a maglie larghe che si rispetti – o, si potrebbe dire, come in uno scenario per giochi di ruolo – devono esserci interpreti androidi capaci di svolgere diversi compiti senza sembrare troppo artificiosi, altri a cui si richiedono solo “prestazioni” specifiche, o meno complesse, e altri ancora con funzioni da semplici comparse, di contorno. In Delos vengono utilizzati tre tipi di robot diversi, immessi in percentuali variabili nei vari ambienti, a seconda che siano più o meno d’azione. Gli androidi più complessi sono quelli da combattimento o quelli che devono sostenere una continua interazione con i turisti. Per essere verosimili, necessitano di un’emulazione perfetta dei sensi della vista, dell’udito e del tatto, e la loro programmazione impone parecchie abilità motorie,

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Il mondo dei robot altrimenti il visitatore riceverebbe l’impressione di parlare a una grossa bambola. La vacanza a Delos deve divertire; è necessario succeda più di ciò che si può vedere a Disneyworld o al più innovativo museo dove la Storia viene recitata a scopo didattico: largo spazio a risse nei saloon, tornei cavallereschi, rapine alla banca, banchetti, duelli tra gladiatori o alla pistola, improbabili storie d’amore con procaci comparse, ecc. Tecnici ben nascosti in laboratori sotterranei controllano il corretto comportamento dei vari attori automi, che devono offrire ai clienti il giusto grado di coinvolgimento ma senza metterne a rischio l’incolumità. Può essere “tollerato”qualche livido o un dopo-sbornia, ma nessuna lesione che impedisca di godersi per intero il periodo programmato. Il cliente deve potersi sentire protagonista di avventure a lieto fine, o addirittura sfogare i peggiori istinti, in pieno e totale realismo, sicuro, però, di non poter causare danno a persone in carne e ossa. Le armi sono progettate per azionare sensori sotto la pelle artificiale del robot, e l’effetto è comunque verosimile, fors’anche perché i turisti appartengono di norma a categorie agiate, che nemmeno saprebbero fare confronti con la violenza reale. Si può dunque decidere d’essere eroi senza macchia né paura, ma anche spietati killer con ogni genere di perversione, tanto nessuna delle vittime è davvero viva! Pure gli animali presenti sono automi. Gli androidi interagiscono con i turisti, e non possono in alcun modo danneggiarli; il fatto che re-

Il rito della vestizione, prima dell’ingresso

“in scena”. stino “uccisi” o sciupati dal cliente, al pari di un mobile, fa parte della scenografia e viene preven- presto per le vie. Al termine delle tivato nell’alto costo del biglietto due settimane, parte della loro med’ingresso. Oggi rottami, in tarda moria verrà cancellata, dopo di che serata, quando anche i più irriduci1) Arrivo a Westworld: Peter scende entubili turisti dormono, vengono racsiasta dalla diligenza. colti da appositi camion, e domani 2) John e Peter al loro primo incontro con il pistolero (Y. Brynner) verranno riparati riapparendo ben

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no il numero dei turisti. Essi sono sempre in gruppo ristretto, perché possano godere della migliore assistenza e meglio mescolarsi tra le due o tre centinaia di automi previsti per ciascun “mondo”. Il programma della vacanza prevede che il facoltoso ospite arrivi in un centro di accoglienza, sostituisca le proprie cose con abiti e accessori d’epoca, e si cali per due settimane nel ruolo che sogna magari fin da bambino, vivendo un’avventura con finale all’altezza delle sue aspettative. In pratica, si va a Delos per giocare di ruolo, dal vivo, 24 ore su 24, senza rischi… almeno in teoria. GROSSO GUAIO A DELOS

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1) e 2): Nella finzione scenica del parco, Peter affronta in duello il pistolero, e lo “uccide”.

saranno pronti a iniziare la commedia per un nuovo gruppo di turisti. Sotto: nottetempo, i tecnici del parco “ritirano” i robot danneggiati, per trasportarli (sotto, a destra) nel laboratorio di riparazione.

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All’inaugurazione, Delos offre tre scenari diversi, ovvero una Roma antica un po’ kitsch, tutta dedicata ai piaceri carnali, un avventuroso Far West e un Medioevo assai romanzato, sulla falsariga dei kolossal anni ‘50. Il costo del biglietto, un tutto compreso da 15.000 dollari, e le regole interne del parco, limita-

ella vicenda narrata, due ricchi amici vanno a vivere la loro vacanza da sogno nel mondo del West. Uno di loro è già stato a Delos; l’altro, alla prima esperienza, appare un po’ scettico, ma viene presto coinvolto dall’amico più esperto. I due passano i primi giorni della vacanza, sfogandosi tra saloon, cocotte e sparatorie, sfidando e “uccidendo” un terribile pistolero, divenendo a loro volta fuorileg-

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Il mondo dei robot ge… Ma poi qualcosa comincia a non funzionare come dovrebbe nei computer del centro operativo, e i rischi diventano improvvisamente, e autenticamente, mortali. L’androide pistolero uccide uno dei nostri, e inizia a braccare l’altro, in una serie di sequenze che potrebbero avere ispirato James Cameron nella realizzazione del suo Terminator. Memorabile il duello finale, il cui esito non rassicura del tutto lo spettatore. Terrorizzato e affranto, dopo aver visto i tecnici della centrale morti asfissiati a causa del guasto ai computer, che nemmeno permette più d’aprire le porte d’uscita dal parco, il turista riesce a disintegrare il robot, quindi si accascia, forse morente o piuttosto prostrato, e probabilmente ben deciso, d’ora in avanti, a regalarsi vacanze solo in banali villaggi turistici. DELOS vs. JURASSICK PARK

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l film Il Mondo dei Robot rappresenta la prima regia di MICHAEL CRICHTON, fino a quel momento noto per i suoi romanzi fantascientifici (Andromeda, Terminale uomo, entrambi portati sullo schermo). Cri-

1) Primi sintomi di malfunzionamento:

un serpente robot aggredisce John. chton sarebbe un Grande, peccato 2) I tecnici recuperano l’automa per esache troppe concessioni al mercato minarlo lo abbiano declassato agli occhi di certa critica, impegnata a metter inche, per certi versi, sviluppa alcuni sieme pranzo con cena demolendo temi de Il Mondo dei Robot. ogni esempio di arte popolare che Entrambi sono stati portati sullo crei miti, di qualunque genere ed origine essi siano. Di Crichton è La situazione precipita. I robot sono fuori anche il soggetto di Jurassic Park, controllo e diventano macchine letali.

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schermo, con risultati a mio parere diversi e inaspettati. Per vari aspetti, sullo schermo il più moderno parco a tema preistorico è inferiore alla vacanza di Delos, forse perché la regia di SPIELBERG ha reso la vicenda un prodotto di sicura presa su un pubblico di famiglie, tagliando e modificando le pagine del libro col benestare dell’autore, e annaffiando il tutto con i prodigi – a volte fini a se stessi, a volte impiegati con maestria – della grafica computerizzata. Il tripudio di effetti speciali spesso si sostituisce o sovraccarica la sceneggiatura, mandando in secondo piano temi invece assai im1) I tecnici di Delos muoiono per asfissia, intrappolati dal blocco delle porte automatiche. 2) Nel confronto decisivo, Peter riesce a sopraffare il pistolero.

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portanti nel romanzo, o relegandoli a brevi siparietti, o perfino snaturandoli (come la teoria del caos e dell’entropia, il ruolo di Jan Malcom, la natura violentata, la trama spionistica). Ne Il mondo dei Robot non ci sono chissà quali effetti speciali, eppure di rado se ne sente il bisogno, grazie a una regia che sfrutta al meglio i mezzi disponibili, e al fatto che il film parla del rapporto tra l’uomo e i suoi desideri, i suoi vizi, la capacità di compassione o di innata violenza. Temi universali e sempre attuali, a cui l’abbondanza di scene spettacolari ben poco aggiungerebbe. Si nasconde male la penuria di adeguati set storici, anzi, si fa pochissimo per nasconderla. Il mondo medioevale è assai trash, con scenografie degne di una casa delle paure da

luna park (e, a esser perfidi, di un porno sado maso); il mondo romano poi si vede appena, e quel poco ricorda certe ville americane stile pompeiano venute tanto di moda con il diffondersi dei kolossal. Gli attori in molti casi sono gli stessi stuntmen. I mezzi modesti vengono sfruttati per evidenziare il senso di kitsch che grava su tutto il villaggio, e ricordare che, per sofisticata ed elitaria che sia, Delos è fasulla, è solo un luna park per palati esigenti che “pagano per crederci”. Si fa notare come, tutto sommato, il visitatore abituale sia una persona ricca ma poco colta, in vena di sfogare sogni impossibili o capricci che la vita reale non accontenta; oppure sia talmente annoiato dell’aver visto “tutto” da poter accettare un’approssimazione grossolana purché sorprendente. Innovativo ancor oggi rimane lo stile del parco robotizzato: a Delos ci si trova a giocare di ruolo, si diventa protagonisti assoluti della vacanza, mentre il turista del Jurassic Park è uno spettatore di tipo tradizionale: viene messo su un pulmino che scorre su rotaie, e non può interagire con quanto vede. In quanto a interazione, poi, vo-

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Il mondo dei robot lete mettere l’ambiguo fascino di un androide, rispetto all’esibizione di un animale ottenuto con un futuribile prodigio tecnico? L’androide a Delos è volutamente mescolato agli esseri umani; il dinosauro viene categorizzato dalla mente umana come “animale, grosso, sorprendente” e come tale viene trattato. Non può uguagliare il disagio e l’attrazione che si provano davanti a quanto ci assomiglia ma nel contempo è diversissimo da noi. Certo, ci sono piccoli e grandi bug nel film più vecchio, per esempio non viene spiegata l’origine del guasto che fa rivoltare i robot; o come mai le loro armi, prima innocue, possano poi uccidere. Non che Jurassic Park spieghi molto, nel senso che la sceneggiatura prova a dare una motivazione logica ma, quando il regista la introduce, gli eventi hanno già preso un ritmo tale che nessuno fa molto caso alla sottotrama. Nel film di Spielberg c’è subito una divisione netta tra “buoni” e “cattivi”, senza grosse sfumature. La trama premia i primi con la sopravvivenza, punisce i secondi con la morte, in maniera prevedibile. Diverso è il caso de Il Mondo dei Robot: i visitatori sono persone più credibili, ciascuno ha i suoi sogni proibiti, i suoi stress, i suoi vizi. Non so peraltro quanto venga da parteggiare per gli umani, che, alle prese con le macchine, si rivelano spesso ricchi poco svegli, brutalizzanti e sadici. Il Mondo dei Robot non è perfetto, ma offre grossi spunti di riflessione che sfuggono all’opera più costosa.

LE BELLE IDEE DI UNA VOLTA.

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avanti all’idea innovativa, modernissima, della vacanza nel parco a tema con automi, credo si possano perdonare certe mancanze di mezzi, anche quando condizionano la sceneggiatura le inquadrature ed il montaggio. Merita davvero questo film: è uno dei rari soggetti fantascientifici che, senza pesare sul budget, mette in piedi una vicenda tutta atmosfere e sogni tecnologici, e non cade in moralismi o in zuccherosi finali rassicuranti. La vicenda parte da un’ambientazione eccezionale e interessante, che richiese allora un costo contenutissimo. Tale minimalismo nei mezzi è stato salutare alla longevità dell’opera, ha evitato pomposi sfoggi di effetti speciali che avrebbero finito col “datare” il film rendendolo ridicolo all’occhio dello spettatore di oggi. Invece la vicenda, pure a tanti anni di distanza, poco ha perso del suo fascino originale, del suo valore di riflessione sulla natura umana, sulla violenza, su quello che l’uomo potrebbe essere senza le briglie delle leggi e della morale.

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Scena finale: unico superstite umano a Delos, Peter soccorre una donna e, solo dopo averle dato da bere dell’acqua, cortocircuitandola, si rende conto che si tratta di un robot.

Temi validi, oggi come trent’anni fa. Sotto la facciata vacanziera e disimpegnata, quasi da “B movie”, Il Mondo dei Robot mescola con sagace sobrietà i toni del meraviglioso, della fantascienza e dell’allegoria sulla violenza nel mondo moderno. Eccellente Yul Brynner come cowboy robotizzato, a metà tra il remake e l’omaggio al ruolo che interpretò ne I Magnifici Sette. Il Mondo dei Robot è oggi introvabile in lingua italiana, e difficilmente si può vederlo alla televisione. Chissà, forse i reality sono altrettante Delos, peggiorate dalla continua ripetizione di stereotipi e volgarità. Si può recuperare con un certo sforzo il DVD in lingua inglese. Ebbe un mediocre seguito in Future World (2000 anni nel futuro, 1976). Nel caso vi capitasse, potete dare un’occhiata anche al sequel, senza farvi però illusioni: è un film un po’ scontato e non gode più dell’idea innovativa del predecessore. *

CUCCU’SSETTE

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FANTASCIENZA

CINEMA Richard Benjamin (Peter Martin): turista

matricola a Delos. Dapprima inibito, si dimostra poi capace di sopravvivere alle avventure più pericolose. Filmografia fantascienza/fantastico: Amore al primo morso

James Brolin (John Blane):

amico e guida di Peter, non ha scrupoli verso i robot, se la gode finché non viene ucciso dal pistolero. Filmografia fantascienza/fantastico: Terminal virus (TV), Ascensore per l’inferno (TV), Amityville Horror, Capricorn One, La macchina nera, Viaggio allucinante

Yul Brynner (Robot pistolero): il

cavaliere nero del West, la cui faccia nasconde circuiti e anticipa il Terminator.

Norman Bartold (Turista cavaliere medievale): il goffo

visitatore che gioca a fare Lancillotto con la Regina, salvo poi venire ucciso in duello dal cavaliere nero medioevale. Filmografia fantascienza/fantastico: Capricorn One, Incontri ravvicinati del terzo tipo

Alan Oppenheimer (Supervisore capo):

il primo ad accorgersi che qualcosa non quadra nei continui guasti ai robot, ma purtroppo non riesce a porvi rimedio. Filmografia fantascienza/ fantastico: Tutto accadde un venerdì, Invisible: The Chronicles of Benjamin Knight, Child of Darkness, Child of Light (TV), Riding with Death (TV), La donna bionica (TV), L’uomo da sei milioni di dollari (TV)

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Filmografia fantascienza/fantastico: Futureworld - 2000 anni nel futuro, Gli avventurieri del pianeta Terra

Dick Van Patten (Turista sceriffo): par-

te breve per il noto Tom Bradford della TV.

Filmografia fantascienza/fantastico: Balle spaziali, La notte di Halloween (TV), Quello strano cane... di papà, 2022: i sopravvissuti, e altri...

Majel Barrett (miss Carrie):

tenutaria del saloon, una parte da poche battute. Filmografia fantascienza/ fantastico: Star Trek, the next generation (TV), Star Trek IV: Rotta verso la Terra, Star Trek: The motion picture, Spectre (TV), Genesis II (TV), Star Trek (TV)

CINEMA: IL MONDO DEI ROBOT


Il mondo dei robot

SCHEDA TECNICA Titolo: Tit. originale: Anno: Durata: Paese: Produzione: Distribuzione: Regia:

IL MONDO DEI ROBOT WESTWORLD 1973 89 minuti USA Paul Lazarus III METRO GOLDWYN MAYER

Michael Crichton (Il Tredicesimo Guerriero, Runaway, Looker, 1855: la prima grande rapina al treno, Coma profondo) Soggetto: Michael Crichton

Fotografia: Gene Polito Musiche: Fred Karlin Montaggio: David Bretherton Scenografia: Charles Schulthies Effetti speciali: Charles Schulthies Costumi: Betsy Cox Note: nomination NEBULA AWARD 1974 “Best Dramatic Presentation” (M. Chrichton); nomination HUGO AWARD 1974 “Best Dramatic Presentation”; vincitore GOLDEN SCROLL 1975 “Best Science Fiction Film”

Resto del CAST: Victoria Shaw, Terry Wilson, Linda Gaye Scott, Steve Franken, Michael T. Mikler, Terry Wilson, Anne Randall, Julie Marcus, Sharyn Wynters, Anne Bellamy, Chris Holter, Charles Seel, Wade Crosby, Nora Marlowe, Lin Henson, Orville Sherman, Lauren Gilbert, C. Lindsay Workman, Davis Roberts, Howard Platt, Richard Roat, Kenny Washington, Jared Martin, Robert Patten, David M. Frank, Kip King, David Man, Larry Delaney, Will J. White, Ben Young, Tom Falk, Barry Cahill, Robert Hogan, Mindi Miller, Robert Nichols, Leoda Richards, Paul Sorenson.

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FANTASCIENZA

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I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE DO ANDROIDS DREAM OF ELECTRIC MUMS ?

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n robot che deve sostituire i figli in famiglie che hanno perso o non possono avere una propria creatura: questo è il presupposto assai interessante per il film A.I. Intelligenza artificiale, nato da progetti di Kubrick rielaborati da Spielberg, e propagandato con una campagna pubblicitaria che ha messo avanti a tutto i nomi Sotto: i coniugi Swinton fanno visita al figlio in coma. Monica (F. O’Connor) non si rassegna.

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dei due cineasti.

to in marketing confermerebbe che pochi sarebbero disposti a sostituiPRESUPPOSTO DISCUTIBILE re anche solo il ricordo di una perMA FIABESCO sona scomparsa con un replicante del tipo presentato. Preferirebbe a vicenda narrata parte da semmai la clonazione se disponibiun’idea futuribile, simile a una le, o un’adozione, oppure un anifiaba: ovvero poter realizzare ro- male da compagnia, piuttosto che bot sofisticatissimi, simili a esse- accogliere un simile essere! Gli ri umani, in grado di riprodurne i androidi del film sono imperfetti: comportamenti e capaci di elabora- replicano l’uomo, ma lo fanno a re emozioni. modo loro, da macchine. A un moSpielberg dimostra di conosce- dello di automa da sesso - come il re poco il mercato e le sue leggi, gigolò - si chiede solo la prestazioper la realizzazione di David l’an- ne, e lo stesso vale per un mecha droide. Ogni psicologo specializza- da lavoro. In famiglia, invece, si tratta di imitare 24 ore su 24 per molti anni di seguito uno specifico essere umano, comportamenti, vizi e pregi. L’illusione di (ri)avere una persona muore presto, se mai era nata... Finisce appena il genitore si accorge che il robot non ha bisogno di dormire, non può bere, non deve mangiare e non va in bagno. Inoltre non cresce, né invecchia, si affeziona a una sola persona tramite un imprinting elettronico e, se non soddisfa le aspettative o se muore

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I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE il proprietario, viene rispedito in fabbrica per essere distrutto. Se anche esistesse un prodotto simile, probabilmente resterebbe invenduto! Rammentare un umano senza esserlo poi fino in fondo è improponibile, peggio che essere un comune robot, poiché l’uomo pensa per categorie, e quanto sfugge alla catalogazione della mente crea ambiguità che a sua volta scatena il turbamento, da cui nascono paura e odio. Una famiglia normale, seppure provata da una disgrazia, rifiuterebbe un elettrodomestico del genere, per quanto sofisticato. Come accade nel film, nel quale si ipotizza un’aberrazione ancor peggiore: realizzare un robot specifico per situazioni luttuose e farlo in serie; il Creatore di Androidi ha una bella sfilata di David, tutti con le facce uguali. Agli androidi umanizzati per lavori particolari posso credere, a questo no. Ovvio, il regista chiede allo spettatore di stare al gioco ed accettare le atmosfere da fiaba tecnologica. A voi spettatori la scelta d’accettare il presupposto narrativo di un oggetto pensante che difficilmente verrebbe immesso sul mercato.

un bambino abbandonato, maltrattato, emarginato, rivelando solo a tre quarti della storia che la creatura era una macchina sofisticata! Spielberg purtroppo non ha mezze misure quando gioca con i sentimenti, scopre le sue intenzioni. In questo caso è inopportuno. È troppo retorico, e parte con un presupposto assai discutibile che modifica la percezione dello spettatore-critico. Tutti i sentimenti dell’androide sono programmati. Il suo lavoro è dare amore alla “mamma” senza pretenderne in cambio, essere buono, obbediente e simile a un bravo figliolo. È dolcissimo, il bambino che tutti vorremmo avere, questo

grazie a un bel complesso di chip e programmi. Ora, il suo affetto è tutto tranne che frutto di una libera scelta: ma quale valore ha amare se non si può odiare? essere buoni se non si può essere cattivi? Il robot elabora sentimenti, certo, ma solo quelli programmati per lui; non esistono colpe né meriti per un essere che non decide della propria vita poiché un software ne fabbrica la coscienza e la simula... Al di là della sicura presa psicologica sullo spettatore emotivo, il melò dell’abbandono e della disperata fuga In alto: la crisi di nervi di Monica quando il marito le porta David. Sotto: l’imprinting.

SENTIMENTI E SENTIMENTALISMI

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pielberg cerca di andare sullo strappalacrime, e ci potrebbe riuscire se non esagerasse e se non ci dicesse subito con enfasi didascalica che il piccolo è un robot. Pensate come sarebbe stato bello se ci avesse mostrato un mondo tecnologico con androidi da lavoro, e

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zio, ... e nelle troppo pretenziose e furbe citazioni del nome! Difficile stabilire quanto avesse predisposto Kubrick, lo ritroviamo nella forma e nello stile, e nella prima delle tre parti. Dopo di che il cuore commerciale di Spielberg cede alla tentazione di autocelebrarsi. Viviamo l’ arrivo della creatura come la scoperta di ET, la fiera della carne è KUBRICK: MAESTRO, troppo simile ai lager di Schindler, DOVE SEI ? gli alieni robotici versione “Incontri ravvicinati“ remix anno 2001, e ubrick è tutto nelle musiche, si scivola in atmosfere deamicisianelle inquadrature, nei silen- ne nell’ingrato e discusso finale. zi, nel finale che riprende stilistiIl peggio in questo caso è tutcamente 2001: Odissea nello spa- ta la pubblicità puntata sul nome poco aggiunge a un personaggio che è così perché, come direbbe Jessica Rabbit, “lo hanno disegnato”. Invece di piangere sulle sue disgrazie, ci si ricorda che è solo una macchina sofisticata, somigliante a un bambino, senza facoltà di scelta, destinata a un lavoro particolare come il pc su cui scrivo!

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di Kubrick, che conduce a sicura delusione il cinefilo DOC. Il film infatti ha le caratteristiche dei buoni film di Spielberg, nulla di meno e nulla di più: curatissimi, spesso moraleggianti, tecnicamente perfetti, in apparenza sognanti o fiabeschi; insomma un grande artigianato e il miglior compromesso tra cassetta e qualità, tra la formula di intrattenimento onesto e quella di cinema didattico e serio, con alti e bassi dovuti alla necessità di coinvolgere a tutti i costi l’emotività. Se Kubrick avesse girato il film, probabilmente avrebbe mantenuto un tono assai meno sentimentale, senza sacrificare l’emozione! Nessuno ce lo può dire. Davanti allo spettatore, invece, c’è un omaggio convincente a metà, se si pretende di ritrovarvi Kubrick, anche se il film è particolare e non passerebbe comunque inosservato. L’aver In alto: l’operazione di ripulitura di David (H.J. Osment); al robot non è consentito ingerire cibo. A sinistra: Monica è costretta ad abbandonare David al suo destino.

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I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE sbandierato il nome di un così grande Maestro contribuisce, nelle persone dotate - per propensione o per vissuto - di un animo disilluso, a destare una sorta di cinismo che porta a vivisezionare quanto si vede e a dubitare delle intenzioni di chi ce lo mostra. Succede indifferentemente a chi si intende di cinema e a quanti non conoscono aspetti tecnici, basta siano disillusi. Dimenticate Kubrick mentre vedrete questo film. Vedetevi un bel film di Spielberg sapendo che nel bene e nel male è suo. OSAMU TEZUKA, CHI ERA COSTUI?

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l grande disegnatore giapponese, morto nel 1989, che creò, oltre a vari altri capolavori, il famoso Tetsuwan Atomu (Astroboy). Questi è un bimbo robot con parecchie delle caratteristiche riconoscibili nel David protagonista di A.I., almeno nelle prime uscite del manga. Una quarantina di anni fa, Tezuka descrisse un mondo del 2003 simile esteriormente a quello del Metropolis di Fritz Lang. Un mondo del domani con automi necessari al benessere e al progresso, ma discriminati (o, piuttosto, trattati da robot), in una società multirazziale con tanto di alieni tra i terrestri, guerre e tensioni varie.

Immaginò un geniale scienziato costruttore di automi, il professor Tenma, e gli fece perdere l’unico figlio in un incidente d’auto. Lo

scienziato reagisce alla disgrazia fabbricando un robot identico al bambino, salvo poi abbandonarlo quando l’automa, pur rappre-

In alto: Luna Piena! I “segugi” cacciatori di robot randagi sono sciolti. In mezzo: Davide e Joe (J.Law) prigionieri alla “Fiera della Carne”. A destra: David alla ricerca di risposte dal Dr. Know

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sentando una sofisticata punta di diamante della categoria, non si dimostra abbastanza umano: come David, non cresce, non invecchia, rappresenta solo il sogno fallito di Tenma di sostituirsi al Creatore! Nel seguito del celebre manga, il robottino trova famiglia e diventa un eroico difensore del bene contro l’ingiustizia, ma questa è un’altra storia, legata a uno sviluppo “facile” e adatto a spettatori d’ogni età. Il triste è che le produzioni americane hanno saccheggiato l’opera dell’autore giapponese senza dedicargli nemmeno una riga di citazione, un ringraziamento. Ep-

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pure David è il fratello glamour di Astroboy, come Simba The lion king lo è di Kimba il Janguru Taitei! COLLODI E GLI ALTRI

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i cita Pinocchio, ovvio, ma quale Pinocchio conoscono in America? Il Pinocchio di Collodi è un capolavoro che ha alle spalle un’epoca (il fine 800 ) e un’ambientazione (la Toscana). con atmosfere sospese tra la dura quotidianità (fatta di miseria, di emigrazione, di duro lavoro), e la magia. Non a caso Geppetto scolpisce

il corpo di Pinocchio, ma non certo la sua anima... neppure riesce a spiegarsi come mai il tronco parli. Di certo la coscienza infusa a Pinocchio non è un atto volontario di Geppetto, che anzi trova il legno fatato già parlante - a differenza del barone Von Frankenstein, o del Rabbi Loewe che incide la magica parola sulla fronte del Golem. In Collodi c’è volutamente mistero... o lo si accetta o non si ama Pinocchio. Diverso assai è David, artificiale nel corpo e anche nello spirito. La magia e il mistero si spezzano pensando che magari, tra duecento anni, avremo davvero androidi in vendita. Cosa rimane di Collodi? Una spruzzata lieve, e forse ereditata più dalla tradizione cinematografica disneyana che da quella letteraria. Pinocchio costruito dal falegname per non restare solo nella povera e disperata vecchiaia, animato dalla In alto: indirizzato dal messaggio del Dr. Know, David raggiunge Manhattan e il professor Hobby. A sinistra: David scopre i suoi duplicati.

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I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE fata che ha le sembianze della defunta moglie del falegname, è tutto di Comencini e del suo struggente sceneggiato. Quello che resta nel film di Spielberg è scenografia, o brevi riferimenti disneyani, forma e non sostanza. In più, il robot americano non è un discolo irriverente, né esiste possibilità per lui di diventare vero... e questo rende il confronto con la fiaba italiana davvero deprimente! IL DOLCE SU E GIÙ - MI PERMETTE MAESTRO?

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li attori sono bravissimi, tanto che da soli reggono il confronto con effetti speciali e azione, senza venirne schiacciati; la fotografia è patinata e valida, l’uso della macchina perfetto, la sceneggiatura... quella un po’ meno. Ci sono buchi e passi illogici, fughe impossibili, momenti di stanca e altri copiati da film di genere ma realizzati peggio. Alti e bassi che a volte annoiano lo spettatore, anche per la lunghezza del film. La divisione in tre parti della vicenda è un po’ troppo netta e i toni non si fondono alla perfezione. Si toccano troppi temi cari alla fantascienza, dalle città sommerse, ai replicanti, alle arene da combattimento, gli alieni, o meglio i robot del domani, e poi l’esperienza

esistenziale del Sogno. Gli stili variano e l’amalgama in alcuni punti fatica a trovarsi. Inoltre Spielberg pare voler mettere impegno sociale

anche quando e dove sarebbe meglio risparmiarlo. Niente di male, nell’intento educativo di per sé, soltanto a volte esagera e aggiunge

In alto: in crisi “di identità”, David si getta in mare. In mezzo: dopo aver ripescato David, Joe viene catturato. Il suo ultimo saluto nasconde forse un barlume di autoconsapevolezza. A destra: sul fondo del mare David trova una statua della Fata Turchina.

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riflessioni inopportune - non perché sbagliate ma perché pesanti in una storia già ricca di spunti, citazioni e stimoli. Il buonismo, corretto politicamente, trabocca qua e là, spezzando la vicenda invece di sorreggerla. In questo senso il piccolo androide non troverà alieni o robot capaci di trasformarlo in un vero essere vivente, ma solo alieni robotizzati che lo tratteranno con utile affetto e gli doneranno niente più che un’illusione. Tristissimo il messaggio che tra diversi non ci si può amare: non a caso mancano figure di umani che accettino David senza fargli

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domande e lo amino per quello che è senza inquadrarlo in “mecha” o “orga”. Ma i temi di riflessione sociale sono tanti, troppi, e, condensati nel tempo del film, si accavallano senza trovare sempre uno sbocco soddisfacente.

discutibile. Anche clonando Ramses o Napoleone, non otterremmo mai i ricordi della persona, ma solo un corpo simile, con caratteristiche e propensioni genetiche analoghe a quelle dell’originale, a voler essere ottimisti. A parte la sviolinata New Age IL FINALE TUTTO FUMO al sapore di alieni-angeli-robot e ricordi interiori e paradisi indivivvio omaggio stilistico a 2001 duali... non è razionalmente spieOdissea nello Spazio, ondeg- gabile come una civiltà avanzata gia verso il melò New Age. L’in- come quella aliena, per clonare, contro con gli alieni-robot archeo- necessiti di un’intera ciocca di calogi, capaci di clonare una persona pelli anziché pochi campioni per dal passato restituendole la memo- volta (che permetterebbero di rinria per un solo giorno, è piuttosto novare molto più a lungo la felici-

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I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE Pag, a sinistra: 2.000 anni nel futuro, esseri extraterrestri trovano David sotto il mare gelato. A metà pagina: la Fata Turchina, animata dagli alieni, concede a David l’ultimo desiderio. A sinistra: un alieno istruisce David prima dell’incontro con la sua “madre” clonata. Sotto: David ha finalmente trovato l’amore che cercava, ora può morire felice.

tà del piccolo robot). O come non si possa ottenere nuovo materiale da clonare partendo dalla creatura riprodotta, o inventare un robot mamma a misura dei ricordi di David. Le mie sono constatazioni razionali, il finale invece vorrebbe parlare al cuore ma, dati i presupposti, non mi convince. La giornata con la mamma è una fregatura mascherata da gran premio, una ricostruzione onirica basata sui ricordi e i desideri di David, il tutto con mille limiti e l’obbligo di non dire a mamma la verità. In più, lo stesso David dimostra di non essere granmamma umana o farsi adottare dal ché vispo: rimanendo secoli e seGigolò. La conquista del sognare, coli sotto il mare ad attendere, preper David, cosa significa? Stilistigando la fata invece di cercare la camente è analoga al Bambino Cosmico in cui si evolve l’astronauta di 2001: Odissea nello spazio, ma lo spettatore di Kubrick era preparato a un’atmosfera filosofeggiante da tutta una serie di sequenze che lo distaccavano dal concreto. Spielberg invece, fino a poco prima, rimane su un piano ben materiale, dove la poesia è sommessa e non è il primo dei linguaggi. Dunque David si spegne nel sonno poiché le batterie gli si bloccano, “morendo” insieme alla

mamma? Oppure elabora il sognare e questa maturazione lo porta ancor più vicino a un umano? Potrebbe essere questo il senso, che si riallaccerebbe a Kubrik, solo che una simile sequenza non viene preparata, e chi guarda non riesce a capirla. E, se David sopravvive, cosa significherà per lui la memoria di quel giorno? Purtroppo Spielberg ha scelto così, creando un finto lieto fine, un paradiso per Androidi che sognano Mamme Elettriche.

* CUCCU’SSETTE

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Haley Joel Osment (David):

l’androide costruito per rimpiazzare gli affetti familiari. Filmografia fantascienza/fantastico: Il sesto senso, Il mistero del paro (TV), Bogus: l’amico immaginario.

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William Hurt (prof. Hobby):

lo scienziato che costruisce David a immagine e somiglianza del proprio figlio scomparso. Filmografia fantascienza/fantastico: Frankenstein, The village, Tuck everlasting - vivere per sempre, Dune - Il destino dell’Universo (TV), Lost in space - Perduti nello spazio, Dark City, Michael, Fino alla fine del mondo, Stati di allucinazione.

Frances O’Connor (Monica Swinton):

la “madre adottiva”; inizialmente scandalizzata dall’idea di “sostituire” il figlio in coma con una macchina, finirà per affezionarsi a David. Filmografia fantascienza/fantastico: Timeline, Indiavolato.

Sam Robards (Henry Swinton): il

“padre” di David; compra il robot per cercare di lenire il dolore della moglie. Per la sicurezza del figlio Martin, convincerà la moglie ad abbandonare il robot.

Filmografia fantascienza/fantastico: nessuno.

Jake Thomas (Martin Swinton):

il robot “amatore” che aiuta David nella sua ricerca della Fata Turchina. Filmografia fantascienza/fantastico: Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi, Sky Captain and the World of Tomorrow, eXistenZ, Gattaca - La porta dell’Universo.

Brendan Gleeson (Lord Johnson-Johnson): il direttore della

“Fiera della Carne”.

Filmografia fantascienza/fantastico: Harry Potter e il Calice di Fuoco, Troy, The village, 28 giorni dopo, Lake Placid.

Sabrina Grdevich (Sheila):

il “fratellastro” di David; la sua guarigione determina l’allontanamento del robot.

l’assistente robotica del professor Hobby.

Filmografia fantascienza/fantastico: Dinocroc, The cell.

Filmografia fantascienza/fantastico: nessuno.

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Jude Law (Gigolo Joe):

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I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE

SCHEDA TECNICA Titolo: Tit. originale: Anno: Durata: Paese: Produzione:

A.I. INTELLIGENZA ARTIFICIALE ARTIFICIAL INTELLIGENCE: AI 2001 145 minuti USA Bonnie Curtis, Kathleen Kennedy, Steven Spielberg

Distribuzione: WARNER BROS./DREAMWORKS Regia: Steven Spielberg (Jurassik Park, I Predatori dell’Arca Perduta, Lo Squalo) Soggetto: Brian Aldiss, Ian Watson Sceneggiatura: Steven Spielberg Fotografia: Janusz Kaminski Musiche: Paul Barker, Max Brody, Deborah Coon, Al Jourgensen, John Williams Montaggio: Michael Kahn Scenografia: Rick Carter Effetti speciali: Dennis Muren, Scott Farrar, Stan Winston, Michael Lantieri, STAN WINSTON STUDIO Costumi: Bob Ringwood Note: nomination OSCAR 2002 “Best Effects, Visual

Effects” (D. Muren, S. Farrar, S. Winston, M. Lantieri) e “Best Music, Original Score” (J. Williams); nomination SATURN AWARD 2003 “Best DVD Special Edition Release”; vincitore SATURN AWARD 2003 “Best Music” (J. Williams), “Best Performance by a Younger Actor” (H.J. Osment), “Best Science Fiction Film”, “Best Special Effects” (D. Muren, S. Farrar, S. Winston, M. Lantieri), “Best Writing” (S. Spielberg) e nomination “Best Actress” (F. O’Connor), “Best Director” (S. Spielberg) nomination JAPANESE ACADEMY AWARD 2002 “Best Foreign Film”; vincitore BMI FILM MUSIC AWARD 2002 (J. Williams); nomination U.K. EMPIRE AWARD 2002 “Best Actor” (H.J. Osment), “Best Actress” (F. O’Connor), “Best Director” (S. Spielberg), “Best Film”; vincitore FESTIVAL DI VENEZIA “Future Film Festival Digital Award” (S. Spielberg)

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K. Leung, C. Gregg, K. Sussman, T. Gallop, E. Osment, A. Grace, M. Winston, T. Greenly, J. J. Kissner, D. McEwin, A. Morrow, C. Youngberg, A. Scott, J. Prosky, E. Colantoni, P. Malcomson, M. Berresse, H. King, K. Morris, D. Chase, B. Turk, J. Machado, T. Rigby, V.Carenzo, R. Owen, A. Scott, A. Alexi-Malle, L. Mason, B. Sexton, K. Palmer, J. Sutter, M. Shamus Wiles, K. McCool, C. Bellar, K. Campbell, T. Rhoze, J. Jansen, E. Coleman, R. David Smith, W. Wilderson, B. Harwell, B. Scudder, M. Mantell, M. Pérez, M.Malloy, A. Grenier, M. Allan Staubach, M. Fishman, J. Salla, L. Salla, D. Fletcher, K. Nei, C. Gilbert, R. King, A. Jourgensen, P. Barker, M. Brody, D. Buford, A. Grossman, T. Coon, K. Felix, J. Harmon, B. Jay, K. Lohmann, P. I. Martin, S. Mobley, C. Palermo, S. Plazinic.

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LETTURA

MA GLI ANDROIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE? (Do Androids Dream of Electric Sheep?) di PHILIP K. DICK (1968) “If you’re not human, then it’s all different.”

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an Francisco, Gennaio 2021: Rick Deckard è un cacciatore di taglie. La sua è una vita squallidamente ordinata, in una città affondata nella polvere radioattiva di un pianeta ormai semi-deserto e coperto di macerie. Dopo il disastro atomico, chi vuole sopravvivere deve emigrare su altri pianeti, e chi resta è condannato ad una lenta morte da radiazioni. Emigrate o Degenerate, è l’appello impietoso delle autorità. I sintomi sono l’alterazione delle capacità intellettive, che rende “chickenhead” (cervello di gallina), seguita dalla deviazione genetica, spettro di possibili mutazioni della specie. La sorte di chi viene colpito, nonostante l’uso della Braghetta in Piombo Montybank, è la sterilizzazione e la conseguente cancellazione dalla società; poi, inesorabile, sopravviene la totale disgregazione fisica e mentale. Rick Dekard vive in un mondo inchiostro e cenere, in cui il sole non è più visibile e il genere umano è ormai alla fine, destinato a scomparire sotto i rifiuti, la “palta” che giorno dopo giorno implacabilmente soffoca ogni cosa. Il suo bersaglio sono gli androidi, costruiti per rendere accettabile ai coloni la vita su altri pianeti, il cui capostipite è naturalmente un soldato-robot figlio del conflitto di cui nessuno ricorda più il vincitore. Questi “mecha” sono nient’altro che sofisticati congegni bio-elettronici sempre più perfetti, dotati di esistenze plausibili e falsi ricordi, il cui desiderio è tuttavia tornare clandestinamente sulla Terra. Rick Deckard ha il compito di individuare e “ritirare” questi scomodi figli della tecnogia umana,

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troppo simili ai loro creatori e quindi pericolosamente indistinguibili; l’unico particolare che li differenzia è la mancanza di empatia, cioè di consapevolezza e di partecipazione emotiva verso qualsiasi cosa. Almeno così sembra. Ma ad un certo punto questo equilibrio si spezza, quando Deckard riceve l’incarico di ritirare, “terminare” si potrebbe dire, un gruppo di replicanti particolarmente evoluti e… praticamente umani. In un mondo in cui tutto muore, l’unico valore a cui quel che resta dell’umanità rimane tenacemente attaccato è proprio il senso empatico di condivisione dei sentimenti, ricreato e rafforzato artificialmente mediante le scatole del Predicatore Wilbur Mercer. Oppure attraverso la cura di animali elettrici, copie robotizzate di quelli veri ormai quasi del tutto estinti. Quello che l’Agente Deckard non può prevedere,

LETTURA: D.A.D.O.E.S.


D.A.D.O.E.S. che nessuno può prevedere, è la odd ratio del fattore umano: se una pecora elettrica è sufficiente per affermare il proprio stato sociale o per ricreare artificialmente quello che prima dell’armageddon era un normale e comune sentimento dell’uomo, allora è possibile affezionarsi e forse amare anche un androide. È una lunga giornata quella che aspetta il protagonista di questo romanzo (scritto da Dick nel 1968, in piena guerra fredda e neo-sviluppo tecnologico), giornata in cui la realtà sembra disgregarsi in un mosaico confuso all’interno del quale i replicanti sembrano più umani, per certi versi, degli uomini veri e propri. Deckard perde a poco a poco la sua capacità di distinguere ciò che è reale da ciò che è artificiale, compresa la sua stessa natura: l’incontro con Rachael, androide senza saperlo, lo porterà alla scoperta di un nuovo e angosciante modo di essere “vivi”, tema che compare anche in un altro racconto assai vicino a questo, “La formica elettrica”, in cui il protagonista, un confuso presagio di The Matrix, scopre di non essere un uomo ma un androide. L’interrogativo di fondo è, infatti: “se Dio ha creato l’uomo a sua immagine, cosa succede quando è l’uomo a creare se stesso?” O meglio: “cosa significa essere umani?” La confusione di ruoli che ne deriva provoca nel protagonista di D.A.D.O.E.S. una catena di pensieri secondari, in cui la sua stessa umanità viene messa in discussione: androidi che hanno paura ammirando per l’ultima volta l’Urlo di Munch; umani incattiviti e schiavi dei modulatori d’umore, senza i quali la sopravvivenza nervosa è impossibile; replicanti che, in una delle scene più crudeli del libro, si mettono a mutilare per curiosità un preziosissimo ragno vero; impiegati statali che sognano di arrivare a possedere una pecora viva al posto di quella elettrica, finta, che hanno sul tetto di casa. E, accanto a questi, la tenera figura di Isidore, contaminato, cervello di gallina e subumano, tuttavia con una sua altissima dignità; forse l’unico capace ancora di provare sentimenti come simpatia, compassione, amicizia. Isidore è il solo che ha il coraggio di ascoltare il “rumore del silenzio”, la voce del vuoto sconsolato che lo circonda come un’infinita scarica elettrostatica, in cui nulla è in grado di opporsi all’entropica avanza-

LETTURA: D.A.D.O.E.S.

ta della palta, del disordine indifferenziato che tutto inghiotte; ed è l’unico che cerca, disperatamente, di combattere per il proprio spazio di vita. Disprezzato dagli stessi androidi, Isidore rappresenta l’ultimo esempio di umanità perduta, capace di spegnere il televisore e cercare, faticosamente, un contatto reale. I livelli di lettura di questo romanzo sono molteplici, da quello avventuroso-futuristico, perfetto per la trasposizione hollywoodiana di Blade Runner, passando dal cyberpunk fino a quello mistico religioso. Il denominatore comune, nell’universo sgretolato di Dick, è che tutto è falso, diverso da quello che sembra e che dovrebbe essere: gli androidi sono l’imitazione fasulla dell’uomo, a metà tra una nuova forma di schiavitù e una minaccia disumana per i loro stessi costruttori; il conduttore dell’unico e onnipresente programma televisivo, Buster Friendly and his Friendly Friends, è in realtà un androide, e rivela l’inganno che lui stesso rappresenta; gli uomini, i poliziotti, come Phil Resch, appaiono più freddi e cinici dei loro “obiettivi” da ritirare, e anche l’identità umana di Deckard, in un passo del libro, viene messa in discussione. Anche la religione è un trucco, o meglio un trucco nel trucco, perché il predicatore virtuale Mercer e la sua rassegnazione cosmica sono in realtà il frutto di un vecchio studio cinematografico ormai inghiottito dalla palta, e tuttavia l’attore-Mercer esiste ed ha una sua verità religiosa da rivelare: “Questa è la condizione della vita: essere costretti a violare la propria identità. Prima o poi, ogni creatura vivente deve farlo. È l’ombra finale, la sconfitta della creazione.” Leggendo il romanzo, sembra di affondare in sabbie mobili fatte di specchi, dove le cooordinate sfuggono e cambiano in continuazione. Fantascienza, sicuramente, ma la componente fantascientifica è, in ultima analisi, superficiale, un vestito duttile per rendere corporee le incertezze della psiche. Le ingegnose tecnologie non vengono spiegate, hanno il loro senso solo nell’evocazione della non-realtà dickiana, di cui l’androide costituisce l’esempio più ricorrente, il lato più oscuro, il simbolo della definitiva perdita d’identità. È curioso come gli aspetti marcatamente tecno-

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sempre più pressante di altre realtà parallele. In un saggio del 1976, l’autore californiano scrive: “…l’intero universo è una sorta di enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità, che ci sorridono tendendoci la mano. Ma la loro stretta è quella della morte, e il loro sorriso è di un gelo tombale.” Si perde quindi il contatto con il mondo “vero “ (come viene detto angosciosamente ne Il mondo di Jon), le visioni diventano sempre più tangibili e rendono la realtà un universo di ombre vaghe e indistinte, offuscato da qualcosa di “altro” che, inesorabilmente, cresce. Nel momento in cui Deckard si rende conto di provare pietà (e non solo) per gli androidi che deve eliminare, l’empatia esclusivamente umana si è dilatata e il salto è compiuto: il senso stesso dell’amore ne viene contaminato, e il possesso della donna androide, in uno slancio disperato e “contro natura” che lo porterà a tradire la sfinita e nevrotica moglie, rappresenta il culmine di questo processo. I simulacri moriranno tutti, come vuole la legge, tranne Rachael, che sparirà nel nulla dopo aver ucciso la tanto agognata pecora nubiana del suo amanPHILIP K. DICK te-persecutore. Ma, quando la lunga giornata di Rick Dekard arriverà alla fine, la sua unica possibile consolazione sarà la ricerca di una qualsiasi forma di vita, logici del romanzo di Dick, antecedente all’era del reale o elettrica forse non importa, nella solitudine del computer, ne preannuncino alcuni aspetti verosimili deserto. La condivisione empatica della sua sofferene inquietanti: la empathy box (con schermo e mano- za con il resto del mondo è perduta, assieme alla cerpole) - per connettersi in rete si potrebbe dire - la te- tezza della propria identità e dei propri sentimenti e levisione che si insinua ad occupare il vuoto lasciato anche di un ultimo contatto umano con chi ne è stato dalla vita tangibile, la creazione di un vero e proprio escluso: persino Isidore, inorridito dal massacro finamondo alternativo virtuale che implacabilmente si le, lo rifiuta. All’Eroe non rimane che tornare a casa, e fonde con quello reale fino a prenderne il posto. In quel che resta dell’umanità proverà ancora a sognare. Modello Due, l’androide ha come obiettivo crudele e immotivato la spietata estinzione della razza umana, e in Impostor ne è l’inconsapevole strumento, ma in * D.A.D.O.E.S. si osserva una svolta: le “intelligenze artificiali” capiscono di essere tali pur sognando di essere umane, tuttavia rimangono comunque e sempre un’imitazione della Creazione. Se in Asimov troviamo un positivismo tecnologico che prevede comunque un progresso, il futuro di Dick non concede scampo: con i suoi androidi e i loro sogni artificiali, egli descrive i lati più oscuri della psiche umana, l’intrusione

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Introduzione all’I.A.

Introduzione all’Intelligenza Artificiale

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FANTASCIENZA INTRODUZIONE Il termine Intelligenza Artificiale (d’ora in avanti IA) è stato inventato da JOHN MCCARTHY nel 1956, in occasione di un seminario di due mesi (da lui organizzato al Dartmouth College di Hanover, New Hampshire, USA) che ebbe il merito di far conoscere tra loro 10 studiosi (su teoria degli automi, reti neurali e intelligenza) statunitensi, e di dare l’imprimatur al termine “Intelligenza Artificiale” come nome ufficiale del nuovo campo di ricerca. Da allora l’IA si è affermata ed evoluta; oggi è riconosciuta come branca autonoma, sebbene connessa a informatica, matematica, scienze cognitive, neurobiologia e filosofia. Molte definizioni sono state date di questa materia: esse differiscono per i compiti svolti dalle macchine che l’IA cerca di costruire. Tali compiti possono essere classificati secondo due dimensioni ortogonali [RusNor2005]: macchine che pensano o agiscono, e macchine che simulano gli umani (o che si comportano razionalmente). In tutto quattro classi, a seconda che le macchine: pensino come umani, agiscano come umani, pensino razionalmente, agiscano razionalmente. Quattro approcci distinti alla ricerca nel campo dell’IA, dunque, tutti attivamente perseguiti. L’obiettivo dell’approccio “macchine che pensano come umani” è quello di riprodurre il ragionamento umano nelle macchine. Può essere fatto a due livelli: imitando i metodi di ragionamento o replicando il funzionamento del cervello. Nel primo caso, la scienza cognitiva ci fornisce un importante punto di partenza, ottenuto mediante introspezione ed esperimenti psicologici. Nel secondo caso, è la neurobiologia a fornirci un modello adeguato. Questo primo criterio si occupa quindi di produrre macchine automi che, oltre a comportarsi come umani, “funzionino” come umani tali. L’obiettivo dell’approccio “macchine che si comportano come umani” è quello di realizzare macchine indistinguibili dagli uomini. Questa proprietà è stata meglio definita da Alan Turing che, in un suo articolo del 1950 [Tur1950], ha proposto il test che prende il suo nome: un “giudice” ha la facoltà di porre a un

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“soggetto” domande per iscritto e, in base alle risposte, deve decidere se si tratta di un uomo o di una macchina. Al fine di superare il test di Turing, una macchina deve esibire le seguenti capacità: • elaborazione del linguaggio naturale, al fine di comunicare efficacemente nella lingua del giudice; • rappresentazione della conoscenza, per memorizzare quello che sa o impara; • ragionamento automatico, per inferire (produrre), a partire dalla propria conoscenza, le risposte al giudice; • apprendimento automatico, per aumentare la propria base di conoscenza. Il test di Turing non prevede interazione fisica tra il giudice e la macchina, non essendo necessaria. Volendo, si può pensare a un test di Turing totale in cui, invece delle risposte scritte, il giudice riceve un segnale audio-video, ed ha la possibilità di passare degli oggetti alla macchina attraverso una feritoia. In questo caso la macchina deve esibire anche le seguenti capacità: • visione artificiale, per riconoscere gli oggetti ricevuti; • robotica, per manipolarli; • elaborazione del linguaggio parlato, per comprendere le domande del giudice e per rispondere. Il test di Turing totale ricorda il test Voight-Kampf nel film Blade Runner con il quale i poliziotti distinguono gli androidi dagli esseri umani. L’approccio “macchine che pensano razionalmente” non si preoccupa che le macchine realizzate funzionino come umani, ma solo che seguano ragionamenti razionali, dove “razionale” è definito in maniera precisa dalla matematica, anche tramite tecniche che gli esseri umani naturalmente non usano. Ad esempio la logica, cioè lo studio di come effettuare ragionamenti inattaccabili. La logica svolge un importante ruolo nell’IA, anche se le aspettative iniziali

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Introduzione all’I.A. sono state ridimensionate dai limiti pratici del suo uso, soprattutto in situazioni di conoscenza incompleta e/o incerta. L’approccio “macchine che agiscono razionalmente” usa la definizione di “azione razionale” fornita dall’economia, ossia: selezione delle azioni che portano al migliore risultato, o al migliore risultato atteso nel caso ci siano elementi di impredicibilità. L’obiettivo di questo approccio è quello di realizzare un agente, un’entità in grado di agire in un ambiente al fine di raggiungere uno o più obbiettivi. L’agente utilizzerà il ragionamento razionale per scegliere quali azioni compiere, ma in alcuni casi dovrà reagire agli stimoli ambientali in maniera tanto veloce da “scavalcare” la scelta (ad esempio quando una inazione mettesse a rischio la sua esistenza). Se si tocca qualcosa che scotta, si reagisce ritirando immediatamente la mano, senza un ragionamento cosciente; allo stesso modo l’agente, in certe situazioni, deve poter agire senza svolgere un ragionamento. Gli agenti possono essere di due tipi: solo software, e in questo caso si chiamano softbot, o sia hardware che software, chiamati allora robot. Nel caso dei softbot, l’ambiente esterno in cui operano è rappresentato da Internet, dove interagiscono con esseri umani e altri softbot. Questo, al momento, è l’approccio maggiormente perseguito, in quanto quello che promette i risultati di maggior utilità pratica. Al fine di presentare le varie tecniche proposte dall’IA, le suddivideremo in due grandi classi: simboliche e subsimboliche. Le prime si propongono di automatizzare il ragionamento e l’azione, rappresentando le situazioni oggetto di analisi tramite simboli comprensibili agli esseri umani, ed elaborandole mediante algoritmi. Le seconde, invece, non rappresentano esplicitamente la conoscenza in maniera direttamente comprensibile, e sono basate sulla riproduzione di fenomeni naturali. TECNICHE SIMBOLICHE Tra le tecniche simboliche descriveremo la ricerca nello spazio degli stati, il ragionamento automatico e l’apprendimento automatico.

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RICERCA NELLO SPAZIO DEGLI STATI Questa tecnica viene utilizzata quando si vuole scegliere una serie di azioni che portino da uno stato iniziale a uno o più stati finali desiderati. Condizioni, affinché possa essere utilizzata, sono: che lo stato del mondo esterno possa essere rappresentato in maniera concisa (in forma simbolica), che le azioni disponibili possano essere espresse come regole per il passaggio da uno stato al successivo e che esista un test per stabilire se uno stato è finale. Vediamo un esempio di problema che può essere trattato in questo modo. Nel gioco dell’otto (o puzzle dell’otto) si ha una scacchiera tre per tre, in cui otto caselle sono occupate da otto tessere numerate dall’1 all’8 e una casella è vuota. Si parte da una configurazione iniziale casuale delle tessere, come ad esempio quella rappresentata in figura 1 a), e si vuole arrivare alla configurazione rappresentata in figura 1 b). Le mosse possibili consistono nello spostare sulla casella vuota una tessera numerata ad essa adiacente. Per questo problema, lo “stato” consiste nella posizione delle otto tessere numerate: lo stato iniziale è quello rappresentato in figura 1 a), e il test per stabilire se si è raggiunto uno stato finale verifica semplicemente che lo stato sia identico a quello di figura 1 b). Si tratta di un problema che sembra richiedere intelligenza: un essere umano lo risolverebbe provando diverse mosse e cercando di prevederne il risultato. Il metodo di soluzione proposto dall’IA consiste nel compiere una ricerca nello spazio dei possibili stati. A tal fine, si può rappresentare lo “spazio” come un albero in cui ogni nodo corrisponde a uno “stato”. La radice dell’albero è lo stato iniziale, i figli di un nodo sono quegli stati che si possono raggiungere dallo stato associato al nodo applicando una sola mossa. Ad 3 4

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esempio, nel caso del gioco dell’otto, lo spazio degli stati si può rappresentare come l’albero di figura 2. Il problema è risolto quando si è trovato un percorso dallo stato iniziale a uno stato finale. Solitamente non basta trovare una soluzione ma si cerca quella che ha costo minimo. Occorre quindi definire un “costo”: di norma si assegna un costo alle varie mosse, e il costo di un cammino si misura come somma dei costi delle mosse che lo compongono. Nel caso del gioco dell’otto, ogni mossa costa 1, e si cerca la soluzione che richiede il numero minimo di mosse. Citiamo altri problemi che si possono risolvere con una ricerca nello spazio degli stati. Iniziamo da quelli “giocattolo”, ovvero problemi che non hanno 3

immediato interesse pratico. Il problema “dei missionari e dei cannibali” consiste nel far attraversare un fiume a 3 missionari e 3 cannibali, utilizzando una barca ed evitando che i primi mangino i secondi (quando li superano in numero su una delle due sponde). La barca può contenere al massimo due persone alla volta e, per muoversi da una sponda all’altra del fiume, dev’essere guidata da almeno una persona. Lo stato di questo problema può essere rappresentato utilizzando una terna di numeri, nella quale i primi due quantifichino i missionari e i cannibali sulla sponda iniziale, e il terzo equivalga a: 1 se la barca è sulla sponda iniziale, e 0 se è sull’altra. Lo stato iniziale è (3,3,1), lo stato finale è (0,0,0) e un 8

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Figura 2: spazio degli stati del Gioco dell’Otto

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Introduzione all’I.A. possibile stato (2,2,1) indica che sulla sponda iniziale ci sono due missionari e due cannibali e che la barca è sulla sponda iniziale. Le operazioni possibili sono cinque: attraversa il fiume con 2 missionari, con 2 cannibali, con un missionario e un cannibale, con un solo cannibale o con un solo missionario. Non tutte le operazioni sono consentite in ogni stato: ad esempio, a partire dallo stato (2,2,1) non è possibile applicare l’operazione “attraversa il fiume con un missionario” perchè sulla sponda iniziale rimarrebbero un missionario e due cannibali, e quindi i cannibali mangerebbero il missionario. Il costo, in questo caso, è unitario per tutte le operazioni, si cercano quindi soluzioni con il minimo numero di attraversamenti del fiume. Il problema “delle n-regine” consiste nel disporre, su una scacchiera n per n, n regine in modo che non si attacchino. Una regina attacca tutti i pezzi che si trovano sulla stessa colonna, riga o diagonale. Lo stato in questo caso è rappresentato dalla posizione di i regine sulla scacchiera, con i che va da 0 a n. Lo stato iniziale è rappresentato dalla scacchiera senza regine, lo stato finale da una scacchiera con n regine che non si attaccano a vicenda. Le mosse sono l’aggiunta di una regina su una casella della scacchiera. In questo caso tutte le soluzioni hanno uguale costo perchè richiedono tutte 8 mosse. Passiamo ai problemi reali, come quello di “trovare un percorso”, che consiste nell’andare da un luogo ad un altro con il minimo costo, transitando per luoghi intermedi, al collegamento tra ognuno dei quali è associato un costo. Un esempio è il tragitto in macchina da una città ad un’altra: i collegamenti sono le strade e il costo può essere la distanza o il tempo necessario a percorrere quel collegamento. Se lo spostamento avviene in aereo, i collegamenti sono i voli disponibili, e il costo può essere il tempo o il prezzo del volo. Gli “stati” sono i luoghi, e le mosse disponibili consistono nell’utilizzare uno dei collegamenti che partono dal luogo corrente per spostarsi in un altro luogo. Altro problema reale risolvibile mediante ricerca nello spazio degli stati è quello del “tour”, cioè un percorso che parta da un luogo e vi ritorni dopo aver “visitato” almeno una volta tutti i luoghi di un insieme. Questo problema ha le stesse mosse del pre-

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cedente ma stati diversi: qui lo stato è costituito dal luogo corrente più l’insieme dei luoghi già visitati. Lo stato finale è quindi quello in cui il luogo corrente è il luogo iniziale e l’insieme di luoghi visitati corrisponde a quello specificato. Il costo può essere, anche in questo caso, rappresentato dalla distanza, dal tempo o dal costo monetario delle mosse. Come si risolvono problemi di ricerca? Occorre generare e percorrere lo spazio di ricerca dal nodo iniziale fino a trovare uno stato che superi mediante verifica il test di stato finale; quando la verifica non viene superata, occorre “espandere” il nodo, generare i suoi successori utilizzando le possibili mosse od operatori, ed esaminare quelli, fino a trovarne uno che superi il test, o fino a che non si sia esplorato tutto lo spazio degli stati. Si genera così progressivamente l’albero di ricerca. Gli algoritmi per la ricerca nello spazio degli stati differiscono nella scelta del nodo da espandere (strategia di ricerca). Le due strategie più comuni sono la ricerca in profondità e la ricerca in ampiezza. Nella ricerca in profondità si espande sempre il nodo a profondità maggiore che sia stato generato ma non ancora espanso. Questo significa che si procede prima in profondità fino ad arrivare ad un nodo che non può essere ulteriormente espanso o a trovare una soluzione. Nel primo caso si riparte dai nodi al livello precedente di profondità e così via. Nella ricerca in ampiezza invece si espandono sempre i nodi a profondità minore che siano stati generati ma non ancora espansi. In questo caso si espande prima la radice dell’albero, poi tutti i suoi figli, poi tutti i figli dei figli e così via. In figura 3 è rappresentato l’ordine di espansione dei nodi di un albero secondo la strategia in profondità, e in figura 4 secondo la strategia in ampiezza. Lo spazio di ricerca in realtà può strutturarsi anche in un “grafo”, un albero nel quale un nodo può essere raggiunto seguendo percorsi multipli. In questo caso l’esplorazione può capitare in un nodo già espanso in precendenza. È importante accorgersene per non ripetere operazioni già svolte, e non complicare un problema altrimenti risolvibile. Perciò esistono algoritmi specifici che svolgono la ricerca in grafi anziché

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Figura 3: strategia di ricerca in profondità

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Figura 4: strategia di ricerca in ampiezza in alberi. Le strategie viste precedentemente sono dette non informate, in quanto non utilizzano criteri per scegliere quale nodo espandere quando ve ne siano più di uno alla stessa profondità. Strategie più efficienti sono invece quelle informate, che, per scegliere, si basano su una conoscenza specifica del problema. Per esempio, la strategia best-first usa una funzione di valutazione f(n) che, dato un nodo n, restituisce un valore numerico; per primi sceglie i nodi con il valore f(n) più basso. Nella strategia best-first “golosa”, f(n) viene scelta uguale ad una funzione h(n) che, dato un nodo n, re-

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stituisce una stima del costo del cammino più economico da n ad un nodo finale. h(n) viene chiamata una funzione euristica, in quanto fornisce esclusivamente una stima, per difetto o per eccesso, non un valore certo. Nella strategia A* (si legge “A star”) la funzione f(n) è data dalla somma di due funzioni, g(n) e h(n). h(n) è una funzione euristica come nel caso precedente, mentre g(n) indica il costo del percorso dallo stato iniziale al nodo n. Quindi f(n) in questo caso indica il costo stimato della soluzione più economica che passa attraverso n. È possibile dimostrare che, se h(n) rispetta una certa condizione, la strategia A* è completa

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Introduzione all’I.A. e ottimale; cioè, se esiste una soluzione, A* la trova, e al costo minimo. La condizione da rispettare è che h(n) sia “ottimistica”, ovvero che non valga mai più del costo reale del cammino più economico da n ad un nodo finale. Tutti gli algoritmi visti finora presentano un’architettura comune [Mel2002]: essi hanno una memoria di lavoro per archiviare i risultati parziali, una serie di operatori associabili alle varie situazioni, e una strategia (o controllo), per stabilire quali di questi operatori siano applicabili, sceglierli (se più di uno) e applicarli. Questa architettura, condivisa da molti sistemi di IA, è descritta in figura 5.

o pochi, gli stati iniziali possano essere molti, e il fattore di ramificazione sia basso vicino allo stato finale. Esiste infine un terzo tipo di ricerca, che si chiama “bidirezionale” o “mista”, in cui si procede contemporaneamente in avanti a partire dallo stato iniziale e all’indietro a partire dal goal, terminando quando si incontra lo stesso stato nelle due direzioni. Questo tipo di ricerca ha il vantaggio di restituire due alberi finali, costruiti a partire dallo stato iniziale e da quello finale, che possono avere profondità pari alla metà della profondità di un singolo albero finale costruito invece a partire dallo stato inziale o dallo stato finale. Dato che la dimensione dell’albero cresce in maniera esponenziale con la profondità, la somma delle dimensioni dei due alberi può essere molto più piccola della dimensione dell’albero singolo. L’approccio alla soluzione dei problemi trattato finora contempla che l’agente intelligente possa prevedere gli effetti delle sue azioni. Il presupposto decade nel caso ci sia più di un agente, umano o artificiale, nel sistema. In particolare, gli altri agenti potrebbero avere obiettivi in conflitto con quelli dell’agente considerato. Si parla allora di “giochi”.

Il tipo di ricerca considerata finora è una ricerca “in avanti” (forward o data-driven), che parte dallo stato iniziale e termina in uno stato finale. È possibile anche una ricerca che proceda in direzione opposta, “all’indietro” (backward o goal-driven), cioè partendo dallo stato finale (o goal) e, applicando gli operatori in senso inverso, arrivando ad uno stato iniziale. In genere, conviene utilizzare la ricerca in avanti quando lo stato iniziale sia uno solo, o pochi, e gli stati finali possano essere molti e il fattore di ramificazione sia Nei giochi di cui ci occuperemo esistono due giobasso vicino allo stato iniziale; mentre è preferibile la ricerca all’indietro quando lo stato finale sia uno solo catori che effettuano mosse a turno, l’effetto delle azioni è deterministico, e la somma delle utilità dei due giocatori al termine del gioco è sempre 0, quindi se uno vince (utilità +1) Matching Memoria di necessariamente l’altro perde (utiSelezione lavoro lità -1). Inoltre sono giochi in cui Esecuzione si ha informazione perfetta: l’effetto delle mosse è direttamente visibile. Esempi sono gli scacchi, la dama, l’othello e il go. Giochi a informazione imperfetta sono Operatori invece quelli con le carte, nei Operatori applicabili quali il giocatore non conosce ciò che ha in mano l’avversario. Programmare un computer per giocare a scacchi è stato uno dei Figura 5: architettura di un sistema di intelligenza artificiale

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FANTASCIENZA primi obiettivi dell’IA, e già nel 1950 esistevano software del genere. I progressi raggiunti sono stati tali che l’11 maggio del 1997, per la prima volta nella storia, un computer ha battuto in un torneo il campione del mondo di scacchi GARRY KASPAROV, per 3,5 a 2,5. Il computer era DEEP BLUE della IBM. Per quanto riguarda la dama e l’othello, le macchine hanno ormai distanziato gli esseri umani, mentre nel backgammon, come negli scacchi, lasciano loro qualche chanche in più. Ma l’unico gioco che ancora resiste davvero è il go, nel quale i computer hanno prestazioni da dilettante. Giocare può essere visto come un problema di ricerca in cui gli stati sono rappresentati dalle configurazioni dei pezzi sul tavolo da gioco, lo stato iniziale è rappresentato dalla configurazione di partenza dei pezzi, e le mosse possibili per ciascun giocatore sono quelle concesse dalle regole del gioco stesso. A partire da questi dati, si può costruire dalla configurazione iniziale un albero, in questo modo: i figli della radice sono le configurazioni che risultano da una mossa del giocatore che muove per primo, i figli dei figli sono le configurazioni che risultano da una mossa dell’altro giocatore, e così via. Quindi i nodi ai livelli dispari riguardano il primo giocatore, quelli ai livelli pari il secondo. L’albero di ricerca può essere ramificato fino a che non si raggiunga una configurazione finale, nella quale non bile muovere. sia più possiNel caso dei giochi, è poi necessaria una funzione di utilità che assegna agli Garry stati finali un Kasparov valore numerico rispecchiante il risultato del gioco stesso: negli

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scacchi, ad esempio, i valori possono essere +1, -1 o 0, rispettivamente nel caso in cui abbia vinto il primo giocatore, il secondo oppure che la partita sia terminata con un pareggio. In altri giochi i punteggi potrebbero essere diversi; ad esempio, nel backgammon possono andare da +192 a -192. Valori alti dell’utilità sono buoni per il primo giocatore, che chiameremo quindi “max”, mentre valori bassi dell’utilità sono buoni per il secondo giocatore, che chiameremo quindi “min”. Supponiamo di essere il giocatore max: come selezioniamo la mossa da eseguire in una data configurazione? La soluzione consiste nel costruire l’albero che ha quella configurazione come radice, fino ad arrivare alle configurazioni finali, assegnando poi a ognuna di esse il valore di utilità tramite la funzione di utilità. Dopodichè si assegna un ulteriore valore, che prende il nome di minimax, a tutti i nodi non finali partendo dal basso e procedendo verso l’alto: se al livello del nodo tocca muovere a min, il minimax del nodo è il minimo tra i valori di utilità dei figli; se al livello del nodo tocca muovere a max, il minimax del nodo è il massimo tra i valori di utilità dei figli. Il giocatore max eseguirà la mossa che porta alla configurazione con il minimax più alto. Purtroppo lo spazio di ricerca dei giochi, esclusi i più semplici come il gioco del tris, è enorme e non è quindi possibile costruire l’albero fino agli stati finali. Negli scacchi, è stato stimato che il numero di configurazioni possibili sia dell’ordine di 10120. In questi casi si costruisce l’albero fino ad una profondità fissata m: le foglie dell’albero allora non saranno necessariamente configurazioni finali, e quindi, in luogo dell’utilità, si assegna loro una stima dell’utilità, del tutto simila alla funzione euristica vista in precedenza, ottenuta sulla base della configurazione stessa tramite una funzione di valutazione. Questa funzione deve essere fortemente correlata con le possibilità del giocatore di vincere partendo da quella configurazione. Inoltre dev’essere veloce da calcolare, perché la computazione va eseguita molte volte. Nel caso degli scacchi, un esempio di funzione di valutazione è dato dalla somma dei valori materiali di ciascun pezzo di max meno la somma dei

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Introduzione all’I.A. valori materali di ciascun pezzo di min, dove il valore materiale di un pezzo è definito dai testi di scacchi e vale ad esempio 1 per un pedone, 3 per un alfiere o un cavallo, 5 per la torre e così via. Ovviamente le funzioni reali sono più complicate. Per dare un’idea dell’importanza delle funzioni di valutazione: DEEP BLUE era in grado di esplorare circa 200 milioni (2·108) di posizioni al secondo [But2002]. L’esplorazione dell’intero spazio di ricerca avrebbe dunque richiesto a DEEP BLUE 5·10111 secondi, ovvero 1095 miliardi di anni! Quindi la porzione dello spazio di ricerca effettivamente esplorata è stata piccola, e sono state usate complesse e articolate funzioni di valutazione. Al confronto con KASPAROV, però, le funzioni di valutazione di DEEP BLUE sono semplici, se si pensa che lo scacchista russo, pur elaborando, secondo una stima, solo 3 posizioni al secondo, è riuscito a dare del filo da torcere al computer! Per questo si dice che Deep Blue abbia usato per vincere la forze bruta, piuttosto che una intelligenza raffinata. RAGIONAMENTO AUTOMATICO Per ragionamento automatico s’intende l’utilizzo di conoscenza al fine di inferire nuova conoscenza. A questo scopo è necessario rappresentare la conoscenza in un formato memorizzabile da un calcolatore, e utilizzabile per effettuare inferenze. Questi requisiti restringono il formato di rappresentazione a linguaggi formali, ovvero linguaggi con una sintassi e una semantica definiti in maniera precisa. Uno dei linguaggi formali maggiormente studiati è quello della logica. Essa ha le sue origini nella filosofia e nella matematica greca antica. Il padre fondatore della logica come disciplina autonoma può essere considerato ARISTOTELE (384-321 a.C. circa), mentre CRISIPPO DI SOLI (280-205 a.C. circa), della scuola stoica, definì i connettivi logici, gli assiomi e le regole fondamentali della logica proposizionale. La nascita della moderna logica matematica può essere fatta risalire a GEORGE BOOLE (1815-1864), che nel 1847 pubblicò un metodo per descrivere la teoria dei sillogismi aristotelici e la logica proposizionale sotto forma di equazioni algebriche, e propose un procedimento meccanico per la loro soluzione.

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IBM Deep Blue

GOTTLOB FREGE (1848-1925) fu il primo a sviluppare un sistema di assiomi e regole per la logica del primo ordine, superando così i limiti imposti dai sillogismi e dalla logica proposizionale. Nel 1965 JOHN ROBINSON pubblicò il metodo di risoluzione che consente di automatizzare in maniera efficiente l’inferenza deduttiva nella logica del primo ordine. Su questo metodo è basata la programmazione logica, e il linguaggio PROLOG (PROgramming in LOGic) in particolare, le cui basi furono gettate da alcuni ricercatori delle Università di Edimburgo e Marsiglia nei primi anni ‘70. Soprattutto ROBERT KOWALSKI, a Edimburgo, si occupò di definire i fondamenti teorici della programmazione logica, e propose una interpretazione procedurale delle formule logiche che consente di ridurre il processo di dimostrazione di un teorema ad un processo di

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FANTASCIENZA computazione su un tradizionale elaboratore. ALAIN COLMERAUER a Marsiglia fu il primo a realizzare, nel 1972, un interprete per il linguaggio Prolog. Vediamo alcuni rudimenti della programmazione logica, cominciando dalla logica proposizionale. In essa, le unità elementari sono le proposizioni atomiche, cioè affermazioni non ulteriormente scomponibili che possono essere vere o false. Le proposizioni arbitrarie o formule proposizionali sono ottenute dalle formule atomiche, combinandole mediante i connettivi logici: negazione, congiunzione, disgiunzione e implicazione. Esempi di proposizioni atomiche sono le affermazioni “l’erba è bagnata” e “oggi piove”. Un esempio di formula proposizionale è l’espressione “l’erba è bagnata se oggi piove”. Nella logica proposizionale, si utlizzano lettere per indicare le proposizioni. Ad esempio, b per “l’erba è bagnata” e p per “oggi piove”. La formula proposizionale composta, mostrata sopra, si può dunque scrivere come b←p

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e si interroga il sistema sulla verità di erba_bagnata scrivendo erba_bagnata. sulla riga di comando di un interprete Prolog. Si ottiene così la riposta: yes che significa che erba_bagnata è vero. La verità di erba_bagnata può poi essere utilizzata per derivare altre proposizioni, applicando ripetutamente il modus ponens.

Nella logica del primo ordine le formule atomiche differiscono da quelle della logica proposizionale perchè possono avere uno o più argomenti. Gli argomenti sono termini, ovvero rappresentazioni di un individuo del dominio del discorso. Nei casi più semplici, i termini sono variabili se indicano un individuo imprecisato, o costanti se determinano un individuo specifico. Nel seguito utilizzeremo la convenzione del Prolog di usare parole che iniziano con lettere minuscole per indicare costanti, e parole che iniziano con lettere maiuscole per indicare variabili. Le proposizioni diventano predicati ed esprimono proprietà dei loro argomenti. Ad esempio p(a) esprime In programmazione logica, si possono usare il fatto che “l’individuo a è p” o “l’individuo a ha la sequenze di lettere per rappresentare le proposizioni, proprietà p” e q(a,b) esprime il fatto che “la coppia e si usa il simbolo :- per l’implicazione logica. Si di individui a e b è q” ovvero che “la coppia a e b ha può quindi rappresentare la formula proposizionale la proprietà q”, ovvero che “a e b sono legati dalla composta come: relazione q”. Esempi di formula atomica della logica erba_bagnata :- oggi_piove. proposizionale sono uomo(socrate), che significa In questo caso la sequenza di lettere ci serve per che “Socrate è un uomo”, e padre(paolo,pietro), che indica che Paolo e Pietro sono legati dalla relazione ricordare il significato delle proposizioni. padre, ovvero che Paolo è il padre di Pietro. Inferenze nella logica proposizionale possono Le formule atomiche nella logica del primo ordine essere compiute mediante regole di inferenza. La più possono essere combinate con gli stessi connettivi semplice è il modus ponens che da p e b←p deriva logici della logica proposizionale. In più si possono b. Questa regola rappresenta un passo elememtare di ottenere nuove formule utilizzando i quantificatori: deduzione, ed è corretta, nel senso che se sono vere le quello esistenziale che, data una variabile X e una premesse allora è vera anche la conclusione. Quindi formula α, produce la formula (∃X α) e quello se è vero che “oggi piove” ed è vero che “l’erba è universale che, data una formula α, produce la formula bagnata se oggi piove”, allora si può concludere che (∀X α). I quantificatori hanno senso se α contiene X: “l’erba è bagnata”. In programmazione logica si scrive in questo caso la formula (∃X α) significa che esiste un individuo i del dominio del discorso che, sostituito il seguente programma: oggi_piove. a X, rende la formula α vera, mentre la formula (∀X erba_bagnata :- oggi_piove. α) significa che, per ogni individuo i del dominio

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Introduzione all’I.A. del discorso, sostituendo i ad X in α si ottiene una formula vera. Ad esempio, la formula ∀X (mortale(X) ← uomo(X)) significa che, per qualunque individuo X del dominio del discorso, se X è uomo allora X è mortale. In Prolog si rappresenta la formula in questo modo mortale(X) :- uomo(X). sottintendendo il quantificatore universale. Questa formula prende il nome di clausola o regola. Un programma Prolog può comprendere poi un altro tipo di formule chiamate fatti, che non contengono il simbolo di implicazione. Ad esempio, potremmo aggiungere al programma precedente il fatto uomo(socrate). e interrogare poi il programma Prolog chiedendo se Socrate è mortale. Per farlo, dovremo scrivere l’interrogazione mortale(socrate). sulla linea di comando dell’interprete Prolog. Il Prolog risponderà con yes, in quanto mortale(socrate) è conseguenza logica del programma. In questo caso il modus ponens non è più sufficiente, occorre un’altra regola di inferenza che prende il nome di risoluzione. Al programma precedente potremmo anche chiedere se c’è qualcuno che è mortale, scrivendo mortale(M). sulla riga di comando dell’interprete Prolog. L’interprete non risponde più semplicemente con un sì o con un no ma con una istanziazione di M che rende la formula vera. Nel caso precedente risponderà con M=socrate e si fermerà per chiedere se vogliamo altre istanziazioni per M. Se le chiediamo, in questo caso risponderà no, ma se aggiungessimo un altro fatto al programma, ad esempio uomo(platone)., il sistema fornirà, oltre alla risposta M=socrate, anche la risposta M=platone. Le regole in Prolog possono poi contenere, nel lato destro di una implicazione, una congiunzione di formule atomiche. La congiunzione in Prolog è rappresentata dalla virgola. Ad esempio, la clausola: padre(X,Y) :- genitore(X,Y),maschio(X). significa che X è padre di Y se X è genitore di Y e X è maschio.

presenti nel lato sinistro, ad esempio: nonno(X,Y) :- padre(X,Z),genitore(Z,Y), in questo caso le variabili presenti solo nel lato destro sono quantificate esistenzialmente con ambito di quantificazione il solo lato destro. Quindi la regola precedente si può interpretare come: X è nonno di Y se esiste un Z tale che X è padre di Z e Z è genitore di Y. Si noti che nel lato destro può comparire anche il predicato della formula nel lato sinistro, ad esempio: antenato(X,Y) :- padre(X,Z), antenato(Z,Y). Questa regola si interpreta in questo modo: “X è antenato di Y se esiste un Z tale che X è padre di Z e Z è antenato di Y”. Si parla di definizione ricorsiva. Il Prolog, quindi, non è altro che un dimostratore di teoremi, quelli scritti sulla riga di comando dell’interprete. L’architettura di un interprete Prolog è una istanziazione di quella generale di un sistema di IA: ha una memoria di lavoro, dove risiedono i risultati parziali, ha una serie di operatori che sono le regole e i fatti del programma Prolog, e usa una strategia o controllo per stabilire quali regole o fatti sono applicabili, decidere quali applicare ed applicarli effettivamente. L’insieme della memoria di lavoro e della strategia di controllo prende il nome di motore inferenziale, mentre l’insieme delle regole e dei fatti viene chiamato base di conoscenza. In particolare, il Prolog compie una ricerca partendo dal goal o teorema da dimostrare, applicando via via le regole o i fatti del programma. Esplora quindi un albero in modalità all’indietro. La sua memoria di lavoro consiste del goal corrente più tutti i punti di scelta lasciati aperti, e la strategia seguita è una strategia in profondità. Mediante il Prolog si possono costruire sistemi esperti, anche detti sistemi basati sulla conoscenza, caratterizzati dall’essere dotati di una conoscenza che riguarda uno specifico campo, e dall’essere in grado di risolverne problemi relativi, che un esperto sarebbe in grado di risolvere. Nel caso di sistemi esperti basati sul Prolog, la conoscenza viene espressa sotto forma di programma logico, e il metodo di inferenza del Prolog è usato per trovare soluzioni al problema. L’uso del Prolog non è l’unico approccio per Il lato destro può anche contenere variabili non la realizzazione di sistemi esperti: si possono

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FANTASCIENZA utilizzare anche sistemi a regole di produzione. Essi condividono la struttura generale dei sistemi di IA: in questo caso la base di conoscenza contiene regole della forma “conseguente se antecedente” simili a quelle del Prolog, ma ove nel conseguente non sia presente una formula da derivare ma una o più azioni sulla memoria di lavoro. Le azioni possibili sono due: inserimento di un fatto oppure rimozione di un fatto. Tipicamente le regole esprimono conoscenza generale sul dominio mentre la conoscenza specifica sul caso in esame è espressa da fatti. La strategia di ricerca può essere sia all’indietro, come in Prolog (partendo dal goal e applicando le regole a ritroso fino a ottenere una memoria di lavoro con i fatti che descrivono il problema), sia in avanti (si pongono i fatti che descrivono il problema nella memoria di lavoro, si cercano le regole che presentano l’antecedente soddisfatto, se ne sceglie una e si applicano le azioni contenute nel conseguente, aggiungendo o rimuovendo un fatto dalla memoria stessa). La ricerca termina quando il goal appare nella memoria di lavoro. Per stabilire quali regole sono applicabili nei due casi si utilizzano algoritmi di unificazione o che mettano in corrispondenza tra loro (“matching”) formule atomiche. A differenza del Prolog, in un sistema a regole di produzione quando una regola viene scelta non si considerano più le possibili alternative. Alcuni sistemi a regole di produzione includono inoltre la gestione dell’incertezza, cioé sono in grado di assegnare alle proprie conclusioni un livello di confidenza. Attualmente però non è stato ancora raggiunto un consenso tra i ricercatori su come utilizzare i livelli di confidenza nell’inferenza. Sistemi esperti sono stati sviluppati in molti domini. Il primo e forse il più noto è MYCIN creato negli anni ‘70 all’Università di Stanford da EDWARD SHORTLIFFE. Aveva come obiettivo quello di diagnosticare malattie infettive del sangue e raccomandare antibiotici, con un dosaggio adattato al peso del paziente. Il sistema offriva buone prestazioni, ma non venne mai utilizzato, per problemi legali. Alcuni settori in cui possono essere impiegati sistemi esperti sono: a) diagnosi, nella quale si cerca di individuare una

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malattia di un essere umano o il malfunzionamento di un macchinario sulla base dei sintomi, ovvero delle manifestazioni osservabili della malattia o malfunzionamento; b) monitoraggio, in cui l’obiettivo è di mantenere sotto controllo un processo, raccogliendo informazioni e effettuando stime sul suo andamento; c) pianificazione, in cui l’obiettivo è quello di raggiungere un certo obiettivo con le risorse di cui si dispone; d) interpretazione di informazioni e segnali, in cui si vuole individuare l’occorrenza di particolari situazioni di interesse nei dati in ingresso. Lo sviluppo di un sistema esperto richiede la scrittura delle regole generali sul dominio, che devono essere raccolte intervistando un esperto del dominio stesso. Questo processo, conosciuto con il nome di estrazione di conoscenza, è risultato essere estremamanente lungo e difficile. Al fine di automatizzarlo, è possibile usare l’apprendimento automatico, discusso nella prossima sezione. Ci si potrà chiedere perchè siano stati realizzati solo sistemi esperti in domini ristretti e non si siano utilizzate queste tecniche per sviluppare un sistema in grado di essere applicato in ogni possibile situazione, comprese quelle cosiddette di senso comune, ovvero relative a ragionamenti che ciascuno di noi fa quotidianamente. La ragione è l’eccessiva complessità della fase di stesura delle regole. Recentemente un’azienda statunitense, la Cycorp [Cyc2005], sta tentando nuovamente di codificare il senso comune in un sistema esperto. APPRENDIMENTO AUTOMATICO SIMON nel 1984 ha dato la seguente definizione di apprendimento [Sim1984]: “L’apprendimento consiste di cambiamenti del sistema che siano adattativi, nel senso che mettono in grado il sistema di svolgere lo stesso compito o compiti estratti dalla medesima popolazione in maniera più efficace ed efficiente la prossima volta”. Di sicuro, al fine di realizzare macchine che possano dirsi intelligenti, è necessario dotarle della capacità di estendere la propria conoscenza e le proprie abilità in modo autonomo.

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Introduzione all’I.A. I due impieghi principali dell’apprendimento automatico sono l’estrazione di conoscenza e il miglioramento delle prestazioni di una macchina. La conoscenza estratta può poi essere utilizzata da una macchina come base di conoscenza di un sistema esperto, oppure dagli esseri umani, nel caso della scoperta di nuove teorie scientifiche. Il miglioramento delle prestazioni di una macchina si ha ad esempio quando si incrementano le capacità percettive e motrici di un robot. Le tecniche di apprendimento si possono suddividere, come le tecniche di IA in generale, in simboliche e subsimboliche. La tecnica di apprendimento simbolico più interessante è l’apprendimento induttivo: il sistema parte dai fatti e dalle osservazioni derivanti da un insegnante o dall’ambiente circostante, e li generalizza ottenendo conoscenza che, auspicabilmente, sia valida anche per casi non ancora osservati (induzione). Nell’apprendimento induttivo da esempi, l’insegnante fornisce un insieme di esempi e controesempi di un concetto, e l’obiettivo è quello di inferire una descrizione del concetto stesso. Un esempio è composto da una descrizione di una istanza del dominio del discorso e da una etichetta; quest’ultima può essere + se l’istanza appartiene al concetto da apprendere, o – se l’istanza non gli appartiene (controesempio). Un concetto, quindi, non è altro che un sottoinsieme dell’insieme di tutte le possibili istanze del domino del discorso, o universo. L’insieme di esempi e controesempi forniti dall’insegnante prende il nome di training set. La descrizione del concetto che si vuole apprendere deve essere tale da potersi usare per decidere se una nuova istanza, non appartenente al training set, appartenga o meno al concetto. La descrizione del concetto deve essere quindi un algoritmo che, data in ingresso una descrizione dell’istanza, restituisca in uscita +, se l’istanza appartiene al concetto, o –, se l’istanza non appartiene al concetto. Nel primo caso si parla di esempio appartenente alla classe positiva e nel secondo di esempio appartenente alla classe negativa.

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I sistemi di apprendimento induttivo da esempi possono essere classificati in base al linguaggio con il quale è possibile descrivere le istanze e i concetti, che sono principalmente due: linguaggi attributo valore e linguaggi del primo ordine. Ai primi corrispondono, come linguaggi di descrizione dei concetti, gli alberi di decisione e le regole di produzione, mentre ai secondi corrispondono descrizioni dei concetti anch’esse del primo ordine. I linguaggi di descrizione delle istanze di tipo attributo valore descrivono ciascuna istanza per mezzo dei valori assunti da un insieme finito di attributi uguali per tutte le istanze. Ad esempio; si supponga che le istanze siano giornate e che il concetto che vogliamo imparare sia “giornata adatta per giocare a golf” [Mit1997]. Supponiamo di aver individuato 4 attributi che pensiamo siano rilevanti rispetto al concetto da imparare: Tempo, Temperatura, Umidità e Vento. Tempo può assumere solo tre valori: soleggiato, coperto e pioggia; Vento può assumere solo due valori: vero (v) e falso (f), nel caso sia presente o non sia presente vento. Temperatura e Umidità invece sono attributi continui, possono assumere quindi valori da un intervallo dell’insieme dei reali. Temperatura è espressa in gradi Fahrenheit e Umidità è espressa in percentuale. Nel caso di istanze descritte da un linguaggio attributo valore possiamo rappresentare il training set per mezzo di una tabella con una colonna per attributo e una riga per istanza. La tabella inoltre avrà una colonna aggiuntiva che conterrà la classe di appartenenza dell’istanza, ovvero + se l’istanza appartiene al concetto e – se l’istanza non appartiene al concetto. Un possibile training set per il problema del golf è rappresentato in tabella 1. Gli alberi di decisione sono un linguaggio di descrizione dei concetti che può essere usato quando le istanze sono descritte da linguaggi attributo valore. Negli alberi di decisione ogni nodo corrisponde ad un test su un attributo, e ciascun ramo che parte dal nodo è etichettato con il risultato del test. Il test su un attributo discreto consiste in un test di uguaglianza e

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FANTASCIENZA

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l’unica differenza che nell’apprendimento Tempo Temperatura Umidità Vento Classe automatico il conseguente ha una forma fissa: soleggiato 75 70 v + è del tipo “Classe=valore”. Nell’antecedente possono comparire confronti di un attributo soleggiato 80 90 v con un valore: nel caso di attributi discreti soleggiato 85 85 f il confronto è fatto mediante l’uguaglianza, soleggiato 72 95 f mentre nel caso di attributi continui il confronto soleggiato 69 70 f + è fatto mediante una disuguaglianza. Le regole coperto 72 90 v + sono utilizzate per classificare una nuova istanza coperto 83 78 f + restituendo la classe indicata dalla prima regole coperto 64 65 v + il cui antecedente è verificato nell’istanza. Vediamo un esempio di insieme di regole di coperto 81 75 f + produzione per il problema del golf: pioggia 71 80 v Classe = + ← Tempo = coperto pioggia 65 70 v Classe = + ← Tempo = pioggia and Vento = pioggia 75 80 f + falso pioggia 68 80 f + Classe = - ← Tempo = soleggiato and Umidità pioggia 70 96 f + > 75 Classe = - ← Tempo = pioggia and Vento = Tabella 1: istanze di giornate (da [Mit97]) vero Classe = + L’ultima regola viene chiamata regola di i possibili risultati sono i possibili valori discreti dell’attributo. Ad esempio, nel caso di Tempo i possibi- default perchè indica la classe in delle istanze quando li risultati sono soleggiato, coperto e pioggia. Il test nessuna altra regola è applicabile. Si noti che l’insieme di regole di produzione su un attributo continuo consiste nel confronto delrestituite da un sistema di apprendimento automatico l’attributo con una soglia, e i possibili risultati sono due: attributo minore o uguale della soglia o attributo costituisce la base di conoscenza di un sistema a regole maggiore della soglia. Le foglie sono etichettate con di produzione, sebbene particolarmente semplice in + o –. L’albero può essere usato per classificare un quanto non presenta concatenazione tra le regole. Esistono numerosi sistemi in grado di apprendere nuova istanza in questo modo: si parte dalla radice e alberi di decisione: i più noti sono Cart, sviluppato da si considera il test nella radice. In base al valore per l’istanza dell’attributo usato dal test, si sceglie il ramo BREIMAN, FRIEDMAN, OLSHEN e STONE, e ID3, sviluppato lungo cui scendere. Si ripete il procedimento fino a da QUINLAN, entrambi nei primi anni ‘80. Tra i che non si arriva ad una foglia: l’etichetta della foglia sistemi in grado di apprendere regole di produzione indica l’appartenenza o meno dell’istanza al concetto. ricordiamo CN2 di CLARK e NIBLETT sviluappato nella Un albero di decisione per il problema del golf è rap- seconda metà degli anni ‘80. I linguaggi attributo valore hanno alcune presentato in figura 6. limitazioni: essi non sono adatti a descrivere istanze Le regole di produzione sono un altro linguaggio di costituite di sottoparti e aventi relazioni tra le descrizioni dei concetti che può essere usato quando le sottoparti. Ad esempio, si supponga che le istanze istanze sono descritte da linguaggi attributo valore. del dominio del discorso siano famiglie. Le famiglie Come nei sistemi a regole di produzione già visti, le hanno un numero variabile di componenti, quindi regole di produzione nell’apprendimento automatico per descriverle attraverso un insieme fisso di attributi hanno la forma “conseguente se antecedente” con dovremmo prevedere un numero di attributi pari al

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Introduzione all’I.A. Tempo

Umidità ≤5 vero

falso

+

-

Vento

+

vero

falso

-

+

Figura 6: albero di decisione per il problema del golf

numero massimo di componenti di una famiglia moltiplicato per il numero di attributi che vogliamo rappresentare per ogni componente. Per le famiglie con un numero non massimo di componenti, ad alcuni attributi si dovrà assegnare un valore di “non significativo”. In questi casi risulta essere più efficace utilizzare la programmazione logica come linguaggio di rappresentazione. Ad esempio, se voglio rappresentare la famiglia Rossi con componenti Giorgio, Stefano e Andrea nella quale Giorgio è il padre di Stefano e Stefano è il padre di Andrea scriverò semplicemente: famiglia(rossi,giorgio). famiglia(rossi,stefano). famiglia(rossi,andrea).

padre(X,Y), padre(Y,Z).

Con gli alberi di decisione o le regole di produzione non si sarebbe potuto esprimere questo concetto. L’area di ricerca che si occupa dell’apprendimento di programmi logici prende il nome di PROGRAMMAZIONE LOGICA INDUTTIVA. I due sistemi più noti in grado di apprendere programmi logici sono Progol di MUGGLETON e Aleph di SRINIVASAN. I sistemi di apprendimento, sia da linguaggi attributo valore che da programmi logici, hanno avuto una vasta gamma di applicazioni, che va dalla diagnosi di malattie alla predizione della relazione struttura-attività nella progettazione di medicine, alla predizione della carcinogenicità delle sostanze chimiche. Con l’aumento della quantità di dati che vengono memopadre(giorgio,stefano). padre(stefano,andrea). rizzati ogni giorno dalle aziende e dalle organizzaIl linguaggio di descrizione dei concetti in questo zioni in generale, gli algoritmi di apprendimento sono caso è la programmazione logica stessa. Essa risulta sempre più importanti in quanto consentono di esessere più espressiva degli alberi di decisione e delle trarre da questa massa di dati informazioni nascoste, regole di produzione in quanto i programmi logici nuove e potenzialmente utili. Si parla in questo caso possono contenere variabili e quantificatori, e le regole di data mining, ovvero di estrazione di conoscenza da possono essere ricorsive. Mediante la programmazione dati grezzi. logica è possibile esprimere il concetto di famiglia che contiene un nonno paterno: TECNICHE SUBSIMBOLICHE nonno_paterno(Famiglia):famiglia(Famiglia,X), famiglia(Famiglia,Y), Vedremo ora tre tecniche subsimboliche: le reti neurafamiglia(Famiglia,Z). li, gli algoritmi genetici e l’intelligenza degli sciami.

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RETI NEURALI L’idea di simulare il funzionamento del cervello umano e animale per ottenere comportamenti intelligenti risale a prima della realizzazione del computer, in particolare all’articolo del 1943 di MCCULLOCH e PITTS [McCPit1943] nel quale si propose un modello matematico del neurone umano e si mostrò come reti composte di tali neuroni artificiali fossero in grado di rappresentare complesse funzioni booleane. Il modello del neurone attualmente più diffuso è chiamato neurone sigmoidale ed è costituito da una unità con n ingressi numerici e una uscita numerica. L’uscita è calcolata in funzione degli ingressi nel seguente modo: ciascun ingresso xi viene moltiplicato per un peso Wi, i prodotti di queste moltiplicazioni sono sommati e il risultato viene fornito in ingresso ad una funzione sigmoidale. Un modello di questo tipo di neurone è rappresentato in figura 7, insieme all’aspetto della funzione sigmoidale. Si noti che nella somma c’è un termine costante pari a -θ che viene assimilato ad un comune ingresso supponendo che

l’ingresso sia sempre a -1 e che il peso per quell’ingresso valga θ. Questo modello si comporta in maniera simile a un neurone naturale: ovvero si “attiva” quando riceve gli ingressi “giusti” e si “disattiva” in corrispondenza di ingressi “sbagliati”. Un neurone è attivo quando la sua uscita è vicina a +1 ed è disattivo quando la sua uscita è vicina a -1. Quali siano gli ingressi giusti o sbagliati è determinato dai valori dei pesi degli ingressi: valori positivi dei pesi fanno sì che i relativi ingressi tendano a portare il neurone verso l’attivazione e valori negativi verso la disattivazione. I neuroni sono poi collegati tra di loro in reti, quindi l’uscita di un neurone può essere l’ingresso di altri neuroni e la sua attivazione condiziona l’attivazione dei neuroni a valle. Il neurone sigmoidale deriva dal percettrone proposto nel 1962 da Rosenblatt: differisce da esso perchè al posto della funzione sigmoidale il percettrone ne ha una a gradino, cioè una funzione che è 0 per i valori minori di 0 e 1 per i valori maggiori o uguali

θ

-1

x1

w1

x2

w2

y

...

xn

wn

Figura 7: modello del neurone artificiale

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Introduzione all’I.A. a 0. Un singolo neurone sigmoidale è in grado di rappresentare una certa classe di concetti a seconda dei suoi pesi: in particolare, è in grado di rappresentare quei concetti nei quali gli esempi sono separati dai controesempi da un iperpiano (immaginando di considerare lo spazio degli ingressi come uno spazio euclideo). Quindi isolano nello spazio degli ingressi un semispazio, ovvero una regione delimiatata da un iperpiano (nel caso di due ingressi si tratta di una retta). Per rappresentare concetti più complessi è necessario comporre i neuroni in reti. Le reti più semplici si chiamano reti “in avanti” (“feedforward”) e sono formate da strati di neuroni: gli input sono collegati al primo strato di neuroni, gli output del primo strato di neuroni sono collegati agli input del secondo strato e così via, fino ad arrivare all’ultimo strato i cui output diventano gli output della rete. Gli strati di neuroni dal primo al penultimo sono detti “nascosti”. Si è visto che reti a due strati sono in grado di isolare nello spazio degli ingressi regioni convesse e reti a tre strati sono in grado di isolare regioni arbitrarie (anche non connesse, ovvero divise in parti disgiunte) quindi sono in grado di rappresentare concetti generali. Come fare però ad ottenere una rete che identifichi un concetto? A differenza dei sistemi basati sulla conoscenza, nelle reti neurali scegliere i pesi a mano risulterebbe troppo complesso. Per questo si utilizzano algoritmi di apprendimento. Anche in questo caso abbiamo un training set, che contiene un insieme di coppie (ingressi, uscite) con la differenza che gli ingressi sono tutti continui, le uscite possono essere più di una e anch’esse continue, ovvero non sono + o – ma numeri reali. Si cerca in questo caso il valore dei pesi per il quale è minima una certa funzione dell’errore sul training set, ovvero una funzione delle differenze tra le uscite nel training set e quelle della rete quando in ingresso sono forniti i valori presenti nella coppia. La funzione più utilizzata è la somma degli errori al quadrato. L’algoritmo più diffuso per apprendere in reti neuronali multistrato prende il nome di

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“backpropagation” ed è stato proposto da RUMELHART, HINTON e WILLIAMS nel 1986. Esso consiste nel calcolare l’errore dello strato d’uscita della rete su ciascun esempio e nel propagarlo all’indietro verso i neuroni degli strati nascosti. Sulla base dell’errore propagato vengono poi aggiornati i pesi dei neuroni. Se dopo aver considerato in questo modo tutti gli esempi l’errore è sceso sotto una soglia prefissata ci si ferma, altrimenti si considerano un’altra volta tutti gli esempi del training set. Grazie a questo algoritmo, le reti multistrato di neuroni sigmoidali hanno avuto un grande successo e sono stati applicati in molti campi, tra cui il riconoscimento di caratteri scritti a macchina o manoscritti, il riconoscimento di targhe, le previsioni finanziarie e il controllo di frodi. ALGORITMI GENETICI Mentre le reti neurali guardano al cervello umano per produrre un comportamento intelligente, gli algoritmi genetici guardano alla teoria dell’evoluzionismo. Sono algoritmi per la ricerca nello spazio degli stati, nei quali si considera uno stato come un individuo, all’interno di una popolazione di individui che viene fatta evolvere secondo le leggi dell’evoluzionismo in modo da ottenere stati che siano buone soluzioni del problema. Per poter applicare un algoritmo genetico, è necessario rappresentare lo stato come una sequenza di simboli (nel caso più frequente una sequenza di bit), che rappresenta il patrimonio genetico (o genotipo) di un individuo e lo caratterizza completamente. È poi necessaria una funzione di fitness che, data una sequenza di simboli, dica quanto è “fit” l’individuo ovvero quanto è adatto a sopravvivere nel suo ambiente. Nel caso di un algoritmo genetico, la funzione di fitness rappresenta la vicinanza dello stato ad una soluzione o la sua bontà come soluzione. Un algoritmo genetico parte da una popolazione iniziale composta da individui generati a caso. Esegue poi un ciclo che termina quando la fitness del miglior individuo supera una certa soglia, ovvero quando la popolazione contiene una soluzione sufficientemente buona. Ad ogni passo del ciclo si genera una nuova

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FANTASCIENZA popolazione utilizzando gli operatori di selezione, incrocio e mutazione. In pratica, ogni iterazione del ciclo corrisponde a una generazione. La nuova popolazione è generata selezionando coppie di individui a caso ma con una probabilità che dipende dalla loro fitness: individui con fitness più alta hanno maggiore possibilità di essere selezionati. Poi si applica l’operatore d’incrocio che, data la coppia di individui, ne produce un’altra, ottenuta “mescolando” il patrimonio genetico in diversi modi: nel caso di genotipi rappresentati come sequenze di bit di lunghezza fissa n, l’operatore di incrocio più semplice sceglie un numero intero a caso i minore di n e copia nel primo discendente i primi i bit del primo genitore e gli ultimi n-i bit del secondo genitore, mentre nel secondo discendente copia l’inverso. I discendenti così ottenuti sono poi soggetti a mutazione, nella quale si effettuano a caso piccoli cambiamenti del genotipo. Il processo di selezione, incrocio e mutazione viene ripetuto fino a che non si ottiene una nuova popolazione di dimensione prefissata. La fitness di tutti gli individui della nuova popolazione è poi calcolata. Esistono molte varianti di questo tipo di algoritmo. Ad esempio in alcune una parte della vecchia popolazione viene trasferita direttamente in quella nuova, utilizzando la selezione. Gli algoritmi genetici possono essere utilizzati anche per svolgere compiti di apprendimento automatico. In questo caso occorre rappresentare le descrizioni del concetto da imparare come sequenza di simboli: la fitness sarà data dall’accuratezza con la quale una descrizione del concetto classifica gli esempi del training set. Gli algoritmi genetici hanno avuto numerose applicazioni in biologia, ingegneria e nelle scienze fisiche e sociali. Una delle più interessanti consiste nella programmazione automatica, ovvero nella generazione automatica di programmi per calcolatore per risolvere un certo problema. In questo caso il genotipo degli individui è costituito da alberi che rappresentano un singolo programma in un dato linguaggio di programmazione. L’operatore di incrocio consiste nel sostituire un sottoalbero di un genitore

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con un sottoalbero dell’altro genitore. La funzione di fitness è calcolata eseguendo il programma su un insieme di dati di ingresso. INTELLIGENZA DEGLI SCIAMI Gli algoritmi basati sull’intelligenza degli sciami (swarm intelligence) cercano di riprodurre il comportamento degli insetti che vivono in colonie, come formiche, api, termiti e vespe. Questi insetti sono infatti individualmente semplici ma danno luogo a comportamenti collettivi molto complessi, come ad esempio la costruzione di un formicaio e l’approvvigionamento di cibo. Si dice che il comportamento intelligente “emerga autonomamente” dal comportamento dei singoli insetti, non essendoci un supervisore o coordinatore a dirigere gli individui. Gli algoritmi più famosi di questa famiglia sono quelli che riproducono colonie di formiche nella ricerca del cibo. Le formiche sono in grado di trovare la strada più breve dal formicaio al cibo. Nel loro movimento ciascuna lascia sul terreno una sostanza odorosa chiamata feromone, che svanisce lentamente nel tempo; gli spostamenti puntano verso le zone dove il livello di feromone è più alto. Le formiche partono inizialmente dal formicaio seguendo direzioni casuali, in quanto non c’è feromone sul terreno. La prima formica che trova il cibo e lo riporta al formicaio è quella che ha seguito il percorso più breve di andata e ritorno. Le altre che partono dal formicaio tendono quindi a seguire la strada percorsa dalla prima formica, essendo quella più odorosa. Il livello di feromone sul percorso più breve tende così a rinforzarsi, producendo quella che si chiama retroazione positiva. Dopo una prima fase in cui le formiche vagano casualmente sul terreno, si arriva ad una fase in cui tutte le formiche seguono il cammino più breve. Algoritmi basati sulla riproduzione di sciami sono stati efficacemente utilizzati in numerosi ambiti: ad esempio, per il problema del commesso viaggiatore, per l’indirizzamento dei pacchetti di dati nelle reti informatiche, per l’indirizzamento di veicoli nella rete stradale e per l’assegnazione di lavorazioni su macchinari.

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Introduzione all’I.A. DIBATTITO SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE L’IA ha scatenato un grande dibattito nella comunità scientifica e filosofica riguardo cosa significhi essere intelligenti, se le macchine potranno mai esserlo, se avranno mai una mente, se è eticamente corretto costruire macchine intelligenti… Questi temi sono in realtà discussi da secoli nella comunità filosofica ma recentemente hanno ricevuto molta attenzione a causa dei progressi dell’IA. Anche la letteratura e il cinema vi si sono molto interessati, come è testimoniato dalla grande quantità di libri e film in cui compaiono robot – umanoidi o meno – e macchine intelligenti. Terminator 2 - Il giorno del giudizio di JAMES CAMERON (1991) si apre con la scritta “Los Angeles, 2029 A.D.” mentre sullo sfondo appaiono le immagini di una guerra tra umani e robot, scatenata dal cervello elettronico che comanda tutti i dispositivi di difesa della Terra, Skynet, diventato autocosciente e sfuggito al controllo dei suoi creatori. Skynet è basato su un potente processore neurale e ha impiegato 25 giorni a diventare autocosciente, attraverso un velocissimo processo di apprendimento. I filosofi distinguono due ipotesi: l’IA debole e l’IA forte. L’IA debole afferma che le macchine sono (o saranno) in grado di comportarsi come se fossero intelligenti, ovvero di risolvere tutti i problemi che l’intelligenza umana sa risolvere. L’IA forte invece afferma che le macchine sono (o saranno) in grado di pensare, ovvero di avere una intelligenza indistinguibile dalla mente umana. Varie critiche sono state mosse a entrambe le ipotesi. Se consideriamo l’IA debole, molti filosofi hanno affermato: “le macchine non saranno mai in grado di svolgere il compito X” dove X è stato di volta in volta “battere un umano a scacchi”, “scrivere musica”, “riconoscere il parlato”, “fare scoperte scientifiche”, “superare il test di Turing” e altri. In molti casi queste affermazioni sono state smentite dai fatti: una macchina ha battuto il campione del mondo di scacchi, brani musicali generati dal computer sono stati

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ritenuti indistinguibili da brani composti da un essere umano, la lingua parlata viene compresa dai computer e piccole ma significative scoperte sono state fatte dai computer in matematica, astronomia, chimica, mineralogia, biologia e informatica. È difficile quindi affermare ora con certezza che alcuni compiti non potranno mai essere svolti da una macchina. Computer che superano il test di Turing invece non sono ancora stati costruiti: ogni anno dal 1991 viene tenuta una competizione chiamata Loebner Prize in cui i partecipanti sono macchine che vengono sottoposte al test. Il costruttore della prima macchina che riuscirà a superarlo riceverà 100.000 dollari. Ciascun giudice, dopo la conversazione, assegna all’interlocutore un punteggio da 1 a 10 dove 1 significa computer e 10 essere umano. I punteggi medi attuali si stanno avvicinando sempre più a 5. In merito all’IA forte, invce, come facciamo a sapere se una macchina ha un’intelligenza indistinguibile da un essere umano? Abbiamo visto che la macchine svolgono un numero sempre maggiore di compiti in passato esclusivi degli uomini, si può quindi ipotizzare che, un giorno potranno risultare indistinguibili da un essere umano, a meno che non vengano nel frattempo scoperte impreviste limitazioni tecniche. Ma per essere effettivamente indistinguibili dovranno, secondo molti filosofi, divenire autocoscienti, ovvero consapevoli dei propri stati mentali e delle proprie azioni, come gli umani, ed essere dotate di libero arbitrio. Alcuni filosofi escludono questa possibilità dal momento che i comportamenti delle macchine sono regolati da leggi fisiche deterministiche che non lasciano spazio a scelte. Questa obiezione non è valida se si crede nel materialismo, ovvero nella teoria secondo la quale non esiste un’anima immateriale separata dal corpo, ma solo oggetti materiali, e di conseguenza ogni stato mentale non è altro che uno stato del cervello regolato da leggi fisiche (di natura diversa da quelle che regolano i computer ma pur sempre leggi fisiche): ogni neurone risponde agli stimoli di ingresso in una maniera preordinata secondo precise leggi elettrochimiche. Nonostante questo, noi siamo capaci di libero arbitrio, di provare emozioni e di comportarci irrazionalmente. Ciò significa che

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FANTASCIENZA dobbiamo rivedere la nostra nozione ingenua di libero arbitrio e pensare che sistemi molto complessi come il cervello possano manifestare proprietà olistiche, ovvero che si applicano al sistema nell’insieme ma non alle singole parti che lo compongono. Se si crede nel materialismo, quindi, non si può escludere che una macchina, un giorno, diventi autocosciente. Questo è vero a maggior ragione sulla base dei recenti sviluppi delle reti neurali artificiali, che mirano proprio a riprodurre il funzionamento fisico del cervello umano. Se non si crede nel materialismo, si crede nel dualismo, inizialmente proposto da Cartesio (15961650), che prevede un’anima separata dal corpo materiale. Questa è anche la teoria di molte religioni, secondo le quali l’anima è una proprietà del solo uomo, donata da Dio e immortale, ed è essa che determina la coscienza e il libero arbitrio. In questo caso chiaramente non si ammette che una macchina possa avere queste stesse proprietà. Secondo i filosofi e gli scienziati che non hanno convinzioni religiose, il dualismo è però attaccabile sotto vari aspetti [But2002]. Prima di tutto, se la mente è separata dall’uomo, come fa a comandarne le azioni, ovvero come fa a interagire con i tessuti dell’uomo per provocare quelle reazioni chimiche che risultano in un’azione fisica. Per ammettere il dualismo, occorrerebbe quindi negare le leggi fondamentali della fisica. In secondo luogo, se la mente è indipendente dal cervello, perché noi abbiamo un cervello? Terzo, se i pensieri e le emozioni ci derivano dall’esterno, perché un cervello stimolato per mezzo di elettrodi e droghe reagisce generando pensieri? Quarto e ultimo, perché la rimozione chirurgica di parti del cervello in pazienti affetti da malattie cerebrali porta a una alterazione del loro comportamento? Supponendo quindi di credere nel materialismo e che in futuro non si scoprano difficoltà tecniche che limitino le capacità delle macchine, ci si può chiedere quando una macchina diventerà autocosciente. Secondo il materialismo, una rete neurale complessa quanto il cervello umano dovrebbe presentarne le stesse proprietà, tra cui l’autocoscienza e il libero

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arbitrio. GIORGIO BUTTAZZO in [But2002] ha calcolato la data in cui un personal computer sarà in grado di simulare una rete neurale complessa quanto il cervello umano. Quest’ultimo possiede ha circa mille miliardi di neuroni (1012), ogni neurone ha circa mille (103) connessioni con gli altri neuroni (sinapsi), per un totale di 1015 sinapsi. Abbiamo visto che ad ogni ingresso di un neurone è associato un peso che ha valore reale. Per rappresentare un numero reale in un calcolatore occorrono 4 bytes di memoria. Di conseguenza per simulare 1015 sinapsi occorre una memoria di almeno 4⋅1015 bytes ovvero 4 milioni di Gigabytes. Stimando in un milione di Gigabytes la memoria necessaria a memorizzare lo stato dei neuroni più le altre variabili ausiliarie necessarie per la simulazione, si ottiene un totale di 5 milioni di Gigabytes. Quando sarà disponibile una tale memoria per personal computer? Fino ad oggi le capacità dei calcolatori sono state descritte dalla legge enunciata nel 1973 da GORDON MOORE, uno dei fondatori dell’Intel, secondo cui il numero dei transistor sarebbe raddoppiato ogni 18 mesi fino al raggiungimento dei limiti fisici. Questo equivale a una moltiplicazione per un fattore 10 ogni 4 anni. Dato che la capacità delle memorie è una funzione lineare del numero dei transistor, per la capacità C in bytes della memoria RAM di un PC si può scrivere la seguente legge C=10(Anno-1966)/4 Questa legge è stata valida dall’introduzione dei personal computer nel 1980 fino ad oggi. Supponendo che rimanga valida anche nel futuro, l’anno in cui si otterrà un certo valore di capacità C è dato da Anno=1966+ 4 log10 C Per C uguale a 5⋅106 Gigabytes si ottiene Anno = 2029, esattamente l’anno in cui, in Terminator 2, Skynet prende coscienza! Ci dobbiamo ora chiedere se valga la pena di costruire macchine del genere. Contro l’IA vi sono varie critiche, la più terrificante delle quali fa riferimento a scenari appunto quali quello di Terminator 2, in cui le macchine prendono il controllo e cercano di annullare la razza umana. Dire oggi se questi scenari si potranno realizzare è molto difficile: data la limitatezza delle capacità dei sistemi attuali, prevedere se sarà

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Introduzione all’I.A. Alan Turing

BIBLIOGRAFIA [But2002] G. Buttazzo, Coscienza Artificiale: Missione Impossibile?, Mondo Digitale, N. 1, marzo 2002. http://www.mondodigitale.net/Rivista/02_numero_uno/Buttazzo.pdf [Cyc2005] Cycorp, Inc, 2005. http://www.cyc.com/ [McCPit1943] W. S. McCulloch, W. Pitts, A logical calculus of the ideas immanent in nervous activity, Bullettin of Mathematical Biophysics, 5, pp. 115-137, 1943. [Mel2002] P. Mello, Voce “Intelligenza Artificiale” del Dizionario interdisciplinare di Scienza e Fede, Urbaniana University Press, 2002. [Mit1997] T. M. Mitchell, Machine Learning, McGraw-Hill, 1997. [RusNor2005] S. Russell, P. Norvig, Intelligenza artificiale. Un approccio moderno, 2a edizione, Pearson Education Italia, 2005. [Sim1984] Simon, H. A. “Why should machines learn” In Michalski, R. S., Carbonell, J. G., and Mitchell, T. M., editors, Machine Learning - An Artificial Intelligence Approach, Springer-Verlag, Berlin, pages 25—37, 1984. [Tur1950] A. Turing, Computing machinery and intelligence, Mind 59, pp. 433-460, 1950, ristampato in D. R. Hofstadter, D. C. Dennett, L’io della mente, Adelphi, 1985. ALTRE PUBBLICAZIONI UTILI L. Carlucci Aiello, M.Dapor, Intelligenza Artificiale: i primi 50 anni, Mondo Digitale, N. 10, giungo 2004. http://www.mondodigitale.net/Rivista/04_numero_tre/Aiello,%20Dapor%20p.%203-20.pdf L. Console, E. Lamma, P. Mello, M. Milano, Programmazione logica e Prolog, UTET, Torino, 1997. M. Gori, Introduzione alle reti neurali artificiali, Mondo Digitale, N. 8, dicembre 2003. http://www.mondodigitale.net/Rivista/04_numero_uno/Gori_p.4-20.pdf P. Odifreddi, Il diavolo in cattedra. La logica da Aristotele a Gödel, Einaudi, Collana Einaudi Tascabili, Saggi, 2004

possibile realizzare sistemi autocoscienti (al di la di pronostici azzardati come quello sopra) è molto difficile. Supponendo poi che ci si possa riuscire, cosa ci fa pensare che questi sistemi debbano produrre la stessa aggressività mostrata dall’uomo nel corso della sua storia? Inoltre, la scienza finora ha proceduto per passi incrementali, cosa ci fa pensare che nel futuro si verificheranno delle discontinuità del progresso che porteranno l’uomo a non accorgersi del pericolo e a perdere il controllo? A favore dell’IA si può annoverare la possibilità di aumentare enormemente le capacità dell’uomo di conoscere il mondo circostante, di costruire beni e offrire servizi. Inoltre le macchine possono rispondere ad un nostro desiderio di immortalità: possono rappresentare l’opportunità di trasferire la mente umana su un supporto più duraturo, ad esempio utilizzando le reti neurali artificiali. In questo modo verremmo liberati dalle limitazioni imposte dalla nostra natura biologica. Si tratterebbe della nascita di una nuova umanità, forse il passo successivo della nostra evoluzione biologica. C’è addirittura un movimento, chiamato transumanismo, che spera in questo futuro. Ovviamente si tratta di un futuro che

LINKS Associazione Italiana per l’IA: http://www.aixia.it/ Associazione Europea per l’IA: http://www.eccai.org/ Associazione Americana per l’IA: http://www.eccai.org/ Sito divulgativo sull’Intelligenza Artificiale: http://www.scienzagiovane.unibo. it/intartificiale.html Corsi di Intelligenza Artificiale all’Università di Ferrara: http://www.ing.unife.it/informatica/FondIA/ http://www.ing.unife.it/informatica/AppliIA/ IMMAGINI Garry Kasparov: http://www.chessninja.com/ Deep Blue: http://www-03.ibm.com/ Alan Turing: http://it.wikipedia.org/wiki/Wikimedia

la maggior parte dei teorici della morale aborrisce, considerando la conservazione della vita umana come un bene supremo. Un tale trasferimento della mente da un substrato biologico ad un substrato tecnologico potrebbe essere però eseguito come ultima risorsa prima della morte di un individuo. Sono comunque problemi che è troppo presto porsi. Siamo ancora troppo lontani dal costruire macchine con intelligenza paragonabile a quella umana, e non è detto che lungo la strada non s’incontrino difficoltà insormontabili. Se tali macchine potranno essere realizzate, sarà sicuramente necessario discutere le implicazioni etiche della loro costruzione.

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e chiedessimo a un appassionato di fumetti chi è Luc Orient, potremmo trovarci di fronte a due reazioni diverse, e per di più del tutto opposte fra loro: o uno sguardo interrogativo, tipico di chi non ha mai sentito parlare di questo personaggio, o uno nostalgico e sognante, che tradisce colui che torna con la memoria a un tempo remoto e probabilmente più felice di quello presente. Almeno in Italia, infatti, Luc Orient è apparso tra il 1967 e il 1975, con nove delle sue diciassette avventure, e da allora è caduto in un oblio che ha pochi uguali nel mondo dei fumetti. È anche vero che,

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come tutto ciò che è stato prodotto dalla cosiddetta scuola franco-belga, non va più molto di moda; ed è altrettanto vero che tutte le sue storie, tranne una, sono state pubblicate sul “Corriere dei Piccoli/dei Ragazzi”, rivista che, dopo le trasformazioni degli anni ‘70 e la sua conseguente scomparsa, ha lasciato una montagna di cadaveri dietro le sue pagine. Ma è probabile che tra le molte vittime illustri di quegli anni lontani Luc Orient sia proprio il personaggio che forse meno avrebbe meritato questo oblio: non tanto perché si tratta di un fumetto di fantascienza (qualcuno dirà “l’ennesimo” fumetto di questo genere), quanto perché è uno dei pochi che sia riuscito a fondere perfettamente il lato fantascientifico di una storia con quello avventuroso. Infatti, se andiamo a fare una disamina oggettiva di quanto ha offerto finora questo genere, non possiamo non renderci conto che in genere uno dei due lati prevale sull’altro: in fumetti come Nathan Never, Valerian o Jeff Hawke gli elementi fantascientifici hanno spesso il sopravvento, riempiendo le loro storie di alieni e di situazioni astruse che alla lunga diventano fini a sé stesse e finiscono per appiattire la narrazione, mentre in altri come Capitan Harlock o Blake & Mortimer la parte avventurosa, in genere dopo un buon inizio, riduce la storia a una “normale” sequenza di sparatorie, inseguimenti e colpi di scena più o meno prevedibili. Non che questo sminuisca il valore dei fumetti sopracitati: il punto è che le storie di Luc Orient, come pure quelle del suo illustre predecessore Flash Gordon (al quale viene spesso paragonato, anche se a torto), non presentano mai, o quasi, questo tipo di problema, cosa che dà loro un fascino particolare e gli consente di resistere all’implacabile azione del tempo anche quando molti dei temi trattati diventano fatalmente obsoleti. Dubito, infatti, che tra

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LUC ORIENT qualche decina di anni Nathan Never o Valerian, se le loro avventure dovessero cessare fra non molto, riuscirebbero a mantenere le schiere di appassionati nostalgici che tuttora vantano Flash Gordon e Luc Orient. Lo sceneggiatore di questo fumetto è il belga MICHEL REGNIER, detto GREG, nato nel 1931 e affermatosi negli anni ‘50 dopo aver scritto alcune storie di “Spirou” e diverse serie umoristiche minori; diventato caporedattore della celebre rivista “Tintin” nel 1965, crea una serie di personaggi avventurosi, come Comanche, Bernard Prince, Bruno Brazil e appunto Luc Orient, oltre al “suo” Achille Talon (unico personaggio che disegna personalmente), protagonista di brevi storie umoristiche e graffianti. Lasciata la redazione di “Tintin” nel 1974, continua il lavoro di sceneggiatore, anche su personaggi altrui, fino a diradare progressivamente la sua attività nel corso degli anni ‘90. Il disegnatore è il belga EDDY PAAPE, nato nel 1920, collaboratore dapprima della rivista “Spirou”, per la quale crea, tra gli altri personaggi, Marc Dacier (su sceneggiatura di JEAN-MICHEL CHARLIER), e in seguito di “Tintin”, dove illustra Luc Orient, Yorik e poche altre serie. Dopo aver insegnato all’istituto Saint Lukas di Bruxelles, riduce progressivamente il proprio impegno a partire dagli anni ‘80.

nella sperduta valle di Sher-dahng (in India), in cui un collaboratore di Kala trova una strana pietra, che troppo tardi scoprirà essere radioattiva. La sua morte mette in moto i nostri eroi, che si recano nella valle per rintracciare il luogo di provenienza del pericoloso minerale e indagare su di una leggenda secondo la quale molte pietre analoghe furono portate laggiù da tre “draghi di fuoco”. Seguiti a loro insaputa da un certo Julius Argos (uno scienziato malvagio un tempo collaboratore di Kala), che vuole usare le loro scoperte per arricchirsi, i tre vengono “sequestrati” da una tribù locale ancora semi-primitiva, i Thargs. Questi “incaricano” Orient, col suo fucile da caccia, di uccidere un enorme e misterioso animale che ha già aggredito molti dei loro: la bestia, come si scoprirà ben presto, è un gigantesco “ligre” (incrocio fra una tigre e un leone), la cui presenza nella valle è assolutamente inspiegabile. Il capo tribù, a missione compiuta, racconta ai nostri eroi di come

Il nostro eroe fa la sua prima apparizione il 17 gennaio 1967, nel numero 952 (il terzo di quell’anno) di “Tintin”. La storia s’intitola “Les dragons de feu” (“Il drago di fuoco”) e ci introduce ai protagonisti nella quarta pagina: Hugo Kala, scienziato di una cinquantina d’anni, dall’aspetto saggio e intelligente (barbetta alla Freud, pipa, occhiali), la sua assistente Lora Hansen, una brunetta silenziosa e più decorativa che utile (com’era tipico degli anni ‘60) e naturalmente il suo braccio destro Luc Orient, alto, biondo, prestante e persino un po’ spaccone; i tre lavorano in un futuristico laboratorio chiamato Eurocristal 1, situato in una zona montagnosa di un paese francofono (la Svizzera). Kala ne è il direttore. La prima storia è già di buon livello: comincia

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gli animali e la vegetazione della valle fossero stati alterati (geneticamente?) dall’arrivo, moltissimo tempo addietro, di tre “draghi di fuoco” provenienti dal cielo. Kala ed Orient decidono di farsi accompagnare nella zona in cui dovrebbero ancora trovarsi i tre “draghi”, forse delle astronavi aliene arrivate sulla Terra migliaia di anni prima e... la storia finisce! Il seguito, intitolato “Les soleils de glace” (“I soli di ghiaccio”) appare su “Tintin” dopo sei settimane, mentre nel novembre di quell’anno anche “Il drago di fuoco” viene pubblicato in Italia, nella mitica collana “I classici dell’audacia”.

Pagina a sinistra: “Les dragons de feu”, “I draghi di fuoco”, edizione francese e italiana, pag. 24, vignette 1/4.

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La seconda storia si rivela superiore alla prima sotto ogni aspetto. Il gruppo formato da Kala, Orient, Lora, la loro guida indiana Toba e due Thargs si imbatte finalmente negli extraterrestri: due umanoidi dalla pelle bianca che risultano essere gli unici superstiti di una spedizione scientifica arrivata nella valle molti anni prima. I due, non sapendo come “resuscitare” i loro compagni, rimasti ibernati all’interno di una delle tre astronavi, vivono nascosti nella jungla in attesa di tempi migliori: e questi arrivano quando Kala prende in pugno la situazione e riesce a risvegliare l’equipaggio dalla sua catalessi, nonostante gli ostacoli frapposti da un Argos sempre più cattivo. Dopo molti colpi di scena, l’astronave può ripartire per il suo mondo (il lontano pianeta Terango), e gli alieni, capitanati da un certo Galaxahj, giurano eterna amicizia ai terrestri. Mentre in Italia la storia appare dapprima sul

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“Corriere dei Piccoli” (nel maggio 1968) e successivamente nella collana “Albi Ardimento” (nel settembre del 1969), su “Tintin” le avventure di Luc Orient proseguono nel febbraio del 1968 con “Le maître de Terango” (“Il signore di Terango”, pubblicata dal “Corriere dei Piccoli” nel dicembre dello stesso anno): una notte gli extraterrestri tornano a prendere i nostri eroi, direttamente a casa loro, per portarli su Terango, dove in loro assenza un dittatore di nome Sectan ha preso il potere e si prepara a invaSopra: “I soli di ghiaccio”, “Les soleils de glace”, edizione italiana, pag. 21, vignette 5/9. Pag. a destra in alto: “Le maître de Terango”, pag. 34, vignette 4/5.

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dere la Terra. Galax-ahj, infatti, ha molta fiducia nel genio di Kala e nelle armi dei terrestri che, in quanto sconosciute al dittatore e ai suoi uomini, potrebbero risultare più efficaci di quelle adoperate dal suo gruppo di guerriglieri. Per quanto sembri strano, Luc e gli altri, una volta giunti su Terango dopo un viaggio pieno di insidie, riescono effettivamente a distruggere la temibile flotta d’invasione a colpi di dinamite; poi, nella quarta storia, “La planète de l’angoisse” (“Gli uomini drago”, “Tintin”, fine 1968, “Corriere dei Piccoli”, giugno 1969), vediamo Luc recarsi, in compagnia di Galax-ahj, nelle zone più remote del pianeta a cercare alleati fra le altre razze che lo popolano. Nel corso di questa avventura, probabilmente la migliore del ciclo, i nostri eroi si confrontano con tre diverse specie di extraterrestri: gli alieni dalla pelle bianca, il “popolo delle paludi”, i cui esponenti sono dotati di una bizzarra cresta multicolore (oltre che di un

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pessimo carattere), e il “popolo delle cime”, munito di ali e di piume. Sarà proprio il capo di questi ultimi, Tobok, a tirar fuori Luc da una situazione molto pericolosa, consentendogli infine di completare la sua missione e di stringere quelle alleanze che nella quinta e ultima storia del ciclo, “La forêt d’acier” (“La foresta d’acciaio”, “Tintin”, autunno 1969, “Corriere dei Piccoli”, aprile 1970) porteranno alla disfatta di Sectan. Vano sarà il tentativo del dittatore di cercare a sua volta alleati fra gli stessi terrestri, facendo trasportare su Terango Argos e un gruppo di Thargs che questi ha trasformato in kamikaze: il genio di Kala trionferà sulle macchinazioni del suo ex-collega e la rivolta travolgerà Sectan, che infine verrà ucciso da Toba, dal momento che Luc, poco cinico e molto buonista, esiterà un attimo di troppo nel momento decisivo.

presto a loro spese, gli effetti delle radiazioni sono temporanei, e solo il tempestivo intervento di Kala eviterà alla vicenda una conclusione tragica. Ma la migliore, tra le diciassette avventure di Luc Orient, è indubbiamente la successiva, “Le cratère aux sortilèges” (“Il cratere dei sortilegi”, “Tintin”, estate 1971, “Corriere dei Piccoli”, autunno 1971): Lora e Luc, di nuovo in coppia, si recano in uno

Nella primavera del 1970 appare su “Tintin” “Le secret des sept lumières” (“Il mistero delle sette luci”, “Corriere dei Piccoli”, inizio 1971), prima di una serie di storie non collegate tra loro e ambientate sulla Terra: i nostri eroi, tornati da Terango, mettono in pratica le nuove conoscenze acquisite dagli extraterrestri e cominciano a sperimentare le proprietà di certe radiazioni sconosciute. Un incidente, tuttavia, trasforma Luc e Lora in due creature dotate di superpoteri ma con qualche problema di troppo; i due, confinati da Kala in una villetta tra le montagne, finiscono per usare le loro nuove capacità (tra cui spicca l’assoluta incorporeità, che li rende invulnerabili alle pallottole) per opporsi a un gruppo di criminali che ha rapito un bambino. Ma, come scopriranno ben

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sperduto villaggio di montagna ad indagare sulla caduta di un meteorite che ha portato con sé un mistero inquietante. I gas verdi che emanano dal cratere, infatti, oltre ad essere velenosi, sembrano nascondere un pericolo inafferabile, dal momento che qualcuno, senza mai essere visto, comincia ad aggredire e uccidere diversi abitanti del villaggio. La convinzione che con la meteorite siano giunti sulla Terra dei mostri invisibili si fa lentamente strada nelle menti dei nostri eroi. Ancora una volta, sarà Kala a salvare la situazione all’ultimo istante, non senza un colpo di scena finale del tutto inatteso... Pagina a sinistra, in alto: “La planète de l‛angoisse”, pag. 11, vignette 1/3; pagina a sinistra, in basso: “La foret d‛acier”, pag. 15, vignette 1/4.

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“Le cratère aux sortilèges”, storia ricchissima di suspence fino all’ultima pagina, è un connubio perfetto tra fantascienza, horror e thriller, e non può non essere annoverata tra i migliori fumetti mai realizzati dalla scuola franco-belga. Fatalmente, dopo aver toccato l’apice, la serie comincia il suo declino: ed è con un certo disappunto che i lettori accolgono la storia successiva, l’ottava, intitolata “La légion des anges maudits” (“Il raggio maledetto”, “Tintin”, inizio 1972, “Corriere dei Ragazzi”, estate 1973). Per quanto il tema trattato, quello delle mutazioni genetiche, sia molto originale per quei tempi, l’elemento fantascientifico rimane sempre relegato in secondo piano e la storia non decolla mai pienamente; certo, la suspence è sempre alta e i colpi di scena non mancano, ma alla fine tutto si riduce a una sterile lotta tra buoni e cattivi. Lotta dall’esito scontato, ovviamente.

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Già all’inzio del 1973, tuttavia, compare su “Tintin” una nuova avventura (“24 heures pour le planète Terre”, “Allarme per il pianeta Terra”, “Corriere dei Ragazzi”, primavera 1975), che sembra tornare, almeno in parte, sui livelli migliori. Nuovi extraterrestri, animati stavolta da cattive intenzioni, giungono sul nostro pianeta. L’arma di cui si servono per minacciare la Terra è una semplice ma micidiale polvere organica in grado di sbriciolare qualsiasi manufatto. Per l’ennesima volta il genio di Kala riduce i danni al minimo, mentre Luc affronPagina a sinistra, in alto: “Le secret des 7 lumières”, pag. 11, vignetta 4; pagina a sinistra in basso: “Le cratere aux sortileges”, pag. 28, vignette 6/9.

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ta personalmente i nemici, il cui vero aspetto rimane celato fino all’ultimo; tuttavia, gli alieni sono troppo forti e potenti, e solo il pentimento (e conseguente sacrificio) di uno di loro permetterà al nostro eroe di uscire vincitore dal confronto. Nell’autunno del 1973 compare su “Tintin”, la storia successiva, “Le 6ème continent” (inedita in Italia, come tutte le seguenti). Il livello, purtroppo, scende decisamente, e il lettore comincia a storcere il naso di fronte a un popolo di uomini-formiche che vive in un mondo sotterraneo, tecnologicamente avanzato, ma che al primo contrattempo finisce completamente distrutto. La vicenda, più degna di un B-movie degli anni ‘30 che di un fumetto degli anni ‘70, sfiora spesso il ridicolo, senza offrire neanche la suspence dei tempi migliori. Di poco superiore è “La vallée des eaux troubles” (“Tintin”, estate 1974): il tema, peraltro usato e abusato troppe volte, è quello dello “scienzato paz-

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zo”, in questo caso un biologo che si è confinato in una zona isolata del Borneo, da dove bombarda con misteriose radiazioni gli animali che popolano la jungla circostante: il risultato, peraltro scontato, è quello di creare una serie di mostri che renderanno la vita difficile al gruppo dei nostri eroi (stavolta Sopra: “La légion des anges maudits”, pag. 21, vignette 4/8; a destra: “24 heures pour la planète Terre”, pag. 37, vignette 6, 8/9; pagina a sinistra: “Le 6ème continent”, pag. 29, vignetta 2;

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Forse consapevole del declino della serie, Greg composto dal solo Luc e da un paio di comprimari). Dopo molti sforzi, la classica esplosione porrà fine cerca di darle una sterzata, rispolverando i temi delle prime storie e creando un nuovo ciclo, analogo agli esperimenti. a quello di Terango: appare così su “Tintin”, a ca-

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vallo tra il 1975 e il 1976, “La porte de cristal”, in cui Luc e Lora, insieme a una coppia di loro amici, s’imbattono in una serie di eventi misteriosi dietro ai quali si nasconde una nuova spedizione di extraterrestri, i “Dartz”, provenienti da Annatha, un pianeta

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di un’altra galassia distrutto dalle sue stesse armi. La Terra si rivelerà poco ospitale, per questi nuovi alieni, ma, su consiglio del solito Kala, perché non provare con Terango? La somiglianza con “Les soleils de glace” è evidente, e l’inizio della storia sem-

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LUC ORIENT Pagina a sinistra in basso: “La vallée des eaux troubles”, pag. 36, vignette 4/5; a destra: “La porte de cristal”, pag. 26, vignetta 2.

bra quasi allo stesso livello; ma se allora l’incontro con gli alieni aveva marcato il passaggio da temi narrativi intrisi di mistero ad altri più avventurosi, senza il minimo cedimento nella trama, ne “La porte de cristal” il mistero lascia spazio a una narrazione piatta e priva di mordente, che si limita a descrivere i problemi dei Dartz senza mai entrare veramente nel vivo. Greg, purtroppo, non è più quello di una volta,

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e dodici storie in nove anni appena sono troppe anche per un autore prolifico come lui: in quel periodo, come si può verificare su http://bdoubliees.com/ journaltintin/auteurs2/greg.htm, ne avrà sceneggiate complessivamente una sessantina, considerando

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tutti i personaggi di cui è autore o coautore. In ogni modo, nella primavera del 1977 compare su “Tintin” la nuova avventura, vale a dire “L’enclume de la foudre”: l’astronave extraterrestre, con a bordo tutti i nostri eroi, fa scalo su un pianeta chia-

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mato Roubak, devastato dai fulmini e abitato da strane e pericolose creature. Luc e alcuni suoi compagni, che vi sono sbarcati in cerca di acqua, se la vedono brutta; ma, al solito, all’ultimo istante Kala troverà il modo di risolvere ogni problema, e tutti, alieni e

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LUC ORIENT Pagina a sinistra, in alto: “L‛enclume de la foudre”, pag. 40, vignette 1/4; pagina a sinistra in basso: “Le rivage de la fureur”, pag. 39, vignette 1/2. Sotto: “Roubak, ultime espoir”, pag. 9, vignette 6/8;

terrestri, potranno continuare il loro viaggio. Ma gli spunti di Greg, a quanto pare, sono ormai agli sgoccioli. Se “L’enclume de la foudre” è ancora una storia di livello accettabile, la successiva, per la prima volta, si fa attendere ben tre anni, fino alla primavera del 1980 quando, su “Tintin”, compare “Le rivage de la fureur”. I nostri eroi arrivano finalmente su Terango, ma vi ritrovano un mondo devastato, inospitale e ormai popolato da creature mostruose, manovrate dal loro vecchio nemico, il redivivo Argos, e vanamente combattute da una bizzarra e un po’ ridicola tribù di enormi amazzoni. Dopo lunghe discussioni di sapore vagamente femminista (e Ma invece di rimanere su Terango, come tutto latalvolta anti-femminista: le idee di Greg, e di Luc sciava pensare alla fine de “Le rivage de la fureur”, Orient con lui, sono un po’ confuse) i mostri sono Dartz e terrestri ritornano nello spazio: nel 1983 sterminati e la pace sembra ritornare ancora una volappare su “Tintin” l’ultima storia del nuovo ciclo, ta sul tormentato pianeta.

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A sinistra: “Caragal”, pag. 27, vignette 1/2, 4; sotto: “Les spores de nulle part”, pag. 23, vignette 3/4. Pagina a destra in basso: “Rendez-vous a 20 heures en enfer”, pag. 18, vignette 2/3;

che sulla Terra.

“Roubak, ultime espoir”, in cui tutte le carte vengono mischiate in un valzer di vicende che si stenta, ormai, a seguire fino in fondo. Dopo una lunga serie di capovolgimenti di fronte, i Dartz rimangono su Roubak, il pianeta incontrato ne “L’enclume de la foudre”, mentre i terrestri utilizzano una macchina del tempo inventata da Argos (il cui destino rimane ignoto) per ritornare all’epoca de “La porte de cristal”: un ritorno senza questo espediente, infatti, non sarebbe loro stato possibile, dato a che a bordo dell’astronave aliena il tempo scorre più lentamente

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A questo punto la serie sembra terminata, a dire il vero senza troppi rimpianti. Tuttavia l’anno seguente Eddy Paape pensa bene (o male) di imitare il suo collega Albert Uderzo, che dopo la morte di René Goscinny si era messo a scrivere personalmente le avventure di Asterix: nonostante Greg sia ancora vivo e vegeto, Paape scrive una nuova storia di Luc Orient, intitolata “Caragal” e ambientata su Terango, all’epoca del primo ciclo di avventure. La vicenda ci mostra Kala, vittima dei suoi stessi esperimenti, diventare una specie di superuomo, per di più con qualche mania di grandezza. Luc, per fortuna, acquisiti gli stessi poteri, metterà le cose a posto. Questa inversione di ruoli, lungi dall’apportare una ventata di novità alla serie, la rende ancora più inverosimile, accentuandone il declino. “Caragal” finisce nel dimenticatoio, e passeranno ben sei anni prima che sul mercato ricompaia qualcosa con Luc

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Orient: si tratta stavolta di una raccolta di quattro sola appena discreta. La seconda e la terza, pubblistorie brevi che appare nell’agosto del 1990, “Les cate nel 1980-1981, sono appena decenti; l’ultima è spores de nulle part”; la prima, che dà il titolo alla da dimenticare. raccolta, era comparsa su “Tintin” nel 1970, ed è la

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Qualche anno dopo, Greg fa un ultimo tentativo di rinverdire la serie: semplice nostalgia? Fatto sta che nel’ottobre del 1994 compare direttamente nelle librerie, un po’ a sorpresa, “Rendex-vouz a 20 heure en enfer”, che tratta uno dei temi più classici della fantascienza: il viaggio nel tempo. L’inizio non è malvagio, ma quasi subito la storia si appiattisce, diventando una banale avventura ambientata alla fine della seconda guerra mondiale, tra nazisti allo sbando e bombardamenti come se piovesse. Al solito, Luc e Lora se la cavano per il rotto della cuffia, e per di più senza alcun intervento da parte di Kala. Morto Greg nel 1999 e con Paape ormai ultraottantenne, è indubbio che “Rendex-vouz a 20 heure en enfer” sia stata l’ultima avventura di Luc Orient. Il punto di forza di queste diciassette storie, paradossalmente, è anche la loro debolezza: Greg, in-

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fatti, è un esponente atipico della scuola francobelga, i cui autori sono sempre (a volte troppo) alla ricerca della perfezione, dei minimi dettagli, della plausibilità come dell’accuratezza dei particolari storici e geografici; invece Greg ricorda più i narratori dell’ottocento, alla Dumas per intenderci, che scrivevano sui maggiori quotidiani improvvisando le loro vicende giorno dopo giorno. E, come per Dumas, finché le idee e la fantasia non mancano, questo metodo consente di scrivere storie di livello eccellente, in cui la suspence, la tensione, le battute, i colpi di scena sono presenti dalla prima all’ultima vignetta senza cedimenti, mentre assurdità e incoerenze, pur presenti, passano in secondo piano. Analogamente, quando le idee vengono meno e la fantasia si spegne, sono i difetti a passare fatalmente in primo piano, e il livello delle storie si capovolge, senza vie di mezzo. Abbiamo così Luc Orient: o pienamente godibile, o deprimente e persino ridicolo nelle ultime fasi della sua vita fumettistica. Assai discontinuo è il disegno di Eddy Paape, meno brillante e dinamico rispetto a quanto offrivano, nello stesso periodo, i migliori esponenti della sua scuola, su tutti HERMANN HUPPEN e JEAN GIRAUD. Ciò nonostante, Paape eccelle negli “effetti speciali”: esplosioni, strani mostri, congegni insoliti, paesaggi stravaganti; tutti elementi che in un fumetto di fantascienza fanno la parte del leone e permettono di sorvolare su qualche imprecisione nelle espressioni (specialmente dei personaggi femminili) e nelle scene di massa, e su una leggera legnosità nelle figure umane (o umanoidi) che rende un po’ goffi certi movimenti. Ma, se pensiamo ad autori ben più osannati, come i nostri HUGO PRATT o ATTILIO MICHELUZZI, il confronto è tutto a favore del disegnatore belga. In conclusione, perché Luc Orient è un fumetto valido? Perché sforzarsi di rintracciare le sue avventure, da tempo fuori catalogo in ogni parte del mondo (ma tenete d’occhio Ebay!)? Perché non è affatto vero che si tratta di una versione moderna di Flash Gordon, come molti dicono dopo un’analisi

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LUC ORIENT superficiale. A prima vista si direbbe che la corrispondenza Gordon-Orient, ZarkovKala e infine Dale-Lora sia perfetta: e, come Gordon, Orient è alto, biondo, bello, aitante, pronto a cercare avventure e a ficcarsi nei guai. Ma la somiglianza finisce qui: infatti, Flash Gordon è il vero protagonista delle sue avventure mentre Zarkov, personaggio utile in molte situazioni, ma Eddy Paape non sempre, è relegato al ruolo di spalla. Luc Orient, invece, è solo il braccio destro di Kala, vero deus ex-machina di tutte, o quasi, le storie: è Kala, e non Orient, ad avere il controllo della situazione, a capire quello che sta succedendo e a trovare le soluzioni giuste al momento giusto. Il lettore non se ne rende conto perché non è il punto di vista dello scienziato ad essergli presentato (d’altronde sarebbe noioso), ma quello di Luc (ben più interessante!). La differenza può sembrare sottile, anche trascurabile, ma è invece molto significativa: non siamo più negli anni ‘30, in cui, in un rigurgito di romanticismo, l’eroe risolve ogni problema basandosi solo sul suo coraggio e sui suoi pugni; siamo nei “moderni” anni ‘60 e ‘70, ancora dominati da una visione futuristica ed ottimistica della scienza, e le avventure sono vissute coralmente da un gruppo di ricercatori che escono dalle situazioni difficili combinando audacia e scazzottate, quando occorre, con intelligenza, astuzia e conoscenze tecnico-scientifiche. La differenza, considerata da questo punto di vista, non è cosa da poco! Coerente con questa diversa impostazione è il ruolo dell’eroina della serie, Lora; decorativa come e più di Dale, non è tuttavia la ragazza/fidanzata/ amante di Luc, ma solo un’amica (tra l’altro i due

si danno del voi), e per di più una donna relativamente moderna, che cerca faticosamente di ritagliarsi i suoi spazi pur vivendo ancora in un’epoca in cui personaggi come Legs Weaver sono ancora di là da venire. Talvolta ci riesce (“Le cratère aux sortilèges”), talvolta esagera (“Rendex-vouz a 20 heure en enfer”). Greg, abituato a scrivere per un pubblico di adolescenti, in preMichael Regnier (Greg) valenza maschi, non è mai particolarmente bravo nel caratterizzare le sue figure femminili (ma si trova indubbiamente in buona compagnia). Alla fine Luc Orient, con i suoi alti e bassi, si ricorda a lungo. Come scrivevo all’inizio, i suoi non pochi pregi finiscono per scavarsi un posticino nella memoria di quei pochi fortunati che ancora ne ricordano le avventure: è un personaggio che non conosce vie di mezzo, un retaggio di un’epoca particolare in cui la fantascienza non era così complicata, e nello stesso tempo gli alieni non erano semplici mostri animati da puri istinti omicidi, ma piuttosto creature complesse e ricche di sentimenti non diversi dai nostri. Molti storceranno il naso di fronte a questa fantascienza, banale in apparenza e capace solo di vivere alla giornata; ma che ne sarebbe, oggi, dei futuri pessimistici alla Blade Runner, delle realtà virtuali di Matrix, delle vite alternative di Philiph K. Dick e delle space opera alla Star Wars o alla Firefly senza le vecchie, buone, semplici trame ideate dai vari Alex Raymond con Flash Gordon e in seguito da Greg & Paape con Luc Orient? Aspettiamo altri trent’anni e ne riparleremo!

* ANDREA CARTA

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Jasmine e Myriam


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Il mito di Orfeo IL MITO DI ORFEO Rispetto ad altri contenuti della vastissima mitologia classica, la figura di Orfeo potrebbe sembrare quasi riduttiva. Tale mito, invece, è di particolare importanza nella cultura occidentale, per gli innumerevoli panorami filosofici che ispira, contrapponendo ad una mitologia aperta e magmatica un’altra dai contorni più intimistici. La rilevanza della figura orfica, in campo mitologico, risiede fondamentalmente nell’essere espressione di un mondo delicato e “cortese” (nell’accezione medievale del termine): è completamente abbandonata la prospettiva dell’aristeia dei poemi omerici, la violenza e la continua ricerca della supremazia fisica, per lasciar posto ad una figura che a mio parere potrebbe esprimere bene l’epoca dei simposi e della Grecia classica, della democrazia, della riflessione platonica e dell’arte fidiaca. La più evidente dimostrazione di questa “cortesia” che caratterizza Orfeo è l’essere figlio di Calliope, una delle nove Muse Eliconie, l’emblema più alto dell’arte; è proprio la madre ad insegnargli a trarre le più dolci note dallo strumento tipico del simposio, la lira (non a caso si parla di poesia “lirica”). Orfeo, fin dall’inizio quindi, è perfettamente inserito nel mondo dell’arte e della poesia, avvolto da un’aura di delicatezza e quiete che ne contraddistinguerà la figura in campo mitologico. Proprio la sua bravura con la lira è determinante nell’economia di una “Argonautica”, ossia una delle tante poesie che sorsero attorno al poema epico di Apollonio Rodio (290 - 260 ca a.C): Orfeo è l’unico a resistere al canto delle Sirene e a riportare alla ragione i suoi compagni. A tal proposito, è utile considerare la distanza che, a mio avviso, corre tra questo episodio e uno analogo, seppur molto più celebre, consacrato da Omero nell’Odissea: in tale opera, infatti, Ulisse si lega all’albero della nave per poter ascoltare il melodioso canto senza essere trascinato da esso nei flutti marini. In questo caso a predominare è la violenza dell’immagine, sembra di vedere Ulisse contorcersi per lo sforzo di resistere; nel mito orfico assistiamo invece ad una scena melodiosa e in-

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Gustave Moreau, “Thrace jusqu’au trépas et peint le tête d’Orphée posée sur sa lyre”, 1865, olio su tela, Musee d’Orsay, Parigi cantata, in cui prevale è la dolcezza delle note. Testimonianza particolarmente significativa di come la figura di Orfeo fosse assurta ormai a simbolo nell’immaginario del mondo antico ci è offerta da Seneca (65 a.C. ca): “…le selve inerti si movevano conducendo sugli alberi gli uccelli; o se qualcuno di questi volava, commovendosi nell’ascoltare il dolce canto, perdeva le forze e cadeva…”; questo particolare rapporto tra Orfeo e la natura sembra essere stato riproposto in chiave cristiana con la figura di

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Elsie Russell, “The Loss of Eurydice”, 1994, olio su tela http://www.parnasse.com/erlist.htm

di scorgere appostata la grande e livida figura dell’Invidia, intenta a tessere i suoi loschi piani, servendosi prima di un giovane, di nome Aristeo, tanto passionale quanto irruento nell’insidiare la bella Euridice; S.Francesco, ma dei legami tra orfismo e cristianesi- e poi di una creatura che dalla tradizione biblica fino ai bestiari medievali ha da sempre raffigurato, forse a mo ci occuperemo più avanti. La vita di Orfeo è scandita da due grandi episodi: torto, il male: un serpente. Fu proprio su un serpente il primo di questi è l’immenso amore che provò per la che la ninfa, intenta a fuggire da Aristeo, posò inavninfa Euridice, figlia di Doride e Nereo, un sentimento vertitamente il piede: per il morso morì quasi subito, perseguitato dal destino in una delle storie più tragi- cullata dalle braccia del dolce Orfeo. È interessante soffermare l’attenzione sui due perche che sia dato rintracciare nei miti. Sembra quasi

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Il mito di Orfeo sonaggi maschili della vicenda: Orfeo e Aristeo. Quest’ultimo, infatti, pur rivestendo un ruolo tutto sommato negativo nell’intera vicenda, è citato ampiamente da Virgilio (19 a.C. ca) nelle sue “Georgiche” in un ruolo completamente opposto. In quest’opera, Aristeo subise un’improvvisa moria di api nel suo allevamento, che le divinità gli spiegano essere dovuta alla scarsa efficacia con cui egli officia i loro culti: rinnovando in modo più consono la propria obbedienza verso gli dei, Aristeo ottiene il perdono e il risanamento delle sue api. Il contrario capita a Orfeo che, disobbedendo ad Ade nel divieto di voltarsi a guardare la moglie, finisce per sopportarne la durissima punizione. A dispetto della tradizione mitica, Aristeo viene innalzato al rango di vir bonus, mentre Orfeo non può che dolersi della propria inadempienza verso gli dei. Questo passo particolare delle Georgiche, in cui si assiste ad un capovolgimento di valori rispetto al mito, si può forse ascrivere in quel programma politico augusteo che predeva un ritorno all’antica moralità, un intento condiviso anche dal circolo di Mecenate, al quale lo stesso Virgilio apparteneva. Il secondo grande episodio del mito orfico è la discesa agli Inferi, un tema ripreso poi dai grandissimi della letteratura di tutti i tempi (basti considerare l’Odissea in ambito greco, l’incontro tra Enea e il padre Anchise nell’Eneide in campo latino, la prima cantica della “Divina Commedia” dantesca...). È la parte più drammatica ma anche più importante dell’intero mito, quella che ha a lungo ispirato filosofi e pensatori. Orfeo, pazzo d’amore, non accettò l’ineluttabilità del destino e decise di sfidare gli dei degli Inferi per tentare di riportare sulla Terra l’amata. Si recò dunque sulle rive dell’Averno (Aornos per i Greci), il mitico lago ritenuto la Porta degli Inferi, e lì convinse il ripugnante Caronte a traghettarlo fino al cospetto di Ade e Persefone, mentre le anime dannate dello Stige cercavano di ghermirlo e trascinarlo in acqua. Ma la vera impresa, Orfeo la compì ammaliando Ade e Persefone con la dolcezza del canto e delle note, tanto che gli fu permesso di riprendersi Euridice, ad una condizione però: non doveva voltarsi a guardarla finché non fossero arrivati entrambi in superficie. Sembrerebbe

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che nemmeno la Morte potesse resistere al canto di Orfeo, ma ogni deroga che Essa concede ai viventi è pura illusione: non sentendo più i passi della moglie dietro di sé, infatti, il cantore si girò, dimentico della proibizione, e tutto ciò che vide fu un’ombra che si dileguava verso il basso. La più bella e delicata descrizione di tal momento ci è offerta da Ovidio (18 d.C.), in una delle sue opere principali, le “Metamorfosi”: “Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa William Blake Richmond, “Orpheus returning from the Shades”, 1885, olio su tela, Royal Academy of Arts, Londra

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Nicolas Poussin, “Paesaggio con Orfeo e Euridice”, 1648, olio su tela, Musée du Louvre, Parigi avrebbe, infatti, dovuto lagnarsi se non d’essere troppo amata?” Questa contravvenzione del poeta verso il semplice vincolo posto dagli dei infernali, a mio avviso, può essere interpretata sotto un duplice aspetto. In primo luogo, potrebbe simboleggiare l’ineluttabilità della morte: pur in grado di intercedere presso la Mortedivinità, il canto nulla può contro la regola naturale della definitività della Morte-evento; una resurrezione rappresenterebbe una violazione delle leggi di natura, logiche e razionali, alle quali i Greci hanno sempre dedicato una grandissima attenzione, e l’opera di Esiodo dà buona prova di ciò. In secondo luogo, potrebbe anticipare uno dei temi portanti della futura dottrina orfica (e platonica poi): il disprezzo per la corporeità. È plausibile che il nostro Orfeo si sia voltato indietro perché impaziente di ammirare di nuovo la bellezza

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della sua amata, e dunque sarebbe proprio questo desiderio a venire punito. C’è da considerare, oltre alla vicenda amorosa tra i due giovani, un epilogo drammatico dell’intero mito, al quale è legato maggiormente l’Orfismo inteso come orientamento filosofico. Al fallimento dell’impresa negli Inferi, infatti, Orfeo si ritirò sul monte Rodope, in Tracia, dove cominciò a ricevere uomini e ragazzi che istruiva secondo regole ascetiche, insegnando loro come sopportare un’astinenza prolungata, oppure indottrinandoli sull’origine del mondo e degli dei. Il suo bell’aspetto non passò inosservato tra le donne del luogo, particolarmente tra alcune Baccanti, peraltro irate a causa dell’indifferenza e della scarsa devozione che Orfeo manifestava nei confronti del culto di Bacco. Ciò fu alla base della tragica fine del poeta che aveva sfidato e quasi vinto la Morte. La voce del passato, in particolare quella di Virgilio, la descrive in termini tali che mostrano l’evento in tutta la sua crudezza: “... anche allora, mentre il capo di Orfeo, spiccato dal

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Il mito di Orfeo collo bianco come marmo, veniva travolto dai flutti, «Euridice!» ripeteva la voce da sola; e la sua lingua già fredda: «Ah, misera Euridice!» chiamava con la voce spirante; e lungo le sponde del fiume l’eco ripeteva «Euridice».” Legata al mito di Orfeo è una particolare setta religiosa greca che prese le mosse proprio dalle vicende della vita del poeta. L’Orfismo era uno dei principali misteri greci. Anticamente, in Grecia, esistevano per così dire due tipi di religiosità diverse; la prima era quella olimpica, invocata fondamentalmente per protezione da qualcosa di materiale (guerre, carestie ecc..). Come si intuisce, è abissale la differenza con la religiosità odierna, in cui ognuno prega per sé: allora era la norma pregare le divinità per motivi collettivi [...]. La seconda via religiosa è più legata a un sentimento intimistico, di cui è pervaso l’intero mito orfico [...] i greci seguivano una seconda via parallela a quella “ufficiale”: oltre alle olimpiche c’erano anche le divinità Ktonè, ossia le divinità della terra [...] spesso a che fare con l’agricoltura e con la fertilità del suolo (ne è un esempio Persefone). [...] Tali culti erano caratterizzati dai misteri, un termine di derivazione incerta: vi è chi sostiene che provenga dalla parola greca “muthos” (mito) [...] Strettamente collegato a questi misteri è proprio l’Orfismo, una setta misterica sviluppatasi intorno al VII secolo a.C., che si riteneva fondata proprio dal personaggio principe del mito suesposto (fonte: www.filosofico. net; pagina ad opera di Diego Fusaro)

O.Kern, che nel 1922 raccolse 363 frammenti e 262 testimonianze scritte. Plausibile è la teoria di una filiazione dell’Orfismo dai culti misterici incentrati su Dioniso, avanzata fra gli altri da E. Rohde in Psyche (1894). L’Orfismo, secondo tale tesi, deriverebbe dalla religione di Dioniso attraverso il mito di Dioniso-Zagrèo, singolare figura di dio-fanciullo, come Hermes o Eros, che ricorda anche Osiride. Come la principale divinità egizia, Zagrèo è – paradossalmente – un dio che muore, ucciso e sbranato dai Titani, in seguito inceneriti da un fulmine scagliato da Zeus. Dato che gli uomini nacquero, per trasformazione, dalle ceneri dei Titani, oltre che dello stesso Dioniso (poi risorto magicamente), ognuno di noi conserva una scintilla divina, affiancata alla natura titanica sostanzialmente empia e sacrilega. Come quelli dionisiaci, anche i misteri orfici erano basati su una complessa dottrina mistica, incentrata sul dualismo presente nell’animo di ogni uomo, derivante Jean-Baptiste-Camille Corot “Orfeo guida Euridice fuori dagli Inferi” 1861, Museum of Fine Arts, Houston, Texas

Le fonti documentali risalgono ad Onomacrito (VI secolo avanti Cristo) e percorrono la storia della cultura greca soprattutto fra il II e il V secolo dopo Cristo, con gli Inni Orfici e gli Argonautici. Una sistemazione del corpus orfico si deve all’opera filologica di

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Niccolò Dell’Abate, “Orfeo e Euridice”, dopo 1552, olio su tela, National Gallery, Londra

do a quest’ultima un ruolo positivo e divino: l’anima “dionisiaca”, infatti, era sentita come bloccata e abbrutita dal corpo, per cui la morte era considerata una grande benedizione, il mezzo per entrare in contatto dal mito di Dioniso; è questo l’elemento che permette diretto con la divinità, abbandonando le miserie della di accostare le due religioni misteriche, e di ipotizzare materialità. Il secondo aspetto pregnante della dottrina orfica, che quella dionisiaca sia di fondamento a quella orfiritenuto di derivazione orientale, è il concetto di traca. Era naturale che ogni uomo fosse composto da due “essenze” differenti, l’una brutale e meschina (avanzo smigrazione delle anime, sul quale in seguito Pitagora dei Titani), l’altra radiosa e solare, vicina alla divinità costruì la sua filosofia e la sua ideologia sociale. Come (retaggio di Dioniso). Proprio quest’ultima “essenza” per i buddhisti, anche per gli orfici la trasmigrazione era ritenuta imprigionata nel corpo, il quale assume- rappresentava un’autentica minaccia di continuazione va accezione “negativa”. In anticipo nei confronti di delle sofferenze sulla Terra. Inoltre, ciò in cui ci si Platone e del neoplatonismo rinascimentale, gli orfici incarnava era ritenuto direttamente proporzionale alla capovolsero i rapporti logici tra vita e morte, affidan- rettitudine che si era osservata nella vita precedente.

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Il mito di Orfeo Di questo passo, si giunse naturalmente ad una dottrina etica propria dell’Orfismo. Per portare a termine una vita retta, infatti, bisognava purificarsi, rispettare alcuni particolari stili di vita. Gli orfici ritenevano che tali insegnamenti li avesse impartiti direttamene Orfeo sul monte Rodope, poco prima che fosse squartato dalle Baccanti. In particolare, per purificarsi era necessario seguire un rigido vegetarianesimo, in fortissima rottura con la religione olimpica, la quale prevedeva sacrifici animali. Raffrontando le stesse divinità olimpiche con la figura di Orfeo, si desume d’altronde come la materialità e la condotta di vita sregolata delle prime siano state completamente ribaltate nell’intimismo e nell’alone di indefinitezza del secondo. Ma c’è di più: si potrebbe anche parlare dell’Orfismo come di dottrina della salvezza, per mezzo della quale, attraverso varie tecniche di purificazioni, ritornare all’unità perfetta da cui è scaturito il mondo. Degli esametri stampati su laminette d’oro, ritrovate durante vari scavi in Italia Meridionale, indicano le strade che l’anima del defunto potrà percorrere una volta giunta nell’aldilà. L’alternativa sarà tra destra (positiva) e sinistra (negativa). A sinistra è infatti la sorgente del Lete, della dimenticanza, alla quale si abbeverano i più, che scordano così tutto il proprio vissuto, continuando nel ciclo delle reincarnazioni. A destra invece è la sorgente di Mnemosine, della memoria, bevendo la cui acqua, se si è vissuta una vita pura, si potrà passare alle sedi dei beati, a vivere con gli eroi.

una metafora del passaggio nell’aldilà che doveva per forza - così pensavano gli antichi Egizi - estendersi a tutti gli uomini in quanto generati dallo stesso demiurgo che aveva creato gli Dei, Atum-Rha. Non è ancora chiaro in che misura, ma è evidente che ci sia più di una coincidenza tra i due sistemi cultuali. (fonte: Domenico Turco, mondo3@mondo3.it) Infine, è doveroso un breve parallelo tra Orfismo e Cristianesimo, accomunati entrambi dall’essere religioni salvifiche. Nel Cristianesimo c’è molto dell’orfismo (nato in Oriente), che non a caso si sviluppò soprattutto tra i meteci (gli stranieri) e gli schiavi. Entrambe le ideologie mistico-religiose erano praticate volentieri dagli schiavi per due ragioni: da un lato, con il concetto di peccato originale, si giustificava lo stato di soggezione dello schiavo; dall’altro, con quello di divinità dell’anima, s’infondeva nella coscienza dello schiavo una speranza per l’aldilà. Se lo schiavo non poteva essere un protagonista attivo nella vita della società, non essendo considerato un cittadino e a volte neppure una persona umana, poteva però riscattarsi dopo la morte, purificando se stesso con i sacrifici e la volontà personale.

La differenza fondamentale tra l’Orfismo e il Cristianesimo sta nell’idea di sacrificio, che per il primo coincideva con la metempsicosi, mentre per il secondo con la croce del Cristo. L’Orfismo è una religione orientale, individualistica e rassegnata; il cristianesiLo “sconcertante” Erodoto (490-430 a.C. ca), il mo è invece sorto in ambito ebraico, scaturendo da un padre della storia, intelligentemente correlava la pro- forte senso del collettivo e da un determinante ottimispettiva escatologica orfico-dionisiaca con la spiritua- smo escatologico. (fonte: www.homolaicus.com/stolità egizia. Ciò quasi a discapito dell’interpretazione ria/antica/cristianesimo_primitivo/filosofia_religione/ corrente, che tende a screditare, talora con un senso di orfismo_cristianesimo.htm). fastidio, il rapporto tra credenze egiziane e culti dioL’importanza dell’Orfismo consiste nell’aver annisiaci. Il legame non è banale, né astorico mitologico. È un dato di fatto che gli antichi Egizi credessero ticipato molti temi della speculazione greca, come nella vita ultraterrena, pur riservando grande cura per quelli della metempsicosi (cioè la trasmigrazione delpratiche inerenti alla conservazione del corpo (riguar- le anime) e del dualismo pitagorico (e poi platonico) danti specialmente le gerarchie sociali più elevate). di anima e corpo, che vede nel secondo una specie di Questa convinzione derivava dal mito di Osiride, che carcere e vincolo dell’identità spirituale. era riuscito a tornare in vita per volere di Iside, quasi

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Intervista

Ucronia e didattica storica GIAMPIETRO STOCCO, apprezzato autore di storia alternativa, interviene sul rapporto tra ucronia e storia. Nato a Roma il 13 agosto del 1961. Laureato in Scienze Politiche con una tesi sulle minoranze nazionali tra Germania e Danimarca, bilingue italiano-danese, è giornalista RAI dal 1991. Sposato, lavora alla sede regionale RAI per la Liguria di Genova, è stato al GR2 dal ‘91 al ‘94. Nel 2003 ha pubblicato il suo primo romanzo di storia alternativa, “Nero Italiano”; nel 2005 è uscito il sequel, “Dea del Caos”, sempre per i tipi dei Fratelli Frilli Editori di Genova. Nella primavera del 2006, con la casa editrice Chinaski, sempre di Genova, pubblicherà il suo primo romanzo di fantascienza, “Figlio della Schiera”. È webmaster dei siti: http://www.giampietrostocco.it http://www.alternatehistory.co.uk STEFANO BACCOLINI, dottorando in storia presso l’Università di Parma con una tesi che si occupa dei rapporti tra tribù nordafricane e il governo romano tra I e V sec. d.C., è appassionato di fantasy e fantascienza da quasi quindici anni. A partire dal 2001 si diletta nella

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scrittura di racconti fantasy a livel- alla Victor Hugo, o alla Emile Zola, o alla Leone Tolstoj, per intenderci, lo amatoriale. metteva in campo i grandi protagonisti della storia, proponendo viUCRONIA E DIDATTICA cende di grandi sentimenti sorrette STORICA: OCCHIO ALLA dalla magistrale capacità affabulaPENNA! toria degli autori. La storia vera, quella con la “s” maiuscola, e le Romanzi storici sì, purché siano ro- storie dei personaggi si fondevano manzi di contesto, in grado cioè di in una finzione di grandissimo stiessere convincenti come ricostru- le, per una letteratura che all’epozione complessiva e portare anche, ca era popolare: in Francia, Hugo se ben congegnati, a sviluppi inedi- e Zola pubblicarono a puntate sui ti. Fin qui Le Goff. Una posizione giornali. legittima, la posizione dello storico Tutte queste precisazioni servoche vede nel romanzo, se ben do- no per chiarire un contesto e una sicumentato, una possibilità didatti- militudine fondamentale: il romanca, purché ovviamente lo scrittore zo storico e il romanzo ucronico abbia svolto un buon lavoro di do- hanno molto in comune. Tuttavia, cumentazione. il secondo presenta uno svantagRomanzi storici tout court e gio non da poco nei confronti del romanzi storici di fantasia, e poi primo: basa tutto il suo interesse anche romanzi ucronici, laddove su fatti mai avvenuti, sui “se” e sui la storia alternativa, l’evento che “ma” della storia ufficiale (se Nacambia la storia, o meglio che l’ha poleone avesse vinto a Waterloo, cambiata, diventa il presupposto se Cesare non fosse stato accoltelper una costruzione di fantasia. lato a morte, e così via). L’ucronia Una costruzione che deve tuttavia è la storia mai nata, la storia che essere coerente e ben fatta, senza sarebbe (forse) potuta essere, ma errori, per poter essere assimilata che non fu, perché un certo evento con gusto dal lettore. andò in un certo modo anziché in In tutti e tre i casi, va chiarito altro. Ma perché, allora, l’ucronia anzitutto che stiamo parlando di è di moda? finzione. Lo stesso romanzo storico Diciamo anzitutto dove è di

Intervista: G. Stocco


Giampietro Stocco moda: nel mondo anglosassone, e negli USA in particolare. Perché? Gli USA guardano alla storia con un misto di noncuranza e riverenza. Paese giovane, abituato a forzare il presente a proprio uso e consumo, gli USA gradiscono intrecci in cui si possa fantasticare su un presente – o un futuro – alternativo. Manipolare la storia, un qualcosa che sentono lontano, li rende più sicuri di sé. Diversa la situazione in Italia. Da una parte c’è chi dice che gli scrittori di storia alternativa siano dei revanscisti. Il fatto che molti romanzi ucronici italiani scelgano come evento capitale un fascismo che sopravvive alla guerra, si dice, proverebbe un desiderio di voler dimostare che “si stava meglio quando si stava peggio”. E che svariati autori ucronici italiani siano poi dichiaratamente di destra rafforza questa sensazione. In realtà le cose non stanno proprio così. La verità è che in Italia il fascismo rappresenta ancora un buco nero, di cui si potrà scrivere con serenità, storicamente e ucronicamente, solo quando tutti i protagonisti di quel momento storico non saranno più fra noi. C’è ancora troppa animosità in Italia fra destra e sinistra perché il romanzo ucronico possa davvero essere sdoganato, e c’è ancora troppa ignoranza in materia storica – la storia dei fatti e delle date piace a pochi – perché un romanzo di storia alternativa possa davvero piacere. E tuttavia il romanzo storico tira. Non da molto tempo, e questo depone favorevolmente anche per l’ucronia, ma solo a un patto: non trasformiamo l’ucronia in didatti-

ca. Non trasportiamola, così com’è, nelle aule universitarie. L’ignoranza storica è tale che rischiamo di confondere idee già di per sé poco chiare. Si potrebbe ipotizzare qualcosa di diverso. L’Università di Copenaghen, Istituto di Lingue e Letterature Romanze, sta studiando il modo di organizzare un seminario sul mio primo romanzo di storia alternativa, Nero Italiano. Un libro in cui anche io proponevo un fascismo negli anni ’70, con un punto di divergenza collocato nel 1940: Mussolini in questo caso non era entrato in guerra. Cosa vuole fare l’Università di Copenaghen? Anzitutto far leggere il libro agli studenti di Italiano. Quindi provare a discutere di storia e allostoria, per verificare quali leggi le regolino, e se il principio di causa ed effetto che regge la prima possa regolare anche la seconda. Io non ho dubbi: il principio è lo stesso. E tuttavia, storia e fiction devono rimanere distinte. Si può far digerire meglio il contesto di un fatto storico, a chi lo deve studiare, facendo uno o più esempi in cui, cambiando uno o più fattori, il contesto stesso cambia a sua volta. Ma la digressione allostorica deve necessariamente rimanere fine a una fiction. Che dire in conclusione? La ricerca universitaria ci deve avvicinare al contesto reale, mentre l’accuratezza dello scrittore allostorico ci deve condurre lungo una trama coerente e credibile. Un elemento in comune c’è: che è necessario studiare di più la storia. E se l’ucronia, come credo, può avvicinare con più piacere alla storia reale,

Intervista: G. Stocco

be’, ben venga un filone del tutto nuovo per la fantasy italiana come la storia alternativa. G. STOCCO. UNA BREVE INTERVISTA: STORICO E SCRITTORE A CONFRONTO Baccolini: Il tuo contributo mi è sembrato assai interessante, tuttavia, credo di avervi scorto una contraddizione. Da un lato ricordi l’importanza e il ruolo della fantasia nell’ambito più generale della letteratura di ispirazione storica, dall’altro sembri credere all’esistenza di leggi precise di “causa ed effetto” all’interno dell’evolversi degli eventi. Riguardo quest’ultimo aspetto, ti faccio presente che la psicostoria asimoviana non è stata ancora dimostrata e che le scienze sociali non hanno leggi ben definite. Quindi, perché non ammettere che anche l’architettura storica dei romanzi ucronici è pura speculazione? Stocco: Sono stato un appassionato lettore di Asimov in passato e qualcosa deve essermi rimasto appiccicato. È vero, la psicostoria non è stata dimostrata come scienza, e la storia è più un prodotto delle leggi del caos che di un rapporto tra causa ed effetto precisamente determinato. Ma, attenzione, a mio avviso esistono eventi e personaggi più importanti di altri. Personaggi e fatti che possono accelerare il corso della storia, o rallentarlo. Poniamo ad esempio che Napoleone riman-

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FANTASY ga ucciso durante la Campagna d’Italia del 1796. Cosa può succedere? Non è ragionevole ipotizzare che l’Armata Repubblicana subisca una disfatta tale da mettere in discussione la stessa tenuta della Rivoluzione in Francia e, nel lungo periodo, l’assetto storico-politico che ne conseguì? Avremmo potuto assistere a un perpetuarsi nei secoli dell’Europa delle monarchie? Diversamente, tuttavia, se proviamo a ipotizzare che Cesare non venga ucciso alle fatidiche idi di marzo del 44 a.C. Oppure, meglio, poniamo che la congiura venga sventata e i responsabili scoperti e fatti assassinare. Che sarebbe accaduto? Cesare sarebbe diventato l’unico padrone di Roma, e la botta sarebbe stata epocale, con ripercussioni enormi negli anni a venire. Il Senato sarebbe stato distrutto come istituzione, la democrazia si sarebbe risollevata chissà quando. Si può discutere se questo effetto non si sia verificato ugualmente: in questo caso, dunque, il punto di divergenza avrebbe verosimilmente provocato le stesse conseguenze già verificatesi nella nostra linea temporale. E, se ragioniamo su cose più recenti, come fascismo o nazismo, a tutti è chiaro che tipo di mondo avremmo avuto se Hitler o Mussolini avessero vinto. Insomma, esistono gangli della storia che sono più importanti dei nodi più normali. Gli scrittori ucronici agiscono su questi gangli, e sanno che manipolarne la direzione in un senso o in altro può – nella fiction – dare origine a un mondo completamente diverso. L’ucronia è, sì, campo della fantasia, ma ci sono dunque regole precise. Una di queste è quella della causa e del-

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Intervista

l’effetto, e in un certo senso, sì, si più o meno solido a seconda della può dire che lo scrittore ucronico data in cui si fisserà la sua morte, sia uno psicostorico in fieri. ma tale impianto, alla lunga, sarà vittima delle idee progressiste, che Baccolini: finiranno comunque per imporsi. Strettamente legata alla domanda precedente, mi chiedo dove possa Baccolini: trovarsi la plausibilità e l’accura- Molte ucronie di autori italiani e tezza di un contesto storico che ha stranieri si soffermano sulla Seun’origine in un passato ben defi- conda Guerra Mondiale: come mai nito, ma si sviluppa in maniera del questo acceso interesse per queltutto autonoma nel futuro. l’epoca? È davvero uno snodo così cruciale? O credi, esulando da ogni Stocco: riferimento politico, che il periodo La plausibilità sta tutta nella rico- presenti un particolare fascino per struzione. Deve essere accurata. il lettore? Non si deve quasi notare la differenza con un evento reale. Si deve Stocco: ricreare, con pazienza certosina, un Interessa di sicuro, perché l’Italia contesto e far muovere dei perso- è ancora un Paese diviso in due: naggi. Creare un mondo. Che poi da noi rimane tabù parlare di Reè quello che fa ogni scrittore. Ma sistenza come di guerra civile, tanlo scrittore ucronico ha paletti ben to per dirne una. Ci sono ancora i precisi. Faccio un esempio. Si può nostalgici, e molti scrittori ucronici far morire Napoleone e ipotizzare italiani simpatizzano per i “perdenche la Rivoluzione Francese venga ti”. E poi c’è un’altra consideraziosconfitta dall’ondata legittimista ne: l’evento. La Seconda Guerra che travolge le armate francesi in Mondiale ci è ancora vicina ed è rotta. Ma non si può sviluppare la un snodo fondamentale per capire vicenda in modo tale che proprio il nostro mondo attuale. È evidente nessuna idea progressista soprav- che autori con impostazione stoviva. La Rivoluzione Francese è la rica e passione per la polemica si cresta di un’onda che parte da mol- interessino a una Seconda Guerra to lontano. Per ammazzarla defini- Mondiale alternativa, così come è tivamente bisogna ammazzare gli stato fatto negli USA per la Guerra Illuministi, e indietro fino a Loc- di Secessione. ke, Galilei, Cartesio, Copernico, Leonardo, l’intera cultura rinasci- Baccolini: mentale, fino forse a ipotizzare lo Una domanda che ti avranno posto sterminio totale dei cristiani in età in tanti: perché occuparsi proprio antica. Quindi, se la fiction è fic- di storia alternativa? tion, la ricostruzione storica, anche se ipotetica, deve essere credibile. Stocco: Il Napoleone morto prima di diven- Risponderò parafrasando un titolo tare imperatore lascerà dietro di sé di una splendida raccolta di ucronie un impianto legittimista che sarà curata per la storica Editrice Nord

Intervista: G. Stocco


Giampietro Stocco dall’altrettanto mitico Piergiorgio Nicolazzini: perché la storia alternativa tratta degli infiniti mondi del possibile, è la fantascienza senza le astronavi.

alternative. Certo, ucronicamente parlando ci sarebbe anche la possibilità di un’Italia al centro di un nuovo impero d’Occidente, ma secondo me troppe variabili avrebbero dovuto trovare la giusta collocaBaccolini: zione affinché l’illusione da qualParlaci un po’ della tua ucronia o cuno cullata potesse realizzarsi. meglio delle tue ucronie: a differenza della ricostruzione del tuo “col- Baccolini: lega” Farneti, gli Italiani non sem- Abbandoniamo l’ambito storico e brano passarsela troppo bene… inerpichiamoci nelle assai spinose questioni di genere. Dove collocheStocco: resti i romanzi ucronici, nell’ambiIo non appartengo alla schiera di to della fantascienza o del fantasy? quelli che narrano di un fascismo vincente, dal volto umano e benvo- Stocco: luto nel mondo, al punto di com- Decisamente nella fantascienza, ma battere al fianco degli americani in senza le astronavi. Sebbene qualche Vietnam. No, a parte l’indiretta ci- scrittore ucronico abbia derive esotazione della storia scritta dall’ami- teriche, la storia alternativa con la co Farneti, il mio punto di vista è magia non c’entra proprio niente. molto diverso. Ucronicamente par- E io considero fantasy ogni romanlando, io credo che se l’Italia fosse zo che implementi nella sua trama rimasta fuori dalla guerra nel ’40, e nella sua storia una dimensione il suo destino si sarebbe avvicina- magica. to a quello della Spagna franchista: saremmo diventati in breve tempo Baccolini: periferia d’Europa, e la dittatura fa- L’ucronia, diciamocelo, è stata, scista si sarebbe ammorbidita fino come la letteratura fantastica in gea diventare un regime saldo solo nere, trainata dall’effetto Signore in apparenza, pronto a crollare a degli Anelli e dai romanzi di Harry ogni spiffero di vento. L’Italia qua- Potter. Potrà avere un futuro anche si “post-fascista” di Nero Italiano in seguito o verrà dimenticata o è così. Basta un’innovazione radi- spregiata come in passato? cale come una donna al potere e il regime si disfà. Nel seguito, Dea Stocco: del Caos, il tessuto connettivo del Se nascerà una scuola di scrittori Paese è talmente deteriorato che bravi e preparati, sì, l’ucronia può nel 2005 ci sono addirittura tre Ita- diventare un mainstream, e ospitalie diverse. Io non credo, insomma, re dentro di sé gialli, noir, horror. alla possibilità di un’Italia come Qualsiasi cosa. grande potenza in una dimensione ucronica. Italietta eravamo e siamo Baccolini: stati, e lo saremmo rimasti in al- Ti sentiresti di consigliare o sconmeno infinito meno x dimensioni sigliare a un aspirante scrittore di

Intervista: G. Stocco

occuparsi di ucronie? Stocco: Sì, se ha coraggio, fantasia, e soprattutto tanta cura per il particolare. Ah, dimenticavo: anche tanta pazienza; si prepari a essere considerato e apostrofato come giallista, noirista e a dire no, io non sono così e cosà. Gli risponderanno: ma come, il tuo romanzo è un giallo. È un noir. E lui dovrà rassegnarsi a dire, avete ragione voi. Ma continui a inserire, imperterrito, contesti ucronici. Dagli e dagli, qualcosa resterà. Baccolini: Per concludere un occhio al futuro, come si conviene a chi si occupa di storia alternativa: quali sono i tuoi progetti? Hai intenzione di percorrere altre strade o continuerai a scrivere romanzi ucronici? Stocco: Ne ho un paio in corso di revisione presso alcuni editori. Ribadisco, per me l’ucronia è come il pane, se penso a un romanzo per me viene naturale pensare alla storia alternativa. Ma il mio prossimo libro in uscita sarà, stranamente, di fantascienza. Stranamente, insomma. Ho descritto un mondo, ancora. E questo è quello che in fondo fa ogni scrittore. Ma la domanda “cosa sarebbe successo se” è presente anche qui. Bisogna solo saperla trovare…

* STEFANO BACCOLINI

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Storia e cultura

I CELTI

e la letteratura fantastica

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Storia e cultura: i Celti nella letteratura


celti e letteratura A COME ANTICO, M COME MODERNO. “I Tuatha De Danaann arrivarono in Irlanda dal cielo avvolti nella nebbia. Vennero in Eire, esseri brillanti di luce, in nubi di fumo e lampi. Venivano dalle stelle gli Dei d’Irlanda”. [dal Lebor Gabala - il Libro delle Invasioni] Stonehenge si trova sulla Salsbury Plain, ondulata distesa verde dall’atmosfera quasi preistorica. L’aria è magnetica e lo sguardo si sposta attorno – non un albero, nulla – e poi ritorna sull’Henge, attratto da quello che è, irresistibile, il centro di tutto: terra e cielo, e le Pietre, il tramite. Sebbene la sua nascita sia antecedente di almeno mille anni, Stonehenge è stato da sempre immaginato come il simbolo della civiltà celtica e del suo mistero. Ci si può perdere all’interno dei cerchi della Danza dei Giganti seguendo il cammino che essi ci indicano, come un dito puntato su un’altra dimensione: il tempo e lo spazio del Fantastico, una specie di anello di Moebius tra passato e futuro, che in ogni epoca ha trovato sfogo in espressioni cupe ed esoteriche o in altre più liberatorie e solari. Non c’è niente che abbia un potere di contaminazione così vasto come l’immaginario umano: quando la ragione mostra il suo limite, esso tende infatti a rifugiarsi in archetipi diversi da quelli reali, al di là dei dati puramente storici e documentati. E in questa prospettiva, Stonehenge rimane celtico e la magia esiste. Parlare quindi di influenza celtica nell’evolversi di un’espressione artistico-culturale come la letteratura non è probabilmente del tutto esaustivo: c’è da chiedersi cosa effettivamente di questo mix etnicoculturale, raggruppato riduttivamente sotto l’unico nome di “Celti”, abbia ispirato nel tempo il pensiero fantastico collettivo riaffiorando ciclicamente alla luce. Non certo il sistema di vita pag. a fianco: John Martin, caratteristico di “The Bard”, 1817, olio su tela, Yale Center for British Art, New una civiltà preHaven, Connecticut (USA)

sente dall’VIII secolo a.C., né forse il suo pantheon di divinità vicine, per caratteristiche più o meno evidenti, a quelle di altre mitologie; nemmeno le vicende storiche, assai simili a quelle di svariate popolazioni definite barbariche che inevitabilmente si sono fuse con i loro conquistatori. La risposta, allora, può trovarsi in ciò che caratterizza emotivamente il pensiero celtico: un certo modo perfettamente armonico di concepire l’esistenza e l’universo, arrivato a noi attraverso il filtro emotivo di altre culture che lo hanno assorbito e modificato senza cancellarne l’impronta originaria. Il fascino del mondo celtico è costituito dal mistero di un passato non ancora completamente svelato, dalla peculiarità di una civiltà che affidava la sua storia alla tradizione orale dei bardi; dal potere di una classe magico-sacerdotale che teneva segreto il suo Ogham perché il Sape- L’Ogham, l’antico “alfabeto degli alberi” druidico re non doveva

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(© 2004) Howard David Johnson, “Fairie Guardian”, http://www.howarddavidjohnson.com essere patrimonio di tutti ma solo di chi ne era degno. La civiltà celtica concepisce una visione ciclica dell’esistenza, in cui tutto si alterna periodicamente e nulla scompare per sempre: il buio e la luce, l’inverno e l’estate, la vita e la morte sono elementi inseparabili dell’esistenza umana e quindi in intima comunicazione. In questa visione panteistica, l’uomo è il mondo che lo circonda, e il mondo è l’uomo che lo abita, in una profonda comunione con la Natura e le sue forze benigne o maligne, tutte universalmente temute e venerate come divinità. Questa concezione non è statica ma permeata da un dinamismo istinti-

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vo che, come dice J. MARKALE, indica nuove vie in cui chiunque può incamminarsi. Ma c’è un’altra componente da tenere in considerazione, più forte e più oscura: il senso di mistero che ai miti e alle leggende si accompagna. La razionalità non è mai stata sufficiente a soddisfare l’animo umano, che richiede l’andare oltre, in una dimensione in cui le regole del reale possono cambiare e tutto accade e può accadere: dimensione che nella cultura celtica è espressa al meglio, perché racconta il fascino di un mondo in cui la vita è a misura di eroi. Nel suo Il segreto del bosco vecchio, DINO BUZZATI, forse l’unico autore italiano vicino ad una certa sensibilità transalpina, scrive del protagonista giunto a confrontarsi con l’Otherworld, l’altra dimensione: «…finalmente non meschino. Eroe, non già verme, non confuso tra gli altri, più in alto adesso. E solo.» Il folklore celtico presenta una caratteristica praticamente unica rispetto alle tradizioni europee: la vastità delle tradizioni orali, riguardanti esseri fatati ed eroi, divinità guerriere e mondo sovrannaturale. Tale ricchezza di contenuti è inevitabilmente filtrata attraverso i vari momenti storico-letterari ed ha permesso alle leggende di continuare a vivere: un mito vive nel presente, come un confine fluido tra passato e futuro. O meglio, citando il critico M. NICOSIA, “il mito non si narra intorno al fuoco, il mito si danza intorno al fuoco”. Nel trattare le prime testimonianze scritte sulla civiltà celtica, sarebbe forse doveroso un cenno a testi quali il De Bello Gallico, opere tuttavia scritte sui vinti dai vincitori, e quindi probabilmente poco obiettive. Già da qui il “problema Celti” ci si svela per quel che è: un’antica cultura non più esistente nella sua forma e modo di vita originari, e le cui testimonianze ci sono pervenute irrimediabilmente contaminate. I Celti stessi furono, infatti, sia conquistatori sia conquistati, e vennero a contatto con civiltà antecedenti e successive. Premettendo quindi che nessuna testimonianza di questa cultura è disponibile nella sua forma originale, rimane in ogni modo preferibile considerare direttamente le tra-

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celti e letteratura scrizioni arrivate a noi dagli amanuensi medievali: i Quattro Antichi Libri del Galles, due dei quali tradotti nel XIX sec. da LADY CHARLOTTE GUEST con il nome di Mabinogion, e le raccolte di epopee irlandesi, ovvero il Ciclo delle Invasioni, il Ciclo del Ramo Rosso, il Ciclo di Finn ed altre opere minori. Da questi testi spesso frammentari emerge con forza quello che secondo la definizione di TOLKIEN è il “mondo secondario” di dei, eroi, magia ed esseri fatati in cui è possibile riconoscere gli archetipi che hanno ispirato in maniera più o meno eclatante un certo tipo di letteratura, fantastica e non, fino ai giorni nostri. Facendo una distinzione abbastanza grossolana, il ramo celtico-gallese si può definire forse maggiormente “heroic”, per le sue divinità guerriere e l’inesauribile miniera di leggende costituita dal ciclo Arturiano, mentre quello celtico- irlandese affianca ai suoi grandi eroi una più vasta popolazione di esseri fatati e magici, spiriti e apparizioni. In entrambi però troviamo dei temi ricorrenti, come: l’eroismo crudo, la malinconia dei sentimenti, l’elemento incantato che irrompe nel reale, la conoscenza arcana patrimonio di druidi e bardi, i tesori magici, il rapporto con il sacrificio. La prospettiva fondamentale da tenere in considerazione nell’osservare come questi aspetti si possono ritrovare nella letteratura antica e moderna è che nessuno di essi è patrimonio esclusivamente celtico, ma si ritrova in maggiore o minore evidenza presso altre culture e tradizioni. L’idea di una base comune nelle mitologie non è forse così infondata: nell’antichità, i grandi interrogativi della mente umana sono stati probabilmente gli stessi indipendentemente dal contesto in cui sono emersi e quindi, nonostante le inevitabili differenze, le conseguenti risposte sul significato della vita, della morte e degli eventi naturali sono state similari. In tutte le tradizioni, infatti, esistono esseri che possono essere definiti a buon diritto “elfi” o “fate”. Nell’Enzyclopaedie des Marchen si dice che: “Ovunque i

(© 2004) Howard David Johnson, “Fairies, Goblins and Dwarfs”, http://www.howarddavidjohnson.com mortali si comportano allo stesso modo, ricorrono alle medesime cautele e rispettano tabù analoghi”. Tuttavia, nel loro complesso, e inseriti nel giusto contesto mitologico-culturale, tutti gli aspetti citati contribuiscono a delineare una identità particolare che definisce la “celticità” come tale. Tra i testi antichi, il più conosciuto se non il più importante è costituito dai Mabinogion, di cui abbiamo traduzioni anche recenti, che costituisce una buona fonte di informazioni sulla mitologia, le saghe e le leggende celtiche. Il Mabinogion di E. WALTON, trascrizione romanzata dei primi quattro rami (o capitoli) originali, fornisce una visione inte-

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un romanzo che ha saputo abilmente sfruttare questo aspetto tipico della spiritualità celtica: Il Codice da Vinci di DAN BROWN. Le imponenti figure delle divinità più antiche si sono però evolute nel tempo: secondo la tradizione, i Tuatha de Danaan originari (semidei figli della dea Dana), sconfitti dai Milesi (Gaelici) si rifugiarono nelle colline, riducendosi piano piano a divinità dell’acqua e del sottosuolo, gli Aes Sidhe, appunto. In questo ampio panorama religioso-mitologico, gli Aes Sidhe costituiscono l’elemento magico, il variegato popolo fatato che abita il Sidhe, ben diverso dal mondo degli Inferi (Underworld) o Annwn; eppure queste due dimensioni sono in stretta comunicazione e sono state spesso confuse tra loro. L’Eroe, e più tardi il Cavaliere, è il prescelto, colui che troverà, a volte suo malgrado, le Porte d’ingresso tra i due mondi: tumuli, grotte e sorgenti tra le rocce, nella luce magica del crepuscolo, si aprono al fascino del Mondo di Sotto nel senso latino del termine, in cui fascinum significa incan-

Thomas Moran, “Childe Roland to the Dark Tower came”, 1859, olio su tela ressante del variegato pantheon celtico, in cui gli dei sono tutt’altro che perfetti e non sono lontani dalle passioni umane: generosi o crudeli, soffrono o gioiscono per le loro azioni su un piano appena sopra a quello dei comuni mortali, ma soprattutto sono vivi e reali. Più che divinità sono semidei eroici, personificazioni delle forze della natura, a cui appartengono senza costituirne il vertice supremo: sopra di loro c’è un’altra Entità, la Dea Madre, invocata solo in casi eccezionali: Modron, figlia di Avallach (Avalon), al cui potere silenzioso tutti devono ubbidire. Avallach è il re dell’Otherworld, il regno degli Aes Sidhe, accessibile ai mortali, ma dal quale il ritorno è molto difficile e sempre oneroso. La divinità primordiale è quindi femminile, concetto arrivato fino a noi per vie traverse ma comunque affascinante, basti pensare al tema di fondo di

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celti e letteratura tesimo. La “cavità naturale” (specialmente caratterizzata dall’acqua) è spesso un luogo di magia: Nell’Orlando Furioso, i cavalieri ossessionati dalla ricerca di Angelica finiscono nel castello del mago Atlante cadendo in un crepaccio. Nel romanzo La Fonte ai Confini del Mondo di WILLIAM MORRIS (1834-1896), prereffaellita, la Porta è metaforica ed è costituita da una fonte magica che dona l’amore e l’eterna giovinezza. Per arrivarvi, il giovane cavaliere percorre il suo cammino iniziatico, aiutato e amato da varie dame, che rappresentano la conoscenza carnale e spirituale. Al di là dell’ingenua liricità del suo stile, che forse oggi ci farebbe sorridere, Morris ha generato il primo mondo fantastico coerente (aprendo un canale per il romanzo immaginario moderno), la cui ambientazione “medievaleggiante” nasce come reazione alle forzature della società industriale del periodo vittoriano. Anche nel romanzo La figlia del Re degli Elfi di LORD DUNSANY, si parla del passaggio critico tra il mondo umano e quello magico e, più recentemente, lo stesso tema è stato ripreso in La Guerra per Albion di STHEPHEN LAWHEAD, in cui i due protagonisti si trovano sbalzati dalla moderna Scozia all’antica terra gaelica dei loro avi. Nel Ciclo dei Mythago di ROBERT HOLDSTOCK, ricco di riferimenti celtici, è un intero bosco ad essere incantato. I Mythago, creature-archetipo materializzate da vecchie storie, miti e ballate, rappresentano l’antico mondo perduto, il passato dimenticato che prende vita combinandosi con le capacità fantastiche della mente umana. Gli Aes Sidhe comprendono una numerosa varietà di creature riprese da diversi scrittori: JAMES STEPHENS, autore dal forte spirito tradizionalista irlandese, mette i Leprechaun nella sua novella The crock of gold, in cui le leggende tradizionali celtiche si mescolano a realismo e fantastico con una buona dose di umorismo. RUYARD KIPLING scrive Puck of Puck’s hill (1906) una raccolta di racconti in cui il celebre folletto (parente stretto del Phooka irlandese e del Pwca gallese) è un’entità benevola che narra ai bambini le straordinarie avventure degli Spiriti

(© 2004) Howard David Johnson, “Fairy Queen Medb of the Sidhe”, http://www.howarddavidjohnson.com delle Colline. Nella tradizione irlandese e gallese più genuina tuttavia, il Piccolo Popolo raramente è benigno con gli uomini. Le fate/streghe (Glaistig, Nixie, Leanan-Sidhe) nascondono spesso appetiti di vampiro; Goblin, Coboldi e Pixie amano i dispetti crudeli e le promesse ingannevoli; le creature dell’acqua (Bean-Nighe, Bean-Fhionn, Selkie, Urisk, Mermaid, Kelpie, Tylwyth Teg) attirano gli incauti nelle loro liquide dimore o sono presagio di sventure. A differenza della Corte Contenta (tutto sommato non pericolosa), che appare al crepuscolo, la Corte degli Scontenti (decisamente malvagia) vola di notte in cerca di prede. Nel suo Goblin Market,

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leziosa e classicheggiante, in The Tempest troviamo Ariel, mentre nel Juliet and Romeo Mercuzio declama la corsa notturna di Mab, regina delle fate, a disturbare il sonno degli uomini e delle fanciulle con il suo carico di sogni dispettosi. Più cupo il richiamo celtico del Macbeth, in cui le streghe (o fate?) rivelano il futuro attorno al Calderone, e la foresta marcia silenziosamente verso il castello con il suo nucleo nascosto di uomini e armi; retaggio questo del Mabinogia in cui si racconta la battaglia di Achren (o Godeu, secondo il bardo Taliesin) in cui Gwydyon, nipote di Math, vince le truppe dell’Annwn trasformando i suoi guerrieri in alberi. La storia del King Lear, sebbene sia comune a più culture e non tratti di fate, si richiama ad un leggendario re di Britannia e contiene un passo interessante:

(© 2004) Howard David Johnson, “Cuchulainn’s War Chariot”, http://www.howarddavidjohnson.com CHRISTINA G. ROSSETTI, altra autrice preraffaellita, consiglia: “Non si devono guardare i goblin, e neppure comprare i loro frutti; chissà su che suolo hanno nutrito le radici assetate e affamate.”

-William Shakespeare King Lear Act III, Scene 4, 187-189.

Sicuramente più inquietante, al limite dell’horror, è il racconto di ARTHUR MACHEN, The White People: qui la Porta è un pozzo appartato tra i fiori del giardino, ma le pallide creature, (il Tylwyth Teg celtico) che ne escono danzando sembrano provenire direttamente dai regni infernali. Fate, folletti e creature magiche compaiono già in SHAKESPEARE: nel Midsummer Nights il mito diviene parte vitale della storia, in cui le fate e gli elfi (Puck) del folklore inglese assumono una veste più

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“Childe Roland to the Dark Tower came, His word was so still - Fie, foh, and fom, I smell the blood of a British man.”

Da questi pochi versi, eredità di un’antica ballad, nascerà la poesia fanta-gothic di ROBERT BROWNING, Childe Roland to the Dark Tower came, che a sua volta, un secolo dopo, sarà la fonte d’ispirazione per STEPHEN KING e la sua saga fantasy della Torre Nera. Il volo della regina delle fate raggiunge anche il The Faerie Queen di Edmund Spenser (1552-1599) e il Queen Mab di PERCY B. SHELLEY, (1792-1822), opere allegoriche in cui il fantastico diviene spirito nazionalistico nel primo e ricerca di un mondo a misura d’uomo nel secondo. Ma altre figure incantate,

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celti e letteratura ben più inquietanti dei personaggi presenti nei graziosi ninfali shakesperiani e post-shakesperiani, si sono manifestate nel panorama letterario: la fata celtica per eccellenza è Morgana, il simbolo femminile magico dai colori oscuri e dalle origini complesse, presente in questa cultura fin dagli albori delle sue tradizioni mitologiche. Morgana, la Signora di Avalon, (derivata forse dalla più antica Morrigan, dea irlandese delle battaglie, o da Muirghen, sirena di Ys del ciclo bretone, o ancora Modron, la Dea Madre delle acque), compare per la prima volta nella Vita Merlini di J. DI MONMOUTH, e viene ripresa da CHRETIEN DE TROYES e poi da THOMAS MALORY. In Sir Gawain and the Green Knight, racconto di un autore anonimo dell’XI secolo, è l’artefice di tutta la storia, che si rivela un’illusione; e nell’Orlando Innamorato fugge come una fatata Angelica inseguita da uno dei tanti cavalieri che si aggirano nella foresta. Riappare in una moltitudine di opere minori, poi con ALFRED TENNYSON, fino al racconto Mari Vorgan di ROPARTZ HEMON (1900 - 1979), in cui risulta dominante l’aspetto di maligna divinità delle acque. Infine, è la protagonista indiscussa del romanzo Le nebbie di Avalon di MARION ZIMMER BRADLEY, in cui rappresenta l’immagine della sacerdotessa pagana, nella visione tutta al femminile in cui l’autrice propone la saga arturiana. Se nelle opere della Bradley la sua figura si colloca al di là del bene e forse vicina al male, in altre narrazioni moderne Morgana diventa difensore dei buoni, come in The Last Defender of Camelot di ROGER ZELAZNY. Meno famosa ma altrettanto antica la figura di Melusine, presente soprattutto nelle tradizioni del Galles e delle Low Countries. Su questa fata dell’acqua, metà donna metà serpente, abbiamo Die neue Melusine di GOETHE, la storia narrata da sir WALTER SCOTT in Minstrelsy of the Scottish Border (1802-1803), ed un racconto, Le Melusine, dell’italiano DINO BUZZATI. Sir Walter Scott (1771-1831) mostra un’impronta se vogliamo più “storica”: autore di un interessante saggio, On the Supernatural in Fictitious

(© 2004) Howard David Johnson, “The Magic Sword, Excalibur”, http://www.howarddavidjohnson.com Composition (1827), Scott è scozzese, e la Scozia ha potuto conservare le sue tradizioni celtiche più a lungo rispetto al resto dell’Inghilterra grazie alla sua posizione geografica. The Lay Of the Last Minstrel è il suo poemetto più famoso, e contiene riferimenti marcati alla tradizione antica: magie e libri di incantesimi, ombre, demoni e negromanti. Praticamente contemporaneo a Scott è ROBERT BURNS (1759-1796), definito l’Ultimo Bardo per le sue composizioni scritte sulle arie di antiche ballate scozzesi, ricche di apparizioni sovrannaturali legate nella tradizione a luoghi realmente esistenti: in Tam O’Shanter, il protagonista si avventura di notte ad Auld Kirk, dove vede maghi e streghe ballare, e si

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Particolare del calderone di Gundestrup ( II - III sec d.C ) - Museo Nazionale di Danimarca, Copenhagen. salva con una magica fuga a cavallo attraverso il Brig O’Doon (ponte sul Doon). Ma certe “arcane presenze” si ritrovano anche in pubblicazioni molto recenti: una strana aria, pesante e morbosa, si respira in Taltos di ANNE RICE, dove il Piccolo Popolo è degenerato in omuncoli feroci e animaleschi in lotta con quelli che una volta erano gli Antichi Dei, bruciati sui roghi della Nuova Religione. Immerso in questo contesto oscillante tra realtà e magia sta la figura dell’Eroe celtico, inizialmente divinità della natura e poi maggiormente umanizzato, ma sempre in rapporto e in conflitto con l’elemento soprannaturale. Dotato di capacità sovrumane, è presente sia nella matrice irlandese, attraverso la saga di Cuchulainn, che in quella gallese-bretone: le vicende di Artù e dei suoi compagni, i futuri Cavalieri della Tavola rotonda vengono narrate in almeno cinque degli undici rami dei Mabinogion. Artù diventa protagonista o comprimario di narrazioni gallesi intorno al 600 d.C.; in un poema del

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ciclo Gododdin attribuito al bardo Aneiryn viene descritto come guerriero invincibile al pari di Cuchullain. In questa fase la storia di King Arthur e dei suoi Compagni non è ancora filtrata dalla cultura cristiano-normanna che la trasformerà nel successivo romanzo cavalleresco. L’eroe celtico non è cortese, è un guerriero e non un cavaliere, combatte solo contro il mondo e intona canti magici alla stregua dei bardi per vincere il nemico, umano o divino che sia. Apprezza le gioie concrete, ha un legame forte e malinconico con la sua terra e non teme la morte, anticamera di una nuova rinascita. Anche l’amore rientra in questa ottica: ricco di erotismo latente anch’esso è tragico e porta spesso ad una fine violenta, come testimonia il poema Canto di Fothad Airghech, IX secolo, intitolato da GEORGES DOTTIN L’Appuntamento dopo la Morte: Silenzio, donna, non parlarmi Il mio pensiero non è con te. Il mio pensiero è rivolto alla battaglia di Feic. Il mio corpo insanguinato giace Sul pendio delle due rive. […] Il nostro appuntamento

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celti e letteratura “La Corte dei Sidhe”, dal libro “Fate” di B.froud e A. Lee Io l’ho mantenuto nella morte. Non sono il solo, nell’ardore del desiderio ad essermi smarrito per ritrovare una donna. […] Con la sua lancia omicida la Morrigane è venuta. …Numerose sono le spoglie che lava. […] Và, non restare qui…al mattino mi separerò dal mio corpo E seguirò la schiera dei guerrieri. […] Il Conan di ROBERT ERWIN HOWARD è un fedele successore del guerriero celtico per il suo furor combattivo, l’astuzia e il mondo magico in cui si muove, ma manca di quei tratti malinconici caratteristici delle antiche saghe in cui l’eroe soffre e si sacrifica, muore nell’attesa di rinascere. MORGAN LLEWELLYN ne I Guerrieri del Ramo Rosso narra le gesta di Cuchullain, combattente semidivino che incarna perfettamente l’archetipo eroico e, con la Saga di Finn Mc Cool racconta la storia dell’eroe fondatore del Fianna, l’esercito irlandese, simile per molti versi ad Artù e ai suoi cavalieri. Il sacrificio è un tema costante della mitologia celtica, individuabile nella figura del Re che viene ciclicamente immolato alla terra, nei riti stagionali di Samain e di Belthane, nel Guerriero che invoca prima della battaglia il “ giusto cammino” verso la morte, per assicurarsi il favore degli dei e la memoria degli uomini. La vera morte non è la perdita

della vita, ma del ricordo delle proprie gesta nelle generazioni future, nei canti dei bardi e nel rimpianto dei propri compagni. Un esempio caratteristico è Sir Gawain and the Green Knight, scritto in epoca medievale dopo la commistione folklore - spiritualità cristiana, tradotto e commentato da Tolkien: Gowain, compagno di Artù, si offre a salvaguardia dell’onore del suo re affrontando un viaggio pieno di tranelli per combattere l’invulnerabile Cavaliere Verde. La problematica concettuale del sacrificio ritorna con importanza particolare nei Romantici, come WILLIAM WORDSWORTH (1770-1850) e JOHN KEATS

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John Martin, “Manfred and the Alpine Witch”, 1837, aquerello, Whitworth Art Gallery, Manchester (1795-1821), che ripetono l’errore di attribuire le pietre di Stonehenge ai druidi e all’aspetto sacrificale del mito: il primo, nel poemetto An Evening Walk, sembra rifiutare la crudezza della pratica sacrificale rivestendola di sentimentalismo, mentre il secondo, nell’Ode on a Grecian Urne, la accetta, rintracciandone il significato originario. Il sacrificio prende spesso la forma dell’offerta agli dei o alle forze della natura: armi e oggetti simbolici gettati nelle acque di fontane, laghi e sorgenti è tema ricorrente e legato agli antichi riti funerari perduti, ed Excalibur ne è il caso più famoso. La magica Spada di Nuada (da cui è probabilmente derivata la leggenda attorno

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a quella di Artù) è uno dei quattro grandi tesori del Galles, assieme alla Lancia di Lugh, alla Pietra di Fail, e al Calderone di Dagda (è probabile inoltre che da questo antico simbolo magico-religioso di Sacra Coppa sia derivato il Graal arturiano, punto d’origine di un’altra ricca e complessa ramificazione letteraria tuttora viva e attuale.) Il Ciclo di Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda, i cui personaggi sono presenti in almeno cinque degli undici rami del Mabinogion, è forse il tema che più ha influenzato la letteratura fino all’età moderna, attraverso le sue molteplici rielaborazioni. La produzione narrativa associabile all’eroe di Camelot è immensa, sia che tratti direttamente la storia di Artù, sia che ne riprenda i temi fondamentali attraverso le chanson de geste e la letteratura cortese. Si possono citare: Vita Merlini di J. Di Monmouth, The Vulgate Cycle, Sir Gawain and the Green Kni-

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celti e letteratura ght, le opere di ROBERT DE BORON, C. de Troyes, Le Morte d’Arthur di Malory, Idylls of the King di Tennyson, arrivando alla narrativa contemporanea come la “trilogia di Merlino” di MARY STEWART, Le Nebbie di Avalon della Bradley, Black Horses for the King di ANNE MCCAFFREY, Camelot di ISAAC ASIMOV, The Acts of King Arthur and his Noble Knights di JOHN STEINBECK; limitandosi solo un’infinitesima parte. Più recenti, Excalibur di BERNARD CORNWELL, conforme alla tendenza più moderna di narrare il mito in forma realistica e Le Cronache di Camelot di JACK WHYTE, un interessante mix di pseudo-storia e leggenda… Sempre dall’epopea arturiana emerge con forza la figura arcana del druido: il nome deriva probabilmente da drys-wid, vale a dire “colui che conosce la quercia”, e viene riferito ad una vera e propria casta di sapienti, uomini e donne, che ricoprivano numerosi ruoli e detenevano un potere spirituale universalmente riconosciuto. Il druido consiglia il re come intermediario presso gli dei, amministra la giustizia, insegna il sapere, è veggente e guaritore, conosce l’arte della musica e della poesia. Esercita il suo potere spirituale in luoghi sacri generalmente non edificati da mano umana, come cumuli di pietre, sorgenti, alberi sacri, che costituiscono il Nemeton, il tempio. La figura del druido oltre ad essere abbondantemente ripresa nella fantasy vera e propria, si ritrova in diversi romanzi storico-mitologici come Il Potere dei Druidi di M. Llewelling, e La Spada del Druido di MAURO RACCASI. Quest’ultimo e Il Regno di Conan costituiscono i primi due episodi della trilogia Il Romanzo dei Celti dello scrittore parmigiano. Un altro caso è Il Passo di Merlino di JEAN LOUIS FETJAINE, un interessante esempio di narrazione storica e fantasy classico volto a narrare le origini di

Frank Farzertta, “Conan the Buccaneer” Merlino il Druido in una veste nuova e più verosimile. Questa figura magico-sacerdotale viene ripresa anche nei romanzi fantasy di Terry Brooks, per lo meno per quanto riguarda la concezione dell’apprendimento esteso senza discriminazioni a tutti coloro che ne mostrano le capacità. Il druido, in epoca cristiana, diventa Mago con una connotazione sia positiva che negativa, e Merlino ne costituisce l’esempio emblematico: tutore e

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La figura del druido è intimamente legata a quella del bardo. JAMES MACPHERSON (1736-1796) è l’autore dei Canti di Ossian e Fingall, ormai considerato uno dei più celebri “falsi della storia”, o meglio un insieme di poemi attribuiti al leggendario bardo(Ossian/Oisin) e principe scozzese, ma in realtà composti dall’autore, mediante la rielaborazione di antichi canti popolari: il risultato è però una grandiosa visione di un immaginario medioevo celtico profondamente suggestivo, che nel Romanticismo troverà il substrato più adatto a recepirlo. Il bardo è il depositario del primo livello di conoscenza e detiene un’arte magica e potente: attraverso la musica può esercitare incantesimi, inducendo al riso, al pianto o al sonno chi lo ascolta. Già nei Mabinogion, si osserva come l’eroe abbia spesso anche l’attributo di bardo e incantatore, elemento che dimostra come questi aspetti nel folklore celtico siano intimamente legati. In questa fase letteraria, la figura dell’eroe è prettamente maschile, anche se una delle opere più conosciute di WILLIAM BUTLER YEATS (1865-1939) è Deirdre, (in gaelico “Dolore”) in cui la cui presenza ardita e tragica del mito diviene il simbolo della libera scelta del proprio destino. Deirdre, la donna più bella di Erin (Irlanda), è l’eroina che si sacrifica di fronte all’egoismo del potere. Autore di tre raccolte sul folklore tese a far rivivere l’antica spiritualità celtica, Yeats è stato uno dei maggiori esponenti del Celtic Revival, movi“Fairie”, dal libro “Fate” di B.froud e A. Lee mento letterario collegato all’associazione esoterica “Golden Down” che riunì autori particolarmente consigliere di Artù secondo la leggenda, era, stando importanti per l’evoluzione moderna della letteratualle testimonianze a noi pervenute, un bardo gallese ra fantastica: tra gli altri, l’irlandese lord Dunsany e noto per le sue profezie; nell’immaginario fantasti- il gallese ARTHUR MACHEN, ispiratori a loro volta di co, però, Merlino rimane l’archetipo più eclatante talenti quali HOWARD P. LOVERCRAFT, CLARK A. SMIdell’Incantatore Sapiente, capace di utilizzare le TH, Robert E. Howard. Volendo tracciare un confine forse artificiale e forze arcane per il bene comune. La figura del mago è praticamente immancabile nel racconto fantasti- arbitrario, possiamo dire che a questo punto la narco, che sia alleato prezioso o nemico implacabile razione fantastica inizia ad assumere confini magdell’eroe/protagonista: i maghi e le maghe abbon- giormente netti e precisi, svincolandosi definitivadano anche nella letteratura italiana del ‘500, basti mente dagli ambiti più classici: nasce un genere pensare all’Orlando Furioso e alla Gerusalemme nuovo, il Fantasy. liberata.

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Boris Vallejo, “Excalibur”, 1983

F COMEFANTASY “…Non c’è paradiso nelle terre in cui noi cavalchiamo Veloci al di là del pensiero in ogni vostra casa, con le divinità dei padri e i figli di Finn, con le regine delle antiche fiabe ed i re che tutto vinsero tutto con un’unica spada […] Non muovetevi dai vostri giacigli Per chiamare il mio nome. Io non entrerò. Perché me ne sono andata nel paese delle fate

[…] Me ne sono andata verso gli spazi aperti, dove nessuno potrà mai cavalcare; Ma io guarderò sopra tutti voi non più in paradiso, né all’inferno, né in terra.” [da The Fairychild - Lord Dunsany]

Le definizioni di cosa sia il Fantasy sono molteplici e discordanti, come diverso e complesso è il modo in cui questo genere viene percepito, specialmente nell’attuale panorama letterario in cui si assiste ad una notevole contaminazione tra le varie classificazioni. Alcuni elementi fondamentali tuttavia restano comuni, come ad esempio (in varia misura) la

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magia colFrank Farzetta, legata alle “Lord of the Rings” III forze della natura, i valori come saggezza- superstizione- destino associati all’eroe, l’ambientazione in mondi simil-medievali o comunque immaginari, e l’eterna lotta Bene-Male. Nel Fantasy infatti, il lettore deve essere preso e trasportato in ciò che per lord Dunsany erano le Terre Interiori, e che Tolkien chiamava Mondo Secondario, la terra di Feerie, insomma. La Faeryland del folclore originario, celtico e non, è il prototipo del Regno del Doppio, in cui accanto al meraviglioso c’è qualcosa di terribilmente sbagliato: ai più grandi splendori corrispondono orrori in un susseguirsi di

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vertici e abissi, donne meravigliose e creature mostruose, doni preziosi e crudeli riscatti. È comunque evidente come questo genere fantastico sia influenzato anche dal patrimonio folkloristico celtico, del quale riprende i temi dominanti. La modern fantasy raggiunge la vera notorietà con JOHN R.R TOLKIEN: profondo conoscitore di miti norreni ma anche celti, Tolkien pone l’accento sul valore consolatorio del fantastico, necessario alla mente umana per sottrarsi ai vincoli ristretti e oppressivi della vita reale. Nessun genere letterario nasce per merito di un solo autore, ma in questo caso si può affermare che dal Signore degli Anelli in poi il Fantasy acquista una veste moderna, raggiunge il suo pieno sviluppo, e prolifera in sempre nuove ramificazioni. I critici sono animatamente

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celti e letteratura discordi sulle caratteristiche celtiche di questo autore: sicuramente Tolkien stesso ha più volte negato un’ispirazione derivante dalle “celtic things” nelle sue creazioni letterarie (ma c’è da domandarsi perché abbia sentito il bisogno di affermarlo), paragonandone la mitologia ad un mosaico dai colori troppo forti e confusi, mentre il mondo delle saghe nordiche è chiaramente l’anima ispiratrice di tutte le sue opere. È pure vero che queste due sfere etnico-culturali probabilmente si sono contaminate a vicenda, e c’è anche chi si chiede se il Professore di Oxford non abbia subito tale influenza suo malgrado, una specie di imprinting serpeggiante in profondità, ma ugualmente presente. Il dipartimento di storia medievale dell’Università di Cardiff (Galles) ha presentato nel corso del suo congresso annuale alcuni interessanti articoli a riguardo. In ogni caso, se Tolkien sia stato o meno un autore d’ispirazione in parte celtica è una questione ancora aperta, e probabilmente resterà tale. Nell’ambito della letteratura fantasy, moderna e contemporanea, una presenza “puramente celtica” non è comunque estesa come si potrebbe pensare: l’impressione generale è di un’influenza più propriamente “nordica”, includendo in questo termine un misto di folklore celto-norreno-finnico, assorbito, filtrato ed elaborato in modo personale dai diversi autori. Può essere comunque interessante constatare come i vari autori abbiano rielaborato alcuni aspetti presenti nel folklore celtico, ad esempio il senso del magico, la divinizzazione della natura e il tema del viaggio, costruendovi attorno personaggi e mondi immaginari coerenti. Nel panorama letterario fantasy tuttavia, la contaminazione accennata in precedenza è forse ancora più marcata, perché spesso è ricercata dallo stesso autore: si possono tranquillamente mescolare rune e ambientazione celtica, streghe nordiche, druidi irlandesi e mitologia classica, perché nella creazione di un mondo fantasy tutto è concesso a patto che il risultato finale sia coerente e verosimile. Esistono ambientazioni narrative in cui è il mondo immaginario nel suo

complesso ad essere incantato, oppure si pone l’accento sulla magia degli Elementi (come nella Trilogia di Coldfire di CELIA S. FRIEDMANN), associabili nella tradizione più antica ai quattro Tesori portati dai Tuatha Dè Danaan: Aria (la Lancia), Terra (la Pietra), Acqua (il Calderone), Fuoco (la Spada). Nella maggior parte dei romanzi fantasy troviamo immagini di armi potentissime e quasi senzienti: nella saga la Spada della Verità di TERRY GOODKIND, l’arma del Cercatore tenta di dominarne la volontà con la sua magia di morte; come nel Lupo Bianco di DAVID GEMMELL, la lama incantata del protagonista, eroe maledetto in cerca di riscatto, è la Spada del giorno e della Notte. Comunque sia, ad ogni grande arma è associato un Eroe: nella Saga del Drenai ancora di Gemmell, la figura di Druss, con la sua ascia dai molteplici nomi, ricorda molto il guerriero celtico che affronta la morte pensando alla malinconia della vita. All’interno di questo panorama piuttosto vario e sfaccettato troviamo alcuni esempi, se non isolati sicuramente non molto numerosi, di narrativa in cui rivisitazione e ambientazione in chiave fantastica del mondo celtico sono intenzionalmente ricercate: Robert Howard, il padre della J.R.R. Tolkien heroic fantasy,

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Vischer Peter the Elder, King Arthur, 1513 circa, bronze Franciscan Church, Innsbruck

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scrive anche il cosiddetto “Ciclo Celta”, un gruppo di otto racconti sui condottieri celti Bran Mak Morn e Turlogh O’Brien. PAUL ANDERSON invece, con il suo Ciclo di Ys (Roma Mater, Dahùt, Gallicenae, The Dog and the Wolf) riprende una delle più affascinanti leggende celtiche, quella di Ys, la Città di Sotto sommersa dalle acque per colpa di Ahès/ Dahùt, l’infida creatura del mare. L’elemento Acqua è particolarmente sentito nella tradizione celtica. La mitica isola di Avalon, presente nei racconti derivati dalle saghe arturiane, è circondata e protetta dalle acque del Lago: sia nei romanzi della Bradley che della Stewart, le principali figure magiche sono legate all’acqua, e all’acqua verrà restituita la spada di Artù. Nel Ciclo di Deverry, di KATHARINE KERR, il presupposto narrativo è la fuga avventurosa del popolo celtico in un mondo parallelo dopo l’invasione romana, il tutto inserito in un’attenta ricostruzione storico-mitologica. Nella Saga dei Deryni della Kunz troviamo un reame chiamato, guarda caso, Gwynedd. Decisamente umoristica è invece la rielaborazione delle vicende di Cuchullain fatta da LYON SPRAGUE DE CAMP nella raccolta Il Castello d’Acciaio: l’eroe irlandese diviene qui la caricatura, peraltro attuale, del lottatore tutto muscoli e niente cervello. I personaggi del panorama fantasy si ispirano spesso a realtà celtiche storicamente esistite: in Sigarni di Gemmell, ad esempio, la regina guerriera è modellata sulla figura di Boudicca. Nell’ambito del Fantasy assumono maggiore spessore le figure femminili nel ruolo di eroine/ protagoniste, magari inserite nell’ambito di antiche leggende: il tema narrante del romanzo La Figlia della Foresta di JULIET MARILLIER proviene dalla storia dei figli di Llyr tramutati in cigni presente nel Lebor Gabala. La protagonista del racconto, Sora, riveste la figura magica e guaritrice degli antichi druidi, che spesso erano donne. Caratteristici personaggi magici al femminile sono anche le Aes Sedai di ROBERT JORDAN: celtiche già nel nome, queste incantatrici sembrano quasi, per il loro percorso di apprendimento arcano, assimilabili alle donne-drui-

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celti e letteratura do o alle arturiane dame del Lago, come anche le Sorelle della Luce di Goodkind. Un approccio interessante ad un aspetto della mitologia celtica è offerto dai romanzi high fantasy di GREG KEYES: ricca di spunti provenienti da varie culture, la sua saga I Regni delle Spine e delle Ossa (di cui sono editi i primi due volumi, The Briar King e The Charnel Prince) recupera le antiche leggende sugli alberi che prendono vita; anzi, il potere arcano che si risveglia con forza distruttiva è l’Albero, forza primigenia che emerge dal letargo del tempo per spezzare il circolo vizioso e malevolo in cui gli uomini hanno costretto la magia provocando una nuova apocalisse. Il dio-albero è qui la trasposizione gigantesca e terribile del Green Man, l’Uomo Verde, identificabile con Cernunnos, ovvero l’Horned God dei celti, divinità della natura intesa come susseguirsi di morte e rinascita. Il volto del Green Man, incorniciato da rami e foglie, si ritrova scolpito ovunque, dalle cattedrali ai luoghi più umili in tutto il territorio anglosassone. Anche con GEORGE R. R. MARTIN, che di celtico ha ben poco, ne troviamo traccia: a Grande Inverno, la fortezza degli Stark, c’è l’Albero del Cuore, sul cui tronco è inciso il volto dei vecchi Dei. Di sicuro onnipresente in tutte le opere considerate è infine il tema del Viaggio: gli eroi, che inseguano nemici, che cerchino oggetti preziosissimi e incantati, che fuggano dal loro passato, o che salvino dame in difficoltà, si muovono instancabilmente attraverso terre desolate, irte di pericoli e popolate da creature magiche mostruose o dotate di bellezze incomparabili. Questo tema è patrimonio di praticamente tutte le mitologie, ma anche nei Mabinogion si osserva come le avventure di dei ed eroi difficilmente siano confinate in un solo luogo, ma richiedano un continuo cammino, un continuo spostarsi da un luogo all’altro, da un regno all’altro, da un mondo all’altro. L’obiettivo vero del viaggio diviene allora il viaggio stesso, simbolo del percorso interiore di maturazione, iniziazione e anche espiazione dell’eroe. In conclusione, il fascino della cultura e della

BIBLIOGRAFIA J.Markale: I Celti Mario Praz: Storia della letteratura inglese Joseph Jacobs: Storie di fate scozzesi e irlandesi C.V. Sullivan III: The Influence of Mabinogion in Modern Fantasy M.Nicosia: Riflessioni sul mito F.Calabrese: La letteratura Fantasy e i Celti Charles Squire: Mithology of the celtic people J.R.R. Tolkien: Albero e Foglia, Il Medioevo e il Fantastico M. Schneider: Le pietre druidiche e il problema del sacrificio nel romanticismo inglese King Arthur: A Man for the Ages. Explorations in Arthurian History and Legends (www.geocities.com/CapitolHill/4186/Arthur/htmlpages/ kingarthurlendpeople) Fabio Calabrese: La letteratura Fantasy e i Celti George P. Landow: Faeryland and the human immagination David Pringle: Modern Fantasy - The Hundred Best Novels (1946-1987) IMMAGINI “The Bard”, “Manfred and the Alpine Witch”, “King Arthur”: http://www.wga.hu “The Ogham”: http://paganwiccan.about.com/library/alpha/blogham.htm “Fairie Guardian”, “Fairies, Goblins and Dwarfs”, Fairy Queen Madb of the Sidhe”, “Cuchulainn’s War Chariot”, “The Magic Sword, Excalibur”: http://www.howarddavidjohnson.com “La Corte dei Sidhe”, “Fairies”: dal libro Fate di B.froud e A. Lee “Childe Roland to the Dark Tower came”: http://www.artnet.com “Conan the buccaneer”, “Lord of the Rings III”: http://www.die-einherjar.de/index.htm “Excalibur”: http://vallejo.ural.net/

mitologia celtica è costituito dall’evocazione di una dimensione in cui viene meno il concetto di limite tra possibile e impossibile, facendo desiderare alla parte irrazionale della mente umana di “essere là”. Le tematiche del fantasy, celtico e non, non possono quindi essere limitate a definizioni ristrette che individuano nell’interesse suscitato da questo genere solo la paura della realtà e il desiderio di evasione: si tratta di accettare la necessità della nostra componente fantastica e di conservare l’antica capacità di guardare verso altre dimensioni che possono essere anche solo interiori. O verso le stelle da cui sono giunti gli Dei d’Irlanda.

* ANJIIN

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i Celti tra storia e leggenda campagna in Asia, incontrò alcuni “Galati” e, alla sua domanda su quale fosse il loro più grande timore, essi gli risposero sfacciatamente che avevano paura soltanto che il cielo, cadendo, li schiacciasse. Questo aneddoto, vero o falso che sia, è una testimonianza palese del rispetto che le loro capacità guerriere incutevano tra le genti vicine. Il percorso dei Galati inizierebbe, però, da lontano. GERHARD HERM, con una certa fantasia, li identifica con i Filistei di biblica memoria, sconfitti dal faraone Ramsete III attorno al 1165 a.C. (Gerhard Herm, Il mistero dei celti, 1975, p. 131).

Guerrieri Celti

a) Le origini Appiano (Anabasi, I, 4) racconta che Alessandro Magno, ancor prima di intraprendere la sua vittoriosa Guerrieri Filistei

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L’ipotesi, assai intrigante, si fonda semplicemente sulla presunta corrispondenza tra i pittoreschi copricapi che essi sfoggiavano e le chiome irrigidite dai bagni di calce, abitudine nordica più volte descritta nelle fonti. Che il gigantismo di Golia fosse effettivo, dunque? Sta di fatto che la prestanza fisica di questi barbari dovette fare davvero grande impressione ai più minuti Greci, dal momento che questi ultimi li ritennero dei discendenti di Eracle e inventarono la leggenda della fondazione di Alesia da parte dell’eroe. Stando al mito, una principessa locale si sarebbe, quindi, invaghita del muscoloso semidio e il frutto della loro unione sarebbe stato un certo Galàtes. Da ciò deriverebbe, appunto, la denominazione di Galati.

Storia e cultura: i Celti nella Storia


celti nella storia Abbandoniamo per ora il campo delle ipotesi e dei miti e immergiamoci nella realtà storica. Per la prima età del ferro ci soccorrono soltanto le fonti archeologiche: sappiamo che essi erano diffusi nell’Europa del Nord e che praticavano l’inumazione a differenza delle popolazioni precedenti. Si definisce cultura di Hallstatt il periodo tra VIII secolo a.C. e all’incirca il 450 a.C, mentre per gli anni compresi tra il 450 a.C. e il 50 a.C., epoca in cui le fonti scritte ci offrono informazioni più complete, si parla di cultura di La Tène (località svizzera sede di un importante rinvenimento archeologico). Nulla di certo, invece, si può dire per la precedente età del bronzo. Le domande al vaglio degli studiosi sono, infatti, molteplici: da dove venivano i Galati? Erano una popolazione autoctona o arrivarono dall’esterno? È probabile che questi interrogativi rimarranno anche in futuro senza risposta. Furono Greci e Romani ad alimentare la fama dei Galati, commerciando ma soprattutto scontrandosi in battaglia con questa popolazione. “Celti” era l’altra denominazione con cui erano conosciuti, come li chiamarono gli abitanti della greca Marsiglia, tra i primi a incontrarli e ad averli come vicini. Tale denominazione sarà poi quella che si affermerà anche nelle fonti antiche, arrivando a qualificare l’intero popolo nel suo complesso. Ma quante erano le tribù dei Celti? Non lo sappiamo con precisione: Greci e Romani, essendo entrambi l’espressione di una civiltà “cittadina”, avevano grosse difficoltà a comprendere le realtà a struttura tribale. Conosciamo, tuttavia, la loro area di espansione che è rappresentata all’incirca dall’Europa centro-settentrionale, dal territorio danubiano, dalla Spagna e dalle isole britanniche, con significative propaggini in Italia e nell’odierna Turchia. Gli studiosi moderni hanno, invece, individuato due aree linguistiche che si

Diffusione dei Celti in Europa

possono esemplificare con l’uso delle lettere“Q” e “P”. Per “cavallo”, ad esempio, coloro che parlavano il celtico-Q utilizzavano il termine equos; all’opposto nell’altra area era invece adoperato il termine epos. Il celtico-Q dovrebbe essere la forma più antica ed era parlato in Irlanda, Scozia e Spagna, mentre in Gallia e in Britannia prevaleva la forma “P”.

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Galata Morente, II sec. a.C., copia romana in marmo da un originale pergameno, Musei Capitolini, Roma

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Falange in azione

b) I Celti e il mondo greco-ellenistico Come dicevo, già Alessandro Magno ebbe a che fare con i Celti: attorno al 335 a.C. li troviamo alleati dei Macedoni contro gli Illiri. Strabone ci riporta la formula del loro giuramento che si presenta straordinariamente simile a quello dei Gaeli irlandesi, più di mille anni dopo: “Vogliamo mantenere fede al giuramento, o possa il cielo abbatterci e annientarci, la terra aprirsi sotto di noi, il mare sollevarsi e sommergerci” (Strabone, VII, 3, 8). In epoca ellenistica (III-I sec. a.C.), un periodo in cui il mondo greco era profondamente turbato e privo di una guida unitaria, i Celti arrivarono come una burrasca. Tra i primi a cadere sotto il loro giogo furono i Traci, abitanti dell’odierna Bulgaria, barbari e ubriaconi agli occhi dei civili Elleni, ma anche valenti combattenti, che pure rimasero sottomessi per più di cinquant’anni. A Tylys, l’odierna località bulgara di Tulowo, i Celti costruirono un vero e proprio regno che crollò definitivamente nel 212 a.C. per mano degli stessi Traci. Anche Greci e Macedoni vennero gettati nel panico di fronte a questo inedito pericolo, e neppure la tanto celebrata falange parve in grado di arrestare la violenza delle cariche celtiche. Il re macedone Tolemeo Cerauno morì addirittura in battaglia contro

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di loro nel 279 a.C.; li guidava un certo Brenno, nome che accomuna questo condottiero a un altro grande capo celta di cui vedremo in seguito le imprese. In quei tumultuosi anni, anche il celeberrimo oracolo di Delfi venne messo a sacco e parte dell’immenso bottino venne poi ritrovato a Tolosa dai Romani nel 106 a.C. I Celti, infine, passarono in Asia Minore (l’odierna Turchia) e lì rimasero partecipando come mercenari alle varie lotte che opposero i sovrani ellenistici di Siria ed Egitto. Quando Pergamo si rese indipendente dai Seleucidi di Siria, i Celti, che intanto si erano insediati nella regione che verrà poi chiamata Galazia, divennero vicini scomodi di questo regno costringendolo a pagare tributi. Attalo I, nel 235 a.C. rifiutò di fornire ai Galati, come erano di solito identificati i Celti di Galazia, il consueto pagamento: ne seguì una guerra che i Pergameni riuscirono a vincere. In seguito a questo successo, Attalo I dedicherà ad Atena “Portatrice di vittoria” a Pergamo un gruppo scultoreo in bronzo, il così detto “Grande donario”, di cui noi conosciamo le copie marmoree di età romana. Ne fanno parte il “Galata morente” che ora si trova ai Musei Capitolini e il “Galata che uccide la moglie e se stesso” conservato a palazzo Altemps a Roma. Un analogo monumento celebrativo, eretto nel 160 a.C. ad Atene e definito “Piccolo donario” mette a confronto due eventi mitici: la vittoria degli Ateniesi sulle Amazzoni e la vittoria degli dei sui giganti, rispettivamente con il successo di Maratona sui Persiani e la vittoria dei Pergameni sui Celti. Insomma una celebrazione della civiltà che prevale sui barbari. I Galati furono, infine, alleati di Antioco III di Siria contro i Romani, ma vennero sconfitti con le truppe siriache a Magnesia sul Sipilo nel 189 a.C. Da questo momento essi entreranno nell’orbita di Roma partecipando a molte delle principali vicende politiche che la interessarono. Il re di Galazia Deiotaro nel 48 a.C. combatté, ad esempio, al fianco di Pompeo contro Cesare, il quale, una volta sconfitto il rivale, utilizzò i Galati come alleati nella guerra contro Fornace re del Ponto. Cesare fu clemente, dunque, con l’antico nemico, ma tolse a Deiotaro alcuni territori

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celti nella storia e quest’ultimo, per vendicarsi, ordì nel 45 a.C. una congiura fallita ai danni del condottiero romano. Egli venne difeso da Cicerone nella così detta Pro Deiotaro e si salvò, ma, ancora una volta, nella battaglia di Filippi del 42 a.C. si trovò dalla parte sbagliata, quella dei cesaricidi. Dopo la morte di Cassio, però, passò dalla parte di Augusto e conservò per questo l’indipendenza per il suo regno sotto forma di stato cliente. Quando la sua dinastia si estinse, nel 25 a.C. la Galazia divenne una provincia romana. c) I Celti in Occidente: l’Europa e l’Italia A partire dal VI-V sec. a.C. le fonti letterarie integrano le scarse informazioni provenienti dai rinvenimenti archeologici; questi ultimi, però, già ci testimoniano lo stanziamento dei Celti in Spagna, in Francia e nelle isole britanniche. Tito Livio (Historiae V, 33 e seguenti), a proposito del loro arrivo in Italia, ci racconta che al tempo del re Tarquinio Prisco la tribù dei Biturigi aveva il predominio in Gallia (l’odierna Francia) e per risolvere il problema dell’eccesso della popolazione il loro re inviò i figli Segoveso e Belloveso a colonizzare nuove terre. Il primo si stabilì nella selva Ercinia (Germania Centrale) il secondo ebbe la ben più ricca Italia. La cosa strana è che, nella storia che Livio ci riferisce, Belloveso si sarebbe stabilito in Nord-Italia, nel territorio della locale tribù degli Insubri, proprio a causa della somiglianza tra il nome di questa popolazione e quella di un’analoga “ripartizione” della tribù degli Edui. I moderni studiosi si sono, dunque, chiesti se esistessero già dei Celti autoctoni in Italia prima del VI secolo a.C. e hanno trovato nella così detta Cultura di Golasecca (IX-V sec. a.C.) la conferma dell’ipotesi, essendo stata chiaramente definita come “celtica” la lingua di un’iscrizione appartenente a tale cultura. Diversa la versione dell’arrivo dei Celti da parte dello storico Giustino, che si rifà alla monumentale opera del gallo-romano Pompeo Trogo (Storia universale, XXIV, 4, 1). Egli racconta che 300.000 Celti, spinti dalla fame e seguendo il volo degli uccelli, migrarono, alcuni diretti in Pannonia

Galata uccide moglie e se stesso, II sec. a.C., copia in marmo di un originale in bronzo, Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps

(Ungheria), altri verso le Alpi stabilendosi in Italia. Il trasferimento verso la penisola trova riscontri nei rinvenimenti archeologici della zona prealpina, dove si osserva da un lato un incremento significativo delle tombe di donne che non potevano seguire gli uomini e sopportare i rigori di un trasferimento, dall’altro un aumento notevole delle zone devastate da incendi: Cesare ci racconta, infatti, che gli Elvezi, prima di iniziare la loro migrazione bruciarono le proprie case (Cesare I, 5). Una volta stabilitisi nella pianura padana, essa assunse il nome di Gallia Cisalpina in contrapposizione con la Gallia Transalpina (cioè al di là delle Alpi). L’Italia conobbe altri movimenti migratori celtici attorno al V secolo a.C., data solo presumibi-

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Guerriero celta con la caratteristica chioma irrigidita dalla calce

le dal momento che Livio non ci fornisce dati sicuri a riguardo. All’incirca attorno a questo periodo, dunque, i Galli (latinizzazione di Galati) terminarono l’occupazione dell’Italia del nord sottomettendone i precedenti abitanti e scacciando gli Etruschi dalle loro propaggini più settentrionali. Livio ci parla delle tribù dei Libui e dei Salluvii, che si stabilirono in Piemonte, e dei Boi Stele funeraria di Bologna, e dei Lingoni che si Età della Pietra, 350 a.C. ca

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stanziarono nella pianura padana meridionale. Una stele trovata a Bologna testimonia la resistenza esercitata dagli abitanti di Felsina contro gli invasori, ma fu una opposizione vana se la città arrivò, in età romana, a chiamarsi Bononia, chiaro legame con i suoi precedenti conquistatori, la tribù dei Boi. I Celti non si fermarono certo all’Italia centro settentrionale, arrivando a toccare anche le odierne Campania e Puglia, mettendo dunque in crisi l’assetto di varie popolazioni italiche come i Piceni, abitanti delle Marche, che dovettero lasciare il posto alla tribù gallica dei Senoni. La migrazione dei Senoni, avvenuta nel IV sec. a.C. fu l’ultima e segnò il momento di massima espansione dei Celti in Italia. Furono i Romani i più acerrimi avversari dei Galli, contro i quali entrarono in guerra in varie occasioni. Il primo scontro fu tragico per Roma, che si vide sconfitta da un’orda di Senoni sul fiume Allia nel 390 a.C. Livio, a questo proposito, racconta tante belle storie, pregne di patriottismo ed eroismo: ci descrive la resistenza romana nel Campidoglio, le oche che avvertirono i difensori di un tentativo di attacco a sorpresa, il pagamento di un tributo di 1000 libbre d’oro con la famosa frase del condottiero senone Brenno “Vae victis” (guai ai vinti) e il tempestivo arrivo di Furio Camillo che con un esercito raccogliticcio scacciò i Galli da Roma. C’è ben poco di vero in tutto questo, a parte il pagamento del tributo, cosa credibile dal momento che i Senoni erano scesi nel Lazio come razziatori. Certo non si può escludere che i Romani di Furio Camillo abbiano sconfitto i Galli, ignari di un’eventuale reazione e carichi di bottino, ma è anche possibile che questi episodi siano serviti per annacquare nella memoria dei cittadini di Roma quella che fu una delle loro più umilianti sconfitte. Gli avvenimenti successivi, che portarono i Romani alla conquista dell’intera penisola, videro invece questi ultimi sempre vincenti sui Galli. Come impareranno alcuni secoli dopo anche i Cartaginesi, Roma era, però, una città vendicativa e, dopo aver prevalso a Sentino nel 295 a.C. su un’ampia coalizione di cui facevano parte anche i Senoni, perpetrò un vero e proprio eccidio, massacrando la popolazione celtica del Piceno e fondando la colonia di

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celti nella storia Senigallia. Alcuni anni dopo, i Galli, bistrattati e battuti ripetutamente anche nella pianura Padana, si allearono con Annibale dopo che, invasa l’Italia in occasione della seconda guerra Punica, il condottiero cartaginese aveva dato prova di poter battere i Romani con le sue vittorie al Ticino e al Trebbia. A questo proposito esiste una vulgata secondo la quale il condottiero punico sarebbe rimasto impressionato non solo dalle loro qualità belliche, ma anche da certe cosce di maiale salato con le quali si rimpinzò (http://www.finestreaperte.it/festival2005/cennistorici.html). L’episodio, assai pittoresco, non ha a quanto mi consta alcun riscontro preciso nelle fonti antiche; oltretutto si fa riferimento alla battaglia del Trebbia (218 a.C.) e alla città di Parma che doveva ancora essere fondata (183 a.C.), ma è certo che nella pianura Padana l’allevamento del suino e la conservazione delle sue carni fosse una attività importante. La sconfitta di Annibale portò alla definitiva sottomissione dei Galli del Norditalia: Insubri e Cenomani vennero a patti con Roma, mentre i Boi vennero sterminati e allontanati (si parla addirittura di una loro migrazione in Boemia). Con Silla, infine, la Gallia Cisalpina divenne provincia romana. In Spagna i Romani entrarono in contatto con i Celti locali (noti come Celtiberi) proprio in conseguenza della seconda guerra punica, terminata la quale sostituirono i Cartaginesi nel dominio di quel territorio. La spietata politica coloniale da loro condotta creò, tuttavia, un moto di rivolta guidato dal capo locale Viriato che scatenò contro i Romani una durissima guerriglia. Viriato venne poi ucciso per mano di un membro del suo stesso esercito nel 139 a.C. Il centro della resistenza celtiberica contro Roma fu Numanzia, che, dopo ripetuti fallimenti, venne infine espugnata nel 133 a.C. La Spagna, comunque, fu completamente sottomessa solo sotto Augusto, nel 26 a.C. d) La campagna gallica di Cesare L’impresa legata ai Celti sicuramente più nota, loro malgrado si potrebbe dire, è la campagna che Ce-

Guerriero Celtiberico

sare condusse in Gallia tra il 58 e il 52 a.C. Qui le tribù non erano affatto coese e unite e il condottiero romano, introducendo un concetto cardine della futura politica di Roma, quello del “divide et impera”, approfittò di queste loro divisioni per sottometterle. Dopo il consolato del 59 a.C., Cesare ottenne per decreto del Senato il governo della Gallia Cisalpina, dell’Illirico e, dopo la morte improvvisa del suo governatore, anche quello della Gallia Narbonese (Provenza). Le sue intenzioni erano di mantenere una stretta tutela sull’Italia, centro del potere di Roma, ma queste tre province rappresentavano anche una piattaforma

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conferito la qualifica di “amico del popolo romano”. Cesare occupò l’avamposto sequano di Vesontio (Besançon) e sconfisse gli Svevi respingendoli sul Reno. Con un’abile politica di alleanze e una serie di scontri militari, riuscì poi a sottomettere le popolazioni barbariche dei Belgi, dei Veneti, dei Menapi, dei Treviri e degli Eburoni, successi a cui vanno aggiunti quelli ottenuti contro i germanici Usipeti e Tencterii, tra il 55 e il 56 a.C., e la breve ma vittoriosa campagna in Britannia contro il re Cassivellauno, monarca del territorio attorno al Tamigi nel 55 a.C. Alla scadenza del mandato, La Gallia al tempo di Cesare nel 54 a.C., Cesare se lo fece rinnovare ideale per la sua conquista della Gallia. Non potendo, per altri cinque anni dal senato romano, ma nel fratperò, dichiarare guerra ad alcuno senza il consenso tempo un nuovo personaggio si affermò per riunire le del Senato, dovette aspettare l’occasione buona, che tribù galliche insofferenti verso il dominio romano: gli venne fornita dalla migrazione degli Elvezi (tribù il giovanissimo e coraggioso re arverno Vercingetoceltica residente in Svizzera) nel territorio degli Edui. rige. Lo scoppio della guerra gallica colse Cesare a Dietro richiesta di questi ultimi, egli entrò in azione Roma, dove si trovava per “controllare” la situazione sgominando gli Elvezi e costringendo i sopravvissuti venutasi a creare con la morte del tribuno della plebe a tornare in Svizzera. Fu poi la volta degli Svevi, po- Clodio. Il condottiero romano tornò in Gallia a marce polazione germanica che si era stanziata nel territorio forzate e si ricongiunse con le sue undici legioni, cirdella tribù dei Sequani. Li guidava l’astuto capo Ario- ca 70.000 uomini, riprendendo possesso delle città di visto, un nemico temibile e anche diplomaticamente Gergobina e Avarico (l’odierna Bourges), quest’ultiscomodo, visto che in passato il senato gli aveva ma difesa ad oltranza nonostante il parere contrario

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celti nella storia di Vercingetorige. Tra i rivoltosi l’episodio fece paradossalmente ottenere notevole credito al capo barbaro, che aveva più volte avvertito dell’impossibilità di sconfiggere i Romani in campo aperto. La campagna militare prese una piega inaspettata, e negativa per i legionari di Cesare, a Gergovia (riguardo i dubbi sulla posizione di Gergovia, rimando a questo link http://kidslink.bo.cnr.it/irrsaeer/lat/oppida/frameset9.html) la capitale degli Arverni, dove il condottiero romano subì la prima sconfitta in cinque anni, ad opera della furiosa carica di cavalleria guidata da Vercingetorige, lasciando sul campo 46 centurioni e 700 legionari (molti riportano questa stima perché Cesare (7, 5051) parla di poco meno di 700 uomini morti avendo in separata sede parlato di 46 caduti tra i centurioni, ma non è chiaro se con “uomini” intendesse solo i legionari o l’insieme dei caduti). L’insuccesso determinò la defezione degli Edui, tradizionalmente amici di Roma, che passarono dalla parte dei rivoltosi lasciando i Romani privi in pratica di alleati in Gallia. Compresa la gravità della situazione, Cesare decise di attuare una finta ritirata verso sud, nella Narbonese, con la speranza che i rivoltosi, lanciandosi all’inseguimento, cadessero in trappola. A tale scopo richiamò il generale Labieno dal nord, impegnato contro i Parisii, e assoldò la cavalleria mercenaria germanica, molto temuta dai Galli. Vercingetorige, come si diceva, era consapevole della superiorità militare dei Romani e perciò riluttante a impegnarsi in uno scontro decisivo. Pensò, quindi, di attuare una tattica di guerriglia, colpendo le linee di rifornimento, i carriaggi e le pattuglie di esploratori. Questa scelta, però, non fu approvata dai suoi alleati e sottoposti, che spinsero per una battaglia in campo aperto, mossi anche dalla brama di ottenere bottino. Vercingetorige non poté sottrarsi all’entusiasmo dei suoi guerrieri, e cadde nella trappola di Cesare. In uno scontro diretto venne sconfitto dai Romani e costretto a rifugiarsi all’interno della città fortificata di Alesia. Corrispondente all’odierno Mont Auxois (ad est del centro francese di Alise-Sainte-

Statua di Boudicca, regina degli Iceni, Londra

Reine, vicino Digione, nella Côte d’Or) e situata sulla sommità di un altipiano, lambita da due corsi d’acqua, con tre colline di eguale altezza a nord, est, sud e una larga pianura (Plan des Laumes) ad ovest, la città di Alesia era tutt’altro che imprendibile, soprattutto per un esercito come quello romano, perfettamente organizzato e all’avanguardia nell’arte della poliorcetica. Non potendola conquistare con un assalto diretto, Cesare decise di assediare la città approntando una serie di fortificazioni imponenti, costituite da un doppio

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Le difese dei Romani

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verso l’interno; di fronte alle fortificazioni fece collocare ostacoli e trabocchetti: file di tronchi con i rami intrecciati e pungenti (cippi), schiere di pali aguzzi nascosti da cespugli (gigli), una fascia di pioli muniti di punte di ferro (stimuli). Al termine dei lavori, dopo cinque settimane, il vallo interno si estendeva per 16,5 km, mentre la circonvallazione ne misurava 21. Cesare, a questo punto, era pronto a dare battaglia. Vergingetorige nel frattempo, trovandosi a corto di viveri, fu costretto a prendere la terribile decisione di far uscire dalla città donne e bambini. L’alternativa, come qualLionel-Noël Royer, Vercingétorix jette ses armes aux pieds de César, cuno dei suoi propose, era quella di 1899, olio su tela, Musée Crozatier, Le Puy en Velay (Francia) nutrirsi di tutti coloro che fossero stati inabili alla guerra. Cesare, comprendendo che in città donne e bamanello di trincee con 23 fortini e 8 accampamenti di cavalleria e fanteria. Era un sistema già realizzato dai bini avrebbero consumato il cibo dei difensori (così Romani per l’assedio di Lilibeo, Capua e Numanzia, come quello degli assedianti se invece fossero usciti e quindi non si può attribuire al condottiero romano dalla città), non acconsentì a che oltrepassassero il il merito di averlo inventato, ma noi conosciamo così vallo romano, condannandoli a una tragica morte. Il giorno dopo si affacciò sulle colline di sudbene questa strategia di assedio perché è lo stesso Cesare a descrivercela. Egli, dunque, fece scavare fos- ovest l’esercito barbaro di soccorso. I Galli erano riusati, terrapieni, palizzate con merli e camminamenti, sciti a raccogliere 240.000 fanti e 8.000 cavalieri (in e lungo di esse gran parte Edui, Arverni e i loro alleati e vassalli). torri che ospita- Li guidava l’atrebade Commio, coadiuvato dagli edui vano macchine Viridomaro ed Eporedorige e dal cugino di Vercinda guerra legge- getorige, Vercassivellauno. Il contingente, per quanto re (scorpioni e numeroso, era meno consistente di quello che il capo catapulte). Per ribelle assediato ad Alesia sperava. Per ragioni legate proteggersi le alla difficoltà di rifornimento e all’indisciplina tipica spalle dall’even- dei Celti venne deciso, infatti, di non reclutare tutti i tuale arrivo di guerrieri validi ma solo una parte. La battaglia di Alerinforzi barbari sia durò tre giorni, con assalti e contrattacchi furioeresse due pa- si, che costrinsero i Romani a presidiare con piccoli lizzate specular- distaccamenti di coorti le torri, con la speranza che mente opposte, le trappole bastassero a contenere gli assalitori e le una rivolta verso riserve fossero sufficienti a tamponare i punti più a ril’esterno e l’altra schio. I Galli, però, non riuscirono mai a coordinare Augusto

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celti nella storia gli attacchi né a utilizzare tutta la forza del numero: questa fu la debolezza che significò la loro sconfitta. Decisivo fu l’apporto in aiuto di Cesare della cavalleria germanica. Al termine del secondo giorno di battaglia, Vercassivellauno venne fatto prigioniero e Commio ordinò la ritirata generale sciogliendo definitivamente l’esercito di soccorso. Il giorno dopo, Vercingetorige comprese che non era più in grado di dare battaglia e decise di arrendersi. Uscì solitario da Alesia, a cavallo, nella sua armatura più splendida e fece un giro attorno al seggio di Cesare, dove il condottiero romano lo aspettava, poco fuori il suo accampamento; si tolse, infine, l’armatura e la gettò ai suoi piedi. Vercingetorige morirà prigioniero nel 46 a.C., dopo aver sfilato a Roma in onore dei quattro trionfi di Cesare, tra i quali quello per la vittoria in Gallia

Un tratto del Vallo di Adriano

61 d.C., però, scoppiò una rivolta orchestrata da Budicca, vedova dei re degli Iceni, ai quali si aggiunse la tribù dei Trinovanti. Vengnero date alle fiamme le colonie romane di Camalodunum e Verulamio, ma la reazione romana, guidata dal generale Svetonio Paolino, fu tremenda e portò alla sconfitta dei rivoltosi e al suicidio della coraggiosa regina. Sotto l’imperatore flavio Domiziano, nell’80 d.C., il generale Agricola e) I Celti in eta’ romana arrivò fino alla Scozia, ma l’imperatore non permise e altomedievale che la conquista fosse portata a termine. Nel II sec. d.C. Adriano e poi Antonino stabilizDopo la morte di Cesare, Augusto, una volta liberatosi dei suoi contendenti, portò a termine la conquista zarono e misero in sicurezza il territorio britannico, del popoli celtici ancora indipendenti: li vinse in Dal- costruendo due “valli” nei quali stanziarono numemazia, nelle Alpi Occidentali e sottomise le popola- rose unità militari. Particolarmente monumentale è il Vallo di Adriano, che rimarrà la vera e propria fronzioni celtiche della Rezia e del Norico. La Britannia, a parte una piccola puntata da parte tiera tra la “civiltà” e i feroci Pitti scozzesi. Questi di Cesare, rimase immune dalla conquista romana fino ultimi non vanno confusi con quella popolazione che all’avvento dell’imperatore Claudio, tra il 43 d.C. e il Robert E. Howard descrive nei suoi romanzi, benché 48 d.C., quando, con grosse difficoltà, si riuscì a sot- egli abbia testimoniato in maniera abbastanza verotomettere parte dell’isola nella speranza di ottenere simile il loro coraggio e il loro sprezzo del pericolo. straordinarie ricchezze che, a eccezione di gradi gia- Alcuni resti umani trovati ai piedi delle fortificazioni cimenti di stagno, risultarono solo un miraggio. Nel adrianee, infatti, ci testimoniano che essi non esita-

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Monastero di S. Colombano a Bobbio

vano ad affrontare le poderose macchine belliche di cui i Romani erano dotati. Gli abitanti della Gallia e, in genere, tutte le popolazioni celtiche sottomesse da Roma conobbero soprattutto nel I e nel II sec. d.C. un grande fulgore: i vitigni della Provenza iniziarono a fare concorrenza a quelli italiani, e l’odierna Francia, la Spagna e altre province “celtiche” si riempirono di città, nate per imitare le strutture urbane dei conquistatori o sorte da antiche installazioni militari. Il Celti, peraltro, introdussero a Roma il sapone, la cotta di maglia. Importante fu l’integrazione e la civilizzazione di queste popolazioni, considerate selvagge ma ora accluse con merito nella romanità. Già Cesare aveva arruolato molti soldati dell’Italia del Nord, e questo processo d’integrazione e di civilizzazione continuò in età imperiale, soprattutto a partire da Claudio, che nel 48 d.C. accolse in senato membri della tribù celtica degli Edui. Ben presto anche il sommo consesso di Roma, simbolo della sua élite politico-economica, si riempì di membri di origine gallica. Il III secolo d.C., caratterizzato da momenti di seria crisi da parte dei Romani, vide la Gallia e la zona danubiana al centro di invasioni e di secessioni (a questo periodo risale la fon-

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dazione di un effimero Imperium Galliarum), fenomeni bellici che impoverirono oltremodo queste regioni portandole alla decadenza. La povertà causò anche la diffusione del brigantaggio: i briganti, noti come bagaudi (dalla parola celtica guerriero), erano ex soldati o contadini esasperati dalle tasse che crearono seri grattacapi al governo di Roma in Gallia. Tale processo di decadenza e le sue conseguenze si protrassero anche nel secolo successivo, e solo la Britannia ne rimase pressoché immune, sebbene fosse continuamente molestata dai barbari Pitti e dai pirati Scoti e Sassoni, questi ultimi di origine germanica. L’isola, di solito a margine degli avvenimenti del mondo romano, divenne protagonista con il fallito tentativo di Magno Massimo di assurgere al trono imperiale. Egli si era messo in luce in una campagna militare contro i Pitti, alleati con gli Scoti e i Sassoni, e venne ricordato per questo nelle leggende britanniche paradossalmente proprio come eroe celtico, pur essendo gli stessi Pitti e Scoti di quella schiatta. La vitalità del mondo gallico e il legame ormai indissolubile con i Romani è testimoniato, ancora nel V secolo d C., dall’effimera presenza di un regno romano-gallico guidato da un certo Siagrio, e, perché no, dalla resistenza esercitata dai Gallo- romani in Britannia (che sfociò forse nella figura del mitico Artù) e poi dalla pacifica invasione della Bretagna alla fine del V secolo d.C. Su Artù molto si è detto e scritto: la nostra principale fonte storica è Nennio, che ci ricorda nella sua Historia Brittonum della sfolgorante vittoria di questo capo britannico nella non ben definita località del Mons Bedonicus. Goffredo di Monmouth, attorno al 1136-1138, raccoglie queste tradizioni storiche e mette in connessione vari miti e personaggi che nulla hanno a che fare l’uno con l’altro, come la figura di Merlino e dello stesso Artù. Come si diceva, non è affatto inverosimile che l’elemento romanizzato della Britannia si sia opposto ai feroci Pitti e ai barbari germani (Sassoni, Angli, Juti), anzi sappiamo da un’altra fonte, lo storico Beda, che questi ultimi originariamente servivano ai Britanni come mercenari per far fronte alle violenze dei loro feroci conterranei del nord. Ben presto, tuttavia, i mercenari scalzarono gli antichi “padro-

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celti nella storia ni”, con la collaborazione di un BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA capo celtico, un certo Vortiger(per facilitare la consultazione dei testi si è inserita no. Costantinopoli inviò, allora, soltanto la bibliografia edita o tradotta in Italia): attorno al 417 d.C., un comanAA.VV., I Celti d’Italia, a cura di E. Campanile, Pisa 1981 dante romano, Ambrogio AureliaI Celti, Catalogo della mostra, Palazzo Grassi, Venezia, Ed. Bompiani, 1991 no, che ottenne alla guida del suo A Demandt, I Celti, Ed. Mulino, 2003 esercito una schiacciante vittoria J Filip, I Celti alle origini dell’Europa, Roma, 1980 sui barbari, nota come battaglia M. T. Grassi, I Celti in Italia, ed. Longanesi, 1991 G Herm, Il mistero dei Celti, Milano 1981 dell’Alleluia. Egli avrebbe, poi, V.Kruta-W Forman, I Celti Occidentali, Novara, 1986 governato la Britannia nel ruoU. Maiorca, Battaglia di Alesia, in Storiadelmondo n. 9, 19 maggio 2003: lo di vicarius e viene dunque da http://www.storiadelmondo.com/9/maiorca.alesia.pdf chiedersi, ammesso che la tradiM. Szabò, I Celti, in Storia d’Europa, vol. II zione di Beda sia corretta, se Artù (preistoria e antichità, tomo II) Einaudi, 1994, pp. 755- 803 V. Kruta, La “grande” storia dei Celti, Newton Compton, 2003 non possa essere un successore di questo condottiero romano. Beda parla di un imperatore Costanzio, ma l’Oriente era retto all’epoca da Teodosio II, quindi mi viene da ipotizzare che questo fantomatico IMMAGINI: Costanzio sia in realtà il generale “Guerriero celta con la caratteristica chioma irrigidita dalla calce”, Flavio Costanzo, marito di Gal“Guerrieri Celti”, “Guerriero Celtiberico”: la Placidia e associato per breve tratte dal libro “Hannibal’s war whith Rome”, di T.Wise e M. Healy. tempo all’imperatore d’occiden“Guerrieri Filistei”: http://lnx.colonnedercole.it/ te Onorio. I Britanni, comunque, “Diffusione dei Celti in Europa”, “La Gallia al tempo di Cesare”: dovettero alla fine cedere di fronte http://commons.wikimedia.org/wiki/Main_Page alla pressione di Angli e Sasso“Galata morente”: http://www.museicapitolini.org/it/index_msie.htm ni: alcuni di loro si rifugiarono nell’odierna Bretagna, come si è “Falange in azione”: http://www.satrapa1.com/ detto, ma anche in Galles; men“Galata uccide la moglie e se stesso”: tre i Pitti vennero definitivamente http://www.archeorm.arti.beniculturali.it/MNRAltemps/ sottomessi dagli Scoti di origine “Stele di Bologna”: http://www.ou.edu/class/ahi4163/files/main.html irlandese (da qui il nome Scozia). “Boudicca”: http://travel-blogue.mlr.co.nz/travel-blogue_entry.php?id=8 L’Irlanda rimase immune dall’influenza e dal dominio di Roma, “Le difese dei Romani”: http://www.cueni.ch/ ma gli si attribuisce un merito “Vallo di Adriano”: immagine di Annachiara Iliceto straordinario: dai monasteri irlan“Monastero di S.Colombano: http://www.comune.bobbio.pc.it/ desi, in epoca medievale, partì un fenomeno di evangelizzazione di ritorno che coinvolse molte località civili popolazioni mediterranee, divennero essi stessi europee. In Italia è famoso il monastero di Bobbio; qui, insieme al lavoro e alla preghiera, paladini e divulgatori della cultura latina. si copiavano le antiche opere dei classici. È questo il * meraviglioso paradosso che la storia ci restituisce: i barbari, coloro che si erano opposti secoli fa alle STEFANO BACCOLINI

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Intervista

l’argomento potrebbero trovare quanto occorre loro per avere almeno un’infarinatura: http://www.sergiobonellieditore.it/auto/cpers_index?pers=martin http://www.jonathansteele.com

Perché ho deciso di intervistare proprio loro? Innanzitutto Carlo Recagno, sceneggiatore di Martin Mystère, e Giacomo Pueroni, disegnatore di Jonathan Steele, sono miei amici. Confesso che ho conosciuto i loro lavori solo dopo aver conosciuto loro, ma mi sono messa in pari, acquistando tutti gli albi del BVZM (buon vecchio zio Marty) scritti da Carlo e molti albi illustrati da Giacomo. All’innanzitutto segue il poi, e il poi dice che, dopo averne seguito i lavori, mi sono resa conto di quanto siano davvero bravi e meritino gloria imperitura… Quindi inizio a parlare di loro proponendo la biografia, copiata supinamente dal sito Bonelli (JS è un ex testata Bonelli rilevata da Star Comics), per evitare di infiorettarla io con particolari ininfluenti. CARLO RECAGNO sceneggiatore

E chiamala se vuoi… intervista: Giacomo Pueroni e Carlo Ragno

Originario di Casale Monferrato (Alessandria), dove è nato il 7 agosto 1965, ha frequentato la Scuola del Fumetto e ha esordito come sceneggiatore su Martin Mystère. Figura tra gli autori della serie “Storie da Altrove”. Dal 1995, lavora come redattore alla Bonelli.

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ggi parliamo di fumetti, con due persone che masticano fumetti dalla mattina alla sera, spesso anche di notte. Non è possibile presentare i due baldi giovani che ho deciso di intervistare senza citare le testate per cui lavorano, ossia Martin Mystère e Jonathan Steele, ma nel contempo è improponibile descriverle in due righe. Più saggio mi pare rimandarvi a siti specifici, dove i pochissimi che non conoscessero

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C. Ragno e G. Pueroni GIACOMO PUERONI disegnatore Nato il 6 gennaio 1964 a Torino, vive e lavora a Gorizia, dove si è diplomato presso il locale Istituto d’Arte. Dopo aver lavorato come grafico pubblicitario e illustratore, realizza vignette umoristiche ispirate a “Star Trek” e ad altre serie di fantascienza per le riviste “Inside Star Trek” e “Shadows on the moon”. Nel 1996, entra a far parte dello staff di Zona X, per cui realizza la storia “Cleopatra 2000”, e in seguito di quello di Jonathan Steele.

A questo punto passiamo all’intervista vera e propria. Ho posto alcune domande separatamente a Carlo e Giacomo, in seguito li ho invitati a togliersi l’un l’altro un paio di curiosità e, per concludere, ho piazzato delle domande lampo a entrambi. Iniziamo da Carlo Recagno. Allora Carlo, giacché non ho mai intervistato nessuno, prenderò tempo: qual è la domanda che non ti hanno mai posto e che avresti voluto ti facessero? CR: Non saprei, dovrei pensarci su. Posso dirti invece quale domanda spero non mi venga mai rivolta, e cioè: “Nei fumetti si fanno prima i testi o prima i disegni?”. Questa è una di quelle domande che provengono da chi i fumetti non sa neanche da che parte si guarda-

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Sopra: Jonathan Steele, I Segreti di Atlantide, copertina, disegni di Teresa Marzia. Pag. a lato: Martin Mystere, L’Ira del Cielo, copertina, disegni di Alessandrini, testi di Recagno.

no. Prova a immaginare un fumetto di cui venissero eseguiti prima i disegni; con l’illustratore, libero di raffigurare quello che più gli passa per la testa, e lo sceneggiatore costretto poi a spremersi nella ricerca di una storia plausibile per giustificare le pagine disegnate... Potrebbe essere interessante come esercizio, ma un pessimo modo di lavorare! E qual è quella che ti fanno sempre e sei stufo di sentire? CR: Nel corso della mia carriera sono stato intervistato due volte soltanto, quindi non ce n’è nessuna che risponda a questi requisiti.

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Sopra e pag. a lato: Storie di altrove, La Creatura che venne dall’Inferno, copertina e retro, disegni di Alessandrini, testi di Recagno.

Posso citarti una domanda che fanno spesso agli scrittori, e cioè: “Dove vai a prendere le idee?”. È una domanda che presupporrebbe l’esistenza di luoghi dove le idee pascolassero allo stato brado e bastasse solo “catturarle”. In effetti esistono alcuni trucchi per stimolare la creatività. Uno di questi comporta lo scrivere su pezzetti di carta categorie di personaggi (il buono, il cattivo, la fidanzata), azioni da compiere (uccide, scappa) o relazioni interpersonali (odia, ama), mischiare il tutto in un contenitore, estrarre a caso e vedere se quello che viene fuori può essere utile (cattivo+uccide+buono +scappa: può essere una storia, anzi, possono essere centinaia di storie).

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Si tratta comunque di metodi da utilizzare solo in casi di acuta disperazione. La verità è che chi scrive per mestiere le idee le va a prendere esattamente dove può andarle a prendere chiunque, ossia dappertutto. Dalla vita di tutti i giorni, da libri letti, da film visti, eccetera. A tutti noi, nel corso di una qualsiasi giornata, vengono spunti narrativi di un tipo o di un altro, quando ci lasciamo andare con la fantasia. Per esempio, osserviamo in metropolitana due fidanzati che parlano; non sentiamo quello che si dicono ma è chiaro che stanno litigando. Subito ci chiediamo: perché litigano? Cosa si stanno dicendo? Poi loro scendono (oppure scendiamo noi), e ci chiediamo naturalmente come andrà a finire; faranno pace o si lasceranno? Dopodiché la maggior parte delle persone smette di pensarci, perché ha altre cose da fare, ma lo scrittore no. Lo scrittore continua a far “agire” nella propria testa quelle due persone, facendole diventare suoi personaggi, e cuce attorno a loro una storia. Spesso ci chiediamo “cosa succederebbe se...”, oppure “come avrei fatto se mi fossi trovato in quella situazione?”, e via di seguito. Per la maggior parte delle persone questi sono pensieri oziosi che poi si abbandonano; chi scrive, invece, questi pensieri oziosi se li annota, li coltiva e li elabora. Ecco dove si prendono le idee. Naturalmente alla domanda esiste anche una risposta-battuta che molti autori hanno usato, una volta o l’altra, tra i quali Neil Gaiman: “Sono abbonato a un service che mi invia idee una volta la settimana”. C’è stato un fumetto che ha fatto scattare in te la voglia di scrivere le avventure del protagonista? CR: Parecchi, così tanti che non ci provo a elencarli. I primi che mi vengono in mente adesso sono Superman e i Vendicatori. Fuori dai fumetti, mi piacerebbe scrivere Star Trek, o le avventure di Sherlock Holmes. O una nuova serie di Mazinga. Per diversi anni sono stato anche un fan della soap opera “Sentieri” e non mi spiacerebbe curare la sceneggiatura di qualche puntata. Se nella realtà potessi essere tale e quale a un personaggio dei fumetti, in tutto e per tutto, chi saresti? CR: Potendo, Superman.

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C. Ragno e G. Pueroni C’è qualcuno che vorresti ringraziare per quello che sei ora? CR: In assoluto i miei genitori, per forza di cose. Professionalmente parlando, Alfredo Castelli, che mi ha dato una grande opportunità quindici anni fa, e dal quale ho imparato se non proprio tutto, quasi tutto su come si fanno i fumetti, in particolare su come si gestiscono a livello redazionale. Cosa faresti se non fossi uno sceneggiatore? So che disegni anche piuttosto bene, pensi che avresti potuto essere un buon disegnatore? CR: Se non fossi uno sceneggiatore penso che scriverei comunque, in un campo o in un altro, per la televisione, per esempio. Mi è sempre mancata la necessaria autodisciplina per essere un buon disegnatore; ce ne vuole anche per essere un buon sceneggiatore, ma in quel caso la carenza si maschera meglio. Nello scrivere la sceneggiatura di un albo quanto tempo, in percentuale, dedichi alla ricerca e alla documentazione? CR: Difficile quantificare. Ti posso solo dire che il tempo che spendo a documentarmi è di gran lunga superiore a quello che impiego a scrivere materialmente la sceneggiatura. Così come, di tutto il materiale che accumulo per documentarmi, solo un dieci per cento (al massimo) emerge nella storia. La proverbiale punta dell’iceberg...

periodicamente sei costretto ad abbandonare per seguire il tuo lavoro. Ce ne vuoi parlare? CR: Giacomo e io abbiamo, in effetti, in sospeso da diversi mesi un progetto su Star Trek, che vorremmo realizzare per lo Star Trek Italian Club. Una cosa proIn alcuni albi scritti da te (per esempio “Storie di Al- prio “da fan”, che entusiasma molto entrambi, e che trove”, dello scorso anno, o il prossimo “Martin My- entrambi purtroppo dobbiamo mettere un coda nelle stère Gigante”) appaiono personaggi somiglianti a nostre liste di priorità, per dare la precedenza alle cose persone reali. Come mai hai pensato di inserirli? che ci permettono di portare a casa la pagnotta. Lo CR: In effetti alcuni personaggi sono fisicamente mo- stesso vale per il mio impegno come disegnatore per dellati su amici e parenti, e la risposta è semplice: per la Sezione Editoriale dello Stic (per la quale a tutt’ogdivertimento e per affetto. (ndr - ci sono anch’io tra gi ho fatto pochissimo) o per Alpha Quadrant, la riviquesti personaggi, col mio nick name Dashana: vedi sta del club Deep Space One. “Storie di Altrove” 2004 - La creatura che venne dall’inferno) Il tuo interesse per la fantascienza e per il fumetto sono nati assieme, sono connaturati in te o si sono Per quanto la lavorazione di Martin Mystère ti prenda sviluppati separatamente? molto tempo, so che hai dei progetti collaterali, che CR: Devono essere nati assieme, perché la prima volta

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frontare qualsiasi tematica, esattamente come nel romanzo. Ci sono però modi di raccontare peculiari ed esclusivi del fumetto, improponibili in altri contesti. Esempio: una pagina che descrive una scena di distruzione in un fumetto di avventura. Al centro, una panoramica del luogo distrutto; ai lati, varie vignette con i primi piani dei personaggi che assistono con orrore o sgomento. A “leggere” la pagina noi ci mettiamo alcuni istanti; i nostri occhi saltellano da una vignetta all’altra, ma le azioni in esse descritte si svolgono contemporaneamente. La possibilità di mostrare più sequenze simultanee all’interno di una stessa unità narrativa (la pagina) è una delle caratteristiche che appartengono soltanto al fumetto; con il fumetto è possibile gestire il tempo in un modo che né il romanzo né il cinema possono permettersi. Ci sono autori che hanno saputo sfruttare bene questa possibilità di narrare le cose in maniera “non-lineare”, per esempio Alan Moore. Ti sei mai cimentato in racconti o romanzi? L’inventiva non ti manca e nemmeno la certosina pazienza del ricercatore CR: Ho scritto una volta un racconto per un’antologia dedicata a Martin Mystère. È stato una specie di esercizio di stile, in quanto era completamente privo di dialoghi. Martin Mystere, L’Ira del Cielo, pag. 84, disegni di Esposito Bros, testi di Recagno.

Grazie Carlo, proseguiamo con Giacomo Pueroni.

Ho chiesto a Carlo qual’è la domanda che gli fanno sempre e che non vorrebbe mai più sentire. Rispondi anche tu. GP: Quella che mi fanno sempre, e alla quale di rispondere non ne posso proprio più, è: “Ma come fai, scrivi anche le storie o cosa? Come funziona?” Posta più che altro da curiosi, non appassionati di fumetti. Ormai rispondo sempre nella stessa maniera, che nel tempo è diventata una cantilena quasi insopportabile; ma il tono con cui lo faccio, ormai; è sufficiente a far capire che non gradisco la domanda. Infatti non insiCi sono tematiche che vengono espresse meglio nel stono. fumetto e altre meglio nel romanzo (narrativa in genere)? Cosa faresti se non fossi un disegnatore? CR: Non credo. Penso che nel fumetto si possa af- GP: Risposta buffa: l’intervistatore. Ma solo in mache sono venuto a contatto con la fantascienza sicuramente è stato grazie a un fumetto. Poi sono arrivate la fantascienza televisiva e quella cinematografica. Non mi considero comunque un “vero” appassionato. A parte Star Trek, di cui sono indubbiamente fan, la mia conoscenza del genere è molto limitata. Così come, per esempio nel poliziesco, sono un appassionato di Sherlock Holmes e di Nero Wolfe ma conosco poco altro.

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C. Ragno e G. Pueroni niera professionale (leggi “venendo pagato”). Probabilmente non farei carriera: essendo incapace di tacere, finirei per porre le domande sbagliate alle persone sbagliate. Però sono curioso di natura, e, se incontrassi un fumettista, lo bombarderei di domande. Risposta seria: pittore, grafico, pilota di auto da corsa, modellista, qualcosa del genere, non saprei. Probabilmente mi ritroverei a fare un lavoro meccanico, operaio o impiegato, e a desiderare qualcosa in più. Meno male che sono un disegnatore. È ciò che riesco a fare meglio. Come disegnatore di J.Steele segui la sceneggiatura che ti viene mandata: cerchi mai di convincere chi scrive a cambiare qualcosa perché una tua idea, sviluppatasi man mano che disegni, ti pare più appropriata? GP: La cosa positiva del rapporto di lavoro instaurato con lo sceneggiatore di Jonathan Steele, Federico Memola, è che siamo amici. Quindi ogni tanto succede che chieda la mia opinione su alcuni piccoli dettagli, così come d’altra parte ogni tanto mi consulto con lui per decidere come affrontare qualche scena. In altri casi ho libertà, perciò già così riesco a inserire qualche buona idea. Insomma, il risultato è proprio la somma di due menti pensanti. Ti sentiresti più appagato se disegnassi su una tua idea? GP: Ogni tanto lo penso. Ma mi manca l’esperienza del saper scrivere, e so quanto sia importante per realizzare un buon fumetto. Comunque sto imparando, pian piano. È come il problema dello scrittore. Vorresti dire tante cose, ma devi trovare il modo migliore per farlo, quello che riesce a interessare un pubblico. Perché per fare questo mestiere devi confrontarti con i lettori. E riuscire a comunicare nella maniera migliore è difficile.

Storie di altrove, La Creatura che venne dall’Inferno, pag. 107, disegni di Esposito Bros, testi di Recagno.

diventato illustratore. La precocità è stata anche un peso, a dire il vero. Tutti si aspettavano qualcosa da me, e la responsabilità era palpabile.

C’è una persona che dovresti ringraziare per essere arrivato dove sei ora? GP: Quelli che hanno creduto in me fin dal principio, Eri un bambino prodigio, ossia sin da bambino il tuo concedendomi il sostegno che mi serviva quando matalento per il disegno era palpabile? gari mi demoralizzavo. Loro innanzitutto. Non tantisGP: Oh, sì. Disegnavo ovunque, era quasi destino im- simi, ma quei pochi sono stai importanti. maginarmi da grande con una penna in mano. Se non Poi la gente del mondo del fumetto che mi ha saputo avessi fatto il disegnatore, probabilmente sarei rima- guidare, fornendomi le informazioni e i consigli che sto un grafico, lavoro che ho svolto in passato. O sarei mi hanno aiutato a diventare quello che sono: da An-

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Jonathan Steele, Straniero in terra straniera, pag. 21, (a lato) versioni in lavorazione e terminata, e pag. 34 (a destra), disegni di Giacomo Pueroni, testi di Federico Memola.

le, ci vuoi parlare degli altri progetti che segui? GP: Ci sono cose che faccio e altre che vorrei fare. In teoria non mi pongo limiti, ma bisogna scontrarsi con la realtà del mercato, e le sue leggi, che condizionano non poco le tue aspettative… e poi con il tempo che, per fare tutto quello che si vorrebbe, non basta mai, purtroppo. Sto seguendo diversi progetti. Uno a carattere nazionale, con Federico Memola, che dovrebbe realizzarsi nei prossimi 12 mesi. E poi il progetto locale dei “Futonio Serra, la prima persona dell’ambiente che ha matti”, un esperimento di lavoro assieme a due cari visto le mie tavole, a tutti quelli che, in una forma o amici, Luca Vergerio e Miriam Blasich, su un persol’altra, hanno collaborato con me. E tralascio i nomi, naggio nostro, per una serie autoprodotta. Abbiamo perché sono troppi, e non voglio fare classifiche. presentato a Lucca un primo numero, e contiamo di Sono coloro che mi hanno insegnato, per esempio, a farne uscire un altro paio l’anno prossimo, magari con cercare i miei errori, anche quando pensavo non ce ne l’intervento di qualche eventuale editore. fossero; una tappa importantissima nella formazione È questo un esperimento interessante, in cui scriviapersonale. mo noi stessi le storie, mettendoci molto di nostro per E poi i maestri del passato, quelli che non ho mai co- renderle “umane”, non fredde e impersonali. Niente nosciuto. Studiare i loro lavori è stato uno stimolo co- eroi senza macchia e paura, ma solo gente che affronta stante, cercare di capire, innanzitutto, come avessero l’ignoto. Cerchiamo di miscelare - per quanto possibifatto una certa cosa, e poi cercare di scoprire “perché” le - buone storie di Fantascienza e un pò di commedia l’avessero fatta proprio così. Un lungo lavoro d’auto- brillante quando serve. Un esperimento che ci diverte didatta, con maestri inconsapevoli, ma preziosi. fare. E poi altre cose, che faccio soprattutto per passione. So che come disegnatore non ti limiti a Jonathan Stee-

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C. Ragno e G. Pueroni Se il BVZM è definito “il detective dell’impossibile”, come è definito Jonathan? GP: Non saprei cosa rispondere, ma ci provo. Un uomo che cerca di continuare a essere tale, in un mondo nel quale la magia e gli eventi della vita l’hanno messo di fronte a situazioni difficili. Che ha solo se stesso e le sue capacità contro la magia e i sortilegi. Ma il tutto in una serie “corale”, in quanto non è possibile estrapolarlo dalle sue partner femminili, Jasmine e Myriam. La serie è dedicata a loro tre, anche se porta il nome del solo Jonathan. Alla fine credo che siamo un piccolo caso particolare nell’editoria nostrana. Ma è bello essere a bordo, e contribuire a renderli dei personaggi ‘vivi’. In alcuni albi disegnati da te appaiono personaggi somiglianti a persone reali. Come mai hai pensato di inserirli?

GP: Per il più antico dei motivi. Puro, sano, solare, assoluto, autentico divertimento. Personaggi ispirati ad amici o altre persone vere, oggetti, luoghi, tutte quelle cose che solo tu e pochi altri sanno riconoscere, che non pregiudicano la comprensione della storia, ma le forniscono un “valore aggiunto”. Un marchio di fabbrica, una ciliegina sulla torta. Male non fa... anzi diverte. Ecco le domande incrociate, solo un paio a testa. Iniziamo dalle domande che Carlo ha posto a Giacomo: CR: Ti vedi più come autore umoristico e come autore di fumetto d’avventura? GP: Vedrei bene un misto di entrambe le cose. Non mi piacerebbe un umorismo senza anche un po’ d’avventura.

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I preferiti di

CARLO RECAGNO

Serie televisiva di fantascienza: Star Trek Saga fantasy: il “ciclo del Campione Eterno”, di M. Moorcock Autore di fantascienza: passo Autore di fantasy: Michael Moorcock Personaggio in serie tv di fantascienza: Spock Personaggio in saga fantasy: Elric di Melnibonè, di M. Moorcock Disegnatore di fumetti: Jack Kirby Disegnatore di anime: Go Nagai Sceneggiatore di fumetti: Neil Gaiman Fumetto italiano: Alan Ford (i primi 75 numeri, quelli di Magnus & Bunker) Fumetto straniero: Dick Tracy Anime: Il Grande Mazinga Sopra: Martin Mystere, Generazioni, copertina, disegno di Alessandrini, testi di Recagno. Sotto: vignetta da Anjce.

Miglior intervistatore: la cavalleria mi impone di rispondere che sei tu CR: Che tipo di fumetto realizzeresti se avessi da un editore carta bianca? GP: Fantascienza. Con storie molto personali. Che in fondo è quello che sto facendo con Anjce, pur senza avere un editore alle spalle. Ecco le domande di Giacomo a Carlo: GP: Scriveresti qualcosa che non hai mai tentato di fare prima? Non ne senti mai la voglia? Di violare tutte le regole che hai seguito finora? CR: Ogni tanto sì, mi piacerebbe cimentarmi in qualcosa di diverso, soprattutto per allontanarmi dalla classica “gabbia” bonelliana di tre strisce per due vignette; mi piacerebbe fare ogni tanto tavole con vignette tutte orizzontali, o tutte verticali. Sul piano del linguaggio e dei tempi narrativi, invece, mi trovo perfettamente a

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C. Ragno e G. Pueroni I preferiti di

GIACOMO PUERONI

Serie televisiva di fantascienza: Star Trek serie classica Saga fantasy: Conan il barbaro, di R. E. HOWARD Autore di fantascienza: Philip K. Dick Autore di fantasy: Robert E. Howard Personaggio in serie tv di fantascienza: boh Personaggio in saga fantasy: Conan il barbaro Disegnatore di fumetti: tanti, troppi... Disegnatore di anime: Masamune Shirow (anche se trovo incomprensibili certi suoi lavori recenti ^__^) Sceneggiatore di fumetti: Hector Oesterheld Fumetto italiano: Lo sconosciuto, di Magnus Fumetto straniero: Largo Winch di Jean Van Hamme e Philippe Francq Anime: Cowboy bebop Miglior intervistatore: Daniela, “ la ragazza si farà, anche se ha le spalle strette…” mio agio con le regole che ho seguito finora. GP: Cosa ti irrita nelle critiche e nei giudizi del pubblico? Avendo la possibilità di fare quello che più desideri (che ne so, Sherlock Holmes o Star Trek) ti sentiresti con un fardello troppo grosso da maneggiare? CR: Se avessi l’opportunità di giocare con i miei giocattoli preferiti, penso sarei al massimo della felicità. Non credo che mi sentirei intimidito dal compito; sono abbastanza presuntuoso da ritenermene all’altezza. Quanto alle critiche, mi irritano se provenienti da persone che leggono gli albi con superficialità e disattenzione, finendo col prendere delle cantonate galattiche. Vedasi commenti del tipo: “La storia A è chiaramente scritta con passione, mentre non c’è dubbio che la storia B sia stata realizzata svogliatamente”, quando magari è proprio il contrario.

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Jonathan Steele, Straniero in terra straniera, copertina, disegno di Teresa Marzia.

Ci fermiamo qui. Lo so, voi avreste domandato altro e di più, ma non voglio approfittare oltre (per stavolta ^__^) dell’ospitalità di “Terre di confine”. Spero che l’intervista (o pseudo tale) abbia solleticato la curiosità di chi conosce poco questi due fumetti, invogliando a qualche incursione in fumetteria o dal giornalaio. Ricordo che a metà gennaio uscirà il Martin Mystère Gigante con sceneggiatura di Recagno, e che Anjce è rintracciabile in fumetteria (ma chi non lo trovasse può scrivermi - dashanareb@tin.it - e lo metterò in contatto con Pueroni). Jonathan Steele è in edicola, ma non con un numero illustrato da Giacomo (sono suoi il n.10, uscito ad agosto, e quello che uscirà, all’incirca, nel luglio 2006).

DANIELA “DASHANA” BELLI

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WARHAMMER (MARTELLI DI GUERRA)

“È un oscuro evo, una sanguinosa era, un’epoca di demoni e stregoneria, di battaglie e di morte, alle soglie della fine del mondo. E fra fuoco, fiamme e violenza è altresì un’era di gloriosi eroi, di imprese disperate e di grande coraggio.”

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osì è descritto l’immenso background dell’universo di Warhammer, creato nei primi anni ‘80 dall’inglese Games Workshop; questa splendida ambientazione fa da base a numerosi wargame (sia fantasy che fantascientifici) che spaziano dalle battaglie epiche fra eserciti (per esempio il gioco Warmaster) alle singole avventure di un pugno di eroi (Talisman), passando per tutte le possibili varianti. In mezzo a tutte queste battaglie, nel 1986 nasce Warhammer Fantasy Role-Play (Martelli da Guerra nella versione italiana) - vede in questi mesi una rinascita data l’uscita della seconda edizione - che, sebbene mancante del supporto delle splendide miniature (non necessarie per un gioco di ruolo), permette di tuffarsi completamente nella stupenda ambientazione, de-

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finita fantasy-gotico-rinascimentale: per la presenza delle classiche razze (come elfi, orchi, nani ecc.), per l’atmosfera cupa e tenebrosa e per la struttura sociopolitica e tecnologica somigliante a quella dell’Impero tedesco del Rinascimento.

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trutturato come un classico gioco di ruolo dove i giocatori hanno davanti solo la scheda del personaggio, una matita e una manciata di dadi, Martelli da Guerra si differenzia dagli altri per la vastità delle carriere interpretabili (più di 100 nella seconda edizione), che donano dei bonus/malus alle caratteristiche fisiche e mentali dei personaggi. Non troveremo più i classici guerrieri, chierici, ladri, ecc, ma minatori, tombaroli, falsari, nobili e chi ne ha più ne metta. Scordatevi cavalieri in armatura scintillante impegnati in epiche avventure per salvare la principessa dalle zampe scagliose di un drago, in questo mondo si lotta per la propria sopravvivenza, sempre in bilico fra la propria umanità e le continue lusinghe degli oscuri demoni del Caos.

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l sistema di gioco è molto semplice e si basa sull’utilizzo del d100 (dado a cento facce) per determinare la riuscita o il fallimento di un’azione, sia

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FANTASY essa di combattimento (tiro per colpire) o di interpretazione (test, come convincere una guardia, contrattare un prezzo, etc.). Nonostante la sua facilità, ha una serie di regole che mancano a giochi molto più blasonati, come Dungeons & Dragons per citarne uno: ad esempio la possibilità di attaccare punti differenti del corpo, o di portare colpi critici che determinano delle conseguenze nel proseguo del gioco (un tiro particolarmente fortunato di un avversario o di un personaggio può far perdere ad esempio l’utilizzo di una mano nei successivi round di combattimento). La semplicità delle regole già di per sé renderebbe Martelli da Guerra godibile e interessante, ma il punto di forza è, come anticipato, l’ambientazione, su cui vale la pena soffermarsi.

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che minaccia la distruzione del genere umano e non solo). La Bretonnia, posta a ovest dell’Impero e famosa per i suoi cavalieri, è una monarchia assoluta, con una decadente aristocrazia che si arricchisce alle spalle del popolo (alla faccia della cavalleria). I Regni di Estalia, le Città Stato di Tilea e i Principati di Confine, sono dei piccoli Regni che si trovano nella fascia settentrionale del Vecchio Mondo e passano il loro tempo in guerre per lo più commerciali.

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ttorno a queste “oasi felici” del genere umano, esistono altri luoghi molto più pericolosi: come le Maleterre (poste a sud oltre i Principati di Confine), patria degli orchi e dei goblin, o Khemri (ancora più a settentrione) con le sue terre desertiche ricche l pianeta è molto simile al nostro in epoca preisto- di antiche città abitate da non-morti, o ancora le Terre rica, con i continenti abbozzati e, più o meno, nella Oscure, dominate con pugno di ferro dai perfidi Nani del Caos e dagli Ogre. stessa posizione di quelli attuali. Dall’altra parte del continente, in quelle che assoI giocatori inizieranno in quello che viene definito il Vecchio Mondo, un’area che corrisponde approssi- migliano alle due Americhe, vi è Lustria (a sud), abimativamente all’Europa moderna. È un luogo preva- tata dagli uomini rettile, e il Nuovo Mondo (a nord), lentemente selvaggio, ricco di foreste in cui vivono i letali Elfi Oscuri. Persino nel sottodi conifere e paludi, luoghi oscuri suolo del Vecchio Mondo, in un dedalo di cunicoli rifugio di banditi ed esseri ben più scavati nella roccia che connettono fra loro gran parte delle città degli umani e dei nani, vivono i prolifici pericolosi. Il centro politico e culturale e misteriosi Skaven, una razza di pericolosi uomini degli uomini è l’Impero, dove ratto. Ma è dai due poli che proviene la minaccia magvige, apparentemente, una sorta di democrazia (l’Im- giore... il Caos! peratore viene scelto per i narra che, anticamente, il popolo degli Slan (gli votazione dalle famiglie uomini lucertola di Lustria) fosse stato creato per più influenti e dai capi del culto imperiale... almeno servire una razza di esseri potentissimi chiamati gli teoricamente). Il Kislev, Antichi. Non si sa molto di questi ultimi, ma pare che posto a nord dell’Im- riuscissero a spostarsi da un mondo all’altro o da una pero e sotto il coman- realtà all’altra, utilizzando delle misteriose “porte” do di uno Zar, si trova che posizionavano in ogni pianeta che visitavano. a far da confi- Un giorno i portali su questo pianeta collassarono e ne fra i regni l’esplosione che ne seguì strappò il tessuto stesso deldegli uomi- le realtà aprendo una finestra nel Warp. Il Warp è difficile da descrivere, di certo si sa soni e quelli del Caos lamente che è il luogo di origine dei demoni e che con (male atavico l’apertura di queste finestre gli Dei del Caos ebbero

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WARHAMMER accesso a questa realtà e tuttora rappresentano la minaccia più grande per ogni razza. Esistono tre principali divinità del Caos: Nurgle, Dio della malattia, Khorne, Dio del sangue (il più furioso e violento) e Malal, Dio rinnegato deciso a distruggere gli altri Dei malvagi, ma non per questo considerato uno dei buoni. Fra uomini corrotti e mutati dai venti del Caos, uomini bestia e demoni di tutte le forme e dimensioni, il Caos è il pericolo più grande per tutti i popoli del mondo, soprattutto perché non ha mire di conquista: il suo unico scopo è la distruzione totale.

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l Caos è quindi un elemento reale, qualcosa da combattere e non una parola per descrivere il male in senso generale. Ed è per sconfiggere questo terribile flagello, che gli umani dispongono di potenti alleati: che fanno parte, nel gioco, delle altre tre razze selezionabili alla creazione del personaggio. Gli Elfi dei boschi, affascinanti creature dalle orecchie a punta e dall’aspetto fragile ed elegante, considerano gli umani brutali e ripugnanti. Anche se di natura pacifica, gli elfi sono i più grandi arcieri che il Vecchio Mondo abbia mai visto. All’interno delle più grandi catene montuose, in roccaforti scavate nella dura pietra, vivono invece i Nani. Creature orgogliose dalle lunghe barbe e dal fisico possente quanto basso, sono bruschi, burberi e facili all’ira ma anche i guerrieri più formidabili e gli artigiani più abili. Infine i Mezzuomini, piccoli di statura ma larghi di pancia e con piedi enormi, sono amichevoli e simpatici, amano il buon cibo, le risate e l’allegria. Nonostante il loro aspetto, sono creature estremamente agili e veloci. Martelli da Guerra è quindi un gioco di infinite avventure: un giorno vi troverete a mercanteggiare con un mercante dell’Estalia, il giorno dopo sarete in oscuri cunicoli rischiarati dalle torce o su una nave corsara Tileana... o forse vi ritroverete corrotti dal marchio degli Dei del Caos a portare morte per le strade del vecchio Mondo.

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APPENDICI CHE COS’È IL “GIOCO DI RUOLO”? (fonte: GdR2 – www.gdr2.org) È un gioco in cui i partecipanti fingono di essere i personaggi di una storia che essi stessi inventano mossa dopo mossa, sotto la guida di un Master (o “Narratore”) che si limita a descrivere le situazioni, a coordinare i giocatori nella creazione della storia, a gestirne tutte le “comparse”: cioè tutti quei personaggi secondari che non sono impersonati dai giocatori. Il Master espone una situazione, mentre gli altri giocatori raccontano a turno che cosa farebbero se dovessero realmente affrontarla; per esempio come si comporterebbero se fossero davvero un gruppo di avventurieri che deve liberare la principessa prigioniera del drago, o uno sceriffo e i suoi aiutanti a caccia dei contrabbandieri di whisky nel selvaggio West, o i ribelli di Guerre Stellari che cercano di mettere in salvo i piani della più potente astronave della galassia. Sì gioca attorno a un tavolo, senza bisogno di correre, saltare, inseguirsi. Se un giocatore vuole che il suo personaggio compia un’azione dall’esito incerto, come saltare giù da un treno in corsa o convincere il sospettoso custode di un museo a farlo entrare fuori orario, ricorre in genere al lancio dei dadi. L’azione riesce o fallisce, e dunque la storia procede in un modo o nell’altro, a seconda del risultato dei dadi. Una singola storia, o “avventura”, può durare un paio d’ore o qualche pomeriggio. Ma i personaggi del gioco di ruolo sono come i protagonisti di una saga letteraria o di un serial televisivo: terminata una storia, li si può usare in altre avventure, affinandone i tratti psicologici, rendendoli più ricchi di sfumature. Come Sherlock Holmes e il dottor Watson, protagonisti di quattro romanzi e decine di racconti.

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FANTASY CRONOLOGIA (fonte: Martelli da Guerra – manuale base) Tutte le date elencate, fanno riferimento al Calendario Imperiale. -7500. Prima apparizione degli Antichi Slan -6500. Fine dell’Età del Ghiaccio: gli Antichi modificano l’orbita terrestre, causando un generale innalzamento della temperatura e del livello dei mari, e il ritiro della piattaforma glaciale nelle regioni polari. -6250. Avvento degli Elfi come razza civilizzata. Migrano a nord per colonizzare il Vecchio Mondo. -6000. Per qualche oscura ragione, gli Antichi trasportano gli Elfi nell’arcipelago del Grande Oceano Occidentale, che diviene conosciuto con il nome di Regni Elfici. I Nani iniziano la loro migrazione verso nord. -4500. Caduta degli Antichi. Con l’esplosione dei cancelli interdimensionali, la civiltà degli Antichi viene cancellata. Gran parte della loro magia e tecnologia viene dimenticata. Le prime incursioni del Caos devastano le regioni polari meridionali e settentrionali. -3500. L’Età dell’Oro degli Elfi. Intraprendono grandiosi viaggi a ovest e a est e fondano colonie nel Nuovo e nel Vecchio Mondo. -3000. L’Età dell’oro dei Nani inizia con la fondazione del loro regno nelle Montagne ai Confini del Mondo. -2750. La Guerra Civile Elfica infuria per 200 anni e termina con l’esilio degli Elfi Scuri nel Nuovo Mondo. -2500. L’alleanza Elfi/Nani facilita la colonizzazione del Vecchio Mondo. -2000. Inizia la guerra fra Elfi e Nani. -1600. Fine della guerra. Gli Elfi si ritirano nei loro regni, lasciando

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solo poche comunità di Elfi dei Boschi nelle foreste più fitte. I Nani sono decimati. -1500. Una forte attività vulcanica distrugge i regni nanici. Inizio delle Guerre dei Goblin. Si fonda Athel-Loren, la capitale degli Elfi dei Boschi. -500. L’Alba dell’umanità. Iniziano i primi rapporti con i Nani. Compaiono i primi staterelli nella parte nord-orientale del Vecchio Mondo. 0. Assistiti dal nascente Impero, i Nani scacciano finalmente i Goblin nelle Terre Oscure. 500. L’umanità si sviluppa rapidamente, coltivando e disboscando intensamente il Vecchio Mondo. 1000. La nascita delle nazioni del Vecchio Mondo vede una continua serie di guerre e la frammentazione dell’Impero. I Mezzuomini si stabiliscono in Stirland. 1500. Guerre religiose tra il Vecchio Mondo meridionale e l’Arabia. 1750. Invasori nomadi separano Kislev dall’Impero e fondano le prime grandi città umane nel nordest del Vecchio Mondo. 2000. Gli abitanti del Vecchio Mondo compiono viaggi via mare verso occidente e viene loro negato l’accesso ai Regni Elfici. 2150. Gli Elfi di Mare tornano nel Vecchio Mondo e vi stabiliscono posti di scambio. 2300. Nuove incursioni del Caos portano grandi eserciti di creature a Norsca e nelle zone settentrionali del Vecchio Mondo. L’umanità e i Nani di Norsca si alleano per respingere gli assalitori, ma il costo è grande. L’Impero si raduna attorno a Magnus il Pio. 2500. Il mondo com’è oggi. L’esplorazione continua e le incursioni del Caos riprendono con rinnovato vigore.

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DYING OF THE LIGHT

modulo di avventura in inglese per il Gioco di Ruolo di Martelli da Guerra Una imminente eclisse rievoca sulla città di Marienburg lo spettro di una antica profezia, che minaccia l’avvento di una terribile sciagura… Scritto da Lea Crowe, Lief Eriksson e Stephan Karisson, Phil Masters, Sandy Mitchell, Chris Pramas, Anthony Ragan, Andrew Rilstone, James Wallis, Ken e Joe Walton. Quello edito dalla Hogshead è un modulo di avventura per il gioco di ruolo di Martelli da Guerra (o WHFRP, WarHammer Fantasy RolePlay per i puristi), che, purtroppo o per fortuna, mentre scrivo questo articolo sta passando a una nuova edizione, rinnovata per mano della Black Industries. Il modulo di cui ci stiamo occupando, comunque, appartiene ai supplementi per la vecchia edizione, ed è uno dei pochissimi a non essere mai stato tradotto in italiano, fondamentalmente per la sua uscita piuttosto tardiva. Quando mi avvicino ad un modulo di WHFRP ho di solito aspettative abbastanza elevate, data la notevole qualità di questa linea (in cui, a mio parere, spiccano alcune autentiche perle, il Potere Dietro al Trono tanto per fare un nome), e con the Dying of the Light devo dire che non sono rimasto affatto deluso. The Dying of the Light è un modulo di avventura che, con le sue polpose 128 pagine di spessore, si presenta come qualcosa di molto distante da una breve escursione nel dungeon locale. La storia descritta è, infatti, molto lunga e articolata, divisa in nove capitoli che possono essere tranquillamente considerati come brevi avventure, parti di una vera e propria mini-campagna. Ognuno di essi ptopone un intreccio piuttosto semplice e parzialmente autoconclusivo, in modo da offrire uno stacco dal capitolo successivo. L’interno del manuale contiene la sua porzione di mappe, qualche handout da dare ai giocatori durante l’avventura, e una serie di illustrazioni realizzate appositamente per questo modulo, che rappresentano personaggi o scene della storia

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(quindi non il solito materiale riciclato). Prima di dire qualcosa sull’avventura, però, credo opportuno fare, per chi non lo conoscesse, una breve digressione sul Gioco di Ruolo di Martelli da Guerra. Diffuso nei primi anni ottanta, WHFRP nasce come uno spinoff dell’omonimo gioco di miniature, al quale deve visibilmente una larga parte del proprio regolamento. Uno dei suoi punti di forza è l’ambientazione: mentre la maggior parte degli altri giochi di ruolo fantasy vedevano i personaggi impegnati in avventure epiche e in scenari high-fantasy, WHFRP proponeva un mondo gotico e oscuro, senza certezze né eroi. Dove Dungeons & Dragons ruotava attorno a paladini impegnati a salvare regni interi da mostri e invasori, WHFRP presentava avventurieri senz’arte né parte alla ricerca di facili guadagni, alle prese con misteri in un mondo tetro e corrotto ma senza disdegnare di portarsi a casa il proprio gruzzolo di monete d’oro. Certo, anche i personaggi di WHFRP potevano vivere la loro dose di avventura in castelli e antiche rovine, ma solitamente non prima di essersi abituati a bettole, vicoli e fogne. L’ambientazione vera e propria aveva e ha il suo fulcro nell’Impero, una nazione simile a una Germania più rinascimentale che medioevale. Per quanto gli avversari all’esterno dell’Impero, siano essi nemici giurati o precari alleati, rappresentino un pericolo costante, le vere minacce si annidano al suo interno. Il culto degli dei del Chaos corrompe le menti e i corpi di chiunque sia tentato d’invocare il loro aiuto, e sette segrete di adoratori si annidano ovunque, tanto nei piccoli villaggi quanto nelle grandi città. Gli Skaven, gli uomini-ratto, nel loro mondo sotterraneo fatto di cunicoli e gallerie, che si estende più di quanto chiunque voglia pensare, aspettando di potersi nutrire delle carcasse delle città cadute o abbandonate, spargendo caos, corruzione e orribili malattie. All’interno di questo mondo tetro e oscuro, si dipana dunque la nostra avventura. The Dying of the Light si apre con l’arrivo dei personaggi nella grande città mercantile di Marienburg, già ampiamente descritta nel modulo Marienburg - città in vendita (ma possedere questo modulo non è assolutamente necessario alla gestione del gioco, sebbene possa aiutare a dare colore ad alcune scene). Qui i personaggi scoprono che l’avvicinarsi di una eclissi, il cui verificarsi è previsto da lì a circa un mese, ha seminato nella popolazione paura e sconforto, a causa di un’antica profezia che lega a questo evento il manifestarsi un terribile demone e la conseguente distruzione della città. I nostri “eroi” saranno quindi impegnati in un lungo viaggio alla ricerca del necessario per scongiurare questa minaccia.

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senti siano interessanti e ben integrati nella storia. Qua e là sono inserite scene d’azione altamente cinematiche, degne di un film di Indiana Jones.

Soltanto un’altra anticipazione, destinata ai conoscitori della vecchia ambientazione di WarHammer: questa avventura prevede la rara apparizione degli altrimenti dimenticati Fimir! Le vicende proposte nei nove capitoli spaziano attraverso vari generi, alcune basate sull’interazione sociale, altre ricche di azione. Rispetto ad altri moduli di avventura fantasy, gli scontri e i combattimenti non sono qui un punto di forza, sebbene quelli pre-

Alcuni potranno riscontrare una pecca nella natura altamente preordinata della campagna. Per quanto le varie situazioni incontrate possano essere affrontate in molti modi diversi (non negando le opportunità di “giocare” i propri personaggi), restano tuttavia confinate all’interno dei singoli capitoli, e non sono quasi mai in grado d’influenzare in modo significativo la trama generale, che continua a procedere su binari prefissati fino quasi al finale, quando i personaggi riacquistano inaspettatamente la possibilità di decidere il vero e proprio esito della storia. Il forte legame tra la trama e la natura delle manifestazioni del Chaos di WarHammer può creare difficoltà nell’adattare questo modulo ad altre ambientazioni, come ad esempio quelle dei mondi di D&D (ovviamente con l’eccezione di Ravenloft). È un problema con cui un GameMaster che voglia attingere a questo modulo per una campagna nella propria ambientazione preferita si dovrà certamente misurare, ma credo che l’ostacolo non sia assolutamente insormontabile. Il fatto che il modulo non sia stato tradotto in italiano rappresenta un ulteriore problema, ma, se la cosa può essere di conforto, dovrebbe essere reperibile quantomeno una versione in spagnolo. In conclusione, the Dying of the Light è un modulo veramente molto interessante, sia utilizzato nel proprio contesto, che preso come fonte d’ispirazione rubacchiando idee qua e là per le proprie storie già avviate.

* MILLO T. FRANZONI

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FANTASY GIOCHI DI RUOLO COSA SONO E COME FUNZIONANO…

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giochi di ruolo sono intrattenimenti particolari che spesso permettono di spaziare con la fantasia tra avventure eccitanti, missioni eroiche o anche la più semplice quotidianità. Chiunque ha, almeno una volta, provato a giocare di ruolo, anche senza rendersene conto. Già da piccoli tendiamo ad interpretare differenti personaggi, magari eroi dei fumetti o dei film, oppure giochiamo di ruolo nel più semplice dei modi: “Guardia e Ladri”. Naturalmente il gioco adulto è più evoluto, si differenzia per regole, per ambientazioni, per ruoli e per modalità, ma la matrice è sempre riconducibile a quei giochi che, da bambini, ci permettevano di trascorrere il nostro tempo assieme agli amici. Ciò che contraddistingue i giochi dell’infanzia da quelli di ruolo è la presenza in questi ultimi di una struttura. Un bambino tende a cambiare quel che non ricorda o non gli piace, eliminando una caratteristica importante di questo genere di divertimento: i lati negativi di un personaggio. Ogni eroe è bello, intelligente, forte e coraggioso, ma le persone normali sono invece ben diverse; quando si gioca di ruolo bisogna tenere conto di tutte le peculiarità del personaggio (comprese quelle caratterialmente più scomode), e di alcune limitazioni, talvolta create dalla struttura stessa. La caratteristica principale di questo tipo di giochi è lo stimolo che riesce a imprimere alla fantasia di chi li pratica. Vestire i panni di qualcun altro, sia esso mago, guerriero o semplice ragazzo di campagna, implica il dover pensare e agire come lui, spesso parlare come lui, separare quindi le proprie conoscenze da quelle del proprio personaggio. Un mago in uno scenario similmedievale potrà avere esclusivamente cognizioni coerenti con questo periodo “storico”; in compenso, sempre previa conformità con le logiche dell’ambientazione, potrà volare con la magia, creare e lanciare

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letali palle di fuoco o far sgorgare dal nulla una sorgente d’acqua. I giochi di ruolo più famosi sono quelli con ambientazione fantasy, come Dungeon&Dragons (dal quale sono stati tratti alcuni film), perché stimolano maggiormente la fantasia, implicando uno scenario con “regole” ben diverse da quelle a cui siamo abituati nella nostra realtà. Ogni gioco dispone di un proprio manuale che ne spiega le basi, ma chi alla fine impone le regole è il Dungeon Master (o anche Game Master). Questa figura, abbreviata comunemente in DM, è colui che regge le redini del gioco, una sorta di bardo che racconta le vicende degli eroi, inventando spesso dei mondi interi dove i giocatori possano far vivere i personaggi. In caso di dubbio, qualora qualcosa non sia contemplato nel libro delle regole, è sempre il DM che prende le decisioni. Bisogna guardare al DM come a una divinità con il potere di creare, distruggere e ricreare di nuovo; nulla gli è impossibile perché la storia che racconta è la sua. Un GDR (abbreviazione per Gioco di Ruolo) necessita almeno di due giocatori, e non vi è limite al numero massimo di partecipanti. Normalmente, in un GDR cartaceo, può essere consigliabile non superare la soglia degli 8 giocatori, mentre in un GDR Live un numero così basso risulterebbe insufficiente a creare, per esempio, una maestosa battaglia campale. Questo genere d’intrattenimenti si svolge soprattutto parlando, raccontando, immaginando e cooperando; ma normalmente si dispone anche di altri strumenti quali i dadi con diverso numero di facce, figurine o modellini, costumi e, nella nuova generazione, semplicemente un computer. Primo compito dei giocatori è quello di creare un personaggio, plasmando non solo le sue caratteristiche fisiche ma anche la personalità e la sua storia individuale (chiamata normalmente Background). Un personaggio può avere qualsiasi ruolo (eroe, entità fantastica, semplice contadino…), l’importante è che sia concorde col “mondo” scelto come ambientazione. Il gradino successivo riguarda la parte prettamente legata al gioco, e cioè l’assegnazione delle “statistiche”

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Storia del MUD

e delle “abilità”. Queste variabili sono differenti da gioco a gioco, ma normalmente comprendono la forza del personaggio, la sua intelligenza, la sua saggezza, la sua fortuna, la sua resistenza e il suo carisma. A tali abilità vengono attribuiti dei valori numerici risultanti da un semplice lancio di dadi, più l’assegnazione di bonus o malus a seconda della classe o della razza del personaggio stesso.

mo satellite terrestre artificiale. In risposta, gli Stati Uniti, nell’ottica di fornire strumenti di ricerca sempre più avanzati, al fine di preservare la propria leadership in scienza e tecnologia applicate al campo militare, diedero vita all’ARPA (Advanced Research Projects Agency), una sezione interna del Dipartimento della Difesa. Nel 1962 venne commissionato a Rand Paul Baran il compito di creare una rete informativa decentralizzata con lo scopo di permettere agli Stati Uniti di manteneTORIA re un efficiente grado di organizzazione anche in caso guerra nucleare, e consentire il controllo delle testate DI NTERNET missilistiche da qualsiasi città. L’inadeguatezza delle linee telefoniche fu il primo Per capire meglio il passaggio dai giochi di ruolo car- problema ad insorgere nel 1965, quando venne creata tacei ai loro “parenti” informatici, è necessario fare un la prima rete estesa (WAN: wide area network) che piccolo passo indietro nel tempo, e raccontare come collegava i computer di Berkley con quelli del MIT, Internet abbia preso piede nella nostra società, al pun- attraverso appunto una connessione a composizione to da immaginare di poter sostituire il DM umano con telefonica. Tra il 1966 ed il 1967 si scoprì che sia il MIT, sia uno virtuale. Nel 1957 l’ex Unione Sovietica lanciò Sputnik, il pri- il National Physics Laboratory nel Regno Unito, sia

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la RAND Corporation, stavano lavorando allo stesso progetto; sommandone le migliori idee, Leonard Roberts pubblicò allora un piano di WAN chiamato ARPANET (contrazione di ARPA NETwork). Per far partire questo progetto occorreva introdurre un protocollo che permettesse ai computer di mandare e ricevere dati tra di loro, chiamato IMPs (Interface Message Processor). I primi test iniziarono nell’Ottobre del 1969, quando IMPs fu installato nei computer della UCLA e di Stanford. L’esperimento fu un successo! Nel Dicembre del 1969 ARPANET iniziò ad espandersi, inglobando i centri di ricerca di Santa Barbara e Utah, grazie anche al lavoro degli scienziati americani che studiavano il modo per aumentare l’estensione della rete. Nel 1972, fu creato il primo programma di e-mail (electronic mail) da Ray Tomlinson. L’ARPA venne rinominata in DARPA (Defence Advanced Research Projects Agency). Nell’ottobre dello stesso anno, AR-

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PANET venne presentato alla Prima Conferenza Internazione sui Computer e Comunicazioni, tenuta a Washington DC, attraverso una dimostrazione di 40 differenti computer collegati tra loro in diverse locazioni. Solo nel 1973, dalle menti di Vinton Cerf di Stanford e Bob Kahn della DARPA, vennero sviluppate le basi per il protocollo ancora oggi più in uso, il TCP/IP, il quale permetteva a diversi computer di connettersi e comunicare tra di loro. L’intera rete fece passi da gigante grazie anche alle nuove tecnologie nel campo dei computer: non solo aumentarono le potenzialità dei processori, ma venne anche introdotta una linea più veloce di quella telefonica per lo scambio di dati (cavi a fibre vitree). Per far fronte alle previsioni di un crollo della rete a causa dell’aumento degli scambi al suo interno, nel 1984 vennero introdotti dei Server con Domini Differenti (DNS: Domain Name Server). Fino ad allora ogni computer aveva un suo nome proprio assegnato,

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Storia del MUD e la lista delle macchine collegate generava interminabili elenchi (dopo il 1980 erano connessi alla rete già oltre 1000 computer). Quindi, oltre a diversi codici di assegnazione propri di alcune nazioni, gli Stati Uniti introdussero indirizzi Internet quali .edu (educational), .com (commercial), .gov (governmental) in aggiunta al già esistente .org (international organization). In questo modo risultava molto più semplice ricordare i nomi dei computer. S’introdusse anche una sequenza di numeri in codice, chiamata Indirizzo IP, che veniva spedita o ricevuta ogni qualvolta si digitava un indirizzo Internet. La continua espansione della rete, negli anni a seguire, permise a chiunque, non solo a ricercatori e scienziati, di entrare in contatto e interagire in tempo reale. Un’opportunità fondamentale per trasformare un passatempo ristretto ad una stretta cerchia di amici, con luoghi obbligati di incontro, in quello che oggi sono i Giochi di Ruolo in Internet.

LA NASCITA DEL MUD Il primo gioco d’avventura per computer, utilizzato su larga scala, fu creato nel 1973 da Will Crowther, su un elaboratore DEC PDP-10, ed ampliato in termini di caratteristiche di gioco nel 1976 da Don Woods all’Università di Standford. Il suo nome era “Adventure”, anche se spesso lo si abbreviava in “Advent”, per non superare i sei caratteri, massima lunghezza consentita per i nomi dei file nei sistemi operativi TOPS10. Adventure era basato in gran parte sulle regole di Dungeons&Dragons (D&D), il celebre gioco di ruolo. La diversa caratteristica di questo gioco, rispetto al suo corrispettivo cartaceo, consisteva nell’introduzione di un “Dungeon Master” (DM) virtuale. Nei giochi di ruolo come D&D, il DM è colui che crea l’avventura e ne spiega l’ambientazione, a seconda delle do-

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mande dei giocatori; è colui che tira i dadi per i png (personaggi non giocanti) ed infine colui che decide l’assegnazione dei punti esperienza, punti necessari per poter “crescere”. In Adventure, il DM era il codice stesso che attraverso funzioni e variabili svolgeva in toto tale compito. Inspirati da Adventure, nell’estate del 1977, Dave Lebling, Marc Blank, Tim Anderson e Bruce Daniels, un gruppo di studenti del M.I.T., crearono un gioco per i minicomputer PDP-10, chiamato “Zork” che divenne molto popolare su ARPANET. Utilizzando il linguaggio Fortran, ne venne poi prodotta una variante denominata “Dungen”, trasportata su diversi tipi di macchina. Nel 1980, Blank e Joel Berez, con l’aiuto di Daniels, Lebling e Scott Cutler, realizzarono, per la compagnia Infocom, una terza versione, destinata a girare su microcomputer TRS-80 ed Apple II. Il gruppo del M.I.T. utilizzò Adventure come semplice spunto, poiché il codice fu riscritto completamente da zero, e dotato tra l’altro di maggiori features (caratteristiche) rispetto al predecessore; fu invece mantenuta la limitazione al numero di giocatori: entrambi i giochi potevano infatti essere utilizzati solo in modalità “single player”, cioè giocatore contro computer. Il termine MUD, originariamente, faceva riferimento a un gioco specifico, non a un’intera categoria. MUD (Multi-User Dungeon o Multi-User Dimension), fu creato e scritto da Roy Trubshaw nell’Università di Essex in Gran Bretagna, compilato in BCPL sul DEC KL10 dello stesso ateneo. Lo scopo del gioco era accumulare punti (e con essi “superpoteri”) fino al raggiungimento, da parte del giocatore, del grado massimo, quello di mago, in cui il personaggio diveniva praticamente immortale. L’immediato successo che il gioco ottenne in ambito universitario indusse Richard Burtle a prenderne il basic framework e modificarlo, accessoriandolo di diverse altre funzioni. Il gioco iniziò a conquistare popolarità in Gran Bretagna quando venne creato un account “visitatore”, cioè una identità generica che permetteva a tutti l’accesso a JANET (la rete accademica britannica), sebbene solo nelle ore piccole della notte. Quando Bartle, e

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MUD con lui, lasciarono Essex, alcune persone, intenzionate a mantenere vivo il gioco, implementarono un nuovo mondo, chiamato MIST, usando il vecchio software di MUD come base. Più tardi venne aggiunto un altro gioco, chiamato LAND. Tra i due, solamente MIST è ancora up (attivo), anche se non per molto, in quanto il KL10 dell’Università di Essex sta per essere smantellato. Uno dei player di MUD, l’originale, fu Alan Cox, anche conosciuto come Anarchy. Lui stesso, con un piccolo aiuto, compilò AberMUD, dedicato all’Università di Aberstwyth, in Galles, tra le cui fila militava al tempo. Originariamente, tale gioco era implementato su un mainframe Honeywell che girava su GCOS, ma fu presto trasportato su un sistema UNIX. Il suo design e la sua implementazione (l’intera quantità di informazioni era posta in un file condiviso, con la conseguenza che troppi processi contemporaneamente e costantemente avevano accesso al disco) si attirò

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l’antipatia di molti amministratori di sistema. Nonostante ciò, AberMUd fu il primo MUD a conquistare una diffusa popolarità. Dopo che i codici sorgenti del gioco raggiunsero gli Stati Uniti, molte persone, tra cui spicca Rich Salz, iniziarono ad aggiungervi features e modificarlo secondo i propri gusti. Al momento sembra aver trovato di nuovo una casa all’Università di St. Olaf, dove un gruppo di hacker, patiti di tale gioco, lo sta mantenendo vivo nonostante la sua obsolescenza. Nei primi anni ’80 membri del Lysator, il club studentesco della Linkoping University in Svezia implementarono a livello didattico un MUD chiamato Asgaard, in onore della mitica patria degli dei nordici. Lo scopo di tale progetto era di creare un gioco multi-utente in grado poi in futuro di essere esteso. Nell’arco di un paio d’anni il progetto era già caduto nel dimenticatoio; l’unico risultato concreto fu un LISP (LISt Processor, un linguaggio informatico) multi-

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Storia del MUD utente chiamato Runes, che offriva solamente delle possibilità d’implementazione elementari. Nel 1988, AberMUD e le sue relative versioni vennero diffuse sulla Usenet e cominciarono ad essere usate nell’America del Nord. Jim Aspens, un laureato della Carnegie Mellon University, scrisse il primo TinyMUD in un solo fine settimana nel 1989, e lo impiegò sulla porta 4201 sulla macchina “lancelot.avalon.cs.cmu.edu”. TinyMUD era focalizzato non tanto sul combattimento, quanto sulla risoluzione di problemi virtuali, cooperazione tra utenti ed interazione sociale tra i visitatori del MUD. Questo nuova ambientazione “sociale”, insieme al fatto che TinyMUD poteva girare su una larga varietà di sistemi UNIX, favorì la popolarità stessa dei MUD e la loro crescita a livello mondiale. L’originale LPMUD è stato scritto da Lars Pensjl con un piccolo aiuto esterno e divenne uno dei più popolari MUD nei primi anni ’90. Gli LPMUD sono MUD fondati sul combattimento. Il concetto invece di MOO (Mud Object oriented) è stato introdotto da Pavel Curtis nel 1996, trasformando il MUD in uno strumento maggiormente configurabile, con un linguaggio orientato alla creazione di “oggetti”. I MOO hanno una loro ambientazione di partenza. Il primo di tutti i MOO è LambdaMOO, è un gioco prettamente sociale fondato su una “fraternity house”. Esistono però altri MOO con sfondi differenti, quali ad esempio BayMOO ambientato in San Francisco, o Diversity University, in stile educativo, ambientato nel campus di un college. Altri modi di giocare di ruolo in rete sono rappresentati da PBEM, MUSH, MUSE, o MUX. PBEM (Play by E-Mail) è un GDR giocato attraverso l’E-Mail. Ciò comporta che il gioco si svolga a turni, una volta stabiliti i quali e creati i personaggi, ogni giocatore, in base a un canovaccio di partenza, scrive e invia i propri “pezzi” di storia all’host dove sono archiviate tutte le mail, il quale li inoltra automaticamente a tutti gli altri partecipanti. Il compito del DM in questo caso, oltre naturalmente alla creazione della traccia di partenza, è vigilare sulla coerenza degli

scritti e inviare di volta in volta istruzioni particolari sullo svolgimento della trama (per esempio l’inserimento di azioni obbligate, il succedersi di determinati imprevisti, ecc…). MUSH è un acronimo per Multi-User Simulated (o Shared) Hallucination. Un Mush è una parte di software che veste il ruolo di un server per una forma di comunicazione specializzata. Le sue apparenze o comportamenti dipendono fortemente dal database con cui gira. In poche parole si tratta di una specie di “simulatore di un mondo virtuale”, un grosso sistema funzionante potenzialmente anche in assenza di PG con delle regole precise. Solitamente la differenza tra un MUSH ed un MUD è veramente lieve e si concreta nell’orientamento prettamente “rpgistico” (cioè a sfondo GDR) del primo e nell’aggiunta della raccolta di punti esperienza come sistema di crescita nel secondo. Un MUSH è molto di più di un gioco: è una società, in quanto oltre al gioco di ruolo, i giocatori possono comunicare a livelli molto più personali. Un MUSE (Multi-User Simulation Environment) è una comunità collegata che risiede in un computer connesso alla rete. Il mondo viene creato dagli stessi giocatori attraverso i loro personaggi, mentre normalmente in un MUD è lo staff che “dirige” il gioco ad occuparsi della creazione di aree, nella maggior parte dei casi lavorando off-line e poi caricando il lavoro successivamente. Un MUX (Multi-User-Crosses o eXperience) infine è un incrocio tra il Gioco di Ruolo tradizionale, la libertà di un MUSH e l’eccitazione dei combattimenti che si possono trovare su un MUD. CREDITI: reti ArpaNet, immagini e fonti: http://www.let.leidenuniv.nl/history/ivh/chap2.htm Griffits Richard T., da Arpanet to World Wide Web Elaboratore DEC PDP-10, immagine: http://www.simulogics.com/

* KRISAORE

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ANIME “Uno sconosciuto dalla pelle profumata” Alexander/Rossane da “capitolo 3 (episodio 3)” 1999


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La citta’ incantata

“Se dovessi scegliere i cinque maestri dell’arte cinematografica, uno di essi sarebbe Miyazaki”: così si è espresso il compositore JOE HISAISHI, collaboratore di lunga data dell’artista e di registi del calibro di KITANO TAKESHI, all’indomani dell’Oscar come miglior film d’animazione a La città incantata (per la prima volta a un lungometraggio giapponese). E come smentirlo, ripensando alla disarmante semplicità e complicità con cui Miyazaki sa architettare le sue storie, piene di stupore e senso del meraviglioso. Lui meglio di altri è riuscito a trasporre sullo schermo il fantastico quotidiano in forma di poesia, una poesia intimamente umorale, precategoriale, che parla il linguaggio universale di un’umanità sottratta alle catene di bassezze tristemente reali. La città incantata è una storia di maturazione di stampo classico, in cui l’irruzione dell’oltremondano è solo una delle possibili metafore del confronto tra una bambina e il mondo esterno. Miyazaki conserva l’asprezza allegorica de La principessa Mononoke, ma torna ad occuparsi di quel mondo di mezzo che è l’infanzia sulle soglie della coscienza, proprio come nell’insuperato Il mio vicino Totoro. La rilettura è in chiave dichiaratamente fantastica, con un recupero dell’atmosfera sognante di Laputa, pervasa da uno slancio verso le barriere dell’irreale che sovverte l’usuale percezione 1) Chihiro e i genitori in viaggio per raggiungere la nuova casa. 2) Haku soccorre Chihiro che, colta dalla notte, rischia di trasformarsi in fantasma. 3) Seguendo il consiglio di Haku, Chihiro cerca di occupazione da Kamaji, l’addetto alle caldaie. 4) Chihiro firma il contratto di lavoro con Yu-Baaba: d’ora in poi si chiamerà Sen.

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La citta’ incantata 1) Rin mostra a Sen il suo nuovo alloggio. 2) Haku conforta Sen, e le raccomanda di non dimenticare mai il suo vero nome. 3) Sen soccorre Haku (in forma di drago), ferito dalla magia di Zeniba. 4) Rin aiuta Sen a lasciare l’albergo di YuBaaba e a raggiungere la fermata del treno. Sen intende restituire a Zeniba il talismano rubato da Haku.

della quotidianità. Chihiro sta traslocando con i genitori in un’altra città. Sulla strada per la nuova casa, dopo aver erroneamente imboccato un sentiero sterrato che attraversa un bosco, la famiglia incappa in un’antica e buia galleria. Incuriositi, i genitori decidono di esplorarla, trascinandosi dietro la riluttante Chihiro. Arriveranno in una valle apparentemente disabitata, con strambe costruzioni di contorno che la fanno sembrare un luna park abbandonato. I genitori scompaiono, e Chihiro si ritrova sperduta nel mondo degli spiriti, in una magione/ bagno pubblico gestito da Yubaba, che accetta di assumerla alle sue dipendenze purché semplifichi il suo nome in Sen (il titolo orginale è appunto Sen to Chihiro no Kamikakushi, ossia Sen e Chihiro rapite dagli spiriti). Inizia la dura lotta della “neonata” Sen per ritrovare se stessa e i suoi genitori, tra personaggi surreali e gli sporadici alleati: la sguattera Rin, l’aracnomorfo Kamajii e soprattutto il misterioso Haku, bel giovane che per primo l’aiuta a sfuggire alla folla intimorita. Impostazione da classico bildungsroman: eppure, dietro la rilettura fiabesca si nasconde un’inaspettata durezza, in cui le asperità non vengono occultate o smussate per guadagnarsi la simpatia dei più piccoli (o meglio, dei loro genitori), come spesso avviene con l’animazione di marca disneyana più recente: al contrario, ogni difficoltà emerge - in modo non bellicoso, grazie alla partecipazione attiva di uno sguardo umoristico-spensierato e viene amplificato. Perché solo sconfiggendo

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1) Il treno in arrivo. 2) Sen e lo “Spirito senza volto” attendono l’arrivo alla loro fermata. Il treno si è ormai svuotato. 3) Sen accolta nella dimora di Zeniba. Molto più comprensiva della sorella Yu-Baaba, la maga accetta le scuse presentate in nome di Haku. 4) Accompagnata da Haku, Sen si appresta a sostenere la sua ultima prova: dovrà riconoscere i genitori, trasformati in maiali. Solo in questo modo riacquisterà il proprio nome e la libertà.

i propri demoni e le proprie paure è possibile liberarsi, riappropriarsi del proprio nome, simbolo dell’unicità e complessità che ci contraddistingue. Pinocchio raccontava che i bambini, lasciati a loro stessi, senza una guida, cadrebbero presto preda degli impulsi (la “città dei balocchi”). La città incantata, anti-Pinocchio con cognizione di causa, propone un punto di vista alternativo, meno propenso ai desideri di dominio del mondo dei “cresciuti” su quello dell’infanzia. I bambini per maturare hanno e devono trovare la forza in loro stessi. Il mondo è un antro di spettri con cui devono abituarsi a convivere in prima persona, non ci sono facili filtri a portata di mano: non a caso se nella favola di Collodi erano i giovani a trasformarsi in asini, qui sono gli adulti a diventare maiali. Chihiro non è allora un’eroina, quanto una ragazzina come tante: insolitamente buffa, preda di una gestualità sgraziata, di espressioni sbilenche – e per questo ancora più adorabile.

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STEFANO LOCATI

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La citta’ incantata

Chihiro-Sen

Haku

Mamma

Papà

Rin

Yu-Baaba e Zeniba

Caporeparto

Rana

Kamaji

Spirito senza Volto

Servi di Yu-Baaba

Fuliggine

Spirito del Ravanello

Scheda tecnica

Bou

Spirito del Fiume

TITOLO ORIGINALE: “Sen to Chihiro no Kamikakushi” 千と千尋の神隠し REGIA: Hayao Miyazaki SOGGETTO E SCENEGGIATURA: Hayao Miyazaki ART DIRECTOR: Norobu Yoshida, Youji Takeshige ANIMATION DIRECTOR: Masashi Ando MONTAGGIO: Takeshi Seyama FOTOGRAFIA: Atsushi Okui MUSICHE: Joe Hisaishi, Youmi Kimura TEMA MUSICALE: Itsumo Nando Demo, cantato da Yumi Kimura TUTTE LE IMMAGINI SONO: ©® 2002 NIBARIKI. TGNDDTM, STUDIO GHIBLI, BUENA VISTA

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ANIME

Serie tv

ALEXANDER

CRONACHE DI GUERRA DI ALESSANDRO IL GRANDE

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lexander (アレクサンダー戦記 - Arekusandaa senki) è una serie Tv/OVA composta di 13 episodi, il primo dei quali trasmesso in Giappone nel dicembre del 1999. Tratta in chiave fantasy le vicende di Alessandro il Grande, dal 338, anno battaglia di Cheronea, al 326 data dello scontro contro re Poro sul fiume Jhelum. Animata dalla MAD HOUSE, sceneggiata da Sadayuki Murai (Boogiepop Phantom, Perfect Blue), su soggetto di Masayuki Kojima (DNA sights 999.9), tratta da un romanzo di Hiroshi Aramata, la serie si avvale della regia di Yoshinori Kanemori, del design di Peter Chung (Aeon Flux, Animatrix - Matriculated), e della supervisione di due nomi illustri dell’animazione nipponica, Rintaro e Masao Maruyama. Rappresenta a tutti gli effetti, per l’originalità dell’ambientazione e del design, per l’estetica narrativa e le commistioni filosofico-matematiche che ne permeano la trama, un’opera sperimentale di grande suggestione. In Italia è stata trasmessa da MTV, ed edita in 4 dvd dalla Dynamic. CAPITOLO 1: LA NASCITA DEL DISTRUTTORE DEL MONDO Il demiurgo trasformò il Caos in Cosmo, il disordine in ordine, servendosi della materia indeterminata per plasmare le cose a imitazione delle eterne e immutabili Idee. Ma nel tracciare la sua Cosmologia, Platone attribuì ai quattro elementi della tradizione filosofica un significato puramente matematico, nell’ambizione di unificare tutte le scienze. Ciò che ne scaturì fu una struttura complessa nella quale egli rinvenne la chiave per la comprensione dell’intero Universo. E questo ente geometrico fondamentale prese il nome di Solido Platonico. 356 a.C.- Olimpiade, principessa d’Epiro, sposa di Filippo II, sovrano di Macedonia, dà alla luce l’erede al trono: Alessandro. La nascita è accompagnata da un nefasto vaticinio: il bambino sarà colui che distruggerà il mondo. 338 a.C. - Pella, capitale del regno di Macedonia: al compimento del suo diciottesimo anno d’età, Alessandro è un principe forte e di bell’aspetto, dotato di una brillante intelligenza sapientemente istruita dall’educatore di corte, il sommo Aristotele. È inviso, però, al consigliere reale Àttalo, dal quale viene costantemente screditato. Ancor più ostili, al punto d’attentare alla sua vita, gli sono i misteriosi “pitagorici” (membri di una società filosofico-religiosa fondata da Pitagora), risoluti a scongiurare

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ALEXANDER l’avverarsi della profezia a lui connessa. Il popolo, infine, lo considera un giovane imbelle, del tutto inaffidabile nel contesto della guerra che la Macedonia sta combattendo contro le poleis elleniche. Il principe è dotato invece di grande talento militare, e di una personalità ferrea e ambiziosa. Alla vigilia della battaglia di Cheronea, suo battesimo del fuoco, Alessandro addomestica Bucefalo, il terribile cavallo “mangiatore d’uomini”, e conosce Clito e Tolomeo, soldati della cavalleria macedone: essi rappresentano l’incarnazione della “velocità”, rivelazione che il principe cercava per dare senso compiuto alle sue innovative intuizioni tattiche. CAPITOLO 2: PRELUDIO ALLA COSPIRAZIONE Il culto di Hela, tenebrosa scienza del disordine, e disciplina della distruzione, fu un’arte oscura che si prefiggeva lo scopo di porre fine a tutti i mondi e ricondurre l’universo all’informe Caos primordiale. I suoi adepti veneravano la dea-madre Hela, colei che venne partorita dal Caos. Questa tetra idolatria riuscì a penetrare fino all’interno del palazzo reale di Macedonia: diretta discendente e alta sacerdotessa di Hela fu infatti la prima sposa di Filippo II, Olimpiade… la madre di Alessandro il Grande. 338 a.C. - La cavalleria, comandata personalmente da Alessandro, strappa la scena alla falange risultando decisiva nella folgorante vittoria macedone a Cheronea. L’esercito in tripudio acclama il giovane principe, e Filippo II comincia a temere la rivalità del figlio. Approfittando dell’inquietudine del re, Àttalo riesce a convincerlo a ripudiare Olimpiade, già accusata di venerare gli dèi barbari, e a prendere in sposa sua figlia Euridice, più che disponibile a concepirgli un nuovo erede. Parmenione, consigliere militare del sovrano, esprime al figlio Filota, fedele amico di Alessandro, la sua preoccupazione: l’avida influenza di Àttalo minaccia di causare un’infausta rottura tra il re e il principe. Nel frattempo, sul trono di Persia sale Dario III: sconfitti gli ellenici, per la Macedonia si profila all’orizzonte un altro potente nemico. CAPITOLO 3: INCONTRO CON L’AVVERSARIO Secondo il sistema della metafisica aristotelica, il caos può essere definito soltanto come “assenza di ordine”. Il movimento impresso originariamente all’universo spinge la materia dall’in-

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1) Alessandro cavalca Bucefalo. 2) La battaglia di Cheronea. 3) Alessandro e la madre, Olimpiade. 4) Il primo incontro tra Alessandro e Rossane, ai giardini di Babilonia. 5) Dopo aver ripudiato Olimpiade, Filippo II sposa euridice.

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Serie tv determinato al determinato. Quando Aristotele lasciò l’Accademia, si dice che Platone ne fu molto addolorato, e piangendo pronunciò queste parole: “il puledro ha scalciato contro la propria madre, e l’ha abbandonata”. E fu proprio questa frattura a dare origine alla tragedia che per più di duemila anni avrebbe sconvolto la storia dell’umanità… Fingendosi schiavo, al seguito di una delegazione spedita da Atene a trattare un’alleanza con Dario contro la Macedonia, Alessandro raggiunge la favolosa Babilonia, capitale del Regno di Persia. Lo accompagnano Efestione, sua fedele guardia del corpo, il devoto Filota, e gli ormai inseparabili Clito e Tolomeo. Nella notte babilonese, che gli porta un incontro con l’affascinante Rossane, il principe riesce a sabotare l’intesa tra Atene e la Persia, e, con una temerarietà che impressiona lo stesso Dario, a salvare il catturato Tolomeo dall’esecuzione capitale. CAPITOLO 4: CONCERTO PER UN ASSASSINO. Nel tempo prima della storia, il titano Crono, per esaudire il desiderio della madre Gea, uccise suo padre Urano, il primo sovrano dell’Universo. In seguito, essendogli stato predetto che avrebbe patito stessa sorte per mano del figlio, Crono istituì il patriarcato, attribuendo al capofamiglia autorità assoluta sugli altri membri. Ma non servì a nulla, poiché anche lui cadde per mano di Zeus. Fin dall’origine, quindi, la mitologia mostra due elementi fondamentali: una predizione infausta, e un figlio che uccide il proprio padre.

1) La statua di Filippo II si sgretola; all’interno, un soldato meccanico scocca una freccia contro il re. 2) Alessandro salva il padre dal primo attentato, ma lascia che un sicario lo uccida poco dopo. 3) Demostene incita Atene alla rivolta contro la Macedonia.

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Relegata in Epiro, Olimpiade brama vendetta e istiga Alessandro al tradimento. Filippo II ha intenzione di eleggere suo successore il figlio avuto da Euridice, e ciò contrasta con i piani di Aristotele, che coltiva un suo personale progetto di riordino dell’Ellade. 336 a.C. - Aigai, vecchia capitale di Macedonia; in occasione dei festeggiamenti per l’anniversario della vittoria sugli Elleni, Filippo II si autocelebra, dio fra gli dèi: alla sfilata delle tradizionali statue consacrate alle dodici divinità macedoni, ne fa aggiungere una tredicesima con le proprie fattezze. Durante la commemorazione, il sovrano cade vittima di un duplice attentato, favorito da Alessandro. Ne subisce l’accusa Àttalo, mentre a palazzo Euridice e il figlioletto vengono a loro volta assassinati. Rimosso ogni ostacolo, Alessandro rimane unico signore di Macedonia.

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ALEXANDER CAPITOLO 5: COLUI CHE POTREBBE FAR IMPAZZIRE SOCRATE. La Filosofia nacque all’interno dell’agorà, la piazza principale della polis. Tutti coloro che vi si riunivano quotidianamente trascorrevano il loro tempo scambiandosi l’un l’altro parole. Da questa pratica, ebbe origine ció che nella dialettica di Socrate avrebbe assunto il nome di “conversazione”. E fu in definitiva la maggiore o minore rilevanza di questa consuetudine a stabilire le differenti sorti di Atene e Tebe. 335 a.C. - La morte di Filippo II induce gli Elleni a risollevare il capo. Ad Atene, Demostene usa la sua astuta eloquenza per spronare la folla, nel tentativo di fomentare una ribellione; ma la notizia che Alessandro ha raso al suolo l’insorta Tebe spazza via ogni residua velleità ellenica. Per non condividere la sorte della sventurata alleata, Atene chiede l’intercessione dello stravagante saggio Diogene; questi si dichiara disposto a trattare una resa con Alessandro ma… solo se sarà il re stesso a recarsi da lui. Assillato dalla profezia che lo indica come futuro distruttore del mondo, Alessandro acconsente, nella speranza di ottenere risposte ai dubbi sul proprio destino. Diogene gli offre un’esegesi alternativa del presagio: “distruzione” non necessariamente come atto violento e definitivo. Un tessuto delicatamente sfilato può dirsi “distrutto”, eppure il filo restarne intatto e permettere l’intreccio di una nuova e migliore trama. È per Alessandro l’illuminazione; e per Atene la grazia. CAPITOLO 6: LA STREGA DI SAMOTRACIA. Vari sistemi filosofici hanno individuato un numero che fungesse da chiave cosmologica. Euclide indica nel “6” il primo dei numeri perfetti, in quanto somma dei suoi divisori escluso se stesso. Per Pitagora, invece, il “10” comprendeva in sé il tutto: lo spazio, la superficie piana, la linea e il punto. La figura che emerse da questa concezione andò a costituire l’emblema dell’ordine e dell’armonia nel Cosmo. E questo simbolo fu conosciuto con il nome di “tetractyus”. 357 a.C. - Isola di Samotracia: Olimpiade e Filippo II s’incontrano durante un segreto e innominabile rituale cabirico. 334 a.C. - Pella: Alessandro medita un attacco alla Persia, nonostante il parere contrario di Parmenione e Antipatro, vecchi consiglieri del padre. Ormai la nuova generazione ha preso le redini del comando. I pitagorici s’infiltrano nell’esercito macedone, pronti a fer-

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1) Alessandro davanti alla “dimora” di Diogene, accompagnato da Filota, Tolomeo e Clito. 2) Entrando nella botte, Alessandro varca una dimensione metafisica. 3) Inviata da Aristotele ad arruolarsi, Cassandra dimostra la propria abilità sfidando Clito a duello.

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Serie tv mare il “distruttore del mondo”. Uno scontro con Dario asseconderebbe invece i piani di Aristotele, il quale individua in una sconfitta della Persia l’elemento capace di riportare l’Ordine nell’Ellade. Il sommo discepolo di Platone invia la nipote Cassandra a vegliare sull’incolumità del re. Parmenione, preoccupato dalle possibili conseguenze di una nuova guerra, decide d’informare Filota sull’inquietante culto apocalittico professato da Olimpiade, e sul coinvolgimento di Alessandro nell’assassinio del padre. Le rivelazioni turbano profondamente il giovane braccio destro del re. CAPITOLO 7: IL NODO GORDIANO. Per stabilire il numero degli Dèi cabiri, numi tutelari dei culti misterici di Samotracia, si deve compiere una estrapolazione speculativa: la loro natura è legata tanto ai quattro elementi del creato, quanto ai concetti di vita e morte, particolarmente in rapporto al ciclo lunare. Ma, essendo anche responsabili dell’ordine e dell’armonia nella sfera celeste, si può supporre che il loro numero corrispondesse a quello dei pianeti così com’era conosciuto dagli antichi. Ed ecco perciò che si giunge al “7”. 333 a.C. - La campagna di Persia è iniziata; conquistate in rapida successione Sardi, Efeso e Mileto, Alessandro espugna Alicarnasso, sede di una delle Sette Meraviglie del mondo, la tomba monumentale dedicata al satrapo Mausolo. Il grosso dell’esercito si accampa nei pressi di Gordio, capitale della Frigia. Qui Alessandro “scioglie”, tranciandolo di netto, il celebre “nodo gordiano”, e arruola fra le sue fila il giovane medico Filippo. L’armata persiana, comandata da Dario, raggiunge intanto Isso, dove si scontra con quella macedone. Durante la battaglia, Alessandro riconquista la devozione di Filota, fermandosi a soccorrerlo quando questi cade ferito da cavallo. Nel momento topico del combattimento, i pitagorici gettano la maschera ed emergono dalle falangi macedoni per scagliarsi contro Alessandro. L’intromissione induce il fiero Dario ad abbandonare il campo: non devono ammettersi ingerenze nel “duello” fra due re.

1) Alessandro “scioglie” a modo suo il Nodo Gordiano. 2) La falange macedone nella battaglia di Isso contro la Persia. 3) I Pitagorici, infiltrati nell’esercito di Alessandro, escono allo scoperto durante la battaglia di Isso per assassinare il re.

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CAPITOLO 8: VIAGGIO NELLA CITTÀ VIVENTE. Gli architetti di Dioniso: così erano chiamati i membri di una leggendaria corporazione di costruttori, ritenuti le maestranze di Atlantide. Ad essi re Salomone affidò l’incarico di costruire il suo tempio, e sempre per mano loro venne edificato il mausoleo

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ALEXANDER di Alicarnasso, così come la maggior parte delle meraviglie del mondo antico. I loro segreti venivano tramandati nel corso di cerimonie proibite; ed ecco due tessere ricorrenti nel nostro mosaico: i cerimoniali segreti e l’influenza della matematica sulla realtà. 332 a.C. - L’esercito macedone è giunto in Egitto. Nei pressi di Menfi, Alessandro intende erigere le fondamenta di una nuova metropoli, e pone alla direzione dei lavori un soldato dalle formidabili doti d’architetto: Dinocrate. Mentre questi gli illustra il progetto di una “città a forma d’uomo”, Alessandro subisce uno sbalzo temporale ritrovandosi proiettato cento anni nel futuro, nella stessa metropoli, ormai edificata. Lì apprende la Storia a venire: sarà colui che tutti chiamano Grande Re, mentre Tolomeo diverrà sorprendentemente sovrano d’Egitto. Tolomeo stesso ordinerà la costruzione di Soma, un immenso mausoleo sotterraneo, ove far riposare le spoglie mortali del Grande Re. Visitando la propria tomba futura, guidato dai ladruncoli persiani Ibun e Zaliwali, Alessandro incontra lo “spettro” di Aristotele (la rappresentazione platonica della “idea” del Maestro), e riesce quasi a toccare il Solido Platonico, chiave della verità e del sapere universale. CAPITOLO 9: L’ORACOLO DI AMMONE. La “Scuola di Atene” è un affresco che Raffaello realizzò come tributo alla filosofia greca. Al centro, Platone indica verso l’alto il mondo delle idee; al suo fianco, Aristotele stende il palmo aperto verso la terra, il mondo dei concetti. Sulla destra, si riconoscono altre due figure: uno studioso che dimostra un teorema usando il compasso, e, alle sue spalle, un uomo che regge un globo; essi sono Euclide, il padre della geometria, e Zoroastro, la saggezza d’Oriente. Persia 332 a.C. - L’esercito di Dario è in marcia per affrontare nuovamente quello di Alessandro. Besso di Battriana, consigliere dell’imperatore persiano, s’incontra segretamente con i seguaci di Ahura Mazda e del suo primo profeta Zaratustra (Zoroastro), confratelli orientali dei pitagorici. Anch’essi sono votati ad assassinare Alessandro, e anch’essi falliscono nell’intento. Recatosi in visita all’oracolo di Ammone, Alessandro si sente predire un destino da Re “del mondo” e “della distruzione”, mentre Tolomeo viene indicato come futuro sovrano d’Egitto. Una lettera di Aristotele rafforza intanto un condizionamento ipnotico impresso a Cassandra, ribadendole l’imperativo di pro-

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1) Durante la battaglia di Isso, Alessandro salva Filota. 2) Alessandro scopre le straordinarie capacità di architetto di Dinocrate, un soldato della sua cavalleria. 3) All’interno di Soma, Alessandro incontra la “idea” di Aristotele.

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Serie tv teggere il re, ma solo fino allo scontro con Dario. CAPITOLO 10: LA BATTAGLIA DI GAUGAMELA. La poetica di Aristotele pose i fondamenti per l’indagine artistica moderna, ogni attività dell’arte non si limita a riprodurre la realtà esterna, attuando una mimesis, ma a partire da questa ne crea una tutta sua nella quale si riflette la verità universale. Alessandro, tuttavia, che amava paragonarsi ad Achille, sentì spesso la mancanza di una figura che, più semplicemente, fosse degna di confrontarsi con quella del leggendario aedo che cantò le battaglie dell’Iliade: Omero. 331 a.C. - La battaglia decisiva tra gli eserciti macedone e persiano ha luogo a Gaugamela; uno scontro titanico ed estenuante che si protrae, tra alterne vicende, per l’intera giornata. Ad Atene, Aristotele fa visita a Diogene. Dall’interno della botte, dimora del saggio ateniese, i due sommi discepoli di Platone assistono “spiritualmente” al duello tra Dario e Alessandro. Diogene conferma i sospetti di Aristotele ammettendo di aver ricevuto in affidamento, da Platone stesso, il Solido Platonico, e di averlo poi gettato nel luogo ritenuto più sicuro: all’interno del Caos, di cui la convulsa battaglia di Gaugamela rappresenta ora perfetta materializzazione in Terra. Alessandro trafigge mortalmente Dario; nel mezzo dello scontro, il Solido Platonico riemerge dal Caos, e si perde. La Persia è sconfitta. Ormai Alessandro potrà temere solo se stesso: la “distruzione” del mondo ha avuto inizio. CAPITOLO 11: PERSEPOLI IN FIAMME. Un numero irrazionale è un numero che non si può esprimere come frazione, ovvero come rapporto di due numeri interi. La concezione pitagorica, secondo la quale l’intero Universo è costituito da numeri, viene messa a dura prova dall’esistenza dei numeri irrazionali. Per questo Pitagora stesso li definì in tal modo, cioè “privi di ratio”, di ragione. E in greco si diceva “privi di logos”, ossia “illogici”, assurdi, inconcepibili. Ma anche, estendendo il significato, “privi della possibilità di essere trattati in un discorso”: innominabili.

1) Alessandro innanzi all’Oracolo di Ammone. 2) Dario, Imperatore di Persia, guida il suo colossale esercito dalla sommità della sua macchina da guerra. 3) Clito affronta un soldato persiano durante la battaglia di Gaugamela.

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330 a.C. - Persepoli, seconda capitale del Regno di Persia: la guerra è conclusa, ma l’integrazione tra vinti e vincitori appare ardua. Il generale Satibalzane, ministro e consigliere di Dario, accetta di servire Alessandro, salvo poi ordirgli contro un attentato e farne ricadere la colpa su Parmenione e Filota, che finiscono

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ALEXANDER l’uno assassinato e l’altro condannato alla pubblica lapidazione. La vita di Alessandro, avvelenato il giorno delle sue nozze con Rossane, rimane così nelle mani del medico Filippo, rivelatosi membro dei pitagorici e partecipe del complotto. Eppure, all’ultimo, Filippo ripara il tradimento consegnando al re l’antidoto… prima di suicidarsi. CAPITOLO 12: IL MASSACRO. Nell’antichità, persino un orologio poteva celare significati sorprendenti. Uno “gnomone” è un orologio solare la cui forma ricorda quella di una L. Il suo nome deriva dalla parola “gnome”, che indica la conoscenza, e il divenire. Nella tradizione pitagorica, il termine “gnomone” è anche un concetto matematico relativo ai numeri quadrati, ovvero a quei numeri che si moltiplicano per se stessi trasformandosi in altri numeri. Geometricamente, anch’esso ha la forma di una L. 329 a.C. - Ormai guarito, e soffocati gli ultimi focolai di rivolta persiani, Alessandro è libero di proseguire la sua avanzata verso i nuovi orizzonti dell’India. 326 a.C. - Mentre il Solido Platonico, vanamente cercato da Aristotele dopo la battaglia di Gaugamela, viene trovato da un ragazzo di nome Euclide, Alessandro oltrepassa l’Hindukush ed entra nella città di Taxila. I sacerdoti del Brahmanesimo, i bramini, come già prima di loro i pitagorici e i seguaci di Zaratustra, tentano di ucciderlo senza riuscirvi. Ci prova e fallisce (per il sacrificio di Clito, che fa da scudo al re) anche Cassandra, obbedendo inconsapevolmente a un nuovo ordine ipnotico di Aristotele, nei piani del quale l’avanzata macedone avrebbe dovuto arrestarsi alla Persia. Nulla più si frappone tra Alessandro e l’esercito di Poro, misterioso sovrano dell’India Quest’ultima battaglia segnerà la distruzione del mondo, secondo le predizioni. CAPITOLO 13: CATARSI. Nel corso della nostra esistenza, andiamo alla ricerca di parole che riescano a descrivere adeguatamente le continue perturbazioni dell’ordine e del caos, dell’intero tessuto del cosmo. Auspichiamo la conoscenza, la rivelazione, la catarsi. E l’unico modo per ottenerle, e per raggiungere il piano delle idee, è purificare il turbine delle passioni che sgorgano dal nostro cuore. Per questo esiste la filosofia. Ma la filosofia si fonda sulla matematica, e solo la matematica può farci intuire la verità dell’universo.

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1) Dario colpito a morte dalla furia devastante di Alessandro. 2) Efestione sorregge Alessandro, avvelenato dal bacio di una danzatrice. 3) Filota, vittima del complotto di Satibalzane, e viene ingiustamente condannato alla lapidazione.

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326 a.C. - La battaglia decisiva tra Alessandro e Poro si combatte sul fiume Jhelum. L’esercito macedone si trova di fronte la Trappola di Mirabilia: truppe irreali, formate dai nemici uccisi nelle precedenti battaglie, e guidate niente meno che dal cadavere rianimato di Dario. Ancora una volta, Aristotele si reca nella mistica dimora di Diogene per contemplare l’ultimo atto del dramma. Inarrestabile, Alessandro annienta lo spettro di Dario e irrompe nell’ottaedro platonico, il Solido la cui colossale proiezione si para all’improvviso innanzi a lui. All’interno, il distruttore del mondo incontra l’entità spirituale di Pitagora, e può infine affrontare faccia a faccia il vero re Poro: se stesso. Il Solido svanisce, lasciando Alessandro unico e incontrastato vincitore, finalmente pago di conquiste e pronto volgere lo sguardo verso casa, nella trionfale esultanza del suo esercito. 323 a.C. Alessandro si appresta a guidare una nuova spedizione, in Arabia; Euclide disegna strane formule geometriche sul pavimento del palazzo reale; Aristotele inizia a perdere la memoria. Un mondo sta scomparendo, un altro migliore ne sta prendendo il posto.

1) Abbattendo ogni resistenza che gli si frappone sul cammino, Alessandro oltrepassa l’Hindukush. 2) Clito sacrifica la vita per proteggere Alessandro dalla spada di Cassandra, ipnotizzata da Aristotele. 3) Aristotele e Diogene osservano da Atene la battaglia contro Poro.

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COMMENTO. Capita talvolta (forse troppo spesso) che certe opere cosiddette “innovative”, definite tali in virtù di una particolare “complessità” espressiva, perdano aderenza nel finale, decollando in voli pindarici. Voli ai quali lo spettatore parteciperebbe volentieri, se non fosse suo malgrado trattenuto da una forza di gravità chiamata “senso logico”. Il limite è psicostrutturale: lo spettatore possiede una mente, in grado di riconoscere l’assurdo, di norma. Peraltro, una volta formatasi nell’individuo adulto, questa capacità non può più regredire a morfologie neonatali. Vale per gli esseri umani e, più in generale, per tutti i vertebrati superiori. Tutti tranne la specie degli “autori”, i quali, non si sa come (ma si può facilmente intuire perché), riescono invece in questo e altro. Emblema illustre: HIDEAKI ANNO, con i famigerati episodi - televisivi - 25 e 26 del pur osannato Evangelion (nominarli in pubblico in Giappone dovrebbe essere prudentemente sconsigliato dalle guide turistiche). Qualsiasi opera la cui estetica sia fondata su una raffinata ricerca espressiva e filologica, magari “innovatrice” nel modo di proporre elementi a incastro, e di orientarli dall’apparente disordine iniziale a un (sedicente) illuminante ordine conclusivo, non

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ALEXANDER può prescindere dalla sua coerenza finale, dal rendere in ultima analisi accessibili i significati profondi così “innovativamente” ostentati. La ragione ci dice che l’eventuale mancanza d’intelligibilità non possa essere eletta dimostrazione di acume artistico dell’autore, anzi... surreale sarebbe il contrario. Per semplificare: un giallista che congegna disinvoltamente un thriller intricatissimo ma omette di rivelare l’identità del colpevole, oppure la rivela però “scordandosi” di spiegare l’iter logico che ne focalizza la centralità rispetto alla ragnatela degli indizi, può essere definito in vari coloriti modi, ma non “geniale”. È un paradosso, eppure si verifica, in barba al lapalissiano principio secondo il quale, se un autore non risolve il senso di un’opera complessa, la spiegazione più ragionevole è che la complessità sia stata imbastita proprio ad allegro discapito del suddetto senso, e che pertanto lo status dell’autore non debba essere quello di genio bensì di baro (spudorato). Ad ogni modo, sfatiamo subito il dubbio che avrà a questo punto assalito il lettore: no, Alexander NON è una di queste opere-beffa. Potrebbe, però, sembrarlo, in prima battuta… Il motivo di questo lungo preambolo deriva, appunto, dall’episodio finale, il cui “significato” può risultare, a seconda dell’estrazione culturale dello spettatore, impenetrabilmente criptico o, al contrario, palesemente ovvio. La verità è che si tratta di un’opera “difficile”, i cui temi (e il modo di proporli) finiscono per isolare un pubblico specifico, probabilmente ristretto. Se la nostra forcella culturale non ci permette, per esempio, di riconoscere Demostene come il celebre oratore le cui filippiche rappresentano tuttora modelli di retorica, le sequenze nelle quali il personaggio appare perdono parte del loro contenuto. La vicenda di Alexander è un rincorrersi di eventi storici e di significati simbolici emergenti dal substrato filosofico-matematico che fa da basamento alla trama; a volte questi simboli sono offerti in modo ermetico o non sempre coeso, sicché, in mancanza di una cultura specifica, può risultare effettivamente complicato seguirne il costrutto. Hanno tuttavia il pregio di mantenere una linearità narrativa, un senso logico omogeneo. E, soprattutto, una risoluzione finale perfettamente coerente. Alla conclusione che la “distruzione del mondo”, originata da Alessandro, si potesse tradurre in un’evoluzione graduale e quasi indolore, dai connotati puramente intellettuali e culturali (quelli che poi, in tutte le epoche, hanno determinato i reali cambiamenti), al fatto che la catastrofica profezia iniziale potes-

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1) Aristotele e Diogene si preparano ad assistere alla “distruzione del mondo”. 2) Alessandro incontra Pitagora all’interno del Solido Platonico, materialozzato a jhelum. 3) Euclide disegna sul marmo lr geometrie del nuovo mondo.

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ANIME

1) IPitagorici cercano di assassinare Alessandro, male interpretando una profezia di Pitagora. 2) Alessandro e i suoi fedeli; da sinistra: Tolomeo, Clito, Efestione e Filota. 3) Cassandra e lo zio Aristotele, precettore di Alessandro.

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Serie tv se nascondere un’interpretazione “morbida”, lo spettatore viene adeguatamente preparato, già a partire dalle parole di Diogene nel quinto episodio. Anche il modo in cui questo cambiamento si manifesta, ossia attraverso il passaggio da una matematica scientifico-filosofica “aristotelica” a una “euclidea”, è lasciato presagire ben prima del finale. L’ottavo episodio, portandoci nel futuro, ci permette addirittura di contemplare la “distruzione” già compiuta, presentandoci un Aristotele quasi privo di memoria, e un mondo che metaforicamente non ha più bisogno di “lui”. La chiave del cambiamento è il Solido Platonico, definito nel corso della narrazione come l’ente geometrico che racchiude la conoscenza universale, l’elemento trovando il quale Euclide ottiene la capacità d’interpretare una matematica di più alto livello. Il vero istante in cui Alessandro dà il via al processo di “distruzione” non è quindi la battaglia di Jhelum contro Poro, ma quella di Gaugamela contro Dario. Lì si manifesta e si perde il Solido. Gli appassionati di Fantascienza non faticheranno a risalire un filo ideale che collega Alexander al celeberrimo 2001: Odissea nello spazio. La “distruzione del mondo” – intesa come rivoluzione del pensiero – è descritta in Alexander mediante gli stessi criteri espressivi dell’affascinante film di KUBRICK. In 2001 la conoscenza era racchiusa nel Monolito, il cui contatto faceva scoccare la scintilla dell’intelligenza in una scimmia, determinando l’inizio della “distruzione” del mondo, ossia la sua sostituzione con uno nuovo, quello dell’Uomo. In Alexander, il Monolito è il Solido Platonico, a toccarlo è Euclide, e l’intelligenza che viene trasmessa è la comprensione di una matematica più profonda. Sotto l’aspetto tecnico, Alexander propone un’animazione fluida sebbene essenziale, con fondali semplici, spesso monocromatici o sobriamente sfumati, e colori dalle tonalità pastello, che spesso si accendono nelle situazioni di maggior pathos; l’uso non invasivo della computer grafica riguarda specificamente certe rappresentazioni “meccaniche”, i movimenti panoramici delle truppe, gli scenari onirici o metafisici, è presente quindi solo laddove sia funzionale a sottolineare la prevalenza dell’elemento “geometrico”. Il character design è forse quello che per primo salta all’occhio; interamente curato da PETER CHUNG, è ricercato riguardo sia i costumi che l’anatomia. In certe forme si possono riconoscere elementi che richiamano alla mente altre opere (il costu-

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ALEXANDER me di Alessandro ricorda i design di Shinji in tuta e delle Unità EVA nel già citato Neon Genesis Evangelion, i soldati persiani somigliano in certi tratti alle truppe di Vega di Atlas Ufo Robot). Il risultato è comunque originale e distintivo; i fisici asciutti e scolpiti, quasi stilizzati, sono perfettamente caratterizzanti nella particolare estetica visionaria che permea la serie. Senza quel linguaggio figurativo, l’atmosfera non fornirebbe la stessa seducente suggestione, e neppure senza quell’utilizzo mirato della computer grafica, o l’inserimento anacronistico eppure euritmico di sofisticati elementi meccanici nel contesto antico (meccanici, non “elettronici”, con cui la trama quindi intinge il pennello nel genere fantascientifico ma senza lasciarsene fagocitare), o ancora la particolare rappresentazione delle strutture architettoniche, le quali, pur richiamando lo stile ellenico e classico, vengono riproposte in chiave moderna, distillata ed elegante. Come la matematica. L’insieme crea un’armonia, un meccanismo visivo dagli ingranaggi perfetti. Esattamente come cavalleria e fanteria nell’esercito macedone, Alexander è dunque un’opera da considerarsi un “tutt’uno”, impossibile da analizzare nei singoli elementi senza tener conto della loro completa sinergia. L’alone visionario di quest’opera è di fortissimo impatto: viene resa l’idea di un mondo che, pur geometricamente plasmato sulla matematica come strumento di ricerca della verità, stranamente non si lascia delineare da contorni scientifici, ma metafisici. I complicati automi di Aristotele, i dispositivi architettonici derivanti da ingranaggi, contrappesi, fluidodinamica, le metamorfosi mistiche dei pitagorici… tutte rappresentazioni non di scienza in forma fantastica, ma di magia in forma tecnologica. La narrazione è generalmente misurata, persino patinata nel linguaggio, ma dove occorre non esita a mostrarsi cruda: le battaglie sono ordinate ma cruente, le scene di violenza circoscritte ma esplicite; l’elemento erotico è presente nella lasciva interpretazione dei culti cabirici, nei riti orgiastici di Olimpiade, nella dissolutezza dei costumi di palazzo, l’ambiguità e la sensualità affiorano da certi personaggi, Efestione e Filota su tutti. Dal punto di vista storico, la ricostruzione è più fedele e attendibile di quanto ci si potrebbe aspettare, almeno nella sua cronologia essenziale. Naturalmente i caratteri dei personaggi sono strumentali e, in particolare i filosofi (Aristotele, Platone, Diogene e Pitagora), sono usati per il loro valore rappresentativo. Nel finale stesso, Aristotele ed Euclide fungono da simbolo di due mondi consequenziali, divisi da una concezione filosofi-

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1) I guerrieri di Alessandro; da sinistra: Tolomeo, Clito, Filota, Efestione e Cassandra. 2) Dario, Imperatore di Persia, e il suo generale Satibalzane. 3) Antigono, dopo Clito il più valente soldato dell’esercito macedone.

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ANIME

Serie tv co-matematica di diverso livello, il secondo destinato a sovrapporsi gradualmente al primo, da cui è derivato. Eccettuandone in alcuni la trasposizione metafisica (per esempio la battaglia contro Poro), i principali episodi storici sono esposti, pur nell’adattamento scenico, in modo tale da rimanere concilianti con la verità. Ne è un esempio la battaglia di Cheronea, dove realmente la cavalleria guidata da Alessandro giocò un ruolo fondamentale nel successo macedone; a quello scontro le fonti storiche attribuiscono il verificarsi, per la prima volta sul campo, della coordinazione tra falange e cavalleria, quella fusione organica e disciplinata tra forza d’urto a mobilità che rese successivamente formidabile l’esercito di Alessandro il Grande, e che fu alla base delle sue innumerevoli conquiste. La fedeltà storica può essere rintracciata anche in particolari che parrebbero a prima vista storicamente incongrui. Un esempio lo fornisce la ripetuta citazione delle Meraviglie del Mondo in numero di sette, apparentemente anacronistica dal momento che solo sei di esse erano effettivamente esistenti al tempo di Alessandro (la costruzione del Faro di Alessandria fu, per ovvie ragioni, cronologicamente postuma ai fatti narrati). In realtà, il riferimento può invece rivelare un’accurata attenzione da parte dagli autori. L’identità delle Meraviglie variò infatti nel corso dei secoli, ma il loro numero (sette) restò sempre immutato. Nel 332 a.C., anno in cui Alessandro raggiunse l’Egitto, il Palazzo di Babilonia e i Giardini Pensili costituivano Meraviglie separate. La successiva edificazione di Alessandria d’Egitto determinò il loro accorpamento, per preservare appunto il numero Sette nonostante l’ingresso del celebre Faro. Fondamentalmente corretta anche la rappresentazione dell’assassinio di Filippo II, che, nella realtà storica, avvenne nel contesto dei festeggiamenti per le nozze di una delle sue figlie (avuta da Olimpiade) con Alessandro principe d’Epiro (fratello della stessa Olimpiade). Nell’occasione, sfilarono realmente le tredici statue (12+1), mentre Àttalo (zio, non padre, di Euridice) fu effettivamente ucciso per ordine di Alessandro, ed Euridice per ordine di Olimpiade. Contengono elementi verosimili anche molte delle libere interpretazioni proposte nella finzione scenica, prima fra tutte la pratica di riti cabirici all’interno della corte macedone. Tra i fatti non rispondenti, va invece ricordata la morte di Dario, che non avvenne a Gaugamela ma in un contesto successivo, a seguito del tradimento di uno dei suoi consiglieri (Besso di Battriana). Inoltre il rientro dall’India fu determinato dal rifiuto dell’esercito macedone di proseguire oltre (si narra che anche gli oracoli l’avessero sconsigliato), mentre Alessandro morì a Babilonia, sulla via del ritorno. Alcune inesattezze si riscontrano anche nei rapporti descritti tra Aristotele e Platone, in particolare riguardo i tempi e i motivi per i quali Aristotele lasciò l’Accademia. La regia di YOSHIMURI KANEMORI è comunque salda nel condurre per mano un’opera che vuole rappresentarsi alternativa e stimolante. La colonna sonora di KEN ISHII è piuttosto ridotta, volutamente “soffu-

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ALEXANDER sa”, ma pur in secondo piano s’inserisce bene nel congegno. L’adattamento italiano sembra ottimo. Perfetto, come sempre nelle produzioni Dynamic, il doppiaggio. Impossibile citare tutte le “referenze” del bravissimo e affiatato cast di doppiatori, perché la lista sarebbe interminabile; per non far torti a nessuno ricordiamo solo che Alessandro è interpretato da SANDRO ACERBO, voce ufficiale di attori del calibro di Tom Cruise, Brad Pitt, M.J.Fox… ALEXANDER vs BERSERK Uno dei temi portanti di Alexander è quello della profezia (classico del genere fantasy), la predizione sibillina associata all’incertezza sul suo significato, destinata ineluttabilmente a verificarsi ma la cui interpretazione letterale porta spesso a conclusioni errate, il presagio che potrebbe voler dire tutto o il contrario di tutto. Seguendo l’elemento profezia (la serie ne cita addirittura quattro, convergenti (quella di Olimpiade, quella di Pitagora, quella di Zaratustra e quella dell’oracolo di Ammone, tutte concordi nell’indicare Alessandro come “distruttore del mondo”), Alexander ricorda per molti aspetti un’altra celeberrima opera fantasy in cui l’ineluttabilità del destino è argomento centrale: il Berserk di KENTARO MIURA. Alessandro può considerarsi l’erede di Grifis (Griffith), il condottiero ideale, il cui carisma è così intenso da stregare alleati e avversari, tale da indurre i soldati ad amarlo e seguirlo in ogni circostanza, al di là del bene e del male, se necessario immolandosi per lui. Alessandro, come Grifis, non sfugge alla profezia (o sogno ambizioso) che ne condiziona il destino; lui, come Grifis, è deciso a rincorrere implacabile la gloria, sacrificandole all’occorrenza i principi morali (Grifis non esita a sedurre la figlia di un re, Alessandro non impedisce l’uccisione del fratellastro neonato); lui, come Grifis, è disposto a rischiare la vita per ricambiare la fedeltà dei suoi uomini (Alessandro salva Filota e Tolomeo, esattamente come Grifis fa con Gatsu e Caska). Comandanti quindi spietati, per certi versi, e al tempo stesso generosi. Entrambi assecondano il proprio “destino già scritto” consenzientemente, e la diversità opposta dei loro destini (Grifis diventa l’incarnazione del male, Alexander il fautore del mondo risorto) è, in definitiva, frutto di pura casualità. Se un destino profetizzato resta comunque indecifrabile fino al suo compimento, potendo racchiudere significati addirittura opposti, l’azione dell’assecondarlo o quella del contrastarlo sono, all’atto pratico, equivalenti. L’esito è paragonabile al lancio di una moneta: fortuna o sfortuna. Le vicende di Alessandro e Grifis racchiudono inoltre una grande verità: come succede per ogni condottiero che si rispetti, a gioire o (molto più spesso) dolersi delle sue azioni è sempre l’esercito che gli marcia alle spalle (o, più realisticamente di questi tempi, davanti).

MASSIMO “DEFA” DE FAVERI

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ANIME

Serie tv

Alessandro

Filota

Clito

Efestione

Tolomeo

Cassandra

Filippo

Parmenione

Filippo II

Olimpiade

Rossane

Dario

Satibalzane

Besso

Attalo

Aristotele

Diogene

Platone

Pitagora

Euclide

Antigono

Demostene

Dinocrate

Antipatro

Euridice

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ALEXANDER

Pitagorico

Bucefalo

Seguace di Zoroastro

Ibun

Zaliwali

Brahmino

Tutte le immagini presenti in questo articolo sono: © 1999 ALEXANDER COMMITTEE. Italian edition: © 2001 ALEXANDER COMMITTEE (P) 2001 DYNAMIC ITALIA Srl., under exclusive license from Samsung.

SCHEDA TECNICA TITOLO ORIGINALE: “Arekusandaa senki” アレクサンダー戦記 TRATTO DA UN ROMANZO DI: Hiroshi Aramata REGIA: Yoshinori Kanemori DIREZIONE DI PRODUZIONE: Masao Maruyama, Rintaro SCENEGGIATURA: Sadayuki Murai CHARACTER DESIGN: Peter Chung STORYBOARD: Masayuki Kojima (ep.1-56-7-8), Akio Sakai (ep.2), Hiroyuki Yano (ep.3), Akinori Nagaoka (ep.4) FONDALI: Yoshinori Kanemori EFFETTI SPECIALI: Jae-Hee Jeong MUSICHE: Ken Ishii, Yashiki Gota PRODUTTORE ESECUTIVO: Haruki Kadokawa PRODUTTORI: Hae-Jong Pak, Yosuke Ozawa, Yoshiteru Takeda, Yoshihisa Nakawama ® & © 1999 ALEXANDER COMMITTEE. - Italian edition: © 2001 ALEXANDER COMMITTEE. - (P) 2001 DYNAMIC ITALIA Srl., under exclusive license from Samsung

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ANIME

ANIME IN 3D

Ken Falco: Ver. GS Gianni Soldati presenta :

Machine Hayabusa

LUNGHEZZA: Non dichiarata. PILOTA: Ken Hayabusa. ATTIVAZIONE: È un’automobile normale e quindi non presenta stranezze da questo punto di vista. GUIDA: Tradizionale con cambio manuale (nel mio modello sostituito dal cambio al volante). MATERIALE: Non dichiarato, si presume leghe metalliche classiche.

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ol passare degli anni i ricordi dei cartoni si affievoliscono, la trama si dimentica, i personaggi minori scompaiono, ma qualcosa di ogni cartone rimane. Nel mio caso, della serie Ken Falco ricordavo ancora i motori intercambiabili, così potenti da sembrare più una minaccia che un vantaggio per il pilota. Ricordavo il casco del pilota con la visiera da falco, e lo strano veicolo che trasporta le macchine della scuderia sulla pista. Ma, soprat-

ANIME IN 3D: HAYABUSA


Hayabusa tutto ricordavo la mitica Hayabusa (vuol dire “falco” in giapponese), la sua forma particolare con l’abitacolo separato dal resto dell’auto, e la sua linea aggressiva. La serie di Ken Falco è stata una delle mie favorite da sempre; benché orientato verso i robot, questo cartone aveva per me un fascino particolare che non riuscivo a spiegarmi. Solo dopo molti anni ho scoperto che nella serie c’era lo zampino di Go Nagai. È proprio il segno che, nei suoi lavori, c’è qualcosa che apprezzo anche inconsciamente. Credo sia la sua abilità nel coinvolgere lo spettatore, Lui sa come suscitare nei bambini la voglia di immedesimarsi, di far loro desiderare di pilotare l’Hayabusa! MODELLAZIONE: prima di parlare degli aspetti tecnici, devo farvi notare subito una cosa importantissima: il mio modello non è identico al-

Le differenze si notano soprattutto nell’abitacolo, completamente diverso da quello originale.

ANIME IN 3D: HAYABUSA

l’originale, è una mia reinterpretazione della vera Hayabusa, è per questo che l’ho chiamata “VER.GS” (versione Gianni Soldati). Era mia intenzione dare all’Hayabusa un aspetto più aderente alle macchine sportive di oggi, in particolare alle Formula1. Le differenze si notano soprattutto nell’abitacolo, completamente diverso da quello originale. È stata un’esigenza dettata dal fatto che, in un abitacolo come quello che appare nel cartone, non c’è lo spazio fisico per stare seduti com’è seduto Ken Falco. Sono molto fiero di questo mo-

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ANIME

ANIME IN 3D COSA MANCA: il cruscotto e altri dettagli sul volante. Avrei voluto terminarli prima di mettere il modello in rete, ma rchiedono parecchio lavoro. È mia intenzione modellare tutti i motori dell’Hayabusa. NOTE: la fatica, in questo modello, è consistita nello studio delle textures. Ho provato a ricreare ogni superficie immaginabile: carrozzeria lucida, plastica lucida, fibra di carbonio, vetri dei fari, metallo surriscaldato, metallo bruciato, acciaio graffiato, gomma, metallo unto...

Ho provato a ricreare ogni superficie immaginabile: carrozzeria lucida, plastica lucida, fibra di carbonio...

dello, anche se, tecnicamente parlando, è stato abbastanza semplice da realizzare, per la possibilità di scomporre l’auto in parti distinte e lavorarci separatamente. Lo scafo centrale è stato modellato interamente con una sola subpatch, in modo da creare sempre curve continue senza interruzioni evidenti. A DESTRA: PAVIMENTO A SCACCHI. L’idea per questa immagine viene da una scena della sigla del cartone.

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ANIME IN 3D: HAYABUSA


Hayabusa

ANIME IN 3D: HYABUSA

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ANIME

ANIME IN 3D A SINISTRA E SOTTO: SCENA DEL PONTE. Due immagini dell’Hayabusa sul ponte. Questa scena è stata ottenuta usando OVERCASTER come luci di riempimento, e una distant light giallastra per il sole. La profondità di campo è stata ricreata in PHOTOSHOP unendo due render distinti, uno con il solo ponte e l’ombra dell’auto e uno con la sola auto. Machine Hayabusa: marchio e immagini © ® TOEI ANIMATION

La difficoltà maggiore è stata il creare una texture perfetta per lo scafo centrale.

IL PROBLEMA PIÙ GRANDE. La difficoltà maggiore è stata il creare una texture perfetta per lo scafo centrale (mi riferisco alla parte rossa con gli occhi). La scocca è infatti una subpatch, e quindi le texture risultano sempre distorte. Per fortuna DEEPPAINT mi è venuto incontro riducendo il difetto (non completamente purtroppo). G. SOLDATI

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ANIME IN 3D: HAYABUSA


Hayabusa

ANIME IN 3D: HAYABUSA

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Grandi

AUTORI “Se il mio dottore mi dicesse che mi rimangono solo sei minuti da vivere, non ci rimuginerei sopra. Batterei a macchina un po’ più veloce.” Isaac Asimov (1920 - 1992)

Bibliografia

Fantascienza: Abissi d’acciaio (The Caves of Steel - 1954) Il sole nudo (The Naked Sun - 1957) I robot dell’alba (The Robots of Dawn - 1983) I robot e l’Impero (Robots and Empire - 1985) Le correnti dello spazio (The Currents of Space - 1952) Il tiranno dei mondi o Le stelle come polvere (The Stars Like Dust - 1951) Paria dei cieli (Pebble in the Sky - 1950) Preludio alla Fondazione (Prelude to Foundation - 1988) Fondazione anno zero (Forward the Foundation - 1992) Cronache della Galassia o Fondazione o Prima Fondazione (Foundation - 1951) Il crollo della Galassia centrale o Fondazione e Impero (Foundation and Empire - 1952) L’altra faccia della spirale o Seconda Fondazione (Second Foundation - 1953) L’orlo della Fondazione (Foundation’s Edge - 1982) Fondazione e Terra (Foundation and Earth - 1986) Vari: Neanche gli dei (The Gods Themselves - 1972) Nemesis (Nemesis - 1989) Notturno (Nightfall - 1990) La fine dell’Eternità (The End of Eternity - 1955) Raccolte di racconti: Io, Robot (I robot, 1950) Il secondo libro dei robot (The rest of the robots, 1964) La Terra è abbastanza grande (Earth Is Room Enough, 1957) Antologia personale (Nightfall and other stories, 1969) Asimov story (The Early Asimov, 1972) Antologia del bicentenario (The Bicentennial man and other stories, 1976) Tutti i miei robot (The Complete Robot, 1982) Gialli e misteri: Un soffio di morte (The Death Dealers / A Whiff of Death, 1958, romanzo)

Racconti dei Vedovi Neri (Tales of the Black Widowers, 1974) Altri racconti dei Vedovi Neri (More Tales of the Black Widowers, 1976) Rompicapo in quattro giornate (Murder at the A.B.A. / Authorized Murder, 1976, romanzo) Il Club dei Vedovi Neri (Casebook of the Black Widowers, 1980) I banchetti dei Vedovi Neri (Banquets of the Black Widowers, 1984) Gli enigmi dell’Union Club (The Union Club Mysteries, 1984) Puzzles of the Black Widowers (1990) Divulgazione scientifica: A perdita d’occhio Breve storia della biologia Breve storia della chimica Catastrofi a scelta Civiltà extraterrestri Esplorando la Terra e il cosmo Evoluzione e genetica Frontiere Grande come l’universo Il collasso dell’universo Il libro di biologia Il libro di fisica In principio L’universo invisibile La fotosintesi Umoristici: Azazel Autobiografici: In Memory Yet Green (1979) In Joy Still Felt: The Autobiography of Isaac Asimov, 1954-1978 (1980) I, Asimov a memoir (1994) fonte: www.wikipedia.org


Isaac Asimov


FANTASY

Racconto

Murtag e la Lorelei All’apice di un’era solare, un uomo fa un sogno di Potere: un’oscurante, svettante, Ombra, da una torre sprigionata, a marchiare la terra, a piegare in quell’atrore le schiene, di uomini grandi e piccoli. Eternità di Conoscenza e di Potere, promise Nòg in quel sogno. Questa la visione del negromante: una torre per dominare le menti, una belva per sbranare le anime, il perno di una nuova era e lui in quella torre oscura, lui, della torre medesima, l’anima stessa. I

Il Bandito

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e ti capita di viaggiare per Turlamos, terra d’altipiani sassosi, montagne impervie, boschi e mari selvaggi e se ti affacci fra i pendii dei Colli Corrosi spingendo lo sguardo a nord - verso il cuore della mia terra - la vedi innalzarsi contro il cielo, oscena e fatale: Murtag la Nera.” “Torre di basalto e ferro, i cui mattoni furono uniti dal sangue delle vittime sacrificali uccise dallo stesso stregone che la eresse ere orsono; monumento che affondava le sue radici nelle ossa dei sacrificati e la cui ultimazione fu coronata dall’ultima delle morti, quella del suo creatore, ché egli desiderava perdurare nel tempo, oltre ogni decadimento

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del corpo per continuare a sfamare la propria eterna fame di Conoscenza e di Potere.” “Terminati i lavori e gli orrendi rituali preparatori (non ultimo lo sterminio di tutti i semplici operai che alla costruzione avevano faticosamente lavorato), lo spirito affamato del negromante passò così in un nuovo e immane corpo, permeandolo della sua pestilenziale volontà. Murtag divenne cosciente; un mostro votato al Dominio e alla Corruzione”.

Racconto: Murtag e la Lorelei


Murtag e la Lorelei “La torre chiamò a se tutte le bestie predatrici e violente che abitavano le sette province di Turlamos; le soggiogò con la sua volontà sovrumana e le organizzò in un esercito sterminato, che devastò le terre di quest’angolo del mondo in modo disumano, attaccando inverno dopo inverno”. “I liberi popoli di queste contrade provarono a reagire e produssero le proprie schiere, guidate da Eroi e da Guardiani. Le armate dei popoli liberi diedero battaglia contro le masnade della Torre, incontrando tradimento e sconfitta.” I semplici fanti diedero tutto in quello scontro, ma a tradire furono gli ufficiali dell’armata e gli Eroi a provocare il disastro: chi per morte, chi per corruzione, tutti caddero soggiogati dal Potere di Murtag. I comandanti della Libera Armata, infatti, scoprivano che avere alle proprie spalle il nero potere della torre, li forniva di una Forza ineguagliabile e che tramite di essa potevano disporre dell’esistenza altrui in modi il cui limite stava solo nella propria fantasia e la seduzione di un simile gusto li perdette; ma non si rendevano conto, i traditori, di quanto essi stessi fossero divenuti servi e strumenti del Volere di Murtag. Fu così che le Sette Province videro tornare i loro osannati campioni alla testa degli scherani e dei succubi di Murtag. Fu così che ebbero inizio in Turlamos i lunghi anni della tirannia. Il popolo – non più libero - iniziò a diffidare d’ogni persona che si metteva in testa di rovesciare il tiranno al potere e la maledetta torre alle sue spalle, temendo di vedere sorgere un nuovo regnante sanguinario al posto del vecchio. Fu in quegli anni che s’affermò il detto: “Chi cambia la vecchia per la nuova, male si trova”. “Generazione dopo generazione, in crescente silenzio, gli antichi spiriti si sono assopiti con l’abitudine al giogo. Sette generazioni sono passate da quegli eventi, ognuna più sfiduciata e debole della precedente. Sono questi

Racconto: Murtag e la Lorelei

i miei tempi in cui ho compiuto la mia scelta, scegliendo di divenire l’ultimo degli eroi che anela le antiche libertà. Ma fra tutti gli Eroi che la mia terra ha conosciuto io sono, sicuramente, il più disgraziato, giacché non ho mai trovato orecchie disposte ad ascoltarmi. Per l’Oscuro Potere è stato facile individuarmi e bandirmi dalla mia città. Sotto una pioggia di pietre, lanciatemi dai miei compaesani, ho iniziato la parte più disperata della mia esistenza, la più disonorata e solitaria delle cerche: un viaggio per le terre devastate a caccia di un’antica forma di Magia, capace di svellere pietra da pietra, separare l’Acciaio dall’Oscurità e bandire lo spirito che abita l’oscura Torre”. “Come pellegrino o mendicante vago da anni per una Turlamos svuotata ed abbattuta. Sono Toran, il Bandito”. II

Il Tempio abbandonato

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enti anni sono passati oramai. Magro, affamato e disarmato, sono giunto qui, in Hortakòs, estremo lembo meridionale delle vecchie province; un lungo labbro di rocce e sabbia che s’incunea per leghe fra le vastità inquiete del Mare Luccicante. Cerco ancora l’incantesimo che mi permetterà di abbattere il mostro di pietra che ha causato tante sofferenze alla mia gente. Ai vecchi tempi queste coste erano ricche di vita e di tangibile mistero ma ora sono solo lo spettro dell’antica avvenenza. Arrivato qui – seguendo bisbigli appena accennati e indicazioni di ubriachi e pezzenti – mi sono sentito piombare addosso, ricordo bene, tutte e venti le stagioni di esilio che ho vissuto. Ammetto di essermi stupidamente disperato al mio ingresso in questa terra che, al primo sguardo, mi appariva vuota come ognuna delle altre che avevo percorso sino a quel giorno. Mi sbagliavo. Ora m’ac-

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FANTASY corgo che qualcosa di nuovo sta accadendo, finalmente”. “L’ho capito all’alba di ieri ed ancora devo abituarmi all’idea, nuova, di avere trovato una concreta speranza. Sento dentro di me un’euforia che non provavo da molte stagioni, ma al tempo stesso, me ne tengo distante, ne diffido; devo imparare di nuovo a sperare!”

Racconto

persistevano miracolosamente allo Scempio voluto da Murtag), confermano al viandante le voci che aveva udito: quello era un tempio dell’Antico Culto, un luogo consacrato ad Ishafàr, la Signora d’Ogni Bellezza. Rapide le lacrime scorrono dai vecchi occhi ancora intensi, mentre la mano verga: “Solo il fatto di averne trovato uno ancora in piedi ed in una tale buona condizione è un piccolo miracolo!” (lungo sospiro), “dalla salita al potere di Murtag, o dei fantocci che essa manovra, gli Antichi Culti sono stati abbandonati, così come tutto ciò che non riguarda le esigenze più elementari; ciò perché da sempre il popolo non trovi appiglio negli antichi templi e nei loro sacerdoti, per sperare e per resistere al disperante volere di Murtag. Piango! Non è incredibile per un vecchio eroe?”

Il viandante avvolto nei propri stracci, - il cui colore ricorda appena il verde di foglie appena uscite dalla gemma -, posa la penna d’oca con cui ha vergato parole per ore filate, su lembi di lacera pergamena e solleva il capo (piatta spianata cotta dal sole). Guarda le rovine di un’antica struttura e sbatte le palpebre tre volte come se si stupisse ancora di quel che è venuto a cercare ed ha finalmente trovato. Con un sospiro Toran riporta l’attenzione sul suo manoscritto cencioso e, seduto com’è su di uno scoglio imperlato di salsedine - la Il pianto si spegne veloce com’è iniziapergamena appoggiata alle ginocchia ed il to ed un sorriso compare, prima spezzato ed corpo tutto chino su di essa, come intento in incerto ma di un subito si allarga ed esplode in una risata sincera, una detonazione che il un grande sforzo - riprende a scrivere. continuo sussurrare del mare su quelle coste “L’ho visto (in questo stesso momento lo dimenticate non udiva da tempo. sto guardando da lontano) e quasi ancora non Ripresosi, Toran lancia un ultimo, lungo, ci credo: un vecchio tempio abbandonato. Le sguardo alle bianche mura e termina la sua informazioni che ho raccolto si sono rivelate quotidiana dose di parole così: “Per oggi non veritiere e dopo tante false piste e vicoli cie- oso ancora entrare. Non avrò certo problemi a dormire qui fuori! Se la vecchiaia e l’esilio chi in cui sono finito me ne stupisco.” non m’hanno succhiato del tutto il senno, qui Così Toran riporta nel suo manoscritto si avverte ancora una chiara Presenza. Questo quanto vede: “Bianche mura che ancora si luogo è, in qualche modo, protetto. Non so slanciano verso il cielo, arcate miracolosa- cosa trovare in questo tempio ma ho il cuore mente sopravvissute all’incendio che, con che mi galoppa in petto e mi sento eccitato ogni evidenza, ha divorato l’interno della per la prima volta dopo anni.”. struttura.”. Anche la posizione in cui è stata Toran chiuderebbe ora la pergamena, ma costruita gli appare particolare, a picco com’è un ultimo pensiero gli esplode in mente fasu di un tratto di scogliera a strapiombo sulle cendogli vergare quest’ultima frase: onde; il cortile interno e tutta la fabbrica rivol“Ishafàr sei ancora li?” ta ad oriente. Tutto questo (oltre al mormorio delle onde, come la fragranza del timo selvaLa luce del sole generoso del sud vira al tico e degli arbusti di rosmarino odoroso che rosso carminio; una brezza dalle colline si

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Murtag e la Lorelei spinge verso costa e il profumo delle cose selvagge che resistono, abbarbicate alle loro vecchie rocce, riempie il naso del pellegrino. Convintosi irrazionalmente che la Dea abbia voluto rispondergli in quel modo, il vecchio viandante si avvolge nei propri stracci, verde stinto, e si accoccola sulla rena ai piedi della roccia su cui è rimasto appoggiato per tutto il tempo in cui ha vergato su pergamena i suoi quotidiani pensieri Dovrò fargli un ritratto; pensa poco prima di addormentarsi. III

Quel che portano i Sogni

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lorioso il sorgere della nuova alba illumina l’arenile dimenticato dagli uomini. Un vecchio sacco d’ossa e stracci; il rosso di un lucido cranio sporge da un capo, vecchi piedi malandati all’altro. Rigirandosi sul luogo ove giace, il fagotto si allunga rivelando una cavernosa bocca sbadigliante e lunghe braccia distese a pugni chiusi. Toran si sveglia sentendosi riposato, come francamente non ricordava essergli accaduto da qualche tempo a quella parte, avvertendo anche una sensazione precisa: un’idea che gli sfarfalla nella mente – sedimento lasciatogli dal sogno che non ricorda più -. Colto come da un presentimento il viandante cerca nella borsa di pelle sbrecciata che porta alla cintura i fogli di pergamena e la penna che intinge nella boccetta d’inchiostro rubata durante una delle più recenti tappe del suo estenuante viaggio, con foga febbricitante. Scovata una pergamena con una facciata quasi pulita (comunque la migliore di cui dispone), comincia a disegnare. Dapprima traccia la costa, seguita dalle linee ondulate del mare (appena accennate ché ha fretta di giungere all’idea che gli ha lasciato il sogno); s’una scogliera di linee approssimative

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il viandante comincia a tracciare le slanciate mura ed arcate del tempio e ancora la sua foga non cessa. La mano agisce come di propria volontà e non si sofferma troppo nemmeno sui particolari dell’edificio che gli ha riacceso le speranze dopo tanti anni di stenti. Finalmente giunge a tracciare le stelle del firmamento e, oltre a queste, il profilo di due immani monti gemelli. Con occhi sgomenti il pellegrino vede la propria mano disegnare i raggi di un sole nascente fra quelle montagne che mai si videro da quelle parti. Con un ultimo svolazzo che non assomiglia a niente, la mano destra di Toran sembra quietarsi e voler tornare al servizio del proprio naturale padrone il quale, però, non sa bene se fissare lei o il misterioso disegno che ha appena vergato e che non sa spiegarsi. Gli viene la tentazione, per un po’, di raschiare via tutto con l’osso di seppia che si porta appresso insieme alla boccetta d’inchiostro, ma poi sospirando desiste, ricordando un vecchio adagio che gli diceva sovente suo nonno, quando era bambino che faceva ancora difficoltà ad affacciarsi sopra i tavoli; lo pronunziò a bassa voce rimirando il disegno: - Cosa fatta, capo ha -. Sta forse impazzendo Toran? Lui non lo sa e forse non importa più molto, ma sa per certo che non ha viaggiato per tutte le antiche Province per starsene ad oziare fuori dall’edificio la cui ricerca gli era costata tanto. Alzatosi in piedi inizia a muovere i propri passi verso il tempio in rovina. *

*

*

“Il tempio è vuoto; il tetto - crollato da chissà quanto tempo - lascia passare il vento della desolazione che pascola allegro fra le volute vuote e gli scaffali marciti.”. Si ritrova a scrivere di lì a poche ore, seduto alla meglio sopra un tratto di colonna rovinata a terra, “confido

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FANTASY di trovare una qualche pergamena conservata con cura, un libro contenente antichi arcani. Magia per combattere altra magia. Come dice il detto: “Fuoco scaccia fuoco”. Davanti a lui, sopra l’altare staziona una statua di cui sono visibili solo le gambe. Bellissime gambe di donna, raccolte sotto un corpo che il tempo s’è mangiato, oblique le dita della luce solare che filtrano dal bordo del tetto crollato, le illuminano. “Non c’è dubbio.”. Verga l’anziano pellegrino, “questo è un altare dedicato alla divinità che si adorava in questo luogo sacro, Ishafàr, la Creatrice d’ogni Bellezza.”. Toran apre un tomo dall’aria imponente (frutto della sua prima esplorazione all’interno dell’edificio sacro) e ne legge a lungo il contenuto, per fortuna scritto in un linguaggio a lui comprensibile. Dopo una lunga sorsata compiuta con gli occhi, l’uomo richiude la pesante copertina di legno foderata in damasco dorato lasciando un dito nella pagina che sta leggendo, poi prende a scrivere sulla facciata intonsa di una pergamena appena trovata: “Le Lorelei sono le Sue ancelle: esseri che nella loro umana, femminea, bellezza, racchiudevano l’Armonia del mondo appena creato.”. “Prima dell’inizio del Tempo, allorquando, il mondo era nuovo, esso ricevette i doni propri d’ogni divinità: Dòrn gli conferì il calore dei fuochi, del sole e delle viscere dei vulcani; Thàr il refrigerio delle acque d’ogni genere; Aliène il mistero della notte e delle cose in ombra e così via dicendo ma, una volta che quasi tutti gli Dei ebbero finito di arricchire il mondo da loro creato con questi doni, videro che in esso non v’era quella armonia e quella perfezione che essi avevano desiderato per i propri figli. Caos e Conflitto minacciavano di disgregare la Creazione riducendola in cenere.”. “Allora chiamarono l’ultima delle divinità che ancora non aveva dato nulla al mondo dei

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mortali, Ishafàr, per l’appunto. La Dea vide il mondo e questo era Caos informe, nonostante i singoli Doni, i quali erano pur sempre portentosi e splendidi a loro modo ed isolati dal contesto; quindi Ishafàr chiamò le sue ancelle dal cuore delle stelle brillanti, coloro che erano spirito fiammeggiante e nient’altro. A queste creature semidivine comandò di tuffarsi nel creato e di vestirsene il corpo. Così fecero le ancelle d’Ishafàr ed il mondo fu corretto; ov’era luce sorgente mescolata ad aria e vapore acqueo, fu gloriosa alba in una corona di nubi color rubino; la ove la roccia e l’acqua si fondevano, per lo più dando scuro fango, divenne lago di montagna, specchio terso di cime innevate e così via per i mille e più passaggi che fecero le figlie d’Ishafàr che di quella materia rimasero ricoperte, prendendo forma di splendide fanciulle alate che la tradizione volle chiamare col nome di Lorelei. Nel mito legato alla Dea Madre d’Ogni Bellezza, le Lorelei sono invocate la ove la caducità del mondo e l’errore della mano dell’uomo, arrecano danno al creato, al fine di correggerlo.”. Soddisfatto, Toran interrompe la sua opera e torna a posare lo sguardo – forse per la dodicesima volta – sulle gambe della statua in rovina. Una Lorelei, pensa, ecco la magia che sto cercando. Chiuso il codice che ha consultato Toran torna a girare per le sale interne del tempio, questa volta più interessato a trovare un buon posto dove riposare durante la notte oramai prossima. Le scale che portano ai sotterranei (ove ha trovato alcuni abiti e paramenti del Culto consumati dai tarli e la libreria, fra i cui volumi riposava, dimenticato, il codice che ora giace all’interno del suo logoro sacco da viaggio); pensandoci un attimo, l’uomo conclude che il sotterraneo del tempio non gli sembra il posto migliore, per quanto sicuramente riparato dal vento.

Racconto: Murtag e la Lorelei


Murtag e la Lorelei Ho vissuto troppo tempo all’ombra, pensa. Sulla mia vecchia città pende sempre una nube scura, alimentata anche da ciminiere e comignoli; tutto è squallore lì… Scuotendo la testa per scacciarvi quel ricordo funesto, nota il cortile interno che si allunga verso il sottostante mare. Al centro vi sta un braciere, spento da chissà quanto tempo e le pareti portano incisi altorilievi raffiguranti le Verità del Culto. Vi s’infila, le mani dietro la schiena ed i passi lunghi di chi ha la mente affollata da mille pensieri. Immagini di Dei, eroi e demoni si protendono dalle pareti verso di lui, ma Toran ha lo sguardo rivolto altrove dentro di se e non li nota. Ci vorranno settimane ad esplorare il luogo ed a studiare tutti quei codici e non so ancora se troverò l’incantesimo che mi serve. Né so se riuscirò a comprenderne il funzionamento. Questi pensieri lo affliggono ed i suoi passi successivi sono grevi, strascinati, ma subito in contrappunto gliene giunge un altro. Magari rimarrò a vivere qui. Si, qui ancora la mano della Torre non è arrivata a strappare la bellezza del luogo. Pensiero per il quale Toran arriva alla balaustra che lo separa dalla scarpata con spalle ben dritte e a buon passo. Sotto le onde rombano in un sordo urlo che al pellegrino pare di protesta. Fino a quando? Si chiede all’improvviso. Rimarrei qui volentieri, ma sino a quando durerà questa pace? Murtag attende soltanto di spogliare tutte le terre interne da ogni Grazia; fatto questo non ci metterà molto a scorrere le coste per protendere la sua sozzura anche al mare. Ha già tramutato corsi d’acqua in putride paludi, perché non dovrebbe riuscire ad imbrattare anche il Mare? Wooooooooossssh! Woooooooooooooosssh! Si lamenta il mare sotto di lui, quasi leggendogli nel pensiero e presagendo la futura rovina. Abbattuto Toran si trascina verso il bracie-

Racconto: Murtag e la Lorelei

re spento e vi si accoccola sotto, pregando che il sonno giunga presto a cancellargli la sottile inquietudine divorante che gli si è accesa in petto. O Dea! prega nella sua mente fissando le stelle che s’affacciano sopra di lui, Sono solo, vecchio e stanco, ti prego, darmi Tu la forza di invertire il corso degli eventi… Non arriva a finire il pensiero che un sonno pesante come un macigno gli si schianta addosso. Sotto il braciere Toran sogna. Un sogno trascinante, un sogno vivido e dalle sembianze del reale, un sogno rivelatore di tempi antichi. È l’altare del tempio la prima immagine che vede, ma questa volta la statua sopra l’altare è integra e la Lorelei che raffigura sembra fatta di carne e calore. ‘LaurelìnLorelei ambèt tìmìtstokrai Ishafarènìu!’ una voce tenorile declama solennemente attirando l’attenzione del viandante che ora vede un giovane sacerdote circondato da un cerchio di accoliti di ambo i sessi, di candidi veli vestiti e squisitamente truccati in modo da far risaltare la loro già notevole bellezza. Il tetto è integro, nota Toran ed ha la sensazione scivolosa di stare sognando, ma il ricordo del suo tempo e dei suoi guai sono lontani dietro di lui, al contrario odori, suoni ed immagini del tempio perfettamente intatto e pieno di vita religiosa gli stanno innanzi, appena meno che tangibili. Il pellegrino comprende anche (e misteriosamente non si chiede come mai) le parole del sacerdote. Sa che si tratta di un’invocazione, anzi, un’evocazione: ‘O AncelladellaCreazione vieni in questa casa, testimoniaci l’Armonia d’Ishafàr’. Il disegno a forma di luna crescente sul pavimento; le candele poste in elegante ordine, le movenze e le parole del sacerdote gli s’imprimono in mente, prima che inizino a succe-

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dere più cose contemporaneamente: avverte un bagliore alle sue spalle che illumina i volti dei presenti; volti persi nell’attesa e nell’estasi. Sto sognando! Comprende Toran, anche questo avviene nello stesso battito di cuore, ma girandosi a guardare verso l’altare scopre l’origine di quel bagliore ed un altro pensiero gli si forma in mente: Questo è il Segno! Il pellegrino ora avverte l’attesa crescere in lui con la forza dell’incubo ed una sete dell’anima comincia a bruciagli dentro e d’improvviso sente che potrebbe balzare in piedi, saltare, volare verso la figura che quell’incredibile alba accesasi ai piedi della statua preannunzia. Sudando e lacrimando il viandante scaturisce dal sogno, colto da una febbrile certezza e urla: ‘Ora so cosa fare!’ Wooooooooossssh! Woooooooooooooosssh! Torna alle sue orecchie il brontolio delle onde che si schiantano contro la scogliera sottostante. ‘Si, caro mio!’ esclama Toran in direzione della vasta distesa che ora scintilla da sotto la balaustra, ricordando allo straniero il nome per cui va famoso ‘la marea sta per cambiare!’. IV

Il Rituale

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un altro uomo quello che s’aggira ora per le navate vuote eppure egli stesso non n’è consapevole. Entrato dal portone schiantato del tempio con passo incerto e timoroso di pericoli nascosti o tranelli; invecchiato dalle amarezze che hanno riempito i suoi anni di esilio, eccolo ora che salta colonne abbattute e cumuli di macerie con l’energia dei suoi anni più verdi, non si preoccupa più dei pe-

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ricoli in agguato ma tutta la sua attenzione è concentrata sul sogno – ancora vivido nella sua mente – appena fatto. Il senso d’urgenza dentro di lui è forte, ma ancora di più la sovrannaturale sete che quel bagliore onirico gli ha instillato. Devo trovare il modo per invocarla! Si dice, mentre fruga fra cumuli di calcinacci che hanno quasi ostruito un camino, da qualche parte forse sono rimasti gli strumenti per creare il cerchio… e le parole, me le ricorderò? Preso da questa fretta, da questa sete, Toran si muove per le aule sorde ed è quel silenzio – d’un tratto – a penetrare il guscio della sua nuova ansia. L’uomo si blocca, si gira e con lo sguardo spazia per i banchi di marmo crepati, le pareti sbrecciate ed il tetto spalancato al Cielo Sovrano che comincia a soffiare una brezza all’interno della struttura. Un vento leggero ma teso che correndo per gli spazi di pietra e fuoriuscendo da chissà quale parte emette un lamento in crescendo. ‘Dove sono andati a finire il sacerdote ed i suoi giovani accoliti?’ chiede ad alta voce il pellegrino ma solo il lamento del vento (il lamento del tempio ai suoi occhi) gli risponde e l’uomo china il capo ed annuisce (piano), mormorando fra se e se: ‘E’ questo il destino della bellezza! Passare, passare col tempo e con l’incuria degli uomini.’ (rialzando la testa, con occhi illuminati da una luce intensa)’ma questo è il momento in cui la marea cambia, per troppo, troppo tempo Murtag ci ha immerso nella sua ombra!’ Di nuovo il viandante si fionda in avanti, la sua sete interna guida le sue azioni ed essa lo spinge fin nei sotterranei, di lì per uno stretto andito prima nascosto da una libreria rovinata a terra. Giunge ad una piccola sala circolare al cui centro sta un cofanetto di legno nero, ornato con giaietto ed ossidiana. Lì vi trova le polveri anticamente consacrate, la candela votiva ed i paramenti necessari a quella che

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Murtag e la Lorelei era la massima invocazione a cui gli umani fedeli ad Ishafàr potevano mai ricorrere. Di corsa, a balzi, salti che divorano scalini e corridoi, Toran raggiunge il cortile interno rivolto a mare, il luogo che sente istintivamente essere il più adatto per il rituale. Si ferma a pochi passi dal braciere e non si cura che sia spento e da anni; non ha tempo di farlo, tutti i preparativi devono essere portati a termine prima che s’assopisca l’incendio del tramonto. *

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*

Il cammino del sole arriva al suo culmine e l’astro s’affaccia dal rettangolo delineato dalle mura del vetusto tempio senza più un tetto. Il vento arriccia e sfoglia le pagine di pergamena che Toran s’è portato appresso per infinite leghe, ora dimenticate. Il sole, sfoglia così i ricordi dell’uomo vestito di verdi stracci, mentre questi segna un cerchio con fine polvere d’argento e attorno ad esso i tanti, minuscoli, simboli che ricorda aver visto nel sogno consacrandoli con le dovute preghiere che gli affiorano alle labbra. Al tempo di questa vicenda gli Antichi Culti sono un ricordo irraggiungibile anche per i più anziani, eppure Toran sa. Quel che di razionale gli è rimasto dopo i molti anni di viaggi se l’è lasciato fuori dai portali schiantati del tempio e Toran ne è soddisfatto, ché se si fermasse a pensare magari desisterebbe, ritenendo le sue fatiche inutili già da tempo e finendo, con molta probabilità, ad accettare di trascinare la sua grigia esistenza all’ombra del Potere di Murtag. No, la follia, o forse il Sogno, gli danno le forze ed il suo spirito ha già intravisto qualcosa che in silenzio da sempre ha bramato e ciò gli da una forza furiosa, tanto che, per non rimanere indietro il corpo dell’anziano viandante deve affrettarsi.

forse intristito da tanta pena letta negli scalcinati appunti lasciati dall’esiliato e va – col suo passo augusto, né lento, né veloce – alle proprie Terre del Riposo. Il cielo, privo di nubi, va saturandosi di colori e, finalmente, l’incendio del cielo comincia a dardeggiare da ovest. Toran ora è pronto, un po’ sfiatato ma pronto. Con un senso di predestinazione che gli rimbomba nel petto, allunga un piede e fa il proprio ingresso nel cerchio d’invocazione che ha appena finito di tracciare. Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuh! Mugghia il tempio dalle sue molte bocche rimaste spalancate. Wooooooooosh! Riprende il mare con il suo misterioso e paziente linguaggio. ‘Ishté!’ risponde a loro Toran, secco e deciso; una fiamma zampilla dallo stoppino della candela che gli sta ai piedi e due pensieri, opposti, gli si accendono improvvisi in mente, esultante il primo: Ora inizia! Quello seguente, però, è assai diverso: Sì e sarà la tua fine! Il pellegrino, però, non ascolta più i propri pensieri, intento solo ad eseguire i giusti segni, pronunziare la cantilena preliminare come se non avesse fatto altro per tutta la vita. V

La Lorelei

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orge la luna dall’orizzonte ancora arrossato del tramonto, incedendo paziente la pallida signora dai mille nomi (e dagli ancora più numerosi attributi), vede i sette segni ed i sette simboli che circondano il cerchio luccicante al cui centro un uomo (dopo anni che persino la Luna non sa contare) ha acceso la Piccola Fiamma mentre invoca che al mondo oscurato sia concesso di vedere Nuova Luce. E’ il momento culminante del rito ed in questo Scende il sole dal suo trono, soddisfatto o preciso istante Toran apparirebbe, a improvvi-

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sistibilmente dalla pura necessità di fondersi con tanto splendore, esserne parte e tutt’uno con lei. Il corpo del’eroe, fedele compagno di tanti viaggi e peripezie, si affloscia come un vestito smesso, ma lo spirito di Toran ora è con la Lorelei e a questa egli schiude la sua essenza; ogni ricordo amaro, ogni nefandezza subita o appresa compiuta da Murtag viene a conoscenza della Celeste Creatura. Un fremito percorre l’elegante figura della Lorelei, ribrezzo e rabbia l’accendono tutta, cogliendo alla sprovvista Toran che si sente sballottato come una barca sulle onde di un mare infuriato. Improvvisa come fiamma la Lorelei sorge Il tempo si ferma. in aria e comincia ad incedere verso il cuore incupito di Turlamòs, verso l’oscenità di MurPorte si aprono fra i Mondi Paralleli. Oltre il tempio (oltre il mondo), le cime di tag. Verso ovest e poi verso nord, seguendo la due monti gemelli s’accendono sopra il mare; scia ed i cerchi di crescente rovina. fra le guglie svettanti sorge un’alba notturna. Fra i picchi, una stella si stacca dal firmamen* * * to e comincia ad avvicinarsi alla costa. Toran vede tutto questo e rimane allibito, di nuovo Murtag è ben visibile da cento e più miglia di freddo e lucido, si chiede se non stia sognan- distanza. Alta sul colle isolato che ha deturpado di nuovo, ma la luna ha disegnato un sen- to con la sua stessa presenza, la collina ora è tiero di fiaccole argentee sul manto increspato tutta un succedersi di mura di ferro ed accamdel mare e la stella quel cammino percorre av- pamenti fumiganti delle guarnigioni di scolta; vicinandosi veloce ed ingrandendosi sempre si vedono cumuli di sozzura sorgere qua e là, più. Prova di tutto, il vecchio combattente so- con arrogante incuranza e quello che una vollitario, dalla meraviglia al terrore e di nuovo ta era un allegro corso d’acqua saltellante ora su verso l’estasi, che il Portento proveniente appare come una gora su cui la melma ristada Oltremondo è divenuto forma ed essenza gna emanando gas venefici. Ben oltre le mura davanti ai suoi, fin troppo mortali, occhi. di ferro, però, la desolazione si spande per la Eccola davanti a lui, la Lorelei, Bella e Le- terra, annerita ed ingobbita come un corpo tale! Essenza di ogni bellezza, incisa in curve colto dai bubboni, le uniche macchie di colore perfette, in fisicità carnale e divina allo stesso date dai cespugli nudi ed ingialliti che formatempo; volto che riempie la sete di un cuore no macchie che ricordano le suppurazioni di che non sapeva di essere assetato; occhi che ferite infette. attirano Toran a sperdersi in loro, così canSu tutto questo squallore svetta arrogante gianti e splendidi, indescrivibili. La Lorelei è ed imperturbata Murtag, la belva fatta torre. giunta innanzi a lui ed ecco che la sete del pel- La piovra malefica che ha prosciugato le Sette legrino (trovata finalmente la fonte cui aspira- Province della magia, della libertà, della diva) gli gioca l’ultimo scherzo. Il suo spirito è gnità di una giusta vita; di ogni Bellezza delattratto nell’aura dell’ancella d’Ishafàr; lascia l’esistenza. Mai nessuno è riuscito ad impenil corpo malandato dietro di sé, attratto irre- sierire il bastione malefico e l’oscuro spirito

si viandanti che capitassero per caso in quelle aule, giovane e vigoroso, avvolto si dagli azzurri paramenti sacri di un culto misterioso e dimenticato, ma molto di più li colpirebbe la veste sottostante che brilla di un verde scintillante, quasi che tutte le nuove foglie di un bosco gli si fossero posate addosso per coprirlo e proteggerlo dal morso del vento. ‘LaurelìnLorelei ambèt. Timìtstokrei Ishafàrenìu’ le parole del rito che ora risuonano dalla bocca dell’officiante sono piene e tonanti.

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Murtag e la Lorelei solitario che l’abita non si aspetta certo che a muovergli guerra sia la grazia e la bellezza di una fanciulla proveniente dall’Oltremondo. Avvicinandosi alle prime difese sull’onda della scia luccicante della Lorelei, Toran vede uomini induriti dalla vita del predatore, alzare lo sguardo e rimanere stupiti, poi turbati ed infine schiantare a terra, i loro spiriti (capaci solo di brama di possesso) bruciati; il loro corpo rimanere, inerte, a terra. Il passo della Messaggera d’Ishafàr è quieto e leggero, ché attorno a lei i difensori della Torre finiscono abbattuti come colpiti dalla folgore. Cancello dopo cancello, la Lorelei incede lasciandosi dietro nient’altro che gusci vuoti. Le numerose Ombre che Murtag ha raccolto attorno a se, nulla possono contro Colei che è Luce, fuggono via mugghiando come tramontana fra giogaie montane. Vengono però a pararsi innanzi al di Lei cammino i Posseduti, umani e belve, il cui corpo, abitato da demoni abissali, non nutre attrazione per tanta Bellezza, ma anzi sono pronti a ghermirla ed a straziarne il perfetto corpo per scacciarne la Presenza minacciosa dal mondo. Mal riposte sono le loro speranze, ché Lorelei intona un canto cristallino che, se nessun effetto ha sul demone occupante, fluisce verso lo spirito avvinto dell’uomo o della bestia, ridotti a prigionieri nei corpi di cui sono i legittimi proprietari. Il canto instilla cocenti desideri di libertà, pensieri di catene spezzate, ricordi del sole che splende sereno sopra campi verdi e gli spazi illimitati del mare. Toran vede l’ultima schiera di difensori bloccarsi ed ogni uomo ed ogni mo-

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stro cominciare a contorcersi a terra in preda alle convulsioni, chi sbavando, chi sbattendo la testa contro la roccia dura ai suoi piedi. Veloce la Lorelei s’intrufola fra le linee del nemico così spezzate e giunge, finalmente, innanzi al cancello della Torre, alla Bocca di Murtag, fatta solo per inghiottire. Contrariamente a quanto sempre accaduto, questa volta lo scontro è inevitabile, giacché la Lorelei non ha brame su questo mondo e nulla vuol portare con sé, indietro ai Picchi Gemelli di Beltherai e alla corte delle Musèn,

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FANTASY né teme la morte o altro danno fisico, lei che è puro Spirito Fiammeggiante. Murtag deve quindi ricorrere a tutta la Magia e a tutto il Potere immagazzinato negli anni, quindi evoca al proprio servizio Qònguthàr, il Vento Nero dagli Abissi e questi giungendo in un turbine urlante da certe grotte spalancate verso il ventre del mondo, uguale a serpe spettrale, si avvolge attorno al corpo della Lorelei mordendola per infliggerle Dolore, per congelare il suo spirito in una coltre nera di Disperazione. Ecco, come risposta, la Messaggera ridere calorosamente perché una simile Presenza non nutre certo le speranze e le illusioni di questo mondo, né gli Abissi hanno alcun potere o influenza sull’Oltremondo, il morso del Serpe Abissale non ha effetto sul suo spirito né tanto meno sul corpo. Intatta e indisturbata la Lorelei pone una mano a carezzare distrattamente il tristo portale di ferro; indi soffia un alito caldo sui bulloni e gli aculei acuminati dei battenti. Per Murtag quel tocco è funesto, più di qualsiasi altro avesse mai dovuto subire, il lieve contatto della mano della Lorelei gli ricorda i tempi in cui era dotato di un corpo di carne ed ossa, cedevole si, ma a quali Delizie sente ora di avere rinunziato! Mandato via il Qònguthàr, (chiaramente inutile), Murtag fa ricorso alla pura forza della propria volontà. Per far ciò usa tutte le proprie energie, distogliendole dai molti luoghi delle terre su cui esercita anche un minimo di Potere e per Turlamos l’Ordine Oscuro subisce i primi fremiti dei liberi spiriti, improvvisamente risvegliati dopo tanto sonno. Accumulato tutto il proprio potere di assoggettare le menti Murtag lo scaglia contro l’incantevole figura che scintilla ai suoi piedi, cercando di penetrarle i pensieri e di inchiodarla al suolo, così da dare tempo ai posseduti di riprendersi e di tornare a combattere per il loro padrone, sbranando la forma materiale della sua avversaria, bandendone dal mondo lo spirito.

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Racconto

Un altro tiro che si rivela mal calcolato, la Lorelei non si oppone affatto ad entrare in contatto col pensiero di Murtag, il quale si trova sperso in un’inattesa vastità e profondità di pensieri. Si reputa forte nella sua superiore intelligenza e immensamente saggio per i decenni di scaltro dominio esercitato su tutta Turlamos, lo spirito ombroso, ma i pensieri della Lorelei gli si rivelano quali Alba che sorge; i ricordi della Luminosa lo colpiscono come calmo e vasto oceano e la sua conoscenza è una scalinata infinita che rischia di portare la sua mente direttamente in contatto con Ishafàr. Cerca di fuggire lo spettro sconfitto, sconcertato; mai gli era capitata una simile disfatta da che aveva cambiato un corpo per un altro. Gli è stata mostrata la libera bellezza del Creato; ha udito il sussurrare delle onde sulla battigia e la carezza calda e gentile del sole sui tetti di mattoni rossi. Lo spirito nero che imperniava il basalto ed il ferro della torre comincia a bramare sensazioni, da tempo dimenticate. Non lo può sapere Murtag, ma in onore di Toran (o forse no) la Lorelei ha dato in pasto alla mente del mostro i ricordi gentili dell’umano che l’ha chiamata a quella lotta. Trema la torre; pezzi di facciata e le punte dentate delle merlature si schiantano al suolo. Giunge finalmente il momento del colpo di grazia. La Lorelei e Toran intonano un nuovo canto, intessuto di Magia e di Potere: ‘Io scindo il legame di sangue! Caschi purificata la pietra; sparisci spirito dannato, oltre i confini della Notte, oltre il giardino d’Ishafàr! Caschi il cancello di ferro che ghigna contro il Cielo. Murtag non è più; il suo spirito oscuro è fuggito. Nera Torre ora sei macerie!’. Finito di recitare l’incantesimo la torre implode su se stessa, sbriciolandosi come un castello di carte costruito da mano infantile. Con un ululato agghiacciante uno spirito geli-

Racconto: Murtag e la Lorelei


Murtag e la Lorelei do fugge lontano da loro, costretto a cercare quei Cancelli della Notte che da tempo lo attendono. *

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Sorge il sole sul capo del colle che da tanto peso era afflitto e, stavolta, vi vede sbocciare una folta capigliatura d’erba e di fiori. Sul teatro che ha visto la splendente Lorelei abbattere il potere di Murtag, ora la vita riprende a ritmo sostenuto, come se diverse stagioni di crescita e fioritura si succedessero nella corsa folle di pochi battiti di cuore. Abbattuta la torre, cancellatane l’ombra, nelle città e alle corti scoppiano ribellioni. I Liberi tornano a riprendersi le Dignità perdute. In una cavalcata di sole sul colle sorge un cerchio di faggi, noci e querce. Acqua sgorga spontanea al centro ed un’allegra fonte che alimenta la corsa di un rivolo d’acqua nuovamente terso, ed è il fiume saltellante a sciacquare via la sozzura dalle terre; spariscono le gobbe bruciate, rinverdiscono gli arbusti fiorendo in innumerevoli varietà di colori. *

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Il tempo è passato da quella battaglia, oramai. La Lorelei è tornata a servire la propria Signora oltre le vette gemelle di Beltherei. Toran, dopo tanto lottare, tanta gloria respirata e vissuta in così poco tempo, si accinge ad assopirsi orbitando come alito di zefiro sul ventre perfetto della Lorelei, sognando la propria vita a ritroso, fino a che Oblio ed Estasi non si saranno impadronite di lui. * FRANCESCO COPPOLA

Racconto: Murtag e la Lorelei

Francesco Coppola, alias Muspeling, ci offre un racconto ricco di contenuti e di atmosfera. L’originalità dell’ambientazione, nata dalla non comune fantasia dell’autore, porta un soffio di aria nuova nel mondo a volte scontato delle storie fantasy. La narrazione dal ritmo sostenuto si unisce ad una descrizione quasi barocca dei particolari, e fa intravedere un’ispirazione istintiva e profonda, in cui gli impulsi si mescolano alla ragione. Un risultato assolutamente affascinante. ANJIIN Da un autore vulcanico e focoso come il suo nick (Muspeling), lontano da facili stereotipi e proteso verso orizzonti sempre nuovi, non ci si poteva aspettare che un racconto come questo, centrato sulla figura dell’Armonia. Avventura, suspence e impliciti risvolti filosofici: meglio di così… Una raccomandazione: è un racconto da gustare lentamente, soffermandosi sui dettagli, perché è proprio lì che si annida il suo fascino. ELFWINE Il Murtag e la Lorelei è un racconto che esprime tutto lo struggente dolore di un mondo consumato dal male puro e dall’insofferenza degli uomini alla loro repressione. Ma a questo dolore si accosta la speranza maniacale e concitata di un “eroe” fallito, che forse è vicino al compimento della sua missione. Un racconto emozionante, vissuto attraverso le memorie del protagonista e la visione del narratore onnisciente. La narrazione sa essere dettagliata ma non troppo verbosa, e il ritmo non cade mai. Una storia affascinante e tutta amatoriale! SAURONEYE

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Staff

TERRE DI CONFINE

AUTORE IMPAGINAZIONE COPERTINA CROM CROM SOMMARIO MASSIMO “DEFA” DE FAVERI DEFA EDITORIALE DEFA DEFA AREA FANTASCIENZA - B. MOYNAHAN CROM CROM IO, ROBOT ROMINA “LAVINIA” PERUGINI DEFA IO, ROBOT ROMINA “LAVINIA” PERUGINI DEFA L’UOMO BICENTENARIO FEDERICO SPERINDEI DEFA IL MONDO DEI ROBOT CUCCU’SSÉTTE DEFA I.A. INTELLIGENZA ARTIFICIALE CUCCU’SSÉTTE DEFA MA GLI ANDORIDI SOGNANO PECORE ELETTRICHE? ANJIIN DEFA INTRODUZIONE ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE FABRIZIO RIGUZZI DEFA LUC ORIENT ANDREA CARTA DEFA AREA FANTASY - JASMINE E MYRIAM CROM CROM IL MITO DI ORFEO ELFWINE CROM UCRONIA E DIDATTICA STORICA STEFANO BACCOLINI JUMA I CELTI E LA LETTERATURA FANTASTICA ANJIIN JUMA / DEFA I CELTI TRA STORIA E LEGGENDA STEFANO BACCOLINI JUMA / DEFA CARLO RECAGNO E GIACOMO PUERONI DANIELA “DASHANA” BELLI DEFA WARHAMMER CROM DEFA WARHAMMER - THE DYING OF THE LIFE MILLO T. FRANZONI DEFA STORIA DEL MUD KRISAORE DEFA AREA ANIME - ROSSANE CROM CROM LA CITTÀ INCANTATA STEFANO LOCATI DEFA ALEXANDER MASSIMO “DEFA” DE FAVERI DEFA JEEG 3D GIANNI SOLDATI DEFA MURTAG E LA LORELEI FRANCESCO COPPOLA DEFA STAFF MASSIMO “DEFA” DE FAVERI DEFA HANNO COLLABORATO: PIERO GIUSEPPE GOLETTO, GIACOMO PUERONI, CARLO RECAGNO, SAURONEYE, GIAMPIETRO STOCCO

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TDC N.2 - GENNAIO 2006


N. 2

Anno II - numero 1

Un progetto FantasyStory/FantasyRPG/AccP

http://www.crepuscolo.it

http://www.crepuscolo.it/fantasystory/

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Ha collaborato:

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i grandi autori

Š larry elmore - death of sturm


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