Terre di Confine #10

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Rivista aperiodica redatta dall’Associazione Culturale “Terre di Confine”

di TERRE Confine Fantascienza, Fantasy, Anime

Dicembre 2010 II ed. Giugno 2012

LETTURA:

La Strada n Cronache del Dopobomba n Addio Babilonia n Un Cantico per Leibowitz n Paria dei Cieli n Il Simbolo della Rinascita n Metro 2033 n La Grotta di Cristallo n Le Nebbie di Avalon n Il Re d’Inverno n

L’Alba del Nucleare:

Hiroshima e Nagasaki

Chernobyl:

Storia di un’Apocalisse

CINEMA:

Gli Avventurieri del Pianeta Terra n Il Primo Cavaliere n Camelot n King Arthur n

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SPECIALI ANIME: Ken il Guerriero King Arthur Conan Armi Nucleari

NUMERO

Il Mito di Artù

La Spada nella Roccia

Excalibur

Akira

Nausicaä

Lettura: Il Segreto delle Tre Pallottole, Un Americano alla Corte di Re Artù, L’Ultimo Incantesimo, Il Giorno Fatale Film TV: Merlino, Testament, The Day After Animazione: Quando soffia il Vento Racconto/Corto: Cadrà dolce la Pioccia/There will come soft rains Musica: Tristano e Isotta


Foto di copertina: “STALKER” di Igot T “Steamw” steamw.deviantart.com


Editoriale REDAZIONE

for dummies

di Massimo “DeFa” De Faveri

C

Editoriale

AUTODISTRUZIONE

ari Lettori, come sempre un ben ritrovati tra le pagine della Vostra affezionata TdC! In questo nuovo numero vorremmo avventurarci con Voi a esplorare due temi molto seguiti dagli appassionati di Fantascienza e Fantasy. Il primo è drammatico e solitamente calato nel cuore di scenari catastrofici; il secondo evoca suggestioni epiche e romantiche. Si tratta di “Postatomico” e “Ciclo Arturiano”. L’olocausto nucleare e l’idilliaca Camelot, una distopia e un’utopia: un accostamento forse ardito? Esiste però una chiave di lettura che può accomunare gli equipaggi dell’Enola Gay e del Bockscar e i nobili Cavalieri della Tavola Rotonda. Tibbets, Lewis, Ferebee, Van Kirk… Artù, Lancillotto, Tristano, Galahad… sono tutti soldati. Il filo dell’analogia porta a riflettere su quali possano essere i modi di combattere una guerra, intesi sotto l’aspetto deontologico, in ragione di mezzi rapportati a fini, morale e utilitarismo, etica impartita al militare e risultato della derivante condotta. È un piano di analisi di cui i due temi rappresentano esattamente le facce opposte: sul piano della lotta senza quartiere tra Bene e Male per l’affermazione di sacri, superiori e universali principi, nel Ciclo Arturiano troneggia il baluardo di un’etica quasi mistica, rigorosa e inamovibile, mentre nel Postatomico si deformano gli evanescenti confini del Diritto bellico, ossia un elastico che l’incedere del progresso rende sempre più teso. La questione morale sull’uso della bomba atomica ha prodotto moltitudini di parole, scritte e pronunciate; altrettanto dicasi per il codice cavalleresco, che permea la Letteratura di varie epoche. Accostare i due argomenti, però, continua a stimolare la riflessione. A memoria d’uomo, non si è mai sentito di una guerra capace di risparmiare gli innocenti, per cui il quesito astratto se possa o meno esistere una “guerra giusta” può essere scavalcato da uno più pragmatico: nell’intrinseca ingiustizia del combattere, esiste un modo giusto e uno sbagliato di farlo? O, se vogliamo, esiste un modo meno ingiusto di un altro? In parole diverse: la sopravvivenza (propria, dei propri ideali, del proprio sistema di valori, del proprio modo di vivere) è un fine sempre inderogabile che prescinde dal mezzo con cui lo si consegue? Negli ospedali moderni esiste una categoria di degenti curati contro la propria volontà che a questa domanda risponderebbe senza esitazione con un no. All’opposto, in alcuni luoghi di questo nostro vecchio e stanco mondo, luoghi di conflitti e di miseria in cui la propria sopravvivenza sfugge al novero delle opzioni, si tende addirittura a sostituirle come scopo dogmatico la non sopravvivenza altrui. In un simile dedalo di alternative filosofiche, la tecnologia bellica di oggi ha raggiunto sviluppi tali da rendere superfluo il concetto stesso di deontologia applicato alla guerra, cancellando di colpo qualsiasi contrapposizione dialettica tra mezzi e fini, riuscendo nell’iperbolica impresa di creare l’arma più inutile di tutte: l’arma che non si può usare altro che contro sé stessi. In effetti, una malattia che imponesse la somministrazione di un farmaco termonucleare sarebbe, per questa stessa ragione, incurabile; e un’Umanità colpita da un simile morbo avrebbe già imboccato lo stadio terminale. Quel tipo di cura contiene dunque in sé la paradossale proprietà di rappresentare due opposti, eutanasia e al tempo stesso accanimento terapeutico. Usare l’atomica per sopravvivere è una contraddizione in termini. Ci tornano in mente, inevitabili, le parole attribuite a uno Svizzero/Tedesco (un Signore che davvero sapeva quel che diceva): il suo pensiero su quali armi sia lecito immaginare utilizzate in una ipotetica quarta guerra mondiale, ammesso di sopravvivere a una terza. n Massimo De Faveri

Editoriale

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Sommario REDAZIONE

TERRE DI CONFINE N. 10 - DICEMBRE 2010 II Edizione - GIUGNO 2012

10 NUMERO

Sommario Editoriale Autodistruzione for dummies di M. De Faveri ................... 3

Sommario

Racconto Corto Lettura Lettura Lettura Lettura Lettura Lettura Lettura Lettura Cronaca Scienza Cronaca Cinema Film TV Cinema

Animazione

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Lettura Lettura Lettura Lettura Lettura

Cadrà dolce la Pioggia di C. Donati ................................. 6 There will come soft rains di C. Donati .......................... 10 La Strada di C. Donati ................................................. 12 Cronache del Dopobomba di C. Donati .......................... 14 Addio Babilonia di L. Germano ..................................... 16 Un Cantico per Leibowitz di L. Germano ......................... 18 Paria dei Cieli di F. Troccoli ........................................... 22 Il Simbolo della Rinascita di D. Mana ............................ 25 Metro 2033 di L. Germano ........................................... 28 Il Segreto delle Tre Pallottole di C. Donati...................... 31 L’Alba del Nucleare di C. Donati .................................... 34 Armi Nucleari di C. Donati ........................................... 42 Chernobyl, Storia di un’Apocalisse di C. Donati ............... 52 Testament di Cuccu’ssette ........................................... 62 The Day After - Il Giorno Dopo di C. Donati ...................... 68 Gli Avventurieri del Pianeta Terra di L. Colombi .............. 71 Quando Soffia il Vento di Cuccu’ssette ............................ 74 Un Americano alla Corte di Re Artù di F. Viegi ................. 80 Le Nebbie di Avalon di E. Romanello .............................. 82 La Grotta di Cristallo di D. Di Bartolo .............................. 84 L’Ultimo Incantesimo di D. Di Bartolo ............................ 86 Il Giorno Fatale di C. Del Buono .................................... 88

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REDAZIONE Il Re d’Inverno di V. D’Alberto ....................................... 90 Film TV Merlino di P. Motta .................................................... 92 Cinema Camelot di J. Berardinelli ............................................. 94 Cinema Excalibur di Cuccu’ssette ............................................. 98 Cinema Il Primo Cavaliere di Cuccu’ssette ................................ 104 Cinema King Arthur di D. Picciuti ........................................... 110 Leggende La vera Spada nella Roccia di L. Garlaschelli ................... 116 Cultura Il Mito Arturiano di C. Crosignani ................................. 124 Musica Tristano e Isotta di G.L. Rossato .................................. 130 Cinema Akira di L. Colombi ................................................... 132 Serie TV Conan di D. Mana .................................................... 138 Cinema Nausicaä della Valle del Vento di A. Tripodi .................. 150 Serie TV Ken il Guerriero (1) di S. Baccolini ................................ 160 Serie TV Ken il Guerriero (2) di S. Baccolini ................................ 178 Serie TV La Spada di King Arthur (1) di M. De Faveri .................... 188 Serie TV La Spada di King Arthur (2) di M. De Faveri .................... 198 Anteprima TdC n° 10 1/2 ......................................................... 207 Lettura

Crediti Redazione Andrea Carta, Antonio Tripodi, Carola Del Buono, Chiara Crosignani, Claudio Piovesan, Cristina Donati, Cuccu’ssette, Daniela Belli, Daniela Di Bartolo, Daniele Picciuti, Davide Mana, Elena Romanello, Francesco Barbi, Francesco Coppola, Francesco Troccoli, Francesco Viegi, Giuliano Clun, Giordana Gradara, Giovanna Lorenza Rossato, Laura Tolomei, Leonardo Colombi, Lorenzo Davia, Luca Germano, Massimo De Faveri, Paolo Motta, Stefano Baccolini, Stefano Marinetti, Valentina Summa, Viviana D’Alberto Hanno Ivan Venuti, James Berardinelli, Luca Binaghi, Luigi Garlacollaborato schelli, Marco Perone, Massimo Baglione Ringraziamenti a Igot T “Steamw”, Laura Zampini (CICAP), Marino Franzosi (CICAP)

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Racconto

Racconto

FANTASCIENZA

CADRÀ DOLCE LA PIOGGIA

(There Will Come Soft Rains - R. Bradbury, 1950) di Cristina Donati

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egli anni Trenta, una poesia scritta da Sara Teasdale. Nel 1950 un racconto tratto da Cronache Marziane, di Ray Bradbury. Nel 1984, un cortometraggio di animazione sovietico diretto da Nazim Tulyakhodzayev. Ad unirli un titolo, “There Will Come Soft Rains”, e un denominatore comune: l’idea di una Terra dopo la scomparsa dell’uomo. IL RACCONTO Scritto nel tono lieve e ironico di Bradbury, questo capitolo di Cronache Marziane è ambientato in un futuro nel quale l’uomo ha concluso il proprio viaggio. All’alba del 4 agosto 2026, la città di Allendale in California è stata spazzata via dalla guerra atomica, ma una Casa Meccanica − perfettamente automatizzata − gestisce minuto per minuto le vite di una famiglia ormai scomparsa. Allegre filastrocche annunciano la sveglia del mattino, l’ora del lavoro e della scuola; elettrodomestici meccanici preparano la colazione, leggono poesie e ricordano le scadenze del giorno. Ciò che manca, l’autore lo rivela accompagnando il lettore di stanza in stanza, nel giardino deserto e dietro le pareti esterne, sulle quali degli antichi occupanti restano soltanto le sagome carbonizzate sul muro. Un ambiente che sarebbe idilliaco, se non fosse per alcuni particolari che danno vita a una fiaba crudele “in cui gli dèi se ne sono andati e i riti della religione continuano, inutili e senza senso”. Spietata nella sua amabilità, questa novella di Bradbury è come ferro nel velluto: il tempo non ha fretta, la data della prima bomba atomica e quella della fine dell’umanità (il 5 agosto) si sfiorano “in un ultimo, titanico, istante”. n Cristina Donati

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Racconto: Cadrà Dolce la Pioggia


FANTASCIENZA Nel salotto l’orologio canta: “Tic tac, sono le sette! Ora di alzarsi, ora di alzarsi, sono le sette!” Come se avesse paura di non essere ascoltato. La casa rimane deserta. L’orologio ticchetta ancora, ripete e ripete i suoi rumori nel vuoto. “Sette e diciotto, ora di colazione!” In cucina i fornelli sospirano sibilando e il forno spinge fuori dal proprio ventre infuocato otto fette di pane tostato alla perfezione, otto uova fritte e sedici fette di pancetta, due caffè e due bicchieri di latte fresco. “Oggi è il 4 Agosto 2026” dice una seconda voce dal soffitto, “nella città di Allendale, California.” Lo ripete tre volte, per sicurezza. “Oggi è il compleanno di Mr. Featherstone. Oggi è l’anniversario di matrimonio di Tilita. C’è da pagare l’assicurazione, e anche le bollette di acqua, gas e luce!” Da qualche parte nel muro scattano relè elettrici, nastri mnemonici scorrono sotto attenti occhi elettronici. “Le otto, tic-tac, le otto in punto! Presto, a scuola! Presto, al lavoro! Sono le otto!” Ma nessuna porta sbatte, nessun tappeto accoglie l’impronta morbida di suole gommate. Fuori piove, e la cassetta meteorologica canterella sommessa: “Pioggia, pioggia stai lontano, tutti con l’ombrello in mano…” E la pioggia batte sulla casa vuota, come un’eco. Fuori, il garage trilla e apre il portellone mostrando la macchina in attesa. Aspetta a lungo, poi si richiude. Alle otto e mezzo le uova sono carbonizzate, e i toast duri come pietre. Un cuneo d’alluminio li raschia giù nel lavandino, un fiotto d’acqua calda li fa vorticare dentro una gola metallica che li sgretola; poi via, verso il lontano mare. I piatti sporchi vengono tuffati in un bagno bollente, da cui escono scintillanti e asciutti. “Nove e un quarto” canta l’orologio “ora di pulizie!” Topolini meccanici schizzano fuori da celle nel muro. Le stanze sono invase dai piccoli animaletti delle pulizie, tutti gomma e metallo: urtano contro le sedie, ruotando le loro rotelline baffute, pettinando le frange dei tappeti, succhiando gentili ogni granello di polvere nascosta. Sembrano invasori misteriosi, poi scompaiono nelle tane. I loro occhietti rosa si spengono. La casa è pulita. Sono le dieci. Il sole spunta dopo la pioggia. La casa è sola in una città di macerie e cenere, l’unica ancora in piedi. Di notte, le rovine scintillano di luci radioattive visibili a miglia e miglia di distanza. Dieci e un quarto! Gli irrigatori del giardino sprizzano fontanelle dorate, riempiendo la dolce aria mattutina di bagliori luminosi. L’acqua innaffia le finestre,

scivolando sul lato carbonizzato a occidente, dove la casa non ha più traccia di vernice. L’intera parte ovest è nera, tranne in cinque punti: qui sembra dipinta la sagoma di un uomo e il suo tagliaerba. Qui, come una fotografia, una donna è chinata a raccogliere fiori. Poco più lontano - le loro immagini impresse a fuoco sul legno in un unico titanico istante − un bambino con le braccia alzate, una palla per aria e, di fronte, una ragazza: ha le mani protese verso quella palla, che non scenderà mai più. Le cinque macchie di vernice bianca – l’uomo, la donna, i bambini e la palla – sono rimasti. Il resto non è altro che un sottile strato di materia bruciata. Il dolce getto di pioggia riempie il giardino con cascatelle di luce. Finora la casa ha eseguito bene i suoi compiti. Con quanta sollecitudine ha chiesto “Chi è là? Qual è la parola d’ordine?” e, non avendo risposta da volpi solitarie o gatti piagnucolosi, ha serrato finestre e cortine con la preoccupazione di una vecchia zitella che preserva la propria sicurezza al limite della paranoia. A ogni rumore, la casa trema. Se un passero sfiora la finestra, la cortina scatta a chiudersi. L’uccello, terrorizzato, vola via! No, nemmeno un uccellino deve sfiorare la casa! La casa è un altare con diecimila servi, piccoli e grandi, servizievoli, tutti in coro. Ma gli dèi se ne sono andati, e il rituale della religione continua, inutile e senza senso. Mezzogiorno. Un cane guaisce sulla veranda, a lungo, rabbrividendo di febbre. La porta lo riconosce, e si apre. Il cane, un tempo grosso e ben pasciuto ma ora scheletrico e coperto di piaghe, entra e attraversa tutta la casa, lasciando impronte fangose. Dietro di lui, corrono topolini sdegnati, irritati per il fango e per una simile mancanza di riguardo. Perché nemmeno un minuscolo frammento di foglia può volare all’interno senza che il muro si apra e i topini di rame schizzino fuori: polvere maleducata, capelli o carta, catturati tra piccole fauci d’acciaio, vengono portati di corsa dentro la tana. Là, giù per i tubi che portano nello scantinato, sono gettati nella bocca sbuffante di un inceneritore, accucciato come il demone Baal in un angolo oscuro. Il cane sale di corsa le scale, guaendo isterico a ogni porta, e realizza alla fine, così come la casa, che lì c’è solo silenzio. Fiuta l’aria e gratta alla porta della cucina. Dietro, il forno sta cuocendo frittelle che riempiono le stanze con gustosi aromi biscottati e profumo di sciroppo d’acero. Il cane sbava, sdraiato vicino alla porta, e annusa; i suoi occhi diventano di fiamma. Cor-

Racconto: Cadrà Dolce la Pioggia

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Racconto FANTASCIENZA faggi d’alluminio e grilli metallici e, nell’aria ancora calda, farfalle di lieve tessuto rosso volteggiano immerse nell’odore pungente di tracce animali! Si ode il ronzio di un grosso alveare giallo all’interno di un mantice scuro, il brontolio pigro di un leone assonnato. E là c’è l’impronta di un okapi e il mormorio di fresca pioggia della giungla, e altre tracce impresse sopra l’erba inamidata dell’estate. Ora i muri si dissolvono su enormi praterie, miglia e miglia, e su un caldo cielo senza fine. Gli animali corrono via tra felci spinose e pozze d’acqua. È l’ora dei bambini. Le cinque. La vasca si riempie d’acqua, calda e pulita. Le sei. Le sette. Le otto. I piatti della cena vengono manipolati come un gioco di prestigio, e nello studio si sente un click. Nello scaffale metallico di fronte al camino, dove ora arde un fuoco accogliente, salta fuori un sigaro con un centimetro di soffice cenere grigia, fumante, in attesa. Le nove. Una voce parla dal soffitto: “Signora McClelland, che poesia desidera staseRay Bradbury ra?” foto di Alan Light La casa è muta. Alla fine, la voce dice: “Poiché non esprime alcuna preferenza, sceglierò una poesia a caso”. re selvaggiamente in cerchio mordendosi la coda, gira Una musica rilassante si unisce ad accompagnare frenetico e muore. È nel salotto da un’ora. “Sono le due!” canta una voce. I topini avvertono la voce. “Sara Teasdale. La sua preferita, se ricordo infine l’odore di corruzione, e ronzano fuori con la leg- bene.” gerezza di foglie appassite in un vento elettrico. Verrà dolce la pioggia e l’odore del suolo Due e un quarto. Il cane non c’è più. Nella cantina, Le rondini in cerchio e lo stridere in volo l’inceneritore all’improvviso brilla, e un mulinello di scintille sale su per il camino. E le rane nei fossi la notte col canto Due e trentacinque. Tavolini da bridge escono di E i pruni di bosco in tremulo bianco. scatto dalle pareti del patio. Carte da gioco atterrano sul tappeto in una pioggia di fiches. Appaiono dei MarDi fuoco piumato pettirossi abbigliati tini sopra una panca di quercia, con tramezzini di uova Fischieranno capricci su bassi steccati. e insalata. La musica suona. Ma i tavoli restano silenziosi e le carte intonse. Alle quattro, si ripiegano come Nessuno saprà, ali di farfalla dentro i pannelli del muro. Della guerra, nessuno Quattro e mezzo. La nursery si illumina. Tanti Avrà il minimo intuito che tutto è compiuto. animali prendono forma: giraffe gialle, leoni blu, antilopi rosa, pantere lilla che saltellano in una sostanza Né albero o uccello, nessuno di loro cristallina. Le pareti sono di vetro e mostrano sceAvrà un solo pensiero per la fine dell’uomo. ne di fantasie colorate. Pellicole nascoste scorrono su ingranaggi ben oliati, e i muri prendono vita. Il Anche Lei, Primavera, nell’alba nascente pavimento è stato tessuto in modo da somigliare a Che noi siamo andati, sarà appena cosciente. un ondulato campo di grano. Sopra, corrono scara-

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Racconto: Cadrà Dolce la Pioggia


FANTASCIENZA Il fuoco arde nel camino di pietra e il sigaro si è dissolto in un mucchietto di cenere nel posacenere. Le sedie vuote si guardano tra i muri silenziosi, e la musica continua a suonare. Alle dieci la casa inizia a morire. Il vento soffia e il ramo di un albero caduto sfonda la finestra della cucina. Una bottiglia di smacchiatore si rovescia sulla stufa. La stanza avvampa in un istante! “Al fuoco!” urla una voce. Le luci della casa si accendono, le pompe sparano acqua dai soffitti. Ma il solvente infuocato si sparge sul linoleum, leccando e mangiando, sotto la porta della cucina, mentre le voci ora sono un coro: “Al fuoco! Al fuoco! Al fuoco!”. La casa cerca di salvarsi. Le porte sbattono chiudendosi ermeticamente, ma le finestre s’infrangono per il calore e il vento risucchia in alto le fiamme. La casa cede terreno man mano che dieci miliardi di fiammelle infuocate passano baldanzose di stanza in stanza e poi su per le scale. Topi antincendio schizzano fuori dalle tane, sparano la loro acqua e corrono via per prenderne ancora, e gli spruzzatori dei muri gettano scrosci di pioggia meccanica. Ma è troppo tardi. Da qualche parte una pompa singhiozza e si ferma. La pioggia meccanica cessa. La riserva idrica, che ha riempito vasche e lavato piatti per molti giorni tranquilli, è finita. Il fuoco crepita su per le scale. Al primo piano, divora quadri di Picasso e Matisse come prelibatezze, cuoce la carne oleosa, abbrustolisce le tele in croccanti trucioli neri. Ora il fuoco si stende sui letti, si affaccia alle finestre e cambia il colore delle tappezzerie! E, finalmente, i rinforzi. Dalle botole del solaio si affacciano volti ciechi di robot, con le bocche a manichetta che rigurgitano chimiche sostanze verdi. Il fuoco indietreggia, come dovrebbe fare un elefante alla vista di un serpente morto. Ora ci sono venti serpenti a frustare il pavimento e a uccidere il fuoco con una bava verde di limpido e freddo veleno. Ma il fuoco è astuto: ha mandato fiamme fuori dalla casa, attraverso il solaio e su fino alle pompe. Un’esplosione! L’entità pensante che comanda le pompe viene fracassata contro le travi in tanti frammenti di bronzo. Il fuoco corre in tutti gli armadi e accarezza gli abiti appesi. La casa trema tutta, in ogni suo osso di quercia, il suo scheletro si raggrinzisce per il calore, i cavi e le nervature metalliche sono denudate come se un chirurgo avesse rivoltato la pelle per esporre le vene rosse e i capillari pulsanti all’aria rovente. Aiuto, aiuto! Al fuoco! Correte!

Il calore fa scoppiare gli specchi come friabili croste di ghiaccio. E le voci piangono “Fuoco, fuoco, correte” come un’infantile tragica cantilena, una dozzina di voci, alte, basse, come bimbi morenti e soli abbandonati nella foresta. E poi le voci vanno a svanire man mano che i fasci di fili elettrici scoppiano come castagne sul fuoco. Una, due, tre, quattro, cinque voci muoiono. Nella nursery la giungla brucia. Leoni blu ruggiscono e giraffe porpora balzano via, pantere corrono in tondo cambiando colore, e dieci milioni di animali, galoppando attraverso il fuoco, svaniscono verso un lontano torrente fumante di vapore… Altre dieci voci muoiono. Nell’ultimo istante sotto la valanga di fuoco, si odono altri cori, incuranti, annunciare l’ora, suonare musiche, tagliare il prato con la falciatrice telecomandata, aprire frenetici un ombrello sulla soglia e spalancare la porta sul davanti, fare centinaia di cose come un negozio d’orologiaio in cui gli orologi gridano pazzamente l’ora uno dopo l’altro, in una scena di confusione folle ma sincronizzata. Canti e urla, gli ultimi topini delle pulizie che sciamano fuori coraggiosamente a portar via le orribili ceneri! E una voce, con sublime distacco, che legge versi nello studio in fiamme, finché tutti i nastri bruciano, i fili si arricciano e i circuiti si disintegrano. Il fuoco consuma la casa e la schiaccia al suolo, in uno sbuffo di vesti fatte di fumo e scintille. Nella cucina, un attimo prima della pioggia di fuoco e legno si sarebbe potuto vedere il forno preparare la colazione a ritmo folle, dieci dozzine di uova, sei filoni di pane tostato, venti dozzine di fette di pancetta che, mangiate dal fuoco, lo fanno cominciare a cucinare di nuovo con un sibilo isterico. Il crollo. Il solaio collassa nella cucina e nel salotto, il salotto nella cantina e la cantina nello scantinato. Frigorifero, poltrone, pellicole, circuiti, letti e quant’altro, gettati come scheletri in un profondo e affollato sepolcro. Fumo e silenzio. Una grande quantità di fumo. L’alba appare a oriente. Tra le rovine, resta solo un muro. E mentre il sole sorge a illuminare quella distesa di macerie e vapore, da quel muro un’ultima voce ripete, ancora e ancora e ancora: Oggi è il 5 Agosto 2026, oggi è il 5 Agosto 2026, oggi è...” There will come soft rains (da Cronache Marziane, Ray Bradbury, 1950)

Racconto: Cadrà Dolce la Pioggia

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Corto

Corto

FANTASCIENZA

THERE WILL COME SOFT RAINS (Nazim Tulyakhodzayev, 1984) di Cristina Donati

S

e i versi malinconici della poetessa americana si trasformano in una distopica visione post nucleare nel racconto breve di Cronache Marziane, il cortometraggio dell’Uzbekfilm Studio gioca su toni assai più cupi. La data è cambiata: siamo nell’ultimo giorno dell’anno, subito dopo l’olocausto. Nel buio della Casa Meccanica si accendono le luci rosse di un robot domestico dalla sagoma aguzza e dai movimenti secchi come spari. I suggerimenti gentili degli automi di Bradbury diventano qui ordini scanditi con voce aliena: sveglia e colazione automatizzate non lasciano possibilità di scelta. Dai vetri rotti delle camere da letto appare la tempesta di neve dell’inverno atomico, e, accanto alle tute antiradiazioni disposte ordinatamente lungo il muro, i letti futuristici simili a capsule spaziali contengono adulti e bambini ridotti a sagome di cenere: hanno ancora l’orologio al polso e stringono giocattoli, nel loro ultimo sonno, prima di finire versati a terra sulle pantofole vuote. Solo una stanza è risparmiata dall’oscurità: mostra il sole di una giornata primaverile e un vecchio grammofono che suona canzoni anni Cinquanta. Ma tutto scompare al comando del servitore meccanico, la musica si interrompe e lo schermo elettronico si spegne rivelando il buio esterno. Ogni cosa sembra immutabile e immutata, organizzata in un cerimoniale indifferente alla presenza o meno dell’essere umano: le uova continueranno a cadere in eterno nei piatti metallici della colazione, davanti al ricordo di esseri che non ci sono più? No, qualcosa disturba l’equilibrio perfetto della Casa Meccanica: dalla finestra sfondata entra un estraneo, sconosciuto e temibile, incapace di rispondere alla parola d’ordine richiesta. È una colomba.

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Corto: There Will Come Soft Rains


FANTASCIENZA

Dopo un attimo, suonano gli allarmi e scattano le difese, in allerta costante; ma la Casa non è destinata a sopravvivere: si trasforma in un’arma rabbiosa e indifferente all’auto-annientamento e all’inconsistenza della causa scatenante. L’ultimo atto del robot impazzito, accecato da lacrime di cavi e metallo fuso, è sfondare il cuore nucleare della dimora ormai distrutta: l’ennesima esplosione atomica che aggiunge rovine alle rovine. Il libro di Bradbury ha il sapore di Hiroshima, ma qui si avverte il peso della situazione sovietica durante la guerra fredda: nel 1984, il muro di Berlino è ancora in piedi e la Russia si chiama U.R.S.S. I colori lividi, l’oscurità e il senso di freddo che

dominano le immagini costituiscono una percezione allegorica della vita civile allora dominante: un’esistenza militarizzata in spregio di ogni individualità, una società nella paura costante di un disastro atomico, una speranza di pace considerata sovversiva. Se i versi di Sara Teasdale mostrano il trionfo della natura sulle catastrofi insensate provocate dell’uomo, in questo tristissimo cortometraggio anche tale speranza è scomparsa: la possibilità di un mondo incontaminato è morta per sempre, e quello che ne resta è solo il ricordo, riprodotto all’infinito da uno schermo rimasto miracolosamente intatto nella devastazione totale. n Cristina Donati

Corto: There Will Come Soft Rains

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Lettura

Lettura

FANTASCIENZA

LA STRADA

(The Road - Cormac McCarthy, 2006) di Cristina Donati

“Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata?” The Waste Land - T.S. Eliot “Ce la caveremo, vero, papà? Sì. Ce la caveremo. E non ci succederà niente di male. Esatto. Perché noi portiamo il fuoco. Sì. Perché noi portiamo il fuoco.” The Road - Cormac McCarthy

U

n uomo e un bambino senza nome, padre e figlio, lungo una strada dopo la fine del mondo. Intorno, un inverno nucleare livido e in bianco e nero, resti carbonizzati e piogge di cenere, un cielo senza sole e un gelo siderale che arriva fino al cuore. I loro averi sono tutti su un carrello della spesa: del cibo, coperte luride e una tela cerata. Il padre porta in tasca una pistola con gli ultimi due colpi, uno per sé e uno per il figlio, in caso di necessità. Perché in un mondo dove tutto è bruciato, anche il significato di umanità si è estinto: gli uomini sono divenuti lupi e divorano i loro simili, in una metamorfosi senza ritorno. La terra che i due viaggiatori attraversano è deserta ma non del tutto, l’incontro con i pochi sopravvissuti è privo di qualsiasi sentimento all’infuori di violenza, sospetto e paura. Con loro è anche il ricordo di una donna, la madre del bambino, che ha preferito togliersi la vita davanti al crollo della speranza e l’orrore della sopravvivenza. La causa dell’olocausto è descritta, semplicemente, in due frasi: “Gli orologi si fermarono all’una e diciassette. Una lunga lama di luce e poi una serie di scosse profonde.” A questo punto il futuro cessa di esistere, e il dopo è già qui. Non sappiamo dove padre e figlio si trovino né da quanto siano sulla strada. Niente quando e niente dove, solo qualche cartello ormai assurdo nella sua inutilità, una mappa scolorita con nomi che non hanno più valore e testimonianze improvvise di un incubo senza risveglio.

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Lettura: La Strada


FANTASCIENZA Alla fine di questo lungo cammino c’è solo la promessa di una terra più calda, vicina al mare, dove la parola “domani” può tornare ad avere senso. Ma la salvezza non sarà generosa. “Vi mostrerò la paura in una manciata di polvere” The Waste Land - T.S. Eliot La Strada (premio Pulitzer 2007) di Cormac McCarthy non è un romanzo d’evasione né un road-book che consente di riflettere staccando la spina. Possiede un’epicità omerica miscelata alla crudezza di una cronaca nera surreale, dove i cattivi di Interceptor non hanno Mad Max a combatterli. È una storia sotto shock, capace di comunicare al lettore un estremo disagio. Il tema fantascientifico dell’apocalisse nucleare è solo un pretesto per mostrare l’estrema conseguenza del male: cosa resta quando tutto è finito, quando la vita di un uomo e di suo figlio è legata ai dettagli più crudi dell’autoconservazione e la morte può arrivare all’improvviso, per gli abiti bagnati, per la casualità di una ferita, per un attimo di disattenzione? L’unica forza è un sentimento atavico, il solo rimasto: l’amore incondizionato e folle per il frutto del proprio seme, incarnato in un bambino biondo e scheletrico che ancora riesce a provare pietà, senso di colpa e desiderio dei suoi simili. Questo anonimo e distrutto pezzo d’America “non è un paese per vecchi” e l’unico futuro possibile è ancora una volta nei figli: noi siamo l’arco, loro la freccia scagliata verso il domani. In questa ottica, il bambino assume il valore ancestrale di portatore del fuoco: colui che regge l’ultima scintilla capace di rendere Uomo l’uomo a dispetto della sua bestialità, nonostante l’estrema terribile punizione degli dèi che non hanno dimenticato Prometeo e il suo atto di hybris. “Qui non c’è acqua ma soltanto roccia Roccia e non acqua e la strada di sabbia” The Waste Land - T.S. Eliot È impensabile che McCarthy non abbia letto The Waste Land. La terre gaste è un archetipo antico, il territorio sterile e mortale della quest per ottenere il Graal, ma la versione che l’autore ci scaraventa addosso va ben oltre il mito arturiano e l’interpretazione in chiave moderna offerta da T.S. Eliot nel suo poemetto. Il protagonista adulto di questo romanzo ha già con sé il Sa-

cro Calice, ma la prova non è finita: il suo compito è quello di proteggerlo, a qualunque costo, contro tutto e tutti. “Siamo ancora noi i buoni?” chiede il bambino dopo aver visto l’uomo uccidere. In un mondo dominato da una natura ormai aliena in cui ogni dio è scomparso, la violenza è inaudita e il ricordo della bellezza possibile solo in sogno, la seduzione del male –­­la lotta eterna tra luce e tenebre dove il buio è quasi sempre destinato a vincere – viene tenuta lontana solo da una tenerezza disperata tra padre e figlio, che suscita nel lettore un dolore lacerante. “Questo è mio figlio, disse. Gli lavo via dai capelli le cervella di un uomo. È questo il mio compito. […] Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra.” “Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine” The Waste Land - T.S. Eliot Se è vero che “chi usa dieci parole laddove ne bastano cinque è capace di qualsiasi delitto”, Cormac McCarthy non sarà mai incriminato. La sua prosa è scarna, le storie lucide e affilate come rasoi; eppure in questo romanzo viene raggiunto un livello di essenzialità tale da coinvolgere non solo la trama ma anche il linguaggio, il registro narrativo, la punteggiatura: tutto sembra bruciato e finito, esaurito fin nel midollo, compresa la voce narrante che osserva il cammino dell’uomo e del bambino quasi dialogando con sé stessa, un flusso di coscienza senza alcuna emozione. Del resto, se il tempo si è fermato e non ha più ragione di andare avanti, se ogni parametro mentale e materiale si è dissolto e le coordinate dell’esistenza sono scomparse, il superfluo svanisce e ciò che riguarda il “prima” non ha più importanza. Il paesaggio si prosciuga nei suoi elementi primordiali: terra, acqua e fuoco. Le priorità sono quelle ataviche: fame, calore, sonno. Gli istinti regrediscono a quelli primari: paura e ferocia. Non solo: i nomi seguono le cose nella loro scomparsa, e quindi la speranza è riposta in nuovi nomi e nuove cose. Questo piccolo spiraglio, l’autore ce lo concede. Dopo predoni e cannibali, vittime e carnefici, orrore e terrore, forse altri “buoni” esistono ancora. E possiamo stare sicuri che, se qualche road-villain dovesse venire con cattive intenzioni, McCarthy impugnerebbe una pistola e gliela scaricherebbe in faccia. n Cristina Donati

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FANTASCIENZA

CRONACHE DEL DOPOBOMBA

(Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb - P.K. Dick, 1965) di Cristina Donati

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ono le nove di mattina a Berkeley, California. La città si sveglia, i negozi aprono, le prime persone si affacciano all’aperto: l’inizio normale di una giornata normale. Ma nelle storie di Philip K. Dick il concetto di normalità è relativo e sempre inglobato in una sfera psicologica straniante. I personaggi entrano in questo primo atto come semplici comparse e non sanno ancora di essere gli attori di un dramma: Stuart McConchie, il commesso di colore del Modern TV Sales & Service spazza il marciapiede e osserva un uomo in nero entrare nello studio del noto psichiatra dottor Stockstill. Hoppy, focomelico, arriva sulla sua “focomobile” per iniziare il primo giorno di lavoro. Bonny Keller, a qualche chilometro di distanza, medita sulla propria insoddisfazione desiderando un cambiamento di vita. Attraverso questi personaggi, l’inquietudine si insinua velocemente nel racconto e getta una luce innaturale su quello che Dick presenta come possibile futuro. I prodromi di un disastro atomico sono già presenti: l’America è in guerra contro Cuba e deve vedersela con le nuove bombe di fabbricazione cinese. L’Uomo Nero visto da Stuart è Bruno Bluthgeld (Dottor Stranamore nell’omonimo film), lo scienziato pazzo che nove anni prima ha coperto la Terra di fall-out radioattivo dopo un esperimento sbagliato. Hoppy è nato focomelico non per le radiazioni ma a causa

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FANTASCIENZA del famigerato farmaco Talidomide, tuttavia possiede strani poteri occulti: ripara gli oggetti con la mente e ha visioni su quello che crede sia il dopo-morte. Ironicamente, si può dire non abbia torto. Durante questa tranquilla giornata di provincia, mentre il televisore trasmette la partenza dei primi coloni per Marte, la prevista e temuta Bomba cade. Non si saprà mai chi sia stato a lanciarla: Russi, Cinesi, o lo stesso Comando Americano a causa di un altro terribile errore. L’Emergenza coglie l’umanità incredula sulle strade, la spinge ad accalcarsi nei rifugi, a invadere gli scantinati, a buttarsi nei tombini. Lo scenario possibile di un bombardamento atomico è ben noto ma Dick ce lo narra senza descrizioni o pretese di verosimiglianza scientifica, bensì attraverso le reazioni dei protagonisti: panico, egoismo e delirio d’onnipotenza in una scioccante atmosfera di banalità. Poi la scena cambia… Sono passati alcuni anni, e i superstiti convergono a West Marin County, una delle tante piccole enclave in cui la gente si è organizzata per sopravvivere. Le città distrutte sono lontane, le comunicazioni praticamente inesistenti e lo sforzo di ricostruire nelle campagne un’identità comunitaria ha creato le proprie regole basandosi sulle necessità del presente e le tradizioni del passato. Una società ibrida, nell’ambito della quale i parametri sono profondamente cambiati: Hoppy è divenuto il prezioso Tuttofare grazie alle sue inquietanti capacità; Stockstill è il medico del villaggio; Bluthgeld, ancora vittima delle sue psicosi, vive tosando pecore con il pensiero fisso di coloro che lo vogliono morto, e il disc-jockey astronauta Walt Dangerfield è rimasto bloccato in un’orbita infinita attorno alla Terra subito dopo il decollo verso Marte. Dalla sua navicella continua a trasmettere musica, notizie e brani di romanzi famosi: la sua voce, fortunosamente captata attraverso radioline a transistor, costituisce un momento di aggregazione fondamentale per le nuove comunità, l’unico ricordo di una realtà tramontata ma non dimenticata. Cani parlanti, topi capaci di suonare il flauto col naso e bambini geneticamente mutati sono ora componenti abituali del sopravvissuto genere umano, anche se i vecchi preconcetti sono tutt’altro che scomparsi. Il razzismo latente nei confronti del diverso – negro o handicappato che sia – espresso efficacemente nelle pagine iniziali, non è sparito ma si è solo leggermente spostato, focalizzandosi sullo straniero o sul mutante: il negro Stuart McConchie parla con malcelato disprezzo dei neri da radiazioni, ex bianchi la cui pelle

ha cambiato colore a causa delle ustioni. Alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove e la tragedia continua a seguire il suo corso. Sarebbe stato facile descrivere Hoppy come una vittima che risorge dalle proprie disgrazie, ma chi pensa a questo non conosce Philip K. Dick. Il focomelico dagli innaturali poteri è uno gnomo maligno che desidera concretizzare la stessa mania di onnipotenza dello scienziato Bluthgeld: vile e mediocre negli atteggiamenti quanto geniale e perverso nelle sue ambizioni, questo frutto di una Colpa Universale rappresenta il male insito nelle generazioni umane, prima e dopo qualsiasi olocausto, un male che aumenta invece di diminuire. La sua nemesi è qualcosa che esce dal fantascientifico e sfiora l’horror fantasy, ovvero la presenza disturbante di un’entità-bambino, Bill, racchiuso nel corpo della gemella Edie. Le facoltà paranormali nate dalle radiazioni vengono considerate “magia”, quindi la presenza di questo corpicino parassita, dotato di facoltà arcaiche come la trasmigrazione o la capacità di parlare con i morti, è perfettamente lecita nella logica della narrazione dickiana. Tuttavia, accanto al “brutto e cattivo” non abbiamo l’archetipo classico del “bello e buono”. Se Hoppy, il “sadico sgorbio da farmaci” focalizza su di sé tutto il negativo di questa condizione “dopo la bomba”, rappresentando il mostro che genera altre mostruosità, Billy fornisce una soluzione temporanea ma non certo rassicurante. Non esiste in questo romanzo nessun vero eroe dell’ultima ora ma, cacciate le ombre del pericolo imminente, le comunità di sopravvissuti continuano le proprie attività da formicaio, un mattone dopo l’altro, verso qualcosa che non è esattamente un progresso ma solo un’evoluzione inevitabile, con pregi, difetti, e tutti i rischi connessi. C’è chi ha definito le “Cronache” di Dick “a perverse Pastoral”: un ritorno alle origini riflesso in uno specchio deformante, dove il concetto di “normale” e “anormale” non ha come linea di confine lo scoppio di una bomba atomica ma solo l’inarrestabile evolversi della psicologia collettiva. Il futuro, tutto sommato, ha i suoi lati positivi e permette una sorta di rinascita dell’umanità, ma non rappresenta un ordine utopico: anche se l’oppressivo potere centrale è sparito, nuove forze devono sconfiggere nuovi pericoli e il conflitto tra felicità personale e convivenza civile si rivela inalterato. n Cristina Donati

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ADDIO BABILONIA (Alas, Babylon - P. Frank, 1959) di Luca Germano

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hi Babilonia”: due sole parole al termine di un cablogramma. Eppure Randy Braggs comprende immediatamente che, da quel momento in poi, nulla sarebbe stato come prima: se il fratello Mark, ufficiale del controspionaggio americano, gli ha mandato un messaggio del genere, è perché teme che tutto stia per volgere al peggio. Due sole parole, l’allusione fatidica a un versetto dell’Apocalisse di Giovanni, 18, 9-10: “Ahi Babilonia, la grande città, la possente città! In un’ora sola è giunta la tua condanna!”. Nel codice che hanno concordato, questo è l’annuncio che sta per scoppiare la terza guerra mondiale. Improvvisamente, una giornata come tante altre si trasforma in un incubo. L’unica speranza è che Fort Repose, la cittadina nella quale vive Randy, priva del minimo valore strategico e lontana dai grandi centri, venga risparmiata. Ma la casa di Randy, dove presto giungerà la famiglia di Mark, non ha rifugi antiatomici, e mancano provviste sia di cibo sia di medicinali adeguate per far fronte all’emergenza. Organizzarsi è una lotta contro il tempo, nella consapevolezza che ogni sforzo potrebbe essere vano, perché non è possibile prepararsi alla fine del mondo. Nel 1959, ben sei anni prima della pubblicazione di Cronache del dopobomba di Philip K. Dick, Harry Hart Frank (alias Pat Frank), giornalista, scrittore e consigliere del governo americano, pubblica il suo Addio Babilonia (Alas, Babilonia). Alcune delle tematiche affrontate dai due romanzi coincidono: il bombardamento atomico, le vicende di un gruppo di sopravvissuti, l’obiettivo focalizzato su una singola comunità (in Dick situata nella California Settentrionale, in Frank in Florida, in una cittadina dove le distinzioni razziali contano ancora molto: l’immaginaria Fort Repose, modellata sulla realmente esistente Mount Dora). Le differenze sono però marcate. Sulla causa scatenante della distruzione nucleare i due romanzi già divergono: in Cronache del dopobomba non è dato sapere nulla riguardo i reali responsabili; in Addio Babilonia, invece, la genesi del conflitto è raccontata dettagliatamente. Il grande nemico è la Russia Sovietica, la cui espansione sembra inarrestabile. Proprio nel momento di massima tensione, un missile convenzionale lanciato da un aereo americano provoca la reazione russa su scala mondiale e il ricorso alle armi atomiche. Nazionalità del nemico, occasione del conflitto e sua conclusione hanno tuttavia

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FANTASCIENZA ben poca importanza nella struttura delle due opere, e ancor meno ai fini di una loro corretta lettura (significativa a questo riguardo la conclusione di Addio Babilonia, dove l’esito della guerra comunicato ai sopravvissuti viene espressamente definito irrilevante). Molto più importante è volgere lo sguardo ai protagonisti dei due romanzi e in particolare alla comunità nella quale si trovano a muoversi. Il romanzo di Dick, nel quale hanno fondante rilievo personaggi dotati di poteri sovrannaturali, è privo di eroi veramente positivi, e alla distruzione atomica segue la ricostruzione di una società che non si è liberata di nessuna delle sue colpe, che non progredisce, che non supera le originarie discriminazioni ma semplicemente le traveste: il diverso, prima, era il negro; dopo la pioggia atomica è lo straniero, il mutante. Addio Babilonia, al contrario, ha i suoi eroi: sono coloro che, all’indomani dello scoppio delle bombe atomiche che hanno ucciso milioni di persone, raso al suolo tutte le città più importanti e popolose e, di fatto, cancellato gli Stati Uniti come realtà politica e sociale, si riuniscono intorno a Randy Braggs, un uomo come tanti, diversamente dai personaggi di Dick, senza nulla di soprannaturale, non un genio e neppure una carismatica guida. Prima di quello che verrà definito semplicemente “il Giorno”, Randy Braggs è infatti soltanto un avvocato di provincia che, per le sue idee troppo progressiste in materia razziale, ha visto miseramente fallire il proprio tentativo di scendere in politica e ha attirato su di sé l’antipatia dei suoi concittadini. Successivamente all’attacco nucleare russo, Randy si ritrova però, suo malgrado, responsabile della vita di tutti coloro che si sono trasferiti in casa sua: i pochi parenti superstiti, la sua fidanzata, uno dei suoi più cari amici. Il nuovo ruolo lo costringe per la prima volta a prendere davvero in mano le redini della sua vita. E Randy, sorprendendo persino sé stesso, risulterà all’altezza delle aspettative di tutti. Fuori dalle mura di casa, intanto, il mondo muta radicalmente e con esso la società: il denaro perde ogni valore, merci da sempre considerate di uso quotidiano divengono rare e preziose, il cibo e l’acqua scarseggiano; iniziano i saccheggi, giungono in città i primi profughi colpiti dalle radiazioni; i vecchi e i malati cronici, privi delle cure necessarie, muoiono. La mano di Pat Frank, con brevi descrizioni e toni asciutti, spesso con ritmo incalzante, è abile nel tratteggiare qui un quadro assolutamente credibile e convincente, sia nella descrizione delle conseguenze

immediate dell’esplosione, sia nell’analisi delle dinamiche sociali che vengono successivamente a crearsi. Quando i banchieri si suicidano perché il denaro non conta più; quando il maneggiare oro e preziosi produce rischi mortali, posto che i gioielli dei profughi sono radioattivi; quando, simbolicamente, due fontanelle dei giardini pubblici di Fort Repose, l’una con la scritta “Solo Bianchi” l’altra con quella “Solo gente di colore”, smettono entrambe di funzionare, ci si accorge che molte differenze, un tempo marcate, non hanno più senso: ricchi possidenti e nullatenenti, bianchi e neri devono oramai collaborare per avere qualche speranza di sopravvivere. E quando finalmente i bambini torneranno a scuola, neri e bianchi siederanno su banchi vicini. Sotto questo specifico aspetto (la riconciliazione razziale) Addio Babilonia anticipa di ben cinque anni il Civil Rights Act del 1964 e risulta essere molto più positivo del pressoché coevo Il buio oltre la siepe (1960) di Harper Lee, dove nella comunità della piccola provincia sconvolta dalla colpa, da un omicidio, il pur innocente uomo di colore non conosce la salvezza. Dall’espiazione nucleare parrebbe quantomeno sorgere dunque una società più giusta, più equa. Addio Babilonia rifugge tuttavia dai facili moralismi e dal lieto fine tranquillizzante. Se l’esplosione della bomba atomica catalizza l’attenzione del lettore e le vicissitudini narrate rendono interessante l’evolversi della storia, le ansie e le meschinità del quotidiano, con le quali anche i più puri dei sopravvissuti dovranno confrontarsi, rimangono le vere protagoniste. Certo, nella piccola comunità di Randy, che da subito racchiude una famiglia di colore e che viene a costituire un immediato modello di come dovrebbe essere la società nuova, tutto sembra andare per il meglio pure tra le mille difficoltà: le piantagioni di famiglia, risparmiate dal fall-out, fornisco un minimo sostentamento; un acquedotto di fortuna garantisce l’indispensabile rifornimento d’acqua; le batterie delle macchine vengono convertite in alimentatori per l’unica radio ancora funzionante in grado di captare i bollettini del governo provvisorio; quando merci essenziali vengono a mancare, vengono trovati adeguati sostituti; per far fronte agli assalti dei razziatori viene istituita una forza di sicurezza. Ma nulla garantisce che l’esempio possa essere esportato su ampia scala. In effetti la società nuova, dove i più deboli sono destinati a morire, è più dura, non necessariamente più pulita: neppure la distruzione nucleare può eliminarne totalmente e in un sol momento tutti i lati oscuri. n Luca Germano

Lettura: Addio Babilonia

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UN CANTICO PER LEIBOWITZ

(A Canticle for Leibowitz - W. Miller, 1959) di Luca Germano

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l romanzo Un cantico per Leibowitz si compone di tre parti, corrispondenti agli originari tre racconti lunghi A Canticle for Leibowitz, And the Light is Risen e The Last Canticle pubblicati sulla rivista The Magazine of Fantasy & SF tra il 1955 e il 1957, che avevano consentito all’autore, Walter Miller, di raggiungere un notevole quanto meritato successo. Nella prima parte, “Fiat Homo”, il novizio Francis, in ritiro spirituale quaresimale fuori dalle mura dell’Abbazia dell’Ordine di Leibowitz, impegna il tempo pregando e costruendosi un riparo per trascorrere le notti. La ricercata solitudine e il silenzio meditativo vengono turbati dall’arrivo di un misterioso pellegrino, il quale, dopo qualche fraintendimento, prima di proseguire verso l’Abbazia aiuta il giovane frate segnalandogli una pietra utile a colmare l’ultimo vuoto rimasto nella precaria struttura del rifugio. Sollevata la pietra da terra, Francis scopre inaspettatamente il passaggio per una grotta sotterranea dove rinviene, semisepolto, un cartello in “inglese prediluviale” con la scritta “Rifugio Sopravvivenza Fallout Posti 15”. Francis conosce il Fallout solo dalle leggende che gli sono state raccontate: è un demone che egli immagina “metà salamandra... e metà incubo che contaminava le vergini nel sonno”. In effetti i mostri deformi del mondo non erano forse chiamati figli del Fallout? Fattosi coraggio, il novizio avanza nell’ombra e, con suo sommo stupore, trova alcune reliquie del Beato Leibowitz, il martire che fu tra i primi a cercare di preservare la conoscenza scritta dalla distruzione... Attraverso gli episodi salienti della vita di un monaco dall’animo semplice, che si ritroverà catapultato, suo malgrado, nella complicata dimensione della politica ecclesiastica, il lettore viene lentamente accompagnato nella realtà terribile venutasi a creare

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Lettura: Un Cantico per Leibowitz


FANTASCIENZA in seguito a una guerra atomica scoppiata secoli prima. Le radiazioni hanno reso inabitabili regioni sconfinate e generato veri e propri mostri; l’odio verso i responsabili della distruzione globale ha accecato i superstiti, inducendoli a eliminare chiunque detenesse conoscenze potenzialmente pericolose, fino a bruciare tutti i libri e perseguitare addirittura chi sapesse leggere. La Chiesa di Nuova Roma cerca di salvare il salvabile. Ma coloro che abbracciano la fede sono semplici copisti senza conoscenza, ostinati conservatori di opere delle quali però non capiscono minimamente il significato. Nella seconda parte del romanzo, “Fiat Lux”, si assiste a un nuovo Rinascimento che conduce infine alla riscoperta dell’energia elettrica. Mentre risorgono le monarchie e proliferano gli intrighi di palazzo per la conquista dell’egemonia, l’opera amanuense dell’Abbazia di Leibowitz prosegue imperterrita. Ma la Chiesa di Nuova Roma non è più l’unica depositaria del sapere umano. Un individuo ambizioso e capace, il Thon Taddeo, da completo autodidatta, sta recuperando conoscenze che si credevano perdute. Per completare le sue ricerche necessita di poter visionare gli antichi scritti conservati nell’Abbazia di Leibowitz, quei memorabilia ai quali gli uomini di fede hanno dedicato l’intera loro esistenza. L’Abate don Paulo ammira il Thon Taddeo, riconoscendone il grande valore di studioso e ricercatore. Teme tuttavia che la sua ricerca, condotta al di fuori della fede, alla luce della sola ragione, possa ricondurre l’uomo ai medesimi nefandi risultati del passato, quando la razza umana aveva rischiato l’estinzione. Inoltre, la confidenza del Thon Taddeo con la nuova monarchia, induce al sospetto che la sua missione non sia solo di ricerca... L’ultima parte del romanzo, “Fiat Voluntas Tua”, è ambientata in un mondo tornato agli antichi fasti e agli oscuri pericoli. La razza umana ha raggiunto altri pianeti, ma non ha rinunciato alla costruzione di armi atomiche di distruzione di massa. L’Abbazia di Leibowitz è sopravvissuta ai millenni, ma il suo ruolo è notevolmente mutato: la Scienza è di nuovo alla portata di tutti (o almeno di coloro che possono permettersela) e la Chiesa è relegata ai margini della vita quotidiana. La tensione è altissima: il timore che gli eserciti mondiali si scontrino ancora induce Nuova Roma alla realizzazione di un piano quanto mai ambizioso. Viene infatti predisposta un’astronave pronta a partire per la colonia di Alpha Centauri, dove iniziare un nuovo cammino di fede e di evangelizzazione.

Una visione d’insieme Con Un cantico per Leibowitz, pubblicato nel 1959, Walter Miller vinse il Premio Hugo nel 1961. Prima di allora l’autore si era segnalato per una quarantina di racconti di fantascienza apparsi su varie riviste a partire dal 1951. Dopo quella data, purtroppo, il nulla. La stampa di quello che è universalmente riconosciuto come il suo capolavoro coincise infatti con la fine della sua carriera: ritiratosi a vita privata, avrebbe inspiegabilmente smesso di pubblicare. Forse il livello del “Cantico” era parso a Miller stesso ineguagliabile. Allontanatosi successivamente anche dalla sua numerosa famiglia e afflitto da depressione, morì suicida nel 1996, dopo aver dedicato gli ultimi anni della sua vita alla stesura del seguito del suo capolavoro originario: Saint Leibowitz and the Wild Horse Woman. L’opera, lunghissima, fu terminata da Terry Bisson (a sua volta vincitore dei premi Nebula e Hugo) e pubblicata postuma nel 1997 (in Italia nel 2010, con il titolo San Leibowitz e il Papa del giorno dopo). Quale che fosse il giudizio che Miller riservava al suo romanzo è fuori dubbio che Un Cantico per Leibowitz sia opera tanto complessa, per lo sviluppo della trama e per i temi trattati, quanto straordinariamente riuscita, per la profondità delle riflessioni e per la qualità dell’esposizione, con una prosa mai banale, precisa, attenta ai particolari, ai dialoghi e alle descrizioni; che non teme di concedere largo spazio al latino ecclesiastico (spesso non tradotto); che si compiace di ricollegare eventi anche cronologicamente molto lontani fra loro; che varia con ingannevole semplicità dall’ironia spesso affettuosa all’amaro disincanto. Non possono che suscitare sorrisi l’ingenuità disarmante di Frate Francis all’inizio dell’opera, le follie imprevedibili del Poeta nella seconda, lo strano duello tra un perseverante anziano Abate, Don Zerchi, e una avveniristica macchina (“l’Abominevole Autoscrivano”) all’inizio della terza. Eppure il lettore non dimentica le aride distese radioattive fuori dall’Abbazia, il dolore di Don Paulo, il mistero che avvolge una parte degli avvenimenti narrati, presagendo la prossima tragedia e la mancanza di un lieto fine. All’ironia riservata ad atteggiamenti e debolezze, si affianca il rispetto per l’uomo, per i suoi valori e per le sue scelte: di fronte all’aridità del mondo e alla follia delle masse, di fronte al dolore e alla prevaricazione, i singoli individui, per quanto umili nelle capacità e negli obiettivi, si ergono quali coerenti modelli morali.

Lettura: Un Cantico per Leibowitz

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Lettura FANTASCIENZA Così, senza quasi accorgersene, rapito dal ritmo degli eventi che, in un cerchio tristemente perfetto, ripercorrono per molti aspetti quelli del passato, il lettore si ritrova a confrontarsi con gli stessi dilemmi e a tentare di dirimere i medesimi conflitti – quanto mai attuali e presenti – dei protagonisti del romanzo, mai soltanto passive vittime del contrasto tra fede e ragione, tra religione e scienza. Nel romanzo, Miller ha in effetti trasfuso le proprie esperienze, i propri dubbi, il proprio dissidio interiore. Nato da genitori cattolici, si arruolò nell’aviazione americana durante il secondo conflitto mondiale, partecipando così a più di cinquanta missioni su territorio italiano e balcanico. Particolarmente traumatici risultarono per lui il bombardamento e la distruzione dell’Abbazia di Montecassino. Nella realtà storica, un centro di sapere religioso viene distrutto dalla furia cieca e irrazionale della guerra; nell’immaginario del romanzo, proprio un’ab-

Abbazia di Montecassino (Cassino, FR), semidistrutta, alla fine della Seconda Guerra Mondiale foto: United States National Archives and Records Administration

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bazia è tra le pochissime strutture superstiti dopo la distruzione nucleare. Come nel Medioevo, l’Abbazia diviene luogo di recupero e così di salvezza per conoscenze di ogni ordine e tipo. La conservazione è parziale e portata avanti da uomini che non comprendono se non in minima parte quello che hanno tra le mani: significativamente, tra i memorabilia finiscono non solo libri, ma anche appunti, disegni tecnici, grafici. Viene addirittura considerata reliquia del beato Leibowitz una lista della spesa. Ma se, da un lato, l’incapacità di comprendere può essere metaforicamente letta come abissale distanza tra due mondi che non hanno modo di incontrarsi, la disperata lotta dei monaci che, a rischio della propria vita, tentano di porre al sicuro ciò che un domani potrebbe riportare agli uomini sicurezza e benessere, illumina, dall’altro la possibilità di un rapporto, di un contatto, di una sinergia. Il punto di vista della Chiesa è apparentemente semplice; è il precetto sinteticamente espresso da Don Paulo nella seconda parte del romanzo: la scienza che non sappia riconoscere i propri limiti è destinata a ripercorrere le medesime tragiche tappe che hanno rischiato di privare l’umanità del proprio futuro. A definire questi limiti non può essere chiamata che la superiore coscienza dell’uomo donata da Dio, sotto l’ala protettrice e maestra della Chiesa. Ma se nella seconda parte del romanzo l’incontro tra scienza e fede è evidentemente caldeggiato, nella terza parte la possibilità di un equilibrio diviene punto critico, come appare evidente in uno degli ultimi temi affrontati: l’eutanasia. I contaminati dalle radiazioni sono destinati a indicibili sofferenze; Don Zerchi, ultimo Abate dell’Abbazia di Leibowitz ne è consapevole e ha pietà per loro. Tuttavia, trovatosi di fronte ad una giovane madre che vuole porre fine alla sua vita e a quella della figlia in tenera età oramai condannata, lotterà con ogni sua forza per impedire loro il gesto estremo. La tensione di quelle pagine è vibrante d’angoscia: il conflitto tra il voler risparmiare dolore all’innocente per antonomasia e la strenua difesa di un principio assoluto è evidente e irrisolvibile. Del resto, sebbene l’ottica attraverso la quale il lettore si trova a leggere gli avvenimenti sia prevalentemente quella cattolica – i protagonisti sono in maggioranza monaci – invano si cercherebbe

Lettura: Un Cantico per Leibowitz


FANTASCIENZA

Abbazia di Montecassino come appare oggi, dopo la ricostruzione foto: Luca Binaghi nell’opera un’imposizione dottrinale o fideistica. Se Miller ben comprende le ragioni della Chiesa – se non sotto il profilo meramente logico, quantomeno in virtù della coerenza verso princìpi saldi – non può abbracciarle certo acriticamente. Ciò non stupisce: Miller non ha creato un quadro geometrico perfetto che chiude e obbliga. Ha dato voce a dissidi interiori, ad aporie, a conflittualità irriducibili: l’individuo è sospeso tra una realtà che si analizza, misura e pesa, e un’altra che si può distinguere solo con un atto di fede. E, al margine, il mistero, l’incomprensibile. Ecco allora, nella terza parte del romanzo, ricomparire un personaggio già apparso nella prima pagina (il pellegrino) e protagonista di diversi episodi nella seconda parte, migliaia di anni prima. Si direbbe un immortale, un santo. Ma qual è il suo soteriologico ruolo? Anche i più illuminati tra gli Abati non saranno in grado di comprenderne i segreti. E con loro neppure il lettore. L’immortalità appare semplicemente attesa fedele della realizzazione di una promessa, forse di nulla più che un segno.

Di fronte alla tragedia umana, il lettore, privo di sicuri baluardi, si ritrova allora nuovamente e improvvisamente solo. Il mondo del romanzo di Miller, dopo il dolore e l’angoscia, dopo il dubbio che ha travolto almeno apparentemente ogni certezza, si apre tuttavia alla speranza, quella che evidentemente il suo creatore non avrebbe invece saputo trovare. Una speranza lontana, in un altro mondo, dove tutto può ricominciare o ripercorrere ciclicamente i medesimi passi. La complessità dell’opera risulta poi accentuata, sotto più profili, dall’ingombrante presenza di alcuni personaggi, per esempio la signora Grales, mutante bicefala che sembra, per alcuni aspetti, riunire in sé la dualità che segna l’intera opera: equilibrio e follia, salvezza e condanna, purezza e contaminazione. Assoluta è infine l’attualità del romanzo, il quale, rifuggendo da descrizioni stucchevoli di improbabili realizzazioni tecnologiche, tratteggiando un mondo credibile per nulla appiattito su stereotipi, mantiene ancora oggi, a cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione, tutta la forza persuasiva e l’originalità di allora. n Luca Germano

Lettura: Un Cantico per Leibowitz

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PARIA DEI CIELI

(Pebble in the Sky - I. Asimov, 1950) di Francesco Troccoli

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ll’interno della vasta produzione letteraria del Maestro Isaac Asimov, il romanzo Paria dei Cieli, pubblicato nel 1950, terzo e ultimo del cosiddetto “Ciclo dell’Impero”, occupa un posto di rilievo. La storia è ambientata sulla Terra, il che rappresenta un’eccezione rispetto alla quasi totalità delle trame asimoviane. Nell’universo immaginario descritto (posteriore al “Ciclo dei Robot” e antecedente al “Ciclo della Fondazione”) esistono circa duecento milioni di pianeti abitati, riuniti sotto le insegne di un Impero guidato dal florido pianetacapitale Trantor, la cui autorità è rappresentata dal Procuratore imperiale – evidente il riferimento all’Impero Romano, su cui Asimov ha più volte dichiarato di aver basato il modello Galattico nelle sue varie fasi (in particolare nella decadenza). In un così sterminato contesto, il globo terrestre non è che uno dei numerosi pianeti abitati da esseri umani. La sua popolazione, nel nono secolo dell’Era Galattica, è oggetto di una violenta discriminazione razziale da parte degli altri cittadini dell’Impero. La memoria di pianeta originario del genere umano è pressoché perduta, ridotta al livello di discutibile teoria archeologica, di credenza mistica legata alla cultura dei suoi abitanti. In tutto l’universo conosciuto la Terra è semmai il solo mondo radioattivo, avvolta da una sinistra e costante luce di fondo blu, più intensa nelle zone maggiormente contaminate. Le risorse limitate permettono la sopravvivenza a non più di venti milioni di individui, uniti in una società contadina, al vertice della quale si trova una casta patriarcale e religiosa (la Società degli Anziani) che ha stabilito inviolabili regole per la salvezza dei superstiti. La più crudele e cinica è quella del sessagesimo, secondo cui ogni essere umano, salvo eccezioni motivate, deve essere sistematicamente eliminato al compimento del

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FANTASCIENZA sessantesimo anno di età. La ragione per cui la Terra è precipitata in una simile situazione non è nota; benché sia ipotizzata, non vi è alcuna certezza che la causa della radioattività sia stata una guerra. Un’allusione che nella sua vaghezza diventa per il lettore motivo di inquietudine. Nonostante la loro precaria condizione i terrestri si considerano un popolo eletto; le antiche leggende sul passato splendore alimentano istinti di rivolta mai sopiti, motore di una spinta centrifuga anti-imperiale che giunge fino a deliranti velleità di riconquista dell’intera Galassia attraverso l’uso di virus mutati dalla radioattività, ai quali i soli terrestri sono immuni. In questo scenario, dalle fievoli ma croniche caratteristiche postapocalittiche, si inserisce la vicenda personale del protagonista. Joseph Schwartz è un sarto in pensione nella Chicago del 1949; in una calda giornata estiva esce a passeggio e, colpito da un’emissione anomala generata da un laboratorio di ricerca nucleare, viene catapultato nel futuro e utilizzato come cavia per una sperimentazione mirata ad aumentare l’intelligenza umana. Sarà proprio questo rassegnato e inconsapevole naufrago del tempo, un troglodita del secondo millennio con una struttura encefalica primitiva, una folta peluria sul volto e quattro denti in più, a contribuire al superamento della stagnante crisi. Nel finale, con l’arresto dei cospiratori, i nuovi capi terrestri si decideranno a risanare il pianeta dalla sua contaminazione ambientale e forse anche da quella ideologica. Commento Nel 1950 la drammaticità degli avvenimenti che posero fine al secondo conflitto mondiale mise le basi per un nuovo tipo di angoscia esistenziale collettiva, di cui l’umanità non è più riuscita a liberarsi. Asimov affronta senza mezzi termini l’incubo della bomba atomica, il senso di colpa per la catastrofe già avvenuta e soprattutto il rischio di altre possibili tragedie future, capaci di segnare in modo indelebile la storia umana. Ansie comuni a molte storie di ambientazione postatomica, che in Paria dei Cieli, per via della collocazione in un futuro molto lontano da noi, raggiungono il parossismo. Si potrebbe guardare con un sorriso all’epoca postbellica che vide la nascita del romanzo, epoca nella quale un’umanità priva degli arsenali nucleari moderni inizia a fare i conti con il delirio delle armi atomiche. Ma, benché tutto ciò possa apparire una fantasticheria

anacronistica, un rapido esame dell’attuale capacità militare del nostro pianeta, abbinato a uno scenario politico instabile, non ci lascia illusioni: l’uomo non ha affatto raggiunto il suo svezzamento dai padri creatori di questa pazzia, e le angosce evocate dal romanzo si scoprono tutt’altro che superate. Nel 1982 Asimov aggiunse una postilla in cui precisò che, quando scrisse il romanzo, erano trascorsi solo quattro anni da una mostruosa esperienza bellica: le esplosioni nucleari e gli effetti a lungo termine della radiazione di basso livello sui tessuti viventi non erano ancora noti. L’intera storia si basa pertanto su un presupposto scientificamente errato, quello secondo cui il genere umano sarebbe potuto sopravvivere per decine di millenni in un ambiente radioattivo, sebbene al prezzo di difficoltà immani. Asimov precisa inoltre che non avrebbe avuto senso cambiare questa condizione, perché la radioattività terrestre è un requisito indispensabile della trama. Ma la mancanza di realismo scientifico in questo caso passa davvero in secondo piano, mentre l’inevitabile errore di fondo diventa humus fertile per una storia straripante di suggestioni. Nel binomio fanta-scienza il primo dei due elementi, la fantasia, prevale così ancora una volta sul suo pioniere per antonomasia, nonostante la consueta ricchezza di dettagli scientifici. Asimov obbliga a confrontarsi con un’infausta previsione: la nostra cultura spazzata via, ridotta a residuo paragonabile a ciò che oggi rimane del mito di Atlantide nell’immaginario collettivo. Un monito è lanciato dal lontano futuro verso il presente: la Terra rischia l’autodistruzione. Questo avvertimento sta alla base della demonizzazione dei terrestri, con la quale si finisce per essere solidali; che sia a causa di una guerra, da loro scatenata, o che invece sia una caratteristica naturale, la radioattività fa del pianeta un mondo deteriore popolato da una razza inferiore, un mondo contaminato nella natura e nell’etica, in cui non ci si avventura se non per necessità o costrizione. L’uso, mai dichiarato, dell’arma nucleare diventa l’infamia di una intera specie vivente sparsa nell’universo che, dimentica delle proprie origini, le rinnega (discriminazione anti-terrestre) e le nega (impossibilità di accettare che un mondo simile sia stato culla del genere umano). La Terra diventa un mito negativo da tacere e censurare. In qualche modo a ragion veduta. Rifiutata dall’umanità, finisce per chiudersi in un misticismo astratto e deplorevole. Il Pianeta è dunque un intoccabile paria dei cieli

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Isaac Asimov all’interno dell’Impero, così come paria è Schwartz in seguito al drammatico episodio che travolge la sua esistenza. E paria sono anche i protagonisti di una storia d’amore proibita: l’irruente archeologo imperiale Bel Avardan e la terrestre Pola Shekt. La sfida ai poteri e ai pregiudizi che decretano l’emarginazione dell’individuo e di un intero pianeta è una dominante narrativa; Asimov la risolve lasciando vincere il rapporto umano sui vincoli sociali e culturali. Si è spesso detto che la storia di Paria dei Cieli contenga un parallelo messianico. Affermazione indotta dalla formazione ebraica dell’autore e dalla caratterizzazione dello scenario: un piccolo stato semiautonomo all’interno di un immenso impero, in cui

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l’improvvisa venuta di un uomo ambiguo e dotato di poteri straordinari scuote l’amministrazione di un procuratore che detesta la sua stessa funzione, vivendola come un castigo, non comprendendo e rifiutando i riti e le credenze della razza che governa. In realtà, il modo dissacratorio in cui si svolge la storia rappresenta l’antitesi a qualunque credibile manifestazione di religiosità. In Asimov il rapporto umano nudo e puro prevale su qualunque misticismo, religione o credenza. Il presunto impianto messianico, oggettivamente marginale, si smonta negli espedienti narrativi che dimostrano come i fatti concreti della storia umana possano diventare pretesto per ideologie religiose e falsi sistemi di pensiero. A salvare l’uomo non è dunque la tecnologia, ma la sua irrazionale e sana umanità. L’umanesimo che Asimov ci presenta non ha nulla di religioso, ne è una conferma il finale positivo di un dramma individuale e collettivo apparentemente senza via di scampo. Anche la vicenda del protagonista si chiude nelle ultime righe con uno slancio vitale che interrompe la sua disperazione, trasformandola in una rinascita all’interno di un mondo tutto da scoprire. Paria dei Cieli prende spunto da un racconto dello stesso autore scritto qualche anno prima e intitolato Grow Old with Me. Per la stesura, Asimov si ispirò al poema Rabbi Ben Ezra dell’inglese Robert Browning, a cui rese omaggio utilizzando come chiusura del libro le prime righe del suo scritto: “Invecchia con me! Il meglio deve ancora venire, l’ultima parte della vita, di cui la prima è solo il preludio”. Si prova un brivido su queste parole piene di un’umanità tanto semplice quanto rara, regalate al lettore con infinita generosità. Se ai tempi di Asimov fosse esistita l’odierna imperante tendenza alle classificazioni, qualcuno avrebbe coniato il filone della “fantascienza positiva”, che ai nostri giorni è un eufemismo definire minoritario. Assediati da pessimismi e visioni apocalittiche, nel segno oscuro di Philip K. Dick, non possiamo che ringraziare ancora una volta Asimov per la sua positività. Oggi più di ieri. n Francesco Troccoli

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(The Postman - D. Brin, 1985) di Davide Mana “Né la neve né la pioggia né il caldo né l’oscurità della notte fermano questi corrieri dal completare rapidamente il proprio giro.” [motto dei postini americani - apocrifo]

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IL SIMBOLO DELLA RINASCITA

dito nel 1985 e insignito del Premio Locus e del Premio John W. Campbell, candidato sia per l’Hugo che per il Nebula, The Postman (uscito in italiano con i titoli L’Uomo del Giorno Dopo e Il Simbolo della Rinascita) è finora l’unico contributo dell’americano David Brin nel campo della narrativa postapocalittica. Il romanzo riunisce in effetti due novelle, The Postman e Cyclops, pubblicate da Brin negli anni Ottanta, entrambe nominate per il Premio Hugo; nel 1997, ne è stato anche tratto un film – prodotto, diretto e interpretato da Kevin Costner – demolito dalla critica, definito dallo stesso David Brin “un adattamento difettoso e ineguale, ma ambizioso, del mio racconto”. La storia si affaccia su un futuro devastato da cause lasciate (inizialmente) nel vago: forse una guerra atomica, forse un bombardamento di meteore, forse l’inquinamento. Tutte le conquiste scientifiche (intelligenze artificiali, manipolazioni biologiche e altro ancora) sono state spazzate via. Trascorsi sedici anni dal disastro, attanagliata da un debole eppure devastante inverno nucleare, la costa occidentale degli Stati Uniti è un panorama selvaggio di macerie e foreste, costellata di comunità spaurite e diffidenti che difendono con le armi il poco che posseggono; bande di razziatori e, sempre più spesso, survivalist estremisti vagano per la regione agli ordini di piccoli signori della guerra che si contendono il controllo di ciò che rimane. In questo scenario desolato Gordon Krantz, un uomo allo sbando che si guadagna da vivere recitando brevi brani di opere shakespeariane, s’imbatte in un furgone postale abbandonato al cui interno giace il cadavere di un portalettere.

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David Brin fonte: Wikimedia Commons La divisa del morto, indossata da Krantz per ripararsi dal freddo, alimenta tra i sopravvissuti l’equivoco che il servizio postale sia stato riattivato (e quindi che un apparato statale sia risorto), trasformando questo vagabondo da finto postino a vero e proprio simbolo di rinascita dell’America, imponendogli suo malgrado la responsabilità di guidare la lenta risalita dall’abisso. Col suo messaggio lucidamente positivista, il romanzo si fonda su concetti e pilastri narrativi ricorrenti nelle opere di Brin. Il più evidente è la critica feroce alle filosofie supremazioniste, “survivaliste” e – meno esplicitamente – all’oggettivismo randiano, i cui movimenti erano molto diffusi negli stati americani della costa pacifica tra gli anni Settanta e Ottanta (addirittura, presso l’Università di Berkeley, si tenevano mensilmente seminari gestiti dalla Società Oggettivista sulla liceità dell’egoismo quale essenziale bussola morale). Lo stesso Brin ha definito il proprio romanzo un testo “antisurvivalist”. È poi ironico – e l’ironia non sfugge certo all’autore – che l’emblema del ritorno alla civiltà sia un postino, l’ultimo ingranaggio di un servizio che in America associa roboanti dichiarazioni d’intenti (“né la neve, né la pioggia…”) a risultati spesso al di sotto delle aspettative. Chi resterebbe serio immaginando il proprio portalettere nei panni di Mad Max? Ma qui l’autore esegue un primo intelligente gioco di sostituzioni, perché se è vero che Gordon Krantz non è un postino, e che difficilmente un postino potrebbe improvvisarsi Mad Max, è anche vero che quest’ultimo sarebbe considerato il cattivo visto che, nel romanzo, gli “holnisti” (ovvero gli “ipersurvivalisti”, i propugnatori della sopravvivenza ad oltranza) rappresentano non solo un fenomeno deteriore, ma addirittura una minaccia al tessuto sociale. Essi han-

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no portato il darwinismo sociale alle sue estreme logiche conseguenze: la loro idea di società ammette la schiavitù, considera le femmine proprietà dei maschi, riconosce solo il diritto del più forte; c’è, forse, perfino una suggestione di cannibalismo, e di sicuro lo stupro è considerato un atto dovuto. È proprio questa mentalità, propugnata nel romanzo dal personaggio di Nathan Holn, la vera causa del crollo della civiltà. Se il timore per le emergenti intelligenze artificiali ha scatenato la breve guerra nucleare, e un tentativo di colpo di stato da parte degli “aumentati” (esseri umani fisicamente potenziati e utilizzati come truppe speciali) ha poi contribuito a mettere in ginocchio la società, a impedirle di risollevarsi è stata in ultima analisi l’azione dei “comuni” survivalist che, motivati dalla paura, voltano le spalle al prossimo abbracciando una forma deteriore e terminale di egoistico “ognun per sé, Dio per tutti.” Gordon Krantz osserva con amarezza che, se la società civile avesse accumulato provviste con la stessa efficienza con cui ha ammassato munizioni, molti problemi si sarebbero risolti da soli. Altro elemento portante della narrativa di Brin, ugualmente evidente ma più sottile, è l’heinleiniano precetto del TANSTAAFL, ovvero “There ain’t no such thing as a free lunch”: non esistono pranzi gratuiti, le scelte si pagano. Sempre ispirata a Robert Heinlein è l’idea – connessa alla precedente – che le masse debbano essere talvolta ingannate per il loro stesso bene. Ma se l’eroe heinleiniano, conscio del fatto che nessuno possa mangiare gratis, è in fondo un superuomo corazzato contro le ripercussioni morali dei propri inganni, quelli di Brin sono uomini comuni, e Gordon Krantz paga la rinascita della civiltà con la propria personale dannazione: la necessità di prendere decisioni dalle quali la sua coscienza non lo potrà mai affrancare. Krantz è un eroe riluttante, un mistificatore (involontario, per lo meno all’inizio) che rimane prigioniero della propria simulazione. Anche in questo caso Brin capovolge un cliché, perché l’inganno si rivela un elemento positivo: la spinta che la popolazione attendeva per tornare a organizzarsi e uscire dalle tenebre della barbarie. Tuttavia Krantz non è l’unico simulatore presente nella storia… Ancora più complessa, e molto meno accidentale, è la menzogna costruita dagli scienziati dell’Università dell’Oregon sull’esistenza di un’ultima intelligenza artificiale scampata al conflitto, falsità attorno alla quale ruotano le situazioni esposte nella

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FANTASCIENZA

Ciclo delle Cinque Galassie

Il Simbolo della Rinascita (L’uomo del giorno dopo, The Postman, 1985)

Spedizione Sundiver (Sundiver, 1980)

Nel Cuore della Cometa (Heart of the Comet, 1986) con Gregory Benford

Le Maree di Kithrup (Startide Rising, 1983)

Terra (Earth, 1991)

I Signori di Garth (The Uplift War, 1987)

Glory Season (1993)

trilogia “Upflit Storm”

Foundation’s Triumph (1999)

Il Pianeta Proibito (Brightness Reef, 1995)

Kiln People (2002)

Le Rive dell’Infinito (Infinity’s Shore, 1996) I Confini del Cielo (Heaven’s Reach, 1998)

Altri Romanzi L’Effetto Anomalia (The Practice Effect, 1984)

seconda metà del libro. La popolazione ha insomma bisogno di credere in qualcosa per ritrovare la speranza, “miti” che devono però ancorarsi a radici reali, alimentati da un autentico investimento emotivo e sociale; perché nell’universo positivista di David Brin le chiacchiere contano molto meno dei fatti. È per questo che il vero punto di svolta nella rinascita della civiltà non è costituito dal Servizio Postale dei Restaurati Stati Uniti d’America – bugia che progressivamente diviene realtà – né tantomeno da una macchina intelligente e dalla sua promessa di risposte facili a ogni problema – che fandonia nasce e tale rimane –; è necessario invece un sacrificio che dia origine ad un mito autentico, una leggenda potente attorno alla quale la popolazione possa stringersi. Esiste insomma un prezzo da pagare. Nel romanzo, il carburante per il mito è il martirio di quaranta donne in una battaglia tanto stupida quanto superflua, che tuttavia segnerà la definitiva scomparsa

Romanzi a fumetti Forgiveness (2002) The Life Eaters (2003)

Raccolte di racconti The River of Time (1986) Otherness (1994) Tomorrow Happens (2003)

della minaccia holnista. Ben lontano dal banale, l’episodio definisce forse l’elemento più potente ma meno esplicito alla base del romanzo: il potere e la forza delle donne. Il personaggio di Dena, col suo esercito di amazzoni e la sua spicciola filosofia femminista, dà voce al buon senso e alla ragionevolezza. Tutti i personaggi femminili del romanzo sono particolarmente forti e importanti; si è portati a credere che Brin consideri le donne, in fondo, moralmente migliori degli uomini, ma l’autore, a differenza di vari suoi contemporanei (James Tiptree Jr., ad esempio), sfugge alla retorica evitando in realtà di cavalcare questo concetto: il genere femminile è anzi corresponsabile del disastro, per aver accettato la seduzione dell’holnismo o per aver semplicemente rinunciato a opporvisi. Infatti, a uguali responsabilità verso la distruzione della civiltà, corrispondono uguali gravosi contributi alla sua rinascita. n Davide Mana

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FANTASCIENZA

METRO 2033

(Metro 2033 - D. Glukhovsky, 2005) di Luca Germano

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l ventenne Artyom non ha mai visto una foresta, un lago, una montagna, se non in fotografia: l’orizzonte del suo sguardo coincide con i ben miseri confini di una stazione della metropolitana di Mosca, la VDNKh (centro fiere), dalla quale non si è mai allontanato. Il mondo in cui vive è buio, claustrofobico e mortalmente pericoloso. Ed è un mondo con poche speranze e molte paure. Artyom non ha che vaghi ricordi di quel che era la vita fuori della metropolitana, prima che la guerra nucleare distruggesse ogni cosa; una volta è risalito in superficie, una sola volta, di notte, poiché la luce del sole, dopo gli anni passati nell’oscurità dei sotterranei, lo avrebbe accecato. E ha visto il cielo stellato: un breve momento di pura estasi. Poi il terrore, la fuga. E una terribile, inconfessabile colpa. Alla speranza di quel breve viaggio si è sostituito il quotidiano incubo: il mondo di superficie non appartiene più all’uomo ma a mostruosità indescrivibili, e il rifugio offerto dalla metropolitana diviene di momento in momento più instabile. Forse la sua stazione riuscirà a creare una salda alleanza con le stazioni vicine, ma in tutti coloro che vivono nella VDNKh è ferma la convinzione che non vi saranno mai cartucce sufficienti né abbastanza uomini per respingere anche gli attacchi di ciò che proviene dall’esterno, dal loro vecchio mondo. Umanoidi dalla pelle nera, i Tetri, sciamano a ondate verso la VDNKh: non sembrano patire dolore né partecipare di alcuno dei sentimenti umani. Vengono trafitti da centinaia di colpi, a decine i loro compagni cadono a terra per non più rialzarsi. Eppure continuano ad avanzare finché in piedi non ne rimane alcuno. Nessuno riesce a sopportare la loro vista: la mente vacilla, ogni determinazione viene cancellata, ogni equilibrio distrutto. E non si può fuggire perché, se la VDNKh cede, i Tetri dilagheranno nel resto della metropolitana. La VDNKh ha bisogno di aiuto. E la missione di cercarlo verrà affidata proprio ad Artyom.

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FANTASCIENZA

Commento Metro 2033 è un romanzo nato dall’apporto di più autori: Dmitry Glukhovsky ovviamente, al quale si deve l’impianto principale e la revisione d’insieme, ma anche tutti coloro che hanno veduto pubblicata on-line la prima stesura e hanno potuto aggiungere e modificare scene, episodi e situazioni. La genesi dell’opera ha non poco influito sullo sviluppo della trama che, così, a tratti si presenta eccessivamente piana, ripetitiva, apparentemente priva di sbocchi interessanti, come pure, in altri passi, complessa, affascinante, convincente. A non mancare quasi mai è la giusta atmosfera: claustrofobica, chiusa, opprimente e tale da rendere dolorosamente e crudelmente credibile il mondo creato da Glukhovsky, una distopia allucinata e cacofonica dell’attuale società russa, straziata da notevoli contraddizioni interne. In effetti, nel mondo postatomico sotterraneo, l’umanità mortalmente ferita non ha saputo che ricreare, in scala necessariamente ridotta, le medesime illogiche incomprensioni, cieche illusioni, stolte paure e fanatiche certezze che l’hanno sempre contraddistinta e che ne hanno cagionato la rovina. A tal riguardo, nel romanzo nulla si dice in merito all’origine del conflitto, agli schieramenti in campo, alle ragioni dell’una o dell’altra parte, risultando ovvio, dalle nefande conseguenze di una guerra di siffatta entità, che non vi può

essere alcun credo o propugnato valore che ne possa in una qualsiasi misura, anche minima, dare giustificazione. Eppure, nonostante le sue mortali debolezze, la razza umana continua a sopravvivere: non ha più il sole, non ha più l’aria aperta, ma ancora non si dà per vinta. Di gallerie fatiscenti ha fatto campi per la “coltivazione” dei funghi; delle piattaforme delle stazioni ha fatto le proprie case; di quelli che un tempo avrebbe chiamato rifiuti ha fatto ora merce di scambio. Poiché la mente dell’uomo è formidabile, così piena di risorse... e di terribili lati oscuri. Così, nel sottosuolo è nata l’Hansa, una lega di stazioni che – ad imitazione della Lega Anseatica del XII secolo – ha fatto del commercio la sua fonte prima di ricchezza; e così è sorta la Polis, un luogo per molti quasi leggendario (composto per il vero da quattro diverse stazioni), dove si curano in pari misura arte e forza militare, come accadeva nelle antiche città greche. Ma è pure sorto il cosiddetto Quarto Reich, dominato dal totale disprezzo per il diverso, e si è combattuta l’ennesima guerra ideologica, provocata dai nostalgici del Comunismo (chiamati “i Rossi”). Di questo mondo spietato che un tempo si poteva percorrere in poche ore, Glukhovsky indica subito, significativamente all’inizio, i nuovi confini, non solo quelli meramente spaziali. Artyom non difende

Lettura: Metro 2033

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FANTASCIENZA uno stato di migliaia di persone e non controlla una frontiera misurabile in chilometri: il confine del mondo che ha sempre conosciuto è il confine di una stazione, quello della VDNKh. Poche centinaia di metri. Al buio. Una piccola città-stato che non può contare su nessuna reale risorsa. Si produce solo un tè derivato da funghi essiccati, che tutti, una volta abituati al sapore, trovano squisito; niente di più. Di fronte alla miserevolezza del dominio umano, ecco sull’altro lato l’infinità e indeterminabilità del tempo, che ha perduto l’alternanza di giorno e notte; l’insondabilità di ciò che si nasconde nelle profondità della terra, sotto la linea della metropolitana; la malvagità infinita di ciò che è alieno e non si può comprendere. L’uomo è circondato, oppresso, schiacciato da tutti gli incubi che non ha mai in realtà saputo affrontare, ma che si è illuso di aver addirittura battuto. E, nonostante questo, rimane incapace di creare un fronte comune: coloro che abitano le stazioni esterne, le più vulnerabili a ciò che ha scacciato l’uomo dalla superficie, normalmente non ricevono aiuti dalle altre città. Al più possono contare sul calcolo opportunistico dei vicini, che non li attaccheranno solo finché li giudicheranno utili alla difesa dei loro interessi. Se un giorno la minaccia delle forze del mondo di superficie divenisse insostenibile, i vicini non esiterebbero a far saltare i tunnel di collegamento, condannando i difensori all’isolamento e alla morte certa. Come già è successo in passato. In questo mondo d’incubo, che non pochi considerano letteralmente alle porte dell’Inferno, inizia il viaggio di Artyom, perseguitato dal suo senso di colpa e dal terrore ingenerato dai Tetri. Incontrerà numerosi e strani personaggi, taluni inquietanti, altri sorprendentemente ironici. Molti scompariranno all’improvviso dalla scena così come vi erano entrati; altri troveranno una fine dolorosa. Tutti saranno fonte di notevole riflessione da parte di Artyom, sul senso della vita, sull’esistenza di Dio, sulla necessità di una morale. Onnipresente un silenzio cupo, vuoto, insondabile che pare immenso e sovrumano nonostante le dimensioni del luogo che esso avvolge, ridotte se paragonate agli sterminati spazi del mondo di superficie. E, quando il silenzio verrà a mancare, sorgerà il rumore delle

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mitragliatrici, l’urlo dei feriti e dei morenti. Protagonista indiscussa è la metropolitana, nella realtà come nella finzione, uno dei più grandi rifugi antiatomici esistenti e collegata con vie segrete a bunker strategici. Durante il viaggio, Artyom affronterà pericoli di ogni sorta, taluni sovrannaturali, tutti potenzialmente mortali. Verrà picchiato, torturato e condannato a morte. A volte riuscirà a trovare autonomamente la via della salvezza; più spesso l’aiuto insperato verrà dall’esterno. Tanto da spingerlo a credere che la sua missione è realmente giusta, in quanto sostenuta dalle forze superiori del Destino. Eppure qualcosa non torna. La penna di Glukhovsky lo suggerisce, in brevi descrizioni, in rapide osservazioni. Tutto verrà sapientemente celato fino all’inatteso finale che è forse uno dei maggiori punti di forza del romanzo e che riesce nel difficile intento di essere un credibile, coerente e amaro spunto di riflessione. Il giudizio complessivo è sostanzialmente buono: purtroppo l’atmosfera cupa e angosciante accompagna uno sviluppo di trama in molte occasioni eccessivamente piano e ripetitivo, benché l’autore sia riuscito a caratterizzare in modo soddisfacente ogni stazione/ città-stato e abbia introdotto personaggi tutto sommato variegati e verosimili. Il calo di tensione di molti episodi senza dubbio opachi è fortunatamente controbilanciato da un numero discreto di scene che invece colpiscono d’immediato il lettore e lo rapiscono catapultandolo nel medesimo incubo che vive il protagonista: annichilente la visione di Mosca distrutta dalle bombe nucleari; inquietanti le creature di superficie e ancor più la mostruosità che si cela al di sotto del Cremlino; dolorosamente affliggente il diario di una sopravvissuta dell’esterno; terribilmente crudele la vicenda del piccolo Oleg. Non a caso di Metro 2033 è già stato realizzato un seguito e un discreto videogioco già in vendita in Italia. La sensazione è tuttavia quella di un romanzo che, con ulteriore intervento unificatore da parte dell’autore principale e una accurata rivisitazione di molti episodi, avrebbe potuto risultare sensibilmente migliore. n Luca Germano

Lettura: Metro 2033


Lettura FANTASCIENZA

(M. Torrealta, E. Del Giudice, 2010) di Cristina Donati

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IL SEGRETO DELLE TRE PALLOTTOLE

i sono molti modi per raccontare una storia, e in genere è l’autore a decidere la strada più adatta, il punto di vista più coerente con la propria immaginazione, l’impronta che rende unico e personale ogni racconto. Eppure a volte la via del romanzo è una scelta obbligata, se quello che si vuole raccontare sfiora universi tanto reali quanto assurdi e fa rischiare conseguenze più sgradevoli della stroncatura di un critico letterario. Per Il Segreto delle Tre Pallottole forse è successo proprio questo, perché magari esporre il tutto in altro modo sarebbe stato troppo… complicato. Il titolo può far pensare a un giallo da quattro soldi o a un western di bassa categoria, ma la vicenda non è proprio così: parla di un’inchiesta giornalistica – avviata a partire dagli anni Ottanta – su alcune scoperte relative al nucleare, e su alcuni aspetti delle loro applicazioni belliche a tutt’oggi ancora in evoluzione. In opere come questa, è importante focalizzare i protagonisti, che al di là degli pseudonimi sono gli stessi autori del libro: il giornalista Maurizio Torrealta, il suo team, e il professor Emilio Del Giudice. Maurizio Torrealta è un giornalista: uno dei fondatori di Radio Alice, è stato redattore del Tg3 e ha collaborato con la trasmissione radiotelevisiva “Samarcanda”. Attualmente lavora per RaiNews24. Ha pubblicato Ultimo. Il capitano che arrestò Totò Riina (Feltrinelli, 2001) e La trattativa. Mafia e Stato: un dialogo a colpi di bombe (Editori Riuniti, 2002). Emilio Del Giudice è laureato in Fisica e specializzato in Fisica Teorica all’Università di Napoli, ateneo presso il quale è stato prima professore incaricato (Teoria delle Forze Nucleari, Fisica delle Particelle Elementari, Fisica per Geologi) e poi assistente ordinario (Fisica Teorica). Oggi è ricercatore dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), sezione di Milano, e vicepresidente della Fondazione Omeopatica Italiana. I suoi interessi di ricerca: Fisica delle Particelle Elementari, Fisica della Materia Con-

Lettura: Il Segreto delle Tre Pallottole

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Lettura FANTASCIENZA dall’Appendice (pag. 211)

Manifesto Russell-Einstein

Londra, 9 luglio 1955 Lettera ai governanti del mondo In considerazione del fatto che in ogni futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi mettono in pericolo la continuazione stessa dell’esistenza dell’umanità, noi rivolgiamo un pressante appello ai governi di tutto il mondo affinché si rendano conto e riconoscano pubblicamente che i loro obiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale e li invitiamo, di conseguenza, a cercare mezzi pacifici per la soluzione di tutte le questioni controverse fra loro. [...] Parliamo in questa occasione non come membri di questa o quella Nazione, Continente o Fede, ma come esseri umani, membri della razza umana, la continuazione dell’esistenza della quale è ora in pericolo. [...] L’opinione pubblica e anche molte persone in posizione autorevole non si sono rese conto di quali sarebbero le conseguenze di una guerra con armi nucleari. [...] È fuori di dubbio che in una guerra con bombe all’idrogeno le grandi città sarebbero distrutte; ma questo è solo uno dei minori disastri cui si andrebbe incontro. [...] noi ora sappiamo, specialmente dopo l’esperimento di Bikini, che le bombe nucleari possono gradatamente diffondere la distruzione su un’area molto più ampia di quanto non si supponesse. [...] Una bomba all’idrogeno che esploda vicino al suolo o sott’acqua invia particelle radioattive negli strati superiori dell’aria. [...] Nessuno sa quale grandezza di diffusione possano raggiungere queste letali particelle radioattive, ma le maggiori autorità sono unanimi nel ritenere che una guerra con bombe all’idrogeno potrebbe molto probabilmente porre fine alla razza umana. Si teme che, qualora venissero impiegate molte bombe all’idrogeno, vi sarebbe una morte universale, immediata solo per una minoranza mentre per la maggioranza sarebbe riservata una lenta tortura di malattie e disintegrazione. [...] Questo dunque è il problema che vi presentiamo, netto, terribile ed inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l’umanità dovrà rinunciare alla guerra? [...] L’abolizione della guerra chiederà spiacevoli limitazioni della sovranità nazionale, ma ciò che forse più che ogni altro elemento ostacola la comprensione della situazione è il fatto che il termine “umanità” appare vago ed astratto, gli uomini stentano a rendersi conto che il pericolo è per loro, per i loro figli e loro nipoti e non solo per una generica e vaga umanità. E così sperano che forse si possa consentire che le guerre continuino purché siano vietate le armi moderne. Questa speranza è illusoria. Per quanto possano essere raggiunti accordi in tempo di pace per non usare le bombe all’idrogeno, questi accordi non saranno più considerati vincolanti in tempo di guerra [...] Firmatari: Max Born, Percy W. Bridgman, Albert Einstein, Leopold Infeld, Frédéric Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat, Bertrand Russell, Hideki Yukawa

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densata, Fisica dei Sistemi Biologici. Presenta al suo attivo numerosissime pubblicazioni, tra cui First Steps Toward an Understanding of «cold» Nuclear Fusion assieme a Giuliano Preparata e Tullio Bressani. Poi ci sono altri personaggi: la città di Khiam (Libano), Gaza, la guerra dei Balcani e “Desert Storm”, Martin Fleischmann, EdwardTeller, Robert Oppenheimer, l’esercito israeliano e quello americano, e tanti altri. Tutti in veste fantastica, naturalmente. Il romanzo ha una chiave di lettura evidente; c’è uno scheletro di elementi non immaginari uniti da collegamenti scritti in forma romanzata, ma distinguibili nella massima parte dei casi attraverso un piccolo particolare tecnico: interviste, inchieste, fatti documentati sono in corsivo, e, guarda caso, costituiscono la parte principale. In questo libro, separare trama e giudizio non è possibile: la storia si commenta da sola, come un episodio di cronaca nera letto non per valutare la bravura del redattore ma per riconoscere il killer che abbiamo alla porta. Il Segreto delle Tre Pallottole inizia una notte d’estate di vent’anni fa. Il professor Fleischmann, il padre della fusione a freddo, conosciuta dalla massa come la più grande bufala scientifica sul nucleare, è in viaggio per Londra: deve operarsi all’intestino, invaso da centinaia di piccoli tumori la cui origine è incomprensibile, ma perde la coincidenza aerea e deve fermarsi a San Francisco. Nell’albergo trovato casualmente all’ultimo momento, riceve la telefonata di Edward Teller, colui che ha ispirato il film Il Dottor Stranamore e almeno un romanzo di Philip K. Dick, Cronache del Dopobomba. Teller è uno dei realizzatori della bomba all’idrogeno, e ha ricevuto nel 1991 il premio Nobel per la pace. Motivazione: “Per aver dedicato la vita al cambiamento del concetto di pace quale era stato inteso sinora”. E questa non è fantasia ma storia. Tornando al romanzo, qualcuno è al corrente degli spostamenti del professor Fleischmann. Perché viene seguito e, soprattutto, informato di essere seguito? Le vicende si spostano diversi anni più tardi. Claudio – il giornalista del romanzo – viene informato che un gruppo di scienziati dell’ENEA, acronimo per Energia Nucleare ed Energie Alternative, derivato dal CNRN (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) e dal CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare), sta conducendo studi sulla fusione fredda, ma gli interessanti risultati positivi ottenuti non vengono presi in considerazione. Perché? Una gentile e determinata dottoressa dell’Enea informa Claudio circa alcuni possibili gruppi – accade-

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FANTASCIENZA mici, privati, o forse nessuna delle due cose – che non desiderano la diffusione di questi dati. Altri elementi arrivano da un fisico teorico, Kurt Grass, che ha lavorato sull’argomento: se, invece di caricare con idrogeno o deuterio un metallo come il palladio, si utilizza l’uranio, è possibile provocare una reazione nucleare superando il problema della massa critica, che rende enormi gli ordigni nucleari a fusione calda (minimo 8 Kg di uranio). In questo modo, invece, è possibile creare bombe piccole quanto una pallottola con la potenza di 20.000 tonnellate di tritolo. E questo NON deve essere risaputo. Punto. Il problema di tante iniziative pacifiste, anti nucleari, anti tutto, è di avere spesso molto fumo e poca sostanza: mancano le prove, ma a volte, in qualche fortunata congiunzione astrale, qualcuno, magari sottovoce, parla. Così accade nel romanzo, e allora la curiosità, l’istinto e il desiderio di capire fanno sì che Claudio e il suo team inizino un’indagine a 360 gradi, per la quale sono necessarie informazioni sulla fusione fredda. La fusione fredda, o LENR (Low Energy Nuclear Reactions), è una serie di reazioni nucleari riguardanti nuclei di idrogeno caricati dentro metalli pesanti, i quali funzionano come una specie di spugna dove tali nuclei vengono costretti a unirsi rilasciando energia. Il processo, stimolato attraverso una leggera corrente elettrica, ha una resa da cinque a venticinque volte superiore rispetto all’energia iniziale fornita. Al giornalista viene confermato che, nonostante siano comprovati dagli esperimenti, tali risultati non vengono diffusi, non vengono pubblicati gli articoli relativi, non vengono rinnovati i finanziamenti. Al contrario, la Francia è molto interessata agli sviluppi di questa ricerca, peccato però che il dottor Renè Pellat, alto commissario della CEA (Commissariat à l’Énergie Atomique et aux Énergies Alternatives), muoia all’improvviso quindici giorni dopo l’incontro con gli scienziati italiani. Ci sono altre morti collegate a questa storia, ognuna delle quali appartiene alla cronaca: un fisico teorico italiano deceduto nel 2000 (Giuliano Preparata?) per microtumori all’intestino (gli stessi di Fleischmann?) e Eugene Mallove, caporedattore dell’ufficio stampa del MIT di Boston (ucciso a bastonate nel 2004) che aveva scoperto gravi alterazioni dei dati sulla fusione fredda nella relazione del Centro Ricerche sui Plasmi pubblicata nel 1989. La spiegazione del titolo arriva alla fine del libro, assieme a un’inquietante consapevolezza. A dispetto di tutti i trattati di non proliferazione del nucleare a scopo bellico, degli accordi plurilaterali circa il veto

all’impiego di armi atomiche, queste sarebbero già in uso da anni. Più piccole e meno scenografiche di quelle di Hiroshima e Nagasaki, ma per il resto esattamente equivalenti. Con un piccolo proiettile atomico è possibile sventrare un edificio, creare un cratere radioattivo, amputare arti senza che le vittime quasi se ne accorgano. Soprattutto, e questo sembra essere il vero scopo, è possibile ottenere l’effetto più sporco e disumano delle bombe atomiche: la contaminazione di aria acqua e suolo attraverso polveri fatte di nano particelle che nessun filtro riesce a bloccare, l’avvelenamento lento e apparentemente senza colpevoli di popolazioni che abitano l’area interessata. Del resto, le bombe DIME (Dense Inert Metal Explosive) esistono ufficialmente: sono ordigni che coniugano esplosivi come l’HMX o l’RDX con piccole quantità di materiale inerte (per esempio il tungsteno), allo scopo di controllare il raggio d’esplosione, nonché ottenere effetti concentrati e potenziati sugli obiettivi colpiti. Il tutto è inglobato in fibre di carbonio. A questo punto, cosa vieta di immaginare che queste DIME possano essere fabbricate con uranio caricato ad atomi d’idrogeno? Al momento dell’impatto non si otterrebbe una deflagrazione normale ma nucleare, le cui tracce chimiche sarebbero alquanto anonime. Resterebbe però la radioattività, rilevabile con semplici strumenti e impossibile da cancellare direttamente: l’unica cosa sarebbe schermarla, sotterrarla. Nasconderla. Ecco perché servono tre pallottole, che ricordano un po’ il gioco delle tre carte. Qui, la prima pallottola che esplode è all’uranio cosiddetto impoverito, ma non esiste se non nei musei; la seconda contiene uranio sporco (leggermente arricchito), e questa esiste eccome, ma la sua presenza viene facilmente sviata; la terza è quella di cui nessuno deve sospettare l’esistenza, “coperta” dalle prime due. Il libro non ha una vera e propria conclusione, ma emerge un fatto circa questi ordigni atomici così piccoli e potenti: sarebbero già stati usati durante la Guerra dei Balcani, a Khiam, a Gaza, a Bassora e in chissà quanti altri scenari di guerra su cui non abbiamo dati, indipendentemente da colori, schieramenti, ideologie, religioni. La cosa certa è che quando una bomba di questo tipo esplode, il suo contenuto inizia a innescare reazioni nucleari, a liberare nanoparticelle radioattive, invisibili, inodori, letali. Immaginiamo che queste polveri prendano la via del vento: il vento, come sappiamo, “non sa leggere”, quindi è inutile pregarlo di non depositarle sulla nostra casa, sui nostri figli e sul nostro futuro. n Cristina Donati

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Cronaca

Cronaca

FANTASCIENZA

Hiroshima e Nagasaki

L’ALBA DEL NUCLEARE di Cristina Donati

I

l 6 agosto 1945, poco prima dell’alba, il quadrimotore B-29 americano “Enola Gay” decolla dall’isola di Tinian (arcipelago delle Marianne) e si dirige verso il Giappone. Alle 8.15 ora locale raggiunge la città di Hiroshima, sulla quale sgancia una bomba atomica all’uranio chiamata “Little Boy”, che esplode a 580 metri da terra sviluppando una potenza stimata di circa 15 kiloton, pari a 15 mila tonnellate di tritolo. Il 9 agosto, alle 11.02 ora locale, un altro bombardiere americano, il “Bockscar”, colpisce la città di NagaJ. Robert Oppenheimer saki con una bomba al plutonio soprandirettore del “Progetto Manhattan” foto: U.S. Government (fonte: Wikimedia Commons) nominata “Fat Man”, la cui esplosione libera una potenza di circa 21 kiloton. Il giorno successivo, l’Imperatore Hirohito ordina ai propri vertici militari di accettare una resa praticamente senza condizioni. Antefatti Lo scenario bellico Dopo la caduta delle Isole Marianne nel luglio del 1944, la sconfitta del Giappone appare imminente. L’impero nipponico è stato ripetutamente battuto dalle forze aeree alleate e pesantemente bombardato: il solo raid su Tokyo nel marzo del ‘44 ha ucciso circa 90 mila persone e ne ha ferito più di 160 mila; un secondo attacco aereo nel maggio dello stesso anno ha provocato 83 mila vittime. Inoltre, un blocco navale impedisce l’importazione di materie prime e quindi la possibilità di produrre materiale bellico. Per di più, nel maggio 1945, la resa della Germania consentirà agli alleati di concentrare truppe e risorse sul fronte del Pacifico. Lo scenario politico Il 12 aprile 1945 muore Franklin D. Roosvelt, e il suo vice Harry S. Truman gli subentra nella carica di presidente degli Stati Uniti. Truman viene informato nei det-

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FANTASCIENZA tagli sul Progetto Manhattan e prende immediatamente in considerazione l’utilizzo della bomba atomica contro i Giapponesi, asserendo di aver ben compreso l’importanza degli ordigni nucleari per le iniziative diplomatiche e militari presenti e future. L’Operazione Downfall, ovvero l’invasione delle isole Kyushu e Honshu progettata in precedenza, viene definitivamente messa da parte. È infatti opinione comune che il fanatismo dei Giapponesi costerebbe agli Stati Uniti un enorme tributo in vite umane nel caso di uno sbarco terrestre, mentre una o più atomiche sarebbero decisive nello stroncare ulteriori ostilità. In effetti, la casta militare e un’esaltazione collettiva di tipo razziale spingono i nipponici a continuare la resistenza: giovani piloti suicidi, i kamikaze, si gettano con i loro aerei sulle navi nemiche per affondarle. Tra le alte cariche americane esistono tuttavia opinioni contrastanti: il generale MacArthur sottolinea la situazione critica in cui versa il nemico su tutti i fronti; il Capo di Stato Maggiore americano Leahy afferma che non c’è necessità di usare la “bomba”; dello stesso parere è il generale Eisenhower, che ritiene i Giapponesi pronti comunque alla resa. Byrnes, il consigliere più influente di Truman, è invece favorevole all’ipotesi di attacco atomico. Esiste inoltre un elemento di analisi che prescinde dalla “situazione giapponese”: un bombardamento nucleare sul Giappone costituirebbe in realtà un messaggio “laterale” per l’Unione Sovietica (in procinto anch’essa di dichiarare guerra all’Impero del Sol Levante). Un ingresso attivo russo nello scacchiere del Pacifico è assolutamente da evitare, per scongiurare future dispute territoriali e strategiche. Il lancio delle bombe su Hiroshima e Nagasaki potrebbe quindi essere considerato il primo atto della futura Guerra Fredda. La Dichiarazione di Potsdam (ovvero Proclamation Defining Terms for Japanese Surrender) Durante la Conferenza di Potsdam (Germania, dal 17 luglio al 2 agosto 1945), indetta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica per esaminare le questioni concernenti il quadro politico europeo dopo la vittoria sulla Germania, si discute anche della guerra sul Pacifico: Harry Truman, Winston Churchill e il presidente cinese Chiang Kai-Shek firmano un documento che delinea i termini di un ultimatum al Giappone.

I “Tre Grandi” alla Conferenza di Potsdam Da sinistra: Winston Churchill, Harry S. Truman, Iosif Stalin foto: U.S. Government (fonte: Wikimedia Commons) La bomba atomica è stata collaudata con successo il 16 luglio attraverso il Trinity Test, effettuato nel campo di tiro di Alamogordo (New Mexico), conosciuto come “Jornada del Muerto” (viaggio del morto), 340 km a sud di Los Alamos dove l’ordigno è stato prodotto. La sera del 26 luglio 1945 (mattino del 27 luglio a Tokyo) l’ultimatum – noto come Dichiarazione di Potsdam – viene trasmesso al governo giapponese: si chiede la resa incondizionata, pena un’immediata e completa distruzione. L’assenza di qualsiasi garanzia circa il destino dell’Imperatore (considerato una divinità, nonché il cuore del popolo e della cultura nipponica) costituisce l’ostacolo principale alla capitolazione. Il giorno seguente i giornali giapponesi riportano la dichiarazione, il cui testo viene diffuso anche radiofonicamente. Ma il governo militare la respinge. Già nel maggio 1945 erano stati indicati i possibili obiettivi di un bombardamento atomico: Kyoto, Hiroshima, Yokohama e Nagasaki. La scelta era determinata da tre criteri: il luogo da colpire avrebbe dovuto essere un centro importante e misurare un diametro maggiore di tre miglia (circa 5 km); l’esplosione avrebbe dovuto creare un danno effettivo; nel caso di un obiet-

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Cronaca FANTASCIENZA

Paul Tibbets (al centro) e parte dell’equipaggio davanti all’Enola Gay foto: U.S. Government (fonte: Wikimedia Commons)

tivo strettamente militare, la collocazione avrebbe dovuto trovarsi comunque all’interno di una vasta area urbana. Tutto ciò per evitare il rischio di mancare il bersaglio e quindi “sprecare” la bomba, e per esaltare al massimo gli effetti psicologici e “spettacolari” sulla popolazione, sul governo giapponese e sul mondo intero. Alla fine, Kyoto viene risparmiata per la sua importanza culturale, e sostituita con Kokura. Il bombardamento di Hiroshima Nel settembre 1944, il comandante del 340º Squadrone Bombardiere in Europa, Paul Tibbets, è richiamato a Colorado Springs per una missione top secret: organizzare una squadra di bombardamento con ordigni nucleari, progetto che gli viene illustrato dal fisico Norman Ramsey alla presenza del generale Uzal Ent. La dotazione di Tibbets – il 509º Gruppo Composito con base nello Utah – comprende 15 B-29 e 1.800 uomini. L’intera organizzazione è completata nel dicembre 1944. Otto mesi più tardi, alla guida dell’Enola Gay con a bordo Little Boy, c’è proprio Tibbets. Assieme all’Enola Gay volano altri due B-29: “The Great Artiste” pilotato dal maggiore Charles W. Sweeney che trasporta le strumentazioni per misurare

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gli effetti dell’esplosione, e l’aereo per le rilevazioni fotografiche chiamato in seguito “Necessary Evil”. Il bersaglio è deciso dalle condizioni meteorologiche. Il bollettino arriva mentre l’aereo sta già sorvolando il Giappone, e comunica: “A Kokura cielo coperto in prossimità del suolo per nove decimi; a Nagasaki coperto totalmente; a Hiroshima quasi sereno, visibilità 10 miglia”. Viene scelta la città di Hiroshima, situata sulla costa sud-occidentale dell’isola di Honshu. Hiroshima conta una popolazione civile di circa 300 mila persone, ospita un’importante base militare con 43 mila soldati ed è al centro di una grossa area industriale; inoltre si trova in pianura, una collocazione utile ad amplificare l’effetto dell’esplosione. Il cuore della città contiene edifici antisismici in cemento armato e strutture più leggere, a cui seguono zone urbane densamente edificate con piccole botteghe in legno incassate fra tipiche case giapponesi, costruite sempre in legno con tetti di tegole. Anche molti edifici dei grandi impianti industriali con sede nella periferia hanno strutture in legno, quindi la città nel suo insieme presenta un rischio molto alto di danni da fuoco. Durante il volo, il capitano William Parsons termina la procedura di armamento della bomba, e il suo

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FANTASCIENZA assistente, il tenente Morris Jeppson, rimuove i dispositivi di sicurezza. Little Boy – lunghezza 3 metri, diametro 71 cm, peso 4 tonnellate – viene sganciata alle 8.15. Il B-29, dopo la picchiata, guadagna velocità, vira di 180 gradi e si allontana; 43 secondi più tardi, avviene l’esplosione. L’apparecchio è distante 18 km quando è investito in pieno dalla forza della deflagrazione, tanto che Tibbets inizialmente pensa di essere stato colpito dalla contraerea; dopo pochi istanti, arriva l’impatto della seconda onda d’urto (quella riflessa dal suolo) e l’equipaggio si volta a guardare Hiroshima. “Se Dante fosse stato con noi sull’aereo”, commenterà in seguito Tibbets “sarebbe rimasto atterrito: la città che soltanto qualche minuto prima avevamo visto così chiaramente nella luce del sole era nascosta da quella nuvola rovente, a forma di fungo, terribile e incredibilmente alta. Hiroshima era letteralmente sparita sotto una coltre di fumo e di fuoco”. Dai racconti dei sopravvissuti, ciò che viene percepito a terra è una luce improvvisa e accecante, mescolata a un’onda travolgente di calore. Le persone più vicine all’esplosione vengono istantaneamente carbonizzate (le sagome di alcuni corpi rimangono letteralmente stampate come ombre nere sui muri); gli uccelli prendono fuoco in volo e i materiali combustibili si incendiano in un raggio di 6 km. L’enorme lampo bianco agisce come un gigantesco flash incandescente e imprime ustioni simili ai vecchi negativi delle foto, lungo il contorno degli abiti. Quasi immediatamente segue l’onda d’urto, che raggiunge anche chi si trova all’interno degli edifici: le finestre esplodono, si scatena una tempesta di schegge di vetro che volano fino alla periferia della città, a 19 km di distanza; le strutture, tranne quelle eccezionalmente resistenti, crollano. Nel raggio di 800 m dal ground zero periscono nove persone su dieci. Complessivamente, circa la metà della popolazione è morta o ferita. Quasi ogni edificio è distrutto entro un raggio di 2 km, e lesionato entro un raggio di 6 km: nel complesso, più del 90%, rendendo difficilissimo organizzare i soccorsi. I numerosi piccoli incendi scoppiati simultanei in tutta la città confluiscono velocemente in un’unica grande tempesta di fuoco, che solleva un vento fortissimo, inghiotte 11 km2 e uccide chiunque non possa mettersi in salvo, come i moltissimi feriti (uno studio del dopoguerra ha rilevato che meno del 4,5% dei so-

pravvissuti subì fratture alle gambe, non perché tali lesioni fossero state rare, ma semplicemente perché chi non poté camminare non sopravvisse). Qualche giorno dopo, il personale medico inizierà a riscontrare tra gli scampati i primi sintomi di una terribile e nuova malattia: la sindrome da radiazioni. Quella mattina, intanto, ogni comunicazione radio e telegrafica risulta interrotta, e per diverse ore al governo giapponese non possono giungere notizie precise di ciò che è accaduto a Hiroshima. Filtrano rapporti nebulosi che parlano di una grande esplosione, ma agli alti comandi non risulta alcun attacco aereo su vasta scala, né la presenza in città di magazzini di esplosivi. Nel pomeriggio, il pilota di un aereo mandato in ricognizione riferisce – già a 150 km di distanza da Hiroshima – di un’enorme cicatrice in fiamme, su cui incombe una pesante nuvola di fumo: è tutto quello che resta. La prima conferma ufficiale arriva sedici ore dopo lo scoppio, con l’annuncio del bombardamento da parte degli Stati Uniti. Lo stesso giorno, Radio Tokyo trasmette che “tutti gli esseri viventi, umani e animali, sono stati letteralmente bruciati a morte”. L’8 agosto l’U.R.S.S. dichiara guerra al Giappo-

“Little Boy” prima di essere caricata sull’Enola Gay foto: U.S. Government (fonte: Wikimedia Commons)

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Il fungo atomico sopra Nagasaki, 9 agosto 1945 foto: U.S. Government (fonte: Wikimedia Commons) ne e attacca la Manciuria: si assottigliano le speranze alleate di evitare l’ingresso dei sovietici nel Pacifico, anche perché il gruppo dirigente dell’esercito giapponese ha avviato i preparativi per imporre la legge marziale sulla nazione, al fine di arrestare chiunque tenti accordi di pace. Occorre quindi stringere i tempi, il Giappone viene coperto da volantini lanciati dagli Americani che proclamano: “Siamo in possesso dell’ordigno più distruttivo mai concepito dall’uomo. Una sola delle nostre bombe atomiche di nuova concezione è pari come potenza esplosiva a 2.000 dei nostri B-29. Abbiamo appena iniziato a utilizzare questa arma contro la vostra patria. Se avete ancora dubbi, verificate quanto è accaduto a Hiroshima, con una sola bomba caduta sulla città”. Il bombardamento di Nagasaki La responsabilità di coordinare i tempi del secondo bombardamento viene delegata al colonnello Tibbets. Il raid è programmato per l’11 agosto, obiettivo Kokura, ma viene anticipato a causa di previsioni

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meteo non favorevoli. Alla missione è assegnato il maggiore Charles Sweeney, al comando del Bockscar. Vicino alla città di Kokura si trova una concentrazione massiccia di industrie belliche, il Kokura Arsenal, che viene raggiunto dal bombardiere americano alle 3.47 a.m. del 9 Agosto. Questa volta le cose non vanno secondo i piani: il maltempo insiste su tutto il Giappone, la bomba viene armata dopo soli dieci minuti dal decollo per permettere la pressurizzazione dell’aereo e il sorvolo della tempesta. Il giornalista William L. Laurence del New York Times, da un velivolo di scorta, riporta di aver visto alcuni “fuochi di Sant’Elmo” sulla carlinga del B-29, con il rischio che l’elettricità statica potesse innescare una detonazione. I problemi non finiscono qui: Sweeney viene informato circa l’impossibilità di accedere al combustibile di riserva a causa di un malfunzionamento; inoltre, quando il B-29 finalmente giunge sulla zona stabilita, l’obiettivo è oscurato dalla nebbia e la contraerea giapponese inizia a reagire in modo pesante. Kokura non è più un obiettivo ottimale, e il carburante rimasto è appena sufficiente per raggiungere Okinawa includendo un passaggio veloce su Nagasaki. Come fu detto in seguito, “non aveva senso riportarsi la bomba a casa”, quindi alle 11.02 Fat Man – lunghezza 3,30 metri, diametro 1,52 metri, peso 4,6 tonnellate – viene sganciata su Nagasaki. Nagasaki è il porto principale sulla costa occidentale dell’isola di Kyushu. In parte evacuata dopo un bombardamento convenzionale il primo agosto, conta ancora circa 200 mila abitanti. L’ordigno atomico esplode quasi esattamente fra la Mitsubishi Steel and Arm Works e la Mitsubishi-Urakami Torpedo Works; poco più a sud, e sarebbe stato colpito in pieno il cuore commerciale e residenziale della città, con conseguenze assai peggiori. Sebbene Fat Man abbia potenza superiore rispetto a Little Boy, il danno che produce non è così ingente come a Hiroshima: la disposizione geografica e la detonazione in una zona industriale riparano in parte la città dal calore, dall’onda d’urto e dagli effetti delle radiazioni. La distruzione di Nagasaki ha generalmente ricevuto meno attenzione rispetto a quella di Hiroshima, ma ha interessato comunque un’area di 110 km2. Secondo un rapporto della Prefettura, uomini

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FANTASCIENZA e animali sono morti quasi immediatamente entro il raggio di 1 km dal ground zero, 14 mila abitazioni su 52 mila sono state distrutte, e altre 5.400 seriamente lesionate. Sebbene non si sia verificata una tempesta di fuoco come a Hiroshima, sono divampati numerosi incendi in tutta la città, aggravati da una grave penuria d’acqua. Anche in questo caso, gli effetti psicologici dell’attacco sono notevoli.

Sopravvissuti a Nagasaki fonte: Wikimedia Commons

I morti È impossibile stabilire con certezza l’ammontare delle vittime causate dai due attacchi atomici. Relativamente a Hiroshima, si può stimare siano morte circa 70 mila persone per lo scoppio iniziale, per gli incendi e per gli effetti a breve termine delle radiazioni. Entro la fine del 1945, a causa del fall-out e altre concause, il bilancio oltrepassa le 100 mila unità; dopo cinque anni supera le 200 mila, per gli effetti a lungo temine delle radiazioni (come lo sviluppo di neoplasie) nei soggetti contaminati. Anche per Nagasaki le cifre sono indicative: la stima più probabile è di 40 mila decessi iniziali e 60 mila feriti, 70 mila morti entro il 1946 e il doppio entro i cinque anni successivi: un tasso di mortalità paragonabile a quello di Hiroshima. I sopravvissuti Alcuni dei più importanti edifici di Hiroshima erano costruiti in cemento armato a causa del rischio terremoti e le loro strutture, sebbene vicine all’ipocentro esplosivo, hanno resistito. Inoltre, la deflagrazione è avvenuta in aria e la sua forza si è diretta più verso il basso che lateralmente. Le rovine della città sono state battezzate Hiroshima Peace Memorial e dichiarate patrimonio mondiale dell’UNESCO nel 1996, nonostante le obiezioni di Stati Uniti e Cina. Esistono casi di sopravvivenza che hanno del miracoloso. Eizo Nomura era, tra i superstiti, il più vicino al ground zero – appena 170 metri – trovandosi nello scantinato della Fuel Hall (adibita al deposito e al razionamento di carburante, la cui struttura regge anche se gli interni bruciano completamente), divenuta la Rest House dopo la guerra. Akiko Takakura al momento dell’attacco si trovava nella solidissima Banca di Hiroshima, a 300 metri, ed è sopravvissuta. Tsumoto Yamaguchi, ingegnere alla Mitsubishi, è l’unico Giapponese (riconosciuto ufficialmente) scam-

pato a entrambe le atomiche: è a Hiroshima per lavoro quando esplode la prima, dopo tre giorni torna a casa a Nagasaki dove scoppia la seconda. Degna di nota è la testimonianza di Seiko Ikeda, rilasciata quest’anno in videoconferenza nell’ambito di un progetto organizzato dall’Hiroshima Peace Memorial Museum. È una studentessa di Hiroshima, e la mattina del 6 agosto sta lavorando a meno di 2 km dall’ipocentro esplosivo, assieme a circa 1500 alunni delle scuole medie mobilitati per la costruzione di barriere frangifiamme. Ciò che ricorda è un lampo mille volte più luminoso dell’alba, un boato tremendo e poi il buio totale. L’esplosione la scaglia a 15 metri di distanza e, quando rinviene, si rende conto di avere i capelli carbonizzati, i vestiti fusi sulla pelle, la pelle stessa staccata dal corpo in lembi bruciati. Urla per chiamare aiuto ma nessuno arriva. Raggiunge un gruppo di scampati “simili a fantasmi e demoni” che vagano fra le rovine, vede ovunque pile di cadaveri con brucia-

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Suggestiva veduta della nuova Hiroshima ; sulla sinistra, il Memoriale della Pace (Genbaku Dome) foto: Hirotsugu Mori (fonte: Wikimedia Commons)

ture così profonde da non poter distinguere il sesso o l’età, e moltissime persone ancora vive che non riescono a muoversi e si lamentano. “Ho cercato di non camminarci sopra”, racconta, “all’inizio ho provato pena, ma poi più niente”. Quando la processione dei sopravvissuti raggiunge il fiume, adulti e bambini – capaci o meno di nuotare – si tuffano per trovare sollievo dalle bruciature. Molti annegano o muoiono in acqua, e nei giorni seguenti sono migliaia i cadaveri che tornano a galla con la marea. “Abbiamo camminato fra case distrutte, dove c’era gente intrappolata che chiedeva aiuto”, continua la testimone, “Io ero una ragazzina, mi sono chiusa le orecchie e ho iniziato a ripetere ‘mi dispiace, mi dispiace’. Non potevo fare niente. Un vecchio mi ha afferrato la gamba chiedendo dell’acqua. Io mi sono liberata e sono corsa via. Ancora vedo quell’uomo nel sonno e nella veglia e sento tutte quelle voci”. Seiko e il suo gruppo riescono a raggiungere la cima di una collina, da cui vedono il centro della città distrutto e le case rimaste in piedi prendere fuoco come carta: nel giro di due o tre ore tutto è in fiamme. Ferita e in preda a dolori atroci, la giovane riesce a trascinar-

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si fino a una strada principale, dove trova un mezzo di soccorso: deve discutere col soldato alla guida per convincerlo a caricare anche le donne, oltre ai maschi. Finalmente, viene trasportata in ospedale e comincia per lei il doloroso calvario della sopravvivenza. Il luogo è pieno di superstiti ammassati uno all’altro, che piangono, cercano i familiari, chiedono acqua. Le mosche volano ovunque e depositano le loro uova nelle piaghe. La ragazza viene medicata, e dopo qualche ora è trovata dal padre che riesce a riportarla a casa solo verso sera perché gli aerei statunitensi bombardano ancora la zona. Per diversi mesi Seiko soffre dolori continui, ha febbre alta, vomito e diarrea; quando riesce ad alzarsi e camminare, esce all’aperto e, alla sua vista, un gruppo di bambini scappa via urlando “Diavolo Rosso! Orco!”. Si rende conto che a casa sua tutti gli specchi sono stati coperti, ma riesce a trovarne uno in un cassetto: il suo volto è mostruosamente irriconoscibile. Torna a scuola, ma il peso degli sguardi che la bersagliano è insopportabile; decide quindi di suicidarsi – cosa che le altre giovani donne sopravvissute stanno facendo in proporzioni epidemiche – ma l’affetto del padre le fa scegliere la via della vita. È una hibakusha.

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FANTASCIENZA Hibakusha Hibakusha significa letteralmente “persona colpita dall’esplosione”: la parola “superstite” non viene usata perché, secondo la sensibilità giapponese, potrebbe essere offensiva per i morti. Hibakusha sono i sopravvissuti al bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, che hanno impresse nel corpo e nella psiche le conseguenze della tragedia: coloro che si trovavano entro pochi chilometri dalle esplosioni, o che sono stati esposti al fall-out, o le cui madri hanno subito queste situazioni durante la gravidanza. Al 31 marzo 2010, il governo giapponese ne ha censiti 227.565 ancora in vita, mentre sono 420 mila quelli deceduti dal giorno del bombardamento. Gli hibakusha sia di prima che di seconda generazione sono stati e sono tuttora vittime di una forte discriminazione – anche sul lavoro –, dovuta sia alla scarsa conoscenza circa le conseguenze della sindrome da radiazioni (che inizialmente era sospettata di generare contagio), sia a una tendenza di rifiuto nei loro confronti da parte degli stessi connazionali. Ma essere hibakusha significa molto più di questo: non solo una condizione fisica o sociale, ma uno stato d’animo. C’è un libro che spiega la situazione complessa di “coloro che furono colpiti dalla bomba”, fatta di umiliazione, disperazione ma anche di impegno e speranza: Note su Hiroshima di Kenzaburo Oe, premio Nobel per la letteratura nel 1994. Oe si è recato più volte a Hiroshima tra il 1963 e il 1965, e gli appunti di viaggio sono stati poi raccolti in un saggio che ripercorre il cammino della moderna apocalisse e riflette l’immagine di una città sconvolta nei suoi normali cicli della vita; attraverso la lettura si scopre il senso di concetti quali testimonianza, sofferenza e speranza, paura e coraggio, vergogna e dignità: la vergogna di essere sopravvissuti mentre tanti sono morti e la dignità di sopportare tale fardello, fatto di cicatrici, malattia e memorie incancellabili. Per dirla con le parole del premio Nobel giapponese, gli hibakusha sono “coloro che non si suicidarono nonostante avessero tutte le ragioni per farlo; che hanno salvato la dignità umana in mezzo alle più orrende condizioni mai sofferte dall’umanità”. Conclusioni C’è una specificità che fa dell’olocausto giapponese un unicum nella storia, perché con esso si è arrivati a compromettere la struttura biologica dell’uomo e pregiudicare la sua eredità alle generazioni future: una prova generale della fine del mondo e dell’estinzione

Rivista TIME (foto: LIFE): la copertina del numero del 20 agosto 1945 della razza umana. Il 6 agosto di quest’anno, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno partecipato assieme a Francia e Gran Bretagna alla cerimonia presso il Memoriale della Pace a Tokyo. L’ambasciatore americano John Roos ha affermato: “Mai più un conflitto del genere”. Presente, anche in questo caso per la prima volta, il segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon, concorde sul principio che l’unica via per un mondo più sicuro è l’abolizione delle armi nucleari. Ma per arrivare a capire questo – se veramente è stato capito – era necessario pagare un prezzo così alto? La risposta è ancora nelle parole di Seiko Ikeda, rivolte alle autorità politiche e al mondo intero, come conclusione della sua testimonianza: “Spero che anche voi vi domandiate con me ‘Perché è necessario che le persone soffrano così in una guerra?’ La guerra rende pazzi, e non è solo la gente a soffrire, tutte le creature hanno diritto di vivere. Hiroshima è un appello al rispetto di ogni vita. È dovere di ogni persona sopravvissuta a Hiroshima e Nagasaki utilizzare ogni respiro concesso per liberarci di queste armi. Io credo in tutti voi. Ascoltate le grida dei sopravvissuti, gli hibakusha, e lavorate per portare la pace.” n Cristina Donati

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Scienza

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ARMI NUCLEARI Dinamica, utilizzo ed effetti

di Cristina Donati (resoconto terminato a fine 2008)

È

uscito di recente un nuoAlbert Einstein e Robert Oppenheimer vo capitolo del ciclo di fonte: LIFE videogame Fallout, ovvero “il futuro postatomico ci aspetta”. Nel trailer pubblicitario di Fallout 3, allegre musichette dell’America anni Cinquanta sfumavano su panorami di distruzione totale, e una figura corazzata, vagamente umana, mormorava attraverso un respiratore: “la guerra non cambierà mai”. Infatti la guerra è eterna, come afferma uno dei nostri maggiori autori “postapocalittici”, Alan D. Altieri. Ma, possiamo aggiungere, si evolve con una velocità incredibile. La fabbricazione delle bombe atomiche è stata capace di cambiare radicalmente la tecnica bellica, che ha assunto le caratteristiche di una reazione irreversibile. Dai primitivi combattimenti corpo a corpo, con la scoperta della polvere da sparo la strategia militare ha allontanato in termini spaziali e psicologici il nemico dal nemico, riducendone il contatto e quindi l’umanizzazione. Il primo utilizzo della bomba atomica ha annientato il concetto stesso di umanità, parificando il destino futuro dei contendenti in una sorta di suicidio collettivo. Gli ordigni a fissione e fusione atomica costituiscono il sistema più radicale e definitivo per estinguere ogni forma di vita sulla Terra. I) CENNI DI CHIMICA NUCLEARE L’esplosione di un ordigno è una reazione chimica in cui alcune sostanze, a determinate condizioni, passano violentemente da una forma meno stabile a una più

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FANTASCIENZA stabile. I prodotti di reazione sono associati a una liberazione di energia termica, luminosa e meccanica. Nel caso di una reazione nucleare, si aggiunge l’emissione di particelle (definite anche raggi o radiazioni): si parla in questo caso di radioattività, termine introdotto dai coniugi Marie e Pierre Curie a seguito di una serie di esperimenti relativi all’emissione di raggi da parte di sostanze quali l’uranio; tali esperimenti portarono a isolare da un campione esaminato di pechblenda (composto di uranio in forma colloidale dispersa) due nuovi elementi fortemente attivi: il plutonio e soprattutto il radio.

I coniugi Pierre e Marie Curie nel loro laboratorio, foto del 1911 fonte: LIFE

A) Radiazioni Le emissioni di particelle (o radiazioni) sono di tre tipi, elencati di seguito. Alfa: radiazione corpuscolare di carica positiva. La particella emessa è un nucleo di elio (He); ha massa relativamente elevata e una velocità del 5-7% di quella della luce. La radiazione è scarsamente penetrante perché le particelle alfa interagiscono profondamente con la materia, provocando un’intensa ionizzazione, e procedono perciò nell’aria solo per un breve intervallo. È sufficiente un foglio di carta per arrestarle completamente. Beta: radiazione corpuscolare di carica positiva o negativa. La particella emessa ha una massa piccolissima (elettrone o positrone) e una velocità vicina a quella della luce; la radiazione è mediamente penetrante e di conseguenza scarsamente ionizzante. Le particelle beta vengono arrestate da lamine metalliche spesse pochi millimetri. Gamma: onda elettromagnetica, spesso collegata a emissioni alfa o beta quando, in seguito a queste ultime, il nucleo dell’atomo è in uno stato eccitato (perché i suoi protoni e neutroni non hanno ancora raggiunto la condizione di equilibrio). Emettendo una radiazione gamma, elettricamente neutra, il nucleo si libera rapidamente del surplus energetico. Questi raggi sono altamente penetranti e vengono arrestati solo da notevoli spessori in piombo o altro materiale a elevata densità. La particella emessa è un fotone ad alta energia. B) Radioattività naturale Il nucleo atomico è una struttura estremamente stabile, anche se in natura esistono elementi che si “di-

sintegrano” spontaneamente. In questo caso si parla di radioattività naturale. Il nucleo atomico di ciascun elemento possiede una massa atomica A, composta da un numero fisso Z di protoni (particelle positive) chiamato numero atomico − che determina le proprietà chimiche −, e un numero variabile A-Z di neutroni (particelle neutre); Z diversi caratterizzano elementi diversi, atomi con Z identico e A-Z diverso (diverso numero di neutroni) si dicono invece isotopi di un determinato elemento. Per esempio, il carbonio contiene nel suo nucleo 6 protoni (Z = 6), ma può variare in numero di neutroni (A-Z): il carbonio-12 (A = 12) ne possiede 6, il carbonio-14 (A = 14) ne possiede 8; ambedue sono esempi di isotopi del carbonio, condividono pertanto le stesse proprietà chimiche pur differendo in quelle fisiche (il secondo è più pesante). Alcuni isotopi naturali hanno nuclei instabili, e si trasformano in altri isotopi (sia dello stesso elemento che di elementi diversi) emettendo delle particelle. In questo caso si parla di isotopi radioattivi. Ogni emissione di particelle con successiva trasformazione viene indicata come decadimento.

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Scienza FANTASCIENZA L’uranio naturale è costituito al 99,3% di uranio-238 e per lo 0,7% di uranio-235, di maggior interesse per l’ottenimento dell’energia atomica. Assieme al torio-232 costituiscono i cosiddetti radioattivi naturali primari da cui si origina una serie radioattiva naturale. Quella dell’uranio-238 è la seguente: uranio-238 > torio-234 > protoattinio-234 > uranio-234 > torio-230 > radio-226 > rado (Em)-222 > polonio-218 > … piombo-206 (stabile). La radioattività naturale prevede emissioni alfa e beta. Tutti gli isotopi artificiali sono radioattivi. Unità di misura Gray (Gy): unità di misura del Sistema Internazionale (SI) che esprime la dose assorbita dalla materia a seguito dell’esposizione a radiazioni ionizzanti. Sievert (Sv): unità di misura SI che esprime la dose equivalente di radiazione, ovvero il danno provocato nell’uomo dai vari tipi di radiazioni ionizzanti. Oltre i 6 Sv la sopravvivenza tende allo 0%.

Becquerel (Bq): unità di misura SI che esprime il numero di decadimenti di un materiale radioattivo nell’unità di tempo. 1Bq equivale a un decadimento al secondo. Kiloton: unità di misura non SI che esprime la quantità di energia prodotta da un’esplosione. 1 Kiloton = energia di mille tonnellate di tritolo. Megaton: unità di misura non SI, che esprime la quantità di energia prodotta da un’esplosione. 1 Megaton = energia di un milione di tonnellate di tritolo. C) Radioattività artificiale e reazioni nucleari indotte È possibile rendere radioattivo un elemento stabile alterandone la struttura nucleare. Questo può avvenire con reazioni di fissione o di fusione, il cui scopo primario è liberare e rendere sfruttabile l’energia di legame contenuta nel nucleo (energia nucleare). Reazioni di fissione nucleare Le reazioni di fissione − ovvero rottura – nucleare, vengono provocate bombardando nuclei stabili con

Esempio di fissione di un atomo di Uranio 235. I prodotti della reazione possono variare (in questo caso isotopi di Bario e Kripton, con liberazione di 3 neutroni che alimentano la reazione a catena).

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FANTASCIENZA Esempio di fusione: un atomo di Deuterio e un atomo di Tritio si fondono in un atomo di Elio, liberando un neutrone.

particelle elementari o con fotoni; nei reattori nucleari le particelle utilizzate sono neutroni, detti veloci o lenti in base alla loro energia cinetica. Gli atomi degli elementi irradiati (generalmente uranio e plutonio) si scindono in isotopi radioattivi più leggeri emettendo raggi gamma ed energia essenzialmente termica, che nelle centrali viene recuperata attraverso un sistema di refrigerazione e poi convertita in energia elettrica. I neutroni veloci vengono rallentati ponendoli in collisione con atomi di sostanze con le quali hanno scarsa tendenza a reagire, chiamati moderatori: le più efficaci sono grafite e acqua pesante (D2O). Da ogni atomo che si scinde, si libera un numero variabile di neutroni (2 o 3), che a loro volta possono innescare altre fissioni: si ottiene così una reazione a catena che, se non mantenuta sotto controllo come invece avviene nei reattori nucleari (o pile atomiche), è capace di liberare in un ordine di tempo misurabile in microsecondi una quantità di energia esprimibile in miliardi di kilocalorie, ovvero un’esplosione nucleare. Reazioni di fusione nucleare o reazioni termonucleari Le reazioni di fusione nucleare costituiscono un altro modo per liberare e sfruttare l’energia nucleare:

in questo processo, due (o più) nuclei leggeri vengono uniti per formare un singolo nucleo pesante. La quantità di energia che si sviluppa è assai maggiore di quella prodotta da una fissione. Il procedimento più conveniente in termini energetici sembra essere la fusione tra deuterio e tritio (isotopi dell’idrogeno); per innescare la reazione sono però necessarie temperature elevatissime, raggiungibili peraltro utilizzando reazioni di fissione. A tutt’oggi le centrali nucleari a fusione sono ancora in fase di sperimentazione, mentre il processo ha avuto la sua realizzazione pratica con le bombe all’idrogeno, o bombe termonucleari. II) ORDIGNI NUCLEARI Bomba A La bomba A è un ordigno atomico a fissione, utilizzato per la prima volta durante la Seconda Guerra Mondiale, su Hiroshima (“Little Boy”, circa 13 Kiloton) e Nagasaki (“Fat Man”, circa 22 Kiloton), costituito da un nocciolo di materiale radioattivo, generalmente uranio arricchito (U-235 in maggiore percentuale, U-238 in minore percentuale) o plutonio-239. Per impedire fuoriuscite di neutroni, il nocciolo è rivestito da un guscio protettivo di metallo pesante.

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“Little Boy”, replica esposta al National Museum of the United States Air Force, Dayton (Ohio) U.S. Air Force photo La detonazione può avvenire in due modi. A) Detonazione a blocchi separati (gun-triggered fission bomb) Il nocciolo è formato da uranio arricchito diviso in più masse sub-critiche (generalmente due): infatti, una quantità di uranio pari alla sua massa critica (quantità minima di sostanza fissile capace di innescare una reazione a catena) è estremamente instabile e quindi difficilmente gestibile. Come innesco viene utilizzato esplosivo convenzionale, che scaglia un proiettile di uranio contro un blocco, sempre di uranio, dove è collocata una sorgente di neutroni detta iniziatore (generalmente formata da polonio e berillio). Si ottiene così il raggiungimento di una massa totale definita supercritica. Contempo-

“Fat Man”, replica esposta al National Museum of the United States Air Force, Dayton (Ohio) - U.S. Air Force photo

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raneamente, l’urto attiva l’iniziatore che comincia a bombardare tale massa con un numero elevatissimo di neutroni, innescando la reazione a catena. La bomba Little Boy seguiva questo procedimento. Questo tipo di arma nucleare è attualmente considerato obsoleto. I pochi modelli fabbricati sono stati, almeno ufficialmente, smantellati. B) Detonazione a implosione Il nocciolo è formato da plutonio-239 (in quantità assai minori rispetto all’uranio del sistema precedente), in forma di sfera cava rivestita da vari strati di metalli, esplosivo tradizionale e detonatori. Al centro della sfera è collocato l’iniziatore. L’esplosione dei detonatori provoca un’onda d’urto circolare e concentrica, tale da comprimere il polonio modificandone la concentrazione − con conseguente raggiungimento della massa supercritica − e da attivare l’iniziatore; si innesca così la reazione a catena. La bomba Fat Man seguiva questo procedimento, molto più efficace del precedente anche se più complesso nella realizzazione. Questo tipo di arma nucleare è stato successivamente raffinato fornendo modelli più efficienti. Bomba H La bomba H, o bomba all’idrogeno o superbomba, è un ordigno termonucleare, prevede cioè un processo di fusione abbinato a più processi di fissione. Il tipo più classico è il modello Teller-Ulam (10 Megaton),

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FANTASCIENZA progettato da Edward Teller e Stanislaw Ulam. Il principio su cui si fonda il funzionamento di questo modello prevede l’utilizzo di un aggancio in stadi concatenati delle varie componenti esplosive, ciascuna delle quali fornisce energia alla successiva. Abbiamo quindi una sezione sferica primaria costituita da una bomba a fissione implosiva (trigger), e una sezione cilindrica secondaria (staging) costituita da: litio deuterato solido (LiD) come carburante di fusione (fusion fuel); uno spesso scudo di uranio-238 come schermo-tampone (tamper) che serve soprattutto a “trattenere” il nocciolo per il tempo necessario alla reazione; un tubo cavo di plutonio-239 come candela di accensione (sparkplug); il tutto è immerso in una schiuma polistirenica. Il meccanismo d’azione è assai complesso. Semplificando al massimo, si può dire che: 1) la bomba a implosione (fissione) produce altissime quantità di energia termica, la quale provoca un aumento di pressione sul cilindro di uranio-238, frammentandolo e comprimendo il LiD; 2) si avvia un processo di fissione addizionale nel tubo di plutonio-239 con emissione di neutroni che, urtando il deuterato, provocano la formazione di tritio; 3) inizia a questo punto il processo di fusione (del tritio), con liberazione di una quantità enorme di energia, alla quale si somma quella derivante dalla fissione indotta nei frammenti di uranio-238 del cilindro; 4) il risultato è un’esplosione nucleare dell’ordine di 10 Megaton in 600 miliardesimi di secondo. Il primo ordigno di questo tipo è stato “Ivy Mike” (10,4 Megaton, test americano del 1952). Risultati migliori sono stati ottenuti con “Castel Bravo” (15 Megaton, test americano del 1954). La più potente bomba termonucleare mai fatta esplodere è la “Tzar Bomb” (57 Megaton, test sovietico del 1961). Nel 1968 inizia negli USA la produzione della B61, la principale arma termonucleare americana. Questo modello ha dato origine a una vera e propria famiglia di ordigni atomici. Bomba al Cobalto La bomba al cobalto, o bomba gamma, appartiene alla categoria delle bombe termonucleari dette salted bombs (bombe “ai sali”); soprannominata “the

“Tsar Bomb”, replica esposta al Museo delle Armi Atomiche di Sarov (Russia) - fonte: Wikipedia.org Doomsday device” (dispositivo del Giorno del Giudizio), è stata proposta dal fisico nucleare Leo Szilard nel 1950 come esempio di arma nucleare capace di distruggere la Terra. Il progetto riprende lo schema delle bombe a fissione-fusione-fissione, ma in questo caso il tamper è costituito da cobalto-59 non radioattivo, che viene trasformato nel suo isotopo radioattivo cobalto-60, a sua volta oggetto di decadimento beta con produzione di nichel-60 in stato eccitato. Il nichel raggiunge poi il suo stato energetico minimo (cioè si stabilizza) con emissione di radiazioni gamma. La differenza sostanziale rispetto alle precedenti armi nucleari è nel fall-out (ricaduta di materiale radioattivo): le scorie radioattive – e il loro ingente carico di raggi gamma – oltre a coprire distanze impressionanti dall’epicentro esplosivo (anche 100 km), rimarrebbero sul suolo per un periodo di tempo lunghissimo. Questa bomba è stata ideata allo scopo di produrre il peggior fall-out radioattivo possibile, e rientra nel novero delle “bombe sporche”, ovvero armi radiologiche (radiological dispersal device) che combinano materiale radioattivo a effetto nocivo “lento” con esplosivo convenzionale a esito letale immediato. Bomba N (armi ER, enhanced radiation bombs) La bomba N o Bomba ai Neutroni, ideata dal fisico Samuel Cohen, è una piccola bomba a fusione nata come arma “tattica” e riferibile a una logica militare diversa: permette di distruggere l’avversario senza causare un inquinamento radioattivo particolarmente elevato o danni devastanti al territorio. Al contrario delle altre bombe atomiche, nelle quali i neutroni del nocciolo vengono trattenuti il più possibile, in questo caso vengono emessi neutroni ve-

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Scienza FANTASCIENZA

I cinque Paesi ufficialmente in possesso di armi nucleari

Paesi che dichiarano il possesso di armi nucleari

Paesi che hanno svolto ricerche di sviluppo di armi nucleari

Altre potenze nucleari conosciute

Paesi sospettati di sviluppare programmi nucleari

Paesi che in passato sono stati in possesso di armi nucleari

loci ad alta diffusione, capaci di penetrare attraverso elevati spessori. Infatti, i neutroni sono elettricamente neutri e quindi attraversano senza eccessivi danni la materia inorganica (a eccezione dei circuiti integrati dei processori), ma provocano mutazioni e/o rotture nel DNA generalmente letali per la materia organica. L’utilizzo di una bomba N provoca l’uccisione a vasto raggio di tutti gli organismi biologici, consentendo però il recupero di materiale bellico, complessi industriali ecc. Tali caratteristiche rendono questo ordigno particolarmente adatto nell’attacco a strutture metalliche o interrate: carri armati, bunker, rifugi sotterranei, edifici, navi, aerei ecc. “Suitcase nuke” Le “bombe portatili” sono ordigni atomici di piccole dimensioni (60x40x20 cm circa) la cui testata è formata da un tubo contenente due blocchi di uranio che, se uniti, esplodono. Un detonatore e un dispositivo a codice completano il “kit”. L’utilizzo di queste bombe non è prettamente militare ma piuttosto terroristico: sebbene il loro effetto non sia paragonabile a quello di armi nucleari con potenza dell’ordine di megaton, esse conservano una capacità distruttiva assai maggiore rispetto agli esplosivi tradizionali, soprattutto per la grande quantità di radiazioni emesse. Inizialmente le suitcase nuke furono costruite per il KGB durante la Guerra Fredda, ma l’esempio sovietico fu subito seguito dagli Stati Uniti.

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Progetto RRW: le nuove bombe Il “Reliable Replacement Warhead” è un progetto varato negli USA da DOE (Department of Energy) e DOD (Department of Defense) con lo scopo di rinnovare le scorte di armi nucleari. L’arsenale atomico americano è composto per circa un terzo da ordigni W76 (termonucleari da 100 Kiloton), i più vecchi dei quali hanno raggiunto i trent’anni di vita: praticamente la fine del loro ciclo operativo, a causa del decadimento radioattivo del nocciolo. Le W76 nascono durante la guerra fredda nei laboratori di Los Alamos (New Mexico), e attualmente si trovano stoccate in vari depositi e sui sottomarini nucleari: se il progetto del governo americano seguirà il suo corso, saranno sostituite da una nuova atomica, la RRW1, che funzionerà come ogni altra bomba a fusione. Questa proposta ha suscitato varie critiche; molti osservatori (per esempio il JASON, formato da scienziati indipendenti) mettono in dubbio la necessità di produrre nuovi ordigni nucleari, considerando che il decadimento del nocciolo di plutonio è in realtà più lungo di quello stimato: almeno un secolo. Inoltre, le “vecchie” W76 possono essere sottoposte a procedure di rigenerazione, attualmente già in corso. La NNSA (Nuclear National Security Administration), divisione del DOE, ha presentato varie motivazioni pro RRW: la scarsa necessità di ulteriori test atomici, poiché la RRW1 è basata su armi ampiamente testate, la possibilità di usare materiali meno tossici e di inserire mi-

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FANTASCIENZA gliori sistemi di sicurezza, i rischi connessi alla “riparazione” dei vecchi ordigni. Le implicazioni politico-socio-economiche che ruotano attorno al RRW Project sono ovviamente enormi, ma ciò che colpisce sono alcune posizioni degli addetti ai lavori: il concetto di una bomba nucleare quasi ecologica, con la possibilità di “eliminare un processo di fabbricazione che produce il 96% di scorie tossiche radioattive” [Bruce Goodwin, direttore del Livermore Laboratory, vincitore dell’appalto], come se quelle liberate dopo un’esplosione nucleare fossero trascurabili, si pone in una logica piuttosto inquietante. Accanto alla RRW1 sembra sia all’esame la realizzabilità di una RRW2, ottimale per il lancio dagli aerei, in sostituzione della W78, altro “vecchio” ordigno in uso. E forse, nell’ottica di un necessario deterrente “forte” nel quadro del riarmo mondiale, ne seguiranno altre; in fin dei conti è lo stesso John Harvey, direttore della pianificazione della NNSA, a dire che scienziati e ingegneri vanno tenuti in esercizio. III) L’ESPLOSIONE NUCLEARE A) Effetti della deflagrazione di un esplosivo nucleare, a quantità standard di massa utilizzata, pari a 1 Megaton. Onda termica (35% dell’energia prodotta): si forma una palla di fuoco, la cui energia luminosa provoca

un lampo di luce tale da provocare cecità temporanea e danni permanenti alla capacità visiva. La quantità di calore sviluppata porta la temperatura a valori dell’ordine di milioni di gradi Celsius, con conseguenze concentriche: vaporizzazione immediata di ogni cosa nel raggio di 10 km dall’epicentro, ustioni di terzo e quarto grado nel raggio di 10-15 km, di secondo grado nel raggio di 15-20 km, di primo grado nel raggio di 20-25 km, sviluppo di incendi nel raggio di 15 km. Nel caso di un’esplosione in superficie, in corrispondenza dell’epicentro si ha rimozione del suolo e degli altri materiali presenti: si forma quindi un cratere le cui dimensioni variano a seconda dell’altezza alla quale l’ordigno viene fatto esplodere. Onda d’urto (50% dell’energia prodotta): l’enorme pressione generata dall’esplosione produce, dopo una frazione di secondo, un’onda d’urto (un muro d’aria fortemente compressa) con velocità elevatissima, che a sua volta provoca la distruzione di ogni cosa nel raggio di 1500 metri, danni enormi agli edifici, morte di chiunque si trovi nel raggio di 10 km, a meno che non trovi riparo in appositi rifugi sotterranei. Dopo appena 1,8 secondi dall’esplosione, il fronte dell’onda d’urto ha coperto una distanza di 800 m. Nel caso di una deflagrazione in aria, a questo si associa l’effetto Mach: l’onda d’urto primaria colpisce il suolo, contribuendo alla formazione del cratere, viene riflessa e origina un’onda secondaria. Ad una certa altezza dal suolo le L’esplosione “Baker”, 25 luglio 1946, test nucleare effettuato dagli Stati Uniti presso l’Atollo di Bikini (Micronesia), nell’ambito dell’operazione “Crossroads” - fonte: Wikimedia

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Scienza FANTASCIENZA due onde uniscono i propri fronti, formando l’onda di Mach (rinforzata). A 11 secondi dall’esplosione, l’onda di Mach ha percorso 5,1 km. Fungo Atomico: l’elevata temperatura provoca la formazione di masse gassose sotto pressione, tali da formare una palla di fuoco che si estende per centinaia di metri attorno all’epicentro dell’esplosione, con emissione di raggi UV, IR, calore e luce visibile. Essa possiede una velocità ascensionale di circa 170 km/h e trascina con sé i residui della bomba e detriti vari. Si forma perciò la cosiddetta “nuvola radioattiva”, che raggiunge la sua altezza massima dopo pochi secondi, si stabilizza, e continua a crescere in larghezza, prendendo la caratteristica forma a fungo. Il suo calore (considerato a prescindere dall’onda termica) Test di lancio del missile balistico Atlas, 20 febbraio 1958, Cape Canaveral (Florida, USA) U.S. Air Force photo

verrebbe avvertito a 8 km di distanza; inoltre, gli strati esterni risucchiano aria, provocando un ciclone capace di spazzare via tonnellate di materiale dal terreno sottostante. Questi venti estremamente violenti sono un efficiente mezzo di propagazione per incendi su vasta scala. Il colore della nuvola radioattiva è inizialmente rosso o marrone rossiccio, dovuto alla presenza di vari composti colorati (acido nitrico e ossidi di azoto) sulla superficie. Questi composti sono prodotti di reazione fra azoto, ossigeno e vapore acqueo in aria, che si combinano a causa delle alte temperature e dell’influenza delle radiazioni nucleari. Quando la palla di fuoco si raffredda e subentrano fenomeni di condensazione, il colore vira al bianco, probabilmente perché si formano piccole gocce d’acqua come in una nuvola qualsiasi. Onda radioattiva (15% dell’energia prodotta): raggi gamma e neutroni. Nel caso di una bomba N, l’irraggiamento supera i 100 km. A questo si associa l’Effetto NIGA (Neutron Induced Gamma Activity): se la sfera primaria, cioè la zona dove avvengono le reazioni nucleari, entra in contatto con il suolo, lo irraggia con neutroni rendendolo fortemente radioattivo. Effetto EMP (Electro Magnetic Pulse): l’enorme quantità di radiazioni genera un immediato campo elettromagnetico, tale da annullare su vasta scala qualsiasi sistema elettrico o elettronico non schermato. Effetto Fall-out (circa due ore dopo l’esplosione): la ricaduta in tempi differenti di materiale radioattivo, sollevato in quota dall’esplosione. I detriti aspirati dal fungo atomico vengono a contatto con i prodotti di fissione, e diventano a loro volta radioattivi. Essendo composti da sostanze di natura diversa, ricadono al suolo – sotto forma di polvere e ceneri − con velocità direttamente proporzionale alle rispettive masse. Si parla quindi di fall-out primario con ricaduta veloce e di fall-out secondario con ricaduta da sei a trenta ore dopo l’esplosione. La pericolosità del fall-out (ovvero la sua radioattività) è massima nella fase iniziale e diminuisce poi fino a stabilizzarsi. La distribuzione e la durata del fenomeno dipendono anche dalla potenza dei venti in alta quota. Le particelle microscopiche possono giungere sino alla troposfera e ricadere poi con le piogge.

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FANTASCIENZA

Bombardiere Northrop B-2 Spirit, esposto all’esterno del National Museum of the United States Air Force, Dayton (Ohio) U.S. Air Force photo Se finiscono scagliate nella stratosfera, e quindi sotto l’influenza dei venti stratosferici, possono restarvi per mesi o anni e compiere più rivoluzioni attorno al globo terrestre (fall-out globale). Ricadono solo quando trovano correnti discensionali o transitano sopra le zone polari. I prodotti di ricaduta più comuni (e insidiosi) sono il cesio-137 e lo stronzio-90: si ritrovano anche nel pulviscolo radioattivo del fall-out stratosferico e possono contaminare zone immensamente vaste. B) Fenomeni climatici conseguenti: inverno nucleare ed estate nucleare Con il termine inverno nucleare si intende la situazione atmosferica, conseguente a un conflitto atomico globale, ipotizzata dall’astrofisico Carl Sagan nel 1982 nella relazione denominata TTAPS. Pubblicata nel dicembre 1983 su Science, questa visione assai apocalittica di un futuro “dopo la Bomba”, è stata, negli anni successivi, aspramente criticata ma anche ripresa in vari lavori scientifici: i più recenti sono datati 2007 (Journal Geophysical Research). La causa scatenante della deformazione climatica descritta sarebbe non tanto l’enorme quantità di polveri scagliate nella stratosfera da una esplosione atomica, quanto i prodotti degli inevitabili incendi globali: la combustione di vaste aree − soprattutto urbane e industriali – porterebbe infatti alla formazione nella

stratosfera di uno strato di fumi neri e ceneri capace di schermare la luce del sole. Ciò provocherebbe una sensibile diminuzione della temperatura terrestre per diversi anni, con conseguenze facilmente immaginabili. È stata infatti ipotizzata una nuova glaciazione, associata a una marcata diminuzione delle precipitazioni atmosferiche (circa il 45%) che interesserebbe tutte le principali aree attualmente impegnate nelle coltivazioni e produzioni a scopo alimentare. L’estate nucleare consiste invece nel fenomeno opposto, uno scenario assai differente ma comunque catastrofico: dopo l’inverno nucleare, la superficie terrestre sarebbe oggetto di un massivo “effetto serra” provocato dalle radiazioni solari che, una volta arrivate sulla Terra, non sarebbero più in grado di uscirne, a causa delle grandi masse gassose (soprattutto CO2) prodotte dagli incendi globali e dalla decomposizione di materia organica. L’innalzamento della temperatura causerebbe lo scioglimento dei ghiacciai, l’aumento di vapor acqueo nell’atmosfera e, oltrepassato un certo limite, la produzione di metano dai fondali oceanici: tutti elementi che accrescerebbero il surriscaldamento del pianeta. Inoltre, gas come l’ossido di azoto, liberato nella stratosfera dalle esplosioni atomiche, provocherebbero una vasta estensione del buco dell’Ozono, i cui effetti si andrebbero a sommare ai precedenti. n Cristina Donati

Scienza: Armi Nucleari

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Cronaca

Cronaca

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CHERNOBYL:

Storia di un’Apocalisse di Cristina Donati (resoconto terminato a fine 2008)

I

l 26 aprile 1986, alle ore 1:23:44 a.m., esplode il reattore n. 4 della centrale nucleare Vladimir Ilych Lenin Memorial di Chernobyl, regione di Kiev, Ucraina. Lo scoppio libera una nube radioattiva che, nei giorni immediatamente successivi, transita a ovest su tutta l’Europa (esclusi solo Spagna e Portogallo) e a est fino all’Alaska. Le autorità sovietiche renderanno pubblico l’incidente solo il 28 aprile, dopo i comunicati della centrale scandinava di Forsmark, i cui responsabili avevano registrato livelli anomali di radioattività e si erano accorti in un secondo tempo che la causa era da ricercare “probabilmente in Unione Sovietica”. L’incidente viene classificato di livello 7 (il massimo) secondo la scala INES relativa agli incidenti nucleari. In termini di contaminazione, il fall-out che ne consegue è stato stimato dall’IAEA (International Atomic Energy Agency) 400 volte più intenso di quello di Hiroshima. L’Italia ne viene interessata il giorno 29 aprile. Aprile 1986: dettagli tecnici e dinamica dell’incidente L’impianto nucleare V.I. Lenin è situato a pochi chilometri dalle cittadine di Chernobyl e Pripyat. È formato da quattro reattori modello RBMK-1000, e altri due sono in costruzione. Ogni unità RBMK è un sistema a uranio scarsamente arricchito (circa il 2%), con barre di grafite come moderatore e sistema refrigerante ad acqua. Il modello RBMK-1000 produce energia sfruttando reazioni controllate di fissione nucleare. Tale energia si sprigiona soprattutto sotto forma di calore. L’RBMK è composto da due sezioni, ciascuna collegata a un turbogeneratore: è quindi possibile fermare metà reattore, abbassandone la potenza al 50%.

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FANTASCIENZA Struttura di un reattore nucleare RBMK fonte immagine: Wikipedia

Legenda 1. Nocciolo del reattore moderato a grafite 2. Barre di controllo 3. Tubi contenenti il combustibile 4. Miscela acqua/vapore 5. Acqua (leggera) 6. Separatore del vapore 7. Vapore in entrata

8. Turbina a vapore ad alta pressione 9. Turbina a vapore a bassa pressione 10. Generatore elettrico 11. Pompe 12. Condensatori di vapore 13. Acqua di raffreddamento (proveniente dal fiume, dal mare, ...)

La struttura del reattore contiene: • blocchi di grafite come moderatore di reazione (graphite moderator); senza moderatore, la velocità dei neutroni sarebbe eccessiva, col rischio di “mancare” gli atomi di uranio combustibile (fuel); • tubi contenenti gli elementi di combustibile (uranio-235) inseriti nei blocchi di grafite; • barre di controllo in metallo (control rods), che nel reattore in questione contengono boro; • un elevatore esterno al reattore per inserire o estrarre le barre, con lo scopo di rallentare o accelerare la reazione. Durante il ciclo di funzionamento, il combustibile uranio si riscalda. Il calore viene “catturato” da acqua pompata sotto pressione che si trasforma in vapore, il quale aziona turbine dotate di generatori elettrici. Il vapore viene successivamente ricondensato in acqua. La caratteristica principale di questo tipo di reattore è la sua instabilità a bassa potenza, che, a valori inferiori al 20% di quella massima, è suscettibile di sbalzi improvvisi. Questo sarà il fattore principale nella dinamica dell’incidente del 26 aprile. In tale data, l’unità 4 viene scelta per un test di controllo sicurezza, scopo del quale è osservare il funzionamento del sistema a potenza limitata. Il reattore 4 lavora al 50% poiché una delle due sezioni è inattiva per ordinaria manutenzione. I tecnici decidono di

sfruttare questa situazione per effettuare l’esperimento, e iniziano le manovre di riduzione di potenza. I tubi di combustibile sono quasi esauriti, e quindi pieni di scorie contaminate da prodotti di fissione (isotopi radioattivi) e xenon, il cui accumulo impedisce comunque una rapida rimessa in moto del reattore. A questo punto viene commesso un errore: la potenza, invece di arrestarsi al 30%, scende all’1%. Si cerca di ripristinare velocemente i valori utili per il test, ma la presenza di xenon impedisce di superare il livello del 12%. Vengono sollevate tutte le barre di controllo tranne sei, in completa violazione delle procedure che ne prevedono un minimo di trenta; il nocciolo dell’RBMK si è nel frattempo riempito d’acqua, diventando sempre più instabile. Inoltre, vengono disattivati gli arresti automatici d’emergenza, in quanto potrebbero far fallire il test. Si decide di controllarne l’andamento con sistemi manuali. Alle ore 1:23:04 inizia l’esperimento vero e proprio: vengono chiuse le valvole d’emergenza del turbogeneratore, scollegando quindi la turbina dal vapore. La sequenza degli avvenimenti successivi può essere sintetizzata in questo modo: 1) il turbogeneratore inizia a decelerare e cala anche il suo rendimento elettrico; 2) il vapore, scollegato dalla turbina, resta nel noccio-

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lo formando bolle nell’acqua di refrigerazione; la temperatura aumenta assieme alla pressione del vapore; le quattro pompe di refrigerazione rimaste in funzione sono sottoalimentate a causa del rallentamento del turbogeneratore, quindi la loro attività è ridotta; la potenza del reattore comincia a crescere in condizioni di elevata instabilità; dopo 36 secondi dall’inizio dell’esperimento, scattano le sirene d’allarme: vengono abbassate le barre in boro (alle ore 01:23:40 gli operatori azionano il tasto AZ-5, Rapid Emergency Defense 5, che esegue il cosiddetto “SCRAM”, cioè l’arresto di emergenza del reattore che inserisce tutte le barre di controllo incluse quelle manuali incautamente estratte), ma inutilmente, anche a causa della lentezza necessaria all’operazione, che nella centrale di Chernobyl richiede 20 secondi; le barre in boro hanno la parte terminale in grafite; a causa delle altissime temperature che si stanno sviluppando nel nocciolo, esse fondono il combustibile deformando i canali di scorrimento e bloccandosi a metà discesa; la potenza del reattore in 3 secondi aumenta vertiginosamente; i tubi del sistema di refrigerazione e quelli del combustibile si rompono, l’acqua di raffreddamento comincia a circolare tra detriti di combustibile surriscaldati; il contatto combustibile/acqua provoca una violenta esplosione di vapore, che scoperchia il reattore; il coperchio, circa 2000 t di acciaio, ricade di taglio sulla costruzione muraria provocando danni devastanti a strutture e impianti (ore 1:23:44); dopo pochi secondi si verificano altre esplosioni a catena, molto più potenti, causate dall’idrogeno prodotto da reazioni chimiche tra i vari componenti delle strutture del reattore, i carburanti e il vapore; le lesioni del tetto facilitano una vera e propria eruzione di grafite incandescente, pezzi di combustibile e detriti vari in fiamme, che ricadono a terra estendendo l’incendio a tutto il corpo della centrale; si libera una colonna di fumi radioattivi alta circa 1 km, origine del successivo fall-out; il nocciolo sprofonda nel terreno e fonde a causa della temperatura che continua a salire (meltdown), ma la reazione nucleare a catena non si arresta, perché è ancora presente una quantità di combustibile (uranio-235) e di moderatore; si iniziano operazioni frenetiche per spegnere la

grafite e impedire che gli incendi raggiungano gli altri settori funzionanti; le conseguenze in quel caso sarebbero catastrofiche, date le enormi quantità di uranio, plutonio e prodotti di fissione presenti nella centrale. Aprile 1986: interventi immediati Sul luogo del disastro – dove già era all’opera il corpo militare antincendio della centrale, al comando del luogotenente Leonid Telyatnikov – arrivarono da Pripyat mezzi di soccorso e tutte le squadre di pompieri disponibili, per “un incendio causato da corto circuito”. Il loro equipaggiamento era costituito da normali maschere antigas, badili e stivali di gomma. Le strumentazioni delle squadre dosimetriche mostravano un livello di radioattività estremamente elevato, tuttavia per domare gli incendi c’era a disposizione della semplice acqua. Né civili né soldati possedevano tute antiradiazioni, respiratori o dosimetri adeguati, per cui è stato difficile calcolare la quantità esatta di radioattività da loro ricevuta. Dopo circa mezz’ora di lavoro i membri di ogni squadra cominciarono ad accusare sintomi di avvelenamento. Per diverse ore, i feriti contaminati furono assistiti da un solo medico giunto da Pripyat, successivamente ricoverato a sua volta per sindrome da radiazioni. Telyatnikov fu sottoposto ad analisi del sangue,

Leonid Telyatnikov

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Pripyat (Ucraina), una città fantasma che rivelarono un assorbimento pari a 4 gray (Gy). Dopo una settimana di ospedale, lui e i suoi uomini cominciarono a manifestare ustioni da radiazioni su tutto il corpo. Sei di loro morirono entro breve tempo. Gli incendi (almeno trenta) vennero definitivamente spenti dopo poche ore, tranne quello che interessava la grafite, con la quale infatti non è possibile usare acqua: le due sostanze reagirebbero formando monossido di carbonio, infiammabile. Fu deciso di seppellire la grafite in combustione sotto materiali di varia natura, ciascuno dei quali adibito a soffocare le diverse manifestazioni dell’incendio e le specifiche emissioni radioattive: tra il 27 aprile e il 2 maggio, 1800 elicotteri gettarono nel cratere carburo di boro (assorbimento neutroni e prevenzione di altre reazioni a catena), piombo (assorbimento radiazioni), sabbia e argilla (prevenzione della dispersione del particolato), dolomia (dispersione di calore e produzione di CO2 per soffocare il fuoco), fosfato di sodio e polimeri liquidi come il Bu93 (contenimento delle fiamme) per una quantità complessiva di circa cinquemila tonnellate. Questo materiale provocò un “effetto serra” sul nocciolo danneggiato, con conseguente aumento della temperatura e ulteriore rilascio di radionuclidi. La grafite smise di bruciare dopo nove giorni. Nel frattempo una quantità enorme di isotopi radioattivi era stata liberata nell’atmosfera, mentre sotto le macerie la reazione a catena continuava, con il rischio di nuove esplosioni. Fu deciso di coprire il ground zero

con un sarcofago di cemento e metallo, per limitare al massimo le emissioni, mentre un’apposita spedizione di scienziati, coadiuvata dall’esercito dell’Armata Rossa e da robot-scavatori, cercava di localizzare il residuo di nocciolo ancora attivo. Si scoprì in seguito che le grosse quantità di sabbia sistemate attorno al reattore avevano raffreddato il combustibile fuso e colato verso il basso, formando con esso una sostanza vetrosa (chernobylite) e limitando i successivi rischi. Nel 1989, un gruppo di scienziati russi comunicò ufficialmente che il combustibile mancante all’appello dopo l’incidente si era trasformato in chernobylite. Se così non fosse, se fossero ancora presenti le condizioni opportune in ciò che resta del nocciolo del reattore, la fissione potrebbe non essersi arrestata. Aprile/Dicembre 1986: Chernobyl e dintorni Il centro abitato più vicino alla centrale, in realtà, non è Chernobyl bensì la cittadina di Pripyat, edificata contemporaneamente all’impianto nucleare come residenza per i dipendenti e le rispettive famiglie. Pripyat rimase all’oscuro dei dettagli fino al 28 aprile. Dal racconto di una testimone: “Sabato mattina (il 27 aprile) in città tutto era coperto di liquido bianco e schiuma. Non avevo mai visto tanti poliziotti in giro. Non facevano niente, stavano fermi qua e là, come se ci fosse la legge marziale. Era scioccante, ma la gente camminava in giro normalmente. Tornai a casa e dissi a mia madre: «Non so cosa sia successo, ma non fare uscire i

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Cronaca FANTASCIENZA

bambini.» Andai fuori di nuovo e vidi il reattore che bruciava.” In molti rimasero a guardare la nuvola cremisi sopra la centrale: furono letteralmente bombardati dalle radiazioni. Domenica 28 fu ordinato il trasferimento di tutti i civili; la popolazione di Pripyat – 50.000 persone – era rimasta esposta per 36 ore, e i ricoveri per sintomi da contaminazione risultavano già numerosi. L’area attorno al V.I. Lenin (per un raggio di 30 km) venne dichiarata off limits e completamente evacuata. Contemporaneamente iniziarono le operazioni di bonifica nella centrale e nell’area contaminata che durarono fino all’inizio del dicembre 1986: per rimuovere i frammenti di grafite e di altri materiali solidi radioattivi furono utilizzati inizialmente dei macchinari automatizzati, ma i loro transistor non erano compatibili con i livelli di radioattività presenti, quindi vennero sostituiti da personale volontario. Il tempo consentito all’interno della centrale era estremamente breve, poiché le emissioni radioattive erano 15 mila volte superiori a quelle di una normale espo-

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Chernobyl: il “sarcofago”

sizione annuale: una permanenza di 20 minuti avrebbe significato morte per l’operatore e contaminazione per coloro che gli si fossero successivamente avvicinati. Nel frattempo, su Pripyat, Chernobyl e le altre cittadine nei dintorni cominciarono a depositarsi le particelle radioattive provenienti dalla centrale, mentre quelle più leggere restarono sospese in aria sottoforma di aerosol. Altre vennero sospinte ancora più lontano. Per contenere al massimo la contaminazione, strade ed edifici furono lavati con sostanze chimiche speciali. Ogni oggetto trasportabile fu seppellito, compresi auto, camion, trattori; furono rimossi strati di terreno, abbattuti e sepolti gli alberi maggiormente colpiti dalle radiazioni. Il territorio direttamente interessato dal disastro prese il nome di “Zona di Alienazione”. La centrale nucleare non interruppe la sua attività. Nel 1991 si verificò un secondo incidente – per fortuna meno grave – al reattore 2, dopo il quale le nazioni occidentali iniziarono a fare pressioni affinché l’Ucraina spegnesse definitivamente l’impianto; questo avvenne in due fasi, nel 1996 con il reattore 1 e nel 2000 con il reattore 3.

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FANTASCIENZA La centrale oggi Il sarcofago del reattore 4, edificato nel momento di massima emergenza tra il maggio e il novembre del 1986, non è nato come struttura di contenimento permanente: ciò è stato presto confermato dal suo veloce deterioramento, causato da una progettazione frettolosa e dall’impiego di materiali scadenti (una fila di camion come basamento delle pareti in cemento, macerie radioattive dello stesso reattore utilizzate come struttura portante, i muri non completamente collassati inglobati in materiali vari utilizzati a scopo di rafforzamento). Col tempo, nella costruzione si sono aperte miriadi di falle, alcune delle quali larghe fino a 15 metri, attraverso cui ogni anno si riversano all’interno circa 2.200 metri cubi di acqua piovana. L’aumento di peso sulle fondamenta ha fatto sprofondare il basamento di circa quattro metri, con la conseguente infiltrazione di materiale radioattivo nelle falde acquifere collegate ai fiumi Pripyat e Dnepr, la cui foce è nel Mar Nero. Inoltre, la temperatura all’interno del nocciolo è a tutt’oggi molto elevata (fino a 1000 gradi celsius in alcuni punti), accelerando il deterioramento di quanto edificato. Per questo motivo sono state effettuate delle opere di riparazione e ristrutturazione, completate nell’agosto 2008: la società di costruzione nucleare russa Atomstroyexport, incaricata dei lavori, ha riparato il tetto e installato una pompa per prosciugare l’acqua. Questa stabilizzazione è il preludio alla costruzione di un nuovo sarcofago che dovrebbe mettere in sicurezza la centrale per almeno cento anni. Verranno inoltre approntate zone attrezzate per lo smantellamento definitivo dei rottami del reattore e uno stoccaggio maggiormente risolutivo del combustibile esaurito altamente radioattivo. Il costo del progetto è stimato in 1,2 miliardi di dollari. In sostanza, l’arresto del reattore è stato solo un primo passo verso la risoluzione del “problema Chernobyl”. Nella centrale sono attualmente al lavoro squadre di tecnici e operai impegnate in attività complesse e non prive di rischi, che richiederanno ancora diversi anni per essere completate. È in previsione lo smantellamento completo dei blocchi 1, 2 e 3 appena il sito sarà radiologicamente sicuro. La Zona di Alienazione e i Liquidatori “La Zona”, come viene abitualmente chiamata – inizialmente un’area circolare di 2800 m2 allargata poi a 4300 –, ha per epicentro il luogo dell’esplosione, è divisa in anelli concentrici proporzionali al grado di contaminazione e attualmente misura un raggio di 30

Chernobyl: il monumento ai liquidatori

km. Il confine è oggi presidiato da forze militari, al fine di impedire l’accesso a curiosi, cacciatori di rottami o responsabili di altri atti di sciacallaggio. Alcuni scienziati che effettuano ricerche non autorizzate adottano il soprannome di stalker, dall’omonimo film di fantascienza di Andrej Tarkovskij del 1979, a sua volta tratto dal romanzo Picnic sul Ciglio della Strada (Picníc na Obócine, 1972) dei fratelli Strugackij. Le autorità locali ammettono l’esistenza di siti di stoccaggio non mappati e focolai di combustione, presenti solo nelle ricostruzioni dei liquidatori, termine collettivo usato per indicare coloro che hanno lavorato alla bonifica della centrale: un totale di circa 800.000 uomini e donne tra personale dei reattori, vigili del fuoco, protezione civile, personale medico e paramedico, militari e civili addetti al risanamento della zona, lavoratori edili impiegati nella costruzione del sarcofago, pattuglie che garantiscono un accesso controllato al complesso, addetti ai trasporti, minatori in servizio alla bonifica delle acque contaminate. Dati non ufficiali indicano che almeno 25.000 di loro sono morti a causa di patologie da radiazioni. Secondo l’associazione liquidatori, la “Chernobyl Union”, dopo vent’anni dalla catastrofe si contano addirittura 60.000 morti e 165.000 disabili.

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Cronaca FANTASCIENZA Città fantasma e Dubovy Log Dopo oltre vent’anni dalla catastrofe, Pripyat è una ghost town che sopravvive solo su internet. Negli edifici che ospitavano gli abitanti di questa fiorente città-satellite le finestre non hanno più vetri, tutte le porte sono state divelte e le abitazioni saccheggiate; case, scuole e piazze testimoniano ancora un esodo improvviso: scene di vita quotidiana cristallizzate nel loro ultimo atto e coperte di polvere. Le strade, in parte sbarrate, sono inutilizzate dal 1986 e alcune piante sporgono dall’asfalto. Dopo vari anni sono rispuntati i gatti: subito dopo il disastro, non nascevano più cuccioli maschi e i felini erano praticamente scomparsi. Tuttavia, circa 210.000 persone sono tornate a vivere nelle aree meno a rischio e, nonostante i controlli, almeno 400 nell’area di Pripyat. Sono i cosiddetti samosieli, “coloro che vivono da soli”: coltivano la terra ancora contaminata, ne mangiano i prodotti e bevono l’acqua dei torrenti. Per scaldarsi, bruciano legna radioattiva nella pjechka, la tradizionale stufa russa, che emette calore e radionuclidi come una Chernobyl in miniatura. E poi seppelliscono, come vuole la legge, la cenere nei campi da coltivare.

1986: Fall-out radioattivo provocato dall’incidente di Chernobyl intensità della ricaduta

Diversa la sorte della città di Chernobyl: vecchia di ottocento anni, nonostante il disastro è riuscita a sopravvivere, e attualmente ospita sia il personale impegnato nella rimozione delle scorie nucleari sia un nucleo di abitanti, soprattutto anziani, che sono tornati nelle loro case nonostante il pericolo. Nel 1988 era stato proposto l’abbattimento di parte della città per limitare l’inquinamento radioattivo, ma il progetto fu abbandonato a causa dell’enorme quantità di particelle che si sarebbero liberate nell’aria dalle macerie. Alle conseguenze della catastrofe si aggiunge lo spettro di una situazione economica preoccupante. Chiusa la centrale, spariti i posti di lavoro, la zona contaminata è diventata meta di gite turistiche organizzate: queste comitive in pullman, attirate dal teatro della tragedia, sono munite di permessi speciali e all’uscita devono passare un controllo che, se non superato, comporta una doccia contro le radiazioni. Evidentemente l’emozione di mettere piede nella polvere contaminata e penetrare negli edifici in cui la maggioranza degli abitanti non ha osato tornare è più forte di qualsiasi cautela. La radioattività non si vede. Il cielo, l’aria e l’acqua hanno gli stessi colori di sempre, e la gente cerca di sopravvivere e di non pensare. Ci sono kholkoz come quello di Dubovy Log (Bielorussia, provincia di Dobrush) che sembrano oasi naturali: boschi di abeti e betulle, campi coltivati, cicogne e animali selvatici. Però qualcosa stona: una sbarra che vieta l’accesso ai non abitanti, cartelli dove si legge “vietato cogliere funghi, bacche, pescare, asportare legname”. Infatti qui il grano coltivato è talmente avvelenato che ricavarne il pane è un’utopia, il latte prodotto viene portato altrove per diventare “radioattivo secondo norma”, le case per gli sfollati costruite subito dopo l’incidente non sono mai state consegnate. I volontari hanno però il permesso di abitare qui, anche se le autorità ufficialmente vietano la residenza. Perché questo è il luogo più contaminato di tutta la Bielorussia.

fonte: © Times Books 2007

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Cronaca: Chernobyl, Storia di un’Apocalisse


FANTASCIENZA La Foresta Rossa © foto di Tim Suess

La Foresta Rossa e dintorni La cosiddetta Foresta Rossa (Rudij Lìs in ucraino, Ryžij Les in russo), situata 2 km a Ovest dell’ex-centrale, era nota prima dell’incidente come Foresta d’Assenzio (čornobil in ucraino, černobýl in russo, è un termine popolare che indica proprio una pianta del genere Artemisia). Su questo nome sono fiorite associazioni inquietanti con le immagini bibliche dell’Apocalisse di Giovanni. Nei giorni immediatamente successivi all’incidente, circa 400 ettari di bosco – per lo più pini scozzesi – furono colpiti in pieno da una delle scie radioattive, e assunsero un’intensa colorazione rosso ruggine prima di seccare: il fall-out rilevato da un’apposita commissione nel settembre 1990 (First International Conference on the Biological and Radiological Aspects of the Chernobyl Accident), risultò essere pari a 4,81 GBq/m2. Oggi la Foresta Rossa non esiste più, e al suo posto si estende un’area spoglia e segnata dalle cicatrici della successiva bonifica. L’urgenza spasmodica di arginare il disastro portò a scelte forse inevitabili ma sicuramente infauste: la maggior parte degli alberi morti fu sradicata e sepolta in lunghi fossati, dai quali la contaminazione radioattiva filtrò nelle falde acquifere sottostanti. “Il terzo delle acque amare” di biblica memoria costituisce effettivamente un dato realistico. Tuttavia, la vita non si è estinta: piante e animali selvatici, spesso deformi e mutati, hanno preso possesso di quest’area libera dalla presenza dell’uomo, per il quale, evidentemente, gli effetti delle radiazioni sono molto più

letali. Ciò che veramente si cela in questo che rimane uno dei siti più contaminati della Terra, è tuttora oggetto di studi: nel numero di novembre-dicembre 2006 della rivista American Scientist, Ronald K. Chesser e Robert J. Baker affermano che “è difficile dare un senso preciso ai dati per poter giungere a conclusioni sicure, e ancora oggi non è possibile fare un accurato bilancio delle malformazioni causate dall’incidente”. A volte è difficile separare la verità dalla paura: non ci sono prove di piante completamente bianche e con la clorofilla rossa, di strani fiori dai colori mai visti o di insetti giganteschi, come raccontano alcune testimonianze. Eppure, i pochi dati oggettivi raccolti sono quanto meno inquietanti: alberi trasformati in arbusti striscianti e contorti (secondo James Morris, biologo, non sarebbero più in grado di determinare la corretta direzione di crescita), pini dai germogli lunghi fino a 14 cm a causa del radiomorfismo, uccelli senza piume caudali, colonie di alci, cavalli, lupi e altri mammiferi nei quali sono state registrate significative mutazioni del DNA. Un trionfo della natura, le cui caratteristiche sono tuttavia molto diverse dalla quella che viene considerata una normalità di specie. Rondini albine, puledri le cui zampe si biforcano sotto le ginocchia, maiali senza occhi e vitelli a due teste sono stati le espressioni più eclatanti, ma non sempre l’immediata evidenza costituisce il problema principale: se alcuni scienziati scorgono una positiva rinascita di questo luogo in cui l’uomo non è più la specie dominante, altri sospettano che la vera eredità di Chernobyl sia ancora da svelare.

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Cronaca FANTASCIENZA

La targa commemorativa posta ai piedi del monumento agli eroi di Chernobyl; sullo sfondo, la centrale Sindrome da radiazioni ed effetti del fall-out La sindrome da radiazione è conseguenza di un’esposizione prolungata ad alte dosi di radiazioni; la sua gravità dipende dalla dose d’irraggiamento, dal materiale irraggiante e dai tessuti irraggiati. Si manifesta nel tempo con una sintomatologia caratteristica. Con un irraggiamento di 400 roentgen (semiletale), osserviamo le fasi di seguito descritte. Nelle prime 24 ore compaiono malessere, eritemi, nausea, cefalea, disturbi intestinali. Nella settimana successiva i sintomi scompaiono (periodo di tregua), ma continuano gli effetti dell’irradiazione: vengono infatti distrutte le cellule riproduttive del sangue. Successivamente si passa alla fase acuta: ulcerazioni, emorragie gastro-intestinali, disturbi respiratori e cerebro-vascolari. La morte sopravviene nella quarta/sesta settimana. Se la crisi viene superata, permane una elevata possibilità d’insorgenza di tumori e leucemie, nonché di mutazioni genetiche nella discendenza. Curie e becquerel sono le unità di misura che indicano la concentrazione di determinati isotopi radioattivi in un dato ambiente, per esempio il suolo: 1 becquerel (Bq) = 2,7 x 10-11 curie (Ci). Nei primi dieci giorni dopo l’incidente, il reattore di Chernobyl rilasciò 3.000 PBq (Petabecquerel, 1PBq = 1015 Bq = 1 milione di miliardi di becquerel), mentre nei mesi successivi la quantità complessiva calcolata fu di 10.800 PBq; un rilascio totale di radioattività nell’atmosfera pari a circa 14.000 PBq (400 volte Hiroshima), come indica il rapporto ufficiale sulla trage-

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dia redatto dal Chernobyl Forum nel febbraio 2003, stilato da agenzie dell’ONU (OMS, IAEA, UNSCEAR, FAO e altre) assieme alle autorità di Russia, Bielorussia e Ucraina. Sebbene i radionuclidi liberati dall’esplosione della centrale siano stati in numero maggiore, i principali responsabili dell’impatto biologico sono: iodio-131 (emivita 8 giorni), cesio-137 (emivita 30 anni), stronzio-90 (emivita 29 anni). Inoltre, dopo la guerra dei Balcani, si sta riconsiderando l’effettiva pericolosità degli isotopi di uranio 234, 235, 238, e plutonio-239, 241, circa la radio- induzione di polmonite da raggi, cancro polmonare e linfomi (Hodgkin e no-Hodgkin): risulterebbero da cinque a dieci volte più pericolosi, specialmente se assorbiti per inalazione. L’emissione di iodio-131 gassoso, conseguente all’esplosione del reattore, fu enorme: 1800 PBq, pari a circa 60 miliardi di scintigrafie tiroidee. L’emivita di questo radionuclide è breve se paragonata agli altri, tuttavia l’impatto biologico è assai cancerogeno a causa dell’alto assorbimento da parte della tiroide, soprattutto in popolazioni, come in questo caso, i cui organismi sono carenti di iodio. Ciò avviene soprattutto nei bambini. Il cesio-137 (85 PBq rilevati) e lo stronzio-90 (10 PBq rilevati) hanno costituito una minaccia principalmente a lungo termine: entrambi sono contaminanti del terreno, vengono assorbiti da piante e funghi, entrano nella catena alimentare, e da questa passano all’uomo. Il cesio-137 è un emettitore gamma (portata di circa 40 m), e si concentra negli strati superficiali del terreno; oncogeno anche per azione esterna, è

Cronaca: Chernobyl, Storia di un’Apocalisse


FANTASCIENZA ubiquitario nell’organismo (ha un’attività biochimica simile al potassio), provocando forme cancerose di vario tipo e mutazioni genetiche nella discendenza. Il suo decadimento nella forma più stabile di bario-137 è del 50% nell’arco di 15-180 giorni, se il contatto con la fonte radioattiva cessa. Da qui il progetto umanitario che ha visto migliaia di bambini ucraini e bielorussi accolti anche in Italia per disintossicarsi. Lo stronzio-90 è un emettitore beta. Si concentra negli strati profondi del terreno, presenta sostanziali analogie con il calcio, e tende a sostituirsi ad esso nella struttura scheletrica. È solubile e quindi assorbibile dal tratto gastro-enterico, provoca leucemia o tumori ossei se ingerito: alte concentrazioni si ritrovano nei cereali, nelle verdure e nel latte; e la sua emivita biologica è di 50 anni: questo significa che un organismo contaminato nei primi mesi di vita, finisce di smaltire la radioattività all’età di cento anni. I danni sull’uomo Nel caso di Chernobyl, eseguire calcoli, stime e previsioni corrette è assai difficile per un numero elevato di fattori, quali il diverso grado di irraggiamento tra operatori e civili, tempo di permanenza nelle varie aree contaminate, evacuazioni in stadi successivi da zone differenti e con differenti livelli di radioattività. A questo si aggiungono dati lacunosi e posizioni prudenti se non evasive di vari organi riconosciuti. Per tutti questi motivi le conclusioni raggiunte – e più o meno accreditate – sono assai distanti: il Chernobyl Forum sostiene che sarebbero 65 le morti accertate direttamente imputabili alla tragedia, nonché 4.000 quelle per patologie oncologiche presumibili nell’arco di 80 anni. Gli autori della relazione aggiungono che le popolazioni direttamente colpite soffrirebbero principalmente di una sorta di “vittimismo”, indicato col nome di “Sindrome di Chernobyl”. Meno ottimistica la valutazione presentata dai Verdi Europei: il loro contro-rapporto denominato TORCH (The Other Report on Chernobyl) concorda sui morti immediati (65), ma indica almeno 9.000 quelli ascrivibili alla tragedia a tutt’oggi, e da 30.000 a 60.000 quelli prevedibili in futuro. Secondo la “Chernobyl Union”, dopo vent’anni dalla catastrofe si contano già 60.000 morti e 165.000 disabili a seguito della contaminazione. Altre fonti meno attendibili indicano cifre che si aggirano sui 6 milioni su scala mondiale nel corso di 70 anni (Greenpeace). Se anche la verità stesse nel mezzo, non sarebbe

certo incoraggiante. Tuttavia, al di là dei numeri piuttosto algidi, esistono le conseguenze effettive e tangibili sulla popolazione colpita dal fall-out: se le stime dei decessi sono ancora oggetto di accese discussioni, esse rappresentano solo la punta dell’iceberg costituito da una situazione patologica generalizzata in netta ascesa nell’ambito delle popolazioni interessate: leucemie e neoplasie solide di varia natura (tumori tiroidei specialmente nei bambini), malformazioni congenite, disturbi mentali, malattie metaboliche (diabete), respiratorie e cardiovascolari. Patologie che, se non mortali, sono sicuramente invalidanti per la generazione presente e preoccupanti per quelle future. Per chi desidera un diverso tipo d’approccio al problema, su Internet sono facilmente visibili le immagini di questa situazione: povere creature di ogni età, malate, mutilate, deformi, ritardate. L’aspetto più brutale (e forse meno rispettoso) del dopo-Chernobyl. Conclusioni L’incidente di Chernobyl costituisce una delle più gravi catastrofi in situazione di non belligeranza, i cui effetti perdurano tutt’oggi. Se le pesanti conseguenze ambientali sono state inevitabili, non lo erano quelle sanitarie che continuano a colpire le popolazioni di Ucraina, Bielorussia e non solo: la stima delle vittime non è, purtroppo, definitiva. Nel 1986 la situazione politica dell’Unione Sovietica aveva ancora caratteristiche di guerra fredda, e la politica del silenzio imposta dalle autorità ha prodotto un ritardo nell’evacuazione e nell’informazione delle popolazioni interessate dal fall-out radioattivo, responsabile di un vasto effetto di contaminazione. Le voci dissidenti sono state messe a tacere, come ad esempio Vassili Nesterenko, direttore dell’istituto di fisica Nucleare in Bielorussia, internato in un ospedale psichiatrico; o Yuri Bandazhevsky, direttore del Gomel Medical Institute, imprigionato cinque anni dietro false accuse di corruzione. E probabilmente tante altre. La verità, in questa vicenda, sembra gemellarsi col sarcofago che ricopre la centrale fantasma: una colata di cemento in cui appaiono le crepe. Che importa, alla fine, se Chernobyl è la stella biblica chiamata Assenzio, simbolo dell’ultimo giorno del mondo? Dopo tante parole, tante cifre e tante morti, resta soltanto qualche pensiero confuso sulla sconcertante fragilità dell’uomo, la meschina incoscienza del male, l’assurda facilità dell’apocalisse. n Cristina Donati

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TESTAMENT

(Testament - L. Littman, 1983) di Cuccu’ssette

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he Last Testament è un racconto della scrittrice statunitense Carol Amen. Mai tradotto in lingua italiana, è giunto nel nostro Paese adattato nel film Testament, realizzato nel 1983 dalla PBS, una rete televisiva americana. Come gran parte delle fiction nate per il piccolo schermo, è stato realizzato con finanziamenti assai modesti e solo in un secondo momento è stato distribuito al cinema, sulla scia del successo di altre pellicole dedicate al pericolo atomico. I mezzi contenuti hanno spinto la produzione a omettere la descrizione esplicita della catastrofe e a lasciar da parte qualsiasi pretesa di ipotetica ricostruzione scientifica. Fin dai primi fotogrammi, la regista Lynne Littman si dedica alla costruzione di personaggi coerenti, inscenando situazioni di vita quotidiana che poco hanno di fantascientifico. Introduce dialoghi significativi, privi di retorica, e attraverso le inquadrature pone in evidenza dettagli finalizzati alla narrazione. Una scelta intelligente, quella di rinunciare agli effetti speciali. Ci vengono quindi risparmiati colorati funghi nucleari, piogge di proiettili infuocati, edifici sciolti dalla vampa o qualsiasi atrocità possa venire ricostruita con la fantasia dell’arte e l’orrore della realtà, quella realtà che il Parco della Pace di Hiroshima conserva a memoria dei posteri. La catastrofe atomica è narrata attraverso le vicende quotidiane di una famiglia come tante altre. I coniugi Wetherly vivono con i loro tre figli Brad, Mary Liz e Scottie ad Hamlin, un paesino della California. Si tratta di un sobborgo del tutto fittizio − immaginato alla periferia di San Francisco − ma reso verosimile dall’umanità e dal delicato realismo con cui vengono descritti i suoi abitanti. Nessuno spiega esattamente come mai un giorno accada l’irreparabile. Apprendiamo dal telegiornale che testate atomiche sono esplose sulla Costa Orientale e a New York… Vediamo la luce accecante balenare attraverso la finestra…

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Cinema: Testament


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Tom Wetherly, il capofamiglia, non tornerà mai a casa dal lavoro. Ascoltiamo la comunicazione fatta dal Presidente, ne sentiamo solo la voce al telefono, interrotta. Tutta l’attenzione viene rivolta alla sopravvivenza della famiglia Wetherly. Apparentemente la vita prosegue immutata; il sobborgo appare integro, mentre apprendiamo poco a poco della distruzione di vaste aree degli Stati Uniti. I bambini recitano la fiaba del “pifferaio magico”, i genitori fingono di sperare in un improbabile futuro: intense inquadrature sugli sguardi degli adulti preannunciano l’impossibilità di un domani. Ben presto la gente inizia a morire a causa delle radiazioni; soprattutto i più piccoli, prima Scottie, poi Mary Liz. La morte prende la forma di lenzuoli cuciti per farne sudari, di legna ammucchiata per accendere pire. Con malinconico lirismo si evitano descrizioni di malattie o sintomi, che si lasciano solo intuire attra-

FIABA CREPUSCOLARE L’indeterminatezza lasciata sulle cause della tragedia, l’isolamento della comunità, la falsa normalità della vita dei superstiti, il destino incombente eppure svelato con misura, e l’assenza di precisi riferimenti temporali accrescono la suggestione creando un clima

Musica originale: James Horner Costumi: Julie Weiss Produttori: Jonathan Bernstein, Lynne Littman, Andrea Asimow PREMI • nomination 1 OSCAR 1984: Best Actress in a Leading Role (Jane Alexander); • nomination 1 GOLDEN GLOBE 1984: Best Performance by an Actress in a Motion Picture - Drama (Jane Alexander)

Cinema: Testament

Scheda

Titolo originale: Testament Produzione: USA, 1983, PARAMOUNT PICTURES Durata: 90 minuti Tratto dal racconto “The Last Testament” di Carol Amen Regia: Lynne Littman Sceneggiatura: John Sacret Young Fotografia: Steven Poster Montaggio: Suzanne Pettit Scenografia: David Nichols

verso fugaci scorci su panni sporchi, ciuffi di capelli… Ci si concentra su immagini di lettini vuoti, su ricordi evocati da foto e da nastri di registratori. Incapaci di suicidarsi, i superstiti cercano di andare avanti un giorno dopo l’altro, e il desiderio di tutti è ricordare: quanto c’è stato di bello, quanto c’è stato di orribile. Questo è il senso della vita. Delicatissima la conclusione, tutta centrata sull’importanza della memoria: a un compleanno nel presente si sovrappone il compleanno di Tom, evocato da un vecchio filmato super 8.

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Cinema FANTASCIENZA

claustrofobico, di quelli raramente raggiunti al cinema, tanto meno da fiction nate per essere trasmesse in prima serata. Ricordando le performance di teatro-testimonianza centrato su pagine di storia recente che hanno riempito i palcoscenici negli ultimi anni (esperienze di parenti di desaparecidos, di fotoreporter, di reduci di guerra, di sopravvissuti allo tsunami…) viene da pensare che, con pochi adattamenti, anche Testament funzionerebbe in forma di piece teatrale, dato il grande spazio delegato all’immaginazione dello spettatore. L’identità del Capo di Stato americano viene affidata alla nostra fantasia, sfuggendo così a una precisa collocazione storica. Poteva essere Reagan, o chi altri al suo posto nel futuro. Incidente o guerra, complotto sovietico o terrorismo, la causa dell’apocalisse atomica resta un mistero. L’unico dettaglio che data il film è l’assenza di telefoni cellulari, personal computer e Internet; era impossibile, in quegli anni, immaginare lo sviluppo tecnologico che avrebbe cambiato il mondo.

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Il tono minimalista, le situazioni quotidiane, il montaggio lento, tipico delle fiction, in questo caso aumentano il pathos. Anziché abbondare con dettagli che magari sfuggirebbero all’attenzione distratta dello spettatore televisivo, si insiste nel presentarne pochi, ripetutamente ma con sinistra gravità. La sensibilità è tutta postmoderna: ogni aspetto spettacolare del disastro è sminuito, se non eliminato completamente. Il sobborgo non viene distrutto dalle esplosioni, nessun scienziato si dilunga a descrivere gli effetti della bomba; i personaggi s’indeboliscono gradualmente, per le malattie e per il senso di rassegnata sconfitta. La pellicola è intimista come poche: i protagonisti sono isolati dal mondo, hanno perso affetti, certezze e speranze, percepiscono che la civiltà umana è al suo crepuscolo. Si rendono conto che non ci sarà salvezza, non arriveranno i “nostri” né un Pifferaio Magico che liberi Hamlin dalle radiazioni. Il nome del sobborgo non è casuale. Se si confrontano le illustrazioni della fiaba scritta dai Fratelli Grimm con quelle della danza guidata dalla Morte dipinta sulle pareti delle cattedrali medievali e poi ripresa da Ingmar Bergman nella sequenza-culto dell’epilogo de Il Settimo Sigillo, si notano inquietanti somiglianze. Sostituite il musicante allo scheletro con la falce, e rimpicciolite gli adulti che si affannano dietro, e il gioco è fatto. Un personaggio guida, gli altri si prendono per mano e gli vanno dietro, eseguendo facili figure: di certo era il ballo semplice danzato da ogni ceto, bene si adatta a rappresentare un eterogeneo corteo. Nel caso delle illustrazioni della celebre fiaba, l’ambiguità viene rafforzata: la catena umana viene guidata dal Pifferaio o dalla Morte?

Cinema: Testament


FANTASCIENZA Del racconto sono state date molte interpretazioni, alcune ispirate dalla Crociata dei Bambini, altre alla particolarità di alcuni ceppi etnici in Transilvania (i discendenti dei fanciulli condotti dal Pifferaio oltre una cascata, come riportano i Grimm?), altre ancora alle pestilenze che decimarono le popolazioni europee costringendole a migrazioni interne. Nella fiaba, i giovanissimi venivano portati via dal Pifferaio perché i genitori erano stati avari al momento di compensare il loro salvatore. Un solo bambino torna in paese: è zoppo e non è riuscito a tenere il passo con gli altri; un po’ come succede a Hiroshi, il ragazzo ritardato che viene adottato dalla protagonista. L’unico Pifferaio che vediamo nella Hamlin californiana è la Morte, e prende con sé i piccoli, che il mondo adulto, provocando la catastrofe atomica, non ha meritato. SENZA PARAGONE! Quando Testament giunse nelle sale cinematografiche, ebbe un seguito limitato, anche perché fu proiettato in contemporanea con l’appariscente The Day After. Quest’ultima pellicola ottenne molto più successo, affrontando lo stesso tema ma con tutti gli espedienti narrativi propri dei disaster movie. Fa uso di personaggi stereotipati, abbonda di scene da vero kolossal, avanza pretese di verosimiglianza scientifica che oggi fanno sorridere: il tutto finalizzato all’intrattenimento. Il secondo tempo rinnega il decadimento fisico e materiale e gioca la carta della speranza, del patriottico ottimismo. Può darsi che fosse necessario, un obbligo se si vuol credere che un pianeta devastato dalle radiazioni possa tornare alla vita in breve tempo. In questo senso, confrontando oggi le pellicole, The Day After appare probabilmente troppo rassicurante, mentre Testament si rivela un piccolo capolavoro, sebbene tanto angosciante da scoraggiare eventuali successive visioni. The Day After mostra l’apocalisse atomica con un costante accumulo di dettagli ed episodi eclatanti, in Testament si procede per sottrazione: è l’assenza che rafforza l’importanza e il valore di ciò che viene a mancare, sia esso il carburante o l’affetto delle persone care. Oppure quei sentimenti che i giovanissimi non riusciranno mai a scoprire, come il sesso, il fare l’amore che per l’appena adolescente Mary Liz resterà un mistero irrealizzabile. È un film coraggioso e duro, fatto di altalene che oscillano abbandonate nei parchi giochi, di cassetti usati come bare per neonati, di bambini sepolti con i giocattoli preferiti, di voci registrate

sulla segreteria telefonica, voci di mariti che non torneranno dalle mogli e di cui ignoreremo il destino. Molti personaggi scompaiono, uccisi dalle radiazioni; o vengono mostrati nell’atto di lasciare il quartiere. O semplicemente finiscono ignorati dalla macchina da presa, abbandonati al loro destino al pari degli oggetti e delle case di quello che presto o tardi diverrà un sobborgo fantasma. BELLO, BELLISSIMO, INSOPPORTABILE È tanto pathos ad aver probabilmente limitato il successo: il pubblico ama le storie tragiche, quando sa che non possono essere vere, o quando non riesce a identificarsi completamente nei protagonisti. Nes-

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suno si attende che Romeo sposi Giulietta e vivano felici e contenti, o che Spartacus sopravviva al potere di Roma. Tutti però sappiamo che la coppia veronese è frutto della fantasia, e Spartacus è protagonista di un episodio dimenticato dalla storia. Sono creature tragiche il cui destino è segnato fin dal primo fotogramma, o piuttosto simboli dell’amore e della dignità umana, concretizzati dall’Arte. La famiglia Wetherly è invece formata da persone che ci assomigliano troppo, che ricordano vicini, amici o parenti. La recitazione è curatissima, e lo spettatore può quindi identificarsi o sovrapporre situazioni e personaggi fittizi a persone reali. L’angoscia che si origina è veramente forte, le emozioni decollano proprio a causa dell’ottima caratterizzazione psicologica e della narrazione che procede senza retorica o patriottismi. Niente a che vedere con la qualità quasi dilettantesca del grosso dei film di attualità che, inscenando ogni genere di dramma umano, affollarono i palinsesti televisivi alla fine degli anni Ottanta. Testament colpisce dritto al cuore proprio perché è tutto tranne che

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un documentario, trascura l’esteriorità e descrive con esasperante lentezza un decadimento progressivo che lascia poche speranze. Come se non bastasse, dopo The Day After e War Games - Giochi di Guerra, il pubblico si attendeva un film nella migliore tradizione del genere catastrofico e fantascientifico. Trovarsi davanti una pellicola ripresa in interni spogli, in strade qualsiasi, priva di spettacolarità e di lieto fine, deprimente, cupa e disperata, anche se di essai, è una sorpresa che ha deluso gli spettatori, impreparati a un dramma umano privo di effetti speciali e vicende improbabili. Senza il successo delle citate e più celebri pellicole, forse neppure sarebbe arrivato nelle sale; tanto meno doppiato in italiano. Proiettato in qualche sala di essai o in festival cinematografici, venne trasmesso in prima serata in televisione, e poi… scomparve. Nonostante l’attrice Jane Alexander fosse stata candidata per l’Academy Award, e ci fosse stato sentore di Oscar, Testament è stato edito in DVD solo nel 2004, venduto a prezzo ribassato, e soltanto per il mercato americano. La regista è ricordata come documentarista, il film è stata la sua unica incursione sul grande schermo. Non esistono copie in lingua italiana, tranne forse qualche videocassetta registrata dalla televisione e dimenticata nei depositi di qualche scuola; né è reperibile negli archivi multimediali. Considerato un (capo)lavoro scomodo e doloroso, è passato a suo tempo in sordina, per poi venire rimosso, come un episodio fastidioso della propria vita. n Cuccu’ssette

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FANTASCIENZA Carol Wetherly Jane Alexander

Tom Wetherly William Devane

Tipica casalinga americana, bene inserita nella propria comunità. Si trova improvvisamente sola a dover curare i suoi tre figli nel dramma desolato e senza speranza del dopo bomba.

È un padre affettuoso, capo di una famiglia felice e serena. La catastrofe lo coglie lontano da casa, lasciando di lui solo vecchi filmati e la voce registrata dalla segreteria telefonica.

Brad Wetherly Rossie Harris

Scottie Wetherly Lukas Haas

L’unico dei figli dei coniugi Wetherly a sopravvivere alle malattie e alle privazioni del dopo catastrofe. Affronta con coraggio la perdita dei fratelli e la disperazione della madre.

Il più piccolo di casa Wetherly. È un bambino molto sensibile, attraverso il quale si manifesta tutta la spietatezza della tragedia: è lui il primo della famiglia a soccombere alle radiazioni.

Mary Liz Wetherly Roxana Zal

Mike Mako

La figlia maggiore dei Wetherly. È una ragazzina piena di sogni e di fiducia nel futuro, ma la morte stronca inesorabilmente ogni sua illusione, cogliendola alle soglie dell’adolescenza.

È il benzinaio del paese, amico di Tom Wetherly. Uomo saggio e tranquillo, si divide nell’accudire il figlio ritardato e nel gestire un garage. Le radiazioni non risparmieranno neppure lui.

Padre Hollis Mann Philip Anglim

Hiroshi Gerry Murillo

È il giovane parroco della comunità. Cerca di assistere come può i sopravvissuti, a cui il dopo bomba erode lentamente ogni speranza. Sarà di conforto anche per la vedova Wetherly.

È il figlio ritardato di Mike, spesso accompagnato a pescare da Tom e Brad. Alla morte del padre verrà adottato da Carol Wetherly, rimasta ormai con il solo sostegno di Brad.

Henry Abhart Leon Ames

Fania Morse Lilia Skala

Il vicino di casa dei Wetherly. Possiede un generatore di corrente per mezzo del quale riesce a proseguire anche dopo la catastrofe la sua attività di radioamatore, aiutato da Brad.

L’insegnate che si occupa della recita scolastica. Assiste al lento e ineluttabile spegnersi del mondo, scandito dalle assenze dei suoi alunni che uno ad uno soccombono alle radiazioni.

Phil Pitkin Kevin Costner

Cathy Pitkin Rebecca De Mornay

Uno dei primi ruoli interpretati dal pluripremiato regista di “Balla coi Lupi”. È un vicino di casa dei Wetherly; insieme alla moglie dovrà affrontare il dramma della morte del figlioletto neonato.

Un quasi esordio anche per la protagonista de “La Mano sulla Culla”. Qui è la giovane moglie di Phil, vicina dei Wetherly; col marito lascerà la cittadina dopo la perdita del loro neonato.

Cinema: Testament

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THE DAY AFTER IL GIORNO DOPO (The Day After - N. Meyer, 1986) di Cristina Donati

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tati Uniti, anno 1983. Nella cittadina di Lawrence la vita scorre tranquilla, sebbene la situazione politica mondiale sia preoccupante. Il dottor Russell Oakes della vicina Kansas City programma le sue lezioni all’università; la famiglia Dahlberg è alle prese con le piccole difficoltà quotidiane; gli Hendry hanno una fattoria e due graziosi bambini. Nessuno sembra pensare troppo alla guerra sempre più calda in corso tra forze Nato e Patto di Varsavia: l’Europa è lontana anni luce e sicuramente un altro presidente Kennedy scongiurerà il pericolo come ai tempi di Cuba. Tutti continuano la vita consueta: lavorano, litigano, fanno l’amore, mentre gli indizi della nube che si va addensando sono sempre più evidenti. Sapienti ombre d’inquietudine permeano infatti gli scenari volutamente idilliaci di un’America dove il “sogno” sembra ancora intatto: l’aviere scelto Billy McCoy viene improvvisamente mandato in missione presso una delle tante rampe missilistiche sotto i verdi pascoli del Kansas, e le notizie della televisione si fanno sempre più concitate e allarmanti. Poi, quello che non sarebbe mai dovuto succedere – perché “gli uomini sono pazzi ma non così pazzi”– accade: la crisi tra i due blocchi giunge a un punto critico, il fatidico bottone viene premuto e la Bomba esplode, ovunque e senza distinzioni. Il “giorno dopo” arriva con una pioggia di cenere su scenari stravolti e alieni, tra le rovine dei quali i sopravvissuti vagano come zombie o restano barricati sottoterra per scampare alle radiazioni. Orrore e violenza dilagano, mentre gli effetti letali del fall-out iniziano a mietere un numero sempre maggiore di vittime. L’unico luogo ancora in grado di offrire assistenza è l’ospedale universitario di Lawrence, dove medici, infermieri e volontari condividono la sorte dell’interminabile processione umana che giunge a chiedere soccorso. Mentre tante vite si interrompono

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FANTASCIENZA PREMI • 2 EMMY 1984: Outstanding Film Sound Editing for a Limited Series or a Special (Brian Courcier, Greg Dillon, David R. Elliott, Michael Hilkene, Fred Judkins, Carl Mahakian, Joseph A. Mayer, Joseph Melody, Roy Prendergast, Catherine Shorr, Richard Shorr, Jill Taggart, Christopher T. Welch); Outstanding Individual Achievement - Special Visual Effects (Robert Blalack, Nancy Rushlow, Dan Pinkham, Chris Regan, Larry Stevens, Dan Nosenchuck, Christofer Dierdorff)

– alcune in un pietoso istante, altre in una lenta e consapevole agonia – nasce un bambino: la sola fragile speranza per un possibile futuro. The Day After - Il Giorno Dopo, di Nicholas Meyer, è un film per la tv che rientra nella produzione tipica del periodo “guerra fredda”, iniziata con pellicole quali Il Giorno dopo la Fine del Mondo (Panic in Year Zero!, 1962), Il Dottor Stranamore (Dr. Strangelove…, 1964), A Prova di Errore (Fail Safe, 1964) e proseguita in coincidenza con la corsa agli armamenti tra URSS e USA vent’anni dopo. Nel 1983, oltre a The Day After, escono Testament, Special Bulletin, WarGames - Giochi di Guerra (WarGames), seguiti da Ipotesi Sopravvivenza (Threads, 1984), When the Wind Blows (1986), e dalla miniserie televisiva Rules of Engagement (1989). Tutta questa cinematografia ha un denominatore comune: la paura della fine del mondo intesa come un’agonia che inizia con l’atomica e si prolunga attraverso sofferenze al di là di ogni immaginazione. Eppure questo stato d’animo – presente anche in molta produzione letteraria, basti pensare ad autori come Philip K. Dick o romanzi come Un Cantico per Leibowitz di Walter M. Miller – in ambito cinematografico è stato affrontato da punti di vista se vogliamo “laterali”: Il Dottor Stranamore ridimensiona la tragedia utilizzando la satira, WarGames utilizza un piano prevalentemente fantascientifico, Ipotesi Sopravvivenza si concentra sul dramma vissuto nelle alte sfere, Testament offre una visione contenuta e tristissima del “giorno dopo” attraverso la psicologia sofferta dei sopravvissuti. Nicholas Meyer cerca invece qualcosa di diver-

Scheda

Titolo originale: The Day After Produzione: USA, 1983, ABC CIRCLE FILMS Durata: 127 minuti Regia: Nicholas Meyer Sceneggiatura: Edward Hume Fotografia: Gayne Rescher Montaggio: William Paul Dornisch, Robert Florio Scenografia: Peter Wooley Musica originale: David Raksin Costumi: Bill Flores Effetti speciali: Gene Produttore: Robert Papazian

so.

The Day After non è un film che si possa definire di effettiva qualità: la psicologia grezza, le grandi gesta e i luoghi comuni sono quelli di molti action movie d’oltreoceano. L’America “prima e dopo la bomba” viene raccontata mediante stereotipi scelti con cura: la middle class è un insieme di tante famiglie Ingalls (La Casa nella Prateria) che abitano ridenti cittadine e campagne piene di sole, i militari delle basi missilistiche sono presenze amichevoli come i vicini di casa e la colonna sonora esegue una classica musica country da telefilm. Contrapposta a questo scenario di spaziosa serenità, in cui tutti sembrano non vedere, non sentire e non capire, la frenetica attività delle alte sfere: telefonate tra vertici politici e militari, stanze blindate piene di bottoni, soldati in stato di allerta negli aerei da guerra. Il messaggio è chiaro: la cosa più lontana dai vostri pensieri sta accadendo ora. I personaggi sono quelli di una soap opera, e come tali parlano e agiscono. Il medico stimato, padre e ma-

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rito affettuoso, si getta anima e corpo nella missione che la professione richiede; il capofamiglia rurale – perfetto erede del tradizionale cowboy – è il primo ad avvertire l’imminenza del pericolo e a volgere lo sguardo al cielo grazie alla saggezza di un popolo rude e legato alla terra; la ragazza ribelle scende nel rifugio improvvisato stringendo un orsacchiotto e l’abito da sposa; il docente di scienze, l’unico informato dei fatti, organizza i propri studenti per gestire l’emergenza. The Day After ha vinto due Emmy, scatenato infiniti dibattiti, polemiche, ovazioni, petizioni, l’intervento di scienziati come Carl Sagan (in questa occasione fu enunciata la teoria dell’inverno nucleare) e politici come Kissinger, il commento di capi di stato

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quali Reagan. Ma perché, al di là del sensazionalismo, questo tv-movie ha colpito così tanto l’opinione pubblica mondiale? Meyer stesso offre una possibile risposta: “Come regista, mi sono trovato impegnato nell’esercizio continuativo di non fare un buon film. Non volevo che il pubblico parlasse di Jason Robards o della colonna sonora. Ho voluto che il mio ruolo non fosse fare un film, ma un pubblico annuncio: se ci sarà una guerra nucleare, ecco quello che probabilmente accadrà, magari anche peggio.” Questa affermazione può far pensare a un atteggiamento difensivo, eppure la struttura stessa del film, così eccessivamente prevedibile nella trama, nella recitazione e nella psicologia dei personaggi, sembra confermarne la sincerità. Nonostante le scene a volte risibili da un punto di vista scientifico (Robards-Oakes si salva da una vicinissima esplosione chinandosi tra i sedili della sua auto), o gli effetti speciali che oggi fanno sorridere (gli scheletri ai raggi X di animali e persone vaporizzate, i funghi atomici identici a grossi porcini), The Day After obbliga lo spettatore a guardare l’olocausto nucleare negli occhi, senza sconti o possibili distrazioni. In un momento storico in cui la minaccia di un conflitto atomico – le cui reali conseguenze sono ancora ignote, a parte Hiroshima – era assai tangibile, il film di Meyer ha raccontato quello che potrebbe succedere alla gente comune: la perdita di affetti, radici e dignità, ovvero quelle componenti di vita considerate scontate. Non a caso la vicenda si svolge in un tempo e in uno spazio che sono quelli dello spettatore: il 1983 è sia l’anno di uscita del film sia quello in cui si svolgono i fatti narrati, e la maggior parte delle riprese è stata fatta nella cittadina di Lawrence, nel campus universitario e nelle zone limitrofe, utilizzando come comparse i residenti. Paura ed eroismo, morte e sopravvivenza, sangue e scomparsa della civiltà vengono quindi rappresentati non tanto con la finzione scenica, quanto con il realismo di uno show postapocalittico ambientato in diretta fra le pareti di casa nostra. Ed è questo il suo indiscutibile merito: costringe a non voltare la testa e a pensare. Il film, pur mostrando le cause e l’evolversi di una situazione verso il limite estremo, non offre soluzioni e, nonostante ammetta una possibile sopravvivenza della razza umana, non ha un finale consolante: davanti alla distruzione, l’ultima reazione dei migliori eroi è ancora un urlo rabbioso che rivendica ciò che non esiste più, senza rassegnazione o consapevolezza, con il solo conforto di un pietoso abbraccio. n Cristina Donati

Film TV: The Day After - Il Giorno Dopo


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GLI AVVENTURIERI DEL PIANETA TERRA

(The Ultimate Warrior - R. Clouse, 1975) di Leonardo Colombi

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ew York, anno 2012: in uno scenario postatomico, la Comune guidata dal “Barone” (Max Von Sydow) sopravvive cercando di difendere una minima forma di organizzazione sociale. La condizione è di estrema ristrettezza, il cibo e l’acqua vengono razionati, contese e incomprensioni non mancano, ma s’intravedono anche segnali di rinascita: Melinda (Joanna Miles), figlia del Barone, aspetta un bambino, e le colture pazientemente accudite dal genio della botanica Cal (Richard Kelton) cominciano a dare frutti. Nuovi “semi” sono dunque pronti a offrire prospettive di vita migliore. Di natura opposta sono le bande violente che si aggirano al di fuori della Comune, capeggiate dallo spietato Carrot (William Smith). Sono uomini e donne abbruttiti dall’indigenza, sopraffatti da un clima di caos in cui dominano solo violenza e barbarie. Agguati, omicidi facili e sequenze di lotta tratteggiano una società sull’orlo del baratro: la guerra nucleare e le epidemie hanno cancellato leggi, ordine e rispetto per il prossimo. Per difendere la sua gente dall’aggressività degli esterni, il Barone ingaggia Carson (Yul Brynner), un laconico mercenario, abile nel combattere, avvezzo alla vita di strada eppure in possesso di saldi principi morali in nome dei quali vivere e morire. Intanto, la scarsità di cibo continua a logorare la Comune conducendo inesorabilmente a comportamenti irrazionali: sintomatici sono la fuga all’esterno di una madre alla disperata ricerca di latte in polvere per il figlio, oppure la condanna a morte comminata per il furto di qualche pomodoro. È necessario rispondere con fermezza, ricorrere alla violenza per dissuadere chi minaccia il futuro della collettività. Un brutto giorno, durante l’ennesimo assalto alla Comune da parte del gruppo di Carrot, Cal perde la vita; sconvolto, il Barone predispone un piano di fuga affidando a Carson la figlia, ormai prossima al parto, e i semi ottenuti dal botanico, in cui

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Cinema FANTASCIENZA e Melinda l’opportunità di impadronirsi dei semi; poco ragionano sull’insensata uccisione del botanico, la persona che sarebbe stata in grado di far germogliare nuove piante: tutto ciò a cui essi pensano è il recupero del tesoro vegetale. Gli inseguitori avranno però vita dura contro il letale Carson, impegnato a difendere Melinda che, nel frattempo, darà alla luce il suo bimbo.

Scheda

risiedono le poche speranze di alimentare un futuro altrimenti sterile. Mentre il guerriero scappa attraverso la rete fognaria e i tunnel della metropolitana, recando con sé la ragazza e i preziosi semi, la gente della Comune, disperata e ottusa, insorge contro il Barone uccidendolo selvaggiamente. È la definitiva caduta di quell’ordine a cui così tenacemente si era rimasti aggrappati tra privazioni e difficoltà. Carrot e i suoi intravedono nella fuga di Carson

Titolo originale: The Ultimate Warrior Produzione: USA, 1975, WARNER BROS. PICTURES Durata: 94 minuti Regia: Robert Clouse Scritto da Robert Clouse Fotografia: Gerald Hirschfeld Montaggio: Michael Kahn Scenografia: William F. Calvert Musica originale: Gil Melle Costumi: Ann McCarthy Effetti speciali: Gene Grigg Produttori: Paul M. Heller, Fred Weintraub

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Commento Realizzato nel 1975, diretto da Robert Clouse e interpretato da un cast di tutto rispetto, Gli Avventurieri del Pianeta Terra (stravagante traduzione del titolo originale, The Ultimate Warrior) possiede il fascino tipico dei classici, proponendo una visione ricca di spunti – sebbene a tratti semplicistica –, con un finale aperto, magari poco curato ma velatamente poetico; un epilogo che lascia lo spettatore a interrogarsi sul destino dell’umanità, mentre le onde dell’oceano sullo sfondo richiamano alla mente il brodo primordiale da cui ha avuto origine la vita. In Italia il film non ha riscosso molti consensi; del resto non è esente da difetti. S’indaga poco sui motivi che hanno generato lo scenario postatomico: si accenna a un disastro nucleare, a epidemie e carestie, ma l’argomento viene liquidato in poche battute. E vaghi rimangono anche i riferimenti all’umanità superstite al di fuori di New York: Carson e Melinda devono dirigersi verso un’imprecisata isola in cui sembra siano insediati altri sopravvissuti, ma nulla di più viene detto. L’utilizzo di effetti speciali è limitato e le sequenze di lotta spesso si concludono molto rapidamente, con improbabili colpi mortali e pose troppo composte; sequenze che appaiono poco “realistiche” e poco spettacolari, specialmente se confrontate con le coreografie e i ritmi vertiginosi ai quali il cinema moderno ci ha abituato (si pensi a pellicole come Matrix o La Tigre e il Dragone). Ad ogni modo, adeguato agli anni in cui la minaccia nucleare era molto sentita, lo scenario violento e disperato descrive bene i timori della guerra fredda: la cancellazione della società, delle istituzioni, della giustizia, dell’arte, della cultura… un’umanità allo sbando, egoista, brutale, apatica, mossa solo alla ricerca di cibo.

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FANTASCIENZA Proprio il cibo, in più di un’occasione, diviene metafora di ricchezza e cupidigia, ben simboleggiata nella scena del furto del “pomodoro”, sostituto della mela che causò la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden. Qui il “frutto” mantiene un significato di tentazione che determina il delitto e il castigo, ma al contempo di speranza per una vita migliore, un richiamo a quel Paradiso perduto che l’uomo tenta vanamente di ricostruire. In un contesto così cupo non rimane spazio per forme di coesistenza pacifiche e civili. Anche all’interno della Comune, nonostante il ripristino di un minimo ordine, si assiste al processo di imbarbarimento, allo sfoggio di rabbia irrazionale nel momento in cui l’individuo si sente minacciato o tradito. Una lettura pessimistica che purtroppo continua a trovare riscontri ancor oggi nei fatti Carson Yul Brynner Il combattente solitario, ingaggiato dal Barone per difendere la Comune dalle bande di gente disperata e imbarbarita che la assediano. Barone Max von Sydow Il saggio e carismatico leader della Comune, all’interno della quale, con fatica, cerca di preservare almeno una parvenza di ordine e legalità. Melinda Joanna Miles La figlia del Barone. Quando la situazione nella Comune precipita, a Carson viene affidato il compito di salvare lei e il bimbo che porta in grembo. Cal Richard Kelton L’esperto botanico che è riuscito a coltivare una piccola serra all’interno della Comune, essenziale per sfamare i superstiti della guerra. Carrot William Smith Lo spietato capo del gruppo di sbandati che vive al di fuori della Comune, dove violenza e sopraffazione dilagano ormai senza freno.

di cronaca vera. La desolazione materiale viene presentata per mezzo di lunghe riprese statiche che indugiano sulla condizione di abbandono in cui versa New York: edifici deserti e semi distrutti, polverosi e invivibili; veicoli immobili, abbandonati, carcasse di auto e treni privi di carburante ed energia elettrica con cui alimentarli. Nessuno si sforza di sgomberare, pulire, ripristinare, dimostrando così un’ormai totale perdita di interesse verso il futuro. Ci si accontenta di usare fiaccole, di indossare vesti semplici, a tratti “medievali” al pari delle armi: coltelli, spranghe, catene e balestre. Non ci sono fucili o pistole come invece gli spettatori degli anni Settanta – cresciuti a suon di western e polizieschi – si sarebbero aspettati. La scelta di non mostrare armi da fuoco non ha condizionato le successive pellicole del filone postapocalittico metropolitano – di cui questo film rappresenta certamente uno dei capostipiti –, basti ricordarne l’ampio uso in Interceptor. Forte è l’analogia con quel che accade nel futuro postatomico proposto nei manga e negli anime della serie Ken il Guerriero; anche il titolo originale del film, letteralmente “il guerriero finale”, e la fisicità del personaggio interpretato da Yul Brynner richiamano alla mente l’opera di Tetsuo Hara e Buronson. In ultima analisi, il film rappresenta un prodotto di buona fattura – senza pretesa di essere un capolavoro – di cui si consiglia la visione. Tematiche come il nucleare e la crisi economica sono attuali, mentre lo scenario di un’umanità in decadimento e a corto di risorse si sposa con certe scoraggiate previsioni sul futuro del pianeta. Difficile rimanere indifferenti alla vista di un’umanità priva di fonti d’energia, impossibilitata a godere di quei benefici e di quelle comodità che la vita moderna ha reso oggi indispensabili. n Leonardo Colombi

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Animazione

Animazione

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QUANDO SOFFIA IL VENTO

(When the Wind Blows - J.T. Murakami, 1986) di Cuccu’ssette

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osa fare, in caso di guerra atomica? Scappare lontano dalle zone popolate, rifugiarsi in un cupo bunker, pregare la misericordia divina; mai e poi mai chiedere consigli ai coniugi protagonisti del film di animazione Quando Soffia il Vento (When the Wind Blows). Il lungometraggio descrive un ipotetico attacco atomico sovietico al Regno Unito, in piena Guerra Fredda. La narrazione ha un punto di vista piuttosto inconsueto, quello di due attempati coniugi. Pensionati, hanno lasciato la città per una linda casetta immersa nella campagna inglese del Sussex. Sono nonni; il loro figlio ha studiato all’Università e vive a Londra insieme alla moglie e al nipotino. Sono molto affiatati e, nonostante i piccoli battibecchi e gli acciacchi, trascorrono una vecchiaia serena. L’uomo legge i giornali alla biblioteca pubblica, convinto della necessità di informarsi su cosa accade nel mondo, ha una fiducia illimitata nei confronti di chi governa il Paese. La moglie invece cerca di ignorare le brutte notizie, preferisce occuparsi delle faccende domestiche. Ascoltando i giornali radio, la coppia si rende conto del pericolo di un conflitto. Entrambi ricordano la guerra che hanno vissuto da adolescenti e paragonano le due situazioni. Credono di poter subire bombardamenti analoghi a quelli tedeschi, temono i lager, hanno idee molto confuse riguardo i rischi della radioattività. Sono convinti di potersela cavare facendo molta attenzione, magari stringendo la cinghia oppure attenendosi a quanto scritto negli opuscoli informativi che il Governo ha stampato e distribuito. “Istruzioni per la sopravvivenza” e “Manuale per la sopravvivenza per la famiglia” dovrebbero spiegare come difendersi dal fall-out costruendo un rifugio antiatomico.

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Purtroppo, le istruzioni sono complicate, si contraddicono e richiedono competenze che mancano ai due. Il marito smonta porte e serramenti, sposta mobili, mette sottosopra il cottage, lo ridipinge, tra i continui rimbrotti della moglie. Compera il poco cibo che ancora riesce a trovare sui banchi svuotati dall’accaparramento e lo ripone nel rifugio, che assomiglia a una casetta costruita per gioco da dei ragazzini! La bomba scoppia davvero, e i coniugi trascorrono il poco tempo che resta loro da vivere attendendo invano i soccorsi. CARTOON PER PENSARE Il film è stato tratto da una graphic novel omonima, creata da Raymond Briggs. Diretto da Jimmy T. Murakami, è uscito nelle sale britanniche nel 1986, ed è stato poi distribuito in Europa. Si tratta di un cartone animato che fonde tecniche di tipo tradizionale a sequenze di filmati di cineteca. Il tratto, apparentemente naif è impiegato in modo insolito: i personaggi sono rappresentati con disegni bidimensionali, e animati con l’uso di sfondi tridimensionali. I colori utilizzati sono tenui, tinte pastello per la prima parte, poi colori accesi o tratto nero su fondale

marrone per l’istante dell’esplosione, infine dominano i toni del verde, del grigio cupo, nel dopo bomba. Il tratto ha una morbidezza che ricorda gli acquerelli, più che i robot o le maghette, o i personaggi della Disney. Fin dalle prime sequenze si intuisce una pellicola di forte impegno sociale, destinata agli adulti, nonostante usi l’animazione, mezzo espressivo riservato quasi esclusivamente ai giovanissimi. C’era stato The Yellow Submarine, capace di coinvolgere generazioni diverse con le allegre musiche dei Beatles e lo stesso quartetto in versione cartoon come protagonista. La protesta contro la guerra in quel caso aveva avuto toni psichedelici, personaggi allegri e sprizzava ottimismo a volontà – all you need is love! Un vero shock attende invece l’impreparata platea di Quando Soffia il Vento: nessun protagonista in cui un bambino possa riconoscersi, nessun strabiliante eroe per cui parteggiare, nessun buffo animale antropomorfo; né canzoncine orecchiabili e briose: la raffinata colonna sonora è affidata a mostri sacri quali David Bowie. La catastrofe nucleare è la vera protagonista, e la morte incombe sull’umanità; il messaggio pacifista viene trasmesso nella maniera più esplicita possibile, senza indulgere su sequenze violente o ributtanti, e

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senza per questo rendere il dramma meno straziante. Momenti di satira un po’ prevedibili introducono le riflessioni politiche: c’è un’aperta critica nei confronti dei governi, che non sanno proteggere i cittadini e anzi li ingannano, rassicurandoli a sproposito. Né i cittadini sono vittime del tutto innocenti: delegano all’Autorità tutte le decisioni importanti, non si oppongono a scelte paternalistiche e spesso sbagliate. Neppure si sforzano di conoscere le problematiche, almeno fino a quando non si sentono coinvolti in prima persona. Pur nella democrazia, manca un concreto dialogo tra i leader e il popolo, e la colpa non è addossata unicamente a chi detiene il potere, è anche di quanti, per pigrizia, rinunciano a ragionare, a valutare, a opporsi. Una denuncia sociale che di solito viene taciuta nelle opere ispirate alla guerra nucleare: la gente comune

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viene presentata quale vittima, e i potenti come carnefici, senza corresponsabilità. Ci sono accenni a situazioni e personaggi del passato: Stalin, Hitler, Mussolini, Churchill, Montgomery… è quasi impossibile godersi le battute umoristiche senza conoscere gli eventi dell’ultimo secolo (il periodo storico meno approfondito durante la scuola dell’obbligo). I dialoghi a volte risultano prolissi, sebbene adatti a due vecchietti; forse necessari, rischiano tuttavia eccessi di retorica e scoraggiano ulteriormente l’attenzione dei giovani. Né il ritmo narrativo, grave e lento, rimedia in questo senso. Abbondano le atmosfere malinconiche e c’è poca azione, tanto che adattamenti minimi hanno trasformato la graphic novel in un copione per una riduzione radiofonica e una piece teatrale vera e propria. L’AMORE AI TEMPI DELLA BOMBA I protagonisti sono anziani, ritratti con malinconica verosimiglianza e bella introspezione: due nonni come ciascuno di noi potrebbe avere o ricordare. Hanno trascorso la vita insieme, si vogliono molto bene e hanno ancora una saltuaria vita sessuale; si chiamano con tenera malizia “Micio” e “Micia”. A loro agio nel piccolo mondo che li circonda, tra piccole manie e ricordi del tempo che fu, cercano di sopravvivere all’apocalisse nucleare. Eseguono le istruzioni degli opuscoli con ingenuo senso del dovere, o con malcelata rassegnazione, e non perdono mai la speranza, anche quando si scontrano con la dolorosa realtà dei fatti. Di fronte alla catastrofe, i coniugi cercano di darsi spiegazioni, spesso fittizie e sempre meno convincenti: il figlio lontano se la caverà, sa guidare, sa sempre cosa fare; la corrente manca perché viene razionata, e così acqua e gas; il telefono non funziona perché molti pali sono caduti; la TV e la radio non trasmettono perché siamo in tempo di guerra; i crescenti malesseri sono dovuti soltanto ai cambiamenti repentini delle abitudini… Le conseguenze del lancio dell’ordigno nucleare sono molto verosimili: lo scoppio sposta masse d’aria infuocata, l’onda d’urto investe tutto quello che si trova davanti, sgretola edifici, scioglie case e palazzi, fa crollare ponti e deraglia treni… Il cielo si fa cupo, si copre di polveri radioattive, le piante si seccano e sopravvivono solamente gli animali più adattabili, come i ratti, che famelici sbucano dalle condutture. Anche se l’animazione risparmia i dettagli più crudi, poco tace sul decadimento fisico dei due anziani; il lento

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soccombere viene mostrato con pudore e delicatezza, senza menzogne pietose. Niente sappiamo invece della sorte toccata all’umanità, quale Nazione abbia vinto la guerra, se ci siano sopravvissuti, se alcune zone della Terra siano ancora vivibili. D’altronde la vicenda scorre su binari narrativi diversi, mostra quanto sia importante la causa della Pace, e descrive con delicatezza la vecchiaia. È un film sulla guerra, non è un film di guerra come può essere Salvate il soldato Ryan, né si tratta di un disaster movie attualizzato. Lontanissimo dalle rappresentazioni belliche tipiche di Hollywood, Quando Soffia il Vento critica il pacifismo quando diviene sinonimo di quieto vivere, quando la conquista della pace non presuppone la presa di coscienza sui problemi e la volontà di opporsi alle piccole e grandi ingiustizie. A rendere − se possibile – più crepuscolare la vicenda, viene suggerita l’idea che i due anziani siano gli ultimi esseri umani sulla faccia del pianeta. La vicenda ha momenti umoristici che ironizzano con delicatezza sulla terza età, sui vizi britannici, o sull’inadeguatezza della politica e delle misure di emergenza, tuttavia re-

sta sempre drammatica e cupa. Ovviamente l’epilogo è tragico. Si riflette su cosa sia davvero importante, davanti all’inevitabile. Entrambi i protagonisti sono impreparati a fronteggiare il pericolo, come il resto dell’umanità, per quanto sappiamo. James-Micio ha illimitata fiducia nel governo, crede di poter davvero fare qualcosa, aspetta i soccorsi, immagina con ingenuità cucine da campo e cure miracolose. Hilda-Micia non si interessa di attualità e reagisce alle avversità giorno per giorno, armata del suo buon senso di massaia. Può darsi che sia pigra, e troppo ignorante; viene tuttavia da pensare che sia molto disillusa. Consapevole di non poter fare niente per evitare il peggio, affronta soltanto i piccoli problemi quotidiani, quelli che nel suo piccolo è in grado di risolvere. Il figlio, pur essendo laureato e padre, sembrerebbe agire da incosciente. Ride davanti alla minaccia nucleare, perché è fin troppo consapevole della propria impotenza. I bunker antiatomici − oggi obbligatori nelle case in alcune nazioni tra cui la Svizzera − sono realizzati e venduti dalle stesse ditte che producono i caveau per le banche. Le imprese tuttavia avvertono che è quasi im-

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Animazione FANTASCIENZA

possibile attrezzare il riparo in modo da poter sopravvivere oltre i cinque anni. Dai tragici eventi di Chernobyl, sappiamo che occorre molto tempo perché la radioattività si attenui, quindi i bunker sono soluzioni validissime per bombardamenti convenzionali o attacchi chimici, tuttavia rimangono difese assai limitate, per fronteggiare il dopo bomba nucleare. Occorrerebbero cubature improponibili, addirittura interi sistemi di rifugi collegati, per garantire qualche anno in più a poche persone. Gli approvvigionamenti e le eventuali riparazioni sono problemi secondari, se ci immaginiamo gli effetti sulla psiche prodotti dall’isolamento. La difficile convivenza dei sopravvissuti in un bunker attrezzato è stata esaminata sempre nel 1986 anche da Giuliano Montaldo e Piero Angela nell’interessante Il Giorno

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Prima, film in cui alcuni sociologi e psicologi inscenano una catastrofe nucleare, obbligando un gruppo eterogeneo di ignare persone a coabitare in un rifugio, con risultati drammatici. Comprensibile che il figlio della coppia di Quando Soffia il Vento rifiuti di finire i suoi giorni riparandosi sotto terra come una patata, o nei condotti delle fogne come un ratto, a veder lentamente consumare i suoi cari e sé stesso. Forse per i cittadini comuni è davvero impossibile realizzare un rifugio antiatomico davvero efficiente, e tutti gli opuscoli elencano precauzioni superflue, al solo scopo di rassicurare la popolazione e impedire gesti estremi. Nessuno ci rivela se il giovane abbia rinunciato a costruirsi un riparo per il rifiuto di sopravvivere al mondo, ai suoi affetti, alla vita civile, o solo perché l’impresa superava i suoi mezzi. Alla fine la risposta data dalla razionalità del marito non è più soddisfacente di quella fornita dal buonsenso spiccio della moglie, o di quella tutta emotiva annunciata per telefono al padre. L’homo sapiens ha optato per l’autodistruzione. STRAZIANTE POESIA Ecco un film difficile: tecnicamente è realizzato in modo impeccabile, affronta l’apocalisse nucleare in modo originale, passando dalla satira al dramma, senza scadere nel truculento, senza imporre un lieto fine posticcio o difendere a spada tratta le vittime. Stimola la riflessione su temi di grande attualità, e poco concede alla moda o alle esigenze del giornalismo romanzato. È un classico proprio perché fa leva sulla psicologia dei personaggi e sui loro sentimenti, sul valore della pace e sulla difficoltà di impegnarsi per mantenerla. Eppure, nonostante i molti pregi, ha avuto scarso successo. Le motivazioni del flop sono ben intuibili. La pellicola condivide la sorte comune a parecchie altre, come E Johnny Prese il Fucile. La vicenda del soldato pluriamputato che, attraverso l’alfabeto Morse comunica il suo desiderio di essere ucciso oppure esibito al mondo, per monito, è nota solo perché alcune sequenze sono state utilizzate nel video di One dei Metallica. Sono proprio tutte le caratteristiche che rendono Quando Soffia il Vento un film artisticamente valido a scoraggiarne paradossalmente la visione. Purtroppo, gli spettatori desiderano venire rassicurati – anche a sproposito! – quando si evocano terrori concreti. Evo-

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FANTASCIENZA

care la guerra atomica spaventa, e si preferisce sentirla narrare come la fiaba di Cappuccetto Rosso, o alla maniera di Hollywood. Si vorrebbe azione, a scapito della credibilità: sopravvissuti destinati a ereditare il pianeta, pronti a vivere avventure straordinarie in un mondo ostile. Il medioevo prossimo venturo di Mad Max funziona, mentre la lenta e malinconica dipartita dei due vecchietti è troppo straziante e verosimile. Mancano pure “buoni e cattivi” ben riconoscibili, deflagrazioni ricreate a suon di effetti speciali strabilianti, dimostrazioni di eroismo, finale aperto alla speranza… Il richiamo all’attualità si è ovviamente affievolito: dopo la fine della Guerra Fredda la minaccia atomica è un problema avvertito in misura minore, e in modo diverso. Oggi le nazioni tecnologicamente avanzate temono il terrorismo, i danni sempre più gravi all’ambiente, la recessione economica, e discutono sull’opportunità di utilizzare l’energia atomica per scopi civili. Scelte importanti, che non escludono il pericolo di possibili guasti ai reattori, dalle conseguenze analoghe a quelle del lancio di una bomba. Di diverso rispetto a venti anni fa c’è anche il fatto che sono rimasti or-

mai ben pochi gli ingenui che crederebbero di poter sopravvivere a un conflitto atomico. Se si è in cerca di una trama thriller, di un horror, di una vicenda spionistica o di una commedia che si ispiri da vicino ai problemi del presente, si rimane delusi: Quando Soffia il Vento assomiglia poco a The Manchurian Candidate, a The Widowmaker, a Cassandra Crossing, a Sindrome Cinese, e ancor meno rispecchia i validi instant movie di Michael Moore. Purtroppo è giunto sul grande schermo in anticipo rispetto ai gusti delle platee. Oggi eserciterebbe un richiamo per i cinefili, come dimostra il successo di Valzer con Bashir, ma a metà degli anni Ottanta trattare temi impegnati ricorrendo al cartoon era un “difetto” imperdonabile. Di conseguenza venne distribuito malamente, proprio come Testament o Il Giorno Prima, e al botteghino fu un mezzo fiasco. Oggi viene proiettato ogni tanto durante eventi pacifisti o cineforum, o festival specializzati. Ma rimane un piccolo classico e, a distanza di tanti anni, riesce ancora ad apparire angosciante e terribilmente doloroso. Da vedere, per riflettere. n Cuccu’ssette

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FANTASY

UN AMERICANO ALLA CORTE DI RE ARTÙ

(A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court M. Twain, 1889) di Francesco Viegi

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ato in Florida nel novembre del 1835, Samuel Langhorne Clemens scelse lo pseudonimo con cui è noto al grande pubblico basandosi sull’esperienza quotidiana della propria vita lavorativa. “Mark twain”, letteralmente “segna doppio”, era l’espressione utilizzata sui battelli fluviali che discendevano il Mississippi, per indicare la profondità delle acque. Samuel, prima che uno scrittore, fu un pilota di battelli a vapore. Proprio quei battelli che, in un modo o nell’altro, hanno popolato i suoi capolavori più famosi (Le Avventure di Tom Sawyer, Le Avventure di Huckleberry Finn…). Ed è stata proprio questa sua capacità di riversare direttamente nelle pagine del libro la vita provata sulla pelle che ha fatto di Twain il talento forse più autentico nel panorama letterario americano della seconda metà dell’Ottocento. Così come la conoscenza puntuale degli ambienti rende le sue descrizioni asciutte e precise, in maniera analoga l’esperienza tecnica, che costituiva un bagaglio importante della sua formazione professionale, permea tutta la sua produzione, spiccando in modo particolare nel testo di Un Americano alla Corte di Re Artù (A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court) edito nel 1889. In quest’opera, la scarsa conoscenza geografica dei luoghi narrati (soprattutto se paragonati alle sponde del Mississippi) lascia spazio a un’ampia serie di digressioni tecniche su telefono, elettricità, cannone, macchina a vapore, carta stampata e altri anacronismi che colorano l’immaginaria campagna inglese della Camelot medioevale. Il romanzo racconta di un viaggio nel tempo. Utilizzando uno stratagemma simile a quello adottato da Manzoni ne I Promessi Sposi, Twain presenta al lettore ciò

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Lettura: Un Americano alla Corte di Re Artù


FANTASY che definisce come l’adattamento di un diario donatogli da un certo signor Morgan, eccentrico vecchietto fantasticamente incontrato nei pressi del castello di Warwick (Inghilterra). La storia altro non sarebbe che la trascrizione della straordinaria esperienza accaduta “realmente” a costui. A causa di una botta in testa rimediata durante una rissa, il protagonista Hank, ordinario cittadino del Connecticut, viene catapultato indietro nel tempo (nel 528 d.C.) presso la corte di Re Artù. Catturato da un cavaliere e reso schiavo, riesce a riscattarsi grazie alle proprie cognizioni tecnico-scientifiche: in breve tempo spodesta il celeberrimo Merlino diventando il primo ministro del regno di Camelot e il “mago” più potente di tutta l’Inghilterra. Facendo leva sulla posizione di potere e attraverso le conoscenze di metà Ottocento, Hank intende anticipare la storia e trasformare profondamente la vita sociale e politica dell’Inghilterra del VI secolo. I suoi ambiziosi obiettivi sono l’abolizione degli ordini cavallereschi e l’istituzione della repubblica. Finirà male. La storia non può essere riscritta, soprattutto da chi la conosce soltanto superficialmente. Questo almeno è quanto sembra volerci insegnare l’autore. A dispetto dell’idea diffusa secondo la quale si tratterebbe di una lettura per ragazzi, Un Americano alla Corte di Re Artù costituisce uno degli esempi di miglior satira sociale della letteratura americana. Collocando la vicenda in un luogo e in un tempo alternativi, Twain riesce a far risaltare, in contrasto stridente con questo improbabile sfondo, il vero protagonista del suo romanzo: l’“homo americanus”. L’ambientazione stessa, quell’Inghilterra medioevale, origine ancestrale della storia americana ma in aperto contrasto con l’idea che l’America del XIX secolo ha e dà di sé, è tutt’altro che una scelta casuale. Se il Medioevo è infatti generalmente considerato l’epoca in cui dominano disuguaglianza sociale, ignoranza e superstizione, il contesto americano da cui proviene il protagonista sembra incarnare (ma solo formalmente) tutti i benefici derivati dalle conquiste politiche e tecnologiche dei secoli successivi. Al di là delle illusioni, invece, quello di Hank − e dell’autore − è un presente fatto ancora di disparità, insipienza, povertà e ingiustizia. Il termine dispregiativo yankee, ancora utilizzato ai tempi di Twain per stigmatizzare il “nordista”, definisce qui una persona forte d’ingegno ma priva di una reale conoscenza del passato, e di conseguenza mancante degli strumenti

“Mark Twain” Ignazio Spiridon, 1898 intellettuali per poter analizzare in profondità le contraddizioni del proprio tempo. Spinto dal proprio senso pratico e da un superficiale ottimismo, Hank s’imbarca nell’impresa di trasformare una nazione e un popolo in fondo a lui sconosciuti, convinto che gli “oggetti moderni” quali il telefono, l’elettricità, il vapore, spogliati della storia che li ha prodotti, possano condurre Camelot verso “l’idea di Progresso” partorita nell’età dei Lumi e successivamente declinata nei diversi contesti storici e sociali del mondo del XIX secolo. Il tentativo di cambiare il passato porta Hank a mettere in atto le strategie disoneste e perpetrare le stesse ingiustizie ancora radicate nel progredito mondo del futuro. Se da un lato denigra la superstizione e la credulità della gente, dall’altro se ne serve per raggiungere i propri scopi; se da una parte aspira alla democrazia, dall’altra non esita a eliminare qualunque avversario la pensi diversamente da lui. Inneggia infine al Progresso foriero di pace, ma utilizza le proprie conoscenze per forgiare armi da guerra; le stesse armi che lo distruggeranno. Ecco quindi che anche in questo romanzo, come nei suoi più famosi capolavori, Twain mette a fuoco il tema che più gli sta a cuore: l’America nel passaggio fra il XIX e il XX secolo, presuntuosa nel pretendere di poter condizionare positivamente il corso del presente ignorando gli insegnamenti del passato. Uno spicchio di umanità con una scarsa cultura e una comprensione approssimativa della storia, che sembra incapace di costruire un futuro migliore senza incorrere nei medesimi errori già commessi da chi l’ha preceduta. n Francesco Viegi

Lettura: Un Americano alla Corte di Re Artù

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FANTASY

LE NEBBIE DI AVALON

(The Mists of Avalon - M. Zimmer Bradley, 1982) di Elena Romanello

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uando, nel 1982, Marion Zimmer Bradley pubblica negli Stati Uniti The Mists of Avalon è già un’autrice famosa da oltre vent’anni nell’ambito dei romanzi e dei racconti di Fantascienza e Fantasy. Nata nel 1930, ha avuto una vita personale controcorrente per l’epoca (due matrimoni ma un mai celato lesbismo e un crescente impegno nel movimento femminista), debuttando nella letteratura fantastica alla fine degli anni Quaranta ed esordendo col suo primo romanzo, I Falconi di Narabedla, nel 1957. In Italia però, nel 1987, anno in cui viene pubblicato Le Nebbie di Avalon (la traduzione di The Mists of Avalon), l’autrice non è così conosciuta; sarà proprio questo affresco fantasy su basi storiche che porterà a una proposta in massa di tutta la sua produzione, precedente e successiva. Le Nebbie di Avalon, primo volume del “Ciclo di Avalon”, è una rilettura della leggenda di Re Artù e della Tavola Rotonda, raccontata, secondo gli interessi e le tematiche care all’autrice, dal punto di vista femminile e femminista. La protagonista assoluta è Morgana, la sorellastra di Artù, il cui ruolo, accennato da sir Thomas Mallory ne La Morte di Artù, era stato fino ad allora considerato negativo, in romanzi e opere cinematografiche, compresa l’interpretazione proposta da John Boorman nel film Excalibur. Morgana era la strega, l’incantatrice, il potere negativo della donna, seduttrice e fedifraga, la fata oscura. Marion Zimmer Bradley ne fa invece un personaggio più complesso e affascinante, oltre che un’eroina tragica; Morgana rappresenta una Britannia sospesa tra l’antico paganesimo e il nuovo ordine portato dalla religione cristiana, vivendo le contraddizioni di questo ruolo, mentre intorno a lei prendono corpo gli eventi che porteranno Artù al potere per poi precipitarlo nella rovina.

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Lettura: Le Nebbie di Avalon


FANTASY L’isola di Avalon, cantata da poeti e favolisti, viene rappresentata dalla Bradley come un centro di culto della Grande Dea, gestito da sacerdotesse, un luogo separato ma contiguo al mondo degli uomini; lì la giovanissima Morgana, fuori posto alla corte di re Uther che ha sposato in secondo nozze sua madre Igraine, si ritira per imparare le arti magiche sotto la guida della saggia Viviana. Il suo destino la porterà però lontano, a vivere nel mondo degli uomini, a concepire un figlio con il fratellastro Artù, a odiare Viviana e Avalon, fino al ritorno sull’isola per invecchiare con le altre sacerdotesse, in una delle ultime enclavi pagane ormai in procinto di svanire anch’essa. Una storia raccontata già mille volte acquisisce nuovo spessore, e il personaggio di Morgana, vittima degli eventi, talvolta manipolatrice, combattuta tra due mondi, diventa un’eroina nuova, mentre le figure tradizionali della storia, Artù, Lancillotto, Ginevra – un’integralista cristiana –, restano sullo sfondo senza particolare spessore pur contribuendo a dar linfa a una narrazione appassionante. Marion Zimmer Bradley ha dimostrato con la sua opera l’eternità dei miti e la loro duttilità, l’attitudine a essere adattati a nuovi contesti e scenari, quali quello del movimento femminista. Le Nebbie di Avalon, oltre a essere salutato da molti come un romanzo del filone fantasy storico, negli Stati Uniti e altrove diventa un libro simbolo per quella cultura neopagana che si richiama all’adorazione della Dea Madre ed esalta il potere femminile e matriarcale, creando congreghe spesso di sole donne che confluiscono nella religione Wicca. L’autrice americana dimostra che esiste un Fantasy scritto da donne, e che il genere non è solo qualcosa di guerriero e profondamente maschilista, stigma che aveva negli Stati Uniti ma ancora di più in Europa, a cominciare dall’Italia; oggi le scrittrici di Fantasy, che si richiamino o meno alla Bradley, sono una realtà vasta e variegata. Gli altri romanzi dell’autrice, prima della sua prematura scomparsa avvenuta nel 1999, esaminano altri aspetti del potere femminile e del ruolo delle donne nell’universo fantastico, creando altre sacerdotesse, ma anche guerriere, rileggendo antichi miti, come quello di Atlantide (Le Luci di Atlantide, in originale Fall of Atlantis) o quello di Troia dal punto di vista di Cassandra (La Torcia, The Firebrand), o costruendo una fiaba fantasy con altre due autrici, Andre Norton e Julian May, nel “Ciclo del Giglio Nero” (le cui protagoniste sono una principessa, una guerriera, una

Ciclo di Avalon Le Nebbie di Avalon (The Mists of Avalon, 1982) Marion Zimmer Bradley Le Querce di Albion (The Forest House, alias The Forests of Avalon, 1994) Marion Zimmer Bradley e Diana L. Paxson La Signora di Avalon (The Lady of Avalon, 1997) Marion Zimmer Bradley e Diana L. Paxson La Sacerdotessa di Avalon (Priestess of Avalon, 2000) Marion Zimmer Bradley e Diana L. Paxson L’Alba di Avalon (Ancestors of Avalon, 2005) Diana L. Paxson La Dea della Guerra (Ravens of Avalon, 2007) Diana L. Paxson La Spada di Avalon (Sword of Avalon, 2009) Diana L. Paxson

maga, tre archetipi del genere). Le Nebbie di Avalon ha anche avuto una trasposizione televisiva in una miniserie nel 2001 diretta da Uli Edel, trasmessa poi in Italia in sordina nel 2004, con protagonista Julianna Margulies (l’ex infermiera Carol Hathaway in E.R. - Medici in Prima Linea) nel ruolo di Morgana e la carismatica presenza di Anjelica Huston nella parte di Viviana. Completano il ciclo, ideati insieme a Diana L. Paxson considerata l’erede della Bradley, i romanzi Le Querce di Albion (The Forest House, 1994), La Signora di Avalon (The Lady of Avalon, 1997) e La Sacerdotessa di Avalon (Priestess of Avalon, 2000), a cui si aggiungono altri tre volumi scritti dalla sola Paxson: L’Alba di Avalon (Ancestors of Avalon, 2005), La Dea della Guerra (Ravens of Avalon, 2007) e La Spada di Avalon (Sword of Avalon, 2009). n Elena Romanello

Lettura: Le Nebbie di Avalon

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FANTASY

LA GROTTA DI CRISTALLO

(The Crystal Cave - M. Stewart, 1970) di Daniela Di Bartolo

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secolo d.C.: l’Impero Romano ha abbandonato la Britannia lasciando dietro di sé le vestigia diroccate di fortificazioni e castelli, insieme a un ricordo dolce-amaro di ordine e civiltà. Le antiche usanze, mai veramente sopite, riemergono silenziose senza però ritrovare il seguito di un tempo; in questo vuoto, tutti si aggirano confusi, nascono e muoiono alleanze e false religioni, mentre il mondo sembra trattenere il respiro in attesa di una guida, di un credo, di qualcosa che restituisca senso al tutto. Questa è l’epoca in cui nasce Merlino, nipote bastardo del re del Galles. Erediterà dalla madre gli antichi poteri dei druidi e verrà istruito secondo la tradizione celtica dal maestro Galapas nella Grotta di Cristallo. Alla morte del re suo nonno, il giovane, perseguitato dallo zio, scambiato per uno schiavo e rapito, dopo molte vicissitudini ritroverà il padre, Ambrogio, destinato a riunificare la Britannia. Al suo servizio Merlino aggiungerà alle proprie conoscenze la sapienza romana, diventando il fulcro di due mondi, l’ingegnere, il saggio, il mago, il mentore di Re Artù: finalmente leggenda. Un protagonista inaspettato La storia di Artù è stata riproposta in mille e più forme, con interpretazioni molto varie e spesso discordanti, ma quasi sempre di successo. In parte perché Artù incarna una sorta di sogno americano prima ancora che gli Americani se ne appropriassero: cresce in umiltà, inconsapevole delle proprie origini, e mostra il valore di sé prima ancora del proprio lignaggio, che comunque esiste perché, da bravi Europei un po’

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Lettura: La Grotta di Cristallo


FANTASY snob, difficilmente avremmo digerito un principe senza pedigree. Tuttavia, se ormai talmente tanto è stato scritto e visto sul tema arturiano, perché leggere anche questo ciclo? Perché Mary Stewart dà finalmente voce all’ombra. Artù infatti ama, concede fiducia e viene tradito, abbaglia nel suo splendore e sbaglia come l’ultimo degli scudieri, ma soprattutto, nella sua umanità, per edificare la leggendaria epopea che lo avvolgerà, egli ha bisogno di un aiuto nell’ombra, il consiglio di una figura che sia più che umana. Questa figura è Merlino, mago, incantatore e bugiardo, buono forse, enigmatico sempre; comunque, in tutte le opere, inevitabilmente, vecchio. La Grotta di Cristallo (The Crystal Cave, 1970) è il romanzo iniziale di un ciclo che ha finalmente come protagonista proprio il favoloso stregone, dall’infanzia alla nascita e consolidazione della sua fama, costruita ad arte da un’intelligenza vivace e scaltra. Quella che viene “svelata” di lui è la “realtà” dietro la leggenda, con un pizzico di ironia, e una buona dose di pragmatismo nell’incorniciare gli eventi soprannaturali e le indispensabili visioni. Il ritmo del libro è lento, riflessivo e ben accompagna la crescita interiore di un Merlino prima bambino e poi uomo, sempre solo, diverso, strumento rassegnato di un dio sconosciuto; non temibile eppure temuto, spesso goffo e per molti aspetti tenero, ma arguto e geniale. Assaporando la ricostruzione storica di luoghi e atmosfere, le vicende del mago andranno vissute senza l’ansia di chi, conoscendo la storia, frema nell’aspettativa della comparsa del Grande Re, che invece verrà concepito solo nelle ultime pagine. Gli altri personaggi, anch’essi strumenti più o meno inconsapevoli di un destino ineluttabile, per quanto abilmente delineati rimangono comparse che si affannano in modo quasi inconcludente, persi in mille faccende, finché non riescono, per caso o per destino, a compiere quelle azioni chiave che portano a completamento la loro “funzione”; e a quel punto scompaiono, figure ormai inutili che tuttavia veleranno di rimpianti e malinconia i ricordi del giovane Merlino, contribuendo a creare nel lettore una forte empatia per quest’uomo in fondo fragile che viene usato e costantemente abbandonato, dalle persone come dal fato. Il senso di abbandono, in tutte le sue sfumature, è certamente la chiave di lettura del romanzo: la Britannia abbandonata dai Romani; la madre di Merlino ab-

Ciclo di Merlino La Grotta di Cristallo (The Crystal Cave, 1970) Le Grotte nelle Montagne (The Hollow Hills, 1973) L’ultimo incantesimo (The Last Enchantment, 1979) Il Giorno Fatale (The Wicked Day, 1983) Il Principe e il Pellegrino (The Prince and the Pilgrim, 1995)

Altri Romanzi di Mary Stewart Madam, Will You Talk? (1954) Wildfire at Midnight (1956) Thunder on the Right (1957) Nine Coaches Waiting (1958) My Brother Michael (1959) The Ivy Tree (1961) The Moon-Spinners (1962) This Rough Magic (1964) Airs Above the Ground (1965) The Gabriel Hounds (1967) The Wind Off the Small Isles (1968) La Piccola Scopa (The Little Broomstick, 1971) Un Cavallo fra le Stelle (Ludo and the Star Horse, 1974) Non toccare il Gatto (Touch Not the Cat, 1976) A Walk in Wolf Wood (1980) Thornyhold (1988) Stormy Petrel (1991) Rose Cottage (1997)

bandonata da Ambrogio; Merlino stesso, abbandonato all’inizio da un padre che non sa della sua esistenza e da una madre distratta che ormai si è ritirata dal mondo e protegge il segreto della nascita del figlio con un silenzio doloroso, e poi da tutte le figure di riferimento, il servo e amico Cedric, l’insegnante Galapas, il padre Ambrogio da poco ritrovato, e infine lo stesso Uther che, dopo aver ottenuto da lui ciò che più vuole, lo allontana. D’altronde la vera luce brilla solo nell’oscurità più nera; così questo primo libro, lento e cupo eppure intenso, ben prepara alla gloria dell’età dell’oro della stella di Artù che brillerà nei successivi volumi. n Daniela Di Bartolo

Lettura: La Grotta di Cristallo

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FANTASY

L’ULTIMO INCANTESIMO

(The Last Enchantment - M. Stewart, 1979) di Daniela Di Bartolo

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l terzo libro del ciclo arturiano di Mary Stewart, si apre con la morte di re Uther e il riconoscimento di Artù quale suo legittimo erede. Determinando la salita al trono del giovane, Merlino ha ottemperato al proprio compito e sembra adesso aver perso i poteri e il favore degli dèi; rimane allora consigliere di Artù solo in forza delle proprie qualità d’ingegno, saggezza e sana umiltà. Appena confermato re, ebbro della vittoria raggiunta e ignaro dei legami di sangue, Artù viene sedotto dalla sorellastra Morgause, la strega, e concepisce con lei Mordred, il figlio che sarà la sua rovina. «Gli dei sono gelosi, e cercano di impedire che uno abbia troppa gloria. Ogni uomo ha in sé il seme della propria morte e a ogni vita deve esserci un termine. Quello che è accaduto stanotte è che tu stesso hai stabilito il termine»: in queste frasi di Merlino rivolte ad Artù si cela la chiave di lettura dell’intero romanzo. La prima parte del libro narra il viaggio di Merlino alla ricerca di Morgause e del figlio da lei concepito con il re, e si chiude con l’inganno con cui la strega spingerà il marito Lot all’eccidio dei bambini nati contemporaneamente al suo, scaricandone la colpa su Artù. La narrazione qui è molto lenta, appesantita da inutili descrizioni poco finalizzate allo sviluppo della trama. La seconda parte però val bene lo sforzo di affrontare la prima: la storia diviene più dinamica e abilmente introspettiva, offrendo al lettore vari spunti di riflessione. Mentre, perse le tracce di Mordred e superata la tragedia dell’infanticidio, la vita di Artù procede e il re sposa Ginevra – la quale poi si innamorerà di Bedwyr, il miglio-

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Lettura: L’Ultimo Incantesimo


FANTASY re amico del consorte, riproponendo così il tristissimo e quanto mai famoso triangolo della leggenda –, Merlino declina inesorabilmente verso la vecchiaia. È in questo periodo che il mago conosce Nimue, la donna a cui cederà tutte le sue conoscenze, le ultime tracce di magia e infine il suo cuore. In un crescendo di emozioni si giunge così alla parte finale: Merlino, creduto morto, verrà sepolto nella Grotta di Cristallo, dove poi si risveglierà… L’ultima scena è veramente poetica, quasi fiabesca, con Merlino a implorare per l’ultima volta il Dio di esaudire quello che per l’intera saga è stato il suo unico desiderio: poter sentire la musica delle stelle. Ancora una volta Mary Stewart spiazza il lettore, tralasciando la descrizione di mirabili vittorie militari e grandi ricostruzioni epiche, presentando invece le vicende da un punto di vista originale e permeandole di una vena malinconica. La figura di Artù si discosta dagli stereotipi abituali: la storia toglie l’accento dalle sue doti guerresche, preferendo soffermarsi sulle sue qualità umane. L’Artù sentimentale rincuora Merlino, spiegando che il Dio non ha mai abbandonato il mago, che la malattia e l’assenza di visioni sono parte di un disegno più grande, un modo di costringere il re stesso a maturare, a prendere da solo le proprie decisioni e assumersene le responsabilità. L’Artù giudizioso accoglie con filosofia il tradi-

Estratto dalla pagina 403 Artù a Merlino

“T

u mi hai detto tante volte che non sai niente delle donne. Non ti viene mai in mente che conducono una vita di così assoluta dipendenza che non può che generare incertezza e paura? Che la loro vita è come quella degli schiavi, o degli animali utilizzati da esseri più forti di loro, e talvolta crudeli? Diamine, anche le donne di stirpe reale sono vendute e comprate, e vengono cresciute per vivere lontano dalla loro famiglia e dalla loro gente, come proprietà di uomini a loro sconosciuti.”

Estratto dalla pagina 629 Merlino

A

rtù si è allontanato da me con passo pesante attraverso l’erba. […] L’ho visto alzare una mano. “Aspettami.” È sempre lo stesso saluto. “Aspettami. Tornerò.” E come sempre, ho risposto: “Che altro ho da fare se non aspettare te? Sarò qui quando tornerai”. mento di Ginevra, ragionando sulla triste realtà delle donne della sua epoca, costrette a vivere nell’ombra degli uomini e a vedersi negata la facoltà di decidere del proprio destino. L’Artù equo rifiuta di far ricadere sui figli le colpe dei padri; accoglie presso di sé l’erede avuto da Morgause, e i nipoti, che poi diverranno i suoi più fedeli seguaci. L’Artù statista illuminato combatte i Sassoni ma riconosce il diritto di cittadinanza a chi tra essi ormai da generazioni vive sul suolo britannico, creando così le basi di una “moderna” società multietnica. Questo è il Somme Re che la Stewart ci regala e di cui ancora una volta ci innamoriamo, neofiti o vecchi seguaci del Ciclo Bretone, lasciandoci quasi consolare, in tanta grandiosità condannata a perenne solitudine, dal suo incontro con un altro destino solitario: quello di Merlino. È evidente infatti il parallelismo tra le due figure: entrambi gli uomini crescono senza genitori, figli bastardi di un re mai conosciuto, ordinati in modo ineluttabile a ricoprire un posto nella storia sacrificando a ciò ogni altra aspirazione; privati dell’amore di una donna, moglie, madre o sorella, ritrovano nella reciproca compagnia quel calore umano a loro negato da un Dio che li governa come marionette nel suo Grande Disegno. Con quest’amicizia l’autrice conclude un ciclo volutamente incentrato non su fatti storici ma su rapporti umani, facendo sorridere il lettore con la semplicità di questo re e di questo vecchio consigliere che si servono l’un l’altro sorretti dal reciproco affetto. n Daniela Di Bartolo

Lettura: L’Ultimo Incantesimo

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FANTASY

IL GIORNO FATALE

(The Wicked Day - M. Stewart, 1983) di Carola Del Buono

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l “giorno fatale” è, secondo Thomas Malory, il giorno in cui cadono sia re Artù sia suo figlio Mordred, nella battaglia di Calmann che li vede contrapposti. Da questo accadimento Mary Stewart trae il titolo per il quarto romanzo del suo famoso “Ciclo di Merlino”. L’indiscusso protagonista di questo libro è proprio il figlio illegittimo concepito dal grande Artù in una notte d’amore con la sorellastra Morgause (da non confondere con l’altra sorella Morgana, menzionata anch’essa come madre del re in alcune tra le numerose versioni del mito). Di Mordred, figura carica di odio designata ormai dalla tradizione letteraria quale nemesi del padre, la Stewart ci offre però un ritratto ben diverso, dotandolo anzi di un’immensa e, a volte, commovente umanità. In principio lo troviamo come ignaro bambino, affidato dalla perfida madre alla famiglia di un pescatore delle Orcadi (isole di cui Morgause è regina). Presto però le macchinazioni della genitrice avvicineranno Mordred alla vita di palazzo e ai fratellastri (Gawain, Gareth e i gemelli Gaheris e Agravain), figli di Morgause e del defunto re Lot del Lothian. L’autrice regala al lettore un meraviglioso ritratto della torbida amante incestuosa del re d’Inghilterra, che incarna al meglio la figura della strega, fatta di sensualità perversa e scaltrezza cospiratrice: lunghi capelli rosso-albicocca, occhi verde-dorati, dotata del potere della visione e capace di architettare ingegnosi tranelli a danno dei suoi avversari. Un personaggio ben costruito, che sembra il compendio di tutte le “cattive” (streghe, per lo più) che colorano il mondo della narrazione, dalla Poison Ivy di Batman (o quella che appare nel film omonimo con Drew Barrymore, dove la “strega” in questione è un’adolescente sensuale tutta malvagità e opportunismo) che uccide con il suo bacio velenoso, alla Crudelia De Mon de La Carica dei 101, sino alla terrificante matrigna di Biancaneve, tutti personaggi dediti al male ma che finiscono poi inghiottiti nella spirale morbosa del loro stesso veleno. Il culmine della sua perversione Morgause lo raggiunge quando agguanta Mor-

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Lettura: Il Giorno Fatale


FANTASY dred (ancora ignaro di essere suo figlio) nelle segrete del castello e lo bacia sulla bocca, sospirando di piacere: “Baci come tuo padre!”. Del resto l’autrice non poteva esimersi dall’affibbiare a un personaggio del genere l’incesto come tendenza sessuale. Il Mordred della Stewart è però un ragazzo troppo intelligente per non riconoscere subito la furbizia adulatoria della strega madre, al contrario degli uomini stupidi che lei riesce agevolmente a trasformare in sue pedine. L’oggetto dell’odio della bella Morgause è uno, ossia il fratellastro Artù; ma parte del suo malanimo lo riserverà comunque anche al mago Merlino, di cui invidia l’abilità nella magia. Sarà proprio Artù a togliere ogni potere alla perfida strega, segregando lei in un convento e portando i suoi figli, Mordred compreso, a Camelot, per farli suoi cavalieri. Saputo d’essere erede del re, del quale ammira la saggezza, la compassione, il senso del dovere, Mordred comincerà a sentire per lui quella stima e quel rispetto che nei confronti di Morgause non era mai riuscito a provare. Per tutto il libro l’autrice sottolinea la somiglianza, non solo fisica, tra il genitore e il figlio. Mordred non odierà mai Artù, sebbene combattuto tra l’amore e la riconoscenza verso il padre, l’ambizione verso il regno (in quanto unico erede al trono, dato che la regina Ginevra è sterile) e la consapevolezza d’essere destinato un giorno a opporsi al padre. Quel fato che sembra pesargli come una colpa lo porterà a cercare le rivelazioni di Nimuè, l’amante di Merlino che ha ormai preso a corte il posto del mago; da lei vorrà sapere perché Merlino, cioè colui che aveva avuto la visione del futuro parricidio a opera di Mordred, non avesse mai spinto Artù a eliminare il suo figlio bastardo. “Perché non voleva vedere Artù macchiato della colpa di assassinio, qualunque fosse la causa. Perché era abbastanza saggio da vedere che non possiamo scansare gli dei ma dobbiamo seguire come meglio possiamo i sentieri che hanno predisposto per noi. Perché sapeva che dal male apparente può anche venire un gran bene e dal bene la maledizione e la morte. Perché ha anche visto che nel momento della morte di Artù la sua gloria avrà

raggiunto e oltrepassato il suo apice ma che grazie a quella morte la gloria vivrà per divenire una luce e uno squillo di tromba e un respiro di vita per gli uomini a venire”. Ancora più fataliste saranno le parole di Merlino: “Vivi quello che la vita porta, muori della morte che verrà”. L’incontro con Nimuè (la “puttana di Merlino”, come la chiama Morgause) mostrerà inoltre al lettore la differenza Mary Stewart tra le arti magiche esercitate dalle streghe nemiche del re e quella praticata a sostegno di Artù dal saggio mago Merlino. Nei romanzi precedenti, la Stewart ci aveva ampiamente descritto l’antro tenebroso di Morgause, situato nelle segrete del castello delle Orcadi, sotto il livello del mare, e la pozza di acqua nera e densa dove la strega aveva le visioni… Merlino e Nimuè, invece, per ottenere le visioni, scrutano le stelle: questa differenza lascia già percepire come nel libro la magia positiva sia concepita vicina alla conoscenza e alla cultura, diversamente dalla magia volgare e negativa delle streghe, fatta di veleni e pozioni. Il Male, nella sua morsa negativa e oscura, è destinato a fallire di fronte al Bene e alla saggezza, che illuminano e che vincono. Il destino è quel percorso che, fra i tanti, alla fine si rivela sempre appropriato, quello che rende più significativa una vita. In quest’atmosfera di accettazione, Mordred s’incamminerà dunque incontro al proprio destino, che prevederà l’accrescere delle sue ambizioni da figlio bastardo − ma comunque unico figlio − e anche lo sbocciare dei suoi sentimenti verso la regina Ginevra, già desiderata da Lancelot (chiamato Bedwir nel libro) oltre che dal legittimo sposo. Mary Stewart si rivela eccezionale nel disegnare i ritratti dei suoi personaggi e il loro cammino di crescita, lo fa con una profondità psicologica fuori dal comune. Eccezionale è anche nel documentarsi sulle varie versioni della leggenda di re Artù, ricerca da cui consegue il suo romanzo. Il giorno fatale è un libro toccante che, servendosi della chiave fantastica, spinge il lettore a riflettere sul ruolo che Bene e Male rivestono pure nella vita comune. n Carola Del Buono

Lettura: Il Giorno Fatale

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FANTASY

IL RE D’INVERNO

(The Winter King - B. Cornwell, 1995) di Viviana D’Alberto

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80 d.C.: la Britannia, finalmente libera dal dominio dell’Impero Romano, è dilaniata da lotte intestine e minacciata dall’avanzata sassone. Uther, re di Dumnonia, l’unico finora in grado di arginare l’invasione nemica, è vecchio e stanco; la sua fine è ormai prossima e il suo successore legittimo, Mordred, è un bambino storpio. Morgana, considerata da tutti degna erede dell’influente Merlino, non ha dubbi: il piede torto del piccolo principe non lascia presagire nulla di buono. Quando Uther muore, la Dumnonia − che sotto il suo dominio aveva goduto di pace e prosperità − si trova quindi nel bisogno di un reggente, qualcuno che governi nella vece dell’unico erede (ancora in fasce) in attesa che quest’ultimo cresca abbastanza da poter salire al trono. Questo compito toccherà ad Artù, figlio bastardo del vecchio sovrano e fratellastro di Morgana, acclamato dal popolo per amministrare una situazione tutt’altro che facile. In Britannia non sono però solo i Regni a essere minacciati: anche il paganesimo subisce un’avanzata conquistatrice, quella della nuova religione cristiana. Mentre i Sacerdoti pagani iniziano a perdere il potere di cui avevano goduto fino ad allora − la consorte di Uther stessa si dichiara cristiana convinta −, il Cristianesimo continua ad aggiungere nuovi proseliti alle proprie fila. L’antica religione finisce dunque col vacillare di fronte ai predicatori dell’unico Dio; il castello del grande Merlino, sull’Isola di Cristallo, viene addirittura dato alle fiamme, e per diverso tempo del mago di corte non si ha più notizia. Morgana è costretta alla fuga e con lei anche Nimue, apprendista e amante di Merlino, e il giovane Derfel che porta in salvo il principe Mordred. In questo caotico succedersi di cambiamenti, trova spazio il grande sogno di Artù: unificare la Britannia. Gli ideali del reggente nascono da un profondo senso dell’onore e dalla semplicità del suo cuore. Non c’è spada che lo possa fermare, non c’è nemico che non lo tema in battaglia… eppure… La vita riserva insidie tali da far barcollare perfino un guerriero della sua grandezza. Dall’attimo stesso in cui lo sguardo della principessa Ginevra incrocerà il suo,

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Lettura: Il Re d’Inverno


FANTASY tutto sembrerà sacrificabile per Artù, ogni sua certezza crollerà; l’esercito, il regno, i Sassoni, ogni cosa passerà in secondo piano di fronte alle priorità dettate dal cuore e non più dalla spada. Per amore di Ginevra, infatti, egli rifiuterà il matrimonio con la principessa del Powys, scatenando la reazione ostile di quel regno fino ad allora alleato della Dumnonia. Il guerriero che è in Artù perderà così la più difficile delle battaglie, quella contro sé stesso, cedendo ai capricci amorosi come un uomo qualsiasi. Artù il condottiero, Artù il sovrano osannato dall’intero popolo della Britannia rischierà di distruggere il sogno di una vita per correre dietro alle sottane di una donna, una principessa dal carattere deciso che non intende sedere in silenzio accanto ad alcun marito. La necessità di emergere e la bramosia di potere di Ginevra provocheranno una ferita inguaribile nell’anima del suo innamorato. Mentre da un lato si compie quest’infelice storia d’amore, dall’altro la Britannia continua a essere sfiancata da faide e disordini; il Paese che Artù tentava di risanare subisce un’ulteriore profonda frattura. Re Bran, fedele alleato in Bretagna e Sovrano di Trebes, viene attaccato dai Franchi e invoca aiuto immediato. Impossibilitato a lasciare la Dumnonia, Artù invia Derfel, il suo braccio destro (che da quel brutto giorno all’Isola di Cristallo ha fatto molta strada). Il fidato guerriero completerà la missione ma, al suo ritorno, troverà la situazione peggiorata, con Artù e i suoi accerchiati su tutti i fronti… Così termina Il Re d’Inverno (The Winter King, 1995) primo volume del fortunato ciclo “Il Romanzo di Excalibur” (“The Warlord Chronicles”), che narra la leggenda della celebre spada e della mano che per lungo tempo la brandì. L’intero libro è scritto in prima persona nella soggettiva di Derfel, che riordina i propri ricordi giovanili narrandoli per iscritto alla nuova regina Igraine, affascinata e incuriosita dalle leggendarie gesta di Artù, il principe che non fu mai Re. Scritta da Bernard Cornwell − autore londinese già celebre per un’altra saga storica, “Il Ciclo di Sharpe” −, l’epopea di Excalibur si compone di tre volumi, divenuti cinque nell’edizione italiana. La scelta editoriale nostrana sembra nascere da necessità puramente commerciali: gli ultimi due libri dell’opera (Enemy of God, 1996, ed Excalibur, 1997) sono piuttosto voluminosi e la Mondadori non si è lasciata sfuggire l’occasione di dividerli entrambi in due par-

Il Romanzo di Excalibur Il Re d’Inverno (The Winter King, 1995) Il Cuore di Derfel La Torre in Fiamme (Enemy of God, 1996) Il Tradimento La Spada Perduta (Excalibur, 1997)

ti (rispettivamente: Il Cuore di Derfel e La Torre in Fiamme, Il Tradimento e La Spada Perduta). La rilettura, decisamente originale, che ci propone Cornwell getta una luce nuova e stuzzicante sull’intero mito arturiano. Abbiamo infatti dato sempre per scontato che Lancillotto incarnasse il più onorevole tra i cavalieri e che Ginevra non fosse altro che una vittima del proprio cuore. L’autore invece dipinge un quadro piuttosto diverso, rendendo più umani questi personaggi, attribuendo debolezze e difetti e oscurando in tal modo l’aura di fascino e perfezione che l’immaginario collettivo aveva contribuito a cucir loro addosso nei secoli. Per certi versi l’opera di Cornwell potrebbe essere considerata un azzardo, un malcelato tentativo di dissacrare un mito da sempre ancorato a una rappresentazione di candido romanticismo, in contrasto con la quale la rilettura dell’autore non assume l’accezione di originalità ma piuttosto quella di “cattivo gusto”. Sposando però un altro punto di vista, si potrebbe considerare il ciclo di Excalibur come l’altro lato di una medaglia che nessuno aveva mai osato rovesciare, e come tale meritevole di curioso interesse. Oltretutto Cornwell argomenta in maniera efficace, citando le proprie fonti, il perché della sua scelta contenutistica; pertanto non rimangano delusi coloro che si approcciano a questa saga con l’intento di immergersi nel fantastico mondo di Camelot, ma anzi si sforzino di apprezzare la mancanza di fronzoli poco realistici, retaggio di un’ancestrale necessità di sentimentalismo, e la capacità di incorniciare invece l’intero intreccio in una realtà forse meno romantica di quella universalmente nota ma molto più plausibile. n Viviana D’Alberto

Lettura: Il Re d’Inverno

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Film TV

Film TV

FANTASY

MERLINO

(Merlin - S. Barron, 1998) di Paolo Motta

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ell’immaginario comune, il mago Merlino ha l’aspetto di un vecchio dalla lunga barba bianca, con le caratteristiche di un saggio druido e di un simpatico nonno. In realtà, il Merlino delle saghe arturiane è una figura molto più ambigua. Compare per la prima volta nella Prophetia Merlini dello scrittore e cronista medievale Goffredo di Monmouth (testo poi incorporato all’interno della sua Historia Regum Britanniae) il quale unisce materiali riguardanti un bardo celtico di nome Myrddin a quelli di un condottiero romano-britannico del V secolo, Ambrosius Aurelianus. Il personaggio che ne deriva, chiamato Merlino Ambrosius, è figlio di un essere sovrannaturale (forse un demone) e di una donna mortale, e avrebbe ereditato dal padre poteri di chiaroveggenza, oltre alla capacità di mutare aspetto. Grazie al suo aiuto, re Uther Pendragon può giacere con la consorte di un sovrano rivale e generare così il celebre Artù. Le diverse saghe attribuiscono sempre a Merlino l’invenzione della Tavola Rotonda e la creazione della spada magica Excalibur, oltre alla costruzione del complesso megalitico di Stonehenge, attraverso un magico trasporto di pietre dal Galles. Merlino conserva inoltre caratteri demoniaci: se Goffredo di Monmouth gli attribuisce oracoli degni di un profeta biblico, per Robert de Boron, poeta francese vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo d.C., il mago sarebbe addirittura potuto divenire l’Anticristo se la madre non l’avesse battezzato appena nato. Questo personaggio fantastico, saggio o demonio che sia, si lascia ingannare da una bella fanciulla di nome Nimoe (talora chiamata Viviana, da alcuni autori imparentata con la Dama del Lago, madre putativa di Lancillotto) che, dopo averlo sedotto, lo rinchiude in una grotta o, secondo altre versioni, in un castello di cristallo. Naturalmente il mito di Merlino ha subìto numerosissime rielaborazioni: da Mark Twain a Clive Staples Lewis, da Marion Zimmer Bradley a Sergej Luk’janenko, a

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Film TV: Merlino


FANTASY Hugo Pratt… svariati autori l’hanno rivisitato, ognuno a modo proprio. L’ha fatto anche Steve Barron nel 1998, con la mini-serie televisiva Merlino (Merlin, vincitrice di vari Emmy Awards), dove si propone un’immagine del grande incantatore molto diversa dalle precedenti: Merlino è giovane, intrepido e pronto alla battaglia; a prestargli il volto è l’affascinante Sam Neill. Ancora adolescente, viene strappato alla famiglia e agli affetti dalla regina Mab, divinità celtica che vuole impedire l’avanzata sul suolo britannico delle truppe gallo-romane e l’affermarsi della religione cristiana. Mab vede nel mago il suo erede, ma questi le si ribella e aiuta Uther Pendragon nella guerra contro il tirannico re Vortigern, sostenuto invece dalla dea. Vortigern viene sconfitto in un’epica battaglia – che ricorda una sequenza del capolavoro sovietico Alessandro Nevskij di Sergej M. Ejzenštejn – e affoga in un lago ghiacciato. Mab, tuttavia, non demorde e, mentre Merlino educa il giovane Artù, ordisce una vendetta che coinvolge la sorella di quest’ultimo, Morgana, e la fidanzata di Merlino, Nimoe. Nonostante la serie sia, in un certo senso, in debito con Excalibur di John Boorman, proponendo l’idea che il celebre mago abbia favorito il passaggio dal politeismo celtico al monoteismo cristiano, finisce per fornire una rilettura abbastanza anomala di tutto il ciclo arturiano. Morgana ha il viso sfregiato e intreccia una relazione con uno strano folletto, Frik, al servizio di Mab, mentre Nimoe appare come una devota fidanzata, anziché come una fattucchiera che seduce Merlino per carpirgli i segreti sulle arti magiche. La mini-serie si regge su un’ottima prova di tutti gli attori, in particolare Sam Neill che, sebbene nel ricordo di tutti resti legato a Jurassik Park di Steven Spielberg, in realtà si è rivelato come un versatile attore che vanta interpretazioni molto diverse tra loro. Anche Rutger Hauer, il leggendario replicante di Blade Runner – in seguito sempre più appannato – può vantare di aver avuto qui un ruolo molto intenso, quello di Vortigern. Davvero azzeccata la triade malefica composta dall’altera Miranda Richardson (Mab), dalla vendicativa Helena Bonham Carter (Morgana) e dal divertente Martin Short (Frik), poliedrico attore, cantante e sceneggiatore, che si esibisce persino in una parodia dell’eroe di “cappa e spada” alla Erroll Flynn. Dietro a Merlino c’è anche il genio di Robert Halmi Sr., già produttore di alcuni film tv e miniserie a carattere fantasy (I Viaggi di Gulliver, Arabian Nights,

Giasone e gli Argonauti), che oggi sembra deciso a lanciare un sequel in cui, in una Camelot sconvolta dalla morte di Artù, il grande mago si trova ad addestrare come suo apprendista un giovane mendicante e ladruncolo di nome Jack. Riuscirà questa nuova produzione a bissare il successo dell’originale? Per saperlo, non possiamo fare altro che attenderne con impazienza l’uscita in Italia. n Paolo Motta

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CAMELOT

(Camelot - J. Logan, 1967) di James Berardinelli traduzione Laura Tolomei

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ra i soggetti cinematografici maggiormente duraturi si può annoverare il Ciclo in vulgata, una parte sostanziosa delle leggende su re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda, le cui rivisitazioni sembrano infinite. Ci sono state variazioni sul tema basate sulla satira di Mark Twain Un Americano alla Corte di Re Artù; adattamenti grandiosi e altisonanti come Excalibur di John Boorman; trasposizioni a cartoni animati (La Spada nella Roccia, La Spada Magica - Alla Ricerca di Camelot); e parodie irriverenti (Monty Python e il Sacro Graal). Il film Camelot costituisce l’unica occasione in cui il Ciclo in vulgata sia stato utilizzato come sfondo per un musical, e risulta uno spettacolo a tratti davvero divertente, a dispetto dei molti difetti minori e della lunghezza forse eccessiva. Prima di giungere nelle sale cinematografiche, Camelot prese vita nel 1960 sul palcoscenico di Broadway, dove ottenne un immediato successo. Scritta dal famoso duo Alan Jay Lerner e Frederick Loewe – che in precedenza avevano collaborato a Brigadoon, Gigi, My Fair Lady (e nel mondo dei musical erano il team n. 2, dietro solo a Rodgers & Hammerstein) – la rappresentazione fu talmente acclamata da incoraggiare il magnate hollywoodiano Jack L. Warner ad acquisirne i diritti. Il viaggio verso il grande schermo fu tuttavia più lungo e difficoltoso del previsto; non fu possibile iniziare le riprese prima del 1965, mentre la produzione decise di sostituire l’intero trio di attori che avevano interpretato l’opera a Broadway: Richard Harris rimpiazzò Richard Burton come re Artù, Vanessa Redgrave scansò a spallate Julie Andrews dal ruolo di Ginevra, e per Lancillotto fu fatta l’incomprensibile scelta di soppiantare Robert Goulet con Franco Nero. Due anni e 18 milioni di dollari dopo, Camelot debuttò in gran fanfara ma con recensioni contrastanti. Per quanto riguarda la storia, il film non copre l’intero Ciclo in vulgata – impresa

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PREMI • 3 OSCAR 1967: Best Art Direction-Set Decoration (John Truscott, Edward Carrere, John Brown),

Scheda

Titolo originale: Camelot Produzione: USA, 1967, Warner Brothers/Seven Arts Durata: 179 minuti Tratto dal romanzo: “Re in eterno” di T.H. White, e dall’opera teatrale “Camelot” Regia: Joshua Logan Sceneggiatura: Alan Jay Lerner Fotografia: Richard H. Kline Montaggio: Folmar Blangsted Scenografia: John Truscott, Edward Carrere Costumi: John Truscott Musica: Frederick Loewe Produttore: Jack L. Warner

Best Costume Design (John Truscott), Best Music, Scoring of Music, Adaptation or Treatment (Alfred Newman, Ken Darby); • 2 nomination OSCAR 1967: Best Cinematography (Richard H. Kline), Best Sound; • 3 GOLDEN GLOBE 1967: Best Motion Picture Actor - Musical/Comedy (Richard Harris), Best Original Score (Frederick Loewe), Best Original Song (Frederick Loewe [musica], Alan Jay Lerner [testo]) per la canzone “If Ever I Should Leave You”; • 3 nomination GOLDEN GLOBE 1967 Best Motion Picture - Musical/Comedy, Best Motion Picture Actress - Musical/Comedy (Vanessa Redgrave), Most Promising Newcomer - Male (Franco Nero)

impossibile per qualunque opera cinematografica di durata ragionevole – ma, basandosi sul romanzo Re in Eterno (The Once and Future King) di T.H. White, si apre con l’incontro tra re Artù e Ginevra e termina con la loro separazione e la scissione della Tavola Rotonda. Nel mezzo, racconta molti dei dettagli che gli appassionati di tematiche arturiane hanno imparato ad amare: le grandi e nobili ambizioni di Artù per un’Inghilterra migliore, il tragico amore tra Lancillotto e Ginevra, e il tentativo di Mordred di distruggere Camelot… Merlino appare in alcune visioni e ricordi, mentre si intravede Excalibur in più di un’occasione; non c’è invece traccia di Morgana, di Sir Galahad, o del Sacro Graal. Nel traslare il suo spettacolo sul grande schermo, Lerner decise di apportare alcuni cambiamenti, “aprendo” la storia e inserendo più azione di quanta avrebbe potuto trovar spazio in una produzione teatrale (un esempio su tutti sono i duelli tra Lancillotto e i suoi valorosi antagonisti). Alterò inoltre il tenore generale dell’opera: sul palcoscenico, Camelot aveva un che di leggero, mentre la versione cinematografica assunse un tono serioso; tant’è che la scena più dichiaratamente comica del film – la farsa grossolana del primo incontro tra Artù e Lancillotto – appare palpabilmente fuori contesto. Il lungometraggio mantiene parecchi numeri musicali (non tutti), in totale una dozzina, tra cui versioni entusiasmanti di “Camelot”, “The

Lusty Month of May” e “What Do The Simple Folk Do?”, e una bella interpretazione della ballata “If Ever I Should Leave You”. Ci sono tuttavia passi in cui gli elementi musicali/comici e il cupo, serio dramma del triangolo amoroso contrastano tra loro. In generale, il film non rende molta giustizia a quella che è una delle più grandi tragedie romantiche di ogni tempo, per quanto ci riesca meglio del più recente Il Primo Cavaliere con Sean Connery, Richard Gere e Julia Ormond. La chimica vera è tra Artù e Ginevra; il loro primo incontro, quando Ginevra è ignara dell’identità di Artù, rappresenta una delle sequenze più riuscite, arricchita dall’inserimento dell’intera versione di “Camelot” e da un dialogo scoppiettante. Manca invece di cuore la storia d’amore tra Lancillotto e Ginevra: non c’è fuoco o, se c’è, emette solo deboli fili di fumo. Il cast è sempre stato un motivo di contestazione, particolarmente per chi ha assistito alla rappresentazione dei primi anni Sessanta. Nel rimpiazzare Burton (che presumibilmente non era disponibile) Richard Harris eseguì un lavoro credibile; pur essendo troppo giovane per il ruolo, la sua voce era abbastanza forte da non necessitare doppiaggio (negli anni Sessanta, l’attore si trovava ai primi posti della hit parade in America con “MacArthur Park”), anche se le sue scene migliori non sono quelle musicali bensì quelle drammatiche. La sua interpretazione sottolinea la tragedia dell’intrigo amoroso Ginevra/Lancillotto, sia

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quando rimugina dopo la presa di coscienza che i due hanno una tresca, sia quando si tuffa nella negazione e permette di bandire numerosi cavalieri della Tavola Rotonda per aver dato voce ai sospetti di cui egli stesso è preda. È molto intensa la sua interpretazione del monologo: “Li amo entrambi, ma essi mi ricambiano con dolore e tormento... Non mi lascerò ferire senza rispondere con la stessa moneta! Basta con le deboli speranze! Come uomo, voglio vendetta! [Ma] sono un re, non un uomo... È forse incivile distruggere ciò che amo? Vogliono questa sciagura?”. In definitiva, la recitazione di Harris è il collante che tiene in piedi il film, e, quando il ritmo rallenta, conduce lo spettatore anche attraverso il pantano che ne deriva. La sostituzione di Julie Andrews fu un caso di déjà vu: la seconda volta, in tre anni, che non venne scritturata per riproporre al cinema un ruolo teatrale

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che era stato suo; era già accaduto quando Warner la scartò in favore della luminosa Audrey Hepburn per My Fair Lady. Eppure, mentre nel 1963, quando My Fair Lady giunse al grande schermo, la Andrews non era molto conosciuta, ben diversa era la situazione nel caso di Camelot, girato dopo la sua consacrazione seguita alla vittoria dell’Oscar nel 1964 per Mary Poppins e al ruolo da protagonista nel 1965 in Tutti Insieme Appassionatamente. Ciononostante, come Ginevra le venne preferita Vanessa Redgrave, la cui interpretazione fu diligente ma non certo degna di nota. Le scene migliori della Redgrave sono quella già ricordata del primo incontro di Ginevra con Artù e quella, successiva al loro matrimonio, in cui la regina scherza nei boschi col resto della corte. Per le prestazioni canore, la Redgrave non fu doppiata, anche se in certi passi una voce più forte avrebbe fatto una migliore im-

pressione. La gaffe più ovvia nel casting fu la scelta Franco Nero come Lancillotto. Non c’è alcun modo d’indorare la pillola: l’attore non risultò solo inadeguato, ma francamente pessimo. La sua interpretazione oscilla tra il pagliaccesco e il sopra le righe, e, a parte il bell’aspetto, davvero non si capisce come sia stato possibile affidargli il ruolo. Le scene canore sono state doppiate da Gene Merlino – il che rende Lancillotto il cantante più potente del gruppo – e voci di corridoio affermano che l’accento di Nero era così marcato da richiedere il doppiaggio anche in qualche dialogo. Si può solo immaginare quanto più convincente avrebbe potuto essere Camelot con un attore efficace a ricoprire questa parte fondamentale. Un altro ruolo maggiore oltre ai tre protagonisti è quello di Mordred, assegnato a David Hemmings (visto di recente, di nuovo con Harris, ne Il Gladiatore), la cui carriera ha ormai attraversato cinque decenni. Hemmings resistette alla tentazione di trasformare il suo personaggio in un cattivo sopra le righe, scegliendo invece di renderlo furbo e accattivante. Parti minori furono affidate a Lionel Jeffries nel ruolo di re Pellinore, e a Laurence Naismith in quello di un Merlino appropriatamente misurato e misterioso.

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FANTASY Artù Richard Harris

Ginevra Vanessa Redgrave

Il nobile re tradito dall’amata consorte e da colui che considerava il più fedele dei cavalieri della Tavola rotonda. Dapprima incredulo, dovrà infine rassegnarsi al torto subito.

L’incanto offerto dalla vita di corte e l’amore per Artù dureranno fino all’arrivo a Camelot del giovane e valente Lancillotto, al cui fascino la regina non riuscirà a resistere.

Lancillotto Franco Nero

Mordred David Hemmings

Il nobile cavaliere giunge a Camelot col proposito di servire fedelmente il grande re Artù, ma finisce poi col cedere alla bellezza della regina, e tradire così il suo sovrano e amico.

È l’astuto figlio illegittimo di Artù e della regina Morgana di Orkny. Giunge a Camelot con l’ambizione di salire al trono, e inizia a complottare contro la Tavola Rotonda.

Pellinore Lionel Jeffries

Merlino Laurence Naismith

Il vecchio e bizzarro re che ha scordato il nome del proprio regno e la via per farvi ritorno. Dopo averlo incontrato casualmente nei boschi, Ginevra lo invita come ospite a castello. Così come le musiche, ottennero il premo Oscar anche scenografia e costumi (a cura di John Truscott). Si apprezzano schizzi di colore vividi nonché una particolare attenzione al dettaglio, e le scene mutano senza soluzione di continuità tra ambienti sonori interni e riprese esterne. È memorabile la Sala del Trono dove Artù investe Lancillotto cavaliere. Lo sfarzo di questa scena la rende visivamente una delle più impressionanti del film. I duelli durante la fiera, dove vengono utilizzati cavalli e tecniche genuine, sono un esempio di ciò che non si poteva rappresentare sul palcoscenico ma che invece dava vita sul set a memorabili sequenze cinematografiche. Naturalmente, dato che Camelot è stato prodotto come spettacolo da posti riservati, non sorprende che si sia investito tanto nel perfezionarne la confezione. La regia di Camelot è di Joshua Logan, un cineasta che, pur avendo affrontato diversi musical (compreso un noioso South Pacific), ha ricevuto per film drammatici due nomination agli Oscar come miglior regia (Picnic del 1955 e Sayonara del 1957) e una come miglior film (Fanny del 1962). Spesso a Logan si attribuisce il merito, insieme a Lerner, di aver accentuato la resa drammatica di Camelot. Il film fu il

Mago e mentore di Artù, a lui il sovrano si rivolge per chiedere consiglio. Merlino compare nei flashback, accompagnando Artù nella dolorosa analisi della sua tragedia d’amore. progetto più arduo della sua carriera hollywoodiana, assorbendo più di due anni della sua vita. E, anche se il frutto della sua fatica ha delle pecche, egli è riuscito nella difficile impresa di renderci interessanti i personaggi, nonostante la musica e il sapore epico dell’opera avrebbero potuto facilmente prendere il sopravvento. Camelot non gli valse un’altra menzione agli Oscar per la regia, ma collezionò ugualmente cinque nomination, vincendo le tre statuette già menzionate. Camelot rappresenta in ultima analisi una delle versioni più “umane” del ciclo arturiano. Anziché focalizzarsi sugli aspetti magici e politici della storia o sulle questioni di corte, punta diritto al triangolo romantico; mette in evidenza un Artù vulnerabile, dilaniato interiormente per l’infedeltà dell’amata consorte con il suo migliore amico. A dispetto delle atmosfere fascinose e delle canzoni, questo è essenzialmente un film basato sui personaggi, dove la forza dell’Artù di Harris eclissa e copre le luci-ombre della Ginevra della Redgrave e l’inettitudine del Lancillotto di Nero. Di tutte le pellicole ispirate alle leggende arturiane, questa è una delle più insolite, in grado di offrire tre ore di buon spettacolo, senza pretese, soprattutto per chi è disposto a sorvolare su Nero. n James Berardinelli

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EXCALIBUR

(Excalibur - J. Boorman, 1981) di Cuccu’ssette

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ritannia, Alto Medioevo: il cavaliere Uther Pendragon intende sottomettere i vicini feudi con l’aiuto dello stregone Merlino e di Excalibur, la spada magica fonte di potere e simbolo stesso della sovranità. Durante la guerra contro il Duca di Cornovaglia, Uther resta ammaliato dalla bellezza di Igrayne, la moglie del rivale, e pur di possederla non esita a ricorre agli incantesimi di Merlino. Il frutto della notte d’amore ottenuta con l’inganno è Artù, un bambino che lo stesso Merlino reclama per sé quale compenso per i propri servigi. Trascorrono molti anni... Uther è morto ed Excalibur è infissa magicamente in una roccia in attesa di un nuovo re capace di brandirla. Molti cavalieri si sfidano per guadagnare il privilegio di provare a estrarla, ma, tra tanti nobili, a farcela è un semplice scudiero: si tratta proprio di Artù, fino a quel momento ignaro della propria discendenza reale. Riconosciuto come legittimo sovrano e guidato dai consigli del saggio quanto ambiguo Merlino, Artù riesce nell’impresa di unificare la Britannia; fa di Camelot la capitale del proprio regno, sposa Ginevra e riunisce attorno a sé i più coraggiosi cavalieri, tra cui Lancillotto. Il reame prospera fino al giorno in cui Ginevra viene accusata di infedeltà… La Penna e la Spada Il mito di Re Artù e della Tavola Rotonda è ancora tanto radicato nell’immaginario popolare da suggestionare anche l’uomo moderno più disincantato; non è quindi un caso che il cinema abbia approfittato della famosa saga, riproponendola in varie versioni, per la verità spesso dimenticabili. Nel 1981 John Boorman ha prodotto, diretto e co-sceneggiato una delle più celebri e riuscite fra queste trasposizioni: Excalibur. Il regista si è ispirato naturalmente a testi letterari, in particolare alle opere di

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a corte o godono della loro intimità, così come spesso indossano elmi cesellati a forma di muso d’animale, degni di un torneo cinquecentesco, e brandiscono spade a una mano e mezza, con uno scarto temporale di vari secoli rispetto all’epoca presunta in cui si dovreb-

Titolo originale: Excalibur Produzione: USA/UK, 1991, Orion Pictures Corporation Durata: 140 minuti Tratto dall’opera: “Le Morte d’Arthur” di sir Thomas Malory Adattamento: Rospo Pallenberg Regia: John Boorman Sceneggiatura: John Boorman, Rospo Pallenberg Fotografia: Alex Thomson Montaggio: John Merritt, Donn Cambern Scenografia: Anthony Pratt Costumi: Bob Ringwood Musica: Trevor Jones Produttore: John Boorman

Scheda

Chrétien de Troyes, autore de Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, risalente alla fine del XII secolo, e di Thomas Malory, poeta del Rinascimento inglese e autore de Le Morte d’Arthur. L’Artù di Boorman è in effetti un eroe tutto letterario, nato dalla mente e dal cuore dei poeti; trascende la Storia e coinvolge l’immaginazione e il sentimento. Tutti i personaggi della saga vivono in una dimensione leggendaria, imbevuta di misticismo e magia. È un Medioevo pagano e ancestrale esistito forse solamente nell’animo degli uomini capaci di sognare. La pellicola ricorre al linguaggio della poesia ed evita qualsiasi pretesa di verosimiglianza o improbabili corrispondenze storiche. Ciò che conta è la forza evocativa di una leggenda immortale. Se si volesse rappresentare un Artù “verosimile”, si dovrebbe di fatto immaginare un uomo in rozze brache, armato di una spada priva di fronzoli e intaccata dai colpi nemici, protetto da un robusto scudo di legno, da una maglia di ferro rinforzata con parti in cuoio bollito, da un elmo semplice… Piuttosto che inscenare un Medioevo approssimativo, o poco appariscente per rigore filologico, il regista lascia la Storia agli esperti e pone in primo piano le atmosfere fantasy. Excalibur cerca, in sostanza, di riproporre la suggestione evocata dalla poesia epica cavalleresca, limitando profondamente la veridicità della rappresentazione storica degli eventi. I cavalieri si presentano sempre coperti da armature rinascimentali, sia quando affrontano violente battaglie sia quando banchettano

PREMI • 1 SATURN AWARD 1982: Best Costumes (Bob Ringwood) • 1 nomination OSCAR 1982: Best Cinematography (Alex Thomson)

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bero svolgere le vicende. Si può inoltre notare come armi e armature appaiono nuove in ogni scena, quasi fossero appena uscite dalla fucina del fabbro, e come la foggia degli abiti (tra cui risalta il particolare copricapo di Merlino) sia certamente poco storica. I Santi Vecchi La voce fuori campo che introduce gli eventi ci immerge subito in un’atmosfera fiabesca e ci prepara ad accettare prodigi d’ogni genere. La magia è una forza potente e pericolosa, che modifica il corso degli eventi e rischia di spezzare il delicato equilibrio dell’universo: lo stregone interferisce con il destino, altera la realtà e deve usare il proprio potere con parsimonia e saggezza, per non rimanerne consumato. Se la magia è un percorso di vita riservato a pochi e solitari eletti, il misticismo è invece parte integrante del sentire di tutta la gente di Camelot: i prodigi avvengono, senza che nessuno ne dubiti, sono eventi eccezionali riservati a personaggi straordinari. Lo stesso

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Artù nasce grazie a un inganno magico ed è destinato a perire per mano di un figlio generato in seguito a un analogo sortilegio; il re verrà infine trasportato su una nave incantata verso Occidente, là dove gli antichi volevano fosse Tir Na Nog, il Giardino delle Esperidi e lo stesso Paradiso Terrestre. Anche la spada Excalibur, che sorge dall’acqua sorretta dalla mano della Dama del Lago e nel lago stesso torna al tramontare dell’età degli Eroi, non è solo un’arma straordinaria ma il simbolo dell’unione tra l’umano e il sovrannaturale. Così come la magia, i personaggi appartengono all’altrove letterario: è la dimensione sognante della poesia cavalleresca ed epica, che non pretende verosimiglianza ma esige il coinvolgimento emotivo più schietto. Coerentemente con questa impostazione, Boorman si guardò bene dal tentare di storicizzare l’ambiente o di modernizzare i caratteri, perché nulla di tutto ciò avrebbe mai potuto conciliare con vicende che parlano di misteri, incantesimi, manufatti magici, sacre cerche e codici cavallereschi spinti all’estremo. La saga di re Artù mantiene il suo fascino anche perché, pur attraverso la finzione, riesce a parlarci di un mondo lontano, che non esiste più, nel quale il politeismo e la superstizione spesso condizionavano la vita quotidiana, così come fece in seguito la fede nel Cristianesimo. I personaggi, interpretati dignitosamente da attori teatrali inglesi, sono resi memorabili nel contesto di transizione tra antichi e nuovi culti: consapevoli che il loro tempo sta finendo, risaltano in una profonda tragicità. In particolare, Merlino (l’impareggiabile Nicol Williamson) vive in prima persona il tramonto dell’era pagana, e neppure il suo sapere arcano e la sua saggezza possono impedire al mondo di cambiare e alla magia di sbiadire in un malinconico ricordo. Nelle figure dei maggiori condottieri è evidente il problematico rapporto con il potere: Uther (Gabriel Byrne) è un uomo violento, coraggioso in guerra ma intemperante davanti alle passioni; Artù (Nigel Terry) è un predestinato privato di libera scelta, costretto a sacrificarsi per obbedire al codice cavalleresco, e condannato, nel momento in cui trasgredisce al fato deciso per lui, a trascinare sé stesso e il regno nella decadenza. Anche gli altri protagonisti sono avvolti da un alone di fatalità e dramma: Mordred (Robert Addie) è stato concepito al solo scopo di distruggere Artù, senza diritto a nutrire altri sentimenti che non siano

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l’odio morboso impartitogli da Morgana (Helen Mirren, premiata con l’Oscar per l’interpretazione di Elisabetta II in The Queen - La Regina, 2006), strega a sua volta corrotta dall’abuso della magia; Lancillotto (Nicholas Clay), uomo leale ma travolto dagli eventi, vive bramando la redenzione; e, con lui, per leggerezza o per mal sopita passione, Ginevra (Cherie Lunghi) causa la rovina di Camelot. Tutti i principali protagonisti, giusti o malvagi, sono sottomessi al destino. Il coro del “Fortuna Imperatrix Mundi”, che apre e conclude i Carmina Burana di Carl Orff, sottolinea i momenti più epici, e ben si accorda con la sorte mutevole che domina gli eroi. Decadentismo Epico Amalgamare e sintetizzare leggende spesso contrastanti tra loro è stato indubbiamente un compito gravoso. Boorman ha ritenuto indispensabile, per comunicare il senso epico della saga, definire i personaggi con pochi tratti significativi, e concentrarsi sulle vicende ruotanti attorno alla magica spada che dà il titolo al film. Stilisticamente, la narrazione segue una parabola per molti versi analoga a quella proposta nell’utopico Zardoz, diretto dal regista nel 1974. Camelot può accostarsi al Vortex, il villaggio ideale del futuro, popolato da esseri umani cui la scienza ha garantito un’oziosa e inappagante immortalità; e la Cerca del Graal, destinata a porre fine al tempo degli Eroi, è paragona-

bile alla quest degli annoiati immortali che riporterà tra loro vecchiaia e morte. Anche in Excalibur sono presenti esplicite trasgressioni alle leggi della natura, e cicli destinati a chiudersi così come si erano aperti. Una certa lentezza enfatizza i toni epici pur senza annoiare lo spettatore, a patto che questi apprezzi il fantasy, sia preparato ad assistere a uno spettacolo impegnativo e non rimpianga le storie d’amore in costume: il rapporto tra Ginevra e Lancillotto è infatti solo un momento fugace, finalizzato a esprimere la simbiosi tra la spada, il re e la terra, che culmina nella scena in cui Artù conficca nel terreno Excalibur, tra i due amanti, ferendo la terra e perdendo il contatto con essa. Il montaggio sapiente dà vita a scontri memorabili sebbene inverosimili, sempre sottolineati da musica classica. Il principale difetto della pellicola riguarda invece la scarsa fluidità di alcuni passaggi dove la narrazione, privilegiando i momenti più importanti, appare talvolta discontinua e macchinosa. La lunga durata del periodo rappresentato e la molteplicità dei personaggi possono confondere gli spettatori, specie coloro che non siano ottimi conoscitori del ciclo arturiano. Né il dialogo, maestoso quanto essenziale, provvede mai a riepilogare gli avvenimenti. La prima parte del film è piuttosto tradizionale, almeno fino alla scoperta del tradimento di Ginevra. La

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seconda, meglio riuscita, narra invece della decadenza del regno e della ricerca del Graal: qui Boorman si distacca dagli stereotipi del cinema di genere e calca la mano su toni visionari. Affronta temi complessi, come il rapporto tra le responsabilità del governare e le aspirazioni individuali, il prezzo della conoscenza e l’uso ragionevole del sapere. L’inesorabile declino del sire Artù e della sua terra sono descritti con immagini drammatiche, mai banali. Si esamina la sacralità del ruolo del sovrano, una funzione che dona grande potere ma esige obblighi gravosi. L’avventura si fa esperienza mistica: prima che

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vagare in cerca di nemici e prodigiosi tesori, è un viaggiare dell’uomo nell’uomo. Per questo occorre calarsi nello sguardo estatico dei Cavalieri e dimenticare quanto di solito ci propongono videogiochi e pellicole d’avventura. Visioni sovrannaturali e battaglie si alternano, fino al finale, solenne e malinconico, crepuscolare come e più di quanto non voglia la tradizione. Excalibur è un raro esempio di kolossal che non sacrifica gli intenti artistici alle esigenze dello spettacolo. Il regista sceglie di accontentare il sense of wonder, esagerando ogni dettaglio eroico. La narrazione ha un gusto molto barocco, a tratti rasentando il kitsch, dando a volte l’impressione che le inquadrature vogliano rivaleggiare con celebri dipinti rinascimentali. Questa pellicola può affascinare anche per il suo percorso figurativo, che gratifica l’occhio citando, ad esempio, l’arte preraffaellita, Maxfield Parrish, i mosaici bizantini. La musica di Richard Wagner è immortale, interessante è la riscoperta di Orff, mentre le divagazioni celtiche sono di Trevor Jones conoscitore della musica antica. Excalibur invita a riscoprire le fonti più autentiche della leggenda, senza accontentarsi delle versioni proposte da Hollywood o da riduzioni grossolane. È un viaggio nella poesia e nel mito, travestito da fantasy anni Ottanta. Un Classico, ancora oggi imperdibile. n Cuccu’ssette

Cinema: Excalibur


FANTASY Artù Nigel Terry

Merlino Nicol Williamson

Il figlio di Uther e di Igrayne, concepito con l’inganno, rapito ancora in fasce da Merlino, e cresciuto ignaro del proprio sangue reale. Il destino gli riserverà grandi onori ma anche tragedie.

Consigliere di Uther e successivamente di Artù, usa le arti magiche per influenzare il destino della Britannia, ma non sempre le conseguenze delle sue pianificazioni risultano positive.

Lancillotto Nicholas Clay

Ginevra Cherie Lunghi

Il più forte dei cavalieri della Tavola Rotonda. Serve fedelmente Artù fino al giorno in cui, innamoratosi della regina Ginevra, cederà al desiderio e tradirà il suo re.

L’amata sposa di Artù. Il suo atteggiamento ambiguo verso Lancillotto genererà sospetto a corte; quando poi l’infedeltà diverrà manifesta, per Camelot sarà l’inizio della decadenza.

Morgana Helen Mirren

Mordred Robert Addie

La sorellastra di Artù, figlia di Igrayne e Cornwall, iniziata da Merlino alle arti magiche. Ha assistito da bambina alla violenza perpetrata da Uther ai danni di sua madre, e ha giurato vendetta.

Figlio illegittimo di Artù, concepito con la sorellastra Morgana dopo che quest’ultima aveva assunto le sembianze di Ginevra. Verrà cresciuto dalla madre nell’odio per il re.

Perceval Paul Geoffrey

Gawain Liam Neeson

Ragazzo di umili origini, divenuto scudiero di Lancillotto, viene nominato cavaliere dopo essersi offerto di difendere in duello contro Gawain l’onore della regina.

È il cavaliere della Tavola Rotonda che, istigato da Morgana, insinua per primo l’infedeltà di Ginevra, al punto da sfidare apertamente Lancillotto in un duello.

Uther Gabriel Byrne

Cornwall Corin Redgrave

L’ambizioso padre di Artù. Per merito di Merlino ottiene la legittimazione come unico re di Britannia. Ma l’incapacità di frenare la propria lussuria lo porterà a perdere ogni cosa.

Il maggiore nemico di Uther, con il quale stipula una pace temporanea grazie all’intercessione di Merlino. La sua sposa Igrayne è però bramata dal rivale, che per averla si rimangerà gli accordi.

Igrayne Katrine Boorman

Leodegrance Patrick Stewart

L’affascinante moglie del duca Cornwall. La sua bellezza è tale da far perdere la testa a Uther, al punto da indurlo a prenderla con l’inganno dopo aver rotto la tregua stipulata con il duca.

È il padre di Ginevra. Quando il giovane Artù, da semplice scudiero, riesce a estrarre Excalibur dalla roccia, Leodegrance è l’unico tra i cavalieri presenti a riconoscerlo subito quale legittimo re.

Cinema: Excalibur

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Cinema

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FANTASY

IL PRIMO CAVALIERE (First Knight - J. Zucker, 1995) di Cuccu’ssette

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l Primo Cavaliere è una delle trasposizioni cinematografiche più recenti della leggenda di Re Artù. La pellicola amalgama con invenzioni tutte moderne elementi ereditati dalla tradizione letteraria medioevale e dall’opera La morte di Artù di Sir Thomas Malory (circa 1405-1471), o derivati dall’arte neogotica e preraffaellita. Artù ci viene presentato come un uomo vecchio e stanco; ha affrontato tante battaglie e ha portato la pace nel regno di Camelot. Suo unico nemico il cavaliere rinnegato Malagant; questi, spinto dalla sete di potere, mette a ferro e fuoco il vicino regno di Leonesse arrivando a imporre a Lady Ginevra, la bellissima sovrana di quella terra, un trattato di pace che equivale a una resa incondizionata. L’unica speranza per sfuggire alle mire del crudele feudatario è sancire un’alleanza con la potente Camelot. Ciò coincide col desiderio di Artù di sposare Ginevra e trascorrere con lei una serena vecchiaia. La giovane, dal canto suo, è affascinata dalla sensibilità e dal carisma del sire, amico e… coetaneo del padre. Accetta dunque la proposta di matrimonio e si mette in viaggio verso Camelot ma, durante il tragitto, gli sgherri di Malagant assaltano la sua carrozza. Ginevra viene salvata da un uomo misterioso che le strappa un bacio galeotto. L’eroe è Lancillotto: uomo di umile origine e abile con la spada, si guadagna da vivere partecipando a giostre e combattendo per gioco nelle fiere. Tra i due è un colpo di fulmine; Ginevra scopre di amare il suo salvatore ma è vincolata dalla promessa fatta ad Artù e dalla responsabilità nei confronti del suo popolo. Quando Lancillotto vince un torneo ed entra nelle grazie del re – che poi lo nominerà cavaliere – ella ne è felice pur sapendo di non poter valicare gli stretti limiti del codice cavalleresco. Degli altri cavalieri nessuno ha importanza: la sceneggiatura li relega al ruolo di

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Non c’è più religione Colpisce immediatamente l’assenza del sovrannaturale. Manca la magia: non ci sono il sapiente Merlino e la strega Morgana, e neppure echi di spiritualità celtica in contrasto o in fusione con il Cristianesimo. Non c’è la mitica spada Excalibur, niente Dama del Lago. La stessa nave che dovrebbe trasportare Artù morente verso la mitica Avalon o le Isole dell’Occidente si riduce a una comune scialuppa funebre, vagamente ispirata alle usanze vichinghe. Ovviamente si tace la Cerca del Santo Graal, e l’atmosfera è prepotentemente laica. Mancano anche incantesimi, e di miracoli nati dal-

la fede o dalla credulità popolare non c’è traccia. La scelta di presentare un mondo medievale in cui le forze mistiche restano estranee alle vicende degli uomini è interessante ma è tipicamente moderna, si distacca tantissimo dalla sensibilità di quanti dettero vita alle leggende su Re Artù, che riflettono il modo di pensare dell’epoca e del luogo in cui sono nate. Quando Dante Alighieri fece proferire a Francesca nel girone dei lussuriosi la frase “galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse”, sapeva che i suoi contemporanei avrebbero immediatamente compreso il parallelo… Ignorare il sentire comune al quale un’opera si ispira ne genera fatalmente la decontestualizzazione.

Titolo originale: First Knight Produzione: USA, 1995, Columbia Pictures Durata: 134 minuti Regia: Jerry Zucker Storia: Lorne Cameron, David Hoselton, William Nicholson Sceneggiatura: William Nicholson Fotografia: Adam Greenberg Montaggio: Walter Murch Scenografia: John Box Arredi: Malcolm Stone Costumi: Nanà Cecchi Musica: Jerry Goldsmith Produttori: Hunt Lowry, Jerry Zucker

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Scheda

comparse e si focalizza invece sul rapporto che viene instaurandosi tra Artù, Ginevra e Lancillotto. Un ménage scandito dal senso del dovere e dell’onore, dalla passione fieramente soffocata, interrotto qua e là da avventurosi salvataggi della regina, rinchiusa nella cupa roccaforte di Malagant, e parentesi militari come la riconquista della perduta Leonesse. Artù e Lancillotto escono vincitori dalla battaglia per il regno di Ginevra ma il nuovo cavaliere decide di andarsene. Il bacio di addio – niente più – tra la giovane regina e l’eroe è però “fatale”; per l’anziano Sire è già mancare alla parola data. Piuttosto che sistemare lo scandalo in privato, come consigliano i saggi cavalieri, Artù esige un processo nella pubblica piazza. Malagant non aspetta altro che un diversivo come questo per sferrare il suo attacco a tradimento.

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Cinema FANTASY chiave di interpretazione attuale capace di mantenerne inalterato lo spirito.

Può essere vero che le belle storie sono basate su sentimenti universali trasponibili in epoche e culture diverse, eppure esistono alcune caratteristiche proprie di ciascun ambiente, rimuovendo le quali si rischia di intaccare il significato stesso delle vicende che vi si svolgono. Il Medioevo europeo era prevalentemente cristiano con echi di paganesimo mal sopito, di filosofia classica recuperata dagli Arabi e dagli Ebrei, e interpretazioni a volte fantasiose della cosmologia e della natura. La mancanza di stregonerie e prodigi finisce allora per smorzare il senso della meraviglia che tanto entusiasmava i contemporanei di Sir Thomas Malory. Inoltre il sovrannaturale, a qualunque credo sia ispirato, crea atmosfera e motiva le azioni dei personaggi; supporta momenti di introspezione che in un film di avventura possono apparire troppo brevi. Privati di un background spirituale, i protagonisti vivono gli eventi in balìa di una sceneggiatura che stenta nel trovare una

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Storie di corna vissute Tutti i protagonisti vengono accostati all’esperienza quotidiana dello spettatore e acquistano umanità. Perdono la loro connotazione di archetipi in nome di un’ipotetica più facile immedesimazione. Peccato che ogni forma d’arte epica e fantastica sia basata proprio sull’esistenza stessa degli archetipi. Li ritroviamo anche qui, trasposti in ambientazioni diverse, tuttavia si indeboliscono quanto più vengono trasformati. Anche ai tempi di Malory esistevano svariate versioni delle leggende, spesso vecchie di secoli, tramandate e adattate di volta in volta al pubblico. Tutte le varianti convenivano nell’attribuire a figure come Artù, Lancillotto, Ginevra, Parsifal la natura di personaggi appartenenti all’immaginario universale. Nessun menestrello si sarebbe sognato di trasformarli in persone concrete, magari del popolo grasso, alle prese con botteghe e fiorini. Né la platea avrebbe probabilmente gradito un simile cambiamento, a meno che non fosse parte di una farsa, in un esplicito contesto di trasgressione. Le varie narrazioni si diversificavano più per le avventure presentate che per il tono. Non desta troppa meraviglia che la loro suggestione sopravviva ancora oggi, divulgata con mezzi moderni: romanzi, film, fumetti, cartoni animati, oggettistica… La pellicola fa luce sulle emozioni dei protagonisti, attualizzando una vicenda nota, ma purtroppo non è Lancillotto e Ginevra (Lancelot du Lac, 1970) di Robert Bresson. Il Maestro poteva permettersi di rendere il sentimento di Lancillotto in tutta la sua tragicità, contravvenendo talvolta alla leggenda, interpretandola e modificandola, facendo riflettere sul tema del peccato e della redenzione senza mai scadere nella facile banalità. Il dialogo ridotto all’essenziale, le inquadrature che ricordano le regie di Carl Theodor Dreyer, la forte introspezione e la speculazione teologica sull’innocenza fanno di quel film un capolavoro, destinato però ad essere apprezzato da un pubblico abituato a pellicole artistiche, o pronto ad accostarsi a un linguaggio poetico, senza pregiudizi. Ne Il Primo Cavaliere Artù diventa un vecchio qualsiasi, nemmeno troppo saggio: corre dietro a una giovane donna che potrebbe essere sua nipote; male si rassegna al fatto di piacerle solo per la posizione sociale che occupa. Lancillotto, giovane bello e rozzo, vuol

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far strada barcamenandosi tra la brama di successo e i desideri più carnali. L’affascinante Ginevra vorrebbe la protezione del marito potente, senza rinunciare alle seducenti lusinghe del cavaliere di umili origini. I modelli umanizzati di Jerry Zucker – regista del film – più che in archetipi differenti egualmente radicati nell’immaginario collettivo si trasformano purtroppo in macchiette. Può darsi che il mondo contemporaneo sia ormai così materialista da non provare più commozione davanti alle gesta eroiche della Tavola Rotonda. La riproposizione attuata mediante stereotipi privi di poesia non ne facilita la comprensione. I personaggi risultano così semplificati ed elementari; vorrebbero assomigliare ai mariti cornificati de La Mandragola di Niccolò Machiavelli e delle commedie di Georges Feydeau ma, ahinoi, sembrano usciti dalla sceneggiatura di una commedia trash: Storie di corna vissute! I Cavalier, l’Arme, gli Amori… Il Boccaccio ha detto la sua sull’amor cortese – rivolgendosi ai letterati – e lo ha fatto nel Decameron con creature da lui inventate o ereditate dalla tradizione novellistica persiana, rielaborate a modello di stile di vita per i ricchi cittadini dei Comuni. Sono esempi di valori dell’amore cortese per i benestanti senza titolo nobiliare, proposti senza scomodare personaggi epici per narrare vicende quotidiane, come ha cercato

di fare Jerry Zucker. Se il regista avesse seguito la scelta compiuta da altri Grandi della Settima Arte evitando ogni riferimento diretto a Re Artù, cambiando nomi e dettagli, adattando i medesimi eventi e le battute a una trasposizione avveniristica o fantasiosa... avrebbe prodotto una pellicola migliore e seguito esempi riusciti come quelli del Maestro Akira Kurosawa. Zucker avrebbe potuto mantenere i riferimenti al Ciclo Bretone e realizzare una pellicola indimenticabile, se solo avesse giocato la carta dell’ironia o utilizzato i toni della parodia, come fecero i Monty Python. Si tratta solo di un what if…? ovvero di una serie di ipotesi su cui riflettere, poiché la realtà della pellicola è ben diversa. Il Primo Cavaliere vuol essere una narrazione d’avventura, tuttavia gli interventi di Lancillotto, che salva più volte Ginevra, sono brevi parentesi in un intreccio amoroso. Le scene d’azione sono prive dell’entusiasmo necessario a coinvolgere lo spettatore, quasi fossero un obbligo sgradevole imposto dai produttori pur di attrarre qualche spettatore in più. I combattimenti sono mosci e il montaggio si adegua al ritmo complessivo del film senza disomogeneità: narra nella stessa languida maniera baci rubacuori e fendenti spacca cranio. Senza valorizzare la violenta eleganza di un duello all’arma bianca, anche le più feroci mischie ispirano sbadigli, oppure risate.

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Richard Gere con una spada in mano, probabilmente di materiale plastico, è inverosimile e fa rivoltare nella tomba i poveri autori dei trattati di scherma antica. Nel suo caso, abili controfigure e un astuto montaggio ci avrebbero risparmiato delle delusioni… Si sa, però, l’amore è cieco e l’ignoranza sovrana, quindi le fan non hanno battuto ciglio. L’introspezione, superficiale e contraddittoria, non compensa il mancato senso di meraviglia; semmai evidenzia le pecche nella sceneggiatura. Il rapimento della regina è paradossale. Nell’enorme fortezza di Camelot nessuno al di fuori di Lancillotto se ne accorge? Egli non dà l’allarme ma fa

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l’eroe, mettendo a repentaglio la sua vita e quella dei cavalieri che banchettano e se la spassano nella cittadella, ignari del nemico che potrebbe giungere da un momento all’altro. Da solo, Lancillotto sconfigge tutti i nemici, senza farsi neppure un graffietto, riportando la regina al Re che intanto se ne sta a pregare… Non è l’unico punto debole: mentre si comprende la tristezza del sovrano, battuto dalla gioventù di Lancillotto, non si capisce come mai rifiuti il saggio consiglio dei Cavalieri e preferisca mettere in piazza le sue corna, come fosse invitato a un becero reality show. Deprimente la conclusione. Artù fa una fine davvero ingloriosa, senza aver neppure il tempo per sguainare la spada e scambiare quattro colpi col nemico in un epico corpo a corpo. Il povero sire viene defraudato di una fine epica, sul campo di battaglia. La sua morte permette di inserire una morale conclusiva, consolatoria e stereotipata, che assomiglia al discorso funebre di un vecchio qualsiasi, non certo all’apologia di un prode guerriero. Anche il nemico dona poche emozioni: fa la sua comparsa ogni tanto ma appare piatto e prevedibile, soprattutto se confrontato con i magnifici villain tipici del cinema di genere. Che Hollywood rimaneggi la Storia e i libri a proprio uso e consumo non sorprende; è suo diritto e anche dovere. L’Arte cinematografica è intrattenimento

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FANTASY Lancillotto Richard Gere

Ginevra Julia Ormond

Lo spadaccino vagabondo che salva da un agguato la promessa sposa di Artù. A Camelot troverà un ideale per cui battersi e un sovrano a cui giurarsi fedele; ma questa lealtà sarà messa a dura prova dai suoi sentimenti per Ginevra.

La giovane regina di Leonesse; per il bene del suo popolo acconsente a sposare il sovrano di Camelot. L’affetto sincero che prova nei confronti del re non basterà tuttavia a soffocare la passione nata per Lancillotto.

Artù Sean Connery

Malagant Ben Cross

L’ormai anziano e stanco re, reduce da mille battaglie, all’apice della gloria ma col rimpianto di una vita sacrificata al servizio di Camelot. Il suo sogno di poter formare una famiglia con Ginevra si rivelerà solo una dolce ma effimera illusione. intelligente, non può e neppure deve sostituirsi a libri, studiosi, biblioteche o gente che pratica la rievocazione quale forma di valorizzazione del territorio e della Storia. In questo caso, però, si calca la mano: il regista narra il Medioevo fantastico cercando quanto più possibile di eliminare il Medioevo e il suo rapporto con il fantastico. Gli abiti non sono storici, sono stati creati dagli stessi designer impiegati in Ladyhawke, ma il fatto che siano frutto di fantasia conferisce loro il pregio di non costituire – come a volte capita nei film in costume – brutti pastiche di epoche differenti. Anche il castello di Camelot è finto, frutto di una (in)decente e ben visibile ricostruzione al computer. D’altra parte la vicenda è leggendaria senza pretese di fedeltà alla Storia; ogni sforzo produttivo è teso a creare scenografie da favola e costumi minimali, senza pretendere rigore filologico. Si salvi chi vuole In teoria Il Primo Cavaliere narra una vicenda scorrevole e appassionante, ben sceneggiata, divertente e piena di emozione, con un cast di tutto rispetto, costumi appariscenti e una bella colonna sonora. In pratica, il film fa dell’ambiguità la sua bandiera. Osservando la locandina troviamo un titolo e un’immagine analoghi a quelli di tante altre pellicole fantasy. Compare la parola “cavaliere” (in certe nazioni, il titolo è Lancelot) e una bella spada fa sfoggio di sé tra Lancillotto e Re Artù, Ginevra è ritratta in mezzo ai due eroi, è presente ma non in primo piano.

Lo spietato rivale di Artù, con gli artigli protesi su Leonesse ma le mire costantemente rivolte a Camelot. L’arrivo di Lancillotto complicherà inizialmente i suoi piani, ma gli offrirà poi l’occasione per sferrare un attacco decisivo. Di solito titoli e locandine seguono stereotipi e, in casi come questo, attraggono i cultori della cinematografia di genere fantastico o storico, oppure i giovani. L’iconografia è tradizionale e promette un paio di ore di onesto svago tra avventure mozzafiato, con un pizzico di sentimento. Il Primo Cavaliere disattende invece le aspettative dei potenziali fan. Anche il trailer a suo tempo fu ambiguo presentando sequenze di combattimento alternate a immagini di Camelot e di un bacio appassionato, assomigliando a tantissime altre presentazioni, Excalibur inclusa. Nessun indizio fa intuire chiaramente che si tratta di un film sentimentale in costume. La stessa colonna sonora di stampo epico stride quando affiancata a scene di lotta che dovrebbero essere eroiche ma che non lo sono abbastanza. Qualcosa si potrebbe intuire dalla scelta dei protagonisti, Julia Ormond nel ruolo di Ginevra, e Sean Connery e Richard Gere, beniamini del grande pubblico, amati dalle donne e invidiati da tanti uomini. Connery, già interprete di svariate pellicole d’azione, è adatto al ruolo, mentre per Gere poteva anche essere giunto, con lo sfiorire della bellezza da gigolò, il momento di un sano e consapevole riciclaggio… Il verdetto è invece una bocciatura per entrambi. Purtroppo per quanti desideravano una vicenda fantasy autentica, qui ci si trova davanti a un godibile caramelloso pastiche, quasi una soap opera in puntata singola. n Cuccu’ssette

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KING ARTHUR

(King Arthur - A. Fuqua, 2004) di Daniele Picciuti

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iversamente dalla tradizione classica, che individua il mito di Artù in epoca medievale, questo film è costruito sulla base di una teoria di recente concezione, secondo cui ai tempi della decadenza dell’Impero Romano (nello specifico, il 452 d.C.), visse un ufficiale romano di nome Lucius Artorius Castus che, al comando di un gruppo di cavalieri sàrmati, sconfisse gli invasori sassoni nella battaglia di Badon Hill, consegnando la Britannia ai suoi legittimi abitanti, i Britanni. Secondo questa teoria, Artorius Castus potrebbe essere il vero Artù, ispiratore di tante gesta letterarie. Quando questo film uscì, attirò nelle sale cinematografiche lo stuolo di coloro che da sempre riteneva il “Ciclo Bretone” (“Ciclo Arturiano” o “Materia di Britannia”) una sorta di Bibbia su tutto ciò che riguarda Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda. La pellicola, in sé, non è così male come venne dipinta. La storia va oltre il mito di Artù, anzi lo dissacra. Scordatevi i cavalieri senza macchia e senza paura, i maghi e gli incantesimi, una Excalibur dotata di grandi poteri; scordatevi la magia, il lato fantastico della vicenda e preparatevi invece a una solida e granitica realtà. Sangue che schizza, teste mozzate e gesta memorabili dettate dall’amicizia e dall’amore piuttosto che da un romantico spirito cavalleresco. La truculenza è forse esasperata, ci aiuta però a capire che non si tratta di un’avventura in stile “cappa e spada” ma di una lotta per la sopravvivenza, una guerra tra invasori e patrioti che si lascia dietro una distesa di cadaveri senza fine. Non solo, l’eroismo di Artù non è sbandierato all’insegna della giustizia e della cavalleria fini a sé stesse, ma sono conseguenza di una ricerca interiore che fa da filo conduttore alle sue azioni. Quello a cui assistiamo è il viaggio di un uomo drammaticamente conteso tra due tradizioni. Lucius Artorius Castus, figlio di madre britanna e padre romano, è combat-

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Titolo originale: King Arthur Produzione: USA/UK/Irlanda, 2004, Touchstone Pictures Durata: 126 minuti Regia: Antoine Fuqua Scritto da David Franzoni Fotografia: Slawomir Idziak Montaggio: Conrad Buff IV, Jamie Pearson Scenografia: Dan Weil Decorazioni: Olivia Bloch-Lainé Costumi: Penny Rose Direzione artistica: Yann Biquand, Anna Rackard Musica: Hans Zimmer Produttore: Jerry Bruckheimer

Scheda

tuto tra la fedeltà a Roma e l’eco della sua terra che lo richiama a sé, eco inizialmente ottenebrata dagli sfavillanti ideali di cultura, progresso e civiltà che Roma rappresenta (o dovrebbe rappresentare) contrapposti al suo cuore, che invece percepisce la Britannia come patria. Similmente, anche i prodi cavalieri di Artù qui non sono affatto rilucenti paladini, ma un gruppo di guerrieri selvaggi in cerca di riscatto e di un lasciapassare per poter tornare a casa. A loro non interessano gli ideali di Roma o la gloria di Dio, ma solo la libertà che l’obbedienza all’Impero potrà restituirgli. La stessa Ginevra non è la solita fanciulla in pericolo; dopo esser stata salvata da Artù, si mostra per quel che è: una donna forte, determinata, una guerriera disposta a tutto pur di difendere la propria terra dai Sassoni e dai Romani. Sarà l’incontro con lei ad aprire finalmente gli occhi di Artù. Niente in questo film è scontato. Ci colpisce per la forza dei personaggi, per la veemenza delle battaglie, per la fotografia eccezionale, per la colonna sonora − composta da Hans Zimmer − capace di emozionare e per la voce della cantante dei Clannad, Moya Brennan, che rapisce il cuore.

PREMI • 1 nomination SATURN AWARD 2005: Best DVD Special Edition Release (per la versione estesa)

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IL FILM La pellicola si apre con un antefatto, raccontato da una voce fuori campo, quella di Lancillotto. Quindici anni prima, assistiamo al reclutamento coatto dei giovani cavalieri sàrmati da parte dei soldati romani. Il film procede seguendo i personaggi in età adulta. Conosciamo così Lancillotto, abile a combattere con due spade; Galvano, maestro d’ascia; Galahad, esperto tiratore d’arco; Tristano, che ha fatto della spada un autentico culto; Bors, padre di famiglia grezzo e compagnone, esperto nel corpo a corpo e nell’uso di strane lame ricurve; Dagonet, veemente guerriero dall’animo gentile che predilige le armi pesanti. E poi Artù naturalmente, votato a Roma più che a ogni altra cosa. Nel giorno della loro liberazione (l’impegno di un cavaliere sàrmata era servire Roma per quindici anni), il vescovo Germanius − emissario dell’Impero − li ricatta richiedendo loro una ulteriore e pericolosa missione: soccorrere una famiglia romana a nord del Vallo

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di Adriano, in pieno territorio dei Guado − il popolo originario che abita la Britannia − e scortarla in salvo. L’abuso scatena le proteste dei cavalieri, ma la fiducia incondizionata che essi ripongono in Artù li induce a piegarsi e ad accettare l’incarico. Struggente la scena che li vede radunati la sera a bere nella locanda: la canzone accennata dalla moglie di Bors, in dissolvenza con la musica di fondo, evoca un’atmosfera di profonda tristezza, mentre nei primi piani dei cavalieri si legge il desiderio imperituro di tornare a casa. Come previsto, il viaggio si dimostrerà irto di pericoli, ma permetterà ad Artù e ai suoi cavalieri di acquisire la piena consapevolezza del loro ormai indissolubile legame con la Britannia. Una presa di coscienza che culminerà nella battaglia finale contro i feroci invasori sassoni guidati dallo spietato Cerdic, che i cavalieri combatteranno non più al fianco di Roma per la gloria dell’Impero, ma accanto al popolo guado in difesa di quella che è divenuta a tutti gli effetti la loro terra. Tra le sequenze più intense, va citata quella in cui Artù rimette in sesto le dita fratturate di Ginevra, che qui è una giovane Guado trovata prigioniera all’interno di una cripta degli orrori, seviziata da sacerdoti cristiani che hanno fatto della religione un autentico fanatismo, convinti di purificare per mezzo della tortura le anime pagane. Il momento è intenso e la protagonista avvince col suo sguardo sfrontato, in grado di soggiogare il sempre glaciale Artù. Merita sicuramente una menzione anche la scena dello scontro sul lago ghiacciato tra i cavalieri e i sassoni, in cui il sacrificio di Dagonet permette ai suoi compagni di uscire vittoriosi dallo scontro: forse la più bella a livello scenografico Da segnalare infine lo scambio di battute incisivo tra Cerdic e Artù poco prima dello scontro finale. Il momento è intenso; alla domanda del Sassone sul perché Artù avesse deciso di incontrarlo, quest’ultimo risponde di averlo voluto vedere in faccia per poterlo riconoscere e uccidere sul campo di battaglia, aggiungendo con arroganza che il suo volto sarebbe stata l’ultima cosa che il Sassone avrebbe visto su questa terra. È l’atteggiamento di un centurione romano, che mai avremmo potuto vedere nell’Artù del Ciclo Bretone. Vinta la guerra contro gli invasori dai Guado capeggiati da Artù, il film trova poi il suo epilogo con la veglia funebre per i caduti, e il successivo matrimonio tra l’eroe, ormai definitivamente Britanno, e Ginevra, che sancisce l’unione di tutti i popoli di Britannia sotto

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un’unica ala protettrice, quella di Re Artù. È stato girato anche un finale alternativo, presente nei contenuti speciali del DVD: al matrimonio si sostituisce la scena di un ragazzino – salvato nella cripta insieme a Ginevra – che tenta di estrarre una spada – Excalibur – piantata a terra accanto al tumulo dove sono seppelliti i corpi di Lancillotto e Tristano. È forse un finale migliore, più cupo ma allo stesso tempo più vero, e fa riflettere sul fatto che, forse, esiste un Artù in tutti noi, perché, come usano ripetere i suoi cavalieri, “ognuno è artefice del proprio destino”. I PERSONAGGI Artù è interpretato da un Clive Owen non in pienissima forma. Siamo abituati a sue perfomance di gran lunga più accattivanti (vedi I Figli degli Uomini) e, a rincarare la dose, il doppiaggio italiano non gli rende merito. Tuttavia, alla fine riusciamo a farcelo piacere, forse proprio in virtù del carisma intrinseco del suo personaggio. Artorius è un capo che i suoi cavalieri stimano senza remore, per quel senso di giustizia che egli ostenta ogni volta con sicurezza, e che loro scarsamente possiedono. Egli non riesce a rimanere passivo di fronte ai soprusi, deve affrontarli anche a costo di rischiare la vita propria e dei propri uomini. L’incontro con Ginevra stravolge i suoi valori; trovare degli esseri umani incatenati e torturati da sedi-

centi esponenti della Chiesa di Roma, di colpo lo porta a comprendere la verità, poi sancita dalle parole del giovane Alessio: “La Roma di cui parli non esiste!”. Lancillotto, un intenso Ioan Guffrudd, in questo film non tradisce Artù con Ginevra, come vorrebbe la vicenda classica, sebbene tra i due nasca una velata intesa. Quella tra i due cavalieri è un’amicizia profonda, paragonabile a un legame di sangue, in grado di resistere ai loro continui dissapori, alle divergenze religiose, alle ottiche diametralmente opposte. Se Artù combatte per Roma e per la Chiesa, ideali che egli ritiene nobili e sacri, Lancillotto combatte soltanto per lui, per la loro amicizia, unica cosa veramente sacra. In quest’ottica, la morte finale del primo cavaliere di Artù acquista peso ancor maggiore, lasciandoci una profonda amarezza. Quello che il film non ci mostra, e che invece avremmo sicuramente apprezzato, è il primo incontro tra i due uomini e le motivazioni che hanno spinto Lancillotto a riporre tutta la sua fede in Artù, al punto da morire per lui. Nelle vesti di Cerdic, il capo dei Sassoni, troviamo Stellan Skarsgård (lo “Sputafuoco” Turner nella saga de “I Pirati dei Caraibi”), un grande attore che ancora una volta ci dà modo di apprezzare le sue qualità artistiche, in questa parte estremamente convincente. Il suo è un personaggio caratterizzato in modo da restare subito impresso: lento e solenne nei movimenti, feroce ma onorevole quando combatte uomini che ri-

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Cinema FANTASY visivo cattura noi così come cattura lo stesso Artù. L’aria della bella e dannata le si addice in modo eclatante. Probabilmente è lei la figura predominante nel film. Al di là della bellezza, Ginevra ci suscita simpatia per il ruolo inconsueto attribuito al suo personaggio, che non è più la damigella da salvare, ma una guerriera che sa difendersi molto bene, tira d’arco meglio dei Sassoni, sa essere spietata nel corpo a corpo e prende l’iniziativa quando si tratta di dichiararsi ad Artù, e facendolo in modo tutt’altro che platonico.

tiene valorosi, spietato con chiunque si mostri debole, sia esso un suo guerriero, una donna in lacrime o il suo stesso figlio. Cerdic ci suscita sensazioni contrastanti: se da una parte tendiamo a disprezzarlo, dall’altra ci affascina per come riesce a imporsi. Per il condottiero sassone, nulla ha valore, eccetto il valore stesso. Tratta con sufficienza tutti i suoi uomini e peggio di tutti Cynric, suo figlio, che ritiene uno smidollato; ai suoi nemici riserva un trattamento anche peggiore, sterminandoli senza pietà, siano essi vecchi, donne o bambini. Ci accorgiamo che ha anche un suo “codice morale” solo quando incontra Artù, che omaggia con la frase: “Finalmente un uomo che vale la pena uccidere”. Il ruolo di Ginevra è impersonato da una sensualissima Keira Knightley, che sembra nata per questa parte, o forse le è stata semplicemente cucita addosso. Quando Artù la trova incatenata nella cripta, pallida ed emaciata, con le mani fratturate dalle torture e uno sguardo in grado di bucare lo schermo, l’impatto

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LA VERITÀ STORICA NEL MITO DI ARTÙ La verità storica sull’esistenza di Artù continua a rimanere un mistero. Nel corso del tempo si sono avvicendate diverse ipotesi − alcune teorizzano l’esistenza di vari Artù succedutisi in epoche diverse − che collocano le spoglie dell’eroe in luoghi come Glastonbury (la presunta Avalon) nel Somerset inglese, o “Old Bury”, il cimitero di Atherstone nei pressi di Coventry, o ancora Glamorgan nel Galles meridionale; in ognuna di queste località sono presenti iscrizioni che riportano il nome di Artù. L’ipotesi storica a tutt’oggi più accreditata è però quella di due ricercatori americani, Scott Littleton e Linda Malcor, per i quali l’Artù di cui narrano le leggende fu appunto l’ufficiale romano protagonista della pellicola, originario con ogni probabilità di quella che oggi è la regione Campania. Stando a questa teoria, Artorius finì i suoi giorni da governatore della Liburnia (Dalmazia) e la sua tomba si troverebbe, ancora visibile, a Spalato. Durante le riprese del film, Linda Malcor venne chiamata a correggere la sceneggiatura ma, nonostante il suo intervento abbia salvato la produzione da grossi errori storici che ne avrebbero sminuito il valore, qualche strafalcione è rimasto, come il grido di battaglia dei Sàrmati, pronunciato in russo. Secondo gli studi della Malcor, la battaglia sul ghiaccio ricostruita nel film fu realmente combattuta, ma non in quel frangente e con quello schieramento, bensì tra Romani e Sàrmati prima che questi ultimi venissero sconfitti e stringessero successivamente un’alleanza con Roma; la stessa alleanza in base alla quale tutti i bambini sàrmati erano tenuti a prestare servizio per un lungo periodo nell’esercito romano, come hanno ricordato David Franzoni e Antoine Fuqua, rispettivamente sceneggiatore e regista di King Arthur. n Daniele Picciuti

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FANTASY Artorius Castus Clive Owen

Ginevra Keira Knightley

Devoto a Roma e all’ideale di libertà di cui l’Impero sembra portatore, si renderà infine conto, grazie all’aiuto di Ginevra e dei cavalieri, di appartenere anima e corpo alla Britannia.

Di sangue guado, si trasforma da figura diafana salvata dalle torture a guerriera tutta d’un pezzo, in grado di spronare e assistere Artorius nel suo conflitto interiore.

Lancillotto Ioan Gruffudd

Galvano Joel Edgerton

Amico fraterno di Artorius; tra i cavalieri è il solo capace di tener testa al condottiero, di spingerlo a ragionare. Nonostante i continui dissapori, gli sarà fedele fino alla morte.

Segue fedelmente Artorius senza mai esitare, e il suo appoggio risulta molto utile al condottiero quando si tratta di convincere gli altri cavalieri a seguire gli ordini del vescovo Germanius.

Bors Ray Winstone

Dagonet Ray Stevenson

È suo il grido “Artorius!” con cui ogni volta incita i cavalieri sàrmati in battaglia. Goliardico, sposato e padre di numerosi figli, è forse il vero collante che mantiene unito il gruppo.

Cavaliere silenzioso, dall’aria dura ma dal cuore tenero. Nel momento del bisogno non esita a sacrificarsi per permettere ai compagni di sfuggire all’inseguimento da parte dei Sassoni.

Tristano Mads Mikkelsen

Galahad Hugh Dancy

Ama combattere per il gusto stesso della lotta. Quando in battaglia si troverà a scontrarsi contro Cerdic, constaterà troppo tardi di aver trovato qualcuno più abile di lui.

Cavaliere che detesta Roma profondamente e agogna il meritato riscatto. Esegue gli ordini di Artorius solo per l’incondizionato rispetto che nutre nei confronti del condottiero.

Cerdic Stellan Skarsgård

Germanius Ivano Marescotti

Il capo degli invasori Sassoni è un animale da guerra, spietato e intelligente, capace di soggiogare il suo intero esercito – compreso suo figlio Cynric – con il suo grande carisma.

È il vescovo emissario di Roma che impartisce ai cavalieri l’ordine di compiere un’ultima missione prima di concedere loro la libertà. Nasconde un passato di inganni e tradimenti.

Cynric Til Schweiger

Merlino Stephen Dillane

Figlio di Cerdic, si dimostra un uomo ambizioso ma privo dell’autorevolezza del padre; rimarrà sempre nell’ombra dell’odiato e temuto genitore. Nella battaglia finale affronterà Lancillotto.

Capo del popolo dei Guado, rimane una figura misteriosa e lungimirante. Sarà lui a promuovere l’alleanza tra i Guado e i cavalieri sàrmati, nella lotta contro il nemico comune sassone.

Cinema: King Arthur

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Leggende

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FANTASY

LA VERA SPADA NELLA ROCCIA (The Real Sword in the Stone

)

• da Skeptical Inquirer, Marzo/Aprile 2006

di Luigi Garlaschelli

ricercatore, Università di Pavia

traduzione fornita dal CICAP

M

olti conoscono la leggenda della Spada nella Roccia, che il giovane Artù riuscì ad estrarre, diventando così re d’Inghilterra. La prima forma scritta di questa leggenda risale al 1200, in un’opera francese in versi chiamata Merlin, scritta da Robert de Boron. Comunque, una vera e antica spada metallica, conficcata in una roccia, esiste veramente e si trova in Toscana. La si può ammirare nel centro di una bella cappella rotonda, sulla sommità di una collinetta circondata dai boschi La Spada di S. Galgano selvaggi della regione, presso il paese foto: Luca Binaghi di Chiusdino (Siena). Ai piedi della collina, le rovine di un’abbazia gotica senza tetto, in cui l’erba ha sostituito il pavimento di pietra delle navate, aumentano il fascino mistico del luogo. La spada è attribuita a San Galgano, un cavaliere fattosi eremita, morto nel 1181. Essa risalirebbe quindi allo stesso periodo della leggenda arturiana. Chi era S. Galgano La figura di san Galgano, che si dice nato a Chiusdino nel 1148, è circondata di mistero e leggende. Non sono state trovate prove storiche dirette della sua esistenza, e neppure documenti scritti contemporanei agli anni in cui egli visse. Si narra che Galgano fosse un giovane arrogante e dissoluto che si fece cavaliere

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Leggende: La vera Spada nella Roccia


FANTASY

La spada, protetta dalla teca foto: Luca Binaghi dopo avere avuto una visione dell’Arcangelo Michele. Successivamente, durante una seconda visione – o sogno – S. Michele lo condusse, superando uno stretto ponte sopra un pericoloso corso d’acqua, a un prato con bellissimi fiori; attraversato poi un passaggio sotterraneo e giunto a una costruzione rotonda dov’erano presenti dodici individui (gli Apostoli? dei cavalieri?), a Galgano venne mostrato un libro che non seppe leggere (il Santo Graal?) e infine una visione della Maestà Divina. Più tardi, cavalcando nei boschi presso il suo paese natio, il suo cavallo improvvisamente rifiutò di procedere, e Galgano riconobbe il luogo in cui si era trovato durante la visione. Lì, in cima a una collinetta chiamata Montesiepi, egli conficcò la propria spada in una roccia – ove si trova tutt’oggi – rinunciando a una vita dedicata alla guerra e alla violenza, facendosi eremita e adorando l’arma capovolta, divenuta simile a una croce. Un anno più tardi, nel 1181, egli morì all’età di 33 anni, per essere canonizzato quattro anni dopo. Il gesto di Galgano è identico (e opposto) a quello del futuro Re Artù, rivestendo un significato di pace e umiltà. Ma vi sono altre ovvie analogie tra le due storie. Galvano (Galwan) era il nome di uno dei Cavalieri della Tavola Rotonda, e alcuni particolari della storia di Galgano e del suo secondo sogno si rinvengono anche nei poemi successivi su Parsifal e Lancillotto, di

Chrétien de Troyes. La vita reale di Galgano si confonde con queste leggende quando, nel 1189, i monaci Cistercensi costruirono una cappella rotonda (la Rotonda della Spada) nel luogo ove si trovava la sua capanna; e poco dopo, a partire dal 1218, una stupenda abbazia gotica in una radura ai piedi della stessa collina. Il corpo di Galgano, si narra, fu “sepolto accanto alla spada”, ma il punto preciso è da molti secoli dimenticato. I suoi resti furono dissepolti alcuni anni dopo la morte, e il suo cranio – ancora visibile nella chiesa del vicino paese di Chiusdino – è la sola reliquia ufficiale rimanente. Non si hanno notizie di altre reliquie, per quanto piccole, poiché egli fu risepolto. Tutto ciò che rimane di questo affascinante santo, quindi, è il suo cranio, la sua spada, la cappella rotonda e una serie di sorprendenti coincidenze tra la sua storia e le leggende arturiane. Nel 2001 ebbi l’opportunità di coordinare una serie di indagini scientifiche intraprese allo scopo di gettare luce sull’enigma di san Galgano raccogliendo dati oggettivi e concreti da questi resti. Indagini scientifiche 1) Prospezioni col radar: la tomba del santo? Uno dei nostri primi impegni fu di utilizzare uno speciale georadar (GPR, Ground-Penetrating-Radar)

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Leggende FANTASY

Abbazia di S. Galgano, lato sud foto: Luca Binaghi per esplorare sotto il livello del suolo, all’interno della Rotonda e al suo esterno. Questo strumento funziona in modo del tutto simile a un normale radar, in quanto invia fasci di microonde nel sottosuolo e riceve il loro riflesso, generando immagini di oggetti o strutture nascoste. L’analisi fu condotta facendo scorrere lo strumento (montato su rotelle) lungo una griglia ideale, le cui linee distavano 40-50 cm tra di loro, e raccogliendo i dati in un computer dotato di apposito programma di visualizzazione. L’analisi GPR rivelò che sotto il pavimento attorno alla spada vi è soltanto sabbia e pietrisco, con un’importante eccezione: una struttura rettangolare − di circa due metri per uno, alla profondità di circa due metri − forse un sarcofago o una tomba, fu infatti identificata sul lato Nord della Rotonda. Ricerche successive presso l’Archivio di Stato di Firenze hanno rinvenuto le cronache di uno scavo che ebbe luogo nel 1694, durante il quale fu scoperto un recesso sepolcrale circondato di mattoni, che conte-

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neva terra mescolata con ossa umane; forse i resti di alcuni dei primi seguaci di S. Galgano. 2) Datazione degli edifici: un altro enigma Nei secoli seguenti, altri edifici furono aggiunti al nucleo originario della cappella rotonda (1182-1185). Quindi, ritenemmo utile tentare di confermare la datazione storica presunta del piccolo pronao o ingresso (del 1200 circa), della cappella laterale affrescata (1300), del campanile (1300?) e della canonica (1700) tramite dati strumentali ottenibili col metodo della termoluminescenza. La termoluminescenza permette di datare alcuni materiali, contenenti minerali come il quarzo o i feldspati, ad esempio mattoni, vetro e terrecotte, determinando quando essi furono cotti nel forno. Questo metodo di datazione confermò le età storiche attese: l’ingresso fu probabilmente eretto nel 1140 ± 60, e il campanile verso il 1420 ± 50. Il materiale della cappella degli affreschi si rivelò inadatto per la datazione, ma da documenti storici esso risulta costruito attorno

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FANTASY al 1340. La Rotonda, il nucleo originale, riservò una sorpresa. La sua età risale al 985 ± 50, perciò circa un secolo e mezzo più antica di quanto atteso, benché per la sua costruzione si sarebbe potuto utilizzare mattoni di edifici più vecchi. Prima dell’anno 1000, comunque, l’uso dei mattoni non era molto comune in Toscana, in quanto la maggior parte degli edifici era costruita in pietra.

di piombo. Il foro fu ispezionato con un endoscopio a fibre ottiche ma non abbiamo visto altro che roccia. Parte del cemento che fissava il moncone spezzato alla sommità del masso fu quindi rimossa, e la parte superiore della spada fu liberata ed estratta. Fu praticata una seconda perforazione più breve, obliqua, che effettivamente giunse a rivelare un oggetto metallico (il resto della lama). Lo strato di cemento superiore fu ulteriormente rimosso fino a liberare circa due centimetri della lama conficcata nella fessura. I due pezzi – i cui bordi coincidevano perfettamente, confermando che erano parte dello stesso manufatto – sono ora tenuti accostati, per ragioni estetiche, da un piccolo morsetto di acciaio inossidabile, rimovibile e pochissimo visibile, applicato dal lato posteriore. Quando il cemento è stato rimosso, con un magnete abbiamo raccolto piccoli frammenti di metallo arrugginito provenienti dalla parte inferiore della lama e li abbiamo fatti esaminare chimicamente per identificare gli elementi presenti in tracce nel ferro. Queste analisi sono state eseguite presso l’Università

3) La Spada nella roccia Lo stile della spada è coerente con quello di armi simili dello stesso periodo e – sulla base della classificazione delle spade medievali di Ewart Oakeshott, ampiamente accettata – possiamo perfino classificarla come una spada del tipo Xa, peculiare del tardo secolo XII. Documentazioni storiche e pittoriche attestano l’effettiva presenza di una spada in quella roccia almeno dal 1270. La spada è rappresentata sul reliquiario d’oro che conteneva il cranio di Galgano, e anche in un affresco della Cappella laterale addossata alla Rotonda. Nel 1576 un altare di marmo sormontava la Spada e la roccia, che restavano visibili attraverso un’apertura. Nel 1832 essi furono poi protetti da un’inferriata metallica, ancora in loco nel 1924. Un testimone oculare (nato nel 1915, ora deceduto) ci riferì che ancora in quegli anni la spada poteva essere sfilata dalla fessura nella quale si trovava. Nello stesso anno, fu versato nella fessura del piombo fuso per bloccare la lama, e la grata metallica fu tolta. Nel 1960 uno sconosciuto spezzò la lama nel tentativo di estrarla dalla roccia. La parte rotta fu rimessa nella posizione di prima, fissandola con del cemento, a cui in seguito fu aggiunto un secondo strato, dello stesso colore della roccia. Il 21 marzo 1991 la spada fu strappata di nuovo ad opera di un vandalo (presto catturato dalla polizia), ma fu poi risistemata. Nel 2001, la ricostruzione di tutti questi avvenimenti era molto difficile. A peggiorare le cose, si diceva anche che la Spada fosse un falso del XIX secolo, o che fosse stata sostituita negli anni Venti, o che non vi fosse la lama nel masso. Decidemmo di ispezionare il manufatto. Fu praticato un foro, di circa 11 mm di diametro, La Rotonda di Montesiepi parallelo alla presunta posizione della lama, nelfoto: Luca Binaghi la speranza di raggiungere la cavità o la massa

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Leggende FANTASY di Pavia, per Assorbimento Atomico e per Attivazione Neutronica presso il reattore Triga Mark II del centro di ricerca del LENA. Benché i manufatti di ferro non possano essere datati in modo univoco – come nel caso del carbonio-14 o della termoluminescenza – la composizione del metallo non ha messo in evidenza l’uso di leghe moderne, ed è quindi del tutto compatibile con un’origine medievale. Sarebbe utile che fosse eseguita un’ulteriore analisi metallografica, consistente nell’esaminare con uno stereomicroscopio una piccola area (1 cm2) della spada, lucidata e trattata con una soluzione chimica. La forma, la deformazione e la composizione dei grani del ferro battuto fornirebbero ulteriori indicazioni sulla tecnica di fabbricazione del manufatto.

Rotonda di Montesiepi, l’interno della cappella foto: Luca Binaghi

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Nel 1999, un gruppo di ricerca spagnolo ha analizzato una spada dello stesso periodo della nostra, che era appartenuta al Cid Campeador, eroe nazionale della Spagna. Il gruppo ha determinato l’origine geografica del manufatto grazie a particolari elementi presenti in tracce nel ferro. Purtroppo, una simile analisi non è stata possibile nel nostro caso; abbiamo però potuto confrontare la distribuzione degli elementi in traccia della Spada – quasi come una “impronta digitale” – con quella di frammenti di scorie di fonderia che ancora possono essere rinvenuti nei pressi dell’Abbazia di S. Galgano. Si tratta degli scarti dei piccoli forni siderurgici che erano usati dai monaci per fabbricare i propri piccoli oggetti di ferro, utilizzando il minerale metallifero della zona. Se le “impronte digitali” delle scorie fossero coincise con quelle della Spada, avremmo potuto accertare l’origine locale di quest’ultima. D’altra parte, se non vi fosse stata coincidenza, non avremmo potuto stabilire nulla, poiché non si sa come effettivamente le impurezze si concentrino nel manufatto o nelle scorie durante il processo di raffinazione. Come spesso accade, si è presentato questo secondo caso: le “impronte digitali” delle scorie erano simili tra di loro, ma diverse da quelle della Spada. Sarebbe però auspicabile eseguire ulteriore analisi: per esempio una radiografia della Spada alla ricerca di iscrizioni, ora invisibili, ma che potrebbero essere state incise, come si usava, all’estremità superiore dell’arma, presso la guardia, e che erano spesso il “marchio di fabbrica” del costruttore. 4) Macabre reliquie Sono stati datati col metodo del carbonio-14, tramite la Beta Analytics (Florida) altri oggetti di natura organica, come una trave da un tetto demolito, e alcuni frammenti di legno che erano conservati in una piccola scatola di piombo la quale nel 1694 era stata sepolta sotto una lastra del pavimento presso la Spada. Tutti questi materiali sono risultati risalire al XIX secolo. Comunque, sono stati esaminati anche due macabri arti umani mummificati, di origine sconosciuta, tradizionalmente esposti accanto alla Spada, in una vecchia teca di legno e vetro. Le antiche cronache agiografiche narra-

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Abbazia di S. Galgano, la navata maggiore foto: Luca Binaghi no che, quando S. Galgano era ancora in vita, ma allontanatosi dalla sua capanna per visitare il Papa a Roma, tre uomini tentarono di estrarre la spada e – così dice la profetica leggenda – la spezzarono. Al ritorno, Galgano la riparò miracolosamente; ma nel frattempo i tre invidiosi erano stati crudelmente puniti: uno colpito da un fulmine, il secondo annegato in un fiume, il terzo attaccato dai lupi che gli dilaniarono le braccia. Anche questi resti, che erano considerati false “pie reliquie” di epoca posteriore, esibite per l’edificazione morale dei fedeli, sono state datati al carbonio-14 e, sorprendentemente, risultano risalire al XII secolo, contemporanei quindi agli anni in cui visse il Santo. Essi, in ogni caso, non sono mai stati considerati reliquie di S. Galgano. Molto probabilmente furono dissepolti nel 1694, quando furono eseguiti scavi alla ricerca della tomba del Santo, e appartengono a uno dei suoi primi discepoli, un eremita sepolto nella Rotonda. Le braccia mummificate sono ora esposte in una nuova teca di metallo e vetro di sicurezza.

I Cavalieri Templari Principale tra gli ordini cavallereschi religiosi, quello dei Templari fu fondato nel 1118 per proteggere i pellegrini in viaggio verso la Terra Santa. La loro regola, attribuita a Bernardo di Chiaravalle, fu approvata nel 1128 e varie donazioni permisero loro di avere diverse proprietà in Europa. È ben noto che il loro ordine, divenuto troppo potente, fu abolito da Papa Clemente V nel 1312, dopo che il re di Francia Filippo il Bello aveva eseguito arresti di massa, e più tardi giustiziato sul rogo 120 Templari, compreso il Gran Maestro Jacques de Molay. Ma quando Galgano era in vita, l’ordine possedeva ancora tutta la sua potenza, e occupava una magione a Frosini, a pochi chilometri di distanza da Chiusdino. Vi sono tracce di simboli templari su alcune delle pietre della grande abbazia, e anche nell’ingresso della Rotonda di Montesiepi vi è una “croce patente” dipinta (una forma tipicamente templare) accanto a una conchiglia scolpita: i pellegrini verso Gerusalemme usavano bere da una conchiglia, divenuta il loro sim-

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Leggende FANTASY bolo, e anche un simbolo templare. Galgano potrebbe essere stato un cavaliere templare prima di diventare eremita? Non vi sono elementi che lo suggeriscano, benché i suoi vecchi amici gli dicessero “di andarsene oltre mare”. Come pellegrino, per non seccarli più, o come Templare, per guadagnare fama e ricchezze? L’eremita Guglielmo da Malavalle: alle radici del mito del Santo Graal? Nel 2002 ho partecipato a un’indagine sulle reliquie appartenenti ad un altro eremita e santo: Guglielmo da Malavalle, morto nel 1157 – a circa 60 anni – quando Galgano era ancora un fanciullo, e divenuto santo presso Grosseto, a circa 80 chilometri dalla cappella di S. Galgano. Le leggende narrano che prima di dedicarsi a una vita di penitenza e diventare eremita (uccise anche un drago) egli era il Duca Guglielmo d’Aquitania: padre di Eleonora d’Aquitania, “la regina dei Trovatori”. Eleonora fu una della figure più importanti della storia medievale: sposa di Luigi VII di Francia, poi di Enrico d’Inghilterra, al quale diede otto figli, tra cui Riccardo Cuor di Leone. Nella sua corte e in quella della figlia, Maria di Champagne, erano protetti e incoraggiati artisti e trovatori come Chrétien de Troyes, che stavano componendo il ciclo delle leggende arturiane tra il 1160 e il 1190. Un team di paleoantropologi ha ora analizzato le ossa di Guglielmo di Malavalle per determinarne il sesso, l’età, lo stato di salute, la dieta, eccetera. Sono state tentate anche l’analisi del DNA e una ricostruzione facciale. Ho analizzato alcune reliquie metalliche conservate accanto alle ossa nella teca delle sue reliquie di Tirli (GR), che comprendono una maglia metallica ad anelli, una cintura penitenziale, una sorta di casco penitenziale ecc., e che sono chiaramente costituiti da antico ferro battuto medievale. In breve, tutte le analisi condotte sembrano indicare un uomo, morto a circa 50 o 60 anni. Le ossa lunghe delle gambe mostrano i segni tipici di chi era solito cavalcare per lunghi periodi, e le sue misure craniche combaciano con quelle della media della popolazione della Francia meridionale. Ovviamente questi sono solo indizi e non prove; ma non sono in disaccordo con ciò che le leggende narrano sulle nobili origini di Guglielmo di Malavalle, l’eremita. Dunque potrebbe egli essere il legame tra la Spada nella roccia della Toscana e quella del ciclo arturia-

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L’iscrizione apposta sulla teca foto: Luca Binaghi no? Benché le prime novelle di questa saga apparvero in forma scritta non prima del 1155, potrebbero esse avere avuto in parte origine dal gesto di pace di Galgano, che rinunciò alla violenza e alla guerra conficcando simbolicamente la propria spada nel terreno? O, al contrario, furono le leggende arturiane ad essere sfruttate per abbellire il destino di un oscuro eremita e promuoverne il culto, quando i monaci Cistercensi si spinsero in quell’area subito dopo la morte di Galgano? Se fosse così, la stessa spada è forse un falso molto antico, posto là dai monaci nei primi anni del XIII secolo? Altre prove potrebbero essere celate sotto la roccia, o emergere da un’accurata analisi della Spada o del cranio di S. Galgano. Il legame arturiano con Guglielmo di Malavalle/Aquitania potrebbe essere virtualmente impossibile da provare e restare uno dei molti misteri che circondano S. Galgano. Altri studi multidisciplinari sono ovviamente necessari per capire che cosa ancora cela la collina di Montesiepi. Ma dove la scienza incontra i propri limiti, e il linguaggio delle pietre tace, continueremo a guardare con attonita meraviglia queste affascinanti rovine e a tentare di immaginare il significato nascosto di tutte quelle magiche storie. n Luigi Garlaschelli

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FANTASY Si ringraziano tutti i ricercatori e le persone che hanno partecipato a queste indagini:

la rivista Focus (sponsorizzazione e contributi economici); V. Albergo, parroco di Chiusdino; Maurizio Calì, webmaster di www.italiamedievale.it; M. Pagni, G. Roncaglia, Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, Firenze; R.Vernillo, Università di Siena (endoscopia); E. Rizzio, M. Gallorini, G. Giàveri, L. Bergamaschi, Università di Pavia (analisi chimiche); E. Sibilia, Università di Milano-Bicocca (Termoluminescenza);

E. Finzi, R. Francese, L. Vettore, Università di Padova (scansioni Georadar); G. Merckling, G. Rivolta, Istituto Scientifico Breda S.p.A. Milano e G. Cremante, Pavia (analisi metallografiche); F. Mallegni, G. Michelini, Università di Pisa e A. Drusini, Università di Padova (Paleoantropologia); S. Spinelli, parroco di Punta Ala e F. Agostinelli, vescovo di Grosseto; A. Conti (ricerche d’archivio); G. Domenicali e A. Villa (foto).

Bibliografia

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Cultura

Cultura

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IL MITO ARTURIANO di Chiara Crosignani

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econdo una tradizione “Re Artù”, affermatasi nel corso Charles Ernest Butler, 1862 degli anni, le leggencollezione privata de del ciclo arturiano affonderebbero le loro radici nel periodo in cui le legioni romane, vista la crisi attraversata dal Tardo Impero, abbandonano la Britannia lasciandola così in balia delle incursioni di tribù bellicose provenienti dalle coste danesi. In effetti, il nome del principale personaggio della saga, Artù, riecheggia Arctorius, un cognomen romano attestato in alcune iscrizioni,1 anche in Britannia e nel più celebre luogo collegato al ciclo arturiano stesso, Glastonbury. La prima testimonianza scritta che lega tra loro questi luoghi e questi avvenimenti è decisamente più tarda, risalente al IX secolo: si tratta dell’opera intitolata Historia Britonum, attribuita, con notevoli incertezze, a un monaco gallese di nome Nennio. Di poco più tardi, del 950 d.C., sono gli anonimi Annales Cambriae, che, oltre al personaggio di Artù, presentano anche Mordred (chiamato Medraut), già visto come uccisore del re nella battaglia di Camlann. Il periodo di fioritura del ciclo arturiano, però, si colloca nei secoli successivi, a partire dal XII, quando non solo nell’Inghilterra normanna, ma anche e soprattutto in Francia, nascono diverse opere in cui trovano un posto di rilievo sia re Artù sia i suoi cavalieri. In quest’epoca, infatti, il ciclo arturiano assume due fisionomie completamente diverse, mantenendosi sulla trattazione storica in ambito anglofono, e divenendo invece materia per cicli cavallereschi in territorio francese.

1  L’elenco dei cognomina latini nelle varie zone dell’Impero è disponibile in I. Kajanto, “The Latin Cognomina”, Commentationes Humanarum Litterarum, tomo 36, 1965, Societas Scientiarum Fennica.

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Cultura: Il Mito Arturiano


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“Morte di Artù”, John Mulcaster Carrick, 1862 collezione privata Il più importante prodotto della narrativa di terra inglese, e sicura fonte di ispirazione per molti autori successivi, è l’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth, composta in latino come la maggior parte delle opere erudite del tempo: in questa storia del mondo britannico sono presenti i maggiori personaggi del ciclo arturiano e, in nuce, sono tratteggiati i caratteri essenziali dello sviluppo delle vicende legate ad Artù e soprattutto a Merlino, protagonista principale della narrazione “arturiana” di Goffredo. Il professor Ferruccio Bertini, docente di Letteratura Latina presso l’Università di Genova, sottolinea le differenze nel personaggio di Merlino esistenti tra l’Historia Regum Britanniae e l’altra opera legata al ciclo arturiano attribuita allo stesso Goffredo, la Vita Merlini, al punto da sospettare che si tratti di due figure distinte, entrambe con lontane reminiscenze storiche ma appartenenti a due età differenti. È comunque importante ricordare che, sebbene Goffredo sostenga di aver composto la Historia Regum Britanniae in base al ritrovamento di un manoscritto originale celtico, ora perduto, la sua opera appartiene a un’età in cui diventano più frequenti gli scambi culturali con il resto dell’Europa, e con l’Italia in particolare: la Britannia, dunque, si ritrova no-

bilitata dall’aver dato i natali a un sovrano di levatura paragonabile ai grandi eroi del passato. Certamente, il periodo in cui vive e scrive Goffredo influenza la sua visione della storia (o della pseudostoria) alto-britannica, come risulta evidente dalla chiara antipatia che mostra nei confronti dei Sassoni, violenti, selvaggi, privi di qualunque virtù positiva, in contrapposizione ad altri popoli, come i Britanni o i Bretoni. L’interesse per queste leggende non si limita al solo Goffredo: altri scritti, come la Vita Gildae di Caradoc di Llancarfan (risalente circa alla metà del XII secolo) o il Roman de Brut di Robert Wace (databile circa allo stesso periodo), contengono elementi pertinenti alla saga arturiana. Non solo gli Angli e i Gallesi, ma anche i Normanni iniziano a produrre opere concernenti questi argomenti, sia in francese (come nel caso di Béroul, autore di una versione in lingua d’oil della leggenda di Tristano e Isotta), sia in latino: Guglielmo di Malmesbury, infatti, compone, sempre attorno alla metà del secolo, il De Gestis Regum Anglorum e il De Antiquitate Glastoniensis Ecclesiae, in cui il collegamento tra il sito di Glastonbury e la saga arturiana diventa più evidente. Non manca nemmeno, con Draco Normannicus di Étienne de Rouen, una versione satirica delle vicende arturiane, ma ormai,

Cultura: Il Mito Arturiano

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Cultura FANTASY di non essere un cavaliere senza macchia, e questo introduce, nel testo, una componente di riflessione etica raramente presente nella letteratura inglese coeva, più attenta all’intrattenimento aristocratico.2 Non si conoscono le fonti di questo straordinario testo, in cui il protagonista è finemente descritto a livello psicologico: “Gawain è […] il primo eroe autocosciente, pensante e pensoso del romanzo inglese.”3 Nel frattempo, la leggenda di Artù, godendo di un sempre maggior successo, si diffonde anche in Germania, in cui sono attivi, ad esempio, Hartmann von Aue, Eilhart von Oberge e Wolfram von Eschenbach, e in Italia; nel 1106, le figure dei personaggi principali del ciclo vengono addirittura scolpite nella cattedrale di Modena.4 Il luogo in cui la saga arturiana riscuote maggiore fortuna, ottenendo anche, in parte, la sua fisionomia attuale, resta comunque certamente la Francia: molta produzione di autori inglesi del Basso Medioevo è composta in francese,5 pur basandosi su una tradizione “indigena” angla, ma la straordinaria diffusione delle leggende di Artù è dovuta a Chrétien de Troyes, che può essere considerato, secondo l’Anthologie Poétique Française, “il vero inventore del genere bretone” e “l’iniziatore di tutti i poeti che con il ciclo della Tavola Rotonda hanno riempito più di due secoli della nostra letteratura”.6 “La Visione della Sorella di Sir Percival...”, La sua influenza è notevole e non soltanto Sigismund C. H. Goetze, 1902 collezione privata riguardo alla produzione francese: autori tedeschi, italiani, olandesi, scandinavi, ma anche gli stessi inglesi, subiscono il fascino come dimostra il poema epico Brut di Layamon, Artù delle sue opere. In particolare il Lancillotto o il Caè diventato un eroe nazionale. Il capolavoro assoluto della produzione arturiana valiere del Carretto e il Perceval o il Racconto del del XIV secolo è un breve romanzo allitterativo, il Sir Graal sono fonte certa di ispirazione per numerosi Gawain e il Cavaliere Verde, composto nell’ambito di autori successivi. Il secondo, incompiuto a causa deluna grande corte della zona nord-occidentale dell’In- la morte dell’autore, fu concluso in vari modi da altri ghilterra, indipendentemente, quindi, dalla forte in- poeti francesi negli anni immediatamente successivi: fluenza che gli autori francesi esercitano sui letterati dell’Inghilterra meridionale. Il testo riporta le avven- 2  Sir Gawain e il Cavaliere Verde, a cura di Piero Boitani, Milano, 1994., pp 26-27. ture del cavaliere Gawain (Galvano), che raccoglie una 3  Ibid., p. 25. sfida portata alla corte arturiana da Morgan le Fay (la 4  Goffredo di Monmouth, Storia dei Re di Britannia, a fata Morgana), sia per spaventare i membri della corte cura di Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini, Parma, stessa (Ginevra soprattutto), sia per testare le qualità 2005, p. 28. morali dei cavalieri di Artù. Gawain, pur dimostran- 5  Sir Gawain e il Cavaliere Verde, op. cit.. dosi all’altezza della prova, è costretto ad ammettere 6  Anthologie Poétique Française, Moyen Age 1, a cura di A. Mary, Paris, 1967, p. 101.

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nascono così le continuazioni attribuite a Wauchier de Denain, a Manessier e, qualche anno più tardi, a Gerbert de Montreuil. La produzione francese sul ciclo bretone non si esaurisce certamente con Chrétien: negli stessi anni operano anche Marie de France e Robert de Boron; e soprattutto, all’inizio del XIII secolo, è composto in ambiente il Lancelot-Graal, considerato “il più completo e importante ciclo della materia di Bretagna”,7 in cui compaiono tutti i principali temi della saga arturiana, dalla leggenda del Sacro Graal alle storie di Artù, di Merlino e di Lancillotto. Il Lancelot-Graal, concepito da diversi autori anonimi e diviso in cinque libri, diventa il corpus di cui gli autori successivi si servono come fonte, al punto da essere chiamato anche “Vulgata”, a indicare il suo profondo valore letterario. Il fascino di questi personaggi è evidente anche nel XIV secolo, in cui si trova, ad esempio, un riferimento a Lancillotto e Ginevra anche in Dante, che li cita nel V Canto dell’Inferno, e in Boccaccio, in una delle sue opere erudite latine, il De Casu Principum; il personaggio di Artù ritorna prepotentemente sulla scena letteraria nel 1400, grazie alla

“Sir Galahad”, Arthur Hughes, 1865-1870 Walker Art Gallery (Liverpool, Inghilterra)

fondamentale opera di Sir Thomas Malory, autore inglese de Le Morte Darthur (o Le Morte d’Arthur), il quale, secondo la tradizione, avrebbe composto la sua produzione durante i lunghi anni di carcere che dovette scontare, per vari reati, in periodi diversi della sua vita. L’opera di Malory è interessante sotto diversi pun“Tristano e Isotta”, Blair Edmund Leighton, 1902 collezione privata

7  Thomas Malory, Storia di Re Artù e dei suoi Cavalieri, vol. 1, Milano, 1996, p. XXII.

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Cultura FANTASY Caxton nella prefazione – che nove furono gli uomini più nobili che mai siano esistiti, e cioè tre pagani, tre ebrei e tre cristiani”.8 Secondo l’editore, la figura di Artù avrebbe lo stesso spessore di Ettore di Troia, di Alessandro Magno, di Giulio Cesare e di Carlo Magno; anzi, scrive Caxton: “[…] Re Artù, rinomatissimo sovrano, il primo, il maggiore, il più insigne, tra i tre eccellentissimi cristiani [Carlo Magno, Goffredo di Buglione e lo stesso Artù] è proprio colui che noi Inglesi dovremmo celebrare più di ogni altro monarca della nostra fede, […] dal momento che Artù era nativo del nostro regno e ne era stato re e imperatore, e considerando che in francese erano già apparsi numerosi volumi su di lui e sui suoi cavalieri.9” Artù, insomma, per Caxton, è diventato non solo un eroe nazionale, ma il maggior condottiero che l’Europa cristiana abbia conosciuto, permettendo quindi di nobilitare le radici storiche del popolo inglese, che non poteva gloriarsi di alcuno degli altri grandi personaggi del passato. Caxton cerca di sottolineare la storicità della figura di Artù, per esempio citando l’epigrafe di “L’Inganno di Merlino”, Sir Edward Coley Burne-Jones, 1873-1874 Lady Lever Art Gallery (Merseyside, Inghilterra)

“La Fata Morgana”, Anthony Frederick Sandys, 1864 Birmingham Museums and Art Gallery (Birmingham, Inghilterra)

ti di vista: oltre a essere il motivo ispiratore di opere successive – di cui possiamo ricordare almeno la produzione di Lord Alfred Tennyson – e a presentare un forte anacronismo storico nella descrizione dei cavalieri, Le Morte Darthur è anche protagonista di una curiosa vicenda editoriale. Sappiamo, infatti, che l’opera fu conclusa nel 1469, due anni prima della morte dell’autore, avvenuta nel 1471, ma la data di edizione a stampa è successiva di circa 15 anni: il confronto tra un manoscritto del XV secolo e il testo pubblicato ha mostrato un forte intervento dell’editore, William Caxton, sull’originale di Malory. Lo stesso titolo, Le Morte Darthur, non è corretto, in quanto si riferisce solo all’ultimo degli otto libri di cui l’opera era composta, per derivazione dall’ultimo dei “capitoli” del Lancelot-Graal, intitolato, appunto, Mort Artu, da cui anche il titolo di un importante romanzo allitterativo inglese, Morte Arthure, grosso modo contemporaneo al testo di Malory. Più ancora degli interventi sul testo, è interessante la prefazione inserita da Caxton all’originale, indicatrice di quale sia stata la fortuna del ciclo arturiano nel Medioevo: “È infatti universalmente noto – scrive

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8  Tutte le citazioni dalla prefazione di Caxton provengono da T. Malory, op. cit., pp. XI- XII. 9  Si può qui notare una velata polemica antifrancese, perfettamente spiegabile alla luce della recente conclusione della Guerra dei Cent’Anni.

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FANTASY Glastonbury precedentemente ricordata e altri ritrovamenti, più o meno credibili: “l’altare di sant’Edoardo nell’abbazia di Westminster che reca l’impronta del suo sigillo in cera rossa incastonata in berillo con la scritta Patricius Arthurus, Britannie, Gallie, Germanie, Dacie, Imperator;10 il Castello di Dover, in cui si possono vedere il cranio di Galvano e il mantello di Craddock; Winchester, dove è conservata la Tavola Rotonda, e vari luoghi in cui si ammirano la spada di Lancillotto e altri reperti”. Dopo che, nel corso degli anni, il ciclo arturiano era stato collegato alla tradizione cristiana, grazie alle vicende legate alla ricerca del Santo Graal, Artù si allaccia ora anche al più prestigioso potere dell’antichità, quello dell’Impero Romano. Eppure, secondo l’editore, questo personaggio, il “primo dei cristiani” per importanza, sarebbe stato dimenticato dal suo stesso popolo, e la narrazione delle sue vicende sarebbe stata affidata solamente ad autori stranieri, francesi in primis. Diventa, dunque, compito improbo il ricercare elementi effettivamente storici in una vicenda letteraria così complessa e stratificata: diverse componenti leggendarie entrano a far parte del ciclo arturiano, che fin dagli inizi risente di tradizioni angle e gallesi, ma anche cristiane e dotte.11 I ritrovamenti epigrafici, anche se fossero riconosciuti autentici, non possono, da soli, essere testimonianza certa dell’esistenza di un re Artù; e, se anche questo sovrano fosse realmente esistito, le sue vicende sarebbero nascoste nei meandri di quel periodo oscuro della storia di Europa che segue immediatamente alla caduta dell’Impero Romano di Occidente. Le fonti letterarie devono essere interpretate con estrema cautela: i cavalieri di Chrétien de Troyes risentono dell’influsso della poetica cortese, così come, pur conservando una patina di primitiva cavalleria, i personaggi di Thomas Malory appartengono al XV secolo. Ma, soprattutto, pesa il giudizio sul primo compositore dell’intera vicenda arturiana: “Goffredo [di Monmouth] spaccia per storia ciò che per lo più è frutto solo della sua fantasia”, scrivono le curatrici italiane della sua Storia 10  Si dovrebbe comunque tener conto del significato originario del termine imperator, che indica semplicemente la carica del comandante militare dell’esercito romano. 11  Per l’elenco delle fonti utilizzate da Goffredo si veda l’op. cit. di Goffredo, pp. 19-20.

“Lancillotto e Ginevra”, Donato Giancola, 2004 collezione privata dei Re di Britannia.12 Eppure, proprio sull’opera di Goffredo, criticata già dai contemporanei, si basano in gran parte gli autori successivi, sia francesi, sia inglesi. La ragione di questa fortuna, comunque, è facilmente spiegabile: la storia di Artù “fornì ai popoli di origine celtica e di stirpe britannica che nel XII secolo abitavano ancora nell’isola o si erano insediati in Bretagna una storia nazionale, i propri eroi e la propria gloria.”13 Non può quindi stupire che le vicende arturiane, sopite per alcuni secoli, tornino prepotentemente sulla scena letteraria nell’Ottocento, periodo in cui il Romanticismo rimanda, proprio in Inghilterra, alla ricerca delle radici di ogni popolo.14 Anche nel corso del Novecento, una sempre maggior curiosità nei confronti delle popolazioni celtiche si accompagna a un rinnovato interesse verso la leggenda arturiana, evidente in ambito cinematografico e letterario, attraverso, ad esempio, l’opera di Marion Zimmer-Bradley, di Stephen Lawhead, di Bernard Cornwell e di moltissimi altri autori, che hanno variamente interpretato, o modificato, l’ampia messe di leggende fiorite nel corso dei secoli attorno al mitico sovrano e ai suoi compagni. n Chiara Crosignani 12  Goffredo di Monmouth, op. cit., p. 25. 13  Ibi, p. 29. 14  In Inghilterra, ricordiamo il caso, estremamente famoso, della fortuna dei Canti di Ossian, in realtà un falso settecentesco di Macpherson.

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Musica

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TRISTANO E ISOTTA (Tristan und Isolde - Richard Wagner, 1854-1859) di Giovanna L. Rossato

N

on c’è modo di evitarlo: Richard Wagner rappresenta uno di quei compositori romantici che, come la “Marmite” inglese, o si ama o si odia. Prolisso oppure accurato, noioso oppure solo malinconico, ogni giudizio dipende da quell’innata simpatia o antipatia che si prova per questo musicista dai timbri tanto orgasmici quanto irreali. Le opere di Wagner sono complesse all’analisi: i richiami agli stili melodici di Liszt e alla filosofia di Schopenhauer si susseguono in un intricarsi di svisceramenti musico-letterari che non sembrano, tuttavia, giovare molto all’ascolRichard Wagner tatore meno esperto. Al contrario, tutto il sofisticare intorno a questo compositore induce quasi a credere che gli amanti e gli esperti delle sue musiche vogliano in un certo senso sforzarsi di attribuire ad esse una consistenza e una profondità di cui, in realtà, sono carenti. Certamente c’è da dire che di Wagner indimenticabili sono i Preludi, tutti: aprono davvero finestre splendide d’emozioni elevatissime, su canti superlativi e vicende che si promettono avvincenti; purtroppo, però, egli dona così tanti livelli sonori ed emotivi nei suoi Preludi da non essere in grado, nel prosieguo delle opere, di soddisfare le attese generate. Le lacrime, le contrizioni nostalgiche, gli impeti amorosi raccontati magnificamente attraverso quelle speciali note che caratterizzano temi diversi e che si accompagnano e sovrappongono senza mai scontrarsi − ma che, anzi, sorreggendosi l’una l’altra corrono verso stupendi climax finali −, sono prosciugate e mortificate dall’elefantiaco corpo musicale delle melodie, dei canti e dei parlati che strutturano le opere stesse. Il compositore diviene così rappresentante di temi musicali lunghi e ripetitivi, incomprensibilmente prevedibili nei loro svilupparsi e pur tuttavia incapaci di radicarsi nella memoria uditiva ed emozionale degli ascoltatori. Tristano e Isotta non costituisce un’eccezione a quanto fino a qui affermato. Ideata nella sua struttura in tre atti intorno alla fine del 1854 e terminata di comporre nel 1859, quest’opera si rifà all’interpretazione che Gottfried von Strassburg trasse del

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Musica: Tristano e Isotta


FANTASY mito narrato dal troviero anglo-normanno Thomas di Bretagna nel XII secolo e che narra di come Tristano, giovane nipote del re Marco di Cornovaglia, s’innamori d’Isotta, splendida figlia di Angwish, re d’Irlanda, nonché promessa sposa proprio dello zio del ragazzo. Con Tristano e Isotta ci si trova calati in un momento storico, l’Alto Medioevo, caratterizzato da lotte e conquiste territoriali; è perciò naturale che nel racconto il rapporto fra i due giovani risulti ostacolato da doveri cavallereschi e da promesse di matrimonio legati imprescindibilmente ad alleanze politiche e ragioni di stato. A dirla tutta, la leggenda sembra essere una delle più banali mai tramandate. La narrazione infatti pare distinguersi più per la fitta trama e per l’assoluta mancanza d’originalità che per la profondità di contenuti e personaggi, anche se, essendo il racconto antichissimo, beneficia dell’attenuante d’essere stato uno dei primi a descrivere un amore simile. Tristano e Isotta sono due giovani la cui adamantina volontà di continuare a volersi bene, a dispetto di lontananze forzate, doveri imprescindibili, nozze imposte, non è il frutto di una reale e spontanea passione, ma piuttosto di un artificio che coarta il loro libero arbitrio. Ecco dove la leggenda trova l’unico momento d’inaspettata originalità. I due s’invaghiscono a causa d’un filtro d’amore, lo stesso medesimo strumento artificiale che, al termine della vicenda, causerà anche la loro definitiva separazione, nonché il destino fatale: Tristano spirerà un istante prima di poter rivedere la sua adorata Isotta, mentre quest’ultima, inconsolabile nel suo lutto, si toglierà la vita. Per Wagner il dramma letterario esiste a beneficio della musica, e non il contrario. C’è chi sostiene essere questo il suo genio; altri − verso cui personalmente propendo − ritengono sia invece il suo tallone d’Achille. Come esponente esemplare del Romanticismo tedesco, Wagner mirava a rappresentare in musica l’estasi del sentire. Egli stesso dichiarò in varie circostanze come la sua interpretazione musicale della storia di Tristano e Isotta dovesse diventare monumento orchestrale e corale, rappresentativo di quell’amore sublime al termine del quale non resta che morire, consumati in qualcosa di troppo intenso. Magari Wagner si aspettava che il pubblico reagisse proprio così, sopraffatto in platea fin quasi a perirne, dopo aver ascoltato ben tre atti dell’opera. Ironia della sorte, un destino tragico parve poi effettivamente accomunare chi negli anni si cimen-

tò con quest’opera: nel 1865, dopo quattro rappresentazioni a Monaco, il tenore Ludwig Shnorr von Carolsfeld (il quale interpretava Tristano) morì improvvisamente; nel 1911 il direttore d’orchestra Felix Mottl venne colto da malore sempre sul palco di Monaco, e spirò in ospedale alcuni giorni più tardi; sorte identica, ancora a Monaco, toccò nel 1968 al collega Joseph Keilberth. Quello che è certo è che la fama che accompagnò Tristano e Isotta già prima del suo debutto all’Opera di Monaco fu quella di composizione eccessivamente complessa, e pertanto impossibile da portare in scena. È vero comunque che quest’opera traccia una specie di linea di demarcazione fra quelle precedentemente composte nell’arena della musica classico-operistica occidentale e quelle successive. Wagner fu il primo ad adottare sospensioni armoniche lungo tutto il corso dell’opera. Questo artificio musicale è necessario per creare una certa tensione, grazie all’uso di cadenze accennate ma non subito concluse, le quali devono indurre nell’ascoltatore un crescente desiderio acustico di sentirle risolte. Il compositore apre le sospensioni armoniche di Tristano e Isotta nel Preludio, ma è solamente nell’atto terzo che giunge a soddisfarne la chiusura, quando Isotta muore. Forse, sono questi eccessivamente enfatizzati archi di tempo sospesi che, al posto d’eccitare l’orecchio e l’anima, fiaccano pericolosamente la pazienza. Il 5 Luglio 1865, la pubblicazione “Allgemeine Musikalische Zeitung” commentò così il Tristano e Isotta: “(...) è la glorificazione del piacere sensuale, provocato da tutti i più stuzzicanti pretesti, è la rappresentazione del più totale materialismo, secondo cui gli esseri umani non hanno più elevato destino che, una volta portata a termine la loro vita come tartarughe di mare, scomparire tra i propri umori dolci, come i propri respiri.” Tutto sommato, a pensarci bene, quest’opera, che con i suoi eccessi sentimentali ha chiuso il Romanticismo musicale non solamente tedesco, credo sia terribilmente attuale oggi. Chissà se Wagner sarebbe stato contento di sapere che la sua musica avrebbe potuto ben accompagnare i drammi esistenzial-amorosi dei naufraghi dell’Isola dei Famosi. No, io non amo Wagner se non nei suoi Preludi − e anche questi solo se ascoltati non troppo spesso −, ma un destino cosi infame non lo augurerei al peggior compositore di musica classica del mondo e d’ogni tempo. n Giovanna L. Rossato

Musica: Tristano e Isotta

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Cinema

Cinema

ANIME

AKIRA

(Akira - K. Otomo, 1988) di Leonardo Colombi

S

iamo nell’anno 2019, trentuno anni dopo la fine della Terza Guerra Mondiale; nella città di Neo Tokyo, Shotaro Kaneda è il capo carismatico di una banda di ragazzi motociclisti che, per “divertimento”, attaccano briga con altri gruppi motorizzati. Durante una scorribanda notturna, il più giovane della gang, Tetsuo Shima, rimane vittima di un incidente nel tentativo di schivare uno strano bambino dalla pelle azzurra e dall’aspetto raggrinzito di nome Takashi, apparso all’improvviso in mezzo alla strada. Kaneda e il resto della banda, sopraggiunti per soccorrere il compagno, hanno appena il tempo di vederlo portato via da un elicottero dell’esercito, prima di essere a loro volta arrestati. Nei giorni successivi, trascorsi in mano ai soldati con la sola parentesi di una breve fuga compiuta in preda a uno stato confusionale, Tetsuo viene usato come cavia per esperimenti medico-scientifici che sviluppano in lui straordinarie doti extrasensoriali, accompagnate però da allucinazioni e da dolori lancinanti. Nel frattempo Kaneda stringe amicizia con Kei, una ragazza aderente a un gruppo di rivolta clandestino che si oppone proprio all’inquietante progetto di sperimentazione che l’esercito sta portando avanti su Tetsuo, e che, prima ancora, aveva coinvolto altri bambini-cavia: Takashi, Kiyoko, Masaru e, soprattutto, il soggetto iniziale, il misterioso Akira. Aggregandosi ai rivoltosi nel tentativo di liberare l’amico, Kaneda si ritroverà protagonista di un gioco assai più grande di lui, che vedrà tra loro contrapposti l’esercito dell’inflessibile Colonnello e il governo manipolato dal corrotto Presidente... finché la situazione non precipiterà e il potere di Tetsuo sfuggirà a ogni controllo, minacciando di scatenarsi devastante contro tutto e tutti.

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Cinema: Akira


ANIME

Dal manga: “Akira” di Katsuhiro Otomo Regia: Katsuhiro Otomo Sceneggiatura: Kaysuhiro Otomo, Izo Hashimoto Capo animazioni: Takashi Nakamura Assistente capo animazioni: Koji Morimoto Direzione animazioni: Yoshio Takeuchi, Hiroaki Sato Direzione artistica: Toshiharu Mizutani Direzione fotografia: Katsuji Misawa Montaggio: Takeshi Seyama Art design: Kazuo Ebisawa, Yuji Ikehata, Kouji Ohno

Scheda

Titolo originale: “Akira” - アキラ Prima uscita: 16 luglio 1988 Durata: 124 minuti

Layouters: Takashi Watabe, Kiyomi Tanaka Effetti speciali fondali: Noriko Takaya Direzione registrazione suono: Susumu Aketagawa Ingegnere supervisione registrazione suono: Tetsuo Segawa Supervisore effetti sonori: Shizuo Kurahashi Direttore musicale: Shoji Yamashiro Musiche: Shoji Yamashiro

Produttore esecutivo: Sawako Noma Produttori: Ryohei Suzuki, Shunzo Kato Produzione: Akira Committee (Kodansha Ltd, Mainichi Broadcasting System Inc., Bandai Co. Ltd., Hakuhodo Company Ltd., Toho Company Ltd., Laserdisc Corporation, Sumitomo Corporation, Tokyo Movie Shinsha Co. Ltd.)

L’eredità di Akira Akira è un lungometraggio di circa 120 minuti uscito nelle sale nel 1988 sull’onda del successo riscosso dall’omonimo manga di Katsuhiro Otomo. Diretto dallo stesso autore, supportato da una coproduzione che coinvolse alcune fra le più importanti major giapponesi (citiamo Bandai, Kodansha, Toho, Tokyo Movie Shinsha...), realizzato con un budget stratosferico e mobilitando un autentico esercito di disegnatori – si parla di oltre cinquanta studi d’animazione coinvolti –, questo film raggiunse una qualità eccezionale rispetto agli standard dell’epoca, e ottenne in patria un successo senza precedenti. L’animazione di ottimo livello, la fluidità delle sequenze, la profondità del colore, l’estrema accuratezza dei fondali, la presenza dei primi accenni di computer graphic, la preregistrazione dei dialoghi e la conseguente maggior sincronia col labiale dei personaggi nella versione in lingua originale (novità assoluta in Giappone) sono tutte caratteristiche che hanno reso Akira una pietra miliare nella storia dei cartoni giapponesi. La regia e l’ambientazione si imprimono indelebili nella memoria dello spettatore, con alcune scelte visive che richiamano alla mente produzioni occidentali: la più evidente è la rappresentazione delle scorribande notturne in moto, dove le scie luminose dei fari e il design futuristico ricordano da vicino le corse virtuali del film Tron; il “viaggio nel colore” del finale trova invece un’analogia in una sequenza di 2001 Odissea nello Spazio, a cui si aggiunge poi l’immagine del bimbo che si delinea negli strumenti di monitoraggio di Akira e Tetsuo e che rimanda al neonato cosmico di Kubrik. Così come Otomo ha voluto omaggiare i cult-movie di Fantascienza, sono numerosi i mangaka che, negli anni successivi, hanno preso ispirazione da lui. Uno di questi è Masashi Kishimoto, autore di Naruto, il quale rivela di essere rimasto profondamente affascinato dall’opera del collega, in particolare per ciò che concerne la complessità delle trame e

Cinema: Akira

L’incontro con l’esper 1.

2.

Kaneda e la sua banda, i “Capsule”, sono un gruppo di adolescenti che trascorrono le notti ingaggiando violenti scontri in motocicletta con le bande rivali. Durante una di queste scorrerie, la gang s’imbatte in un misterioso bambino dalle fattezze di anziano. L’esercito recupera il bimbo e sequestra il giovane Tetsuo.

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Cinema ANIME l’uso di alcuni espedienti narrativi, come il flashback. Affinità con Akira possono essere rintracciate anche nel design di alcuni personaggi in Dragonball, di Akira Toriyama: tra Tetsuo e Vegeta, per esempio, esiste una notevole somiglianza, sia fisica che comportamentale. Nel più recente Ergo Proxy, capolavoro prodotto dalla Manglobe, il protagonista Vincent Law è abbigliato in un modo tale da ricordare Kaneda, mentre il dottor Desty Nova del manga Alita - L’Angelo della Battaglia non è altro che una versione cibernetica del dottor Onishi di Akira. Sono molti anche gli anime che narrano di scontri tra esseri dotati di poteri ESP, con ambientazione futuristica e scontri apocalittici, o di esplosioni nucleari che devastano Tokyo, avendo sempre Akira come riferimento: per esempio X delle CLAMP, o Neon Genesis Evangelion dello studio Gainax. Menzione d’onore anche per la colonna sonora composta da Shoji Yamashiro, perfetta nel mantenere la tensione dello spettatore e nel soffondere ritmi e sonorità perfettamente sposati con le emozioni sprigionate dalle diverse situazioni; un esempio per tutti: le cadenze che sembrano quasi un respiro affannoso durante le scene del combattimento tra Tetsuo e Kaneda.

1. Tetsuo viene sottoposto a esperimenti... 2. e, dopo essere scappato, dà prova dei suoi nuovi poteri nel soccorrere l’amica Kaori.

3. Il Presidente complotta con i ribelli. 4. Kaneda e Kei arrestati dal Colonnello.

Il programma Akira

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Ambientazione e commento In parziale contrasto con l’assoluta eccellenza raggiunta dal punto di vista tecnico, sul piano narrativo Akira perde qualche punto: in vari passi la trama risulta ostica – specie per chi non avesse letto il manga –, le vicende non sono sempre di facile comprensione, probabilmente anche a causa della sintesi che la trasposizione animata ha dovuto operare. Il personaggio di Akira, che dà nome all’opera, risulta più un fantasma, un simbolo, che un reale protagonista; gli stessi Kaneda e Tetsuo sono definiti in modo incompiuto, specialmente per ciò che riguarda il loro reciproco rapporto, che viene descritto solo attraverso alcuni episodi della loro infanzia. Analogamente appare poco decifrabile la posizione dei terroristi, ovvero il gruppo di cui fa parte Kei e con cui il protagonista collabora; e nebuloso risulta anche il ruolo della ragazza stessa, enigmaticamente in grado di catalizzare il potere degli esper, in particolare quello di Kiyoko. Se a tutto ciò si aggiungono ulteriori ellissi relative al colpo di stato effettuato dal colonnello Shikishima in seguito agli eventi causati da Tetsuo, nonché al fervore che anima i fanatici religiosi i quali (nel manga soprattutto) invocano la nuova venuta di Akira, il lungometraggio risulta un’opera sì di grande impatto ma non priva di qualche occasione persa. Indiscutibilmente, uno dei punti di forza del film è invece l’ambientazione postatomica, il prodotto di una società nata dopo una guerra mondiale, a seguito di cataclismi nucleari che ne hanno mutato per sempre aspetto e dinamiche. Viene così proposta l’immagine di una Neo Tokyo che alterna quartieri

Cinema: Akira


ANIME Tatsuo Shima

Shotaro Kaneda Leader incontrastato di una gang motorizzata composta da ragazzi allo sbando. Nel tentativo di salvare l’amico Tetsuo, rapito dall’esercito, si ritroverà invischiato nel progetto “Akira”.

Il membro più giovane della banda di Kaneda; prova per quest’ultimo un sentimento di rispetto e al tempo stesso invidia. Attraverso i poteri ESP darà tragico sfogo alla propria frustrazione.

Takashi

Kei La ragazza fa parte di un’organizzazione ribelle che si oppone alle sperimentazioni condotte dall’esercito. Kaneda, dopo averla conosciuta in stato di arresto, si aggregherà al suo gruppo.

È il bambino esper che causa involontariamente l’incidente stradale di Tetsuo. È dotato di formidabili poteri psicocinetici che, in situazioni di forte stress, sfuggono al suo controllo.

Kiyoko

Masaru È il più maturo dei bambini esper sottoposti alle sperimentazioni segrete. Anch’egli possiede poteri di psicocinesi, ma un’inabilità fisica gli impedisce di camminare.

Tra gli esper, questa bambina è forse la più preziosa per il Colonnello. Anch’essa fisicamente debilitata come Masaru, ha potenti capacità di telepatia e precognizione.

Presidente Nezu

Colonnello Shikishima Irriducibile capo dell’esercito, persegue il completamento delle sperimentazioni sugli esper con tenacia e ottusità tipicamente militari; finché il progetto non gli sfuggita di mano...

È un membro del Consiglio Direttivo ma complotta segretamente con i ribelli. La sua posizione è molto ambigua; quel che è certo sono la sua mancanza di scrupoli e la sua avidità.

Roy

Kaori Una delle ragazze che si accompagnano alla banda di Kaneda. È particolarmente affezionata a Tetsuo, tanto da restare al suo fianco fino a condividerne il destino nel tragico epilogo.

È il capo del gruppo di terroristi del quale fa parte Kei. Agisce segretamente per conto del Presidente, senza rendersi conto che quest’ultimo ha come unico interesse il denaro.

Kaisuke

Yamagata “Yama” è il braccio destro di Kaneda. Anche lui, come il suo capo, avrà modo di sperimentare il rancore di Tetsuo e il suo definitivo cambiamento, ma con esiti assai più drammatici.

Chiamato semplicemente “Kai”, è un altro dei membri della banda di Kaneda. Dopo esser stato testimone dell’uccisione di Yama, resta al fianco di Kaneda e Kei per cercare di fermare Tetsuo.

Predicatore

Dottor Onishi È lo scienziato responsabile del progetto “Akira”; seguendo le disposizioni impartite dal Colonnello, dirige le sperimentazioni sugli esper, sottovalutando la portata degli “effetti collaterali”.

Intorno al nome del fantomatico “Akira”, a Neo Tokyo si è venuta a creare una vera e propria religione; gruppi di “fedeli” predicano per le strade, costantemente dispersi dalle forze di polizia.

Cinema: Akira

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Cinema ANIME

1. Dagli altoparlanti, il Colonnello rivela a 2. 3. 4.

Tetsuo la vera natura di Akira. Kaneda si scontra con l’amico. I poteri proiettano Tetsuo nello spazio... ...neppure gli esper possono più fermarlo.

I terribili effetti

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lussuosi e ordinati, punteggiati di luci e insegne al neon, a zone degradate e caotiche, aree urbane in cui le rivolte sono all’ordine del giorno e dove i giovani sono allo sbando, vivono senza morale inseguendo solo emozioni forti: droghe, corse motociclistiche, risse. Sono del tutto assenti i genitori dei protagonisti; o, meglio, manca un’intera generazione. Sembra infatti che, al di là del gruppo di terroristi di cui fa parte Kei, per lo più adulti sulla trentina, esistano solamente due categorie di persone a Neo Tokyo: da una parte i membri del governo, gli scienziati e l’esercito che lavorano al progetto Akira; dall’altra la gioventù bruciata; quasi come se la Terza Guerra Mondiale avesse causato una sorta di frattura generazionale, che si riflette sugli atteggiamenti della popolazione. Il protagonista e il suo gruppo di delinquenti rappresentano un’adolescenza chiusa al futuro, concentrata sulle emozioni del presente, vittima di un clima di violenza e di instabilità che essa finisce per far proprio palesando comportamenti feroci e irragionevoli. Sarà allora proprio lo scontro finale a far maturare Kaneda – la parte “buona” della gioventù, la parte che può ancora essere riscattata –, a fargli comprendere la necessità di darsi da fare, di affrontare i problemi, di mettersi in gioco. Eppure anche la parte irrecuperabile, rappresentata da Tetsuo, risalta forse più per la sensibilità, la fragilità, che per la sua violenza: in fondo il ragazzo è più sofferente che malvagio, anch’egli è una vittima, confusa, tormentata. Bisognosa, seppure orgogliosa. Tetsuo viene infine sopraffatto da poteri che non riesce più a controllare, così come la sua generazione patisce impotente gli errori commessi da chi l’ha preceduta, tuttora riflessi nell’altra parte della barricata: quel governo che, in combutta con l’esercito, ottusamente porta ancora avanti ideologie e progetti con finalità belliche, del tutto distanti dalle reali necessità della gente, anzi addirittura vessando e ingannando quest’ultima. Il richiamo forte alla situazione esistente in Giappone nel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali è completato dall’immagine delle due esplosioni (iniziale e conclusiva) che ricalcano le due bombe atomiche sganciate nel 1945. Analogia ancor più accentuata dai nomi in codice assegnati agli ordigni: “Little Boy” rimanda al piccolo Akira, e “Fat Man” al Tetsuo gigantesco del finale. Tuttavia, malgrado violenza e devastazioni, l’opera di Otomo si chiude nel segno della speranza, sotto il cielo azzurro e i raggi solari che baciano la terra illuminando l’alba di un nuovo futuro, tutto da (ri)costruire. È un messaggio di ottimismo con cui l’autore, facendo leva sul drammatico ricordo di eventi apocalittici, sprona la società al cambiamento, invitando a rivolgere una particolare attenzione alla gioventù affinché quest’ultima sappia controllare con giudizio le sconfinate conoscenze che il futuro porrà nelle sue mani. n Leonardo Colombi

Cinema: Akira


ANIME

Cinema: Akira

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Serie TV

Serie TV

ANIME

CONAN Il Ragazzo del Futuro (Mirai Shounen Konan - H. Miyazaki, K. Hayakawa, I. Takahata, 1979) di Davide Mana

N

ella sequenza dei titoli, in poche scene viene riassunta la distruzione della civiltà umana: enormi bombardieri solcano i cieli, sorvolando città (prese di peso dal film Nel 2000 Guerra o Pace, 1936) che eruttano in fiamme. Un pugno di malcapitati tenta con un razzo (molto retro-futuristico) di sfuggire alle esplosioni che devastano il pianeta, ma ripiombano nell’atmosfera nella quale imperversano cicloni colossali. Il tremolio dell’inquadratura ci lascia intuire un frastuono devastante, che tuttavia rimane solo un’immagine muta. Poi, semisommerse nel mare, vediamo città distrutte divenire scogliere che si ripopolano di pesci; e un paesaggio sul quale si staglia la sagoma di un’isola con il razzo conficcato malamente, e… l’ipotesi di una rinascita: due ragazzi su una canoa. Si va a (ri)cominciare… L’anno è ora il 2038; il giovane Conan, figlio dei sopravvissuti allo schianto del razzo avvenuto trent’anni prima, ha vissuto fino all’adolescenza solo sull’isola, con un “nonno” che si è preso cura di lui. L’arrivo di una giovane naufraga misteriosa di nome Lana, e, successivamente, di loschi figuri che rapiranno la medesima, porrà drasticamente fine all’infanzia del protagonista. Perduto il nonno ucciso dai malvagi, Conan si metterà sulle tracce di questi ultimi per salvare colei che, di fatto, è rimasta l’unica persona che conosca al mondo. La ricerca lo trascinerà in mezzo a un complicato confronto fra le due “socie-

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Serie TV: Conan


ANIME

Scheda

Titolo originale: “Mirai Shounen Konan” 未来少年コナン Prima trasmissione: su NHK, dal 4 aprile al 31 ottobre 1978

Controllo animazioni: Hidemi Maeda Animazioni chiave: Hidenori Ooshima, Hideo Kawauchi, Masako Shinohara, Nobumasa Shinkawa, Nobuo Tomizawa, Toshiharu Okada, TsunehiDal romanzo: ro Okasako, Yasuji Mori, “The incredible tide” di Alexander Key Yoshiaki Kawajiri, Yoshifumi Kondô Regia: Hayao Miyazaki (ep. #1-8, 11-26), Colorazioni: Isao Takahata (ep. #9-10), Keiji Hayakawa Chieko Machida, Junko Abe, Etsuko Koba(ep. #3-7, 11-15, 17, 20-21) yashi, Kaoruko Shindou, Sceneggiatura: Makio Ikegame, Mari Nakamura, Koji Yoshikawa, Teruaky Nakano, Masako Yamaguchi, Naoko Izuguchi, NoriTessu Muramomo chika Iwakiri, Sakae Hamashita, Storyboard: Hayao Miyazaki, Isao Takahata, Sayoko Kanasaka, Setsuko Kobayashi, Tokiyo Keiji Hayakawa, Seiji Okuda, Takayoshi Su- Suzuki, Toshio Taguichi, Youichi Kunii, Yoshiko zuki, Yoshiyuki Tomino Takasago Script: Effetti: Hidenori Ishida Akira Nakano, Hayao Miyazaki, Direzione suono: Shigeharu Shiba Soji Yoshikawa Character design: Hayao Miyazaki, Musiche: Shinichiro Ikebe Yasuo Otsuka Sigle: Progetto: Shoji Sato “Ima Chikyuu Ga Mazameru” (apertura) Mechanical design: Hayao Miyazaki “Shiawase no Yokan” (chiusura) Design scene: Hayao Miyazaki eseguite da Naozumi Kamata e Yuuko Yamaji Disegni: Kosei Otsuka testi di Teru Kataoka Direzione artistica: Nizo Yamamoto musiche di Shinichiro Ikebe Direzione animazioni: Yasuo Otsuka Direzione fotografia: Katsuji Misawa Animazione: Nippon Animation Produzione: NHK, Nippon Animation Montaggio: Hidetoshi Kamitoono, Masuo Fotografia: Tokyo Animation Film Warita, Takeshi Seyama tà” che si fronteggiano, ultime schegge superstiti del vecchio mondo. Da una parte abbiamo Indastria (originariamente Industria), società ipertecnologica ma morente, senza volto, fondata su un’ampia base di lavoratori-schiavi che mantengono in moto macchine delle quali si sta dimenticando il funzionamento e per le quali non c’è più energia; una società che fabbrica il pane con i rottami di plastica e che si affida a un’archeologia di rapina per recuperare tecnologie funzionanti. Dall’altra Hyarbor (era High Harbor), comunità rurale a bassissimo impatto, popolata di allegri contadini che lavorano duro e si godono la vita per ciò che possono, apparentemente senza ausili meccanici. Suo malgrado, il ragazzo diverrà l’ago della bilancia in questa contrapposizione, mentre, sullo sfondo, stravolgimenti ambientali sempre più inquietanti – forse innescati da un cambiamento dell’asse terrestre – preannunciano l’arrivo di una colossale catastrofe.

La Prima Volta di Miyazaki Mirai Shounen Konan (1978), nella versione italiana solo Conan (successivamente riedito come Conan, il Ragazzo del Futuro) è l’unica serie televisiva pienamente accreditata a Hayao Miyazaki, l’ex intercalatore della Toei divenuto il regista/soggettista più amato dell’animazione mondiale, come certificato dal successo ai botteghini dei suoi lungometraggi e dalla vasta ed autorevole selezione di premi ricevuti dalla critica mainstream. La serie è basata sul romanzo The Incredible Tide, un’opera minore della produzione di Alexander Key; un titolo dalle forti tematiche sociali e ambientali che, proprio per questo, deve aver attirato Miyazaki, il quale − come sua abitudine − lo adatta molto liberamente, pur senza intaccarne il nucleo. Per questo progetto, Miyazaki riveste i ruoli di sceneggiatore, disegnatore di personaggi ed elementi

Serie TV: Conan

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Serie TV ANIME

Barracuda, il vascello del capitano Deis Falco, l’aereo da ricognizione di Indastria

La macchina volante del dottor Rao Il transatlantico lascia Indastria prima che la città sprofondi nel mare

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meccanici, coordinatore principale dei layout e dell’animazione e anche, per la prima volta, regista. Il risultato di questo “debutto” è tutt’altro che trascurabile. Oggi, a trent’anni suonati, Conan rimane una delle migliori produzioni fantascientifiche destinate a un pubblico di adolescenti. Come accade di solito con i lavori di Miyazaki, il prodotto è tanto curato e ben definito che sarebbe eccellente in qualunque format: come film, come telefilm, come animazione, come radiodramma… La solidità della storia e l’efficacia di situazioni e dei personaggi sono intoccabili; difficile immaginarne un remake, un tentativo di miglioramento. Mirai Shounen Konan II – Taiga Daibouken, un improbabile sequel in 24 episodi prodotto dalla Nippon Animation nel 1999, non ha di fatto lasciato tracce nel panorama dell’animazione giapponese. Sfruttando con sottigliezza le potenzialità del cartone animato, la serie soddisfa lo spettatore visivamente, al contempo la sceneggiatura ne mantiene sveglia l’intelligenza offrendo protagonisti “tridimensionali”, capaci di evolvere e mutare, di conquistarsi uno spazio nella trama, coinvolti in una storia complessa ma non cervellotica, punteggiata di colpi di scena e di momenti memorabili. La regia è precisa, originale, e le scene d’azione sono ben coreografate e sufficientemente imprevedibili. La serie arrivò in Italia agli inizi anni Ottanta, durante la prima grande fase di esplosione dell’animazione giapponese sulle reti private nazionali, e rappresentò una netta rottura rispetto alla dieta di cartoni animati a base di robot giganti destinati al pubblico maschile o di maghette e orfanelle rivolte a quello femminile. Nonostante la canzoncina leziosetta della sigla, bastavano le immagini dei titoli di testa per capire che Conan non era Heidi e non era Goldrake. Era Fantascienza, di quella vera. In molti rimanemmo ipnotizzati davanti allo schermo. Un buono in un mondo di buoni I personaggi dei romanzi di Alexander Key sono frequentemente adolescenti dotati di poteri paranormali – come nel caso dei protagonisti del ciclo di “Witch Mountain” (portato sullo schermo da Disney in due film e oggetto di un recente remake). In mano a Miyazaki, gli ipotetici poteri paranormali di Conan divengono passivi, e lasciano il posto a una più semplice e cinematica prestanza fisica oltre i limiti dell’umano: Conan ha una capacità di apnea da balenottera azzurra (lo scopriamo nel primo episodio, durante il lungo e spettacolare duello subacqueo contro lo squalo), possiede una forza colossale, è pervaso da un appetito pantagruelico, è sorretto da una costituzione di ferro e dimostra un’agilità da ninja an-

Serie TV: Conan


ANIME fetaminico. Onesto, leale, pronto a sacrificarsi per gli altri, Conan è ingenuo ma non stupido: è un buono in un mondo di buoni, taluni semplicemente incattiviti, e la forza del suo personaggio sta anche e soprattutto nel non credere nella malvagità altrui. Le caratteristiche così elencate ne farebbero un personaggio insopportabile nelle mani di uno sceneggiatore meno dotato, ma la serie salva la leggerezza (e la simpatia) di Conan ritraendo sempre i suoi exploit in termini quasi comici. Come certe acrobazie di Jackie Chan, le imprese superumane del ragazzo non strappano − se non ai più cinici − un grugnito di incredulità ma piuttosto un sorriso per lo stile quasi buffonesco in cui sono presentate. Le gag visive sono molte, disseminate nel corso della serie, e spesso ne addolciscono una certa innegabile cupezza (è difficile descrivere la fine della civiltà

senza dover mostrare alcuni luoghi oscuri). Sul fronte dei protagonisti è casomai la controparte femminile di Conan, Lana, a uscire dal confronto un po’ sciapa e un po’ irritante, sempre bisognosa di soccorso, sempre sconvolta dall’orrore di ciò che sta accadendo, spesso ridotta a un “plot token”, sballottata fra salvatori e rapitori. Ma è nei personaggi secondari che la scrittura di Miyazaki brilla, e si lascia il modello di Key alle spalle senza fatica. Soprattutto personaggi “negativi”, come il capitano Deis e il suo equipaggio di cialtroni, o come la comandante Monsley, sono tratteggiati con tale simpatia e freschezza che la loro redenzione finale non arriva come una sorpresa ma come un sollievo; e lo stesso malvagio amministratore Lepka, Primo Cittadino di Indastria, unico vero malvagio irredento dell’intera storia, non può non suscitare una scintilla di compassione nella sua ultima scena.

Conan

Lana

Orfano figlio di naufraghi, nato e cresciuto su un’isola dopo la fine del conflitto. Ha un animo puro e una forza fuori del comune.

Ragazzina dolce e sensibile, rapita su ordine di Indastria per costringerla a rivelare il luogo dove si nasconde suo nonno, il dottor Bliac Rao.

Jimsy

Deis

Ragazzo selvaggio che Conan conosce sull’Isola della Plastica, e del quale diverrà grande amico. I due affronteranno insieme mille peripezie.

Il severo capitano del Barracuda. È lui a rapire Lana da Hyarbor, ma poi si ravvedrà divenendo un prezioso alleato di Conan contro Indastria.

Lepka

Monsley

Il Direttore di Indastria. Perfido e senza scrupoli, cerca di rintracciare il dottor Rao per estorcergli i il segreto su come produrre energia solare.

È l’acida comandante della milizia di Indastria, braccio destro di Lepka. Finirà col ribellarsi alla logica militare e sposare la causa di Conan.

Pach/Dottor Rao

Goros

Il nonno di Lana, luminare nel campo dello sfruttamento dell’energia solare, si nasconde sotto la falsa identità di un burbero capocantiere.

Il nostromo del Barracuda, buffo e simpatico; è un brav’uomo nonostante si diverta spesso a tiranneggiare i malcapitati Conan e Jimsy.

Gutch

Pasco

Il massiccio e manesco cuoco di bordo del Barracuda; la sua fornita cucina e particolarmente presa di mira dalle ruberie di Jimsy.

Altro membro dell’equipaggio del Barracuda, affianca Goros come principale aiutante di Deis. L’intera ciurma è fatta di gente rude ma buona.

Serie TV: Conan

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Serie TV ANIME Nonno

Tzo

Uno dei naufraghi sopravvissuti allo schianto del razzo sull’Isola Perduta. Si è preso cura di Conan dopo la morte dei genitori.

Fido aiutante di Monsley. È il perfetto esempio della milizia di Indastria: soldati pronti a obbedire senza porre domande.

Uro

Tera

Il capo di una banda di ragazzi ribelli che vive ai margini della comunità di Hyarbor. Ha la vocazione del traditore e si venderà a Indastria.

La scontrosa sorellina di Uro. Il suo carattere irriverente inizierà a cambiare dopo l’incontro con Jimsy, per il quale proverà subito un debole.

Terit

Luka

Ambizioso aiutante di Patch. Alla caccia di crediti per salire la scala sociale di Indastria, non esiterà a denunciare Conan e Lana.

Uno dei lavoratori della piattaforma di recupero diretta da Patch. È un uomo amichevole, che accoglierà con affetto l’arrivo di Conan e Lana.

Oki

Rooke

Uno degli abitanti dei sotterranei di Indastria. A Conan ispira un affetto particolare per la sua incredibile somiglianza con il nonno.

Il capo dei ribelli del Blocco Core. Come tutti gli oppositori del regime, ha un marchio sulla fronte fattogli imprimere da Lepka.

Chan

Mesa

Lo zio di Lana, marito di Mesa. È il medico di Hyarbor, molto influente nella comunità; il capovillaggio si consulta spesso con lui.

La figlia del dottor Bliac Rao; è la zia di Lana, una donna semplice e forte, che ha cresciuto la nipote in casa propria facendole da madre.

Gul

Capo del Villaggio

Un altro zio di Lana; pescatore di mestiere, ha una certa dimestichezza con gli esplosivi di cui faranno le spese il Barracuda e la Cannoniera.

Ha l’ingrato onere di guidare la resistenza della comunità di Hyarbor durante l’invasione da parte della milizia di Indastria.

Consiglio di Indastria

Cit

Comitato di scienziati che governa Indastria. La sua autorità è però solo nominale: di fatto, è il Direttore Lepka a detenere il potere.

Giovane pastore che vive ad Hyarbor, presso un villaggio secondario con cui la comunità principale intrattiene un regolare commercio.

Carceriere

Teki

Di guardia alle prigioni ubicate nei pressi del porto di Indastria, diventa esperto nell’arte di lasciarsi scappare i carcerati.

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Un uccello che Lana ha addestrato grazie alle proprie doti telepatiche. Spesso viene usato come messaggero tra la ragazza e Conan.

Serie TV: Conan


ANIME Per i meno ingenui Anche per un pubblico un po’ più smaliziato, Conan riserva alcuni punti di interesse. Il primo è certamente la rappresentazione del mondo dopo la scomparsa di gran parte del genere umano; un pianeta che si sta lentamente riassestando e nel quale è lecito sospettare che il posto dell’umanità – ammesso ci sia ancora – sia stato radicalmente ridimensionato. Paesaggi e fondali vengono utilizzati per sottolineare l’alienità del nuovo mondo, offrendo vasti scenari di città in rovina sommerse dai flutti o invase dalla vegetazione, mari color ardesia costellati di trombe marine, deserti nei quali si susseguono colonne di carri armati fossilizzati, tetri complessi sotterranei dove intere comunità sono andate a morire. C’è poi, inserita nel dialogo e lasciata in sottofondo, la questione irrisolta del rancore della generazione dei sopravvissuti verso la precedente generazione responsabile alla guerra. Non a caso i cattivi sono tutti fra i trenta e i quarant’anni, perciò bambini durante il conflitto. Lepka, Deis e Monsley, per quanto salvati a suo tempo dai benevoli scienziati che progettarono Indastria, non possono nascondere una ostilità profonda verso coloro che vedono comunque come i responsabili di gran parte dei loro traumi. La capacità di indirizzare e “cavalcare” questa ostilità è certamente uno degli strumenti che permettono a Lepka di dominare su Indastria. Si può affermare che è questo confronto generazionale – dal quale Conan ed i suoi coetanei sono esclusi – il vero nocciolo “ideologico” della serie. E tuttavia, sul piano ideologico, Miyazaki è abbastanza sottile da evitare qualsiasi etichettatura esplicita. È Indastria una roccaforte fascistoide e imperialista che marchia a fuoco i ribelli, importa rottami da colonie succubi, e usa tortura e terrore per i propri scopi? O è una degenerata società sovietica, coi suoi abiti unisex e la sua burocrazia impazzita, i suoi cittadini senza volto? C’è forse un accenno ad una struttura a caste? E Hyarbor? È un paradiso anarcoide e “verde” dove regna la libera espressione? Oppure è una società tradizionalista e patriarcale, con ruoli definiti e imprescindibili: gli uomini nei campi o per mare, e le donne a casa a cucinare? Difficile appiccicare simboli o patacche colorate, per lo meno sulla base dei segnali che Miyazaki ci lascia intravedere. È vero, la longa manus di Indastria si chiama Monsley, nome mutuato dal romanzo di Key ma appartenuto anche al leader del Partito Fascista Britannico negli anni Trenta… Forse però è un voler leggere troppo in un dettaglio. E se Indastria, con il bieco Lepka al timone, è malevola per definizione, pure nutre i semi della ribellione e di una possibile rinascita (tanto in personaggi come Deis e Monsley

L’aereo-anfibio di Hyarbor La cannoniera di Indastria

Il minaccioso bombardiere Gigante

Serie TV: Conan

Un robonoide da lavoro

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Serie TV ANIME Il razzo schiantatosi sull’Isola Perduta, divenuto la casa dei naufraghi

L’Isola della Plastica La sommità della Torre del Sole, a Indastria

La casa di Lana ad Haiarbor

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quanto nelle masse senza volto dei “proletari”), così come la libertaria e benigna Hyarbor ha nella banda di giovinastri capitanati da Uro i presagi di un futuro di degenerazione e d’anarchia. Ed è curioso vedere che la colpa di tutti i cattivi e di tutti gli elementi devianti è la stessa: la nostalgia per il passato prebellico, l’accesso alla tecnologia percepito come strumento totalitario. In questa situazione ideologicamente complicata e ambigua, Conan arriva a catalizzare gli elementi vitali delle due culture contrapposte, salvando di fatto il mondo, disinnescando i residui di ogni tendenza autodistruttiva. La sua capacità di redimere coloro che lo conoscono, di portare armonia ed equilibrio, è forse più importante della sua prodezza finale, l’abbattimento del Gigante, l’ultimo superbombardiere, in volo per una missione tanto assurda quanto nichilista. Ciò senza nulla togliere, naturalmente, alla lunga sequenza dedicata all’attacco al Gigante, una delle più grandi scene d’azione della storia dell’animazione, che Miyazaki riprenderà, due anni dopo, in un episodio della seconda serie di Lupin III (Le Nuove Avventure di Lupin III, 1977-1980), quasi una citazione scena per scena dell’originale. Allegramente irriguardosa di fattori in fondo secondari quali la forza di gravità, l’aerodinamica o il moto dei corpi, la battaglia finale di Conan, spalmata su tre episodi per quasi cinquanta minuti, è assolutamente perfetta, infarcita da quel ridanciano eroismo che si vedeva nei film di cappa e spada. Solo nell’ultimo istante ci rendiamo conto, insieme col protagonista, che questa non è un’allegra cavalcata avventurosa ma un confronto all’ultimo sangue. Coda L’episodio conclusivo si intitola “Un grande cerchio”; Conan torna alla sua isola (ora una collinetta su un continente di fresco riemerso) insieme con tutti i suoi amici, per ricominciare da capo, mantenendo anche l’ultima promessa fatta al nonno. Tutti gli impegni presi, sono stati onorati, questa è la stoffa di cui sono fatti gli eroi. L’isola, è intuibile, non sarà una nuova Indastria ma probabilmente neppure una copia carbone di Hyarbor. E se i cinici possono ricordare il cupissimo finale del racconto Nave da Preda di Cyril M. Kornbluth − con la sua stringente matematica per cui, in capo a trenta generazioni, il mondo è destinato a tornare nuovamente sovrappopolato e cattivo −, dai titoli di coda di Conan sappiamo che tutti i nodi sono venuti al pettine, e possiamo confidare per un attimo in un futuro mondo migliore. Nel 1979, dalla serie venne tratto un lungometraggio, con un finale diversamente strutturato, che non ci risulta sia mai

Serie TV: Conan


ANIME

Episodi

arrivato ufficialmente nel nostro Paese e che pare essere considerato una rarità anche fra i fan della serie; nel 1984, i tre episodi finali vennero rimontati in un cortometraggio. Il coinvolgimento di Miyazaki in entrambi i progetti pare essere marginale. Sempre nel 1984, Miyazaki distribuisce invece nelle sale Nausicaä della Valle del Vento (Kaze no Tani no Naushika), il film che lo segnalerà per la prima volta alla critica internazionale, e che porterà a lunghi dibattiti in Giappone per le accuse di radicalismo politico rivolte all’autore. I paralleli fra Conan e Nausicaä sono molti. Entrambe le storie si svolgono dopo la caduta della civiltà e vedono contrapposte società fondate su premesse diverse, dove i cattivi si caratterizzano per una insana nostalgia verso il passato. Entrambe le storie ruotano attorno alla figura di un eroe il cui destino è rivitalizzare il proprio mondo, troncando col passato (più letteralmente nel caso di Nausicaä, più metaforicamente per Conan). In entrambe le storie dominano le acrobazie volanti e gli ampi scenari, e in entrambe il tentativo di riportare in azione un’arma da guerra ormai dimenticata

Il satellite, strumento fondamentale nel processo di conversione dell’energia solare sortirà effetti catastrofici. Eppure, se Mirai Shounen Konan impallidisce davanti all’eccellente pedigree scientifico-culturale e artistico di Kaze no Tani no Naushika, è innegabile che la serie del 1978, prodotto commerciale di alto livello, riesce a sfuggire a quella certa seriosità e malinconia propria invece del lungometraggio. Preferire l’uno o l’altro dei due approcci è, naturalmente, una questione di gusti personali. n Davide Mana

#1. L’isola perduta

P

er sottrarsi a un terrificante conflitto atomico che ha provocato una serie di immani cataclismi e minaccia di distruggere la Terra intera, un gruppo di scienziati tenta la fuga nello spazio a bordo di un razzo. Danneggiato in fase di volo, il velivolo è costretto però a un rovinoso atterraggio su un’isola deserta... Sono trascorsi vent’anni dalla fine della guerra; sull’isola, divenuta un verde paradiso isolato dal resto del mondo, dimorano il giovane e spericolato Conan, nato dopo lo schianto del missile, e il “nonno”, ultimo rimasto dei sopravvissuti allo schianto del razzo.

Serie TV: Conan

#2. La partenza

L

’arrivo sull’isola della giovane Lana e il suo successivo rapimento da parte dei soldati della misteriosa Indastria sconvolgono la vita di Conan. Il ragazzo deve inoltre affrontare la triste perdita del “nonno”, aggredito dai prepotenti militari comandati da Monsley, e morto in seguito alle ferite riportate. Rimasto solo, ma consapevole ora della presenza di altri uomini e altri luoghi sopravvissuti alla catastrofe, al giovane non resta che abbandonare l’isola. Costruita una piccola imbarcazione, l’impavido Conan decide dunque di sfidare l’oceano per mettersi sulle tracce di Lana.

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Serie TV ANIME

#3. Il primo amico

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a prima terra che Conan riesce a toccare nel suo viaggio è un’isola che ospita una comunità di lavoratori impegnati per conto di Indastria all’estrazione di materie plastiche da una grande discarica. Lì il ragazzo incontra Jimsy, un suo scontroso coetaneo che abita da solo nei boschi vivendo di caccia e del frutto di piccoli baratti intrattenuti con gli emissari di Indastria. Superata l’iniziale diffidenza, i due giovani fanno amicizia. Jimsy accompagna Conan alla discarica, dove sono in atto i lavori di scavo, supervisionati dal capitano Deis.

#4. Il Barracuda

S

coperti come clandestini a bordo del Barracuda, la nave che, sotto il comando di Deis trasporta gli approvvigionamenti di materie prime a Indastria, Conan e Jimsy finiscono a spalare plastica nella stiva. Completato il carico, il vascello parte alla volta di Indastria, con a bordo i due ragazzi trattenuti come mozzi. Per Conan si tratta di un’ottima occasione per raggiungere il luogo dove Lana è stata portata, ma la vita a bordo non è semplice: ai ragazzi vengono affidati i compiti più duri, e ogni negligenza comporta severe punizioni.

#5. Una città chiamata Indastria

I

l Barracuda giunge finalmente a Indastria, una città che a Conan e Jimsy si preannuncia fredda e inquietante già a partire dall’aspetto, con le tecnologiche tre torri che, stagliandosi su una sconfinata baraccopoli, dominano un panorama privo di verde. Attraccata la nave al porto, Deis viene immediatamente convocato dal Direttore Lepka, per rispondere della fuga di Lana, avvenuta proprio dal Barracuda prima della ricattura nell’isola di Conan. La ragazza è preziosa perché ritenuta l’unica a sapere dove si nasconda l’eminente scienziato Bliac Rao.

#6. Il capitano si ribella

#7. L’inseguimento

#8. La fuga

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M

S

onan, individuata la stanza della Torre dove viene detenuta Lana, con un’azione temeraria riesce a liberarla. La loro fuga però è di breve durata, i due giovani finiscono subito ripresi dagli sgherri del Direttore Lepka. Nel frattempo, offeso dalle aspre critiche rivoltegli dal Comitato che dirige Indastria, Deis congegna una vendetta esemplare: liberare a sua volta Lana e ricondurla a Hyarbor, l’isola presso cui l’aveva rapita. Il suo piano rocambolesco ha successo, e il Barracuda riesce a salpare con a bordo la ragazza, sotto gli occhi di Conan che assiste da una cella della prigione.

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entre il Barracuda veleggia in rotta verso Hyarbor, Conan trova il modo di evadere di prigione, riuscendo poi a salire clandestinamente a bordo del Falco inviato all’inseguimento del capitano Deis. Quando Monsley dal velivolo individua il Barracuda, Conan si getta in mare deciso a raggiungere il vascello a nuoto. Purtroppo il giovane indossa ancora i bracciali magnetici usati a Indastria per imprigionarlo, che gli bloccano mani e piedi impedendogli i movimenti. Dal Barracuda, intanto, Lana avverte telepaticamente la presenza del ragazzo.

Serie TV: Conan

apendo ormai individuata la posizione del Barracuda, per prevenire l’attacco delle navi di Indastria il capitano Deis lega Lana alla prua del vascello, usandola come scudo. Lo spietato Lepka però non esita ad aprire ugualmente il fuoco. Lana, accortasi che Conan è riuscito ad aggrapparsi allo scafo del Barracuda, strappa con i denti le corde che la legano e, approfittando della confusione e dell’aiuto di Jimsy, cala in mare una lancia per soccorrere il ragazzo. Subito dopo Deis e il suo equipaggio finiscono catturati da Lepka.


ANIME

#9. Patch, il capo misterioso

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pprodati in una spiaggia, sfiniti e senz’acqua, Conan e Lana vengono trovati da Patch, il burbero capo di un piattaforma di Indastria allestita per tentare il recupero di un transatlantico affondato. I due giovani vengono così tratti in salvo, ma messi poi a lavorare senza tanti complimenti. Terit, uno degli uomini del cantiere, è insospettito dal comportamento di Patch, il quale, pur trattando bruscamente i due ragazzi, sembra poi proteggerli quando, durante una perlustrazione operata da Monsley, mente negando la loro presenta.

#12. Il centro chiamato Core

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a macchina volante, con a bordo Lana e il dottor Rao, penetra nei sotterranei di Indastria per recuperare un circuito integrato necessario al funzionamento del veicolo. Incurante delle obiezioni del Comitato, Lepka si mette alla testa di un drappello di soldati per guidare personalmente la caccia allo scienziato, scendendo nell’area più profonda dei sotterranei, il Blocco Core. Nel frattempo, in superficie, Deis riprende il comando del Barracuda e Conan riesce a fare evadere di prigione un gruppo di detenuti, capeggiati dal signor Rooke.

#10. Il dotto Rao

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o sleale Terit, scoperto che Conan e Lana sono fuggitivi ricercati da Indastria, si reca a rapporto da Monsley denunciandoli. Lepka tuttavia decide di ritardare l’arresto, preferendo affidare a Terit il compito di tenere d’occhio i due ragazzi. Nel far sorvegliare Lana, la speranza del bieco direttore di Indastria è quella di riuscire a rintracciare il dottor Bliac Rao, il nonno della giovane. Intanto strani fenomeni naturali iniziano a manifestarsi coinvolgendo nuguli di insetti che ricoprono l’intero quartiere. Qualcosa di terribile sembra preannunciarsi...

#11. La liberazione

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atch ha confessato la sua vera identità, che Lana aveva intuito per mezzo delle sue facoltà telepatiche: lui è Bliac Rao, lo scienziato esperto nelle tecnologie di sfruttamento dell’energia solare, la cui competenza è vitale per risolvere la crisi energetica nella quale Indastria si sta dibattendo. Ora che il segreto è noto anche a Terit, Patch e i due ragazzi sono costretti a scappare a bordo di una macchina volante che lo scienziato aveva tenuto nascosta. Durante la fuga, s’imbattono Deis, lasciato legato da Lepka a morire di sete nel bel mezzo del deserto.

#13. La città di Hyarbor

#14. Un giorno ad Hyarbor

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bordo della macchina volante, Conan, Jimsy, Lana e il dottor Rao raggiungono il Barracuda diretto a Hyarbor. I tre ragazzi salgono a bordo del vascello di Deis, mentre Rao, avendo scoperto durante la sosta nel Blocco Core segnali premonitori di un imminente cataclisma tellurico capace di provocare l’inabissamento di Indastria, decide di tornare indietro per mettere in avviso la popolazione. Il viaggio prosegue senza intoppi e i nostri eroi giungono finalmente nella meravigliosa isola di Hyarbor, dove tuttavia l’accoglienza riservata al Barracuda non sarà amichevole.

Serie TV: Conan

hiarite le intenzioni non più bellicose del Barracuda, l’equipaggio di Deis può sbarcare e iniziare a integrarsi con la pacifica popolazione del luogo; Conan e Jimsy vengono ospitati nella casa dei parenti di Lana, Zio Chan e zia Mesa. Tuttavia, mentre le abilità di Conan fanno di lui l’aiutante perfetto di Gull il pescatore, per Jimsy l’adattamento alla nuova vita si rivela più complicato del previsto. Durante una battuta di caccia, il ragazzo uccide un cinghiale di proprietà di Uro, il capo di un gruppo di ragazzi ribelli che vivono isolati dal resto della comunità.

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Serie TV ANIME

#15. Uro e la sua compagnia

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ottetempo, Conan e Jimsy decidono di raggiungere il luogo dove dimorano Uro e la sua banda, per cercare di scusarsi e sedare in tal modo l’incidente “diplomatico” creatosi in seguito all’uccisione del cinghiale. Giungono a destinazione legati, poiché durante il tragitto finiscono catturati da Tera, la sorella di Uro. Alle prime luci dell’alba, Lana scopre l’assenza dei ragazzi e, indovinando le loro intenzioni, si dirige a sua volta verso il covo di Uro, dove intanto i nostri eroi sono stati sfidati ad abbattere un altro cinghiale, impresa che gli riesce sotto gli occhi stupefatti dei ribelli.

#18. La cannoniera

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operti dal fuoco della cannoniera, i militari di Indastria attaccano il villaggio indifeso. Vedendo Lana in pericolo, Conan si precipita in suo soccorso ma rimane tramortito dall’esplosione di un razzo. Quando si riprende è ormai notte, la battaglia è terminata e, a causa del vile tradimento da parte di Uro, Hyarbor è definitivamente caduta nelle mani di Monsley. L’astuta emissaria di Lepka ha fatto portare Lana sulla cannoniera, col proposito di ricondurla a Indastria e usarla per stanare il dottor Rao. Ignari della presenza a bordo della giovane, Conan e Gull tentano di affondare la nave.

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#16. Il nostro villino

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rutti presagi turbano il sonno di Lana, che in un incubo vede Rao precipitare con la macchina volante e il villaggio di Hyarbor distrutto dalle forze militari di Indastria. Al risveglio, preoccupata, la ragazza tenta di mettersi telepaticamente in contatto con il nonno, senza tuttavia riuscirci. Vedendola angosciata, Conan le propone un simpatico diversivo: visitare il villaggio dell’amico Cit, unendosi a Gull che vi è diretto per scambiare merci. Deis intanto, stanco di fare vita sedentaria, propone un’alleanza a Uro, nel tentativo di convincerlo a recuperare il Barracuda affondato.

#19. L’onda gigante

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’ardito piano di Conan è coronato da successo: la cannoniera è affondata e Lana è stata tratta in salvo. Monsley resta ancora padrona del villaggio ma la sua posizione non è più così salda, ora che la milizia è impossibilitata a lasciare Hyarbor. L’unica soluzione è riparare il Barracuda per rimetterlo in condizione di navigare. In un momento di quiete, Monsley ripercorre col pensiero la sua infanzia, rivivendo gli inizi del grande conflitto mondiale che ha trasformato la faccia del pianeta spazzando via quasi completamente la civiltà.

Serie TV: Conan

#17. Un combattimento

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e forze di Indastria, giunte a Hyarbor a bordo di una cannoniera, sbarcano sull’isola e disperdono facilmente l’esigua resistenza opposta dalla banda di Uro. Conan e Jimsy assistono alla scena e soccorrono Tera, rimasta ferita nello scontro. La minaccia dell’invasione obbliga gli abitanti dell’isola a organizzare una difesa, barricando le vie di accesso al villaggio. Essi però ignorano che, nel frattempo, dopo essere stato catturato, Uro si vende al nemico stipulando un accordo personale con Monsley e offrendo a Indastria la propria collaborazione.

#20. Ritorno a Indastria

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razie all’avviso lanciato da Conan, l’impressionante maremoto che ha colpito Hyarbor non ha prodotto vittime, ha anzi determinato il ribaltamento della situazione: i militari di Indastria sono stati costretti a cedere le armi e l’isola è nuovamente nelle mani dei legittimi abitanti. Lana tuttavia è in pena per la sorte di suo nonno. Conan è allora intenzionato a tornare a Indastria per rintracciare il dottor Rao, ma l’unico mezzo di trasporto rimasto è il velivolo nascosto nella grotta di Gull, e solo Monsley è in grado di pilotarlo.


ANIME

#21. Gli abitanti del sotterraneo

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aggiunta Indastria, il velivolo con a bordo Conan e Monsley viene intercettato dal Falco e costretto a un atterraggio di fortuna in mezzo alla baraccopoli. Lana, Jimsy e Deis, fatti scendere precedentemente, si avventurano nei sotterranei della città, dove incontrano Rooke e la sua gente, dai quali vengono a sapere che Rao è vivo. Il professore è tenuto prigioniero e sottoposto a tortura da parte di Lepka, che tenta di estorcergli informazioni sul funzionamento delle strumentazioni per la produzione dell’energia solare presenti nelle torri.

#24. Il Gigante

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entre i terremoti continuano a far tremare il sottosuolo di Indastria, il redivivo Lepka, scampato all’abbattimento della macchina volante, ha riunito un gruppo di soldati fedeli e si appresta a decollare a bordo del Gigante, uno degli enormi bombardieri utilizzati durante il conflitto. L’attenzione del Comitato e degli abitanti di Indastria è invece rivolta al recupero del transatlantico affondato, l’unico mezzo di trasporto sufficientemente grande da permettere l’evacuazione della città. Ma il tempo stringe, l’intensità dei sismi è in costante aumento.

#22. Il salvataggio

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epka, dopo aver esautorato il Comitato, ha intenzione di allagare i sotterranei di Indastria e tutto ciò che contengono, compresa la popolazione. Quando l’acqua comincia ad affluire, gli abitanti dei sotterranei si accalcano verso le uscite sbarrate, che lo spietato Direttore di Indastria non intende aprire se non dopo che gli sia stata consegnata Lana. Alla giovane non resta altra scelta che costituirsi “spontaneamente”. Intanto Conan, fuggito dalle torri e penetrato a sua volta nei sotterranei del Blocco Core, si ricongiunge con Jimsy e Deis.

#25. La fine di Indastria

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l Falco, reduce dall’abbordaggio in volo sul gigante, riesce a rientrare a Indastria nonostante i danni riportati. Al loro arrivo, Lana e Monsley vengono rassicurati da Rooke: il recupero della nave ha avuto pieno successo; non resta ora che organizzare le operazioni di imbarco e abbandonare la città. Conan, Jimsy e Deis, rimasti a bordo del Gigante, iniziano la loro opera di sabotaggio distruggendo tutto ciò che possono, senza farsi scrupolo di usare contro l’immenso aereo il fuoco dei suoi stessi cannoni. Durante la missione, Conan rimane diviso dagli amici...

Serie TV: Conan

#23. La Torre del Sole

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n bilico a un’altezza vertiginosa, su una passerella estroflessa da una delle torri, Lana assiste all’apertura dei sotterranei e al salvataggio degli abitanti del Blocco Core per merito di Deis, Monsley e Jimsy. Visto il mal partito, Lepka tenta di lasciare le torri a bordo della macchina volante, portando Lana con sé, ma l’intervento di Conan sventa l’ennesimo rapimento della giovane. Il dottor Rao, finalmente libero anch’egli, è ora nelle condizioni di poter cooperare con il Comitato per riattivare le strumentazioni di Indastria e predisporle alla produzione di energia solare.

#26. Un grande cerchio

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imsy e Deis, espulsi dal Gigante insieme a all’intera sezione di coda dell’aereo, e rimasti a galleggiare sul relitto in pieno oceano, vengono fortunosamente tratti in salvo dal transatlantico di Indastria, in navigazione verso Hyarbor. A bordo, i due possono ricongiungersi con Lana e Monsley e raccontare gli esiti della loro impresa, almeno fino al momento della loro separazione da Conan. Lana è in grossa pena per la sorte del ragazzo, rimasto ora solo sul Gigante ad affrontare Lepka e i suoi scagnozzi. Il momento della resa dei conti è ormai arrivato.

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Cinema

Cinema

ANIME

NAUSICAÄ DELLA VALLE DEL VENTO (Kaze no Tani no Naushika - H. Miyazaki, 1984) di Antonio Tripodi

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iconciliare gli uomini con un mondo in rovina e con sé stessi, trasformare un vicolo cieco in una via praticabile: compiti che possono essere assolti solo dall’eroe di un romanzo, da un individuo con la facoltà di trasformare la leggenda in storia. Nell’immaginario poetico di Hayao Miyazaki, l’eroe diventa un’eroina, i personaggi cardine sono prevalentemente femminili e la prova suprema di coraggio consiste nel rinunciare a combattere. Assieme a questi tratti caratteristici, la prima grande regia del celebre maestro giapponese reca impresso un altro inconfondibile marchio, ovvero i mezzi volanti che non smettono mai di rappresentare, anche quando usati come strumenti di distruzione, lo slancio e la tensione degli esseri umani verso il superamento dei propri limiti. Nonostante il famoso regista avesse già all’attivo, tra gli altri, capolavori come Conan, il ragazzo del futuro (1978) e Lupin III: il Castello di Cagliostro (1979), è Nausicaä della Valle del Vento, del 1984, il primo lungometraggio a dover essere considerato come totalmente suo, dal soggetto alla realizzazione finale. Disegnato e soprattutto animato in maniera superlativa, specie se si considera che il lavoro fu svolto negli anni Ottanta senza l’aiuto della grafica digitale (tra gli animatori figurano Kazuo Komatsubara – già al lavoro in Galaxy Express 999 e poi in Metropolis, per citare solo due titoli – nonché un giovanissimo Hideaki Anno), questo film contribuirà con il suo successo alla fondazione dell’ormai celebrato Studio Ghibli e, paradossalmente, alla messa da parte dell’omonimo manga da cui era stato tratto: l’attività registica di Miyazaki infatti diventerà sempre più rilevante, tanto che il suo

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Cinema: Nausicaä della Valle del Vento


ANIME

Scheda

Titolo originale: “Kaze no Tani no Naushika” 風の谷のナウシカ Prima uscita: 11 marzo 1984 Durata: 116 minuti

Masahiro Maeda, Takayo Mizutani, Kazuhisa Nagai, Yoshiko Nakamura, Kiyoko Saitou, Daijirou Sakamoto, Taira Sameki, Yoshiko Sasaki, Sachiko Tada, Yumiko Taguchi, Yukie Takahashi, Yasushi Tanizawa, Yukari WataDall’omonimo manga di Hayao Miyazaki nabe, Junko Yano Regia: Hayao Miyazaki Fondali: Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Kazuo Ebisawa, Kazuhiro Kishita, Kuniko Storyboard: Hayao Nishimura, Toshirou Nozaki, Masaki YoshiDirezione artistica: Mitsuyoshi Nakamura zama, Studio Bikku, Design Office Mekaman, Direzione animazioni: Kazuo Komatsubara Tatsuo Aoki, Kaoru Chiba, Tatsuo Imamura, Animazioni chiave: Kazuo Ogata, Tokue Okazaki, Satoshi MiuHideaki Anno, Tadashi Fukuda, Shouetsu chi, Hiroko Murai, Kimiko Shimono, Tetsuto Hane, Takanori Hayashi, Junko Ikeda, MeShimono, Yuuko Sugiyama, Miyoshi/Yoshimi gumi Kagawa, Yoshinori Kanada, Kazuyuki Takanami, Yoshiko Togashi, Kobayashi, Shuuichi Kohara, Kitarou Kousaka, Noriko Takaya (Harmony Shori) Osamu Nabeshima, Takashi Nakamura, Youi- Design colori: Fukuo Suzuki, Michiyo Yasuda chi Odabe, Toshitsugu Saida, Noboru Takano, Direzione suono: Shigeharu Shiba Tsukasa Tannai, Shouji Tomiyama, Takashi Effetti speciali: Noriyoshi Oohira, Watabe, Tadakatsu Yoshida Kazutoshi Satou Assistenti animazione chiave: Musiche: Joe Hisaishi Masahiro Yoshida, Tomohiko Ohkubo La canzone: “Kaze no Tani no Naushika” Fotografia: Kouji Shiragami, Yasuhiro Shicantata da Narumi Yasuda mizu, Yukiasa Shutou, Mamoru Sugiura testo di Takashi Matsumoto Montaggio: Naoki Kaneko, Tomoko Kida, musica di Haruomi Hosono Shouji Sakai Controllo animazioni: Progetto: “Nausicaä of the Valley of Wind” Planning Committee, Hideo Ogata, Atsuji OkuTadashi Ozawa, Hideo Hiratsuka moto, Hiroshi Morie, Tatsumi Yamashita Intercalazione animazioni: Taidou Hanafusa, Umanosuke Iida, Kazuhiro Produttore: Isao Takahata Ikeda, Hiroshi/Kouji Iwai, Masako Kondou, Produzione: Top Craft fumetto (iniziato nel 1982) non sarà completato che dopo 12 anni. Anche per questo, Nausicaä è una di quelle opere che, passate agli annali dell’animazione, sono entrate a far parte a pieno titolo dell’immaginario giapponese. Spesso considerato alla stregua di un pamphlet ecologista, il film sintetizza in realtà svariati elementi (temi, organizzazione, stile) ricorrenti nelle successive opere del regista: basti citare il celebre La Principessa Mononoke (1997), che può essere visto in prima approssimazione come una ricollocazione fantasy di questa vicenda, basata però su una struttura narrativa più complessa e su dinamiche meno scontate. La rappresentazione del futuro postatomico, in Nausicaä, esula dalle coordinate entro cui vengono più spesso ambientate storie di questo tipo; infatti l’approccio di Miyazaki alla Fantascienza è del tutto pecu-

liare e non si basa né sulla colonizzazione di altri pianeti né sui classici scenari postcatastrofe (come quelli di Hokuto no Ken, anch’esso datato 1984) – semmai siamo in un mondo che somiglia a quello di Dune –, ma pone anzi la sopravvivenza sulla Terra (e della Terra) come tema portante. Senza parlare di viaggi interplanetari, nemmeno popolare il cielo con dirigibili e città aeree si rivelerà una scelta percorribile dalla futura umanità, nell’ottica del nostro regista. Da qui derivano gli elementi che, di volta in volta, sono stati interpretati più o meno liberamente in chiave strettamente ecologista: ricondurre il rapporto dell’uomo con il cosmo al rapporto con la Terra (fino a intendere quest’ultima in senso ancora più circoscritto, come “terreno”). La chiave di lettura ecologista rimane, a ogni modo, piuttosto differente da quella a cui il

Cinema: Nausicaä della Valle del Vento

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Cinema ANIME

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Per prelevare campioni e completare i suoi studi sulle piante tossiche, Nausicaä si inoltra spesso all’interno della Giungla... ...dove recupera anche preziosa “materia prima” per attrezzi e veicoli... ...e dove talvolta le capita d’imbattersi in creature non proprio amichevoli. Nausicaä rivede dopo molto tempo Yupa.

La Giungla Tossica

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pubblico occidentale è più abituato: Nausicaä e Mononoke non parlano dello sfruttamento razionale e tecnologicamente pulito del pianeta, ma del recupero di una relazione intima e di stampo panteista con la natura, secondo una sensibilità squisitamente orientale. L’ambientazione si situa a metà strada tra il dramma fantascientifico postapocalittico e l’epopea leggendaria di sapore più fantastico. A questo connubio conferiscono maggior forza espressiva una serie di accostamenti che si riveleranno seminali per anni di animazione a venire (titoli recenti come Last Exile, del 2003, mostrano tutta l’influenza di questo film): soldati in elmo e corazza alla guida di carri armati o gigantesche aeronavi, futuristici alianti a reazione che convivono con mulini a vento di antica foggia, miti trasmessi oralmente e armi di distruzione di massa dalla potenza inconcepibile; il tutto amalgamato senza eccessive forzature in un insieme che si fonda proprio sull’opposizione dei poli. La colonna sonora del lungometraggio reca la firma – come sarà poi per altre produzioni targate Studio Ghibli – del compositore Joe Hisaishi (autore delle musiche di vari film di Takeshi Kitano). I temi musicali si basano su una contaminazione delle sonorità ottenuta mescolando strumenti classici ed elettronici. Gli effetti e le percussioni sintetiche dominano ad esempio tracce come “Ohmu no Bousou” (la fuga degli Ohmu) in chiave esuberante, e “Kushana no Shinryaku” (l’invasione di Kushana) con un’atmosfera più cupa; mentre in pezzi come “Sentou” (battaglia) e “Pejite no Zenmetsu” (l’annientamento di Pejite) il passaggio tra sonorità diverse è sostituito o affiancato dal succedersi di differenti ritmiche e melodie. I pezzi più belli rimangono comunque la title-track, che commenta in maniera superba e maestosa i titoli di testa così come vari passaggi del film, “Kukai Nite” (nel mare della corruzione), sognante fusione tra ritmo elettronico e cori evanescenti, “Nausicaä - Requiem”, che riprende nell’incipit la “Sarabande” di G.F. Handel, e il suggestivo tema finale “Tori no Hito” (uomo uccello). Come purtroppo ancora oggi accade, alla sua importazione in Occidente il film dovette subire manipolazioni semplicemente contrarie al buon senso (prima ancora che al rispetto delle opere in sé): a ogni modo, per una volta, la versione italiana poté vantare una maggiore fedeltà all’originale rispetto alla mutilata e stravolta prima edizione americana (negli USA si è resa necessaria una seconda edizione nel 2005, visto che l’opera in quanto tale è stata accessibile per anni solo attraverso sottotitoli più o meno artigianali). Pur con tutte le arbitrarietà presenti nella traduzione, l’adattamento RAI dei dialoghi si mantiene in carreggiata, e i nomi propri sono rimasti inalterati. Resta tuttavia il fatto che dal lontano 1984, con i diritti internazionali acquistati dalla Buena Vista, questo capolavoro non è ancora disponibile in DVD nella nostra lingua. Dato che il primo doppiaggio RAI, per quanto filologicamente scorretto, rappresenta tuttora la versione italiana più facilmente reperibile, i nomi qui

Cinema: Nausicaä della Valle del Vento


ANIME citati sono quelli a esso relativi, anche in casi appunto discussi e discutibili (“giungla tossica”, “soldato invincibile”…). Trama Mille anni dopo che la civiltà moderna è stata spazzata via da terribili guerre fratricide, la Terra è un pianeta inospitale invaso da piante che saturano l’aria di vapori tossici. Nella Valle del Vento, grazie alle correnti d’aria che sempre l’attraversano, i pacifici sudditi del re Jihl e della giovane principessa Nausicaä possono vivere senza maschere antigas e senza dover combattere quotidianamente con i giganteschi insetti che popolano la giungla. Il resto del mondo invece è in lotta, e l’oggetto del contendere è l’antica potenza distruttiva ancora viva dentro al guscio di un mostruoso Soldato Invincibile, la macchina bellica a forma umana con cui il mondo è stato distrutto. Per il potente regno di Tolmekia e la sua ambiziosa principessa Kushana, controllare questo mastodontico dio guerriero equivarrebbe a dominare il pianeta. Quando, in seguito allo schianto di un’aeronave da guerra, anche la prospera quiete della Valle viene interrotta, la giovane Nausicaä trova il coraggio di caricarsi sulle spalle non solo il destino del suo popolo, ma dell’umanità e del mondo interi. Da una parte le piante velenose, dall’altra il fuoco distruttore; gli animali della giungla contro il Soldato Invincibile, la prudenza della decana della Valle opposta all’ambizione di Kushana, la volontà di riconciliare che sfida quella di combattere: la vicenda è tutta costruita sul contrasto e la conciliazione di visioni opposte, sul prevalere del senso pratico e della convivenza pacifica nei confronti della violenza cieca e autodistruttiva.

La Valle del Vento 1. 2. 3. 4.

La Valle del Vento è un paradiso verde, accudito costantemente per evitare il propagarsi delle spore velenose. Nausicaä e Mito sul tetto di un mulino. Lord Yupa racconta i dettagli del suo lungo viaggio al malato re Jihl, padre di Nausicaä. Nausicaä e la saggia Gran Dama partecipano al colloquio.

La Valle del Vento e la Giungla Tossica La Valle è, con i suoi dintorni, il teatro d’azione di quasi tutta la vicenda e il posto fisico d’incontro e scontro tra i diversi elementi; essa ha, fin dall’inizio, il compito di localizzare l’epopea della nuova umanità (la maggior parte del film mantiene un’unità di luogo che non sarebbe, altrimenti, altrettanto significativa), costituendo infatti l’unico angolo pacifico e relativamente prospero rimasto sulla Terra. All’opposto, la foresta delle piante velenose è preclusa agli umani, i quali non le si possono nemmeno avvicinare senza indossare maschere antigas; è uno spazio in continua espansione che minaccia di inghiottire tutto il pianeta, sottraendolo agli uomini. In mezzo sta il deserto, creato dalla distruzione violenta del mondo durante la guerra, rievocata dagli imponenti fossili dei Soldati Invincibili che furono lo strumento del cataclisma. Si potrebbe paragonare la Valle a una specie di “Utopia”, ma non in senso statico: il costume di vita dei suoi abitanti contiene, fin dall’inizio, la soluzione al dramma (passato e presente) di un’umanità in lotta con sé stessa e con il mondo. Il segreto deve

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Cinema ANIME

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Nottetempo giunge dal cielo uno dei velivoli giganti del Regno di Tolmekia. Nausicaä decolla con la sua ala volante, e scopre che l’aereo è in difficoltà, la carlinga ricoperta di mostri-insetto della Giungla. Nell’inevitabile schianto muore anche Lastel, principessa di Pejite. Nausicaä riesce a comunicare con gli insetti.

Lo schianto

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però essere scoperto in modo consapevole e responsabile; senza questo passo, senza il necessario travaglio, la Valle dei primi minuti è una mitica Arcadia che basta solo a sé stessa, un’oasi di serenità che non ha importanza nel contesto della Terra intera, e la promessa di pace per gli uomini rimane un mito che non può ancora tradursi in realtà. Per chiarire questa situazione è sufficiente lo scorrere dei titoli di testa, con le immagini dell’antica catastrofe, dello stato di vita attuale e della mitologica Terra Promessa, istoriate negli arazzi che ornano la stanza di re Jihl; una sintesi di ciò che rappresenta la Valle prima che la sua storia si intrecci con quella degli altri regni, anzi un vero e proprio condensato “a fumetti” della parte più fantastica e fiabesca dell’intero film. Affinché la Terra intera possa convertirsi in una serena Valle del Vento, quest’ultima deve sopportare il passaggio di una guerra, essere sottomessa e rischiare la fine; deve essere il luogo in cui la storia del mondo si ripete in piccolo, tragicamente uguale a sé stessa fino all’epilogo liberatorio. L’Utopia circoscritta e isolata del paese di Nausicaä si estende a dismisura a metà del lungometraggio, quando viene svelato che il segreto della Valle è in realtà il segreto della giungla. Di fatto, la giungla diventa anch’essa una terra promessa, e le differenze con gli spazi dell’uomo vengono a cadere. Il suolo in profondità è puro, tanto che le piante tossiche vi crescono senza emettere veleni; i resti fossili della foresta stanno in realtà pulendo dalla contaminazione il terreno soprastante. L’espansione inesorabile della giungla vede così ribaltato il proprio significato, da minaccia a speranza, dal momento che il suolo può essere recuperato solo se viene invaso dalle piante e quindi, in prima battuta, perduto. Questa ambivalenza rimane sostanzialmente irriducibile e piuttosto problematica, e deve essere necessariamente inquadrata nel contesto generale del film: esso infatti è tutto improntato al rovesciamento dei tradizionali schemi di appartenenza e lotta per l’affermazione, in favore di una visione di riconciliazione e convivenza, a sua volta un po’ stereotipata ma rappresentata senza eccessivi buonismi e banalità. Più coerente sarebbe forse stata la soluzione proposta nelle fasi iniziali, quando Nausicaä confida a Yupa (un avventuriero solitario vecchio amico del re suo padre) l’intento di estrarre vari principi medicinali dalle piante trapiantate nella sua serra sotterranea: in questo modo il ruolo di recupero e di aiuto svolto dalla giungla in favore degli uomini sarebbe stato più chiaro e più immediato, ma purtroppo questo resterà uno spunto senza sviluppi. Nausicaä e gli altri personaggi La protagonista appare subito come un personaggio speciale. L’intraprendenza, l’abilità nel “cavalcare il vento”, l’amore per la propria gente e il rispetto verso la giungla e le sue creature la rendono in grado di superare le barriere che segnano profondamente un mondo nato dalla guerra e dalla distruzione, e

Cinema: Nausicaä della Valle del Vento


ANIME che in quanto tale non poteva sopravvivere senza il peso di questa triste eredità. La ragazza inoltre è già a conoscenza della vera natura delle piante tossiche (che si rivelano innocue se trapiantate in un terreno pulito) e ha quindi in mano gli strumenti per valutare obiettivamente lo stato del suo mondo e dei conflitti che lo attraversano. Seguendo lo stesso processo per cui la piccola Valle arriva a rappresentare l’intero il pianeta, anche Nausicaä deve affrontare un cambiamento che la porterà ad agire nel nome di tutti. Quando re Jihl viene ucciso dai Tolmekiani, lasciando alla ragazza la responsabilità di guidare il suo popolo proprio nel momento in cui finisce sottomesso, Nausicaä viene presa in ostaggio e privata della libertà, quasi a ribadire che la soluzione dei drammi e dei problemi del mondo non sta nella forza opposta alla forza, bensì nella capacità di agire in modo positivo e costruttivo adattandosi alle circostanze. Nausicaä è anche la protagonista di un mito. La profezia tramandata dalla veneranda Gran Dama della Valle la identifica come il tanto atteso liberatore “vestito di azzurro”, immedesimazione che troverà compimento nel finale. Questa duplice attestazione non è però una banale ripetizione, a conferma del fatto che la speranza si è trasformata in realtà: basti notare che, nonostante appaia sempre vestita in azzurro, durante il trionfo finale Nausicaä indossa un vestito donatole dalle donne di Pejite, Paese che aveva tentato di accaparrarsi il Soldato Invincibile e di distruggere la Valle del Vento, come a sancire l’universalità della missione e della riconciliazione portate dalla ragazza. Attorno alla protagonista ruotano come satelliti svariati personaggi che non possono fare a meno di subire il fascino e il carisma della giovane eroina, sebbene ciascuno in diversa misura. Una delle cose che traspare con più evidenza da questo insieme di comprimari è il ruolo sostanzialmente passivo o negativo ricoperto dai personaggi maschili (soltanto Yupa compie spontaneamente un’azione decisiva, interrompendo lo scontro tra Nausicaä e i Tolmekiani, per poi rientrare subito nei ranghi), sempre costretti a inseguire gli eventi che le donne, invece, cavalcano con audacia. Questo contrasto è esemplificato ed estremizzato nella netta divisione del popolo di Pejite: gli uomini sono il “partito della guerra”, pronti a sacrificare sé stessi, la loro capitale e la Valle del Vento pur di vendicarsi dei nemici Tolmekiani in una sterile spirale di violenza, mentre le donne agiscono con senso pratico, comprensione e solidarietà, spinte dalla speranza di ricostruire un futuro. Da una parte stanno le donne della Valle (l’anziana Gran Dama e la giovane Nausicaä): le due incarnano l’evoluzione, sia generazionale che simbolica, di una salvezza intesa come credo atemporale, segreto, non compreso fino in fondo, che diventa infine una conoscenza reale e attualizzata. Dall’altra parte sta l’altera Kushana, scortata dal potere della tecnica e non più completamente umana, che minaccia di fare rivivere la metà oscura

L’attacco di Kushana 1. 2. 3. 4.

Sulle tracce del velivolo precipitato, la flotta aerea di Tolmekia assalta senza alcun preavviso la Valle del Vento. Il raid è condotto con brutalità; Jihl tenta di opporre resistenza, ma viene sopraffatto e ucciso. La reazione di Nausicaä è furiosa... ...ma i nemici comandati dalla principessa Kushana sono troppi e agguerriti.

Cinema: Nausicaä della Valle del Vento

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Cinema ANIME

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Gli enormi aerei di Tolmekia vengono abbattuti da un misterioso incursore. Nausicaä e Kushana si ritrovano nel nido dei mostri-tarlo. Nausicaä salva provvidenzialmente dall’attacco di un insetto gigante il pilota del velivolo incursore: è Asbel di Pejite. La Giunga nasconde meraviglie inaspettate.

Incontro con Asbel

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della leggenda del passato. Attorno a loro si affollano gli aiutanti maschili, leali e laboriosi nel primo caso, codardi e arroganti nel secondo. In una storia continuamente tesa alla riconciliazione di tutto e tutti (miti e realtà, uomini e natura, fazioni avverse), non poteva comunque mancare anche un incontro positivo tra i due sessi… Come di consueto per le opere di Miyazaki, l’aspetto romantico è estromesso o retrocesso in secondo piano, sostituito piuttosto da una prova di solidarietà, di mutua comprensione. In questo caso, poi, non si ha nemmeno un vero piano di parità tra lui e lei, né un rapporto reciprocamente costruttivo, perché il giovane Asbel di Pejite (pilota che attacca il convoglio su cui la protagonista è prigioniera, ritrovandosi con lei nella foresta) serve a dimostrare, sostanzialmente, che anche un maschietto è dotato di sufficiente cervello per deporre le armi e convincersi che Nausicaä ha ragione. Sta di fatto che, in una storia costruita su azioni non proprio allegoriche ma comunque esemplari, anche i personaggi devono aderire ai loro ruoli in modo schematico. La compressione in due sole ore (per quanto dense e magistralmente eseguite) di questa parabola di redenzione ha un costo, ovvero la messa da parte del romanzo di formazione, ricorrente invece in altre opere del regista come importantissimo filone a sé stante. La stessa Nausicaä deve affrontare una sola prova e, per quanto cruciale, ne assimila l’insegnamento all’istante, senza ripensamenti né indecisioni. Gli altri personaggi vantano un grado di approfondimento ancora minore, se non proprio inesistente. Ogni volto, insomma, è come la tessera di un mosaico, ognuna col proprio colore: l’insieme risulta complesso e variegato ma i singoli tasselli sono piatti, monocordi e sempre uguali a sé stessi. La sostanziale unità di questa policromia, la colla dell’insieme, è fornita dalla sola Nausicaä in modo tanto accentuato che non sarebbe fuori luogo parlare di un soggetto biografico. L’impostazione bipolare della trama è esemplificata molto bene nella scena del passaggio di Nausicaä e della sua gente nella giungla tossica; qui infatti i ruoli dei personaggi vengono collegati strettamente ai loro atteggiamenti nei confronti della natura, amalgamando quindi persone e ambienti (mondo umano e foresta) in modo organico. L’antefatto è già di per sé carico di significato: la principessa della Valle è in grado di provare compassione e solidarietà per i suoi nemici (fino a salvare la vita a Kushana), mentre questi ultimi non comprendono la portata delle sfide che li attendono ma, anzi, pretendono di garantirsi la sopravvivenza mediante la ricerca di un sempre maggiore potere distruttivo. Nausicaä si rivela però in grado di impartire ordini perfino all’altezzosa Kushana, ricorrendo solo alla sua capacità di persuasione: dalla volontà di aiutare gli altri deriva, in ultima analisi, l’ascendente che Nausicaä esercita. La chiave di questa prova è, per l’appunto, il rapporto con la giungla:

Cinema: Nausicaä della Valle del Vento


ANIME quando, persuasi dal carisma della protagonista, anche Kushana e gli uomini della Valle ne adottano la filosofia, vedono aprirsi una possibilità di salvezza: la prima deve accettare di deporre le armi e di rinunciare a imporre la sua volontà con la forza; i secondi devono convincersi a transitare per quel territorio, mentre la loro miopia li porterebbe a schiantarsi pur di evitare la foresta e di conservare i loro averi (altro esempio dei ruoli maschili tipici del film). Nel regno della giungla, insomma, c’è posto solo per le scelte libere e consapevoli, non per le pretese di dominio o i gesti sconsiderati; l’unica ospite gradita è dunque la solita Nausicaä, la cui abilità nell’uscire viva dalla foresta le deriva dalla comprensione profonda dei misteri nascosti in essa, carpiti grazie a un atteggiamento libero e rispettoso che si situa all’apice di questa gamma di approcci verso la foresta. Il percorso della giovane principessa, quindi, si completa: nella scena iniziale anch’ella entra nella giungla armata e con la maschera antigas, per quanto le sue intenzioni siano pacifiche; ora invece le armi vengono deposte e fatte deporre, Nausicaä comincia a togliersi la maschera per un breve istante (gesto che salva i suoi sudditi e, coerentemente con le dinamiche inquadrate sopra, la espone indifesa alle leggi della natura), finché si accorge che può respirare liberamente nel sancta sanctorum della foresta. Nello stesso momento in cui la protagonista si spoglia di tutte le barriere frapposte tra sé e la natura, l’ostilità – e la tossicità – della giungla cade (simbolicamente, perfino gli insetti accettano la ragazza nel loro stagno), e anche la separazione tra gli spazi si fa labile, poiché la vasta grotta appena scoperta si svela sorprendentemente simile alla rigogliosa serra custodita nei sotterranei del castello nella Valle del Vento.

La battaglia 1. 2.

3. 4.

La guerra tra Pejite e Tolmekia raggiunge l’apice, coinvolgendo anche la Valle. La principessa Kushana decide di utilizzare contro i mostri-tarlo un “Soldato Invincibile”, una delle terribili armi nucleari che in passato devastarono il mondo. Ma la capacità di Nausicaä di comunicare con le creature della Giungla Tossica... ...scongiurerà una nuova catastrofe.

Mostri e macchine Come cercando un posto vitale al di sopra del suolo ormai compromesso e perduto, gli uomini che popolano l’ipotetico futuro di Nausicaä della Valle del Vento fanno dell’aria lo spazio privilegiato per muoversi e incontrarsi (e scontrarsi). Singolarmente, per tutto il film non si vede un solo mezzo di trasporto terrestre (fatta eccezione per le cavalcature di Yupa), mentre il cielo è letteralmente invaso da velivoli di ogni genere: mezzi da guerra di varie dimensioni (dal monoposto di Asbel, al biposto da guerra della Valle del Vento, alle grandi aeronavi Tolmekiane), navi-cargo, alianti e perfino un piccolo pallone aerostatico. Sradicati e alienati dal terreno che calpestano, gli uomini trasportano nell’aria vizi e virtù, sogni di libertà (le leggiadre “ali” – cioè alianti – della Valle del Vento) e ambizioni di dominio (gli imponenti dirigibili armati di Tolmekia). Inutile dire che il percorso tracciato da Nausicaä li ricondurrà con i piedi per terra, anzi sottoterra, dal momento che per scoprire la vera natura della giungla la protagonista non farà altro che precipitare, con il suo monoposto, dall’alto del cielo a un cunicolo sotterraneo. Messaggio, questo, che verrà sviscerato e ribadito compiutamente a breve distanza in Laputa, il Castello del Cielo (1986), come se Miyazaki stesso si mostrasse sospeso tra una sostanziale “fedel-

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Cinema ANIME tà alla terra” e un’inguaribile nostalgia di romantiche ascese. D’altro canto Nausicaä, che danza nel cielo per puro gusto di avventura, è anche l’unica a comprendere i misteri della Terra, mentre per gli uomini che invadono l’aria con pretese di possesso, il suolo è il luogo di un’esistenza conflittuale: non è altro che la sete di potere dei Tolmekiani, incarnata nel Soldato Invincibile, a costituire la zavorra che schianta a terra una loro nave nei pressi della Valle del Vento. Mentre gli uomini sono tra le nuvole, la Terra brulica di mostri, ovvero gli insetti giganti della giungla (“mostro-tarli” nell’adattamento RAI, ma piuttosto un richiamo diretto al Verme di Dune), gelosi custodi della foresta e della sua funzione rigeneratrice: è in parallelo alle piante che i gusci fossili degli insetti vengono in aiuto degli umani, rifornendoli di ottimo materiale. Questi misteriosi animali hanno l’ulteriore compito di rappresentare la coscienza e la volontà attiva dell’ambiente naturale. Infatti è con essi che Nausicaä dialoga, da pari a pari, per tutto il film ma in particolare nel momento della prova finale, ottenendo di essere riconosciuta come portavoce di una nuova e costruttiva volontà umana. La prima attestazione di questo suo ruolo avviene verso la metà del lungometraggio, quando la principessa ottiene dagli insetti guardiani il permesso di sostare nella loro tana, poiché è animata da rette intenzioni e non pretende, a differenza di Kushana, di ricondurre gli altri uomini e gli altri ambienti sotto il proprio comando. Di fronte agli insetti sta l’aberrazione partorita dalla civiltà, ovvero il Soldato Invincibile. Il riferimento alle armi “termonucleari” di cui è dotato il mostro è più che altro incidentale e sostanzialmente gratuito, dal momento che sia l’epoca della distruzione del mondo sia l’epoca di Nausicaä si situano in un futuro imprecisato, e il Soldato stesso ricopre piuttosto il ruolo di un deus ex machina degli arsenali. La sua potenza di fuoco è semplicemente fantascientifica (o fantastica, a seconda di quale visione si voglia privilegiare nell’accostarsi a quest’opera), e prorompe in modo tecnicamente ignoto ma esteticamente efficace. Il Soldato è il simbolo del potere di distruggere, indipendentemente dal mezzo impiegato: è l’idea stessa di annientamento, che si concretizza quando invocata da una volontà umana tenacemente rivolta a percorrere la strada del conflitto. Commento Il finale del film è impostato in modo da risolve-

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re coerentemente tutti i temi proposti, sviluppando un discreto grado di tensione: a tratti esageratamente melodrammatiche, le ultime scene pongono comunque il sigillo a un’opera di ampio respiro, a cui le inevitabili semplificazioni non impediscono di rimanere tuttora un punto di riferimento imprescindibile. I personaggi convergono verso la Valle del Vento (Tolmekiani, gente di Pejite, gli insetti e il Soldato Invincibile), tutti radunati nel luogo designato per lo svolgimento di un’altra Apocalisse, sia che essa si risolva nell’inferno di fiamme del dio guerriero o nella terra promessa degli arazzi di Jihl. In quel momento tutto il mondo diventa la Valle del Vento, e viceversa: la scelta tra i due destini e la vittoria dell’Utopia della Valle assumono quindi una portata globale. La simbologia adottata, da fine del mondo e giudizio universale, è utilissima a rafforzare il ruolo mitico di Nausicaä e l’idea di una realtà nuova, che trascenderà in breve quella vecchia. In secondo luogo, proprio il compito che Nausicaä ha assunto viene palesato e concretizzato su una scala molto più ampia che in precedenza (durante il suo passaggio nella tana degli insetti): da sola di fronte a un intero sciame di mostri, presa nel mezzo di una triplice contesa umana, la ragazza diventa l’ago della bilancia sulla quale viene pesata l’umanità intera. Superata la prova con l’aiuto delle donne di Pejite (simbolo collettivo dei valori positivi descritti nel film), gli insetti giganti le concedono un ulteriore e trionfale riconoscimento. La contesa tra la potenza distruttiva del Soldato Invincibile e i mostri della giungla si risolve con il disfacimento del primo, che segna la fine delle ambizioni di Kushana e rimarca l’assurdità e la tragica contraddizione della volontà di potenza, destinata a implodere, sconfitta nel momento stesso in cui tenta di imporsi. Nello scontro tra le forze distruttive della natura e della civiltà, le prime si arrestano di fronte al cessato pericolo, mentre le seconde possono soltanto percorrere la strada dell’annientamento; viceversa quanto c’è di buono e di creativo negli uomini e nel Pianeta può incontrarsi, combinarsi ed esaltarsi. E non è un caso che, se esiste nella vicenda un altro catalizzatore degli eventi a parte Nausicaä, esso è proprio il mostruoso dio guerriero: il possesso di quest’arma è il motivo della guerra tra Tolmekia e Pejite e del conseguente coinvolgimento della Valle. La storia di Nausicaä, dalla Valle alla giungla tossica, si confronta quindi direttamente con l’incarnazione suprema dello sterminio di massa, conferendo ai fatti un orizzonte temporale e tematico universale.

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ANIME Nausicaä L’indomita e amata principessa della Valle del Vento; studia con passione la Giungla Tossica per trovare un rimedio ai suoi miasmi velenosi. Principessa Kushana Sovrana della bellicosa Tolmekia, attacca il Regno di Pejite per recuperare il “soldato invincibile”, una mostruosa arma biomeccanica. Asbel Principe reale di Pejite; coraggioso ma avventato, non esita ad attaccare, a bordo di un piccolo velivolo, la flotta aerea di Tolmekia.

Lord Yupa Milaga Viaggiatore e formidabile spadaccino, è un grande amico di re Jihl e una figura di assoluto riferimento per la giovane Nausicaä. Mito Uno degli uomini più fidati e coraggiosi al servizio di re Jihl e di Nausicaä. La sua devozione per la giovane principessa della Valle è totale. Gran Dama Saggia e di età veneranda, depositaria della storia del conflitto che ridusse in ginocchio il mondo, assume il ruolo di consigliere di re Jihl.

Generale Krotowa Il braccio destro di Kushana e suo secondo in comando. La sua ambizione lo rende più interessato alla carriera che alle sorti del mondo. Regina di Pejite È la madre di Asbel e Lastel. Sarà lei a propiziare la fuga di Nausicaä quando la principessa verrà catturata dall’esercito di Pejite. Comandante di Pejite È il militare di Pejite che ordina sconsideratamente di attaccare i Tolmekiani nella Valle del Vento per mezzo degli insetti giganti. In questo, in effetti, sta il carattere un po’ estremista della vicenda: sebbene esistano, tra gli opposti rappresentati da Nausicaä e dal Soldato, varie gradazioni, queste non ricevono praticamente alcuna attenzione da parte della regia e della sceneggiatura, o vengono comunque appiattite sull’uno o l’altro polo dal precipitare degli eventi. La ricerca incarnata da Yupa e da Nausicaä e perfino da Kushana (che però, accecata dall’ambizione, segue la strada sbagliata) è quella di un nuovo punto di equilibrio nel conflitto tra l’uomo e la sua realtà, tra l’uomo e sé stesso. Per quanto calati in un contesto fantascientifico e postnucleare, i riferimenti alle problematiche globali

Gol Anche lui è un devoto servitore di Nausicaä, che lo trarrà in salvo da una brutta situazione in occasione del raid aereo condotto da Asbel. Lastel Principessa di Pejite e gemella di Asbel. Catturata dai Tolmekiani, perde la vita quando l’aereo che la trasporta precipita nella Valle del Vento. Re Jihl Il padre di Nausicaä, re della Valle del Vento. Le sue condizioni di salute non sono buone a causa dei veleni prodotti dalla Giungla Tossica. del tempo presente sono del tutto evidenti; ma il carattere fortemente allegorico della storia, insieme alla sostanziale mancanza di personalità credibili o sufficientemente sviluppate, sposta in qualche modo il baricentro dell’opera verso una saga leggendaria, a suo modo slegata da un qualsiasi contesto reale. Ciò che viene riproposto, in sostanza, è il problema di fondo di un’umanità “costretta” a vivere (e convivere) su un pianeta che non è un oggetto inerte e incondizionatamente ospitale. Non si forniscono ricette né formule magiche, né tanto meno mitiche salvatrici vestite d’azzurro, discendenti dal cielo avvolte in un’aura dorata. n Antonio Tripodi

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Serie TV

Serie TV

ANIME

KEN IL GUERRIERO (1° serie)

(Hokuto no Ken - T. Ashida, 1984) di Stefano Baccolini

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en il Guerriero (Hokuto no Ken) nasce come manga nel 1983, frutto del lavoro di due giovani autori, Tetsuo Hara e Buronson (pseudonimo di Yoshiyuki Okamura); nel 1984 diventa un anime e ottiene un successo incredibile sia in Giappone che all’estero. La serie consta di ben 109 episodi (comprese alcune puntate riassuntive che dovrebbero contribuire a dipanare la trama), a cui poi si sommeranno i 43 del sequel Hokuto no Ken 2. In Italia sbarca per la prima volta alla fine degli anni Ottanta, colpendo la fantasia del pubblico adolescente per la sua violenza (sebbene più accentuata nel manga) e per la cura delle immagini, ben diverse dalla semplicistica stilizzazione presente in alcune serie del Sol Levante. La vicenda racconta di un mondo devastato dalle bombe atomiche, dominato dalla violenza e dall’anarchia, pieno di bande di scorridori dedite al saccheggio, interpretando in tal modo quella paura del nucleare così pressante negli anni della guerra fredda. In questo contesto, in cui la civiltà con le sue regole è venuta meno e vige solo la legge del più forte, alcuni uomini dotati di poteri fuori del comune diventano protagonisti. L’ambientazione fa naturalmente da sfondo alle tematiche classiche dell’animazione giapponese: l’ossessiva ricerca della giustizia, la lealtà, l’amicizia e il rispetto per i più deboli. La narrazione prende avvio dal rapimento della giovane Julia da parte di Shin, fraterno amico del fidanzato della ragazza, il protagonista Kenshiro. Ken e Shin sono cultori rispettivamente di Hokuto e di Nanto, ossia le principali discipline marziali di questo mondo tormentato. I seguaci delle due Scuole – guerrieri resi invincibili da tecniche di combattimento estreme – si disputano il potere spesso alla testa di veri e propri eserciti. Ken, in prima battuta, viene sconfitto e umiliato dall’ex amico, che gli infigge,

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ANIME

Dall’omonimo manga di Buronson e Tetsuo Hara Regia generale: Toyoo Ashida Regia episodi: Toyoo Ashida, Masahisa Ishida, Ichiro Itano, Shigenori Kageyama, Renji Kawabata, Tomoharu Katsumata, Hiromichi Matano, Atsutoshi Umezawa, Miwako Watanabe Script: Toshiki Inoue, Yuho Hanazono, Yukiyoshi Ohashi, Hiroshi Toda, Tokio Tsuchiya, Shozo Uehara Sceneggiatura: Toyoo Ashida Character design: Masami Suda Design artistico: Mitsuki Nakamura Direzione animazione: Hironobu Saito, Ichiro Itano, Takuya Wada Direzione fotografia: Sadafumi Sano Direzione audio: Kanji Fukunaga Direzione registrazioni: Teneyoshi Imazeki Musiche: Nozomi Aoki

Sigle: “Ai wo Torimodose” (1° apertura) cantata da Crystal King testo di Kimiharu Nakamura musica di Michio Yamashita arrangiamenti di Michio Yamashita, Hiromoto Tobisawa “Yuria... Towa ni” (1° chiusura) cantata da Crystal King testo di Hidetoshi Nomoto, Masayuki Kanaka musica di Hiromi Imakiire arrangiamenti di Hiromi Imakiire, Hiromoto Tobisawa

Scheda

Titolo originale: “Hokuto no Ken”, 北斗の拳 Prima trasmissione: su Fuji TV, dal 4 ottobre 1984 al 6 marzo 1987

“Silent Survivor” (2° apertura) “Dry your tears” (2° chiusura) cantate da Kodomo Band musiche di Tsuyoshi Ujiki Animazione: Toei Animation Produttori: Yoshinobu Nakaya, Tadashi Oka, Yoshio Takami Produzione: Shueisha, Toei Animation

come segno di spregio, sette ferite sul petto che riproducono la costellazione dell’Orsa Maggiore, il simbolo della Scuola di Hokuto. Profondamente cambiato, indurito da questa esperienza traumatica, il ragazzo partirà alla ricerca del rivale per liberare la fidanzata, affiancato nell’impresa da due ragazzini, tipica captatio benevolentiae nei confronti del pubblico minorenne: l’ingegnoso e divertente Bart e la dolce Lynn. La faida contro Shin, che si concluderà con la sconfitta di quest’ultimo, rappresenta il primo capitolo dell’anime, una parentesi resa molto più ampia rispetto al manga con l’inserimento di una moltitudine di personaggi secondari, tutti famigli del guerriero di Nanto. Seguirà il vero scontro destinato a caratterizzare l’intera serie, quello innescato dalla rivalità tra i fratelli Ken, Raoul e Toki, adottati in tenera età da Ryuken, maestro della Scuola di Hokuto. A questi tre protagonisti si aggiungeranno uno stuolo notevole di guerrieri più o meno importanti (compreso un quarto fratello) e di trame parallele che, intersecandosi, creeranno un tessuto narrativo complesso, a tratti contraddittorio. Chiave di lettura comune a tutti i capitoli è l’eterno

confrontarsi degli esponenti delle due Scuole, Nanto e Hokuto, in un rapporto di odio e amore, contrasto e compenetrazione, che diviene rappresentazione simbolica del concetto taoista Ying e Yang. La tecnica di Hokuto è basata sulla stimolazione di alcuni punti del corpo mutuati dall’agopuntura cinese, attraverso i quali è possibile paralizzare o addirittura fare esplodere parti del corpo dell’avversario. Kenshiro è l’unico successore designato della Scuola; la tradizione dell’Hokuto prevede infatti un solo maestro, mentre ai non prescelti viene impedito di praticare le tecniche apprese. La guida di Nanto è invece affidata a 6 Sacri Guerrieri, in rappresentanza dei 6 principali stili di combattimento della Scuola, che in tutto ne conta 108, ognuno tramandato da una propria setta. Come nel kung-fu, le tecniche si rifanno alla postura degli animali, soprattutto uccelli, e permettono ai praticanti di tagliare gli avversari fino a farli letteralmente a pezzi. A dispetto delle loro sembianze ipertrofiche, la forza sovrumana di questi combattenti non è muscolare, ma psichica: sono le loro facoltà mentali a farli emergere in un mondo di uomini possenti (spesso gi-

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ganti) e brutali. In Raoul tali poteri raggiungeranno l’apoteosi: egli è addirittura in grado di colpire gli avversari con il suo “spirito di combattimento” e abbatterli in esplosioni spettacolari grazie a raggi di pura energia. Tutto ciò verrà ripreso e portato all’estremo in altre serie di arti marziali, come Dragonball, ma anche in numerosi manwa di Hong Kong (ad esempio Super Shen o 5° Generazione), epigoni della tradizione fumettistica giapponese e del mito di Bruce Lee di cui anche Ken il Guerriero si nutre. Il protagonista, Kenshiro, è un ragazzo idealista dal carattere gentile, costretto però dalla rudezza dei tempi a temprarsi fino a sfoggiare quella ieratica indifferenza ben nota al pubblico. Questa caratteristica apparirà a molti fan abbastanza incoerente e poco credibile, al punto che gli autori, per contrasto, nel prequel Ken il guerriero: Le Origini del Mito (Souten no Ken) ambientato nella seconda guerra mondiale, con

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lo zio omonimo di Ken come protagonista, adotteranno una strada radicalmente diversa, creando un Kenshiro tabagista e amante delle donne. Julia è una ragazza sensibile, spesso passiva di fronte agli eventi, ma con la dote straordinaria di avviarli: con il suo rapimento inizia l’intera vicenda, e saranno poi molti i personaggi che si contenderanno il suo amore. Kenshiro, Raoul e Toki ne sono invaghiti, anche se in modo diverso, Shin come si è detto la rapirà; in seguito appariranno, inoltre, un suo fratello, Ryuga, e un suo fratellastro (cugino nel manga), Juza, quest’ultimo condannato proprio da questa parentela a vedere respinto il proprio amore. Se non è Julia a calamitare l’attenzione dei guerrieri della saga c’è la sua sosia Mamiya, di cui si innamorerà perdutamente l’Uccello d’Acqua di Nanto, Rei, e che per diverso tempo sarà l’amante forzata di un altro guerriero della stessa scuola, Yuda. A un certo punto della storia, Julia arriverà a giocare un ruolo attivo, scoprendosi uno dei 6 Guerrieri Sacri di Nanto, con tanto di esercito personale che si schiererà con Kenshiro contro Raoul. Quest’ultimo è per molti il personaggio più riuscito e intrigante della serie. Dotato di una forza smisurata (secondo alcuni la sua immagine sarebbe stata ispirata ad Arnold Schwarzenegger) e di altrettanta ambizione, si oppone al riconoscimento di Ken come successore della Divina Scuola di Hokuto. La sua sete di potere lo spingerà a alla conquista del mondo, progetto che naufragherà di fronte all’opposizione dello stesso Kenshiro. Nello scontro tra questi due guerrieri si inserisce la figura del fratello Toki, al quale Raoul è molto legato, ma che incarna il suo esatto opposto: rappresentato volutamente come una sorta di Cristo redivivo, è un eroe gentile d’animo e altruista, con l’unica ambizione di utilizzare la propria arte per curare il prossimo, nonostante lui stesso sia gravemente malato. Nella lotta non è mosso dall’ambizione ma dal desiderio di fermare il fratello, avviato verso una strada oscura. Potremmo considerare questo strano terzetto quasi una triade salvifica, con qualità straordinarie, ma altrettante mancanze: Raoul aspira a conquistare il mondo portando legge e ordine, ma è in grado di governare solo con la brutalità; Kenshiro è un salvatore errante, che viaggia di villaggio in villaggio sconfiggendo i cattivi e raddrizzando i torti, ma non è un conquistatore e l’ordine che lascia dietro di sé è destinato a essere

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ANIME

sovvertito dal primo brigante di passaggio; infine c’è Toki, incapace di prepotenze, la cui abilità di guarigione farà gridare al miracolo numerose genti, ma la cui indole pacifica lo esclude a priori dal poter sostenere sulle spalle il peso del comando. Purtroppo la storia sfrutta solo superficialmente le potenzialità metaforiche dei personaggi, e quando tenta, pur attraverso l’estremizzazione della violenza, di porre in risalto valori positivi lo fa in maniera bidimensionale: amore, dolore, ambizione… tutto è vissuto quasi con distacco, e le motivazioni che spingono i

protagonisti ad agire sono spesso forzate e incoerenti. L’aspetto sicuramente più negativo della serie animata, forse anche più del manga, è l’intricata successione di trame e sottotrame, a volte legate così misteriosamente da creare notevoli difficoltà di comprensione, se non addirittura confusione; il difetto di coerenza si evidenzierà maggiormente nella serie successiva, dove la necessità di nuovi personaggi e, soprattutto, di un nuovo cattivo creerà delle palesi contraddizioni. n Stefano Baccolini

Zeta e i quattro Fanti #1. Sotto il segno dell’Orsa Maggiore #2. Fante di Picche #3. L’artiglio #4. Il gigante #5. Ritorno dall’inferno

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na terribile guerra nucleare ha spazzato via la civiltà, precipitando il mondo in un Medioevo barbarico in cui la sola legge che vale è quella della violenza. Kenshiro, giovane successore della scuola di arti marziali di Hokuto, viene brutalmente aggre-

dito dall’ex amico Shin, che gli rapisce la fidanzata Julia e gli infligge sul corpo sette ferite a forma di costellazione dell’Orsa Maggiore, il simbolo di Hokuto. Sopravvissuto, il ragazzo si mette alla caccia del rivale per liberare Julia. Ma a proteggere Shin c’è un esercito di spietati delinquenti.

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L’Armata di Dio #6. Berretti Rossi #7. L’Armata di Dio #8. Il colonnello

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rosegue il viaggio di Kenshiro, accompagnato dai due orfani Bart e Lynn, alla ricerca di Julia. Sconfitto il possente Zeta e i crudeli quattro Fanti, il combattente di Hokuto giunge in un villaggio occupato da una banda di fanatici che si fanno chiamare l’Armata di Dio.

Si tratta di un reparto di ex militari arruolati nell’esercito di Shin, addestrati in modo spietato e comandati da uomini senza scrupoli, come il Maggiore, il sergente Mad e Baccam. Kenshiro dovrà affrontarli uno per uno, prima di giungere al cospetto del loro capo, il temibile Colonnello.

enshiro, Bart e Lynn arrivano in una regione tiranneggiata dalla perfida Pattler e dall’Uomo di Fuoco. I due loschi figuri esercitano un arbitrario controllo sulle risorse idriche, e rapiscono persone per rivenderle come schiave. Ken naturalmente interverrà per porre fine ai loro traffici.

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Subito dopo, i nostri eroi si imbattono nella banda capeggiata da Sciacallo, un malvivente esperto in esplosivi. Costui, pur di fermare Kenshiro, non esita a liberare dalla prigione dov’è rinchiuso il terribile e gigantesco Figlio del Diavolo, che si dice abbia ucciso più di 700 persone.

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bande dei Serpenti e degli Scorpioni. Ken, Bart e Lynn incontreranno tuttavia anche persone oneste, come l’ex bandito Dulan che si redime lavorando come medico, o la spericolata e coraggiosa Jennifer, che in sella alla sua moto affronta senza paura le gang di Shin.

Uomo di Fuoco e Sciacallo #9. La montagna magica #10. L’Uomo di Fuoco #11. I Guerrieri #12. L’inseguimento #13. Un colpo micidiale

Verso la Croce del Sud #14. Un uomo giusto #15. Il villaggio degli zombi #16. Serpenti e Scorpioni #17. L’adunata #18. Attacco generale #19. Il sacrificio #20. La Croce del Sud

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eta del viaggio di Ken è la Croce del Sud, città presso cui Shin ha eretto il proprio castello. Sono però ancora molti gli avversari da affrontare lungo il cammino: tra essi l’inquietante Zaria, le cui capacità ipnotiche sono in grado di soggiogare un intero villaggio, e Junk e Barone, capi delle

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ANIME

Duello finale contro Shin #21. Il complotto #22. Duello finale

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lla Croce del Sud, Shin deve affrontare una crisi inaspettata: il comandante delle sue truppe, il generale Balkom, complotta per spodestarlo. Il traditore ha già ottenuto l’appoggio degli altri generali, eliminando il suo unico oppositore, Nariman.

Nel frattempo, Kenshiro dovrà vedersela con Jolly, il fedele braccio destro di Shin, che combatte usando tecniche ipnotiche e lanciando carte da gioco taglienti come rasoi. Nulla però è in grado di fermare l’uomo di Hokuto, che finalmente raggiunge la reggia di Shin per la resa dei conti.

confitto Shin, Kenshiro, Bart e Lynn giungono nel villaggio della bella Mamiya, una donna combattente che assomiglia in modo straordinario alla perduta Julia. La regione è oppressa da una banda di feroci predoni legati tra loro da vincoli familiari e capeg-

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giati da un possente patriarca chiamato Grande Padre. Kenshiro non esita a schierarsi in aiuto di Mamiya e della sua gente, trovando in questa nuova avventura l’appoggio di un altro formidabile combattente: Rei, esperto nelle tecniche marziali della Sacra Scuola di Nanto.

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Identificato lo sconosciuto come Jagger, uno dei suoi tre fratelli adottivi con i quali ha intrapreso l’addestramento alle tecniche della Divina Scuola di Hokuto, Ken decide di mettersi sulle sue tracce. Lo scopo è impedirgli di continuare a spacciarsi per lui e di commettere altre malefatte.

La famiglia Cobra #23. Guerra! #24. L’Uccello d’Acqua #25. I lamponi #26. La vendetta dei Cobra #27. All’inseguimento dei Cobra #28. Il combattimento #29. Vivere o morire

Caccia a Jagger #30. Combattimento fatale #31. Cercando Jagger #32. Aspetta all’inferno Jagger

a faida contro la famiglia Cobra si è conclusa con il trionfo di Ken e Rei. Nell’occasione, Rei ritrova la sorella scomparsa, Airi. Si scopre così che la ragazza era stata rapita tempo addietro da un individuo mascherato che portava sul petto le stesse sette cicatrici di Kenshiro.

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Alla ricerca di Toki #33. Il salvatore diabolico #34. Il cacciatore di cavie #35. Il cambiamento di Toki #36. Scambio di persona

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enshiro viene a sapere che un altro dei suoi fratelli adottivi, Toki, è ancora vivo. Il giovane decide allora di rintracciarlo. Nel corso della ricerca emergono però dettagli inquietanti riguardo il comportamento tenuto da Toki negli ultimi anni: l’uomo altruista e gentile

che Ken ricordava pare essersi trasformato in un folle dottore che sperimenta sui malati tecniche Hokuto dagli esiti aberranti. Il prosieguo delle “indagini” rivelerà invece una verità molto diversa, che coinvolge Amiba, seguace della Scuola di Nanto e vecchia conoscenza di Rei.

oki è detenuto a Cassandra, una impenetrabile fortezza nella quale il misterioso Re di Hokuto tiene prigionieri gli esponenti delle maggiori scuole di arti marziali, dopo aver sottratto loro i segreti sulle tecniche di combattimento. Kenshiro, con l’aiuto di Rei e di Mamiya, è in-

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tenzionato a liberare il fratello, ma per farlo dovrà prima superare le mille insidie della leggendaria prigione e affrontarne gli agguerriti custodi. Tra essi spiccano i fratelli Fuga e Laiga, gli armigeri Zarqa e Qasim, e, soprattutto, il colossale Wiggle con le sue micidiali fruste.

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quanto quello di Shin e i luogotenenti che lo comandano sono altrettanto spietati. Un presagio di sventura sembra inoltre aleggiare su Ken e i suoi alleati. Qual è il significato della stella sconosciuta che Rei e Mamiya vedono improvvisamente brillare accanto all’Orsa Maggiore?

La prigione di Cassandra #37. Non amarmi Mamiya #38. La tragedia di Bella #39. La porta di Cassandra #40. La vita trionfa sulla morte #41. Uno scontro di 2000 anni #42. Un incontro difficile #43. La nuova leggenda

Il terribile Re di Hokuto #44. La stella della morte #45. Il coraggio della piccola Lynn #46. La rivolta #47. La leggenda della paura #48. La mossa segreta #49. Lotta all’ultimo sangue

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oki ora è libero, ma sul mondo incombe ancora la minaccia rappresentata dal Re di Hokuto. Quest’individuo altri non è che l’ultimo e più potente dei tre fratelli adottivi di Kenshiro. Il suo nome è Raoul, la sua forza sembra insuperabile, l’esercito su cui può contare è numeroso almeno

Serie TV: Ken il Guerriero (1)


ANIME

Rei vs Yuda #50. Cani sacri #51. Sacrificio d’amore #52. Bellezza crudele #53. Le donne rapite #54. La grande prova #55. Il volo dell’uccello bianco #56. Un uomo solo #57. La storia dell’uomo immortale

I

l passato di Mamiya nasconde un triste segreto, rivelato da un marchio impresso a fuoco sulla sua spalla. È il simbolo che portano tutte le ragazze sequestrate per servire Yuda, un guerriero di Nanto che ha fatto della ricerca della perfezione estetica e del narcisistico culto della propria perso-

na un’autentica ossessione. Rei, innamorato della ragazza, decide di vendicarla affrontando Yuda in duello. Deve però fare i conti con le terribili sofferenze procurategli dal colpo subito nel combattimento contro Raoul, che lo sta lentamente portando alla morte.

n nuovo potente nemico si profila sul cammino di Kenshiro: è Sauzer, un guerriero di Nanto dalle doti fisiche eccezionali che lo rendono invulnerabile alle tecniche di lotta della Scuola di Hokuto. Questo ennesimo dittatore sequestra bambini in tutti i villaggi, per utilizzarli come ma-

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nodopera nella costruzione di una piramide concepita a consacrazione del proprio potere. A contrastarlo si schiera un manipolo di valorosi combattenti. Il loro comandante, Shu, è un formidabile guerriero cieco che ha avuto un ruolo determinante nel passato di Kenshiro.

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Durante il combattimento, Ken intuirà il segreto del guerriero di Nanto, quella particolare caratteristica fisica che rende la “Fenice” invulnerabile ai suoi colpi. Questa scoperta riequilibrerà lo scontro, ma Sauzer rimane un avversario ugualmente temibile.

Sauzer #58. L’esercito di Sauzer #59. Il tempio del potere #60. Sperare nel domani #61. La luce della vita #62. Il re del mondo #63. Due destini simili #64. La stella di Shu #65. La piramide della croce

Hokuto contro Nanto #66. Il futuro ti appartiene #67. Una vittima dell’amore #68. L’ultimo volo della Fenice

a lotta contro Sauzer si avvicina al suo tragico epilogo. Mentre Shu è costretto a porre l’ultima pietra in cima all’insensata piramide voluta dal dittatore, Raoul e Toki raggiungono il monumento, presso cui Kenshiro affronterà il suo rivale in un duello che si preannuncia all’ultimo sangue.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)

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Serie TV ANIME

Raoul e Toki #69. Sete di dominio #70. Un re solitario #71. La morte è di scena #72. Le ultime lacrime

U

scito di scena Sauzer, Raoul è rimasto l’unico pretendente al potere universale. Per realizzare le proprie ambizioni di conquista deve però eliminare i suoi fratelli: non solo Kenshiro, ma anche l’amato Toki. Il Re di Hokuto decide allora di mettersi alla prova sfidando Koryu, che un tempo

era stato pretendente alla successione della Divina Scuola. Nulla però può prepararlo a ciò che dovrà affrontare combattendo contro Toki: i sentimenti fraterni, sopiti ma ancora presenti, riaffioreranno più irresistibili di qualsiasi colpo avversario.

n’altra stella brilla nel firmamento dominato da Hokuto: è Sirio, l’astro di Ryuga, Lupo Solitario di Nanto, fratello di Julia e luogotenente di Raoul. L’incontro con Kenshiro segnerà il suo destino... Le sue certezze vacillano: è ancora Raoul il più potente, il condottiero favorito a riportare l’ordine

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in quest’era dominata dal caos? Per saperlo Ryuga non ha che un modo: affrontare Ken in un duello mortale, saggiando così la sua forza e la sua determinazione. Per indurre Ken a battersi senza quartiere, il Lupo Solitario ridurrà Toki in fin di vita.

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di quest’ultimo contro Yuda, la Gru Rossa, vittima della Stella del Tradimento. Il ricordo corre poi alla straordinaria figura di Shu, il cieco Airone sorretto dalla Stella della Benevolenza, e su Sauzer, la quasi invincibile Fenice illuminata dalla Stella della Croce del Sud.

Ryuga, la stella solitaria #73. L’uomo di Sirio #74. Alla ricerca di un nuovo eroe #75. Occhi di ghiaccio #76. Chi sarà il re del mondo? #77. Il sacrificio

Nel ricordo degli Eroi #78. Amore impossibile #79. L’amicizia #80. Eterna leggenda #81. Il grande cieco #82. Il dittatore

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enshiro ripercorre con la memoria le esperienze vissute con i Sacri Guerrieri di Nanto: la dura lotta contro il rivale in amore Shin, maestro della Scuola dell’Aquila Solitaria, protetto dalla Stella del Martirio; il sacrificio dell’amico Rei, l’Uccello d’Acqua, votato alla Stella del Dovere, e il duello

Serie TV: Ken il Guerriero (1)


ANIME

Il Vento e le Fiamme #83. Tortura disumana #84. La Brigata del Vento #85. La notte degli echi #86. L’armata delle Fiamme Rosse #87. Il mostro della montagna

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opo la scomparsa di Shin, Yuda, Rei, Shu e Sauzer, solo uno dei sei Sacri Guerrieri di Nanto è ancora in vita, e Raoul si sta muovendo per incontrarlo. A sbarrare la strada al Re di Hokuto si schierano gli eserciti delle Forze di Nanto, i cinque combattenti al servizio dell’ultimo guerriero.

I primi a ingaggiare battaglia sono le Forze del Vento e delle Fiamme: i fratelli Wei e Shuren. Alla testa delle loro truppe, la “Brigata del Vento” e l’armata delle “Fiamme Rosse”, essi si scagliano contro il nemico pronti all’estremo sacrificio, destando l’ammirazione dello stesso Raoul.

ntrano in scena altre due Forze di Nanto: sono il gigantesco Fudo della Montagna e il libertino Juza delle Nuvole. Fudo scorterà Kenshiro, Bart e Lynn nel loro viaggio verso il castello del sesto Guerriero. La sua bontà e la sua indole mite copriranno inizialmente

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la sua vera identità, che si manifesterà durante lo scontro tra Ken è una banda di predoni. Juza è invece molto più restio a lasciarsi coinvolgere nella guerra contro Raoul: Rihaku del Mare, il capo delle Forze, dovrà faticare per convincerlo ad adempiere ai suoi doveri.

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to, rallentandone anzi per due giorni la marcia. Il confronto definitivo è però solo rimandato... Intanto Hiruka, uno dei biechi sgherri al soldo di Raoul, ha in progetto di catturare i figli adottivi di Fudo e usarli come ostaggio per eliminare la Forza della Montagna.

La Montagna e le Nuvole #88. La giusta condanna #89. I briganti del re #90. L’ultimo Guerriero #91. La legge è uguale per tutti #92. Nessuno fermerà Juza

Juza sfida il Re di Hokuto #93. Due giorni di attesa #94. La grande forza dell’amore #95. Due sguardi innocenti #96. La grande vallata

onosciuta l’identità del sesto Guerriero, Juza, la più potente delle Cinque Forze di Nanto, ha finalmente acconsentito unirsi allo sforzo comune per fermare l’avanzata di Raoul. La sua tecnica formidabile gli permetterà di uscire quasi indenne da un primo combattimento contro il Re di Hoku-

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Serie TV ANIME

Il sesto Guerriero #97. Corsa verso la libertà #98. I due fratelli #99. La figlia del mare #100. L’ultimo segreto #101. Una lotta interminabile

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enshiro e Raoul sono ormai prossimi a raggiungere il castello del sesto Guerriero di Nanto, in cui difesa non è rimasta che la Forza del Mare. Ancora una volta i due fratelli adottivi saranno chiamati confrontarsi in duello, e stavolta in palio ci sarà la vita di Julia.

Si consumerà intanto il triste destino della malinconica Tou, la figlia di Rihaku, da sempre innamorata da Raoul. Indossando la maschera del sesto Guerriero in un ultimo disperato tentativo di conquistare l’amore del Re di Hokuto, cercherà di far guadagnare a Julia il tempo per fuggire.

aoul è riuscito a rapire Julia, ma il combattimento con Kenshiro ha lasciato dei segni profondi, non solo nel suo corpo ma anche e soprattutto nel suo spirito: la sicurezza del Re di Hokuto nei propri mezzi inizia a vacillare. Il solo modo per Raoul di esorcizzare la paura è affrontare l’unico

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combattente che anni addietro aveva saputo incutergliela; questo guerriero è Fudo, la Forza della Montagna. Verrà così svelato l’insospettabile passato del gigante dagli occhi dolci, un passato fatto di violenza e di disprezzo per la vita umana.

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giunto: Kenshiro e il Re di Hokuto sono chiamati ad affrontarsi per l’ultima volta, in un duello che sancirà definitivamente un solo successore alla Divina Scuola. I due fratelli daranno luogo a un combattimento senza esclusione di colpi, dal cui esito dipenderà il destino del mondo.

I due volti di Fudo #102. Il gigante indeciso #103. I dolci occhi del diavolo #104. Bambini del futuro #105. Stelle per sempre

La sfida finale #106. Vivrai sempre nel mio cuore #107. Nessuno li fermerà #108. La stella della morte #109. Promemoria

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nfuriato per come si è concluso l’incontro con Fudo e per la disobbedienza dell’esercito a un suo preciso ordine, Raoul ripudia i propri soldati, che trovano conforto solo nel senso di carità dell’altruista Julia. Il tempo dello scontro decisivo intanto è

Serie TV: Ken il Guerriero (1)


ANIME I nomi indicati sono quelli utilizzati nella versione italiana dell’anime

Kenshiro

Lynn

Il successore designato della Divina Scuola di Hokuto; in un mondo imbarbarito, usa la violenza contro la violenza per riportare la giustizia.

Orfana muta, che Kenshiro prima guarisce e poi adotta. Nonostante la sua dolcezza e la sua sensibilità, è una bambina molto coraggiosa.

Julia

Bart

La ragazza amata da Kenshiro, rapita prima da Shin e poi dal Re di Hokuto, Raoul. Sarà l’unica superstite dei Sacri Guerrieri di Nanto.

Esuberante e furbo ragazzino che vive di espedienti. Insieme a Lynn, accompagna Kenshiro in tutte le avventure, spesso risultandogli d’aiuto.

Shin

Rei

Uno dei Sacri Guerrieri di Nanto; rivale di Kenshiro in amore, è stato lui a infliggere al successore di Hokuto le 7 cicatrici sul petto.

Uno dei sei Guerrieri Sacri di Nanto; grande alleato di Ken, lo affianca nella lotta contro la famiglia Cobra e nella successiva ricerca di Toki.

Airi

Mamiya

La sorella di Rei. Rapita da Jagger, viene successivamente usata come ostaggio dalla famiglia Cobra, e infine liberata dal fratello e da Ken.

Coraggiosa ragazza che combatte al fianco di Ken e Rei. È diventata guerriera dopo la tragica esperienza vissuta come schiava di Juza.

Toki

Raul

Fratello adottivo di Kenshiro; è un esperto nelle tecniche di Hokuto ma, preferendo la medicina alla lotta, le utilizza per curare i malati.

Fratello maggiore di Toki. Viene chiamato “Re di Hokuto”; di indole spietata, si lascerà corrompere dalla sua smisurata ambizione.

Yuda

Jagger

Uno dei Sacri Guerrieri di Nanto, nemico giurato di Rei del quale invidia la perfezione nel combattere. È ossessionato dalla bellezza fisica.

Ex allievo di Ryuken, come Ken, Raoul e Toki; è un uomo abietto responsabile di ogni genere di violenza, compreso il rapimento di Airi.

Sauzer

Shu

Il più temibile dei Sacri Guerrieri di Nanto. Una particolare caratteristica fisica lo rende immune alle normali tecniche di lotta di Hokuto.

Uno dei sei Sacri Guerrieri. Nonostante la cecità, è il maggiore oppositore di Sauzer, contro cui ha organizzato una resistenza partigiana.

Juza

Fudo

Fratellastro di Julia. È il più forte esponente della Cinque Forze di Nanto, schierate in difesa dell’ultimo dei Sacri Guerrieri.

Una delle Cinque Forze di Nanto. È un gigante dal passato violento, ora ravvedutosi; accompagna Ken nel viaggio incontro al sesto Guerriero.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)

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Serie TV ANIME Wei

Shuren

Tra le Cinque Forze di Nanto, padroneggia quella del Vento. Insieme alle sue truppe cercherà di fermare l’avanzata di Raoul.

Fratello di Wei, utilizza la forza delle Fiamme. Anch’egli tenterà di fermare Raoul prima che possa raggiungere il sesto Guerriero Sacro.

Rihaku

Tou

Sua è la forza del Mare. È il più anziano tra i difensori del sesto Guerriero; coordina le altre quattro Forze nella campagna contro Raoul.

È la figlia di Rihaku. Segretamente innamorata di Raoul, si offrirà a lui sperando di distoglierlo dall’intento di unirsi col sesto Guerriero.

Ryuga

Saki

Abile combattente, fratello maggiore di Julia. Serve Raoul nella convinzione che lui solo sia in grado di riportare l’ordine nel mondo.

Dolce bambina che riceve l’incarico di fare da damigella a Julia durante la prigionia di quest’ultima nel palazzo di Shin.

Ryuken

Koryu

63° Maestro di Hokuto. Addestra Raoul, Toki, Jagger e Kenshiro alle arti della Divina Scuola, designando proprio Ken come suo successore.

Era pretendente alla successione come Maestro della Divina Scuola di Hokuto, carica a cui rinunciò volontariamente in favore di Ryuken.

Amiba

Capovillaggio

Impostore che, spacciandosi per Toki col pretesto di curare i malati, sperimenta le letali tecniche di Hokuto su cavie umane.

Il capo del villaggio di Mamiya. È un personaggio ricorrente negli episodi che narrano la lotta contro l’animalesca famiglia Cobra.

Johnny

Chon

Fa il barista in uno dei villaggi sottoposti alla tirannia dell’Armata di Dio. Compare nelle puntate che vedono Ken affrontare i Berretti Rossi.

È il fratello minore di Wei e Shuren. Anch’esso prende parte alla campagna contro Raoul come vicecomandante delle “Brigate del Vento”.

Jolly

Zeta

Il fedele luogotenente di Shin, per il quale svolge funzioni di spia e portavoce. Combatte usando carte da gioco affilatissime.

Il primo dei comandanti delle truppe di Shin con cui Kenshiro dovrà confrontarsi. Pagherà caro il suo tentativo di usare Lynn come ostaggio.

Fante di Picche Uno dei quattro Fanti sotto il comando di Shin. Per appropriarsi di un sacchetto di riso non esita a trucidare gli abitanti di un intero villaggio.

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Artiglio È il Fante di Fiori dell’esercito di Shin. Affronta Ken all’interno di una gabbia, usando nella lotta delle lame legate alle mani come artigli.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)


ANIME Diamond

Heart

Il Fante di Quadri. È spietato, come tutti i comandanti dell’esercito di Shin: si diverte a utilizzare persone inermi in giochi sadici.

È il colossale Fante di Cuori. Ha una particolare fobia che lo rende furioso alla vista del proprio sangue, anche solo una semplice goccia.

L’Armata di Dio È un reparto di fanatici ex soldati al servizio di Shin, comandanti dal Colonnello. Applicano la legge del più forte con efficienza militare.

Jiro e Mirka

Pattler Sono una delle ragazze schiavizzate dall’Uomo di Fuoco, e il ragazzino che cerca di liberarla.

È un’esperta nell’arte di creare illusioni. Grazie al controllo delle risorse idriche, tiranneggia un villaggio che usa come fonte di schiavi.

Sgherri di Pattler

Uomo di Fuoco Due uomini-uccello e un sarutobi, tutti eliminati da Ken.

È un mercante di schiavi privo di scrupoli, compare di Pattler. La sua abilità è combattere emettendo fiamme dalla bocca.

Hawk (1) e Fox (2) 2

Sciacallo È il capo di una banda di predoni al soldo di Shin. Molto astuto, ha una particolare predilezione per l’uso della dinamite.

Toyo e Taki

1

Membri della banda di Sciacallo: il secondo è il suo braccio destro, il primo gli si rivolterà contro.

Figlio del Diavolo Toyo è la donna che ha allevato Bart; si prende cura di molti bambini orfani, tra cui Taki.

Un gigante omicida di cui Sciacallo, dopo averlo liberato di prigione, si finge fratello allo scopo di convincerlo ad affrontare in sua vece Kenshiro.

Dulan e Kanna

Dante

Ex della banda di Dante, Dulan si redime diventando medico nel villaggio della piccola Kanna.

Uno dei capibanda agli ordini di Shin. Con la minaccia di uccidere dei bambini, costringe Dulan a tentare l’assassinio di Kenshiro.

Karen

Zaria

Ragazza sottratta da Ken alle grinfie di alcuni predoni. Il suo villaggio è tenuto sotto controllo ipnotico da parte dell’inquietante Zaria

La sua specialità è l’ipnosi: attraverso il suono di una campana, riesce a trasformare le persone in zombi pronti a eseguire ogni suo ordine.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)

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Serie TV ANIME 1

Junk (1) e Barone (2)

Marinaio

Capeggiano rispettivamente i Serpenti e gli Scorpioni, due bande rivali sotto il controllo di Shin.

2

È un ragazzino intraprendente che vive nel territorio in cui spadroneggiano le bande di Junk e Barone. Diventa amico di Bart e Lynn.

Golas (1) e Lupo (2) 2

Jennifer A cavallo della sua moto, aiuta Kenshiro, Bart e Lynn a sbrigarsela contro i soldati di Shin. Il personaggio compare negli episodi 18, 19 e 20.

Temujin

Mahari (1) e Garenki (2)

Il fratello maggiore di Saki. Dopo il fallito tentativo di fuga della sorella, scappa a sua volta dal palazzo di Shin per mettersi alla ricerca di Ken.

1

2

Shin dovrà sedare la rivolta capeggiata dal suo generale Balkom, a cui solo Narima rifiuta di aderire.

5

La famiglia Cobra 2

Una banda di barbari predoni legati da vincoli parentali e gui- 3 dati dal Padre Cobra (5). Tra essi spiccano Kemada (1), Gogeba (2), Giballa (4) e l’animalesco Madara (3).

4

Aki (1) e Mako (2) 1

Ko Il fratello minore di Mamiya. Il giorno del compleanno della sorella, viene catturato dalla famiglia Cobra e usato come ostaggio.

2

Due piccoli fratellini angariati dalle truppe di Jagger. Mako è malato, e Aki cerca di proteggerlo.

Goda (1), Hebi (2) e Kamakiri (3) 1

Erari Un commerciante che fornisce a Kenshiro preziose informazioni sul Villaggio dei Miracoli, dove risiede il presunto Toki.

Cavie umane muta- 3 te da Amiba e divenute mostri.

Hab (1) e Gyuki (2) 2

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2

Balkom (1) e Narima (2) 1

Protagonisti nell’episodio 20. Per conto di Shin attaccano Ken usando mezzi corazzati.

1

1

Nell’episodio 19 attaccano Ken, usando uno stormo di elicotteri, o facendosi lanciare da cannoni.

Haddler (1) e Toda (2) 2

1

1

I comandanti di Shin che affrontano Kenshiro nell’episodio 18, con un bulldozer e un carro armato.

Il comandante Hab, uomo di Amiba, e il suo braccio destro Gyuki, affrontano Ken nella puntata 34.

2

Gome Scagnozzo di Amiba; svolge il bieco compito di procurare all’impostore cavie umane da sottoporre a suoi spesso maldestri esperimenti.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)


ANIME Yu

Nevada

Un ragazzino che salva la vita a Lynn. Successivamente, ammalatosi in modo grave, viene portato al cospetto di Amiba per essere curato.

1

Un compare di Amiba. Entrambi erano stati allievi della Scuola di Nanto; vedendo Nevada, Rei intuisce la verità sul sosia di Toki.

Veggente (1) e Niji (2) 2

Nell’episodio 37, un’indovina aiuta Mamiya, ma viene poi uccisa da Niji, soldato di Cassandra

Bella È una combattente imprigionata nelle galere di Cassandra. Wiggle, tenendo in ostaggio sua madre, la costringe a battersi contro Kenshiro.

Targer

Fuga e Laiga

È il braccio destro di Wiggle, assieme al quale governa la prigione di Cassandra, dove sono detenuti i più importanti maestri di arti marziali.

I possenti guardiani di Cassandra. Di animo nobile, decidono di schierarsi dalla parte di Kenshiro.

Mitsu

Wiggle

Fratello minore di Fuga e Laiga. Wiggle lo usa come ostaggio per garantirsi l’obbedienza dei due guardiani, senza successo.

1

Il comandante supremo di Cassandra. Combatte utilizzando due fruste e usando una particolare tecnica che ipertrofizza la sua spalla.

Zarqa (1) e Qasim (2) 2

Gli armigeri del Re di Hokuto. Tentano invano di uccidere Toki durante la caduta di Cassandra.

Sojin È il maestro di Fuga e Laiga. Si rivolta contro i propri allievi dopo il loro passaggio dalla parte di Ken, ma viene da loro sconfitto e ucciso.

Gurg

Seeker

Il capo dei Kamikaze del Re di Hokuto. Interviene a Cassandra dopo la liberazione di Toki, cercando di impedire la fuga a Ken e compagni.

1

Gallon (1) e Barista (2) 2

Le loro tecniche, rispettivamente: sputare benzina infiammata e travestirsi da innocua vecchietta.

Il capitano della squadra di Ricognitori dell’esercito del Re di Hokuto. Ken lo affronta soccorrendo Mamiya, nell’episodio numero 44.

Gulf (1) e Zorige (2) 1 Sono il capo delle truppe del Re di 2 Hokuto a Medicine City e il guardiano della farmacia.

Nova (1) e Ran (2) 1

Dakar Luogotenente di Yuda. Affronta Kenshiro e Rei quando questi ultimi giungono al castello di Yuda in cerca di vendetta per Mamiya.

Nell’episodio 53, Nova aiuta Ken- 2 shiro e Rei a liberare alcune ragazze rapite da Yuda, tra cui Ran.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)

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Serie TV ANIME Gogen (1) e Shikawa (2) 2

Koma Uno degli sgherri di Yuda. Favorisce il suo padrone durante il combattimento contro Rei inondando di fango il luogo dello scontro.

Soldati di Yuda che, sotto il co- 1 mando di Koma, attaccano il villaggio di Mamiya.

Truppe di Sauzer Per ultimare il folle progetto di co- sottoposti al suo controllo, impieganstruzione di una piramide, Sauzer do un esercito che, in quanto a ferocia, non esita a tiranneggiare i villaggi può rivaleggiare con quello di Shin.

1

Jay (1) e Ami (2) 2

Jay, uno degli uomini di Shu, ha giurato di liberare il fratellino della sua fidanzata Ami.

Garzus Uno dei biechi comandanti incaricati di sequestrare bambini da usare come forza lavoro nella costruzione della piramide di Sauzer.

Shiba

Ryo

L’impavido figlio di Shu; riesce e liberare Kenshiro dalle grinfie di Sauzer, sacrificandosi poi per evitargli di essere nuovamente catturato.

1

Il figlio di uno dei soldati agli ordini di Shu. Rimane intossicato da del veleno sparso dagli uomini di Sauzer nel cibo, ma Ken lo salva.

Zeus (1) e Aus (2) 2

1

Sono i figli di Koryu. Attaccano Raoul per vendicare il padre, morto per mano del Re di Hokuto.

Avida (1) e Gonz (2) 2

Due sgherri di Raoul; si divertono con uno sport di loro invenzione: il “lancio del prigioniero”.

Zenyo Fedele servitore di Koryu. Quando Raoul decide di sfidare il vecchio maestro di Hokuto, Zenyo viene inviato ad avvertire Toki.

Capitano Sabato Flaccido e obeso capitano dell’esercito di Raoul. Perennemente affamato, obbliga gli abitanti di un villaggio a rubare viveri ai villaggi vicini.

Jimon

Garo

Abitante del villaggio tiranneggiato da Sabato; il capitano, tenendo in ostaggio la giovane Manu, costringe lui e altri ragazzi a compiere scorrerie.

David (1) e i reclutatori 2

Bugal Uno dei comandanti dell’esercito del Re di Hokuto. Ha la mania dell’igiene: spreca acqua in continui bagni, mentre la gente soffre la sete.

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È il braccio destro di Ryuga. Serve lealmente il suo signore nella speranza che, prima o poi, si rivolti contro Raoul e assuma il potere.

David comanda una squadra incaricata di reclutare nuovi soldati per l’esercito di Raoul.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)


ANIME Glen

Morgan

Una sorta di superuomo potenziato. Nella versione italiana viene definito un “robot” da combattimento, costruito da David.

1

Capitano dell’armata di Raoul. Ha la mania per le automobili, che però sfascia in continuazione. Si considera il più grande pilota del mondo.

4

Kogure (1), Gozuri (2), Zeala (3) e Naguri (4) 2

Quattro loschi individui a capo di una banda di predoni senza scrupoli. Com- 3 battono insieme eseguendo la tecnica del “grande gatto a quattro code”, che consiste nell’attaccare l’avversario in modo coordinato.

Dolfi (1) e Zenda (2) 1

Geruka Un lottatore che assalta il castello di Juza per riprendersi delle ragazze schiave. In precedenza le giovani erano state liberate dallo stesso Juza.

Un comandante e il suo braccio 2 destro. Governano un villaggio parodiando la democrazia.

Guardiani del ponte Soldati del Re di Hokuto incaricati di formare un posto di blocco presso un ponte.

Jumony Un assassino che ha vanta un curriculum di 9.999 vittime, e attende Kenshiro per fare di lui il suo decimillesimo trofeo.

Hiruka

Zaku

Uno degli uomini di Zaku. È lui a ideare il piano per eliminare Fudo facendo leva sull’amore che il gigante di Nanto nutre per i suoi bambini.

1

È un fidato generale del Re di Hokuto. Viene incaricato di fermare l’avanzata di Ken verso il castello dove lo attende il sesto Guerriero.

Dani (1) e Kan (2) 2

Due bambini del gruppo di orfani adottati da Fudo. Dani verrà preso in ostaggio da Hiruka.

Yado

Truppe ninja Sono gli ultimi combattenti che Kenshiro incontra prima di giungere al castello del sesto Guerriero. Utilizzano spade avvelenate.

Monaci guerrieri

Comanda una squadra di motociclisti dell’armata de Re di Hokuto, incaricati di intercettare Ken diretto al castello di Raoul.

Eremiti che praticano la religione buddhista; attaccano Ken mentre si dirige sul luogo dove Fudo e Raoul stanno combattendo.

Uza

Pell

Un attendente del Re di Hokuto. Compare nell’episodio 102, durante la convalescenza di Raoul dopo il rapimento di Julia.

Il cagnolino di Lynn. Segue la sua padrona in tutte le occasioni ma, a volte, proprio per proteggerlo, Lynn si mette nei guai.

Serie TV: Ken il Guerriero (1)

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Serie TV

Lettura

ANIME

KEN IL GUERRIERO (2° serie)

(Hokuto no Ken 2 - T. Ashida, 1987) di Stefano Baccolini

A

diversi anni di distanza dalla sconfitta di Raoul, un nuovo impero ha preso il posto del dominio dispotico del Re di Hokuto, un impero che trae legittimazione dalla tradizione visto che il monarca che lo regge viene definito “Figlio del Cielo”, appellativo che conduce irrevocabilmente verso la Cina. L’Imperatore è una figura avvolta nel mistero, tanto che il potere effettivo è esercitato in sua vece dal crudele viceré Jako, il quale si è prefisso di estinguere le scuole di Nanto e Hokuto, eliminandone perfino il ricordo. A questo progetto si oppongono naturalmente i giovani Lynn e Bart, ora cresciuti e a capo di un gruppo di rivoltosi noti come “l’Armata di Hokuto”, sotto la tutela del vecchio Rihaku, unico sopravvissuto delle “Cinque Forze” Nanto. L’impresa appare ardua; l’Impero è bene organizzato e il suo esercito è comandato da generali di straordinarie capacità, maestri della Scuola di Cento, un’arte marziale estremamente distruttiva. Ken, da molti ritenuto morto, riemerge dalle sabbie del deserto – come aveva fatto nella prima serie – e si pone alla testa dell’Armata di Hokuto marciando alla volta della capitale dell’Impero per ristabilire l’ordine e liberare l’Imperatore, il quale, si scoprirà, è in realtà una giovane fanciulla tenuta prigioniera da Jako. La rivolta contro il perfido viceré sarà tuttavia solo il preludio a una missione ancor più pericolosa, che Ken dovrà sostenere nell’inaccessibile Isola dei Demoni, dove emergeranno le vere origini dell’Hokuto. Quella terra, in cui Tige, il generale della Luce Verde di Cento, condurrà Lynn dopo averla rapita, è sottoposta alla violenza di una sorta di casta guerriera nota come “Asura” o Demoni. La gente comune vive in preda al terrore, nell’attesa di un leggendario liberatore di cui si favoleggia il ritorno…

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Serie TV: Ken il Guerriero (2)


ANIME Sigle: “Tough Boy” (apertura) cantata da TOM*CAT testo di TOM musica di TOM arrangiamenti di Tsuyoshi “Jick” Ujiki, TOM

Dall’omonimo manga di Buronson e Tetsuo Hara Regia generale: Toyoo Ashida “Love Song” (chiusura) Script: Yukiyoshi Ohashi, Higashi Shimizu, cantata da TOM*CAT Hiroshi Toda Character design: Masami Suda testo di TOM Direzione artistica: Nobuto Sakamoto musica di Kaoru Takagaki Direzione animazione: Junichi Hayama, Hi- arrangiamenti di Light House Project ronobu Saito Animazione: Toei Animation Produttore: Yoshio Takami Musiche: Nozomi Aoki Produzione: Shueisha, Toei Animation Commento Morto Raoul, personaggio che aveva rappresentato l’antagonista principale di Kenshiro, e rimosso così uno dei pilastri fondamentali su cui poggiava la prima serie, le avventure dell’uomo dalle sette stelle riprendono con l’innesto di numerose novità: appaiono nuove scuole di arti marziali e nuovi guerrieri, che introducono ulteriori filoni narrativi. Questa seconda serie ha destato diverse perplessità per le varie incongruenze logiche che ha innescato: ad esempio quella inerente al luogo di origine dell’Hokuto, tradizionalmente la Cina, che qui viene invece indicato essere un’isola (quella dei Demoni), identificabile come il Giappone; o la controversa ubicazione della tomba della madre di Kaio, il più forte tra tutti i Demoni, che avrebbe dovuto coincidere con quella dei genitori di Raoul e Toki (essendo i tre tutti fratelli) mostrata nella prima serie, anziché trovarsi presso una zona vulcanica nella terra degli Asura, Lo scenario postatomico è stato conservato nella prima parte, con una resa più “occidentale” di alcuni personaggi e simbologie: la Croce di Malta come emblema della Scuola Imperiale di Cento fornisce uno stile vagamente medievale ai guerrieri dell’Impero; vi sono poi protagonisti come Ain, volutamente “americanizzato” nel modo di vestire e in qualche atteggiamento farsesco, o come Falco, il generale della Luce Dorata, decisamente ispirato all’attore Dolph Lundgren, antagonista di Stallone in Rocky IV; senza dimenticare personaggi di contorno come per esempio Barona e Bask, copie “animate” di Mr T e di Hulk Hogan.

Scheda

Titolo originale: “Hokuto no Ken 2”, 北斗の拳 2 Prima trasmissione: su Fuji TV, dal 13 marzo 1987 al 18 febbraio 1988

Dal punto di vista ideologico, tutto si svolge sulla falsariga di ciò che abbiamo già visto nella serie precedente, in uno schema che si ripete uguale a sé stesso. Molti personaggi malvagi opposti a Kenshiro vengono in un certo senso mondati dalla negatività che li caratterizza, e finiscono per trasformarsi in personaggi positivi: Falco, svelate le vere motivazioni che lo spingono ad appoggiare Jako, diverrà uno dei protettori di

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Serie TV ANIME

Lynn; Ork, nemico-alleato di Ken nella terra dei Demoni, e lo stesso Hyo, fratello dell’uomo dalle sette stelle, subiranno la stessa metamorfosi, analogamente a quanto avverrà perfino con il crudelissimo Kaio, il quale, dopo la sconfitta, finirà con il rinnegare la pro-

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pria natura demoniaca. Di quanto sia pesante l’assenza di Raoul si è accennato, e in effetti la figura del Re di Hokuto continua ad aleggiare come un fantasma: il viceré Jako, traumatizzato in gioventù proprio da lui, è spinto da questa esperienza a un’ossessiva crociata contro Nanto e Hokuto; e, nell’Isola dei Demoni, è Raoul e non Ken il salvatore che tutti attendono con ansia. Il fantasma si materializza poi esplicitamente nel personaggio di Kaio che, oltre a essere il fratello, di Raoul è anche il sosia. Il protagonista rimane comunque Kenshiro, naturalmente, anche lui cresciuto rispetto alla prima serie e, per certi versi, incattivito con uno stile da motociclista dark sottolineato alla perfezione da una sigla iniziale decisamente metal. Sempre lui, spalleggiato dai suoi giovani amici Lynn e Bart, dovrà opporsi in prima battuta ai guerrieri della scuola imperiale di Cento e poi, per salvare la stessa Lynn, sarà costretto ad affrontare la nemesi dell’Hokuto, la scuola demoniaca dell’Hokuto Gemmy. Nuovamente, come nella prima serie, è forse fin troppo ieratico e distaccato, ancora animato dal ricordo di Julia, e invano cercherà di fare breccia nel suo cuore la giovane Lynn. Rispetto alla prima serie si arricchisce anche la figura di quest’ultima, che viene ad assumere sempre più importanza sostituendo quasi Julia come motore narrativo della vicenda. Di Lynn conosceremo un importante segreto che giustifica la sua “straordinarietà”. Bart, da adulto, perde la passione per la meccanica, anche se non lo abbandona quell’aria scanzonata che l’aveva reso simpatico nella prima serie. Guida l’Armata di Hokuto e ama segretamente Lynn, amore sulla cui corresponsione penderà un artificio finale… Altro personaggio rilevante è Falco, il guerriero più forte della Scuola Imperiale di Cento: di carattere nobile, è costretto a sottostare docilmente ai ricatti del viceré Jako che tiene in ostaggio l’Imperatore a cui il generale è devoto, ma grazie a Ken avrà poi modo di riscattarsi. Nel segmento narrativo che si svolge sull’Isola dei Demoni emergono soprattutto tre personaggi: Ork, figlio di un pirata, addestrato nella scuola di Hokuto Gemmy, ma mai realmente pervaso dallo spirito satanico tipico dei cultori di quest’arte marziale; Hyo, secondo nella gerarchia “demoniaca” dell’Isola, anch’esso maestro dell’Hokuto Gemmy, ma di carattere mite, in questo molto simile a Ken che si scoprirà poi essere suo fratello; e infine il già citato Kaio, vero

Serie TV: Ken il Guerriero (2)


ANIME e proprio demone incarnato, che raccoglie da Raoul il testimone nel ruolo di cattivo da sconfiggere. Permangono, come nella prima serie, alcune differenze tra manga e anime: nel fumetto, ad esempio, compaiono i figli di Jako, assenti nel cartone (sostituiti dai generali Borz e Tige), e sono lievemente diverse le modalità dello scontro tra il generale Falco e i Falchi di Nanto (unica apparizione di esponenti di questa arte marziale). Le tecniche di combattimento, probabilmente per favorire lo spettacolo, abbandonano la fisicità della prima serie: sbuffi di vapore, aure energetiche, raggi di potere psichico sostituiscono i calci e i pugni. Il Cento è una forma di lotta che brucia le cellule dei tessuti, e i maestri di quest’arte sfoggiano mani rilucenti; l’Hokuto Gemmy (Hokuto Ryū Ken) fa ampio ricorso a quello che viene definito “spirito demoniaco” di cui sono permeati e in un certo qual modo succubi i suoi guerrieri, una specie di follia omicida che permette loro di uccidere gli avversari senza quasi toccarli. Simili invenzioni sono certamente frutto del desiderio di offrire ai telespettatori novità interessanti, ma hanno anche rappresentato motivi di critica: si sono sentiti spesso fan di Hokuto no Ken esprimere perplessità verso tali manifestazioni “esoteriche” che, di queste arti marziali quasi magiche, accentuano ancor più l’enfasi e l’esagerazione già presenti nella prima serie, anche se il tutto dovrebbe fare parte del fascino dell’opera. Il finale, con la morte di Kaio, chiude bruscamente la vicenda televisiva di Ken il Guerriero, che ebbe invece un seguito nel manga, al punto che per

anni si è continuato a vociferare di una fantomatica terza serie in odore di allestimento, ma in realtà mai prodotta. Per certi versi può essere stata una fortuna, dal momento che l’attesa spasmodica di un seguito ha contribuito ad alimentare il mito di un anime che ha segnato profondamente l’infanzia di molti odierni trentenni, contribuendo così alla sua riproposizione più recente grazie a una serie di OVA e lungometraggi cinematografici. n Stefano Baccolini

Il ritorno di Kenshiro #1. ...e la vita continua #2. Ritorno di fiamma #3. La salvezza viene dal nord

S

ono trascorsi degli anni dalla morte di Raoul; di Kenshiro, partito con la sua amata Julia, non si hanno più notizie. Nel frattempo una nuova potenza militare ha colmato il vuoto di potere lasciato dalla scomparsa di Hokuto e Nanto: si tratta del dispotico Impero, governato con violenza dal

reggente Jako. Lo stato di oppressione del popolo sembra essere tornato quello dei tempi bui, quando spadroneggiavano i signori della guerra. Un giorno, nella locanda in cui serve come cameriere il giovane Haru, giunge uno straniero misterioso...

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Serie TV ANIME

La Scuola di Cento #4. Cacciatori di taglie #5. La Scuola Imperiale di Cento #6. L’Armata di Hokuto #7. I Falchi di Nanto #8. Quando si vuole bene...

I

l ritorno di Kenshiro getta nel panico il viceré Jako, che pone una grossa taglia sulla sua testa e ordina di sopprimere chiunque abbia a che fare con la Divina Scuola. Tra gli aspiranti alla ricompensa spicca Ain, un bellimbusto sbruffone, molto efficiente nel suo mestiere di cacciatore di

ricercati. Ken è però troppo potente per i normali sicari, ed è spalleggiato dall’Armata di Hokuto agli ordini di Lynn e Bart; per cercare di fermarlo devono dunque entrare in azione i generali dell’Impero, seguaci della temibile scuola marziale di Cento.

enshiro e l’Armata di Hokuto sono ormai prossimi a raggiungere la capitale dell’Impero. La situazione per Jako si fa critica: ha già perso il generale della Luce Purpurea, Soria, e deve ora far fronte alla ribellione di Shoki, il generale della Luce Rossa che mal sopporta la sua spietatezza.

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Anche il potente Falco, generale della Luce Dorata, disprezza il viceré e il suo modo di governare, ma una ragione ignota lo trattiene dallo schierarglisi apertamente contro. Il segreto che permette a Jako di tenere in scacco Falco ha a che vedere con l’identità misteriosa dell’Imperatore?

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Saputo che Falco si è già messo sulle tracce di Tige, Kenshiro parte a sua volta alla liberazione di Lynn. Ottenuto un passaggio a bordo del vascello del Pirata Rosso, riesce ad attraversare l’Oceano ma, quando sbarca nell’isola dei demoni, trova il generale della Luce Dorata in fin di vita.

La resa dei conti #9. La capitale dell’Impero #10. L’ultimo ostacolo #11. L’Imperatore #12. La Signora del Cielo

L’Isola dei Demoni #13. Rapimento #14. Pirati #15. La Terra dei Demoni

ako è sconfitto e l’Impero è caduto, ma Tige, il generale della Luce Verde, riesce a fuggire portando con sé Lynn. La sua destinazione è la Terra dei Demoni, oltre le acque del Mar Morto, un’isola che la leggenda vuole popolata da una genìa di combattenti spietati votati alla violenza.

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ANIME

La Scuola di Hokuto Gemmy #16. Killer #17. Amore rubato #18. Neve rosso sangue

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ynn è finita nelle mani del demone Caesar, e da questi messa in palio come premio da assegnare al vincitore di un duello tra guerrieri. La sua prigionia non dura però a lungo, grazie all’intervento di un misterioso combattente dalla chioma bianca, che la sottrae ai suoi carcerieri.

Il ragazzo si fa chiamare Ork e pratica una tecnica di lotta molto simile all’Hokuto. I suoi fini non sono affatto disinteressati: è intenzionato a consegnare Lynn al potente demonio Ronn, certo di riuscire, così facendo, a mettere quest’ultimo e Kenshiro l’uno contro l’altro.

ome previsto da Ork, Kenshiro e Ronn si sfidano a duello, dando così modo al giovane seguace dell’Hokuto Gemmy di spiare le tecniche di combattimento di entrambi. Sconfitto l’avversario, Ken si rende conto che, inaspettatamente, la sua vittoria è stata interpre-

C

tata come un segno del destino. Una leggenda narra, infatti, che un uomo dagli immensi poteri, di nome Raoul, un giorno approderà sull’isola per liberarla dal dominio dei demoni. Quel giorno sembra essere arrivato, e Ken viene dunque scambiato per il tanto atteso Liberatore.

I

Pirata Rosso e della sua ciurma. Contemporaneamente, il maestro Jukei affronta il suo discepolo di un tempo, il demonio Hyo, col proposito di risvegliarne la memoria, cancellata anni prima per mezzo delle tecniche Gemmy dallo stesso Jukei.

In attesa del Salvatore #19. Il ritorno di Raoul #20. Casa, dolce casa #21. Il liberatore #22. I sette cavalieri #23. La leggenda continua #24. Lotta impari #25. Maestro e discepolo

Il Primo Demonio #26. Il colpo segreto #27. Pericolo mortale #28. Il ritorno del Pirata Rosso #29. Il sacrificio dei pirati #30. Prova di amicizia #31. Il risveglio di Ken

l viaggio di Kenshiro giunge al momento decisivo con la sfida contro il più potente di tutti i demoni, Kaio, che padroneggia la terrificante tecnica dell’Hokuto Gemmy. Per l’uomo dalle sette stelle, l’impresa di sconfiggerlo si presenta più ardua che mai, nonostante l’aiuto di Ork e l’intervento del

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Serie TV ANIME

I due fratelli #32. Desiderio di vendetta #33. La rivelazione #34. Duello fraterno #35. Scontro crudele #36. Barlumi di memoria

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aio dimostra tutta la propria spietatezza uccidendo sua sorella Sayaka per incolpare Kenshiro e renderlo così oggetto della rabbia incontrollata di Hyo, che della ragazza era innamorato. Il desiderio di vendetta e la nefasta influenza di Kaio stanno cambiando inesorabilmente il ca-

rattere del Secondo Demonio, scoraggiando perfino Nagato, suo braccio destro e soldato a lui più fedele. Il destino mette sulla strada di Kenshiro proprio Nagato, che inaspettatamente decide di offrirgli ospitalità e di soccorrere il ferito Ork.

rk e Laia si recano al Santuario di Hokuto, il Palazzo Raseide, per scoprire un importante segreto riguardo la Divina Scuola. Trovano però Kaio lì ad attenderli. Durante il combattimento che ne consegue, fa la sua apparizione una statua luminosa che rappresenta la principale famiglia di

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Hokuto e che pare infondere grandi poteri a Ork. Per la prima volta le certezze di Kaio sulla superiorità della Sacra Gemma vacillano. All’interno della statua si cela una stele, nelle cui iscrizioni è racchiuso il segreto di Kempo. Il potere di decifrarle appartiene soltanto a Kenshiro.

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Un altro elemento di tensione si aggiungerà all’incertezza di un combattimento destinato a decidere il futuro dell’Isola: Lynn, caduta in stato d’incoscienza vittima di un colpo speciale infertole da Kaio, è destinata a innamorarsi del primo uomo che vedrà non appena riaprirà gli occhi.

Il segreto di Kempo #37. La statua #38. La morte di Ork

Scontro finale #39. Amore contro odio #40. L’anello della morte #41. I due cugini #42. Il ritorno di Bart #43. Addio, Ken

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ra le esalazioni infernali di una pozza di lava si consuma l’ultimo confronto tra Kenshiro e Kaio. All’evento decisivo parteciperanno anche Hyo, che ha ormai ritrovato la memoria, e l’Armata di Hokuto, la quale, sotto il comando di Bart e Rihaku, è sbarcata sulla Terra dei Demoni.

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ANIME I nomi indicati sono quelli utilizzati nella versione italiana dell’anime

Kenshiro

Lynn

Tornato dopo 10 anni di assenza, il nostro eroe affronta un impero violento che mira a cancellare dal mondo ogni traccia dell’Hokuto.

La dolce bambina di un tempo è diventata una splendida e indomita ragazza che lotta senza risparmio contro l’oppressione.

Rihaku

Bart

L’ultimo sopravvissuto delle Cinque Forze di Nanto comanda ora l’Armata di Hokuto, il gruppo ribelle che si oppone all’Impero.

Cresciuto e maturato, ha raccolto l’eredità lasciatagli da Kenshiro: insieme a Lynn guida in missione le truppe dell’Armata di Hokuto.

Louise

Ain

È l’imperatrice, la Signora del Cielo, gemella di Lynn. Viene tenuta prigioniera da Jako per costringere Falco all’obbedienza.

Spavaldo cacciatore di taglie, sbruffone ma dall’animo buono. Divenuto amico di Bart, metterà i propri pugni al servizio della causa di Hokuto.

Falco

Shoki

Il Generale della Luce Dorata, il più potente dei guerrieri di Cento. Una volta liberata l’Imperatrice, si schiererà dalla parte di Kenshiro.

Il Generale della Luce Rossa, in passato amico di Ken. È un uomo onesto che finirà con l’opporsi alla politica violenta e prepotente di Jako.

Tiga/Tige

Jako

Il Generale della Luce Verde. Privo di scrupoli e di ideali, serve Jako salvo poi tradirlo. Sarà lui a rapire Lynn e a portarla nella Terra dei Demoni.

Esercita il potere assoluto nel nome dell’Imperatrice, che in realtà tiene prigioniera. È un uomo folle e crudele, privo di ogni senso morale.

Borz

Soria

Il Generale della Luce Blu. Responsabile della morte a tradimento di Shoki, troverà la sua giusta punizione in combattimento contro Ken.

Generale della Luce Purpurea. Incaricato di cancellare ogni traccia di Hokuto e Nanto, affronterà Ken presso il villaggio di Mamiya.

Buzz

Gil

Lui e Gil sono i fratelli Harn, i Falchi di Nanto. Tenuti prigionieri in un enorme blocco di cemento, si libereranno per allearsi con l’Armata di Hokuto.

L’intervento eroico di Buzz e Gil salverà l’Armata di Hokuto quando starà per soccombere contro le truppe comandate dal Generale Falco.

Sya

Muh

Fido soldato agli ordini di Falco. A lui il Generale della Luce Dorata affiderà il meccanismo per attivare le bombe nel centro della capitale.

La donna di cui Falco è innamorato, anche lei ridotta da Jako all’obbedienza. Verrà liberata da Bart e Ain, insieme all’Imperatrice Louise.

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Serie TV ANIME Kaio

Hyo

Fratello di Raoul e Toki, è il più potente dei demoni. Ha ceduto al “lato oscuro” dell’Hokuto Gemmy, lasciandosi dominare dall’ambizione.

Fratello maggiore di Kenshiro. Privato dei ricordi e plagiato da Kaio, rinsavirà solo dopo un sofferto recupero della memoria.

Ronn

Ork

Sottoposto solo a Kaio e Hyo, Ronn è terzo nella gerarchia dei demoni. Portandogli in dono Lynn, Ork lo costringerà a vedersela con Kenshiro.

Straniero cresciuto suo malgrado nella Terra degli Asura, vive in incognito uccidendo nottetempo i demoni, come una sorta di serial-killer.

Rock

Pirata Rosso

Al comando di una banda di sette uomini, difende la povera gente dai soprusi dei demoni, in attesa della profetizzata venuta di Raoul.

È il padre di Ork. Porta Kenshiro nella Terra dei Demoni, e più tardi vi sbarcherà a sua volta alla ricerca del figlio, scomparso da molti anni.

Caesar

Nagato

Il demone che ha catturato Lynn, promettendola poi come premio per un combattimento. Sarà Ork ad affrontarlo, proprio per sottrargli la ragazza.

È il braccio destro di Hyo. Lo serve con sincera lealtà, nella convinzione che prima poi spodesti Kaio per diventare il Primo Demone.

Jukei

Yasha Nero

Esperto dell’Hokuto Gemmy, è stato il maestro di Kaio, Hyo, Ronn e Ork. Cercherà di fermare Hyo prima dello scontro col fratello Kenshiro.

È un combattente di Hokuto, assegnato come servitore a Kenshiro ancor prima che quest’ultimo venisse al mondo.

Laia

Tuh

La donna innamorata di Ork. Insegna ai bambini l’importanza dell’amore, cercando di dissuaderli dall’apprendere le arti violente dei demoni.

Il fratello minore di Aska. Pentito d’essere entrato in una delle scuole di addestramento dei demoni, verrà liberato da Kenshiro.

Julia

Mamiya

Dopo la vittoria contro Raoul, Ken e Julia hanno vissuto alcuni anni felici, prima che lei si spegnesse serenamente presso il villaggio di Shoki.

Ha mantenuto l’impegno di non toccare più le armi, giurato sulla tomba di Rei, ma Soria metterà a dura prova questa promessa.

Aska

Airi

È la bambina adottata da Ain sentendosi in colpa per aver causato la morte della madre, una ragazza che gli aveva salvato la vita.

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Dopo la morte del fratello Rei, Airi ha continuato a vivere nel tranquillo villaggio di Mamiya. L’arrivo di Soria rischierà di turbare questa pace.

Serie TV: Ken il Guerriero (2)


ANIME 1

Haru (1) e Jack (2) 2

1

Gronko

Haru è un giovane cameriere che si priverà del proprio cibo per darlo a Ken. È figlio del ribelle Jack.

È l’Ufficiale Giudiziario, incaricato dall’Impero di catturare i ricercati. È da tempo alla caccia di Jack, il ribelle che in passato lo sfregiò.

Bask (1) e Barona (2) 1

Zolta (1) e Zalgi (2) 2

I due fanatici assassini posti dall’Impero a guardia della presunta tomba di Kenshiro.

Minacciando di giustiziare una in- 2 nocente, Bask e il suo scagnozzo Barona tentano di far costituire Lynn.

Il Barone (1) e Lei (2) 1

Bruto (1) e Geira (2) 2

1

Bruto, così come Ain, è un cacciatore di taglie che offre i propri servigi al comandante Geira.

Per vendicarsi di uno sgarbo fat- 2 togli da Ain, il Barone ordinerà a Lei di rapire la piccola Aska.

Demone mascherato

Josef

È il più forte dei guerrieri posti a difesa della spiaggia di approdo alla Terra dei Demoni. Dopo aver ferito Falco, affronterà anche Ken.

1

Si prende cura della figlioletta adottiva di Ain durante le assenze del padre. Non riuscirà a impedire il rapimento della piccola a opera di Lei.

6

I comandanti demoni 2

2

3

Kain (1), Gyoko (2), Alf (3), Gammon (4) e altri 4 combattenti hanno affrontato Kenshiro nella Terra dei Demoni, uscendone sempre sconfitti.

Kayota

Kosem

Quando Kenshiro rimarrà in stato di morte apparente dopo il confronto con Kaio, Ork lo porterà dal vecchio amico Kayota per nasconderlo.

Joan

Il padre di Rock. In passato aveva attraversato l’oceano per strappare a Raoul la promessa di liberare la sua terra dalla tirannia dei demoni.

Padre di Nagato

È un intraprendente ragazzino che, salvato da Rock, chiederà di unirsi alla sua banda per combattere contro gli spietati demoni.

I pirati

Ospiterà a casa propria Kenshiro, ed è a lui che Nagato confiderà i propri dubbi riguardo il cambiamento del carattere di Hyo.

Madre di Kaio e Raoul

Gli uomini del Pirata Rosso sono valorosi marinai che seguiranno il loro capitano nella Terra dei Demoni nel tentativo di ritrovare Ork.

Ha sacrificato la vita per salvare da un incendio i piccoli Hyo e Kenshiro. La sua morte ha determinato il risentimento di Kaio verso l’Hokuto.

Serie TV: Ken il Guerriero (2)

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Serie TV

Serie TV

ANIME

LA SPADA DI KING ARTHUR (1° serie)

(Entaku no Kishi Monogatari: Moero Aasaa - M. Akehi, 1979) di Massimo De Faveri

I

n occasione del terzo genetliaco di suo figlio il principino Artù, re Uther di Camelot annuncia agli altri sovrani britanni l’esigenza di sedare i contrasti che da sempre dividono i sette reami di Wrogles. Ad appoggiare la prospettiva della pace sono Ban, re di Venick, e Leoglanche, re di Camele-Yard. Non tutti, però, condividono lo stesso entusiasmo: l’ambizioso re Lavic di Astrat sospetta che l’intenzione di Uther sia quella di conquistare il potere assoluto sull’intera Britannia, potere che egli stesso brama. Istigato dalla perfida Morgana, la strega del monte West-Hel, Lavic porta a compimento un piano ignobile: alla testa di un manipolo di mercenari chiamati Cavalieri Neri assalta nottetempo il castello di Camelot, assassinando Uther, facendo ricadere la colpa su re Ban e cogliendo così il pretesto per uccidere anche quest’ultimo. Dalla strage si salva solo Artù, che sua madre, la regina Igraine, affida al mago Merlino. Creduto morto da tutti, e accolto nella famiglia del cavaliere Hector che lo alleva come fosse suo figlio, Artù cresce inconsapevole del proprio lignaggio, diventando un coraggioso ragazzo educato ai principi cavallereschi. Il suo anonimato dura fino al giorno in cui, prendendo parte a una prova indetta dall’Arcivescovo di Canterbury, tra lo stupore generale egli estrae senza sforzo una spada fusa in un’incudine, realizzando in tal modo quanto predetto da un’antica profezia secondo cui l’uomo che avesse compiuto quell’impresa sarebbe stato designato a diventare il futuro re di Britannia. Il particolare segno a forma di giglio che Artù porta impresso sulla spalla sinistra attesta la sua identità di erede di Uther, e legittima la sua immediata successione al trono di Camelot. Inizia così per lui una lunga avventura votata a realizzare il progetto di unità e giustizia sognato da suo padre, un cammino impegnativo che lo porterà ad

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Serie TV: La Spada di King Arthur (1)


ANIME Character design: Takuo Noda Animazione: Takuo Noda, Yasuhiko Suzuki, Joji Kikuchi, Akira Shinoda, Higashi Numajiri Montaggio: Osamu Tanaka Suono: Kenji Ninomiya Musica: Shinichi Tanabe Sigla iniziale: “Kibou you sore wa”, testo di Eiichi Sekine musica di Shunsuke Kikuchi cantato da Isao Sasaki e Koorogi ’73 Sigla iniziale: “Hana no naka no Hana”, testo di Eiichi Sekine musica di Shunsuke Kikuchi cantato da Mitsuko Horie e Koorogi ’73 Produttore: Toshio Katsuta Produzione: Toei Animation

affrontare in una lotta senza quartiere re Lavic e i terrificanti poteri magici di Medessa. Nel corso dell’estenuante guerra, oltre al sostegno da parte di Hector e del fratellastro Kei, Artù potrà contare sulle spade di preziosi alleati. Il primo a unirsi a lui è Lancillotto, il formidabile Cavaliere del Lago erede al trono di Venick, desideroso di riabilitare il nome di suo padre, il defunto re Ban; sarà poi la volta dell’astuto Tristano, il Cavaliere dell’Arpa figlio di Filippo re di Cornovaglia (Con-Wall), regno occupato dalle truppe di Astrat; seguirà il principino Guerrehet, figlio di re Graston di Worls, di cui Lavic tiene prigioniera la madre; poi il semplice e vigoroso Percival, capo di una banda di ribelli che si oppongono al governo di re Longinos, alleato di Lavic; infine la bella e misteriosa Fiene, inviata da Merlino a proteggere il principe di Camelot. L’appoggio di questi cavalieri, simbolicamente riuniti da Artù intorno alla Tavola Rotonda, sarà fondamentale. Grazie a loro il principe riuscirà nell’impresa di farsi affidare la spada magica Excalibur da Viviana, la Dama del Lago, e lo Scudo Sacro dall’eremita Narsians. Con queste due armi portentose affronterà nel duello finale Lavic e Medessa. Commento Tratta da un manga di Satomi Mikuriya ispirato all’opera epica Le Morte d’Arthur di sir Thomas Malory, La Spada di King Arthur (Entaku no Kishi Monogatari: Moero Aasaa) è la prima serie animata giapponese a occuparsi – molto liberamente – della leggenda di re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda. Siamo nel 1979, l’interessamento verso il mondo

Scheda

Titolo originale: “Entaku no Kishi Monogatari: Moero Asaa” 円卓の騎士物語 燃えろアーサー Prima trasmissione: dal 9 settembre 1979 al 30 marzo 1980 Manga e storia originale: Satomi Mikuriya Tratto dall’opera: La Morte d’Arthur di Thomas Malory Regia generale: Masayuki Akehi Regia: Akinori Orai, Kozo Morishita, Masamune Ochiai, Masayuki Akehi, Kazumi Fukushima, Johei Matsuura, Shigeru Omachi, Tomoharu Katsumata, Tokiji Kaburaki Script: Akira Nakano, Mitsuru Majima, Tsunehisa Ito

della Letteratura occidentale, vista come serbatoio inesauribile di opere e ispirazione, assume una identità ufficiale nel progetto del Meisaku (“World Masterpiece Theater”) targato Nippon Animation, nell’ambito del quale sono già state prodotte serie come Marco, Peline Story, Anna dai Capelli Rossi. Si tratta in questi casi di trasposizioni piuttosto fedeli di romanzi famosi, che pongono molta attenzione alla sceneggiatura sforzandosi di preservare le dinamiche delle opere originali e il loro contenuto educativo. Nonostante l’altisonante derivazione letteraria de La Spada di King Arthur, la Toei affronta l’impegno con un ben altro approccio, ossia quello di un divertimento “grossolano” e disimpegnato (specie per quanto riguarda i costi). Non deve stupire quindi che, dell’opera originale di Malory, resti ben poco: solo i nomi dei personaggi e il breve incipit. Il ciclo bretone è un pretesto per mettere in scena una trama ridotta all’essenziale, fatta di facili avventure per bambini che vedono come protagonisti Artù e, di volta in volta, uno o più dei suoi cavalieri. Stranamente, rimane quasi del tutto ignorato il ruolo di Merlino: la componente magica resta confinata alla figura di Medessa (la fata Morgana), e a qualche personaggio di contorno. Anche Ginevra è poco più che una comparsa. Il cartone impegna alla regia due veterani delle serie Toei: sono MasayukiAkehi e Tomoharu Katsumata, Che insieme avevano già diretto Devilman nel 1972, e singolarmente serie famose anche in Italia come (Akehi) Ryu, il Ragazzo delle Caverne nel 1975 o (Katsumata) Mazinga Z (1972), Gaiking, il Robot Guerriero (1976), Atlas UFO Robot (1975), Danguard (1977) e altre ancora. n Massimo De Faveri

Serie TV: La Spada di King Arthur (1)

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Serie TV ANIME

#1. Nasce il principe Artù

#2. La stella di Camelot

#3. Lancilotto, il Cavaliere del Lago

I

l progetto del saggio re Uther, sovrano di Camelot, è quello di pacificare il vasto territorio di Wrogles, risolvendo con buon senso i disaccordi che dividono da tempo i vari reami. La sua intenzione è tuttavia osteggiata dall’ambizioso re Lavic di Astrat, il quale, istigato dalla strega Medessa, non esita ad assassinare Uther e la sua famiglia, facendo poi ricadere la colpa su Ban, re di Venick. Alla strage scampa tuttavia il principino Artù, salvato dal mago Merlino. Creduto morto da tutti, per tredici anni il piccolo vive in incognito affidato alle cure del cavaliere Hector.

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entre in tutta Wrogles si diffonde la notizia che il figlio di Uther è vivo e ha adempiuto alla profezia della spada (la leggenda che indicava come futuro re d’Inghilterra colui che avrebbe estratto una lama infissa in un’incudine), Artù prende possesso del castello di suo padre, a Camelot. Lo accoglie Brant, un cavaliere da sempre fedele alla famiglia reale. Prima che il giovane possa insediarsi definitivamente nella carica che gli compete, e reclamare la sovranità sull’intera Wrogles come sancito dalla profezia, Lavic invia un drappello di soldati ad attaccare il castello di Camelot.

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#4. Tristano, il Cavaliere dell’Arpa

#5. Il piccolo coraggioso Guerrehet

#6. La sacra spada Excalibur

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rtù e Lancillotto partono alla volta della foresta di Northwood, dove dimora Merlino. Il mago, essendo stato testimone dei fatti, è l’unico in grado di fare chiarezza sulla morte di re Uther, e confermare o meno se il colpevole sia stato realmente il padre di Lancillotto. Durante il viaggio giungono presso un piccolo paese di frontiera vessato da una guarnigione di soldati del regno di Worls, i quali, con la scusa di pretendere un pedaggio, derubano i viandanti. Nel villaggio incontrano anche un menestrello forestiero di nome Tristano, che si rivela essere il principe di Cornovaglia.

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uerrehet, principino del regno di Worls, figlio di re Graston, vorrebbe raggiungere Astrat per chiedere la liberazione di sua madre, imprigionata da re Lavic. La regina viene trattenuta come ostaggio al fine di prevenire qualsiasi velleità di ribellione da parte di Worls. Già da tempo costretto a sopportare la presenza delle truppe di Astrat nel suo territorio, re Graston deve anche sottostare alle richieste di Gusther, comandante dei cavalieri neri, che pretende piena collaborazione nella cattura di Artù. In combutta segreta con l’ufficiale di Lavic c’è l’infido Hastings, il consigliere di Graston.

Camelot si presenta un inviato di re Leoglanche, annunciando l’imminente arrivo in visita della principessa Ginevra. Si tratta in realtà di un espediente per giustificare, col pretesto della scorta, l’invio di una guarnigione in difesa del castello. Artù, impulsivamente, decide di andare incontro alla principessa, ma così facendo si espone a un attacco da parte dei cavalieri neri di re Lavic. A salvarlo nel momento critico interviene il cavaliere Lancillotto, principe di Venick, figlio di quel re Ban che, tredici anni prima, era stato accusato di aver assassinato re Uther.

rtù e Lancillotto, ai quali nel frattempo si sono uniti Tristano e Guerrehet, arrivano a Northwood, dimora di Merlino. Per poter incontrare il mago, Artù deve sottoporsi a un arduo duello contro il misterioso Cavaliere Verde, una prova che il principe, nonostante la sconfitta, riesce a superare in virtù delle qualità morali dimostrate sia da lui che dai suoi compagni. Giunti al cospetto di Merlino, i cavalieri ottengono finalmente la conferma che fu Lavic a uccidere Uther. Il mago rivela inoltre che il re di Astrat è protetto dalla magia quasi insuperabile della perfida strega Medessa.

Serie TV: La Spada di King Arthur (1)


ANIME

#7. L’amico Percival

#8. I cinque cavalieri

#9. Il traditore

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rtù è riuscito a ottenere da Viviana, la Fata del Lago, la custodia della sacra spada Excalibur. Intanto a Merlino giunge notizia che Ginevra è stata rapita dai mercenari di Lavic. Per consentire ai cavalieri di correre in soccorso della principessa, il mago dona loro tre cavalli che hanno la particolarità di poter leggere nel pensiero dei rispettivi padroni. In sella a questi straordinari destrieri, Artù e compagni si mettono in marcia verso Astrat, attraversando il reame governato da re Longinos. Qui, presso un villaggio, s’imbattono in Percival, il capo di una banda di ribelli.

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vvertiti tramite un messaggio portato dal falco di Merlino, Artù e compagni raggiungono il villaggio di Douv, dove sono in sosta i cavalieri neri, con Ginevra prigioniera. Mentre il principe, Tristano e Lancillotto sorvegliano le mosse dei soldati per farsi un quadro della situazione, Percival e Guerrehet decidono di agire. Il loro piano ha successo: i due temerari riescono a liberare la figlia di re Leoglanche e a fuggire. I cavalieri neri si lanciano all’inseguimento, scontrandosi poi con Artù e i suoi. Nell’occasione, in aiuto del principe di Camelot, interviene la misteriosa Fiene.

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#10. Il principe tra le fiamme

#11. Il codice d’onore

#12. La trappola di re Lavik

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n un villaggio, nei pressi del castello di Camelot, scoppia un furioso incendio. Artù, accompagnato da Tristano e da Percival, accorre immediatamente per prestare aiuto. Domate le fiamme, il principe si offre di mettere a disposizione del villaggio, per la ricostruzione delle case, il legname destinato ai lavori di ristrutturazione del castello. Treik, l’amministratore del villaggio, si reca dal capo dei boscaioli, Gar, per concordare la fornitura. Intanto si scopre che l’incendio non è stato accidentale: Peloia ha corrotto il giovane Luca inducendolo ad appiccare le fiamme per attirare Artù allo scoperto.

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a vita di un sovrano non è fatta solo di epiche avventure, ma anche di burocrazia e doveri amministrativi; suo malgrado, Artù deve occuparsi dei compiti meno eroici, come evadere la corrispondenza e rispondere alle numerose richieste presentategli dai sudditi. Mentre il principe cerca di scaricare il tedioso onere sulle spalle del fratello Kei, giunge in suo soccorso un messaggio che lo informa riguardo la probabile ubicazione della dimora di Narsians, l’eremita che custodisce lo Scudo Sacro. Artù coglie al volo l’occasione e parte con Tristano, dirigendosi verso la montagna di Red Stone.

ornato a Camelot, Artù decide di rinnovare i fasti della Tavola Rotonda, il consesso di probi cavalieri incaricati di mantenere la pace a Wrogles. Oltre ai suoi compagni d’arme, ne faranno parte il fratello adottivo Kei e suo padre Hector. Nel frattempo, re Longinos suggerisce a Lavic di recarsi a Canterbury per cercare di portare l’arcivescovo dalla loro parte, contro Artù. L’uomo di chiesa non si lascia convincere, ma il viaggio si rivela ugualmente fruttuoso: Lavic conosce un nuovo alleato, un giovane ed enigmatico monaco di nome Peloia.

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n periodo di siccità sta causando dei problemi in alcuni territori del reame di Camelot, tanto che a corte si suggerisce, come possibile soluzione, di deviare un corso d’acqua per poter irrorare i campi. Il fiume in questione si trova nei pressi di una fortezza conquistata dagli alleati di Lavic. Giunti sul posto, Artù e i suoi compagni cadono in un agguato del solito Gusther. Ancora una volta interviene in loro soccorso Fiene, che li affianca in battaglia e successivamente li assiste nel congegnare un piano che permetta loro di penetrare di nascosto nella fortezza.

Serie TV: La Spada di King Arthur (1)

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Serie TV ANIME

#13. Duello con la strega

#14. L’agguato

#15. Il castello sul lago

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edessa si reca da Lavic per rassicurarlo dopo le recenti sconfitte patite a opera di Camelot. Tuttavia rimane a sua volta turbata quando viene a sapere che Artù è entrato in possesso di Excalibur. Decide allora di scendere personalmente in campo per cercare di sottrarre al principe la spada magica. Il piano che ordisce è subdolo: con uno spostamento di truppe attira Artù e i suoi cavalieri in campo aperto, facendoli poi attaccare da soldati di Venick, il regno di Lancillotto; si tratta di prigionieri tenuti sotto controllo per mezzo della magia, inconsapevoli dunque delle loro azioni.

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#16. Il torneo

#17. Il cavalieri dell’inferno

#18. La battaglia per la fortezza

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er tenere alto lo spirito dei soldati, e in particolare per risollevare il morale del piccolo Guerrehet, sempre molto preoccupato per sua madre prigioniera ad Astrat, Lancillotto suggerisce di indire un torneo e mettere in palio per il vincitore un posto da cavaliere nella Tavola Rotonda. L’iniziativa viene accolta con entusiasmo, e al castello di Camelot cominciano a giungere cavalieri da tutte le parti del regno. Si presenta anche un tal Oreon, proveniente dalla Britannia: egli altri non è che il malvagio Peloia, ancora intenzionato a rubare Excalibur.

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ccolti a Camelot e curati dopo il precedente scontro, i soldati di Venick informano che la situazione nel loro regno si è fatta critica: lord Roswick, cugino di Lancillotto, ha preso il potere col sostegno di Lavic, e sta ora sottoponendo a vessazione il popolo. Intanto, fingendosi un messaggero, Peloia porta al castello la finta notizia secondo cui Narsians si troverebbe nei pressi del monte Topaz, proprio all’interno del reame di Venick. Artù parte alla volta del regno vicino, accompagnato da Percival e Lancillotto; ma, durante una sosta, quest’ultimo viene riconosciuto da un locandiere.

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inevra e Marlene, la sorella di Percival, escono dal castello per una passeggiata, invitando con loro anche Tristano e Guerrehet. La principessa vuole visitare le rovine di Colle Vecchio, un antico maniero appartenuto ai suoi avi. Giunta sul posto, trova però la costruzione perfettamente integra. Non c’è però il tempo di sorprendersi perché il gruppo viene assalito da due inquietanti cavalieri incappucciati, che nella lotta contro Tristano si rivelano come degli esseri invulnerabili. Sono infatti gli spiriti di due cavalieri morti, risvegliati e soggiogati dalle arti malefiche di Medessa.

eguendo la falsa indicazione di Peloia, Artù, Lancillotto e Percival giungono ai piedi del monte Topaz, dove, anziché Narsians, trovano ad aspettarli proprio l’infido monaco al soldo di Lavic, che cerca di impadronirsi di Excalibur. Il tentativo tuttavia fallisce, e Peloia è costretto alla fuga. Prima di rimettersi in viaggio per rientrare a Camelot, Artù accoglie la richiesta di Lancillotto, che intende dirigersi al castello sul Lago per far visita a sua zia Uliens. I cavalieri non possono immaginare che quello è proprio il luogo dove lord Roswick li sta aspettando.

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a crescente popolarità di Artù sta portando alla rivolta la popolazione dei territori di re Longinos. Preoccupato di come sta evolvendo la situazione, re Lavic decide di muovere guerra a Camelot, e impone a re Graston di Worls di scendere in campo in suo sostegno. Graston decide invece di prendere segretamente accordi con Artù, per sancire con lui un’alleanza. Altrettanto fa re Leoglanche, che appronta una flotta per correre in soccorso del principe di Camelot, assestato presso una fortezza di confine; al comando dei suoi cavalieri Artù sta tenendo testa all’avanzata delle truppe di Astrat.

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ANIME

#19. I fiori nel deserto

#20. Il padre di Tristano

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arlene informa Artù di una lettera giunta a Tristano da parte di Isotta, un’amica del cavaliere, che gli ha scritto per invitarlo a far ritorno in patria. Artù coglie l’occasione per chiedere all’amico di condurlo in Cornovaglia allo scopo di discutere con il re Filippo, padre dello stesso di Tristano, un’alleanza con Camelot contro le mire conquistatrici di Astrat. Sulle prime, il Cavaliere dell’Arpa esita, a causa dei suoi dissapori con il padre; egli infatti biasima l’atteggiamento di Filippo, il quale, pur di mantenere una pace formale, accetta da Lavic ogni genere di imposizione.

#22. Il castello magico

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a situazione in Cornovaglia è molto delicata. L’inviato di Lavic, Lord Howard, è fermamente intenzionato a catturare Tristano, considerato traditore per essersi schierato dalla parte di Camelot. Re Filippo, la cui salute nel frattempo si fa sempre più cagionevole, continua a sottostare alle richieste che giungono da Astrat, nell’intento di preservare il proprio regno da una guerra che si annuncerebbe disastrosa. Artù è però determinato a ottenere l’alleanza con la Cornovaglia, e insieme a Tristano trova il modo di penetrare nel castello di Filippo per incontrarlo...

#23. Il dio della montagna

rtù e i suoi cavalieri giungono alla foresta di Northwood dove incontrano Merlino, il quale rivela loro di aver saputo che Narsians dimora sulle montagne Ow Knee, nel nord della Britannia. Il principe riparte immediatamente verso la nuova destinazione, ma un ennesimo contrattempo lo costringe a ritardare. Infatti, nel tentativo di prestare soccorso a una donna di nome Elina, rimasta vittima dei poteri di uno strano personaggio che vive in un castello magico, Artù si ritrova prigioniero di costui, che per liberarlo pretende da lui la risoluzione di uno strano enigma sulle... donne.

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el corso del loro viaggio verso i monti Ow Knee, Artù e i quattro cavalieri fanno sosta presso un piccolo villaggio situato ai piedi del monte Adlas, ospitati da uno degli abitanti, la cui figlia, Julia, proprio quel giorno festeggia il suo tredicesimo compleanno. Nonostante la ricorrenza, l’atmosfera appare tuttavia molto tesa, e il principe di Camelot viene ben presto a conoscenza di un terribile segreto: il villaggio è sottoposto alla tirannia di un essere malvagio di nome Amecis, che dimora sull’Adlas e ogni anno impone agli abitanti di consegnargli in sacrificio una fanciulla.

#21. I cinque del tramonto

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tipulata l’ambita alleanza con re Filippo di Cornovaglia, Artù rientra a Camelot, dove nel frattempo arriva un messaggio di Fiene col quale si annuncia il ritrovamento dell’eremita Narsians, il custode dello Scudo Sacro. Il principe, accompagnato da Lancillotto e Tristano, parte immediatamente per raggiungere la dimora di Merlino, ma lungo la via cade in un’imboscata tesa dall’astuto Peloia. La situazione sembra senza via d’uscita: Artù e compagni si ritrovano intrappolati all’interno di una stretta valle rocciosa, assediati dai Cavalieri Neri.

#24. Il sacro scudo

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iunti finalmente ai monti Ow Knee, Artù e compagni trovano ospitalità presso la casa di un cordiale ma misterioso pastore, il quale li informa di non sapere nulla in merito a Narsians. Al principe non resta che tentare la scalata dei monti, nella speranza di incontrare lassù l’eremita. La salita si rivela estremamente difficoltosa, ma i cavalieri in qualche modo riescono a portarla a termine. Raggiunta la cima dei monti, hanno la sorpresa di trovarsi davanti un castello, sorvegliato niente meno che da un drago feroce. É forse una prova di coraggio a cui Narsians intende sottoporre il re di Camelot?

Serie TV: La Spada di King Arthur (1)

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Serie TV ANIME

#25. La morte di Medessa

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#26. La scomparsa di Lavic

#27. Il messaggero dell’inferno

ecuperato finalmente il tanto agognato Scudo Sacro, Artù non esita un istante di più e si dirige verso la dimora di Medessa per saldare i conti con l’ignobile strega, una volta per tutte. Durante il tragitto si rivelano fondamentali gli oggetti magici che Merlino ha donato ai cavalieri: l’Occhio del Drago di Lancillotto riesce ad annullare il Sortilegio dell’Oscurità e a contrastare i guerrieri dell’Oltretomba risvegliati da Medessa; le Unghie del Drago regalate a Tristano permettono di sfondare l’ingresso del castello nel quale la strega è rintanata.

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#28. Il cavaliere del teschio

#29. La maledizione della neve rossa

#30. L’ultima battaglia

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rtù non riesce a darsi pace per la morte del povero Kei. Hector e i cavalieri tentano in ogni modo di farlo reagire, ma il principe sembra aver perso tutto il suo spirito combattivo. Intanto il Cavaliere del Teschio continua compiere scorribande nel reame, devastando villaggi e minacciando di morte chiunque si schieri dalla parte di Camelot. Peloia supporta l’opera seminando tra la popolazione sospetto nei confronti del principe, infangandone il nome, accusandolo di vigliaccheria e imputandogli la responsabilità di non sapere contrastare gli attacchi dei banditi.

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a notizia della morte di Medessa giunge a Lavic contemporaneamente a quelle di ribellione che arrivano dai regni vicini. In un attimo d’ira incontrollata, Lavic uccide re Longinos, colui che era stato il maggiore dei suoi alleati. Nel frattempo le forze congiunte di Artù e Leoglanche invadono Astrat. Prima di assaltare il castello del loro acerrimo nemico, adesso privato della magica con cui Medessa l’aveva sempre protetto, Artù e i cavalieri devono però accertarsi di poter mettere in salvo la regina Elaine di Walse, madre di Guerrehet, ancora prigioniera di Lavic.

l misterioso fenomeno della neve rossa si manifesta ancora nei boschi intorno al castello di Camelot; qui Guerrehet e Percival vengono aggrediti da Media, la vendicativa figlia di Medessa. Dotata anch’essa di poteri magici, la ragazza ha in mente di sottrarre lo Scudo Magico di Artù, e per farlo è intenzionata a servirsi della complicità involontaria dell’ingenuo Percival. Dopo l’aggressione, si presenta dunque a lui sotto le mentite spoglie di una giovane di nome Maria, facendolo innamorare di sé. Un successivo incontro con Tristano sconvolge però in modo del tutto inaspettato i suoi piani.

confitto il regno di Astrat, per Camelot sembra profilarsi all’orizzonte un periodo di pace e prosperità, eppure alcuni avvenimenti inquietanti turbano la serenità di Artù: in piena primavera si mette improvvisamente a nevicare, una strana neve rossa, mentre nei pressi del castello viene rinvenuto il cadavere di un cacciatore, ucciso da qualcuno. Un giorno al castello di Camelot arriva un messaggio da parte di Ginevra, nel quale si avverte che la principessa è sotto attacco e si richiede l’intervento dei cavalieri. Il messaggero è però l’infido Peloia...

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l redivivo re Lavic torna al castello di Astrat, ridotto ormai a un cumulo di rovine. Per ottenere una rivincita contro Camelot, si è rivolto al re dei Vichinghi, il quale gli ha inviato in soccorso il più valente dei propri guerrieri: Killersen, soprannominato “Lupo del Nord”. Costui cattura casualmente Guerrehet, e offre così l’opportunità a Lavic di sfruttare l’ostaggio per sfidare Artù a duello, sapendolo costretto ad accettare. Dovrebbe essere la resa dei conti tra i due sovrani rivali, ma il re di Astrat ha in mente di farsi sostituire nel combattimento proprio dal temibile Lupo del Nord.

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ANIME Artù

Lancillotto Il giovane e determinato principe che guiderà Camelot alla riscossa contro il dispotico re Lavic.

Il formidabile Cavaliere del Lago, principe di Venick e fedelissimo compagno d’armi di Artù.

Tristano

Fiene Il Cavaliere dell’Arpa, l’astuto e romantico principe di Cornovaglia, alleato prezioso per Artù.

Misteriosa combattente che Merlino invia spesso in provvidenziale soccorso ai Cavalieri di Camelot.

Percival

Guerrehet Il bonario ma indomito capo di una banda di ribelli contro Longinos; diventerà uno dei cavalieri di Artù.

Principino di Walse, diviene uno dei compagni di Artù, il quale lo aiuterà a liberare la madre Elaine, tenuta in ostaggio ad Astrat.

Hector

Kei

Il cavaliere a cui Merlino affida Artù in fasce, dopo l’assassinio di re Uther. Per molti anni alleva il principino come se fosse suo figlio.

Figlio di Hector e fratello adottivo di Artù. Sarà per il principe un fidato consigliere, diventando membro della Tavola Rotonda.

Ginevra

Marlene

L’incantevole figlia di re Leoglanche. La sua presenza alla corte di Artù rinsalderà l’alleanza tra il regno di suo padre e Camelot.

La romantica sorella minore di Percival. Accolta anch’ella alla corte di Camelot, dimostrerà un debole per l’affascinante Tristano.

Lavic

Medessa L’ambizioso re di Astrat; mira a conquistare senza scrupoli tutti i reami di Wrogles.

Malvagia strega che, con le sue arti magiche, garantisce a Lavic protezione e potere.

Gusther

Peloia Bieco sgherro di Lavic; a lui il re di Astrat affida il comando dei mercenari chiamati Cavalieri Neri.

Re Leoglanche Fedele alleato di re Uther, accoglie con favore la candidatura di Artù a re di Wrogles, e non esita a offrirgli amicizia e supporto.

Scaltro e perfido monaco, e abile combattente, offre a Lavic i suoi servigi come spia e sicario.

Merlino Il saggio mago che, salvando la vita al neonato Artù, permetterà al principe di rivendicare anni più tardi la sovranità su Camelot.

Serie TV: La Spada di King Arthur (1)

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Serie TV ANIME Re Longinos Il più importante dei sostenitori di Lavic. È un sovrano oppressivo, sensibile solo al potere e per nulla interessato del bene dei propri sudditi.

Regina Elaine La madre di Guerrehet. È tenuta prigioniera nel castello di Lavic, e usata come ostaggio per costringere re Graston all’obbedienza.

Re Uther

Re Filippo Signore di Cornovaglia, padre di Tristano. Per evitare la guerra accetta l’ingombrante presenza nel suo regno delle truppe di Astrat.

Re Graston Il sovrano di Walse e padre di Guerrehet. Deve suo malgrado sottostare alle imposizioni di Lavic, che ne tiene in ostaggio la consorte.

Regina Igraine

Signore di Camelot e padre di Artù, era il più carismatico tra tutti i sovrani di Wrogles. Re Lavic lo ha ucciso facendo ricadere la colpa su re Ban.

Re Ban

Consorte di re Uther. Quando Lavic assalta il castello di Camelot, la regina decide di consegnare il piccolo Artù a Merlino perché lo porti in salvo.

Arcivescovo di Canterbury

Defunto sovrano di Venick e padre di Lancillotto. Venne ucciso dai sicari di Lavic nello stesso complotto che portò all’assassinio di re Uther

Narsians

La più importante autorità religiosa di Wrogles. Ligio alle profezie, legittima Artù dopo che questi ha estratto la spada dall’incudine.

Cavaliere Verde

Eremita a cui è affidata la custodia dello Scudo Sacro. La ricerca del luogo presso cui dimora impegnerà a lungo Artù e i suoi cavalieri.

Inquietante personaggio che ha dei legami con Merlino. In varie occasioni accorre in aiuto di Artù, ruolo che in seguito toccherà a Fiene.

Media / Maria La giovane figlia di Medessa. Vorrà vendicare la madre tentando di rubare ad Artù lo Scudo Sacro.

Brant

Bart Comandante delle guardie di re Graston. Compare in vari episodi come fedele servitore di Guerrehet e della casa reale di Walse.

Hastings

Uno dei più fedeli cavalieri di re Uther. Accoglie Artù al castello di Camelot dopo l’estrazione della spada dall’incudine.

Consigliere di re Graston, in realtà è in combutta con Gusther e svolge lavoro di spia per Astrat presso la corte di Walse.

Gar

Jim

Il capo dei boscaioli al servizio di Artù, incaricati di procurare il legname per i lavori di ristrutturazione del castello di Camelot.

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Un abitante di Claire; si prepara a capeggiare una rivolta contro l’amministratore locale, che ha aumentato le tasse in nome di Artù.

Serie TV: La Spada di King Arthur (1)


ANIME Luca e Mary Corrotto da Peloia per appiccare un incendio, Luca viene scoperto dall’amica Mary.

Bill

Brad Un cavaliere incontrato da Artù durante uno dei viaggi alla ricerca di Narsians. Il suo senso dell’onore colpirà il giovane principe di Camelot.

Locandiere

Servitore di Brad, mandato a Camelot per chiedere soccorso ai cavalieri della Tavola Rotonda prima del duello tra il suo padrone e Ganam.

Uliens

Proprietario di una locanda, riconosce Lancillotto in occasione del suo ritorno a Venick, e tenta di denunciarlo alle autorità.

Lord Roswick

La zia di Lancillotto. La sua dimora, il Castello del Lago, viene usata da Roswick come trappola per il nipote; lei si sacrifica nel tentativo di avvisarlo.

Cliff

Un ambizioso cugino di Lancillotto. Sostenuto da re Lavic, esercita il potere nel regno di Venick, opprimendo la popolazione.

Cavalieri dell’Inferno

Servitore di Uliens. Tenta, senza successo, di evade dal Castello del Lago per avvertire Lancillotto della trappola tesagli da lord Roswick.

Spiriti di cavalieri defunti, risvegliati da Medessa. Grazie alla loro invulnerabilità, riescono a battere Tristano e rapire Ginevra e Marlene.

Isotta

Evans

Amica di Tristano, di cui è innamorata. In risposta a una sua richiesta di aiuto, il Cavaliere dell’Arpa rientra in Cornovaglia con Artù.

Lorton

Servitore di Isotta, è in realtà un losco personaggio in combutta con lord Howard e intenzionato a tradire sia la propria padrona che Tristano.

Lord Howard

Ministro e fidato consigliere di re Filippo di Cornovaglia nella delicata questione dell’alleanza con Camelot contro Astrat.

Ministro di Astrat, inviato in Cornovaglia; ambisce a sposare Isotta e a legittimare così il potere esercitato per conto di re Lavic.

Yakim ed Elina Gli “strani” protagonisti di una storia d’amore simile a quella de “La Bella e la Bestia”.

Tommy Piccolo suddito di Artù; istigato dalle menzogne di Peloia, incolpa ingiustamente il principe di Camelot della morte di sua sorella.

Julia Ragazzina che vive in un villaggio ai piedi del monte Adlas. Il suo destino è di essere sacrificata alla strega Amecis, ma Artù riesce a salvarla.

Killersen Soprannominato “Lupo del Nord”, è un formidabile guerriero inviato dal re dei Vichinghi a dar man forte a Lavic contro Artù.

Serie TV: La Spada di King Arthur (1)

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Serie TV

Serie TV

ANIME

LA SPADA DI KING ARTHUR (2° serie)

(Moero Asaa, Hakuba no Oji registi vari, 1980) di Massimo De Faveri

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oncluso il primo ciclo di avventure aventi come protagonista il giovane principe Artù e la sua corte di nobili cavalieri (Entaku no Kishi Monogatari: Moero Aasaa), la Fuji TV, rilevato evidentemente un discreto interesse da parte del pubblico giapponese, mise subito in onda, senza soluzione di continuità, il sequel già preparato dalla Toei Animation. Si tratta di Moero Asaa - Hakuba no Ouji (1980, letteralmente “Splendi Artù - Il Principe dal Cavallo Bianco”), 22 episodi che in Italia sono stati accorpati ai 30 della prima serie sotto il titolo unico di La Spada di King Arthur (1981), successivamente riedito come Re Artù, King Arthur (1997). Un breve intermezzo, nel primo episodio, riprende la storia dove era stata lasciata, per poi incanalare le vicende verso uno scenario molto diverso dal precedente. La guerra contro il crudele re Lavic è ormai vinta, l’egemonia di Astrat è troncata per sempre e i regni di Wrogles stanno finalmente conoscendo un inedito e florido periodo di pace. Tuttavia, l’occasione di mettere di nuovo mano le armi si presenta ad Artù sotto forma di una missiva inviatagli da un amico, il capitano Gook, il quale lo esorta a raggiungerlo avendo necessità di comunicargli importanti rivelazioni. Le notizie riguarderebbero i Vichinghi, una masnada di pirati che infestano le “terre al di là del mare” (presumibilmente la Normandia) vessandone le popolazioni. Raccogliendo l’invito, Artù si reca in quei luoghi ma, una volta giuntovi, scopre che Gook è stato ucciso da Golgos, proprio uno dei comandanti dell’esercito vichingo, al servizio del famigerato Re del Nord.

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Serie TV: La Spada di King Arthur (2)


ANIME Resosi conto che la situazione è più grave di quanto avesse immaginato, il nostro eroe decide di proseguire in incognito la sua missione esplorativa e, spacciandosi per un cavaliere senz’arte né parte, si aggrega ad altri due squattrinati personaggi incontrati per caso, il corpulento e spaccone Bossman e il biondo ragazzino Pete. Viaggiando insieme ai due amici col pretesto di aiutarli nella ricerca di un fantomatico tesoro che, si vocifera, il capitano Gook avrebbe sottratto ai Vichinghi, Artù avrà modo di agire contro i predoni all’insaputa di tutti. All’occorrenza, chiamerà in aiuto il suo formidabile destriero Pegaso (alla sella del quale, insieme all’armatura, sono appesi la spada Excalibur e lo Scudo Sacro, le magiche armi già conosciute nella serie precedente) e “trasformandosi” così nel misterioso Principe dal Cavallo Bianco. Questa seconda serie segue dunque le vicende del sovrano di Camelot in terra straniera, sostituendo alle battaglie corali (tra i Cavalieri della Tavola Rotonda e i mercenari di Lavic) la missione di un paladino solitario in difesa degli oppressi, una sorta di Zorro medievale che, celando la propria identità dietro un elmo anziché una maschera nera, accorre dal nulla in sella al suo destriero quando più c’è bisogno di lui, riparando i torti e poi scomparendo nuovamente. Nonostante Thomas Malory rimanga citato nei crediti, non c’è più alcuna connessione con la leggenda arturiana, e il protagonista risulta forse più ispirato ad altre figure di re britannici, come Alfredo il Grande. La narrazione è più agile, gli episodi sono tutti autoconclusivi, e non vi è ricorrenza di personaggi secondari, fatta eccezione per il Re del Nord e la sua strega consigliera, ossia i redivivi Lavic e Medessa, più rancorosi e vendicativi che mai. I coprotagonisti che in folto numero avevano caratterizzato la prima serie vengono lasciati a Camelot, con l’eccezione di qualche “puntata cameo” dedicata ad alcuni di essi: l’episodio 11 vede Ginevra, recatasi in visita al re dei Sassoni, sfuggire a un tentativo di rapimento; nel 14 l’intervento di Lancillotto è decisivo per salvare Artù da una trappola ideata con uno strano marchingegno elettrico; nel 16 entra in scena Tristano, infiltrato in una banda di Vichinghi che seminano terrore a bordo di una nave meccanica a forma di Drago. I tre personaggi torneranno poi nel finale, per aiutare il Principe dal Cavallo Bianco nella battaglia decisiva contro re Lavic e Medessa. L’intero corpo della serie vede invece Boss e Pete come unici veri protagonisti, insieme ad Artù. Ai due

Il primo 45 giri dello storico gruppo I Cavalieri del Re vengono riservati principalmente i siparietti comici, quasi del tutto assenti nel precedente ciclo di avventure, coadiuvati in questa funzione dal pappagallo Sandy (il solo a conoscere l’ubicazione del tesoro) e dal cane Baron, gli animali di Gook “adottati” dal terzetto di eroi. L’adattamento della prima versione italiana lascia molto a desiderare, come dimostra, nel corso delle prime puntate, la ripetuta inversione proprio dei nomi Sandy e Baron, attribuiti indifferentemente ad ambedue i personaggi. Tra i doppiatori spicca, nel ruolo di Artù, Luca Ward il quale, negli anni successivi, avrebbe collezionato un’invidiabile serie di eroi “storici” più o meno fantastici (Sam Neill in Merlino, Robert Downey Jr in Sherlock Holmes, Russel Crowe ne Il Gladiatore, Liam Neeson in Rob Roy, Kevin Kostner in Robin Hood, Principe dei Ladri, Antonio Banderas ne Il 13° Guerriero…); da ricordare anche una insolita Anna Marchesini, che dà voce a Pete. Come nella prima serie, il character design è ancora una volta affidato a Takuo Noda e la musica a Shinichi Tanabe. Una curiosità nostrana riguarda la canzone La Spada di King Arthur, che apre e chiude tutti gli episodi dell’edizione italiana del 1981: fu la prima sigla incisa da I Cavalieri del Re; il nome stesso del leggendario gruppo familiare condotto da Riccardo Zara prese spunto proprio dall’anime della Toei. n Massimo De Faveri

Serie TV: La Spada di King Arthur (2)

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Serie TV

Scheda

ANIME Titolo originale: “Moero Aasaa - Hakuba no Ouji” 燃えろアーサー 白馬の王子 Prima trasmissione: dal 6 aprile al 21 settembre 1980 Regia: Akinori Orai, Kozo Morishita, Kazumi Fukushima, Johei Matsuura, Masahiro Sasaki, Tokiji Kaburaki Script: Mitsuru Majima, Tsunehisa Ito, Sukehiro Tomita Storia originale: Satomi Mikuriya, Thomas Malory Character design: Takuo Noda Capo designer: Fumihiro Uchikawa Musica originale: Shinichi Tanabe Sigla di apertura: “Ore wa Aasaa”, testo di Kougo Hotomi musica di Shunsuke Kikuchi arrangiamenti di Shinichi Tabe cantato da Ichiro Mizuki e Koromubia Yurikago-kai Sigla di chiusura: “Tabisurya Tomodachi” testo di Kougo Hotomi musica di Shunsuke Kikuchi arrangiamenti di Shinichi Tabe cantata da Kumiko Osugi, Koorogi ‘73, Koromubia Yurikago-kai Produttore esecutivo: Masahisa Saeki Produzione: Toei Animation

#2. Big Bear

#3. La principessa Sonia

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ggregatosi alla simpatica compagnia formata da Boss, Pete, dal cane Baron e dal pappagallo Sandy, Artù giunge in un villaggio sottoposto regolarmente a razzie da parte di una banda di predoni, capeggiati dal corpulento Big Bear. A loro volta i banditi sono tiranneggiati dal Re del Nord, che li costringe a versare cospicui tributi. Una delle scorrerie ha luogo proprio mentre Artù e compagni si stanno rifocillando nella locanda della giovane Maria. Quando quest’ultima viene rapita dai predoni, il principe finge di arruolarsi nella banda, con l’intento di liberarla.

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rtù e la sua allegra compagnia giungono casualmente in un castello occupato dalla banda di Blaster e Stain, loschi individui al servizio del crudele Re del Nord. I due stanno tenendo prigioniera la principessina Sonia e i suoi servitori; facendo leva sull’incolumità degli ostaggi, sperano di estorcere alla bambina l’informazione su dove sia stato nascosto tutto l‘oro del castello. Ignari della situazione, Artù, Boss e Pete chiedono ospitalità ai due banditi, che si spacciano come i signori del castello. In men che non si dica, i nostri eroi si ritrovano sotto chiave...

#1. La nave pirata volante

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Camelot giungono voci molto allarmanti dal “paese al di là del mare”, dove i pirati vichinghi agli ordini del Re del Nord si stanno facendo sempre più temerari, compiendo scorrerie e uccisioni. Artù, desideroso di portare soccorso alle popolazioni colpite da questa “calamità”, intende raggiungere di persona quei luoghi per rendersi conto della situazione. Accetta dunque l’invito di recarsi dal capitano Gook, suo vecchio amico, che ha per lui preziose informazioni riguardanti i predoni nordici. Nel frattempo, dal capitano giungono anche due viandanti, di nome Boss e Pete...

#4. La polvere d’oro

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roseguendo nel loro viaggio alla ricerca del tesoro dei Vichinghi, Artù, Boss e Pete arrivano in una cittadina florida e ben tenuta, i cui abitanti, tuttavia, appaiono stranamente ostili. Gord, il capo delle guardie, cerca addirittura di arrestare Boss; fra i due scoppia una lite, sedata solo dall’intervento del podestà locale. Costui, inaspettatamente, offre a Boss la stessa carica ricoperta da Gord, con tutti i privilegi che ne derivano: un allettante salario, una bella casa e cibo a volontà. Ciò che i nostri eroi non sanno è che la cittadina è sottoposta a un pesante tributo da versare in oro al Re del Nord.

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ANIME

#5. Salvate Pete!

#6. I fiori magici

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ete è in grave pericolo: è stato infatti catturato dagli abitanti di un villaggio ed è ora tenuto prigioniero. Artù e Boss corrono in suo aiuto e scoprono così che quella zona da qualche tempo è setacciata da un gigantesco guerriero di nome Krunos, il quale ha ricevuto l’ordine di fare incetta di bambini. I giovani vengono sequestrati per essere tradotti nella terra dei Vichinghi, e lì poi addestrati a diventare fedelissimi soldati del Re del Nord. Gli abitanti del villaggio intendono consegnare Pete proprio a Krunos, al posto del figlio del locandiere.

agando in cerca d’acqua, Artù e compagni arrivano alle porte di un meraviglioso castello di stile orientale, abitato solo da giovani e belle ragazze e comandato dall’affascinante lady Bennar. Qui i nostri eroi vengono accolti con tutti gli onori, rifocillati e riveriti come ospiti importanti. Le attenzioni maggiori sembrano rivolta in particolare a Boss, che viene addirittura invitato a fermarsi a vivere lì. Come al solito, però, non è tutto oro quello che luccica, e Artù, grazie anche a una giovane di nome Lilly, si rende presto conto che dietro l’ospitalità di Lady Bennar si nascondono loschi fini.

#8. Distruggete il forte vichingo!

#9. L’impostore

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rtù, Boss e Pete vedono in cielo una delle solite navi volanti vichinghe, e decidono di seguirla fino al suo luogo di destinazione; un castello in riva al mare. La fortezza è difesa da una guarnigione bene armata e da un sistema di marchingegni meccanici; Boss immagina quindi che debba contenere un gran tesoro, e convince gli amici a cercare un sistema per penetrarvi di nascosto. Durante una perlustrazione dell’area circostante, Artù viene scambiato per un Vichingo e aggredito da una ragazza di nome Anna. La giovane si trova lì per liberare il suo fidanzato, prigioniero nella fortezza.

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sudditi di una regina locale sono in sommossa a causa di una protratta mancanza di viveri. Giunti sul posto, Artù e compagni hanno la sorpresa di constatare che la responsabilità di quella situazione viene imputata al Principe dal Cavallo Bianco, il quale, secondo il popolo, da qualche tempo si sta rendendo colpevole del furto delle derrate alimentari. A Boss e Pete, indignati da quelle accuse, scappa detto di essere amici del Principe, e finiscono quindi immediatamente arrestati per essere condotti, insieme ad Artù, al cospetto della regina e del primo ministro, il conte Benick.

#7. Comportati da uomo, Hans!

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na nave volante vichinga attacca un villaggio imprigionando tutti gli abitanti tranne un ragazzino di nome Hans. I predoni sono alla ricerca del Principe dal Cavallo Bianco, l’identità segreta assunta da Artù per compiere le sue imprese. Nel corso del rastrellamento, anche Boss e Pete finiscono catturati e rinchiusi in una chiesa insieme a tutti gli altri prigionieri. Nel suo tentativo di soccorrerli, Artù si farà aiutare proprio da Hans. Il ragazzino, di carattere pavido, costantemente deriso dai coetanei e criticato dal padre per la sua codardia, avrà così modo di dimostrare a tutti il proprio valore.

#10. Pony coraggioso

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rtù, Boss e Pete si trovano alle prese con una squadra di guerrieri vichinghi, particolarmente agili e bene addestrati, incaricati dal Re del Nord di scovare ed eliminare il Principe dal Cavallo Bianco. Boss e Pete vengono fatti prigionieri e usati come ostaggi per costringere il Principe a uscire allo scoperto. Artù è pronto a intervenire ma, stranamente, il suo fidato Pegaso, il destriero bianco che custodisce la sua armatura, la spada magica Excalibur e il Sacro Scudo, tarda a rispondere al richiamo. Il cavallo è infatti impegnato a soccorre un puledro in difficoltà.

Serie TV: La Spada di King Arthur (2)

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Serie TV ANIME

#11. Salvate la principessa!

#12. La rosa rossa

#13. Chi è il Re del Nord?

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na nave volante vichinga atterra di soppiatto nelle vicinanze di un castello sassone, presso il quale è atteso l’arrivo di un ospite di alto lignaggio. Lo scopo dei pirati, una squadra di “uomini volanti”, è naturalmente quello di rapire il personaggio importante e chiedere poi un copioso riscatto. Devono però vedersela con Artù, che capita in zona insieme a Boss e Pete Quando gli uomini volanti attaccano dall’alto il castello sassone, il Principe dal Cavallo Bianco è infatti pronto a intervenire. Durante l’assalto, Artù rimarrà sorpreso dall’identità dell’ospite d’onore: altri non è che la sua amata Ginevra.

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#14. Le scintille magiche

#15. La falsa principessa Ginevra

#16. Le fiamme del drago

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inevra è in visita presso un villaggio dove si sta tenendo un fiorente mercato. Girando fra le bancarelle, la principessa decide di entrare in un tendone dove si tiene uno spettacolo con una strana macchina elettrica. Il sorprendente marchingegno potrebbe forse essere usato per fini ben diversi dal semplice divertimento: di questo avviso è un bieco comandante vichingo che, interrompendo l’esibizione, ruba il macchinario con l’intento di farne un’arma da utilizzare contro il Principe del Cavallo Bianco. Durante la fuga, il ladro ha però la sventura di incappare in Lancillotto...

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’incarico di uccidere il Principe dal Cavallo Bianco viene stavolta affidato a una squadra di agguerrite donne combattenti, che, come al solito, cercano di raggiungere lo scopo servendosi come esca di Boss e Pete. I due vengono catturati, e la trappola sembra funzionare ma, quando Artù interviene, lo scontro si risolve nettamente in suo favore. Concluso il combattimento e liberati gli amici, il principe di Camelot si trova casualmente a salvare dall’attacco di un orso feroce una ragazza di nome Alice, senza sapere che costei è proprio una delle guerriere vichinghe.

configgendo tutti i suoi guerrieri vichinghi e interferendo continuamente con i suoi piani, il Principe dal Cavallo Bianco è ormai diventato per re Lavic una vera spina nel fianco. Per riuscire a scoprire la vera identità dell’odiato avversario, la rediviva Medessa decide di chiedere l’aiuto di sua cugina Jill, una strega che ha il potere di comandare i lupi e di trasformarsi a sua volta in un licantropo. Dopo averlo attirato allo scoperto fingendo un attacco da parte vichinga a un castello, Jill si presenta ad Artù assumendo le sembianza della sua amata principessa Ginevra.

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sasperati dalle continue angherie subite a opera dei Vichinghi, gli abitanti di un villaggio si ribellano e riescono a eliminare una guarnigione pirata. Fra i rivoltosi più determinati c’è Laura, una ragazza che ha visto il padre assassinato per mano vichinga. Il successo sui predoni è stato importante, ma ha portato anche delle preoccupazioni, in particolare quella di una possibile rappresaglia. Così, quando a Laura capita di incontrare Artù, Boss e Pete, e viene a sapere della loro amicizia con il Principe dal Cavallo Bianco, li prega di chiedere a quest’ultimo protezione.

ra i “macchinari” di cui si serve re Lavic c’è anche una nave meccanica sputafuoco, a forma di dragone. Chi la vede non può non scambiarla per il terribile animale mitologico; così, con brevi apparizioni e facendo leva sul terrore suscitato nella gente, il comandante della nave, di nome Drago, conta di attirare l’attenzione del Principe dal Cavallo Bianco, per poterlo poi eliminare. Una delle vittime del “mostro” è un pescatore che ha la sventura di incrociarlo mentre si trova in barca insieme a suo figlio, un bambino di nome Loco.

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ANIME

#17. Il Cavaliere Nero

#18. Il mondo magico

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n guerriero che si fa chiamare Cavaliere Nero si presenta al cospetto di Lavic per chiedere notizie su suo fratello, uno dei comandanti del Re del Nord, che però è morto, ucciso dal Principe dal Cavallo Bianco. Appresa la tragica notizia, il Cavaliere giura vendetta e promette a Lavic di eliminare il temibile nemico dei Vichinghi. Per far ciò, rintraccia Artù, Boss e Pete, che ormai sono noti per essere legati al Principe. I tre compagni, nel frattempo, hanno incontrato un ecclesiastico che sta trasportando una statua della Vergine Maria.

#20. La Donna delle Nevi

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er risparmiare tempo di marcia, Artù, Boss e Pete sono intenzionati a salire una montagna sulla cui sommità sembra però essere in corso una tempesta. Un vecchio incontrato per strada consiglia loro di aggirare il monte, per non cadere vittime della Donna delle Nevi, una creatura mortale che abiterebbe la vetta. Il vecchio racconta la storia di una famiglia che, passata di lì nell’inverno precedente, aveva cercato di attraversare la montagna ma era stata sorpresa da una tempesta di neve, ed era perita. Da quel giorno, lassù, non ha mai smesso di nevicare, e chi vi si avventura non fa ritorno.

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orpresi da un temporale, Artù, Boss e Pete si rifugiano in una chiesa per trascorrere la notte. La loro attenzione viene attratta da uno strano dipinto che sembra l’illustrazione di una favola. Si tratta in effetti di quadro fatato: quando Artù si avvicina, viene risucchiato al suo interno, e Boss e Pete fanno la stessa fine nel tentativo di trattenere il compagno. I nostri eroi finiscono così catapultati nel mondo magico della fata Ginny; è stata proprio lei a “chiamarli” lì, per chiedere il loro aiuto contro il crudele mago Gargoyle, che è riuscito a rubare la sua bacchetta incantata.

#21. Il tesoro

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orpresi dagli uomini volanti, Artù, Boss e Pete trovano rifugio all’interno di una gola rocciosa. Guidati dal pappagallo Sandy, entrano in una enorme grotta dove finalmente trovano ciò che da tempo stavano cercando: il favoloso tesoro che il capitano Gook aveva rubato ai Vichinghi. In mezzo alla montagna di monete d’oro e gioielli, c’è anche un vaso d’argento che solo Artù riesce ad aprire. Si tratta di un manufatto magico, col potere di neutralizzare per sempre Medessa: se aperto in presenza della strega, la ingoierebbe facendola sparire definitivamente.

#19. La sirena del fiume

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rocedendo nel loro viaggio, Artù e compagni si trovano la strada sbarrata da un grande fiume. Per attraversarlo occorre costruire una zattera, e i nostri eroi si mettono subito all’opera. Mentre perlustra la riva, Artù s’imbatte in una ragazza in lacrime, e con stupore scopre che si tratta di una sirena ferita; poco prima, Boss, scambiandola per un pesce, l’aveva inavvertitamente trafitta con la propria lancia. La giovane, di nome Lena, racconta di essere stata trasformata in sirena dalla strega Guana, che oltre a questo le aveva ucciso il fidanzato.

#22. Ritorno a Camelot

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opo l’ultimo combattimento, Artù ha rivelato a Boss e Pete di essere il sovrano di Camelot, celato dietro l’identità del Principe dal Cavallo Bianco. I due amici non esitano un istante a offrire il loro appoggio in previsione dello scontro finale contro i Vichinghi. Tristano e Lancillotto hanno sventato il tentativo del comandante Hulk di rapire Ginevra, e si sono impossessati della sua nave volante. Adesso, quindi, la compagnia dispone di un veloce mezzo di trasporto per raggiungere il del nemico. La lotta contro il Re del Nord sta dunque per volgere all’epilogo.

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Serie TV ANIME Bossman

Artù Assumendo l’identità di Principe dal Cavallo Bianco, il sovrano di Camelot difende gli oppressi dai violenti guerrieri vichinghi.

Corpulento e spaccone, insieme all’amico Pete si mette alla ricerca del favoloso tesoro rubato ai Vichinghi dal capitano Gook.

Sandy e Baron

Pete Il ragazzino amico inseparabile di Bossman. Artù, una volta giunto nei territori infestati dai Vichinghi, si unirà a loro due per passare inosservato.

Sono il pappagallo e il cane di Gook. Sandy conosce il luogo dove il capitano ha nascosto il tesoro.

Medessa

Lavic / Re del Nord Dopo la sconfitta patita per mano di Artù nel precedente ciclo di avventure, re Lavic ha trovato il modo di compiere altre malefatte come re dei Vichinghi.

La perfida strega, già uccisa da Artù, ritorna come spirito per aiutare di nuovo il malvagio Lavic.

Tristano

Ginevra La principessa viene rapita dai Vichinghi in occasione di una sua visita al sovrano dei Sassoni. Toccherà al suo amato Artù liberarla.

Lancillotto Anche l’erede al trono di Venick avrà modo di rendersi utile, salvando Artù caduto in una ingegnosa trappola elettrificata.

Il principe di Cornovaglia aiuterà Artù a sconfiggere il capitano di un vascello meccanico vichingo costruito a forma di drago.

Capitano Gook Dispone di importanti informazioni sui Vichinghi, che intende fornire all’amico Artù, ma viene ucciso prima di poterlo incontrare.

Big Bear

Golgos Il primo dei comandanti vichinghi affrontato da Artù. È lui a uccidere il capitano Gook poco prima dell’arrivo del principe di Camelot.

Il possente capo di una banda di razziatori. A loro volta, i predoni subiscono le angherie del Re del Nord, che li sottopone a pesanti tributi.

Blaster e Stein

Maria La giovane figlia del locandiere del villaggio tiranneggiato da Big Bear, rapita dai predoni. Per salvarla, Artù fingerà di unirsi alla banda.

Sgherri del Re del Nord. Artù li incontra presso un castello, intenti a svaligiarlo in cerca di oro.

Gord

Sonia La principessina del castello preso di mira da Blaster e Stein. I due tentano di estorcerle informazioni su dove sia nascosto l’oro che cercano.

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Bieco capo delle guardie in una cittadina nei pressi di un fiume ricco d’oro, che i suoi compaesani vengono costretti a setacciare.

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ANIME Podestà È il podestà della stessa cittadina di Gord. Il Re del Nord impone agli abitanti di setacciare il fiume e consegnare ai Vichinghi l’oro ricavato.

Dottor Lobell Il dottore è uno dei pochi cittadini che cercano di opporsi al lavoro forzato comandato dal podestà, e per questo viene ucciso da Gord.

Lilly

Krunos Un gigantesco guerriero incaricato dal Re del Nord di sequestrare decine di ragazzini, da addestrare poi come soldati vichinghi.

È una giovane principessa il cui castello è occupato dalle soldatesse del Re del Nord. Suo malgrado, sarà causa di un litigio tra Boss e Pete.

Hans

Lady Bennar Seguace fedele del Re del Nord, comanda un gruppo di guerriere che hanno occupato il castello di Lilly e reso schiavi tutti gli uomini che lo abitavano.

È un ragazzino timoroso, spesso deriso dai coetanei. Avrà però modo di dimostrare il proprio valore durante un attacco dei Vichinghi.

Geil

Capitano vichingo Il capo del gruppo di soldati vichinghi che assaltano il villaggio di Hans. È alla ricerca del Principe dal Cavallo Bianco.

Comandante di un castello dove si fabbricano armi che utilizzano polvere da sparo. Tiene prigioniero Elpes, esperto in fuochi d’artificio.

Elpes

Anna Una ragazza che progetta di liberare il fidanzato Elpes, imprigionato in un castello vichingo. Artù l’aiuterà nell’impresa.

È un esperto nell’uso della polvere da sparo, con la quale fabbrica fuochi di artificio. I Vichinghi vogliono servirsi di lui per produrre armi.

Gran Ciambellano e Regina

Benick È primo ministro nel territorio in cui agisce un finto Principe dal Cavallo Bianco. Il suo comportamento insospettisce Artù.

Comandante vichingo Capo di una squadra di agili guerrieri inviati alla caccia del Principe dal Cavallo Bianco. L’identità di Artù viene scoperta da uno di loro.

Nel loro reame c’è l’impostore che compie razzie spacciandosi per il Principe dal Cavallo Bianco

Re sassone Nel castello dei Sassoni è atteso l’arrivo di un ospite molto importante, che si scoprirà essere la principessa Ginevra.

Alice

Comandante vichingo Il capo degli “uomini volanti”, un gruppo di vichinghi che progettano di rapire l’ospite atteso dai Sassoni per poi chiedere un riscatto.

La giovane Alice fa parte di una squadra di donne guerriere incaricate di uccidere il Principe dal Cavallo Bianco, ma lei invece se ne innamorerà.

Serie TV: La Spada di King Arthur (2)

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ANIME Laura

Comandante delle amazzoni È la madre di Alice, e comandante della squadra delle amazzoni vichinghe che cercano ripetutamente di uccidere Artù.

È una indomita ragazza che, insieme ad altri compaesani, si ribella ai Vichinghi, riuscendo addirittura ad eliminarne una guarnigione.

Comandante vichingo

Wolf Il comandante vichingo incaricato di guidare la rappresaglia contro gli abitanti del villaggio di Laura, rei di essersi opposti al Re del Nord.

È il pirata che ha l’intuizione di usare come arma contro il Principe dal Cavallo Bianco una strana macchina elettrica rubata in una fiera.

Drago

Jill È una donna licantropo, cugina di Medessa. Cerca di ingannare il Principe dal Cavallo Bianco assumendo le fattezze di Ginevra.

Il comandante di una nave meccanica costruita a forma di drago, con la quale semina terrore. Dovrà vedersela con la scaltrezza di Tristano.

Cavaliere Nero

Loco È un bambino, figlio di un pescatore morto durante un attacco della nave-drago. Tristano lo salva casualmente da un incidente.

È un abile combattente che decide di affrontare Artù per vendicare il fratello, morto in combattimento contro il Principe dal Cavallo Bianco.

Ginny

Prete È un ecclesiastico che trasporta una statua della Vergine Maria. Artù e amici lo accompagnano dopo averlo aiutato a riparare il carro.

Una fata che dimora in un mondo incantato nel quale Artù, Boss e Pete vengono risucchiati attraverso un misterioso quadro.

Guana

Gargoyle Il mago che ha rubato la bacchetta incantata di Ginny. Per recuperare la fonte del proprio potere, la fata chiede l’aiuto di Artù.

Artù e compagni si trovano a dover attraversare il fiume dove vive questa malvagia strega, che ha trasformato Lena in sirena.

Asura / Donna delle Nevi

Lena Dopo averla trasformata in sirena e averle ucciso il fidanzato, la strega Guana ordina a Lena di catturare Artù, ma la giovane si ribella.

È una donna morta durante una tempesta di neve. Il suo spirito non riesce a trovar pace.

Hulk

Vecchio Abita ai piedi di una montagna la cui sommità è sempre spazzata da una bufera. Racconta ad Artù la storia della Donna delle Nevi.

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Re Lavic ordina a questo comandante di attaccare il castello dei Sassoni per rapire Ginevra, ma l’impresa fallisce.

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- dicembre 2010 III edizione maggio 2014

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