Terre di Confine Magazine #2

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DEL FANTASTICO

CINEMA • TV • CARTONI • FUMETTI • RACCONTI • ARTE • CULTURA • LETTERATURA

LA RIVISTA

TERRE DI

2014

APRILE

www.terrediconfine.net • aperiodico di cultura fantastica

CONFINE

PLESIO EDITORE

in collaborazione con

2 TDC MAGAZINE


Immagine di copertina: ASMODEO di ©PAOLO BARBIERI


TERRE DI

CONFINE MAGAZINE

Aperiodico di cultura fantastica realizzato da

Associazione Culturale

TERRE DI CONFINE in collaborazione con

PLESIO Editore Terre di Confine n. 2 - Aprile 2014 Prima pubblicazione: 17 aprile 2014 ISBN 9788898585113 ©2014 A.C. TERRE DI CONFINE ©2014 PLESIO EDITORE Largo S. Carlo, 3/13 Via Plutarco, 38 33085 MANIAGO (PN) 47121 Forlì (FC) Cod. Fisc. 90012230935 P.IVA: 03966240404 redazione@terrediconfine.eu info@plesioeditore.it www.terrediconfine.net www.plesioeditore.it • Tutti i diritti riservati •

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l’EDITORIALE

Restyling di

di MASSIMO DE FAVERI

PRIMAVERA C

ARI LETTORI, l’uscita del numero 2 di TdC Magazine giunge in parallelo con la messa on-line di una versione mirror del nostro sito, appositamente ottimizzata per accompagnare d’ora in avanti la rivista. Insieme a questa notizia, è per me un vero piacere annunciare la riapertura di terrediconfine.net, lo storico dominio che è stato la nostra prima casa nel web – gli utenti più affezionati ricorderanno certamente quei tempi! Da oggi il dominio ospiterà proprio il nuovo portale, realizzato in Wordpress e quindi adatto a sfruttare tutte le funzionalità di questa ormai diffusissima piattaforma.

E ora veniamo al n. 2! Come di consueto, la varietà dei contenuti cercherà di trattare il Fantastico nelle sue molteplici sfumature. Segnalo in particolare l’articolo su Dan Dare, un’occasione che è stata preziosa per poter parlare della leggendaria rivista Eagle e di Frank Hampson che le diede i natali, artista straordinario la cui carriera avrebbe meritato assai più onori di quelli effettivamente raccolti. Nella sezione antologica, presentiamo infine 4 racconti e 2 fumetti inediti, che passeggiano tra supereoistico, steampunk, horror e surreale. Non mi resta dunque che augurarvi un piacevole proseguimento!

l’ASSOCIAZIONE

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ERRE DI CONFINE è un’associazione culturale non profit, costituitasi nel 2010, avente come finalità lo studio, la promozione e la diffusione della cultura, delle scienze e dell’arte – quest’ultima con particolare riferimento ai generi letterari Fantascienza e Fantastico e all’Animazione Giapponese – intese sotto ogni loro forma espressiva; oggetto d’interesse sono pertanto Letteratura, Cinema-

tografia e Televisione, Animazione e Fumetti, Storia e Arte, Costume e Società, Mistero e Paranormale, Scienza e Tecnologia, e, più in generale, tutto ciò che attiene agli obiettivi summenzionati. L’adesione all’Associazione è aperta a tutte le persone che, interessate alla realizzazione delle finalità istituzionali, ne condividano lo spirito e gli ideali. www.terrediconfine.net/statuto/

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i CREDITI RINGRAZIAMENTI (in ordine di articolo) Ellen C. Herzfeld e Dominique O. Martel (Quarante-Deux) Stefano Andrea Noventa Marco Pulitanò (Colonia Lunare) Christopher Wilson Sophia Kennedy Wilson ODOYA/MERIDIANO ZERO Valentina Comelli (ARC Regione FVG) Luisa Nesbeda (WWF Trieste) Algisa Gargano (Mara Vitali Comunicazione) Ben Lo Silviu Dinu Łukasz Matuszek Aaron Sutherland Laura Jimenez Gutiérrez Jacopo Misté (Anime Asteroid) DJ Shiru (Ass. Ochacaffè, Istituto Il Mulino)

Orlando Furioso (Fumetti di Carta) Abhishek Singh Lorenzo Bolzoni (BAO Publishing) Leonello Di Fava (PANINI Comics) Wakefield Carter (The Lost Characters of Frank Hampson, Barney) Jonathan Morris Ella Bowman (TITAN Books) Raymond D. Wright e Rod Barzilay (Spaceship Away) Luca Ippoliti (MAGIC Press) Paolo Barbieri Claudia Giuliani Francesco Durigon AGENZIADUCA Polly Russell Mathieu Degrotte

LINKS REDAZIONALI

Figura 4 figura4.com

Anime Asteroid anime-asteroid.blogspot.it

Fumetti di Carta www.fumettidicarta.it

Bravi Autori www.braviautori.it

Giampaoolo Giampaoli giampaologiampaoli-it. webnode.it

Colonia Lunare www.colonialunare.it Continuum continuum.altervista.org

La Foresta dei Sussurri fantasy-italiano.com La Zona Morta www.lazonamorta.it

Dusty Pages in Wonderland Leonardo Colombi Blog dustypagesinwonderland. leonardocolombi.blogspot.it blogspot.it

Plesio Editore www.plesioeditore.it Sat’ Rain satrain.altervista.org SerieTV.net www.serietv.net Stefano Marinetti DA stefanomarinetti.deviantart. com The Obsidian Mirror insidetheobsidianmirror. blogspot.it

ESC Electric Sheep Comics www.escomics.com

Libri e Parole www.librieparole.it

Vaporteppa www.vaporteppa.it

Fabbricanti di Universi www.fabbricantidiuniversi.it

Oracolo dei Venti mentore.wordpress.com

Work On Color www.workoncolor.com

REDAZIONE Alessandro Napolitano Alessio Ottaviani Andrea Carta Anna Fogarolo Claudio Fallani Claudio Piovesan Cuccu’ssétte Davide Longoni Diego Capani Elisa Favi Elisa Urbinati Fabiana Redivo Federica Urso Giampaolo Giampaoli Gianfranco Sherwood Gianni Falconieri Giordana Gradara Laura Tolomei Laura Tosello Leonardo Colombi Luca Germano Marco Carrara Massimo Baglione Massimo De Faveri Monica Facchini Oscar Riva Riccardo Iacono Roberta Guardascione Roberto Furlani Roberto Napolitano Roberto Paura Severino Forini Stefano Baccolini Stefano Marinetti Stefano Moscatelli

IMPAGINAZIONE Massimo De Faveri

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SOMMARIO 4

Editoriale

RESTYLING DI PRIMAVERA Redazionale

L’ASSOCIAZIONE

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Redazionale

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Redazionale

CREDITI

DIRITTI IMMAGINI Redazionale

154 INVIA I TUOI RACCONTI E I TUOI FUMETTI

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104

DAN DARE Dan e Frank due Eroi Britannici

LETTERATURA 10 DIRITTI CIVILI

NELL’ERA DIGITALE X

14 LÀ DOVE NASCE

IL VENTO PERENNE L’Orda del Vento

18 ECHI IRREQUIETI

DELL’AMERICAN DREAM

Io sono Helen Driscoll

22 SATIRA SOCIALE

SULLE ORME DI SWIFT

Il Vangelo della Scimmia Rubrica di stile

28 IL BIGLIETTO DA VISITA DELL’AUTORE

Fabbricanti di Universi

34 QUANDO IL WORLD

BUILDING FUNZIONA


68

60

SIGLE CINEMA E TV 42 LA REALTÀ

ATTRAVERSO LO SPECCHIO Black Mirror

50 TRA MALEDIZIONI

E REGISTI NASCOSTI

Poltergeist Demoniache Presenze

60 LA VENDETTA

DELLE DONNE-GATTO Kuroneko

68 LE ALTERNE SFORTUNE DEL ROBOT RIBELLE Baldios

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42

LA PICCOLA CACCIATRICE DI FULMINI Wind Mills

79

Baldios BALDIOS ASHITA NI IKIRO BALDIOS MARIN, INOCHI NO TABI

FUMETTI 84 LA LEGGENDA

DEL PRINCIPE INDIANO Krishna Un viaggio interiore

92 L’ODISSEA DI UNA

MADRE GUERRIERA

Legend of Mother Sarah

104 DAN E FRANK, DUE EROI BRITANNICI Dan Dare

144 VESTENDO PAROLE E SUGGESTIONI FANTASY

Intervista a Paolo Barbieri

84

ANTOLOGIA Racconto

155 IL BENANDANTE Racconto

173 LA MASCHERA DI BALI Racconto

200 L’ARENA DEI PLUSGENE Racconto

206 L’UOMO BUONO

SI PERDONA 7 VOLTE

Fumetto

210 POSSO VOLERE... VOGLIO POTERE

Fumetto

216 LEVEL COMPLETED

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Disclaimer e Diritti delle Immagini Le copertine dei libri, le tavole a fumetti e le immagini relative a film, serie televisive e cartoni animati sono utilizzate secondo i criteri del ‘fair use’, a solo scopo esemplificativo, divulgativo e di recensione. Tutti i diritti sono riservati ai rispettivi proprietari. La foto di Luigi Pirandello (autore sconosciuto) ha come fonte Wikimedia Commons, ed è usata e accreditata secondo quanto espresso dalla licenza Creative Commons 3.0. La foto di Cory Doctorow è opera di JONATHAN WORTH, tutti i diritti riservati. La foto di Richard B. Matheson è opera di RICHARD C. MATHESON, tutti i diritti riservati. Tutte le altre illustrazioni e foto sono state concesse direttamente dagli autori (che ne hanno inoltre personalmente visionato e approvato lo specifico utilizzo), in forma scritta ed esplicita alla Redazione di Terre di Confine, per l’uso in questo singolo numero della rivista. Tutti i diritti riservati.

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Reading TIME

Diritti Civili

NELL’ERA

DIGITALE

di OSCAR RIVA

Di fronte alla minaccia terrorismo, fino a che punto possono spingersi gli scrupoli di un governo nel ‘salvaguardare’ la sicurezza dei cittadini?

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N UNA SAN FRANCISCO prossima futura, il diciassettenne Marcus vive le sue giornate da normale teenager americano, tra impegni scolastici, pomeriggi con gli amici e qualche ‘trasgressione’ dovuta alla sua ‘attività’ di abile hacker. Dotato di una curiosità innata che lo induce a studiare come funziona la tecnologia che lo circonda – e a modificarla, quando la ritiene contraria ai suoi ideali –, il ragazzo elegge a bersaglio principale delle sue scorrerie informatiche i sistemi di sicurezza della scuola: se le nuove

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telecamere installate dal preside sono in grado di identificare le persone dal modo di camminare, violandone così la privacy, ecco che lui scopre come ingannarle infilando qualche sasso nelle scarpe; se i notebook della scuola sottopongono gli studenti a controlli troppo stringenti sulle loro abitudini di navigazione, lui ne modifica il sistema operativo. Piccole infrazioni, che in più di un’occasione portano Marcus all’attenzione delle forze dell’ordine, senza però conseguenze di rilievo. Ma un giorno San Francisco è colpita dal


X

(Little Brother, 2008) NEWTON COMPTON, 2009 ISBN-13: 9788854116290

più grosso attacco terroristico che la storia ricordi, e tutto cambia. Sospettato d’essere coinvolto, Marcus viene arrestato dal DHS (Department for Homeland Security). I suoi diritti vengono ignorati: un sacco infilato sulla testa, tradotto in una prigione segreta, interrogato, sottoposto a violenze psicologiche di ogni tipo… La sua volontà e la sua dignità vanno in frantumi; il ragazzo cede alle pressioni dei suoi aguzzini, rivelando tutto ciò che vogliono sapere: le password del suo telefono e del suo notebook, i suoi dati personali. E poi viene rilasciato, perché non c’è nulla che lo incrimini. L’episodio cambia completamente la vita del giovane. Prima viene la paura che quanto successo possa ripetersi. Poi la vergogna, che lo porta a nascondere l’episodio persino ai suoi genitori. Infine la rabbia per i soprusi subiti, una rabbia così grande da indurlo a utilizzare le sue conoscenze informatiche per intraprendere una (apparentemente) folle crociata contro il governo, muovendosi a cavallo della esile linea che divide la protesta civile dal terrorismo. “Non si conclude niente non facendo niente. Si tratta del nostro pae-

se. Ce lo hanno portato via. I terroristi che ci attaccano sono ancora in libertà, ma noi no. Non voglio starmene nascosto per un anno, dieci anni, tutta la vita, ad aspettare che mi restituiscano la libertà. La libertà te la devi prendere da solo.” Lo scopo didattico di questo romanzo è piuttosto evidente, fin dalle prime pagine. Si rivolge a un pubblico di adolescenti, che vuole sensibilizzare sulle problematiche riguardanti la sicurezza e la privacy, il terrorismo e la difesa dei diritti civili. Doctorow tuttavia non commette l’errore di sottovaluta-

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CORY DOCTOROW

foto: ©JONATHAN WORTH jonathanworth.com

re i suoi lettori per la loro età: se c’è da spiegare cosa sia un protocollo informatico, una darknet, oppure i dettagli delle violenze psicologiche (leggi tortura) subite dal protagonista durante la prigionia, l’autore non si tira indietro, esponendo i concetti e gli aspetti tecnico-informatici con un linguaggio sì chiaro e accessibile ma non semplicistico né edulcorato. Un modo per dire ai lettori “siete giovani, non stupidi”. Naturalmente, nel trattare questi temi, Doctorow non nasconde il proprio personale punto di vista: X è una fermissima presa di posizione contro la violazione (o, chiamata talvolta con eufemismo, la sospensione) dei diritti civili perpetrata nella ‘guerra al terrorismo’ in nome di un senso di falsa sicurezza. La pecca maggiore del romanzo risiede purtroppo nel modo in cui vengono rappresentati i personaggi che si oppongono a questa tesi: come individui ottusi o semplicemente malvagi, senza mezze misure e senza possibilità di redenzione. Si tratta di una scelta svantaggiosa, poiché la posizione sostenuta dall’autore risulterebbe molto più convincente se i pro-

tagonisti riuscissero a prevalere su antagonisti dotati di capacità di ragionamento quantomeno elementari. In un dibattito, conoscere ed eventualmente contestare i motivi e le argomentazioni dell’avversario è importante quanto presentare i propri, ma purtroppo in X poco spazio è riservato alle tesi dei ‘cattivi’. Per questo motivo, se non si condividono almeno in parte le posizioni dell’autore, la lettura del romanzo potrebbe risultare addirittura irritante; eppure rimane fortemente consigliata, perché le domande che il romanzo solleva sono fondamentali, ed è necessario porsele, a prescindere dalla posizione che si assumerà in merito. Cory Efram Doctorow è un blogger, giornalista e scrittore anglo-canadese. Ha lavorato per la Electronic Frontier Foundation, organizzazione internazionale non profit volta alla tutela dei diritti e della libertà di espressione nell’odierna era digitale. È un fermo sostenitore della liberalizzazione delle leggi sul copyright, nonché delle licenze Creative Commons. Infatti gran parte delle sue opere (compreso X) sono liberamente scaricabili dal web, e il suo Down and Out in the Magic Kingdom (2003) è stato il primo romanzo a essere pubblicato sotto licenza CC. Attualmente è editor del popolare weblog Boing Boing.

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Per maggiori informazioni: laoan.altervista.org e tanglangitalia.altervista.org 13


Reading TIME

Là dove nasce

IL VENTO

PERENNE di LUCA GERMANO

Da un autore d’Oltralpe, un sorprendente esempio di romanzo fantasy concepito fuori dagli schemi.

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N VIAGGIO A PIEDI iniziato da più di tre decadi, senza l’ausilio di alcun mezzo di locomozione e marciando sempre controvento. Diciotto uomini e cinque donne: la trentaquattresima Orda; gli ultimi a tentare l’impresa che in otto secoli nessuno è riuscito a portare a termine, e che nessuno, dopo di loro, tenterà più: scoprire l’origine del Vento che segna e domina il loro mondo. In ragione di questo obiettivo e delle modalità sacralmente seguite per raggiungerlo, sono divenuti un mito vivente: gli ultimi, ma anche i migliori. Sono in grande vantaggio rispetto alle altre orde: a parità di tempo han-

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no percorso più miglia di quanto avessero fatto tutti i predecessori, compresi i loro genitori che li attendono alle pendici dell’Ultima Vetta, la loro meta. Lassù la fine del mondo conosciuto. Forse l’inizio di un altro. Forse la fine di tutto. Hanno già superato infinite insidie, ma sono ben consapevoli che davanti ai loro passi se ne pareranno altrettante e di ancor maggior difficoltà. Lo avevano previsto. Lo avevano accettato. Ciò che non potevano aspettarsi era di avere un inseguitore, agguerrito e temibile, pronto a fare ricorso a ogni espediente per prendersi le loro vite e impedire il successo della missione.


L’ORDA DEL VENTO

(La Horde du Contrevent, 2004) Edizione italiana pubblicata da Editrice NORD nel 2009 ISBN-13: 9788842915560

L’Orda del Vento (La Horde du Contrevent, 2004) è un romanzo particolarissimo che si connota per l’originalità della struttura, prima ancora che dell’ambientazione. Singolare è già la numerazione delle pagine, che inizia da 625 e termina a 0; oltre a questo, a far subito capire che si tratta di qualcosa di nuovo è sufficiente l’incipit: incomprensibile, composto da una serie apparentemente casuale di virgole, punti e apostrofi e, laddove intelligibile, da toni criptici, quasi profetici. Né l’impatto straniante viene davvero attenuato una volta che si superi il prologo: l’autore, Alain Damasio, intesse una prosa a tratti difficile, quasi aulica, che utilizza con mano copiosa neologismi, termini rari o accezioni inusuali. Si entra subito in medias res, con l’Orda appiattita a terra per resistere alle raffiche violente di quella che solo dopo molte pagine il lettore comprenderà essere una delle forme del vento; ed è inutile cercare una chiara spiegazione degli eventi pregressi o una chiave di lettura per quelli in corso di svolgimento. Sorprendente, fin da subito, è il continuo cambio di voce narrante. Sì perché il viaggio verrà raccontato attraverso gli occhi dei membri dell’Orda, in prima persona, con

cambio di toni, profondità di pensiero e analisi, nonché di sintassi, lessico e forme espressive. Ventitré membri dell’Orda, ventitré voci narranti. Ognuna con sua propria specifica connotazione. È la caratteristica principe del libro, il suo punto di forza, ma a volte anche la sua debolezza. Aiuta il lettore il fatto che ogni personaggio è identificato da uno specifico simbolo, posto all’inizio di paragrafo al cambio di voce narrante. Il segnalibro che accompagna il testo offre una legenda sintetica e pratica: una grande omega indi-

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vidua il tracciatore Golgoth; il pi-greco è riservato al principe Pietro; la parentesi tonda è per lo scriba Sov; il punto interrogativo rovesciato con apostrofo introduce il trovatore Caracollo, e così via. All’inizio, il segnalibro è indispensabile, ma l’abilità di caratterizzazione di Damasio è tale che il lettore si accorgerà molto presto di poter fare a meno dei simboli, riuscendo a riconoscere d’immediato ogni personaggio, dal pensiero e dal modo di esprimersi: il riflessivo Sov comunicherà tramite frasi complesse, descrizioni accurate, esplicitazione di dubbi e ripensamenti; Golgoth, il capo duro e inflessibile, all’opposto, sarà riconosciuto per le espressioni spesso triviali e le frasi brevi e dirette; Caracollo, sempre incontenibile e trascinante, userà di preferenza termini preziosi e giochi di parole. Opportunamente, Damasio all’inizio riduce il numero dei cambi di prospettiva, limitandoli ai personaggi principali; altrettanto opportunamente inserisce, dopo non molte pagine, un intero capito-

In origine fu la velocità, il puro movimento furtivo, il ‘vento-folgore’. Poi l’universo rallentò, prese consistenza e forma, sino alle lentezze abitabili, sino alla vita, sino a voi. 16

lo dedicato alla presentazione dell’Orda, ai suoi singoli membri e alle loro abilità. Viene così almeno in parte illustrato il fine del viaggio; viene dato conto di quanto i protagonisti abbiano già perso e acquisito; viene tratteggiato, quantomeno nell’essenziale, il mondo straordinario nel quale vivono. Soprattutto viene spiegato il perché del loro lungo marciare a piedi controvento, quando navi dotate di straordinari motori eolici solcano veloci le pianure come i velieri l’oceano. La comprensione è però in realtà nulla più che una fuggevole impressione. Vengono infatti introdotte ed elaborate tematiche filosofiche che conducono di nuovo al disorientamento: per esempio, le molto complesse (apparenti) digressioni sul ‘vivo’ caratterizzante ogni uomo (qualcosa di diverso dall’anima e dal corpo) troveranno spiegazione solo nelle ultime pagine, per bocca di uno dei personaggi. E così sarà ogni qualvolta il lettore riterrà di aver finalmente compreso, di essere sulla corretta via. Come accadrà ai personaggi dell’Orda: ogni qualvolta raggiungeranno un terreno sicuro, si ritroveranno gettati di nuovo in balia del vento. Anche sul piano più squisitamente descrittivo, il mondo de L’Orda del Vento ha margini e tratti ‘volatili’ quasi fossero essi stessi spazzati dall’aria imperiosa. La ricerca dell’origine del Vento è in effetti ricerca del significato stesso dell’esistenza, posto che il mondo tutto è plasmato sulle sue forme; e una tale ricerca non può avere punti saldi, ma solo provvisori, fragili appigli che consentono, dopo titanici sforzi, di procedere soltanto un poco oltre, verso la meta che pare comunque irraggiungibile.


ALAIN DAMASIO

foto: ©QUARANTE-DEUX/ELLEN HERZFELD www.flickr.com/photos/quarante-deux www.quarante-deux.org

Il procedere per gradi è un tratto saliente anche della ricerca scientifica dell’Orda: per descrivere le forme del Vento, le Orde delle ultime decadi hanno elaborato uno specifico sistema, strutturato sui simboli con i quali si apre il romanzo. Ecco allora pian piano spiegate le tante righe apparentemente incomprensibili: sono trascrizioni delle forme del vento. Accurate. Precise. Per catturare le diverse folate, l’intensità, il variare della direzione, la potenza, il ritmo… Perché il Vento si può leggere e interpretare. Il romanzo slitta così di continuo tra filosofia e avventura, spesso inscindibilmente tra loro fuse, con forme espressive e sintassi che ricalcano il singolare ritmo del testo e della narrazione. Sbaglierebbe tuttavia chi temesse noia e dispersività: per quanto le digressioni non manchino, L’Orda del Vento non dimentica l’essenza propria del viaggio. Damasio crea luoghi magici e terribili, città straordinarie e montagne dolorosamente invincibili; avviluppa la storia attorno a personaggi credibili e perfettamente delineati; concede spazio all’azione e alla tensione. Purtroppo, a volte, il repentino cambio di voce narrante, parallelo nelle intenzioni all’incalzante succedersi degli eventi, confonde idee e disperde immagini, così come l’utilizzo di termini inconsueti e di neologismi si pone spesso come ostacolo

alla fluidità e alla comprensione. È però certo che nella maggioranza delle occasioni l’effetto cercato è pienamente conseguito: indimenticabili restano le estenuanti lotte dell’Orda con il Vento delle pianure, come pure le dolorose perdite alle pendici dell’Ultima Vetta. Una nota a parte merita il singolare duello che vede protagonista Caracollo, incentrato sull’utilizzo della lingua, tanto complesso e di elevato livello da prevedere una prova di costruzione di un intero dialogo per il tramite di complessi palindromi (alcuni dei quali non perfetti per limite della traduzione dal francese). Il sovrapporsi di più temi, di più voci narranti, di più chiavi di lettura, nonché di più forme espressive, rende L’Orda del Vento senza dubbio uno dei libri più originali e interessanti ai quali la narrativa contemporanea abbia dato luce. E il lettore non può che restarne affascinato, mentre viene trascinato da un vento impetuoso o accarezzato da una lieve brezza… Fino allo sconvolgente epilogo, dove molte domande troveranno finalmente risposta.

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Cult BOOKS

Echi irrequieti

AMERICAN

dell’

DREAM

di STEFANO ANDREA NOVENTA

In viaggio con Matheson tra l’inconscio umano e gli inconfessabili peccati della società americana.

T

OM WALLACE conduce una vita tranquilla: lavora come pubblicitario, ha uno splendido rapporto con sua moglie Anne; un figlio piccolo, Richard, e un altro in arrivo; abita in un appartamento di un classico comprensorio della California anni Cinquanta. Ma l’innocua visita di suo cognato Phil, giovane studente di psicologia, innescherà una reazione a catena che stravolgerà la sua serena routine. Durante una festa a casa di una vicina, un po’ per scherzo e un po’ per scommessa, suo cognato lo ipnotizza, con risultati ilari per gli astanti, ma con conseguenze

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del tutto inattese. Quel che è iniziato per gioco si trasformerà in un incubo: la notte stessa, echi e sensazioni esplodono nella mente di Tom, e la consapevolezza di una ‘presenza’ nel soggiorno di casa si fa chiara e distinta. Una donna con un vestito nero e una collana di perle. Uno spettro. Lo scetticismo iniziale lascerà presto spazio a una sequela di conferme, e Tom si scoprirà in grado di percepire i pensieri, i desideri e le emozioni delle persone, di avvertire a distanza eventi traumatici e dolorosi, fino alla capacità di sognare il futuro. Facoltà medianiche che mette-


IO SONO HELEN DRISCOLL

(A Stir of Echoes, 1958) La prima edizione italiana è stata pubblicata da Mondadori nel 1959, nella collana Urania (serie rossa), traduzione a opera di Hiljia Brinis

ranno a dura prova la sua mente, la solidità del suo matrimonio, le sue relazioni con il vicinato. Ma ciò che più lo affliggerà sarà la presenza, inquietante e costante, di quella donna silenziosa e sconosciuta, che sembra chiedere il suo aiuto, ogni notte, tanto da farlo svegliare in preda ai sudori freddi e con un grido di angoscia che gli strozza la gola. Fintanto che Tom non deciderà di investigarne l’identità, nel tentativo di capire se davvero si tratti di un fantasma. Dato alle stampe negli Stati Uniti nel 1958, A Stir of Echoes venne pubblicato per la prima volta in Italia nel giugno dell’anno successivo, nel numero 206 della collana Urania (serie ‘rossa’) con il titolo di Io Sono Helen Driscoll, traduzione a cura di Hiljia Brinis. Seguirono una ristampa in un Urania del 1968 e la più recente edizione per Fanucci nella collana Gli Aceri, 2008, con una nuova traduzione a cura di Anna Ricci. Il romanzo si apre con una citazione da Chambers of Imagery, poesia di Archibald MacLeisch, poeta e drammaturgo americano, responsabile della Bibliotea del Congresso tra il 1939 e il 1944, e vincitore di ben tre premi Pulitzer. L’opera di

Richard B. Matheson deve infatti ad alcuni versi della poesia il suo titolo: “Sometimes within the brain’s old ghostly house, I hear, far off, at some forgotten door, a music and an eerie faint carouse and stir of echoes down the creaking floor.” A Stir of Echoes, quindi, un titolo che rende alla perfezione le sensazioni che travolgono la mente del protagonista (il termine ‘stir’ incarna l’idea di un rimescolio tumultuoso e agitato) e tradotto in italiano con un inutilmente rivelatorio Io Sono Helen Driscoll. Inutilmente rivelatorio perché nel romanzo non

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si ha la totale e assoluta certezza dell’identità dello spettro prima di pagina 180. Un cambio puramente commerciale, allora, per dare un titolo sulla falsariga di Io Sono Leggenda? Forse, ma l’aspetto curioso della vicenda è che la prima versione italiana di I Am Legend, edita da Longanesi e datata 1957, dunque due anni prima della pubblicazione di Io Sono Helen Driscoll, portava l’orrendo titolo de I Vampiri. Misteri dell’editoria Italiana… L’opera viene spesso etichettata come un horror, definizione che ha sempre fatto arrabbiare l’autore. Matheson si è infatti dichiarato più volte contrario alla classificazione in generi letterari, mirando alla contaminazione e alla creazione di storie che sfuggissero a ogni definizione, come ha dimostrato più volte nella sceneggiatura degli episodi di Ai Confini della Realtà, e nella stesura dei suoi romanzi più famosi: il già citato I Am Legend, Hell House (La Casa d’Inferno) e The Shrinking Man (Tre Millimetri al Giorno). Anche in A Stir of Echoes mescola quindi diversi elementi ricavandone un intreccio dal sapore di thriller soprannaturale, con una narrazione in prima persona che consente al lettore di vivere le incredibili percezioni extrasensoriali del protagonista e di ‘empatizzare’ con la sua fragilità e le sue speranze. Matheson ama infatti giocare con la realtà e deformarla fino alle dimensioni di un incubo i cui sintomi iniziano in modo leggero, con una sottile variazione della normalità, una sfumatura di inquietudine che si introduce nel quotidiano, una scheggia di irrealtà che lentamente lo pervade, fino a dominarlo completamen-

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te e a stravolgerne il significato più profondo: l’autocontrollo di Tom viene meno e il giovane scopre non solo d’essere incapace di gestire il proprio dono, ma di esserne quasi preda, tanto da venire posseduto dal fantasma ritrovandosi a scrivere con una calligrafia non sua “Io sono Helen Driscoll”, su quella che dovrebbe essere la lista della spesa. Ma A Stir of Echoes non è solo una semplice storia di spiriti, con contorno di possessioni ed eventi inspiegabili: il soprannaturale è un mezzo per parlare della fragilità umana, per svelare l’inquietudine della normalità, e le debolezze e bassezze dell’anima. Emblematici esempi sono la relazione tra Frank e sua moglie Elizabeth, una coppia che, al di sotto dell’apparenza – lui crudele e lei remissiva – cela dinamiche ben più complesse di quel che a prima vista potrebbe sembrare; oppure la figura di Elsie, esuberante e provocatoria vicina di casa, rappresentazione di una mentalità ristretta e meschina, purtroppo ancora molto diffusa; o il disagio della baby-sitter Dorothy, immagine di una personalità disperata, alla deriva dopo la morte della madre. Matheson però non dipinge solo l’incertezza della condizione umana, e il disperato tentativo di dare una spiegazione razionale a ciò che non si riesce a comprendere (degna di nota a questo proposito la teoria dello psicologo Alan Porter secondo cui la telepatia sarebbe una facoltà vestigiale, legata ad abilità represse con lo sviluppo del linguaggio come forma primaria di comunicazione) ma anche l’ipocrisia della società americana conservatrice, negli anni del dopoguerra, di quella mutazione del sogno americano


RICHARD BURTON MATHESON

foto: ©RICHARD CHRISTIAN MATHESON rcmatheson.com

che era diventato l’ideale di una famiglia perfetta. Una maschera indossata con fin troppa facilità ma che nasconde al di sotto l’orrore del nostro lato più oscuro. Perché ciò che Tom vede negli altri è la realtà che si cela nelle profondità della nostra psiche, in quel lato malvagio che risiede in ciascuno di noi e per il quale egli non può che provare repulsione, un mondo sordido di desideri inconfessati. E forse questa è l’inquietudine maggiore che il romanzo solleva, il fatto che la crudeltà può avere molte facce, e celarsi in ciascuno di noi, anche nella persona più pura e ingenua. La conclusione è in realtà già scritta nel primo capitolo, e il finale è anticipato non una ma più volte, argutamente celato al lettore in una sequenza di battute all’apparenza innocue; l’abilità di Matheson è proprio questa, tanto che spesso solo a una seconda lettura si può cogliere la sua padronanza narrativa. La prosa è infatti trascinante e asciutta, e raramente lascia spazio alla noia o alla distrazione. Il ritmo è serrato, le argomentazioni fluide. Se proprio si volesse fare un appunto: la giustificazione delle capacità di Tom basata sulla telepatia è forse data per accettata un po’ troppo facilmente, spezzando per un istante l’incredulità del lettore. Ma leggendo un’opera come questa è fondamentale localizzarla negli anni in cui è stata scritta: siamo infatti nel 1958, appena due anni dopo l’uscita della ver-

sione cinematografica di The Search for Bridey Murphy, con Teresa Wright, resoconto di una seduta di ipnosi nella quale una donna racconta con incredibile dettaglio la sua vita precedente in Irlanda, all’epoca un vero e proprio caso letterario e di studio; e siamo comunque negli anni del famoso psichiatra statunitense Milton Erickson, prolifico e rivoluzionario studioso che scrisse molti libri e articoli sull’argomento ipnosi. Una nota di colore: la casa di Tom e Anne, nella quale è ambientata la vicenda, è proprio la casa in cui Matheson e sua moglie vissero in California. In definitiva, pur non raggiungendo le conclusioni metafisiche di Tre Millimetri al Giorno, oppure il profondo significato morale e filosofico di Io Sono Leggenda, né l’alchimia bilanciata di orrore e scienza de La Casa d’Inferno, Io Sono Helen Driscoll è un romanzo pregevole, di piacevole lettura, che ci offre uno spaccato delle forze che si agitano nel nostro profondo e del fatto che l’irrazionale è lì in attesa, dietro l’angolo, ricordandoci che, in fondo, dentro a tutti noi si nasconde un mostro.

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Reading TIME

Satira sociale

SULLE ORME

DI SWIFT

di MARCO PULITANÒ

Una graffiante parabola su ciò che accade quando la diversità deve vedersela con ignoranza e ipocrisia.

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UALSIASI ROMANZO che definisca come proprio campo d’azione un’isola fantastica per poi muoversi in direzione di una parodia della contemporaneità non può sottrarsi a un confronto con I Viaggi di Gulliver. E Il Vangelo della Scimmia non vi si sottrae. A partire dal tema del naufrago sull’isola, fino all’utilizzo della popolazione che la abita come strumento per mettere in scena una feroce e tagliente satira sociale, Christopher Wilson non solo non evita di palesare l’influenza di Jonathan Swift, ma anzi la invoca per rendere ben chiara al lettore, fin dalle prime righe, la connotazione metaforica del racconto.

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Sganciate dai riferimenti a fatti e luoghi concreti per essere ricollocate all’interno di situazioni fantastiche e in paesi immaginari, le vicende del dr. Lemuel Gulliver partivano da una narrazione surreale del presente (era il XVIII Secolo) per arrivare a metterne in luce i difetti e le contraddizioni. Su un palcoscenico immaginario, i vizi e le bassezze della società, l’ignoranza e la stupida ipocrisia della popolazione, venivano messe a nudo ed esibite senza alibi. Ognuno dei viaggi di Gulliver si caratterizza quindi come un pretesto per criticare di volta in volta, attraverso la sottile spietatezza del ridicolo, il siste-


IL VANGELO DELLA SCIMMIA

(Gallimauf’s Gospel, 1986) MERIDIANO ZERO, 2011 160 pagine ISBN-13: 9788882371913

ma giudiziario, la politica estera o direttamente i meccanismi del dominio sociale, del gioco tra potenti e sottoposti. Ed è proprio a partire da premesse analoghe che Christopher Wilson decide di accompagnare il lettore sull’isola di Iffe, dove, tra contesti e personaggi improbabili, il primate al quale è stato dedicato il titolo diventa protagonista di una tragicommedia profondamente umana. Ambientata anch’essa nel XVIII Secolo inglese, la storia ruota attorno a Maria, una scimmia che ha vissuto come mascotte a bordo di una nave da guerra, godendo della simpatia e dell’affetto dell’equipaggio. Quando una violenta tempesta causa il naufragio dell’imbarcazione, solo e in balia delle acque, l’animale finisce con l’approdare su Iffe, un’isola sperduta. La popolazione che la abita non ha la più pallida idea di cosa sia una scimmia, così la identifica come uno straniero (un Francese, per la precisione), anche a causa degli indumenti e dei gioielli che indossa. Di fronte alla novità, i più illustri membri della comunità si attivano per cercare il favore dello straniero. Il mercante Hogg decide di organizzarne il matrimonio con sua figlia;

Gallimauf, considerato l’intellettuale della comunità in virtù del suo aver letto cinque libri, desidera confrontare con lui le proprie conoscenze in tema di filosofia e teologia; Vera la Pazza ne cerca la compagnia e l’affetto; e ancora, a partire da Lord Iffe, il signore dell’isola, fino al reverendo Lovegrave, unica e indiscussa guida spirituale, tutti caricano lo straniero delle proprie aspettative e dei propri desideri. Ma dal momento che la scimmia non fa altro che comportarsi come tale (si gratta, si lecca, fa smorfie, ride e fa versi incomprensibili, si arrampica sugli alberi e fa dispetti), la comunità reagisce individuando in

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CHRISTOPHER WILSON

foto: FIONA KENNEDY (©CHRIS WILSON) christopher-wilson.net

lei la fonte di peccati irripetibili, nonché di una corruzione dei costumi alla quale è necessario porre un freno. E, come in una sorta di commedia dell’arte allestita per l’occasione, ognuno dei personaggi che si muove attraverso le pagine del libro diventa l’incarnazione più o meno esplicita di un tipo sociale: Hogg, il mercante esibisce fin da subito una meschinità pari solo al livello di un’obesità che non gli consente di muoversi da solo; Gallimauf, dall’alto dei suoi cinque libri letti, occupa il ruolo di intellettuale più per demeriti altrui che per meriti propri; il reverendo Lovegrave è il rappresentante di una religiosità tanto pronta ad essere severa e inflessibile nei confronti delle debolezze altrui quanto tollerante verso le proprie; e Lord Iffe è l’incarnazione di un’autorità politica la cui violenza affonda le proprie radici nel terreno dell’inconsapevolezza e dell’assenza di memoria. Un posto a parte si trova invece occupato da Vera la Pazza, una donna sola ed emarginata in quanto accusata di essere indemoniata, ma che suo malgrado rappresenta uno dei pilastri attorno al quale la comunità di Iffe può preservare la propria identità. Oggetto di desideri carnali di notte e di disprezzo morale di giorno, Vera è l’unica persona a provare un sincero affetto nei confronti di quell’essere basso, peloso e deforme, e a comprenderne il destino. Per ogni reverendo Lovegrave, cioè per ogni persona che utilizza una doppia mo-

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rale a seconda che oggetto del giudizio sia essa stessa o qualcun altro, è necessario che ci sia una Vera da isolare e da disprezzare in pubblico, qualcuno addosso al quale scaricare il peso delle proprie mancanze. Ed è proprio all’interno di questo spazio, nella distanza che separa chi può giudicare e chi non può fare altro che subire in modo passivo, che Christopher Wilson si colloca per squadrare con attenzione le dinamiche di un potere ottuso e delle gerarchie su cui si regge. Dall’evidente riferimento nel titolo del primo capitolo (‘Nella colonia penale’), all’assurdità dell’intermezzo dedicato all’universo giuridico di Jarvie, l’autore inserisce frequenti sfumature kafkiane che sfociano in uno sguardo sulla violenza di un dominio inconsapevole della propria brutalità. Si tratta di un approccio che non cela i propri debiti nei confronti delle riflessioni di Michel Foucault, al quale anzi viene reso omaggio attraverso il titolo di uno degli ultimi capitoli del libro: ‘Sorvegliare e punire’. Tramite i personaggi che popolano Iffe, Wilson cattura con lucidità lo spirito di una comunità che non trova la ragione della propria unità nell’autorevolezza di una figura politica o religiosa; al contrario, usa queste figure in modo funzionale al mantenimento di uno stato di cose all’interno del quale a ognuno viene assegnato un posto e un ruolo ben precisi. La curiosità di cui viene fatta oggetto la scimmia non è manifestazione di un vero interesse nei confronti della diversità di cui può essere portatrice, quanto piuttosto del desiderio di vedere confermata la fondatezza delle proprie credenze. Non ha lo scopo di comprendere qualcosa di

È una verità ben nota a tutti che se un epistemologo, seguace erratico della filosofia del Muirpocks, e una scimmia che vaghi senza una meta precisa s’incontrassero, potrebbero scoprire di avere molti interessi in comune. E così fu.

nuovo, ma di trovare nuove conferme. O la novità si arrende a ciò che già è in vigore, oppure si qualifica come gesto sovversivo da condannare. Maria è l’incarnazione di un’alterità alla quale tutto è negato: il suo comportamento, la sua natura, e perfino il suo sesso. Tra i crimini di cui si macchia l’animale ci sono il suo non essere un ricco come desidera il mercante Hogg, né uno studioso al livello delle aspettative di Gallimauf. Il vergognoso e irripetibile peccato che la scimmia incarna agli occhi della comunità non consiste in qualche orribile azione della quale sarebbe stata responsabile, anche in modo inconsapevole, ma nel suo sottrarsi all’arbitrio di una morale comune. La violenza che si abbatte su di lei e quella che porta all’emarginazione di Vera condividono la stessa origine: attraverso la punizione dell’altro, la reificazione della sua diversità, la comunità ha

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modo di consolidare la propria omologazione. E un ruolo chiave viene giocato proprio da quell’intellettuale che si professa studioso tollerante e liberale, ma che all’atto pratico si rivela essere un docile strumento nelle mani di un’autorità repressiva e conservatrice. Appare chiaro che la scimmia non articola mai altro che urla e grugniti, eppure nessuno esita ad attribuirle pensieri e parole, e a giudicarla sulla base di questi. Ad esempio, il suo mancato adeguamento alle regole del matrimonio con la figlia del mercante viene visto come un atto di ribellione, una mancanza di rispetto nei confronti delle regole della comunità nella sua interezza. L’isola di Iffe è il palcoscenico sul quale viene rappresentata la persecuzione e l’emarginazione delle minoranze e dei diversi. Poco importa che si tratti delle dicerie di un piccolo paese su una singola vittima o delle accuse celebrate a mezzo stampa nelle grandi campagne mediatiche contro intere categorie di persone:

Il giudice sapeva che, dal momento che i vecchi castighi non erano riusciti a contenere la marea montante della malvagità, era necessario escogitare nuove sanzioni.

Maria rappresenta il soggetto privato del diritto di esprimere le proprie opinioni. Un divieto che non si esercita impedendo al soggetto di parlare, ma circondandolo di un vuoto nel quale non c’è nessuno disposto ad ascoltarlo. Il giudizio a cui viene sottoposto è quello formulato da chi non si interroga sulla diversità altrui, ma processa e condanna attribuendo all’altro i suoi pensieri e le sue parole. La scimmia Maria, proprio nel suo non essere riconducibile ad alcuna categoria umana, diventa così il simbolo di tutte quelle persone alle quali è negato il diritto di difendersi da sole. Oggetto di una violenza linguistica che si consuma prima di tutto nella mancanza di riconoscimento dell’altro come soggetto libero e autonomo (magari in nome di una difesa di valori collettivi o di una morale condivisa), la vittima è tale non in quanto responsabile di qualche crimine, ma perché su di essa l’accusatore concentra le proprie ossessioni e i propri fantasmi, la propria ignoranza e la propria ipocrisia. E se anche al lettore la scimmia appare umana, non è per qualche sua particolare virtù che la renderebbe speciale, ma perché simili a lei sono le persone alle quali non viene riconosciuta l’umanità e tantomeno il diritto a decidere in piena autonomia cosa fare di sé e della propria vita. Non è Maria insomma ad essere talmente speciale da sembrare umana, sono piuttosto le privazioni di diritti a cui sono costrette le vittime di violenze e discriminazioni a far sì che i loro profili possano sfumare nei contorni di una scimmia naufraga alla mercé di una comunità arretrata e superstiziosa.

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CHRIS WILSON

di ©SOPHIA KENNEDY-WILSON

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STILE e dintorni

IL BIGLIETTO

DA VISITA dell’autore di FABIANA REDIVO

L’importanza di un incipit efficace e rappresentativo, un elemento da non sottovalutare.

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HI BEN COMINCIA è a metà dell’opera’, recita un vecchio adagio. Calzante. Un buon inizio è fondamentale, dato che spesso condiziona la valutazione del potenziale editore e la decisione del possibile acquirente in libreria. In poche parole, può determinare il successo o l’insuccesso di un’opera. Secondo Raymond Carver “L’inizio è importantissimo. Un racconto può ricevere una benedizione o una maledizione dalle sue battute d’inizio”. Appare quindi chiaro che l’esordio di un’opera deve essere efficace. È ciò che trasporta istantaneamente il lettore dalla sua dimensione personale a quella

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del sogno narrativo creato dall’autore. Oggi per incipit si intende un inizio di lunghezza variabile, mentre un tempo indicava le prime parole di un testo, o la frase con cui iniziava. Ne riporto di seguito tre tra i più famosi. “Cantami o Diva del Pelide Achille l’ira funesta…” “Quel ramo del lago di Como, che volge a Mezzogiorno…” “Nel mezzo del cammin di nostra vita…” Come potete vedere, sono talmente noti che non è necessario nemmeno citare i titoli e gli autori. Gli incipit dunque sono fondamentali. Sono pregni di tutto ciò


LUIGI PIRANDELLO

(1867-1936) premio Nobel per la Letteratura 1934 fonte: WIKIMEDIA COMMONS

che l’opera contiene, imprimono un marchio al punto da diventare il simbolo dell’opera stessa. Qualcuno potrebbe osservare che il titolo di per sé dovrebbe essere un indizio sufficiente a instradare il lettore. Prendiamo ad esempio Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, Tre uomini in bicicletta di Paolo Rumiz e Francesco Altan, e Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro. Sicuramente il primo intriga parecchio grazie a quel ‘fu’ nel titolo. Il secondo richiama Tre uomini in barca (per non parlar del cane) di Jerome K. Jerome. L’ultimo pone l’accento sui sentimenti. Pur contenendo già le caratteristiche interne al rispettivo romanzo, i titoli rimangono comunque esterni allo stesso così come un’insegna su un edificio da visitare. Fungono da richiamo. L’incipit invece è il primo passo all’interno del percorso narrativo. Secondo Baudelaire, tra il lettore e lo scrittore si deve instaurare un rapporto di complicità, da innescare ancor prima della vera e propria lettura. A questo punto è evidente che, per gettare le basi di un inizio accattivante, dobbiamo conoscere

molto bene l’argomento da trattare. In buona sostanza, più è matura la progettazione, più facile sarà trovare forma, ritmo, atmosfera e respiro dell’incipit. Secondo Dario Corno (Scrivere e comunicare - Teoria e pratica della scrittura in lingua italiana, Mondadori), le fasi del processo di scrittura si possono sintetizzare in: prescrittura, scrittura, riscrittura e revisione. Nel momento della prescrittura, l’autore deve decidere qual è lo scopo del testo e a chi è indirizzato. Segue poi la pianifi-

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FRANCESCO TULLIO ALTAN

foto: GIOVANNI MONTENERO (©ARC FVG) www.regione.fvg.it/rafvg/cms/RAFVG/GEN/ Agenzia_Regione_Cronache/

cazione del lavoro. L’incipit è un ponte tra queste due fasi, il momento magico che separa l’autore dal foglio intonso. E le parole che sceglierà saranno la porta d’accesso al sogno che intende riprodurre. Un sogno che deve trasparire in modo accattivante, senza mai svelarsi. Il lettore entra in contatto con lo stile dell’autore, con il suo lessico, e riceve le prime informazioni utili a comprendere il contenuto del romanzo o del racconto. Esistono diverse tipologie di incipit, solitamente i manuali di scrittura ne riportano tre. Incipit descrittivo (o introduttivo): si parte da una descrizione, si procede lentamente, concedendo ampio spazio alle atmosfere (vedi I promessi sposi di Alessandro Manzoni). Incipit narrativo: vengono subito raccontate le azioni dei personaggi, tenendo un ritmo veloce, incalzante (vedi L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto). Incipit in media res: si parte da un evento centrale alla storia, che è già nel suo sviluppo (vedi Eneide di Publio Virgilio Marone). Ho inserito questa classificazione perché abbastanza generica da contenerne delle altre. Tuttavia, per maggiore completezza, riprenderò i titoli dei tre romanzi riportati a inizio discorso, analizzandone gli incipit.

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Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello inizia così: Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: - Io mi chiamo Mattia Pascal. - Grazie, caro. Questo lo so. - E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: - Io mi chiamo Mattia Pascal. Questo è quando scritto nella ‘Premessa’ che introduce l’opera. Come possiamo notare Pirandello usa il racconto in prima persona. Si tratta di un diario che inizia con una frase d’effetto e che termina con


un’informazione clamorosa: Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di Monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte. Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete. Torniamo al titolo. Quel ‘fu’ ci fa comprendere che Mattia Pascal è morto, ma mai potremmo supporre che si tratti di una persona morta per ben due (e infi-

ne tre) volte! Un impatto piuttosto forte, che ci introduce subito nella dimensione tipicamente pirandelliana, in cui prevale la cura per l’indagine sull’animo umano e sulle regole del comune buonsenso stravolte da una continua ricerca di contenuto che coincida con la forma. Quando poi la sostanza delle cose tracima, non identificandosi più con il recipiente, si ha la rottura di ogni schema. Ecco dunque che l’insegna al neon ‘Il fu Mattia Pascal’ crea delle aspettative confermate e rafforzate dalla ‘Premessa’ e mai disattese fino alla fine dell’opera. Passiamo ora a Tre uomini in bicicletta di Paolo Rumiz e Francesco Altan. L’introduzione porta il titolo ‘Una strada, un quaderno, una bici’. “Dove vai?” chiede la moglie al ciclista. “Porto a spasso il bambino che è in me” risponde lui, con la mano già sull’affusto carico di bagagli. Altan ha colto dall’inizio, con una vignetta, il senso di questo viaggio Trieste-Istambul. Non l’impresa, per carità. La Grande Diagonale del Bosforo è alla portata di chiunque sia sano di corpo e di mente. Il senso vero è stato l’immenso, infantile, primordiale divertimento. […] È difficile che una cosa simile si ripeta. La storia di tre caratteri diversissimi, uniti dallo stesso filo rosso e dalla stessa idea dell’andare. Il viaggio lento come goduria liberatoria e totale. Andando verso Costantinopoli, perdeva-

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PAOLO RUMIZ

fonte foto: ©WWF TRIESTE wwftrieste.blogspot.it

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SUSANNA TAMARO

foto: MARA VITALI COMUNICAZIONE (Ufficio Stampa S. Tamaro) www.mavico.it

mo felicemente zavorre, impacci, legami. Un giorno, col sole allo zenit, ci fu un momento simbolico. Fu durante la settima tappa, in mezzo alle campagne della Vojvodina, quando i miei compagni videro che portavo gli slip sotto le braghette con pelle di daino. Poiché la cosa è inconcepibile per i ciclisti veri, iniziò uno sfottimento duro, martellante. Continuò finché, dopo una quarantina di chilometri, non mi appartai in un campo di mais per liberarmi dell’oggetto clandestino. Gli slip volarono in aria, e un ‘clic’ di Emilio li fissò all’apice della parabola come nella scena finale del film ‘Full Monty’. A scrivere in prima persona è il giornalista Paolo Rumiz. Si avverte subito il taglio giornalistico, incisivo, essenziale, esauriente. In pochissime righe di premessa sappiamo già di che tratta il libro e qual è la finalità del viaggio. Anche in questo caso notiamo come l’insegna al neon del titolo da sola non basti. Funge esclusivamente da richiamo. L’allusione al romanzo di Jerome K. Jerome è un segnale molto chiaro riguardo al tono umoristico della narrazione. Tutto il resto si può dedurre solo dalla lettura dell’incipit. Concludiamo la piccola carrellata di esempi con Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro. Opicina, 16 novembre 1992 Sei partita da due mesi e da due mesi, a parte una cartolina nella quale mi comu-

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nicavi di essere ancora viva, non ho tue notizie. Questa mattina, in giardino, mi sono fermata a lungo davanti alla tua rosa. Nonostante sia autunno inoltrato, spicca con il suo color porpora, solitaria e arrogante, sul resto della vegetazione ormai spenta. Ti ricordi quando l’abbiamo piantata? Avevi dieci anni e da poco avevi letto Il Piccolo Principe. Te l’avevo regalato io come premio per la tua promozione. Eri rimasta incantata dalla storia. Tra tutti i personaggi, i tuoi preferiti erano la rosa e la volpe; non ti piacevano invece i baobab, il serpente, l’aviatore, né tutti gli uomini vuoti e presuntuosi che vagavano seduti sui loro minuscoli pianeti. Così una mattina, mentre facevamo colazione, hai detto: «Voglio una rosa». Davanti alla mia obiezione che ne avevamo già tante hai risposto: «Ne voglio una che sia mia soltanto, voglio curarla, farla diventare grande». Naturalmente, oltre alla rosa, volevi anche una volpe. Con la furbizia dei bambini avevi messo il desiderio semplice davanti a quello quasi impossibile. Come potevo negarti la volpe dopo che ti avevo concesso la rosa? Su questo punto abbiamo discusso a lungo, alla fine ci siamo messe d’accordo per un cane. Ci troviamo di fronte a una narrazione sotto forma di diario, rivolto però a una persona particolare che è la destinataria di tutte le riflessioni e i ricordi di chi lo scrive. La solita insegna al neon ci suggerisce subito che si tratta di un’opera che induce alla riflessione e all’introspezione. L’incipit ci conferma che ci troviamo nel giusto. Lo stile semplice e raffinato riesce a sintonizzarsi senza fatica sulla giusta frequenza di chi legge, per l’appunto, con il cuore. E sempre al cuore si riporta

l’autrice nelle parole finali dell’opera concludendo così: E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta. Non a caso ho scelto tre incipit di opere scritte in prima persona. Dal raffronto notiamo subito che, a parità di condizioni (si tratta in pratica di diari), gli stili narrativi ci introducono in dimensioni completamente diverse tra loro, per forma, contenuto e tipologia di linguaggio. La classificazione di incipit che ho riportato in questo articolo è in effetti puramente indicativa. Non esiste una regola vera e propria. Ogni scrittore può scegliere liberamente se iniziare con una frase d’effetto piuttosto che con un dialogo, una descrizione, o una considerazione. Può cominciare dal principio, in media res e perfino dal finale. L’unica cosa che conta veramente è creare le giuste aspettative per indurre a proseguire la lettura, tenendo bene a mente che il lettore non va mai ingannato. Se in corso di revisione ci accorgiamo che in qualità di autori non abbiamo rispettato le premesse dell’incipit, vuol dire che la narrazione è sbilanciata o che la progettazione non è stata curata a sufficienza. O molto semplicemente che quello non è il modo corretto di aprire le porte del nostro sogno narrativo. Il che confermerebbe l’opinione di Blaise Pascal: “L’ultima cosa che si scopre scrivendo un libro, è come cominciare.”

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Quando il

WORLD BUILDING

FUNZIONA di ROBERTO PAURA

Tra world-building e sub-creazione: come nasce un universo fantastico di successo.

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UANDO SI CREA un universo immaginario, il rischio di scadere in un prodotto irrealistico è sempre in agguato. La sospensione dell’incredulità resta sì un presupposto cardine richiesto a chi voglia immergersi completamente nel mondo subcreato, ma alla base di quest’ultimo deve esserci una logica rigorosa. E mantenerla non è affatto semplice. L’universo costruito è tanto più realistico

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quanto più tende a imitare la nostra realtà nella sua intera complessità. Un’ambientazione efficace deve quindi ramificarsi all’interno di un universo articolato, ma per poter ‘complicare’ il gioco serve una logica che tenga legati insieme, che amalgami, i diversi componenti. In questo delicato equilibrio sta la difficile sfida di un world building di successo. Un ottimo esempio è l’universo fanta-


FABBRICANTI di Universi

TRIBE WORLD CITYSCAPE

di ©BEN LO benlo.carbonmade.com

scientifico di Dune creato da Frank Herbert. La sua complessità è fuori discussione, nonostante l’autore si astenga dall’inserirvi specie aliene e si concentri solo su quella umana. Il sistema di governo in Dune ricalca quello del Sacro Romano Impero: un coacervo di piccoli regni e principati litigiosi tenuti insieme da un’autorità nominale, quella dell’Imperatore. La vera forza che fa girare la società è l’economia. Il fatto che i viaggi spaziali siano possibili solo sfruttando la spezia ‘melange’ prodotta esclusivamente sul pianeta Dune è il concetto – apparentemente semplice – attorno a cui Herbert elabora la sua sub-

creazione. A questa idea di fondo l’autore aggiunge una seconda condizione, ossia la scomparsa della tecnologia informatica; immaginando come i due presupposti possano influenzare la politica, l’economia, la cultura e la religione nell’intera galassia, Herbert sviluppa il suo mondo. L’esistenza di una Gilda spaziale che detiene il monopolio dei viaggi interstellari; di una corporazione commerciale che funge da banca galattica con alti margini di profitto sullo sfruttamento della spezia; di un sistema politico frammentato; di un ordine semireligioso, le Bene Gesserit, che controlla troni e potere; di un

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TRANTOR

di ©SILVIU DINU dsa-sketch.blogspot.ro silviudinu.deviantart.com Una rappresentazione della città-pianeta capitale dell’impero Galattico nel Ciclo della Fondazione creato da Isaac Asimov

ordine antitetico, i Mentat, che usa la logica per rimpiazzare i computer; di una forte componente fondamentalista nella popolazione indigena di Dune, abituata a vivere di stenti nel deserto: sono tutte logiche conseguenze di due sole semplici premesse da cui Frank Herbert è partito per costruire il suo universo. La complessità di un’ambientazione, dunque, non è un risultato che si ottiene a

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tavolino; è piuttosto il prodotto di una coerente associazione di idee a partire da pochi concetti di base. Quando Isaac Asimov inventò l’universo di Fondazione (aka Cronache della Galassia), iniziò dalla figura di un legionario romano. Da lì giunse a concepire un Impero Galattico in declino, la lotta tra i regni barbari della periferia, l’esistenza di una fondazione scientifica impegnata a salvaguardare le conoscenze di migliaia di anni di storia, nonché una scienza in grado di prevedere e cambiare il futuro. La Saga della Fondazione di Asimov si dipana su un totale di sette romanzi, tra i più grandi successi della Fantascienza mondiale. Eppure, quell’universo così vasto è nato da una sola semplice immagine.


La costruzione di un mondo sulla base di un ragionamento logico deve naturalmente contemplare anche elementi d’imprevedibilità: un contesto totalmente ‘logico’ e lineare sarebbe già di per sé irrealistico. Nella gestione dei personaggi, per esempio, la ricerca della coerenza può seguire vie sottili. Il tradimento di Saruman ne Il Signore degli Anelli o la decisione di Darth Vader di uccidere l’Imperatore ne Il Ritorno dello Jedi sono scelte ‘imprevedibili’ (tranne che per l’autore, o a volte anche per lui!), e per certi versi contradditorie, ma la contraddizione è a sua volta una caratteristica dell’animo umano. Il Bene e il Male non sono due schieramenti granitici, come invece accade in molta narrativa fantasy: sono il prodotto di scelte compiute dai personaggi, e non sempre razionali. Pensiamo ancora a Il Signore degli Anelli; in un world-building mediocre, la divisione tra le razze sarebbe tranchant: qui gli Uomini, lì gli Elfi, laggiù i Nani e così via. In Tolkien, le divisioni sono invece relative. C’è un’evidente distanza tra gli Elfi di Galadriel e quelli di Elrond. Ci sono differenze tra le diverse tribù dei Nani. Gli Uomini stessi sono divisi in due regni, tra loro rivali. E la spiegazione può non essere del tutto ‘logica’, ma del resto quanta logica c’è nella Terra reale, dietro il fatto d’essere frazionata in quasi 200 Stati diversi? Nel definire gli aspetti ‘geografici’, coerenza e complessità sono più intuitive da prevedere, ma richiedono ugualmente attenzione. È preferibile evitare di ipo-

tizzare, per esempio, pianeti abitabili ma con un unico ecosistema. Dune rispecchia solo in parte questo canone: è completamente desertico ma la sua ecologia è ugualmente variegata: vi sono città ai poli, zone aride, oasi, sistemi di caverne… In Guerre Stellari la costruzione dei pianeti è invece eccessivamente semplificata: Hoth è un globo totalmente ghiacciato; Tatooine è un mondo desertico; Dagobah

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ALIEN WORLD 2

di ©ŁUKASZ MATUSZEK ortheza.net

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sembra un’unica immensa palude. Nella seconda trilogia, George Lucas sembra cercare di aggiustare un po’ il tiro, presentando un Naboo con più ecosistemi e abitato da due diverse razze senzienti, una delle quali, anfibia, occupa i fondali marini. In un recente articolo sul celebre sito io9, Charlie Jane Ander confronta proprio le due diverse trilogie di Guerre Stellari alla luce del loro modo di affrontare il world-building. Apparentemente, La Minaccia Fantasma e i suoi seguiti possiedono una maggiore attenzione al dettaglio. Mentre il primo Guerre Stellari si apriva accennando genericamente di una guerra civile, e poche battute di Obi-Wan Kenobi nominavano poi le Guerre dei Cloni, l’oscurantismo e l’avvento dell’Impero,

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nella nuova trilogia si forniscono parecchi dettagli sulle origini della complessa vicenda, a partire dalla vertenza tra la Federazione dei Mercanti e la Repubblica Galattica riguardo la tassazione delle rotte commerciali periferiche. Fin dall’inizio allo spettatore vengono forniti i principali tasselli per ricostruire l’intricato puzzle di complotti e giochi di potere che si dipana nel corso della trilogia. Eppure, sebbene nella nuova trilogia il world-building sia evidentemente ‘migliore’ rispetto a quella classica, l’effetto finale non lo è. Ne La Minaccia Fantasma, lo scenario politico viene descritto in dettaglio: ascoltiamo Palpatine sostenere che il Senato Galattico è debole e indeciso, che il cancelliere Valorum è invischiato in generiche accuse di corru-


STAR WARS HOTH DEFENSE

di ©AARON SUTHERLAND surfsideaaron.deviantart.com Battaglia tra i ribelli e le truppe dell’Impero presso il pianeta ghiacciato Hoth, dalla saga di Guerre Stellari

zione; che la Federazione dei Mercanti detiene un potere superiore a quello della Repubblica… Ma tutti questi elementi, pur contribuendo a spiegare gli eventi, sono solo descritti, non mostrati. La regola d’oro ‘show, don’t tell’, ossia mostrare anziché dire, è invece osservata nella trilogia classica dove non c’è bisogno di descrivere il potere dell’Impero e la sua oppressione, basta mostrare i soldati che assaltano Tatooine o Bespin, la spietata disciplina a bordo degli incrociatori, gli agghiaccianti discorsi nella sala riunioni sulla Morte Nera, il timore reverenziale all’arrivo dell’Imperatore. Uno degli obiettivi di una subcreazione raffinata è evitare il cosiddetto infodump, la cascata di informazioni di background fornite dall’autore tutte in una volta. Il

mondo subcreato deve poter fare a meno di questa sorta di manuale di istruzioni, lasciando invece al suo fruitore il compito di esplorarlo e di ricostruirne i contorni. Nel film Guerre Stellari ci vuole tempo prima di acquisire tutti gli elementi della storia: l’esistenza dell’Impero, della ribellione, dei cavalieri Jedi, della caduta della Repubblica. Queste informazioni fondamentali sono distribuite nel corso della storia (che a sua volta rappresenta solo una piccola parte del tutto), e lo spettatore le apprende insieme a Luke Skywalker, il classico ragazzo di periferia che si trova coinvolto in eventi più grandi di lui. Lo stesso capita a Frodo Baggins ne Il Signore degli Anelli. Attraverso gli occhi increduli dell’uomo comune è possibile introdurre gradualmente tutti gli elemen-

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DUNE VISION

di ©LAURA JIMENEZ GUTIÉRREZ - YBLAIDD ART yblaidd.deviantart.com www.facebook.com/pages/Yblaidd-Art/171116066382387

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ti dell’ambientazione. Un ulteriore esempio è Harry Potter, che a 11 anni inizia a frequentare il mondo della magia e ne scopre le caratteristiche passo dopo passo, con l’iniziale inesperienza del ‘babbano’. Nella nuova trilogia di Guerre Stellari, invece, i protagonisti sono tutt’altro che uomini comuni: troviamo regine, senatori, Jedi d’altro rango, cancellieri… Loro conoscono perfettamente ogni aspetto della vicenda, senza doverla scoprire strada facendo. Il processo di scoperta graduale lasciato al fruitore è insomma il marchio di fabbrica del migliore world-building. Se poi la complessità di una subcreazione e il numero delle opere che le ruotano attorno crescono a punto tale da rendere difficoltoso l’orientamento, è possibile mettere a disposizione del lettore delle guide all’ambientazione. Ne Il Signore degli Anelli, Tolkien inserisce un gran numero di accenni a una realtà assai più vasta. Non si sofferma a spiegarli, li dissemina qua e là per fornire profondità agli scenari. Il lettore che proseguirà nella scoperta della sua opera avrà poi modo di conoscere la provenienza di quelle leggende e di quei brevi accenni, attraverso Il Silmarillion e le storie pubblicate postume ma scritte precedentemente a Il Signore degli Anelli, che raccolgono il background storico e mitologico della subcreazione tolkieniana. Molte informazioni Tolkien le fornisce anche nelle Appendici. Simili complementi si trovano pure in Dune. Manuali tecnici e vere e proprie enciclopedie sono comuni prodotti di supporto nell’universo di Guerre Stellari e in quello di Star Trek, in alcuni casi a opera degli stessi creato-

ri. J.K. Rowling aveva in mente di scrivere un’enciclopedia di Harry Potter, prima di optare per un veicolo di informazioni più interattivo come il sito Pottermore. E prima di ciò aveva già scritto, Gli animali fantastici: dove trovarli e Il Quidditch attraverso i secoli, due libri che vengono accennati nel corso della saga e che la Rowling trasforma brillantemente da pseudobiblia a opere reali. Occorre però evitare che l’enciclopedismo e il nozionismo contaminino la stessa opera narrativa. Kevin J. Anderson, autore dei romanzi prequel della saga di Dune, è il classico scrittore da infodump che fornisce una marea di informazioni nel corso delle storie, allontanandosi dallo stile di Herbert. Autore anche di famosi romanzi ambientati nell’expanded universe di Guerre Stellari, pure lì non disdegna di trascurare la norma del ‘show, don’t tell’. Richiamando la differenza espressa nell’articolo ‘Quando un solo mondo non è abbastanza’ (Terre di Confine Magazine n. 1), possiamo dire che Anderson è un bravo world-builder, ma un pessimo subcreatore. L’impronta ‘enciclopedica’ nelle sue opere dedicate all’universo di Dune e a quello di Guerre Stellari è evidente. Nel mondo reale accade che usi, costumi, popoli, storie, leggende, vicende politiche, accordi economici vengono appresi gradualmente nel corso delle esperienze vissute, non attraverso la lettura di un’enciclopedia: una buona subcreazione deve imitare una ‘esperienza’, deve permettere questo processo di scoperta, incessante e continuo, se vuole davvero produrre un universo fantastico ‘realistico’ e indimenticabile.

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Series TIME

La realtà

ATTRAVERSO

lo SPECCHIO di GIANNI FALCONIERI

Il futuro alle porte e una tecnologia sempre più a rischio di diventare droga: le inquietanti premonizioni sulla civiltà della comunicazione.

S

EMPLIFICANDO ALL’ESTREMO, esistono almeno due grandi tipologie di Fantascienza. C’è quella dove ricadono le grandi epopee spaziali (Star Trek, Battlestar Galattica, cicli di Asimov…), e quella ‘europea’, più filosofica che avventurosa, cara a Bradbury, Ballard, Orwell. Andata in onda per la prima volta nel dicembre del 2011 in Gran Bretagna, Black Mirror rappresenta un esempio della migliore Fantascienza televisiva appartenente al secondo tipo, quello più interessato ai problemi degli esseri umani che ai viaggi

spaziali. La serie mantiene un tema comune ben identificabile: i risvolti negativi della tecnologia, l’assuefazione da essa causata e i suoi effetti sugli individui e sulla società. L’autore è Charlie Brooker, un importante critico televisivo e sceneggiatore britannico, diventato piuttosto famoso per Dead Set, racconto di un’apocalisse zombi dal punto di vista dei concorrenti di un reality show. Il suo stile ironico e fortemente satirico (che gli è costato non pochi problemi in carriera) in parte

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si riscontra anche in quest’opera, che è fantasiosa, originale, distopica, piena di riferimenti al genere e permeata da un estremo senso del grottesco che piacerebbe molto a Philip K. Dick. Ognuna delle 6 puntate (divise in 2 stagioni da 3 episodi l’una) è correlata solo tematicamente alle altre, mentre cast e trama cambiano ogni volta. La serie esordisce con ‘Messaggio al Primo Ministro’ (‘The National Anthem’). Questo primo episodio è indubbiamente il più sconcertate dei 3 della prima stagione. Un pugno sul cranio dello spettatore. Susannah, la principessa inglese più amata dai tempi di Lady D, viene rapita

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pochi giorni dopo aver annunciato il proprio matrimonio; il Primo Ministro dovrà ‘pagare’ personalmente, in diretta TV, una sorta di sadico riscatto in natura per liberarla. ‘15 Milioni di Celebrità’ (‘Fifteen Millions of Merits’) presenta un ipotetico futuro nel quale gli uomini vivono al chiuso in ambienti collettivi senza contatti con l’esterno, svolgendo una sola attività: pedalare sulle cyclette per produrre energia, davanti a uno schermo che li ‘intrattiene’ con spazzatura mediatica di ogni tipo. Emancipati dal lavoro, i cittadini del futuro sono bulimicamente esposti alla pubblicità, in una utopia stravolta nella qua-

le la massima aspirazione è partecipare a un talent show. Per qualità tecnica, questo episodio è sicuramente il migliore della serie, girato benissimo a fronte di un budget tutt’altro che sconfinato. Il futuro che rappresenta pare verosimile come deriva estrema dello stile di vita della generazione dei social network e dei reality, vulnerabile al rischio di perdere contatto con la comunità (reale) e col territorio a vantaggio di uno sterile quanto tragico surrogato virtuale di società. La messa in scena – interamente dedicata a variazioni sul tema dello schermo – è stupenda, tecnicamente paragonabile a quelle dei migliori film di Fantascienza degli ultimi anni, ma superiore per ispirazione. L’autore, qui più che negli altri episodi, allude esplicitamente all’argomento cruciale che muove la serie: un televisore, un monitor, un display, uno ‘specchio nero’, come metafora dei cambiamenti sinistri che la tecnologia opera sulla vita umana. Analogalmente al primo episodio, il fulcro del secondo è la relazione tra pubblico e media, rapporto non più univoco (osservatore-osservato) come in Orwell, ma sempre più multimediale e

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sfaccettato. Tutto è confuso nel ‘Sistema’, gli schermi occupano ogni posizione, le immagini vengono proiettate dall’alto e gli utenti pagano per saltare la pubblicità. Notevole la partecipazione da coprotagonista di Jessica Brown Findlay nel ruolo di Abi, tributo umano alla Hunger Games, e quella di Rupert Everett che interpreta il crudele Giudice Speranza.

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Anche nel descrivere la parabola discendente della protagonista femminile, l’interesse di Brooker si sofferma sullo spirito voyeuristico e sui rapporti di forza tra osservatore, tecnologia e osservato, interazioni che spingono il personaggio ad auto-degradarsi pur di sfuggire all’anonimato. Tuttavia l’autore non cede nemmeno per un istante alle tentazioni d’exploi-


tation che sembrano invece aver contagiato anche il cinema più insospettabile: allo spettatore deve importare l’effetto, l’emozione che un evento suscita. E così nel climax finale assistiamo a una scena di altissimo valore emotivo e narrativo, in cui il protagonista Davide si ribella, come può, al sistema Golia. Nell’episodio ‘Ricordi pericolosi’ (‘The Entire History of You’), ambientato in un

futuro non troppo lontano, gli individui portano impiantato nel corpo un chip in grado di archiviare le memorie e riproporle a comando, se necessario proiettandole su schermo in pubblico, con tutte le annesse funzioni offerte dalla tecnologia, come la capacità d’ingrandire dettagli sfuggiti a prima vista o aumentare il volume di suoni e conversazioni per cogliere magari frasi sussurrate. È la filoso-

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fia dei social network portata alle estreme conseguenze: i ricordi, le relazioni sociali esposte in bella mostra, il passato che rimane presente. Varia sul tema del perturbante il primo episodio della seconda serie. In ‘Torna da me’ (‘Be Right Back’), la protagonista (Hayley Atwell, Captain America - Il Primo Vendicatore), pur di colmare il vuoto lasciato dalla dipartita del marito, accetterà un ‘patto con il diavolo’. Lo spunto porta con sé il tema horror del revenant, già sperimentato con successo dall’autore in Dead Set. Anche se meno originale degli altri, questo quarto episodio riesce a riproporre l’inflazionata figura dello zombi, in un crescendo sinistro che ricor-

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da il Solaris di Tarkowsky. ‘Orso Bianco’ (‘White Bear’), è incentrato su uno spaventoso gioco sadico, che ricorda una versione crudele di The Game. Insieme a ‘Torna da me’, è forse apparentemente il più vicino all’horror per scelte narrative (e anche il più debole). Tuttavia, il colpo di scena finale spazza via ogni timore che la serie scivoli verso stereotipi di genere. In ‘Vota Waldo!’ (‘The Waldo Moment’), un comico frustrato dà vita a un personaggio animato di nome Waldo, che diventa rapidamente famoso per le sue sboccate contestazioni sui politici durante i talk-show, fino a rappresentare in qualche modo i sentimenti di tutto il


Paese. E no – se ve lo steste chiedendo – l’episodio conclusivo non è ispirato a fatti realmente accaduti in Italia. Il racconto esplora con spirito del grottesco, smorzato dalla tragica realtà attuale, l’ascesa al potere del populismo incarnato dal pupazzo ‘posseduto’. E, proprio come in Orwell, l’ignoranza torna a essere forza. Brooker ha spiegato il titolo della serie in un’intervista al The Guardian, facendo notare: “Se la tecnologia è una droga – e a tutti gli effetti sembra una droga – allora quali sono i suoi effetti collaterali? Questa zona – tra piacere e sconforto – è dove Black Mirror, si colloca. Lo ‘schermo nero’ è quello che troverai su ogni muro, su ogni scrivania, nel palmo di tutte le

mani: il freddo, brillante schermo di una TV, un monitor, uno smartphone.” Sono le piccole ‘crepe’ che si possono oggi riscontrare nelle abitudini ‘tecnologiche’ quotidiane a portare il cambiamento nell’universo di Brooker: la vita sociale, lavorativa e sentimentale sempre più condizionata dall’uso degli smartphone, dallo status sui social network, dal dipendere dalla cultura dello schermo, cui pure Brooker appartiene essendone fruitore (è un grande appassionato di videogiochi) prima ancora che critico. Forse, è proprio grazie a questo atteggiamento per nulla snob che Brooker è riuscito a mostrare la parte oscura che sta oltre lo schermo, quella che sembra riflettere il peggio della natura umana.

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Cult MOVIE

Tra maledizioni

E REGISTI NASCOSTI di SEVERINO FORINI

Un irriconoscibile Tobe Hooper e un riconoscibile Steven Spielberg dietro la macchina da presa di un ‘horror’ diventato a suo modo un piccolo classico.

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OSA FARESTE se scopriste che la casa dove abitate è stata costruita su un terreno un tempo destinato a cimitero? E cosa fareste se vi dicessero che, quando ne gettarono le fondamenta, nessuno si preoccupò di trasferire i resti di coloro che vi erano seppelliti? Dormireste ancora sonni tranquilli? Non credo, visto che, come sosteneva un certo Jorge Grau a metà degli anni Settanta, “non si deve profanare il sonno dei morti”. Come dite? Sembra la trama, trita e ritrita, di un film dell’orrore? Avete ragione. È infatti la

storia che quella vecchia volpe di Steven Spielberg usò come base quando scrisse la sceneggiatura di Poltergeist - Demoniache Presenze. Il film porta la firma di Tobe Hooper, leggendario filmaker del cinema horror (un tantino sopravvalutato, a mio parere) e padre del fondamentale Non aprite quella porta (1974). Spielberg lo troviamo accreditato come sceneggiatore e produttore, ma, vedremo tra poco, più di un indizio fa ritenere che ci sia il suo zampino anche dietro la

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Scheda tecnica TITOLO:

Poltergeist (it Poltergeist Demoniache presenze)

ANNO E PAESE:

1982 USA

REGIA:

Tobe Hooper

STORIA:

Steven Spielberg

SCENEGGIATURA:

Steven Spielberg Michael Grais Mark Victor

FOTOGRAFIA:

Matthew F. Leonetti

MONTAGGIO:

Michael Kahn

MUSICHE:

Jerry Goldsmith

REPARTO SCENOGRAFICO:

James H. Spencer (scenografie) Cheryal Kearney (arredi)

PRODUTTORE:

Frank Marshall Steven Spielberg

PRODUZIONE:

Metro-Goldwyn-Mayer SLM Production Group

Cast CRAIG T. NELSON (Steve Freeling) JOBETH WILLIAMS (Diane Freeling) BEATRICE STRAIGHT (Dr. Lesh) DOMINIQUE DUNNE (Dana Freeling) HEATHER O’ROURKE (Carol Anne Freeling) OLIVER ROBINS (Robbie Freeling) ZELDA RUBINSTEIN (Tangina) JAMES KAREN (Mr. Teague) RICHARD LAWSON (Ryan)

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macchina da presa. Come regista lo conosciamo tutti; sappiamo quanto sia mainstream e completamente integrato nel circuito hollywoodiano. Qualcuno lo ha (giustamente) definito il Re Mida del cinema, visto che in quasi cinquant’anni di carriera ha trascinato al successo qualunque cosa gli sia passata tra le mani, dalla Fantascienza alla Commedia, dai film di avventura a quelli storici, dai film di guerra ai Thriller. Da un certo punto di vista potrebbe essere considerato un regi-

sta ‘né carne né pesce’, forse un po’ opportunista ma, sebbene una grossa parte del suo successo sia dovuta al massiccio uso di effetti speciali, non si può non riconoscerne lo spessore. Dicevamo che Poltergeist, per più di un motivo, sembrerebbe essere a tutti gli effetti opera sua al di là della sceneggiatura, cioè che lui sia stato una figura di primo piano nella direzione del film, sebbene i crediti di


regia siano andati a Hooper. Negli stessi giorni in cui veniva realizzato Poltergeist, Spielberg era alla prese con il suo E.T. L’Extra-Terrestre (1982), film che venne girato tra l’altro negli stessi luoghi (addirittura nella stessa strada); e tanto alto era l’interesse della Universal Pictures che quest’ultima obbligò il regista a firmare una clausola contrattuale che gli proibiva di dirigere in contemporanea altre pellicole. La leggenda allora vuole che lui sia riuscito ad aggirare il contratto con la complicità di Tobe Hooper; ma la cosa non venne mai provata, nonostante alcuni membri del cast (tra cui l’attrice Zelda

Rubinstein) ammisero in più di un’occasione che fu proprio Spielberg a dirigerli. E pensare che basterebbe guardare con attenzione il film per trovarle, le prove (ok, forse non proprio prove, ma sicuramente forti indizi); si noterà per esempio come vengono rappresentate le entità che infestano l’abitazione della famiglia Freeling, entità fatte di luce, proprio come gli alieni di Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo (1977) o come le forze ultraterrene che si scatenano nel finale de I Predatori dell’Arca Perduta (1981). Ma non è solo questo: uno dei più inequivocabili marchi di fabbrica di Spielberg si manife-

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sta verso la fine di Poltergeist, nella scena in cui la madre della piccola Carol Anne si precipita lungo un corridoio che, improvvisamente, come in un sogno, appare allungarsi. Si tratta di una tecnica di ripresa che gli addetti ai lavori chiamano ‘Effetto Vertigo’, dal titolo originale del film di Hitchcock in cui apparve per la prima volta (La Donna che Visse Due Volte, 1958).

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Oggi sono diversi i registi che si divertono ad applicare l’Effetto Vertigo, ma trent’anni fa solo un paio di grandi potevano vantarne l’utilizzo nei propri film: uno era appunto Alfred Hitchcock, che lo usò anche in Psycho (1960) e in Marnie (1964), l’altro era, guarda caso, proprio Steven Spielberg! Anche se non è semplice riconoscerla, la scena del corridoio


di Poltergeist è infatti identica a una delle più celebri inquadrature de Lo Squalo (1972), quella dell’espressione sconcertata di Roy Scheider durante il primo attacco. In entrambe le scene il regista effettua simultaneamente una zoomata all’indietro e uno spostamento in avanti del carrello, provocando nello spettatore un senso di vertigine (l’Effetto Vertigo, appunto).

Oggi, le nuove tecnologie rendono l’effetto molto più semplice da realizzare, ma trent’anni fa c’era il problema di gestire manualmente la messa a fuoco, per cui l’operatore si trovava nella condizione di dover compiere tre operazioni contemporaneamente. Poltergeist narra la storia della famiglia Freeling, composta da Steve (Craig T. Nelson) e Diane (JoBeth Williams), con i loro

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tre figli Dana, Robbie e la piccola Carol Anne. Una famiglia come tante altre, la cui serenità inizierà a vacillare quando Carol Anne verrà sorpresa a fissare il televisore acceso ma sintonizzato sul nulla, quasi come se stesse comunicando, attraverso lo schermo, con un’entità invisibile. Una delle frasi che la piccola pronuncerà in quel frangente è divenuta oggi un pezzo di storia del cinema: “They’re here” (sono arrivati!). Lo strano episodio non rimarrà l’unico: come è notoriamente tipico nelle manifestazioni di poltergeist, diversi oggetti verranno visti spostarsi da soli attraverso gli ambienti. Inizialmente i Freeling appariranno incuriositi, se non

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divertiti, dalle prime inspiegabili manifestazioni cinetiche; ma il loro atteggiamento naufragherà ben presto nel terrore, la notte in cui Carol Anne scomparirà senza lasciare traccia. Anzi una traccia in realtà la si troverà: la voce della piccola, quasi impercettibile, si farà udire, proveniente dal televisore, in una scena da brividi. Come accennato in apertura di articolo, l’elemento scatenante dei fenomeni si scoprirà essere il luogo stesso dove fu costruita la casa: un ex cimitero dal cui terreno, per questioni di budget, l’impresa costruttrice traslocò le lapidi ma non i cadaveri. Steven Spielberg si ispirò all’analoga storia del sinistro Cheesman

Park, il parco cittadino di Denver, sorto su un’area che durante la seconda metà del XIX Secolo era stata destinata alle sepolture. Il cimitero venne chiuso nel 1890, e la ditta che alcuni anni più tardi fu assunta per trasferire i resti non reclamati dai parenti (circa 5.000 salme, plausibilmente di vagabondi, criminali, poveri…) speculò sui costi e fece un lavoro approssimativo. Tant’è che ancora oggi sono in corso bonifiche a causa di ciò che emerge dal terreno quando si tenta di scavare le fondamenta per nuove strutture del parco. Si dice che ancora migliaia di cadaveri riposino pochi metri sotto le aiuole dove i cittadini di Denver trascorrono serenamente le loro domeniche; e che, come è

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prevedibile in casi come questo, decine di testimoni sarebbero pronti a giurare di aver avvistato le anime senza pace di quei disgraziati aggirarsi nelle notti senza luna. Non si deve profanare il sonno dei morti, abbiamo detto. Spielberg invece lo fece e, anche lui per questioni di budget, decise di utilizzare dei veri scheletri per girare lo shot finale. È per questo che Poltergeist è passato alla storia con la nomea di ‘film maledetto’, a cui vengono attribuite alcune scomparse premature. Poco dopo il termine delle riprese, per esempio, la cattiva sorte toccò l’attrice Dominique Dunne (sorella di Carol Anne nella finzione cinematografica), che venne strangolata a 22 anni dall’ex fidanzato. L’attore Julian Beck morì durante le riprese del sequel (Poltergeist II - L’Altra Dimensione,

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1986), di cancro allo stomaco – malattia di cui però soffriva già da qualche anno. Ma l’avvenimento tragicamente clou fu senza dubbio la fine della piccola Carol Anne (al secolo Heather O’Rourke) che morì all’età di 12 anni poco prima dell’ultimo ciak del terzo capitolo (Poltergeist III - Ci risiamo, 1988). L’aspetto inquietante è legato a un poster che, nel primo film, faceva bella mostra di sé nella cameretta della bambina: era un manifesto fake di una finale di football americano (il Superbowl XXII) che si sarebbe giocata a San Diego solo quattro anni più tardi. Heather O’Rourke morì di stenosi intestinale proprio a San Diego, poche ore dopo la fine di quella partita.


Un giudizio sul film? Poltergeist appartiene alla sua epoca e, nel bene e nel male, ne contiene tutti gli stereotipi. Gli anni in cui venne girato erano quelli in cui il ‘celodurismo’ made in USA aveva raggiunto il suo apice estremo: gli ideali erano rappresentati dalla famiglia media che, tra una colazione a base di burro d’arachidi e uova strapazzate, non disdegnava di sconfiggere il male. Il padre, nel momento del bisogno, tirava dentro la panzetta e buttava in fuori una buona dose di testosterone americano, trovando anche il tempo per prendere coscienza da un libro come Reagan, the Man, the President. La madre era anche meglio: era lei ad occuparsi dei suoi cuccioli, lottando

per difenderli come una tigre ferita. Poltergeist è un film che oggi ha senso guardare solo per ‘vedere come eravamo’ e inorridire. Non è un film horror. Non più. Solo qualche sobbalzo ben dosato e decisamente telefonato. Forse horror lo era un tempo, quando non eravamo ancora fissati con il torture e con il body count. In Poltergeist l’unica vittima è un canarino: tutti gli altri vissero felici e contenti. Non va infine dimenticato che trattasi di un film spielberghiano, e, come tale, deve risultare… come dire… confortante. Nessuno è veramente in pericolo in un film di Spielberg. Tutto è finto e confezionato su misura per il pubblico al quale è rivolto. E il lieto fine è immancabile.

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cinema ASIAN

VENDETTA delle

La

DONNE-GATTO di SEVERINO FORINI

Amore, violenza e atmosfere cupe e in una ghost story narrata con eleganza tutta nipponica.

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’IMMAGINARIO nipponico è pervaso di mostri; dagli youkai, o bakemono, ai più moderni Gamera o Gojira (Godzilla), dai classici oni e demoni ad animali mostruosi come lo ushi-oni (tanto per non citare il solito bakeneko), dagli esseri umani deformi (noppera-bou, futa-kuchi-onna…) agli oggetti animati (bake-zouri, kasa-obake ecc.) ai fenomeni meteorologici. Molti (me-kurabe, yobuko…) derivano dalla religione primigenia della regione, che confluì nello shintoismo, mentre altri (come kirin e shoujou…) furono importati dal continente in commistioni e varietà

che lasciano stupefatti. E così, è naturale che anche l’arte nipponica sia pervasa di mostri. Se anticamente a rappresentarli c’erano le opere di Toriyama Sekien e Sei Shounagon o i dipinti di Hokusai, più recentemente sono stati i manga e gli anime a rivisitarli in chiave moderna. Tra le rappresentazioni più ‘colte’ possiamo annoverare anche e soprattutto pellicole d’autore come Onibaba - Le assassine e Kuroneko, entrambe a firma del maestro Kaneto Shindo, scomparso nel 2012 alla veneranda età di cent’anni.

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Scheda tecnica TITOLO:

Yabu no Naka no Kuroneko (int Kuroneko)

ANNO E PAESE:

1968 Giappone

REGIA:

Kaneto Shindo

STORIA:

Kaneto Shindo

FOTOGRAFIA:

Norimichi Igawa Kiyomi Kurodai MONTAGGIO:

Hisao Enoki MUSICHE:

Hikaru Hayashi

REPARTO SCENOGRAFICO:

Takashi Marumo (architetto-scenografo) Toshiharu Takazu (arredi) COSTUMI:

Yoshio Ueno (ricercatore)

PRODUTTORE:

Nobuyo Horiba Kazuo Kuwahara Setsuo Noto

PRODUZIONE:

Toho Company

Cast KIWAKO TAICHI (Shige) NOBUKO OTOWA (Yone) KICHIEMON NAKAMURA (Gintoki) KEI SATO (Raiko) ROKKO TOURA (Samurai) HIDEO KANZE (Mikado) TAIJI TONOYAMA (Contadino)

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Kuroneko (Yabu no Naka no Kuroneko, 1968) è una storia di fantasmi che s’ispira vagamente a una famosa leggenda popolare chiamata ‘La Vendetta del Gatto’, mettendo però l’accento sui concetti di fato e karma. Il racconto, molto semplice, è ambientato durante il Medioevo giapponese. Questi elementi, insieme all’uso di uno splendido bianco e nero e di una colonna sonora originale e sperimentale, e al fatto che i personaggi principali siano due donne

e un uomo, accomunano il film al succitato Onibaba. Se una differenza si può trovare, trama a parte, è forse nel tocco più ‘espressionista’ e sovrannaturale di Kuroneko laddove Onibaba è più legato a tematiche sociali all’avanguardia (comunque presenti in entrambi i film), e nell’ambientazione claustrofobica del primo in contrasto con gli spazi aperti del secondo; anche in Kuroneko, comunque, la natura contribuisce non poco all’atmosfera oscura del racconto.


Yone e sua nuora Shige vivono sole al limitare del bosco, nella campagna di Kyoto, da quando Gintoki, il marito di Shige, è partito per la guerra. Un giorno alcuni soldati di passaggio si introducono in casa loro per razziare del cibo, le stuprano brutalmente e, prima di andarsene, incendiano tutto. Arse vive mentre sono prive di sensi – memorabile la scena in cui il gatto nero di casa, rimasto solo, lecca le ferite sui loro corpi ormai senza vita –, le due donne stringono un patto con una divinità malvagia e si trasformano in ‘kuroneko’, spiriti vendicativi con l’aspetto e le abilità di un felino (kuroneko è la contrazione di kuroi e neko e si può tradurre come gatto nero). Dal tramon-

to all’alba le due donne possono tornare sulla terra sotto forma di fantasmi, con l’aspetto di donne nobili (anziché popolane come furono in vita), a patto che uccidano tutti i samurai di passaggio e si nutrano del loro sangue. Da quel momento, ogni notte, nei pressi della porta Rajomon, la bella Shige, pallida e spettrale in un lungo kimono bianco, attende i samurai al varco e, con il pretesto di farsi scortare per un tratto di strada molto pericoloso, un bosco di bambù frequentato da banditi e vagabondi, li conduce fino a casa, da dove nessuno di quegli uomini riesce mai a uscire vivo. Poiché tutto fa pensare all’opera di uno spirito, il governatore decide di mandare un suo uomo a ucciderlo, un eroe appena tornato dalla guerra. Ed ecco che il destino si compie: quest’uomo, ribattezzato Yabu no Gin-

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toki, è proprio il marito di Shige nonché figlio di Yone. La missione, dunque, si rivela nient’affatto semplice, e assume i toni del dramma. Non si può negare che gran parte del fascino di Kuroneko derivi dalle sue atmosfere notturne, sepolcrali. Dopo la scioccante (anche se solo accennata) scena di violenza all’inizio del film, il mood si fa onirico e rarefatto (soprattutto quando (ri)esplode la passione romantica tra marito e moglie), così come del resto si confà a un film di fantasmi. Se l’opera precorre di qualche decennio le tematiche di più recenti pellicole di genere, lo fa in maniera sottile, suggerendo piuttosto che mostrando, e con atmosfere del tutto diverse: dialoghi, recitazione, costumi e ambientazione, tutto contribuisce a conferire un’eleganza senza tempo mutuata

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dal teatro classico giapponese. Il film funziona proprio a questo livello: senza cercare di risultare realistico, il regista si preoccupa solo di colpire l’immaginazione. Per apprezzare appieno tutto questo bisogna tenere bene a mente sì il contesto storico in cui si svolge la vicenda narrata, ma anche la mentalità giapponese; non ci si stupisca quindi del senso di irrealtà generato da alcuni dialoghi, né dal ritmo piuttosto lento e ripetitivo di alcune scene. Per il Giapponese c’è bellezza nella contemplazione: è questo il senso di riti, anche quotidiani, approcciati con precise regole formali, come la famosa cerimonia del tè. Degrado spirituale, sofferenza, pietà e


orrore, amore e dovere, fedeltà e voglia di rivalsa: tutto questo trova ampio spazio all’interno di Kuroneko. Lo sguardo di Shindo è però fondamentalmente pessimista. Il fulcro è il conflitto interiore irrisolvibile che avviluppa i tre protagonisti; mentre Gintoki, nato povero e catapultato quasi per caso nel dorato mondo dei samurai, per mantenere la sua posizione sociale e la sua onorabilità deve uccidere le due persone che ama di più al mondo, le due donne a loro volta devono contrastarlo per sopravvivere, senza oltretutto potergli rivelare il motivo che le spinge a compiere quegli orrori. La moglie, il personaggio di gran lunga migliore, decide di rompere la spirale di violenza e per que-

sto paga un prezzo altissimo. È inevitabile quindi che la lotta si articoli soprattutto tra Gintoki e sua madre, colei che gli ha prima dato la vita e poi è condannata a togliergliela. Una velata critica ai rapporti filiali nella tipica famiglia giapponese, rigidamente sorretti più da una peculiare forma di pietas che non, banalmente, dall’amore? Forse no, ma mi piace pensarlo. Prima di tutto, però, viene il tema della vendetta così caro a tanta cinematografia giapponese; vendetta che non è solo quella delle donne che subiscono angherie dagli uomini, ma anche quella delle popolazioni che devono sopportare la guerra e le sue devastazioni, e soprat-

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tutto quella delle classi sociali più deboli vessate dai nobili e dai samurai in cambio della loro ‘protezione’ (realtà magistralmente simboleggiata dalle vittime di Shige che, sotto la patina del samurai onorevole, una volta ubriachi svelano una natura meschina, cinica e violenta). Per questo la scelta del gatto (spesso randagio o mal sopportato dall’uomo) come metafora è quanto mai azzeccata. Intervistato in proposito, Shindo affermò: “I liked the idea of using the cat because I could thus express the very low position in society which certain people occupy by using so useless and low an animal as the cat”. E pensare che presso molte culture antiche i gatti venivano idolatrati; nell’antico Egitto questa venerazione giungeva a tal punto che, alla loro morte, le loro spoglie

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venivano addirittura mummificate e poi seppellite in appositi cimiteri. Fa effetto pensare che nel tempo questo animale sia universalmente diventato oggetto di superstizione. Dall’Europa all’America, all’Asia, non c’è praticamente Paese che non abbia una leggenda riguardante i gatti, preferibilmente neri. Il gatto è animale indipendente e fiero, con il dono di poter andare e venire senza preavviso, quasi scomparendo. Capacità invidiabili, certo, e per questo tanto più sospette e temute. Da qui a considerarle doti luciferine il passo fu breve: l’isteria di massa nata con la caccia alle streghe, dapprima in Inghilterra e poi nel resto d’Europa con l’Inquisizione, e poi in America con la fa-


migerata vicenda delle streghe di Salem, fece identificare i gatti, soprattutto se neri, con le streghe, per via della supposta capacità di quest’ultime di assumere forma felina durante la notte. Nella migliore delle ipotesi i gatti divennero simboli di falsità e forieri di sventura, nella peggiore compagni del Demonio, da cui ottenevano poteri occulti. Per fortuna, i gatti hanno sette vite (da noi, altrove anche nove) e sono sopravvissuti al (reiterato) tentativo di sterminio. Bisogna comunque dire, per dovere di cronaca, che non tutte le superstizioni sui gatti ne danno un’immagine così negativa. Anche in Giappone il gatto è un tema po-

polare ricorrente. I Giapponesi preferiscono il loro gatto nativo (il bobtail, dalla caratteristica coda corta) perché lo ritengono meno propenso a stregare gli esseri umani, mentre sulle navi giapponesi i marinai ospitano gatti tricolore perché pensano che portino fortuna. In generale, in Giappone avere un gatto a bordo attira la buona sorte, e nessuno si sognerebbe mai di gettare un gatto a mare perché si crede che ciò provocherebbe una tempesta. A questa particolare superstizione si deve la diffusione, tanto nelle case quanto negli esercizi commerciali, di quelle graziosissime statuine in porcellana o ceramica chiamate maneki neko o ‘gatti della fortuna’.

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Anime TV

Le alterne sfortune

DEL ROBOT

RIBELLE

di JACOPO MISTÈ

Ambizioni e difetti di un eroe poco convenzionale che provò a farsi spazio tra i colossi di celluloide targati Toei e Sunrise.

È

DAVVERO GRADITO riscoprire Baldios - Il Guerriero dello Spazio (Uchuu Senshi Baldios), anime d’annata (classe 1980) di tradizionalissimo impianto super robotico, per nulla brillante dal punto di vista tecnico ma con pregi che nel tempo gli hanno fatto conquistare una bella popolarità, malgrado il devastante flop della prima messa in onda giapponese sulla rete Family Gekijou. Il suo destino è stato quello tante volte toccato ai titoli troppo all’avanguardia rispetto al loro tempo: 39 episodi inizial-

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mente previsti, solo 34 realizzati e serie prematuramente sospesa al 32° (dopo aver saltato il 31), causa l’insostenibile concorrenza televisiva con altri cartoni e le pessime vendite dei giocattoli. Un peccato mortale perché, sia pure con carenze oggettive, Baldios ha dalla sua tutto un carico di innovazioni importanti per l’epoca, che superano abbondantemente i difetti rendendolo, soprattutto oggi, una visione appetitosa per gli appassionati del genere robotico. La storia è quella di Marin Reigan, abi-


tante del pianeta S-1, figlio del geniale scienziato che ha appena inventato una macchina in grado di ripulire quel mondo da tutte le radiazioni che lo stanno lentamente uccidendo. Purtroppo ben altri progetti covano nella fazione militare Aldebaran, comandata dal crudele Zeo Gattler, il quale, preso il potere con un colpo di stato, distrugge l’invenzione nel convincimento che la sola speranza di salvezza per la propria civiltà sia abbandonare S-1 alla volta di qualche altro pianeta abitabile, se necessario conqui-

standolo (e il pianeta in questione sarà la Terra). Perso il padre, ucciso dai militari, Marin fugge da S-1 con un’astronave e finisce in un varco spazio-dimensionale che lo catapulta sulla Terra del XXII Secolo. Qui deciderà di unirsi all’organizzazione militare dei Blue Fixer, alla guida del potentissimo robottone Baldios, all’indomani dello scoppio del conflitto fra la Terra e Aldebaran. Pur con il classico schema dell’invasore extraterrestre, Baldios surclassa gli ste-

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reotipi presentandosi in modo più originale, sfruttando l’abusato incipit come pretesto per avanzare alla politica e al militarismo una critica tra le più forti e memorabili di ogni tempo, molto più che nel Gundam (Kidou Senshi Gundam) di Yoshiyuki Tomino dell’anno precedente (a cui non deve proprio nulla, considerando il flop in cui incappò anche il celebre mobile suit bianco) e di pari livello

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espressivo a quanto proposto in Densetsu kyojin Ideon (inedito in Italia), sempre di Tomino, la cui trasmissione inizia un mese prima. La consueta ‘Fortezza delle Scienze’ nascosta al mondo, in cui risiedono Baldios e gli eroici Blue Fixer, non è mai stata così dipendente dai diktat del governo: la Federazione Mondiale, retta da politici e burocrati incapaci, fa di tutto per metterla in seria difficoltà, stringendo accordi (puntualmente traditi) con gli invasori, dubitando della caratura del team e della fedeltà di Marin, impartendo ordini assurdi che avranno drammatiche ripercussioni sul destino della guerra e del pianeta. La serie, ben poco infantile nonostante il target, mostra episodio dopo episodio l’ottusità delle decisioni


‘altolocate’ prese da chi non combatte in prima linea, e la spietatezza dei militari, in grado di condurre a un annientamento indiscriminato e autolesionista, tra quotidiane stragi, familiari in pericolo che non possono essere salvati in quanto ‘bisogna scindere i problemi personali dal lavoro’, radiazioni che avvelenano la Terra, masse di civili che muoiono di fame, soldati mandati a morire in battaglia come scarti, interi popoli messi in ibernazione per limitarne i consumi e lo spazio occupato nelle astronavi… Le conseguenze di tutti questi errori saranno spaventose e apocalittiche, rafforzando i moniti antimilitaristi, antirazzisti ed ecologisti che questa serie propone e che lasciano il segno. Come anticipato poc’anzi, si parla di un’opera immancabilmente troppo moderna

per l’epoca di trasmissione, tanto focalizzata sul suo cupo melodramma e sui suoi tragici attori da ridurre al minimo sindacale – ed è questo quello che probabilmente non è stato perdonato dagli spettatori – il contorno di azione robotica. L’eroico Baldios in effetti appare pochissimo nel corso della serie: in quasi ogni

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episodio risulta addirittura più lunga la classica sequenza di ‘agganciamento’ che non la battaglia vera e propria, dove il nostro paladino distrugge con disarmante facilità i nemici di Aldebaran – quasi sempre semplici astronavi/carne da macello, raramente bestioni più evoluti. Si parla di due, tre minuti a puntata, ma ce ne sono svariate in cui il gigante d’acciaio neppure compare. Baldios è insomma la prima serie robotica in cui viene dato pochissimo spazio al robottone che le dà il titolo, come se non contasse quasi nien-

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te, e questo è indicativo di come lo staff della Ashi Productions pensasse a qualcosa focalizzato su tutt’altro, in primis su storia e personaggi (e dove la maggior parte dell’azione è riservata alle sortite di infiltrazione dei Blue Fixer nelle basi di Aldebaran). Drammi e melodrammi sono i protagonisti assoluti e ricorrenti, che stupiscono in misura via via crescente per crudeltà, cattiveria e ingegno – l’avventura narrata negli episodi 20 e 21 molto probabilmente dev’essere stata vista da un certo Hideo Kojima – fino a raggiunge-


re l’apice con le famose tre puntate finali, emotivamente fortissime e dotate di un twist spiazzante, impossibili da anticipare ma la cui forza espressiva è stata raramente uguagliata. Per tutti questi motivi Baldios merita di essere ricordato, pur dovendo scontare varie pecche che gli impediscono di assurgere al rango di capolavoro dell’animazione. La più eclatante è il modo in cui la serie crolla su se stessa quando, per dare risalto ai suoi moniti, fa compiere ai ‘bersagli’ della sua critica azioni di una stupidità senza fine,

così fuori dalla realtà (qualsiasi essa sia) da sconfinare nel ridicolo involontario. Si tratta di ingenuità pienamente figlie del loro tempo, ma che risaltano maggiormente nell’ottica di un’opera che in quel momento intendeva proporsi come estremamente ‘diversa’ rispetto alle altre robotiche, improntando a un forte realismo tutte le sue ambizioni. Trattare politici e militari generalizzandoli come autentici minorati mentali ridimensiona molto queste pretese; fortunatamente il calo di credibilità si limita a 3 o 4 puntate (principalmente la 15). Altro difetto evidente è la pochezza della confezione: pur potendo fregiarsi di un budget tutto sommato non proibitivo, la Ashi Productions lo sperpera in animazioni dalla qualità spesso dilettantesca; e imbarazzante è anche la piatta direzione del regista Kazuyuki Hirokawa, incapace di rendere spettacolari le sequenze action/roboti-

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che. Di miglior resa gli attraenti disegni di Osamu Kamijou, addirittura anticipatori di certi splendori cromatici di Choujikuu Yousai Macross (serie del 1982 trasmessa in Italia come prima parte della saga Robotech), sebbene talvolta impacciati da approssimazioni e sproporzioni varie. Abbastanza terribile invece il mecha design: escluso il bel Baldios, tutti i mezzi sono di un anonimato fastidioso, in parti-

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colar modo le atroci, comunissime ‘navicelle’ di Aldebaran dalla forma di girino. I personaggi, infine, pur tragici e complessivamente ben caratterizzati, sono comunque privi della profondità necessaria a renderli davvero indimenticabili, anche se è indubbio che il problema risulti amplificato dal doppiaggio italiano. A prescindere dai difetti, Baldios è riuscito comunque a ritagliarsi la sua fetta di notorietà (ben testimoniata dalle svariate apparizioni in Super Robot Wars), giustamente riabilitato nel tempo. Il finale, lasciato purtroppo aperto per colpa delle vicissitudini produttive, troverà completezza definitiva nel lungometraggio omonimo che esce l’anno successivo con i soldi della Toei Animation: peccato che, pur rivelandosi un degno lavoro, per arrivare


dove arriva sentirà il bisogno di rinnegare alcuni fatti importanti della serie TV. Nonostante questo, un must see. Per quel che riguarda la reperibilità, bisogna rassegnarsi a guardare Baldios con le voci dell’adattamento storico italiano, realizzato nel 1982 da reti private, questo perché la sua unica versione edita consiste nei DVD Yamato Video sprovvisti – come quasi sempre, del resto – di

sottotitoli fedeli. Nonostante le solite frasi inventate dal direttore del doppiaggio, bisogna comunque riconoscere che il lavoro è meno peggio di altri del periodo: mantiene almeno inalterati quasi tutti i nomi originali di personaggi, armi e tecnologie (cambiano solo il professor Takeshi Tsukikage, ribattezzato Jonathan Bannister, e la Federazione Mondiale che diventa Unione Mondiale), e, pur in modo approssimato, lascia capire il senso dei dialoghi e delle puntate; certo, resta un impedimento alla piena empatia coi protagonisti, ma in assenza di meglio (neanche l’ombra di un fansub in lingua inglese) ci si può accontentare, magari impostando la lingua giapponese per potersi godere quantomeno le belle sigle originali.

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Short TIME

La piccola

CACCIATRICE

FULMINI

di

di CUCCU’SSETTE

Una breve passeggiata alla scoperta di questo delizioso cortometraggio d’animazione francese, realizzato con tocco garbato e molto buon gusto.

W

IND MILLS è un cortometraggio di animazione ambientato in un futuro prossimo, realizzato in tecnica mista da cinque studenti francesi: Guillaume Bergère, Guillaume Coudert, Maria Glinyanova, Bruno Guerra, Charlotte Jammet. È distribuito in streaming in lingua originale e privo di sottotitoli, ma lo spettatore non si lasci scoraggiare: le immagini parlano da sole. La storia ci narra di un mondo morente. Le città sono ridotte a macerie, il cielo è plumbeo e l’aria è percorsa da lampi simi-

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li a spettri. Una ragazzina vive con il padre inventore in quello che sembra essere il Big Ben di Londra, trasformato in un mulino a vento al cui interno è ospitato un bizzarro macchinario volante, alimentato da bolle di vetro in cui vengono racchiusi i lampi. Mentre il padre, inconsolabile dopo la perdita della moglie, è consumato dal dolore, la figlia trascorre le giornate in cerca di lampi da catturare per mezzo di una sorta di aspiratore meccanico integrato nel mulino a vento.


Quando un giorno la pioggia che cade incessante rompe ogni argine e spazza via i resti della metropoli, il padre si rassegna al suo destino, deciso a lasciarsi annegare. Ma la tenacia della sua bambina, che rifiuta di abbandonarlo e per poco non annega pur di restargli accanto, induce l’uomo a riprendere coraggio. Insieme, i due decolleranno con la macchina volante verso la vetta di una verde montagna illuminata dal sole. Wind Mills riesce a raccontare una delicata storia di speranza, senza cedere alla retorica. Il tratto di questo piccolo cartoon è tipicamente europeo, per certi versi ricorda quello dell’animazione slava, contaminato con qualche influenza nipponica, almeno per l’aspetto della piccola protagonista. I colori tetri dei fondali si alternano alle scene più luminose, quelle

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che riguardano la straordinaria macchina, la bambina o l’epilogo. L’ambientazione apocalittica è adatta agli adulti, tanto è cupa; nonostante i teneri occhioni verdi della protagonista, i suoi ciuffetti di capelli rossi e le vesti da folletto gothic, c’è ben poco di puerile o adolescenziale nella sua avventura. I fulmini che la piccola ingabbia in lucide bolle di cristallo e che alimentano il motore della macchina volante ricordano le anime che salgono sul monte Calvo nel

penultimo episodio di Fantasia. Il sole stesso, che la bambina cerca invano nel cielo, assume i contorni di un elemento fantastico: lo troviamo rappresentato sul medaglione che indossa la protagonista, e splende nel finale, davanti agli occhi incantati della ragazzina e del padre in volo verso la speranza. Maturo è il montaggio delle sequenze, sempre accompagnate da un’ottima colonna sonora. In poco più di 7 minuti, Wind Mills mostra tutto ciò che Waterworld non ha saputo dire in tre ore di proiezione.

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Sigle MANIA

BALDIOS

il guerriero dello spazio

Sigla italiana (1981)

Baldios

Interprete: IL CORO DI BALDIOS Testo: ANDREA LO VECCHIO Musica e arrangiamento: MIRIAM CASALI, GIUSEPPE DAMELE, FRANCESCO DELFINO Per noi che siamo giovani e crediamo negli eroi, per chi ama l’avventura e sogna che non finisca mai Per chi crede nel bene alla fine vincerà, un nuovo campione a cui volere bene ora c’è Baldios Robot, Baldios Robot Baldios Robot, Baldios Robot Baldios l’invincibile lo seguiremo finché ci sarà Baldios l’indistruttibile per il bene dell’umanità Baldios Robot, Baldios Robot Baldios Robot, Baldios Robot

Baldios Robot, Baldios Robot Baldios Robot, Baldios Robot Baldios l’invincibile Baldios indistruttibile Baldios intergalattico baluardo della civiltà Baldios l’invincibile lo seguiremo finché ci sarà Baldios l’indistruttibile per il bene dell’umanità

SIGLA ITALIANA

MEETING MUSIC, RMCN 119 Lato A: Baldios Lato B: Marine

Baldios Robot, Baldios Robot Baldios Robot, Baldios Robot Baldios l’invincibile lo seguiremo finché ci sarà Baldios l’indistruttibile per il bene dell’umanità

Baldios Robot, Baldios Robot Per chi ama giocare ma usando tanta fantasia, Baldios Robot, Baldios Robot per chi pensa che un mondo Baldios l’invincibile nello spazio ci sarà lo seguiremo finché ci sarà Baldios l’indistruttibile Per chi non vuol restare per il bene dell’umanità sempre e solo qua, un nuovo campione a cui volere bene ora c’è

SIGLA GIAPPONESE

KING RECORDS, GK(H)-7504 Lato A: Ashita ni ikiro Baldios Lato B: Marin, inochi no tabi

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Sigla originale di apertura (1980)

Ashita ni ikiro Baldios

Interprete: KOUICHI ISE Testo: KOUGO HOTOMI Musica e arrangiamento: KENTAROU HANEDA

Yasashii kaze ga atsumatte sora no Buruu ni narun desu

I venti leggeri si riuniscono, il cielo si tinge di blu

Hageshii nami ga kasanatte umi no Buruu ni narun desu

Le onde potenti si riuniscono, il mare si tinge di blu

Bokura no inochi mo mienai keredo chikyuu wo mamoru inori de michireba

Se viviamo pregando per proteggere la Terra, anche se non riusciamo a vederlo

chichi haha minna ga akogarete kita kibou no Buruu ga yomigaeru deshouu

rinascerà l’azzurro della speranza che mamma, papà e tutti aspettavano

Buruu Buruu Buruu Fikusaa Ashita wo sukue Barudiosu

Blue Blue, Blue Fixer Salva il domani Baldios

Kirameku hikari ga tokeatte yama no Buruu ni narun desu

Si uniscono luci brillanti, si tinge di blu la montagna

Tsumetai shizuku ga yorisotte tani no Buruu ni narun desu

Si uniscono gocce fredde, si tinge di blu la valle

Bokura no kokoro mo mienai keredo aishite ikiru chikai de michireba

Se nei nostri cuori giuriamo di vivere con amore, anche se non possiamo vederlo

dokoka ni nakushita omoide no iro chikyuu no buruu ga yomigaeru deshou

il colore dei ricordi perso da qualche parte farà rivivere il blu della Terra

Buruu Buruu Buruu Fikusaa Ashita ni idome Barudiosu

Blue Blue, Blue Fixer Sfida il domain Baldios

Buruu Buruu Buruu Fikusaa Ashita wo sukue Barudiosu

Blue, Blue, Blue Fixer Salva il domani Baldios

Traduzione Istituto Il Mulino: www.translation-service.it 81


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Sigla originale di chiusura (1980)

Marin inochi no tabi

Interprete: KOUICHI ISE Testo: KOUGO HOTOMI Musica e arrangiamento: KENTAROU HANEDA

Hi ga kageru mata hitotsu yume ga shinu...

Il sole tramonta, un altro sogno muore

Sore demo yuku no ka MARIN Sore demo yuku no sa MARIN

Te ne andrai via, Marin? Te ne andrai via, Marin

Dareka no inochi no hanabira ga kaze ni furuete iru kagiri

Finché i petali della vita verranno soffiati dal vento,

nikushimi no sabaku wo norikoete ai no OASIS sagasu no sa

attraverserai il deserto dell’odio per cercare l’oasi dell’amore

Damatte yuku no ka MARIN Damatte yuku no sa MARIN otoko dakara...

Te ne andrai in silenzio, Marin? Te ne andrai in silenzio, Marin, perché sei un uomo

Chi ga sawagu mata hitotsu hoshi ga chiru...

Ti viene un brivido, un’altra stella muore

Hatenaku yuku no ka MARIN Hatenaku yuku no sa MARIN

Te ne andrai per sempre, Marin? Te ne andrai per sempre, Marin

Dokoka de midori no wakai ha ga asa wo shijite (shinjite) iru kagiri

Finché in qualche luogo le verdi foglie crederanno nel mattino

kurushimi no unabara norikoete ai no kojima wo sagasu no sa

attraverserai il mare del dolore per cercare l’isola dell’amore

Waratte yuku no ka MARIN Waratte yuku no sa MARIN otoko dakara...

Te ne andai sorridendo, Marin? Te ne andrai sorridendo, Marin, perché sei un uomo

Traduzione Istituto Il Mulino: www.translation-service.it 83


Comics TIME

La leggenda del

PRINCIPE

INDIANO

di ORLANDO FURIOSO

Abhishek Singh narra gli episodi più importanti della storia di Krishna in un romanzo a fumetti dalle atmosfere fiabesche, ricche di colori e suggestioni.

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IN DALL’ADOLESCENZA sono fortemente appassionato di cultura Indiana antica (induismo in particolare). Il mio primo contatto con l’India furono delle illustrazioni molto kitsch, ma incredibilmente suggestive a corredo iconografico di una magnifica edizione della Bhagavad Gita (‘Il Canto del Beato’) edita dal gruppo religioso noto come ‘Hare Krishna’. (Questo al di là di ciò che pensò la mia professoressa di grammatica hindi qualche anno più tardi, ossia che il mio primo contatto con l’India antica fosse

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avvenuto in una delle mie precedenti vite, nella quale sarei stato, senza dubbio, un Indiano di religione hindu.) Essendo di mio interesse tutto ciò che riguarda l’India e le sue religioni, fu con grande palpitazione che accolsi la notizia che ‘Krishna’ sarebbe stato tradotto in italiano da BAO Publishing. Abhishek Singh non è completamente sconosciuto in Italia perché è stato il disegnatore di Ramayan 3392 AD, il cui primo volume fu pubblicato da Panini nel 2007 (gli altri sono tutt’ora inediti in Italia).


KRISHNA UN VIAGGIO INTERIORE

(Krishna - A Journey Within, 2012) l’edizione italiana è stata pubblicata da BAO Publishing 300 pagine ISBN-13: 9788865431610

Per chi ancora non conoscesse questo bravissimo disegnatore, Krishna - Un viaggio interiore è un’ottima occasione per approcciarsi al suo lavoro: le sue splendide tavole offrono una soddisfazione che ripaga di gran lunga la spesa. Il volume si presenta con un formato particolare (è quasi quadrato), la carta è spessa e di qualità, la resa grafica ottima; all’interno non ci sono ‘tempi morti’, niente riempitivi o passaggi affrettati, non esiste alcun punto o momento in cui la bellezza si affievolisca, ogni tavola e ogni vignetta sono gioielli che colpiscono occhi, mente e cuore; se proprio devo – ma non dovrei – esprimere un ‘desiderio nerd’, direi che avrei preferito un cartonato, tanto è di pregio questo volume. Singh, ottimo disegnatore ‘tradizionale’, confeziona l’opera con amplissimo uso del digitale: ma non si tratta di un digitale freddo e artificiale, tant’è che dalle tavole traspaiono le matite, inchiostrate

e colorate digitalmente sfruttando in modo sublime le opportunità offerte dal computer. Non si tratta di una colorazione pittorica, quanto piuttosto grafica: ci sono ombre nette e pulite che rendono il disegno facile alla lettura. Non mancano le prospettive aeree. Le tavole traboccano di personaggi con fattezze tra il divino e il ‘geneticamente modificato’, quasi un perfetto mix tra la cultura – e soprattutto l’iconografia – tradizionale indiana e un approccio moderno, che nulla toglie al valore spirituale dell’opera, sia sotteso sia dichiara-

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to dall’autore. In certe situazioni (nelle battaglie ad esempio) i personaggi, umani, animali o divini, diventano grotteschi, con effetti che ne accentuano la drammaticità. Molte tavole, sebbene ricche, paiono realizzate quasi di getto: sontuosi palazzi tratteggiati con pochi tocchi, macchie di colore che diventano stupende ghirlande… La sensazione grafica più presente resta comunque quella della ricchezza delle tavole: colori, ghirlande, bandiere, palazzi, paesaggi… tutto è come fosse delineato velocemente eppure l’impatto è fortissimo e, di nuovo, ricchissimo di det-

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tagli. Una sorta di ‘impressionismo grafico’, se così si può dire. Tutto il lavoro di Singh sostiene un’intensa drammaticità, che si eleva su vette altissime sia nella gioia che nel dolore, in un’atmosfera che non è di questo mondo ma appartiene al linguaggio universale delle leggende senza tempo. La storia è quella di Krishna, personaggio che assume contorni diversi a seconda degli occhi che lo guardano: mito leggendario per un laico, avatar di Vishnu per un hindu, dio supremo per un devoto krishnaita; comunque protagonista di meravigliose favole immortali (loro senza alcun


ABHISHEK SINGH

foto: KIMBERLY HALL (©ABHISHEK SINGH) abhiart.blogspot.com

dubbio) ricche di simboli e contenuti. Ciò che racconta Abhishek Singh non è inventato lui, ma da vari autori che stanno in bilico tra il leggendario e lo storicamente semi-accertato, ossia coloro che hanno scritto non solo la Bhagavad Gita ma anche altri ‘testi sacri, come i Bhagavata Purana e lo Srimad Bhagavatam, opera quest’ultima che narra anche i giochi e gli amori di questa divinità blu tanto amata in India (e non solo). Si parte quindi dall’infanzia di Krishna, narrata in una serie di tavole di una bellezza e di una dolcezza (e ironia) difficilmente descrivibili a parole. Il piccolo

Krishna è un delizioso monello super-deformed, goloso di burro, pieno di vita e con un sorriso irresistibile! C’è un racconto sull’infanzia di Krishna che ho sempre amato particolarmente, cioè quando la sua mamma adottiva, Yasoda, lo sorprende a rubare per l’ennesima volta il burro e sgridandolo gli apre la bocca per pulirgliela e… dentro la bocca del piccolo vede l’universo intero, capendo così Chi sta stringendo tra le braccia. Una storia meravigliosa che Singh tratteggia con delicata dolcezza e devastante potenza. In realtà ogni episodio è stupendo in questo volume: la lotta col gigantesco serpente Kaalia, l’amore di Krishna per la pastorella Radha, divino e terreno insieme, il racconto della nascita del dio, i dubbi di Arjuna, la terrificante battaglia di Kurukshetra… L’autore non nasconde di aver realizzato un’opera di devozione religiosa e, lo dico laicamente, la sua fede potrebbe essere stata un elemento aggiuntivo non tanto per la bellezza della storia (la storia di Krishna è bellissima anche per l’ateo più incallito, parliamo di letteratura universale) quanto per la resa drammatica ed emozionale dell’intero lavoro. La profondità del racconto, comunque, non ha bisogno di alcuna fede religiosa per essere compresa e apprezzata. Un’opera davvero sublime.

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KRISHNA - UN VIAGGIO INTERIORE, pagine 12-13 | ©BAO Publishing

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KRISHNA - UN VIAGGIO INTERIORE, pagine 18-19 | ©BAO Publishing

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Manga TIME

L’odissea di una

MADRE

di LEONARDO COLOMBI

GUERRIERA

Dal padre di Akira, la storia di una donna coraggiosa e del suo avventuroso viaggio alla ricerca dei figli, in un mondo futuro devastato dalla guerra.

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UANDO SI IMMAGINA l’eroe di una storia ambientata in un rude contesto postatomico, il prototipo che solitamente se ne ricava è quello di un uomo vissuto, capace di adattarsi a ogni situazione, ardimentoso, pronto a lottare e a difendersi. E se poi si tratta di una storia manga, uno dei primi esempi che sovvengono è quello di Kenshiro, protagonista del noto Hokuto No Ken di Tetsuo Hara e Buronson, l’emblema del combattente. La scelta invece di una protagonista donna, per di più madre, può apparire spiazzante; infatti è proprio questo uno degli elementi che rendono peculiare il

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manga The Legend of Mother Sarah. La sceneggiatura è firmata da Katsuhiro Otomo, mostro sacro del fumetto e dell’animazione made in Japan, conosciuto a livello internazionale per Memories, Steamboy e, soprattutto, per l’opera cult Akira, di cui recentemente si è celebrato il venticinquesimo anniversario. La realizzazione delle tavole è invece affidata all’abile Takumi Nagayasu, già disegnatore di Dr. Kumahige su storia di Buronson e di Ai to Makoto su storia di Asao Takamori e Ikki Kajiwara, e che proprio grazie The Legend of Mother Sarah ha raggiunto la notorietà.


LEGEND OF MOTHER SARAH

#1 LA CITTÀ MINERARIA PANINI COMICS, 4 Novembre 2010 Collana Planet Manga 224 pagine ISBN-13: 9788863468892

Pubblicata in Giappone da Kodansha tra il 1990 e il 2004, la serie è stata proposta in Italia in tre edizioni: una incompleta curata da Phoenix nel 1998, una seconda proposta da Magic Press nel 2002, anch’essa non terminata, e infine da novembre 2010 la terza targata Panini Comics, in 7 volumi (come l’originale) ciascuno dei quali con sovra copertina, lettura alla orientale e le prime pagine a colori. LA TRAMA In un imprecisato futuro, a causa di guerre nucleari che ne hanno devastato la superficie rendendola inospitale, l’umanità ha abbandonato la Terra per trovare rifugio in moderne stazioni orbitanti. A sette anni dall’esodo, la razza umana si è riorganizzata e vive stabilmente all’interno di queste colonie spaziali. Il governo è diviso in due fazioni: da un lato vi sono gli Epoch, progressisti, che hanno abbracciato le tesi di alcuni scienziati secondo cui, tramite ulteriori esplosioni atomiche a basse radiazioni, si potrebbe spostare l’asse terrestre e influenzare il clima, rendendo il pianeta nuovamente vivibile; di parere con-

trario sono i Mother Earth, convinti che la Terra sia stata martoriata a sufficienza e vada ora preservata e risanata. Malgrado gli accesi dibattiti, le bombe vengono sganciate, e l’evento scatena violenti scontri tra le frange più estremiste dei due gruppi, con rivolte, attentati terroristici e rappresaglie. Per trovare salvezza, molti coloni si vedono costretti ad abbandonare le stazioni orbitanti e fuggire sulla Terra. Tra costoro vi è Sarah, una donna caparbia che, nella confusione seguita a un attentato, è costretta a separar-

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Tavola tratta dal volume 5, LA CITTÀ DELLA PACE - PARTE II | ©PANINI COMICS

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CITTÀ SPAZIALI

”Dopo la guerra nucleare, i pochi esseri umani sopravvissuti sono fuggiti dal pianeta contaminato e si sono stabiliti su installazioni orbitanti attorno alla Terra. Sette anni dopo, la popolazione si è ormai abituata alla sua nuova vita nelle colonie spaziali, ha eletto un nuovo governo, e si è rassegnata a guardare la sua patria d’origine soltanto da lontano...” dal vol. #1, ’LA CITTÀ MINERARIA’

si dal marito Bard e dai figli. Raggiunta la superficie assieme ad altri fuggiaschi, Sarah inizierà la lunga ricerca dei propri cari: per dieci anni vagherà tra villaggi e città, affrontando numerose traversie, in uno scenario nel quale, come c’era da aspettarsi, le fazioni Epoch e Mother Earth continuano a contrapporsi, e dove al clima di tensione, provocato dalle organizzazioni paramilitari che detengono il controllo del territorio e delle risorse, si sommano le problematiche legate alla sopravvivenza e alle precarie condizioni del pianeta. Alle vicissitudini di Sarah e degli altri personaggi principali fa da sfondo un tesissimo quadro politico che include una terza forza, costituita da ribelli in possesso di una bomba Epoch inesplosa. E tutto è destinato nuovamente a cambiare quando, dai cieli, calerà sulla superficie terrestre una colonia orbitale che sembra affetta da un morbo misterioso… LA STORIA DI ‘MADRE CORAGGIO’ Sin dall’incipit, si intuisce che The Legend of Mother Sarah è un manga complesso e sfaccettato, destinato a un pubblico adulto; le vicende si svolgono in un mondo

spietato e desolante, dove per affermarsi o anche solo sopravvivere è necessaria una ferrea determinazione. L’ambientazione è delineata e indagata in modo funzionale alla narrazione: gli autori non indugiano molto sul passato o su ciò che ha portato alle guerre nucleari e alla fuga della razza umana, ma si soffermano perlopiù sulle nuove dinamiche sociali e sugli equilibri tra le forze militari e politiche che si sfidano per il potere, in un costante clima di guerra che strema la popolazione. In ognuna delle città che Sarah si troverà a visitare, emergono aspetti legati alle nuove condizioni esistenziali e ai problemi che i terrestri devono fronteggiare per

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SARAH E TSÈ TSÈ

Durante una tempesta di neve, i nostri eroi rientrano a bordo del camion dopo aver individuato la città verso cui sono diretti; illustrazione dal volume #2, ’LA CITTÀ DEI BAMBINI’, pagine 4 e 5

sopravvivere: scarsità di acqua e cibo, effetti delle contaminazioni radioattive, rapporto con la religione e con il potere. Lo sviluppo dell’opera, soprattutto nei primi numeri ­– quando il contemporaneo impegno di Otomo in svariate collaborazioni gli impediva di dedicarsi a tempo pieno alla sceneggiatura ­–, prevede cicli narrativi autoconclusivi, che di volta in volta focalizzano l’attenzione del lettore su particolari aspetti. Viene comunque sempre descritto un contesto duro e brutale, dove i tradimenti sono all’ordine del

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giorno e solo i forti e gli scaltri prevalgono. Le città, futuristiche ma diroccate, parlano di devastazioni e ferite aperte, diffusione di armi e frequenti episodi di violenza; ricordano a tutti che ormai c’è poco spazio per i sentimenti, per la generosità, la bontà, l’ingenuità. Le immagini dei deserti di un pianeta Terra desolato sottolineano il concetto e al tempo stesso enfatizzano il ruolo di Sarah come simbolo del principio opposto: una madre che sopravvive spinta dal desiderio di rivedere i figli, testimone dell’importanza di valori come l’amore, la comprensione e la famiglia, le sole cose in grado di vincere la devastazione e guarire davvero l’umanità. Valori che tuttavia non implicano per forza l’essere fragile. Tutt’altro: animata dai suoi saldi principi, Sarah è forte e agguerrita, una donna che non esita a schierarsi o a menar le mani. La sua


non è nemmeno una figura idealizzata che risplende di virtù: al di là della violenza adoperata per difendersi o vendicarsi (in un’occasione stermina a sangue freddo un manipolo di soldati), si scoprirà nel corso di saltuari flashback che è responsabile della morte di Kazuki, l’unico tra i suoi figli tenuto con sé (un pargolo di pochi mesi), soffocato da lei con un lungo bacio per evitare che il suo pianto attirasse sul loro gruppo di fuggiaschi l’attenzione di feroci predoni. Un’azione che non le darà tregua, tormentandola fino a indurla ad auto mutilarsi amputandosi un seno a memoria della colpa. Sarà proprio questa triste vicenda a conferirle la determinazione per cercare gli altri figli, mossa dal desiderio di assicurarsi che almeno loro stiano bene. Parallelamente, la conoscenza di un tale gesto rende il lettore consapevole di trovarsi di fronte a un personaggio atipico e scomodo. Il coraggio materno di Sarah rappresenta una sfida all’ottusità di Epoch e Mother Earth, le cui fazioni, anziché adoperarsi per creare legami e famiglie con cui ricostruire una società vivibile, insistono a tramare l’una contro l’altra in nome di vec-

chi rancori e diverse visioni del mondo. Ideologie agli antipodi, ma adattabili a piacimento e pronte a trovarsi d’accordo quando si tratta di accumulare ricchezze e garantirsi privilegi e potere. Specchio di ciò che tutti i giorni vediamo accadere nel mondo reale. Nel manga, gli Epoch rappresentano la corrente che privilegia il primato dell’uomo su ogni cosa e giustifica quindi il ricorso alla tecnologia e alle armi per dominare la natura e modellare la società; incarnano insomma una corsa al progresso sfrenata, schiava dell’economia e orfana del buon senso, incurante del fatto che il pianeta Terra sia un sistema chiuso, con spazi e risorse limitati. I Mother Earth difendono posizioni teoricamente più pacifiche ma comunque estremiste, a salvaguardia dell’ambiente e di un futuro sostenibile, ma a tal punto da sfiorare il fanatismo; votati al sacrificio per fare ammenda dei passati crimini umani contro il pianeta, non esitano a prestarsi come veri e propri incubatori umani per far nascere nuove piante. Non a caso una delle loro massime è: “noi saremo il nutrimento della Terra e vivremo per

#1. LA CITTÀ MINERARIA

(copertina Edizione Variant) PANINI COMICS collana Planet Manga 4 novembre 2010 224 pagine ISBN-13: 9788863468892

#2. LA CITTÀ DEI BAMBINI

PANINI COMICS collana Planet Manga 2 dicembre 2010 296 pagine ISBN-13: 9788863469356

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Tavola tratta dal volume 6, LA CITTÀ DEL FUTURO - PARTE I | ©PANINI COMICS

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sempre”. O almeno questo è quanto professano gli autentici Mother Earth delle colonie, perché sul pianeta invece le ideologie hanno ceduto spazio al pragmatismo, strumentalizzate per giustificare un atteggiamento violento contro gli Epoch nella mera lotta per il controllo di territori, uomini e risorse. Al di là di vaghe suggestioni religiose o dei messaggi ambientalisti, il credo originario dei Mother Earth rappresenta un’altra faccia di quell’amore incondizionato per le nuove generazioni che Sarah ha sposato, in tutti i sensi (il marito Bard è proprio uno degli uomini a capo della colonia orbitale che fa ritorno sulla Terra al termine degli eventi narrati nel quinto volumetto). L’amore di Sarah per i propri figli si estende idealmente a tutti i giovani che incontra, di fronte ai quali si pone come modello o come protezione. Significativi in tal senso sono i volumi 2 e 3: il primo si svolge nella ‘città dei bambini’, abitata da un gruppo di ragazzi tiranneggiati da una sorta di madre che funge al contempo da meretrice e da despota, proponendosi come una sadica matrona decisa a plagiarli e

a controllarli; nel secondo, invece, Sarah si contrappone all’anziana madre Telesia, religiosa che gestisce una comunità di orfani e suore dedite alla cura dei bisognosi, ma che non esita ad avviare alla prostituzione le sue giovani protette per ottenere il favore delle milizie Epoch. In antitesi a queste figure degenerate, Sarah incarna quindi un esempio di coraggio, una moderna amazzone senza un seno che si pone impavida a difesa dei figli del nuovo mondo. ELEMENTI DI FANTASCIENZA Oltre all’ambientazione postatomica, all’estetica delle costruzioni e alla presenza di gigantesche stazioni orbitanti, tutti elementi presenti già dai primi capitoli, gli aspetti fantascientifici presenti nel manga acquistano via via risalto a partire dal quinto volume, non solo in modo pretestuoso per stupire il lettore con battaglie campali durante le quali vengono impiegate armi o mezzi avveniristici, ma proponendosi in modo adulto e, per quanto possibile, scientifico. Ecco quindi che l’arrivo sulla Terra della stazione OBIT57 causa riverberi sul clima

#3. LA CITTÀ DEGLI ANGELI

PANINI COMICS collana Planet Manga 13 gennaio 2011 344 pagine ISBN-13: 9788863469448

#4. LA CITTÀ DELLA PACE - PARTE I

PANINI COMICS collana Planet Manga 10 febbraio 2011 264 pagine ISBN-13: 9788865890417

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VIAGGIO NEL DESERTO

Sarah scruta l’orizzonte seduta sul tetto della motrice del camion di Tsè Tsè; illustrazione dal volume #3, ’LA CITTÀ DEGLI ANGELI’, pagine 6 e 7

dell’area circostante; che si rende allora necessario un periodo di stabilizzazione prima che gli occupanti possano sbarcare; che i ‘terrestri’ saliti a bordo avvertano difficoltà respiratorie per le diverse condizioni ambientali, e così via. Tutti particolari che contribuiscono a creare un senso di realismo. Perfettamente in linea con questa serietà è lo stile adottato da Nagayasu: le tavole, che il disegnatore afferma di aver rivisto e corretto innumerevoli volte, risultano

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molto pulite e precise, rispettose della prospettiva e rigorose nel definire spazi e proporzioni, ma allo stesso tempo capaci di caratterizzare bene paesaggi, luoghi angusti e città. E sono molte le vignette che occupano per intero una o più pagine, proprio per concedere ampi scorci del mondo in cui si muove Sarah, indugiando sulle esotiche città derelitte, sui vastissimi deserti o sulla movimentazione di mezzi e di eserciti. Anche i dettagli di abiti ed edifici sono studiati e molto curati, efficaci nel far emergere in modo naturale le caratteristiche della vita sulla Terra postcoloniale. Altra abilità di Nagayasu è il saper conferire forte espressività ai personaggi, tratteggiando volti subito riconoscibili e capaci di parlare al lettore anche in assenza di dialoghi. La narrazione stessa procede in modo equilibrato, dosando scene d’a-


zione ad altre più lente e suggestive, spesso drammatiche, in qualche caso poetiche, attimi in cui le parole cedono il posto alle immagini lasciando al lettore il compito di giudicare. Questo vale per le ampie praterie martoriate dalle esplosioni atomiche, per l’assestamento della OBIT-57, ma anche per i flashback legati alle vicende personali di Sarah, alla depravazione dei soldati, alle cure amorevoli apportate ai feriti o ai sacrifici silenti di chi è costretto a vendere il proprio corpo per ottenere in cambio la protezione di un villaggio o la liberazione di una persona amata. Le tavole, dal sapore retrò, sono dunque ben realizzate, chiare, semplici da leggere e capaci di trasmettere emozioni solleticando la memoria del lettore con alcune similitudini, dosati e sospetti rimandi a personaggi già visti nelle opere di Otomo. L’IMPEGNO DEL SINGOLO SALVERÀ TUTTI? Nel contesto complesso e cupo, i momenti di leggerezza sono perlopiù affidati al personaggio di Tsè Tsè, un commerciante di colore mingherlino e strabico che accompagna la prota-

gonista. Il viaggio di Sarah procede infatti a bordo del camion del mercante, e tra i due esiste un rapporto di reciproco sfruttamento che sfiora però l’amicizia. Tsè Tsè incarna una sorta di caricatura dell’essere umano, che controbilancia la forte e ingombrante presenza scenica di Sarah; goffo, scaltro e falso, senza famiglia, non cerca nulla e nessuno, semplicemente viaggia per fare affari, vivendo da outsider senza schierarsi né farsi coinvolgere nelle tensioni che tormentano la società. Quasi a suggerire che esistono modi per campare senza dover per forza ricorrere alla guerra e alla violenza, basta volerlo. In realtà, proprio le vicende e le prese di posizione di Sarah e dei suoi familiari sottintendono che solo l’impegno del singolo possa provocare reali cambiamenti: Harato, uno dei figli, spinto dal senso di colpa (al pari della madre) per la perdita del fratello Tsumuri stroncato da una malattia, è divenuto il fondatore del gruppo di ribelli che scende in campo come terza forza tra Epoch e Mother Earth; la sorella Satoko ha invece abbracciato la fede e si occupa dei feriti di guerra, prima di divenire a

#5. LA CITTÀ DELLA PACE - PARTE II

PANINI COMICS collana Planet Manga 10 marzo 2011 240 pagine ISBN-13: 9788865890530

#6. LA CITTÀ DEL FUTURO - PARTE I

PANINI COMICS collana Planet Manga 14 aprile 2011 248 pagine ISBN-13: 9788865891094

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Tavola tratta dal volume 7, LA CITTÀ DEL FUTURO - PARTE II | ©PANINI COMICS

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sua volta madre; Bard infine persegue il progetto per risanare la Terra a tutti i costi, sostenendo i principi originali dei Mother Earth anche attraverso il sacrificio di sé. Celati nella crudezza del mondo, si captano messaggi indirizzati ai lettori, ad esempio nelle tavole dove gli elementi architettonici o paesaggistici dominano ridimensionando il ruolo della figura umana, costringendo i personaggi – e quindi i lettori – a rivedere le proprie posizioni e a considerare come tutto in natura sia collegato e debba sottostare a leggi universali. Ecco allora che il relitto della OBIT-57, conficcato nel terreno come una torre, assurge a ruolo di faro che indica la via della speranza per un nuovo futuro; o che squarci di luce filtrino dalle nubi sopra Satoko e le sue consorelle minacciate dalla brutalità dei soldati, quasi suggerendo la presenza di forze provvidenziali che vegliano sui buoni. Dinnanzi a simili scenari resta comunque al singolo individuo la libertà di cogliere i significati, di trarre l’ispirazione per il corretto agire, di difendere i propri principi o di riconsiderarli, prendendo anche scomodi provvedimenti se necessario, come farà il pre-

sidente Hans a seguito degli scontri con i coloni spaziali che si verificano nel volume finale. CONCLUSIONE The Legend of Mother Sarah si conferma un’opera interessante e matura, adatta a un pubblico young adult, capace di comunicare a più livelli e di farsi apprezzare da culture differenti, riscuotendo successo e consensi in Giappone come in America e in Italia. La storia, esordita in medias res, risulta ben articolata e piuttosto varia; non ha un vero e proprio inizio né una conclusione, ma si pone come una parentesi, importante e consistente, della vita della coraggiosa Sarah e dell’umanità intera. Così come accade in quasi tutti i precedenti 6 volumi, anche l’ultimo si chiude con l’immagine del camion di Tsè Tsè che percorre una strada che si snoda nel deserto, mentre i due compagni discorrono del più e del meno. Un modo come un altro per ricordare che il viaggio prosegue e, con esso, la leggenda di una donna che nulla ha da invidiare a tutte le altre note eroine della Fantascienza, da Ellen Ripley a Sarah Connor.

#7. LA CITTÀ DEL FUTURO - PARTE II

PANINI COMICS collana Planet Manga 12 maggio 2011 232 pagine ISBN-13: 9788865891315

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Cult COMICS

e DAN FRANK

DUE EROI

britannici

di GIANFRANCO SHERWOOD

Presentiamo la storia di uno dei più affascinanti personaggi di Fantascienza mai disegnati, e del suo geniale e sfortunato creatore.

L

A FINE DELLA Seconda Guerra Mondiale trova la Gran Bretagna sfibrata da anni di assedio nazista e gravata di un pesante debito con l’estero. La ex prima potenza navale ed economica del mondo inizia a smantellare il suo ormai anacronistico impero: nel 1947 ottengono l’indipendenza Birmania, India e Pakistan, e l’anno successivo le truppe inglesi abbandonano a un tormentato destino anche la Palestina. Intanto pure nella vita della gente comune sono in atto mutamenti radicali. Nel

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1945, la reazione all’enorme disparità tra ceti – uno dei tratti distintivi ma non più tollerabile della società inglese – porta al governo i laburisti, che varano un vasto programma di nazionalizzazioni e riforme sociali. È la nascita del Welfare state; malgrado le difficoltà quotidiane (i razionamenti restano in vigore sino al 1953), gli Inglesi ora guardano al futuro con grande ottimismo. È in circostanze come queste che l’inconscio collettivo cerca archetipi con cui esprimere aspirazioni e speranze…


FRANK HAMPSON

fonte foto: WAKEFIELD CARTER, ALASTAIR CROMPTON The Lost Characters of Frank Hampson www.frankhampson.co.uk

Dal 1945, nella parrocchia di St James a Southport, opera Marcus Morris, un prete anglicano trentenne dinamico e ambizioso. Alieno dai dogmatismi ma convinto che sia dovere della Chiesa pubblicare letture educative e moralmente ineccepibili, Morris si è improvvisato editore stampando The Anvil, una curata rivista per famiglie, che però vende poco. Per vincere l’indifferenza del pubblico, il parroco pensa di ricorrere ai fumetti. In realtà, lo motivano anche altre ragioni. Negli USA è in atto la crociata dello psicologo Frederick Wertham, il quale accusa i comics di fomentare efferatezze e depravazione. Benché sia una tesi mal argomentata, il parroco la condivide in pieno. Oltre alla pornografia e al sadismo attribuiti ai poveri Batman e Wonder Woman (ma Wertham diffida persino di Bugs Bunny), a Morris spiace che i fumetti americani siano disegnati e stampati rozzamente;

decide quindi di creare un settimanale, rivolto alla fascia d’età tra i 9 e i 14 anni, che offra qualità, personaggi irreprensibili e, soprattutto, storie avvincenti – perché, sebbene i suoi intenti siano educativi, da uomo pratico qual è sa che nessun ragazzo leggerebbe volentieri dei sermoni, per quanto proposti in forma di fumetto. Coinvolge nel progetto Frank Hampson, un reduce (in guerra è stato autista di camion e aspirante pilota della RAF) poco più giovane di lui che dal 1948 collabora come disegnatore a The Anvil manifestando un talento non comune. Hampson frequenta la Southport School of Arts and Crafts per migliorare la sua tecnica e acquisire un titolo di studio che lo agevoli nella ricerca di un buon impiego; nel frattempo, avendo una moglie e un figlio da mantenere, si dà da fare come illustratore freelance. Il progetto di Morris lo entusiasma e i due si mettono all’opera, decisi a realizzare

8 MARCUS MORRIS

dalla copertina di Living with Eagles, The Lutterworth Press, 1998 www.lutterworth.com

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THE MAN FROM NOWHERE

DRAGON’S DREAM, 1979 ISBN: 9063325118

ROGUE PLANET

DRAGON’S DREAM, 1980 ISBN: 906332541X

REIGN OF THE ROBOTS

DRAGON’S DREAM, 1979 ISBN: 9063328419

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CHAPLAIN DAN DARE

La prima versione di Dan Dare: cappellano militare della Inter-Planet Patrol fonte: WAKEFIELD CARTER, ALASTAIR CROMPTON The Lost Characters of Frank Hampson www.frankhampson.co.uk

qualcosa di mai visto prima. Il maggiore apporto creativo è proprio di Hampson: è lui a definire la scaletta dei testi e dei fumetti e a disegnare il logo della rivista (il nome, Eagle, è frutto dell’inventiva di sua moglie Dorothy). Hampson ammira Harold

Foster, Milton Caniff e Alex Raymond, i maestri riconosciuti del fumetto d’avventura made in USA, dai quali ha appreso che l’eccellenza non deriva solo dal bel tratto: occorre anche padroneggiare il peculiare linguaggio dei comics. Sino allora in


Inghilterra erano state prodotte storie composte da immagini slegate, legnose anche quando di buona mano: non è l’arte sequenziale – come poi la definirà Will Eisner – alla quale ambisce Hampson. Inoltre, da inflessibile perfezionista, egli è convinto che la sospensione dell’incredulità si ottenga solo quando le fisionomie, i macchinari e ogni minimo dettaglio appaiono realistici, anche grazie all’uso generoso del colore. Chi legge dev’essere affascinato da un mondo parallelo ma verosimile. Alla fine, ha un’intuizione epocale: trattandosi di attrarre sin dalla prima pagina i lettori con immagini le più colorate e avvincenti possibile, quale genere può soddisfare questa necessità meglio della Fantascienza? Ritenendo che alla Eagle serva un personaggio bandiera come attrazione principale, subito pensa al cappellano di una futuristica Inter-Planet Patrol; poi decide opportunamente di levargli il collare da prete per farne un colonnello pilota in forza alla Space Fleet dell’ONU, conservando però contesto, comprimari e nome dell’eroe. Nasce così Dan Dare, Pilot of the Future.

Quanto al resto della Eagle, sono previsti personaggi comici e avventurosi (prevalendo i secondi), biografie a fumetti, articoli scientifici. La rivista deve avere venti pagine, otto delle quali a colori. Su queste basi, nella primavera del 1949 Hampson inizia a comporre i primi menabò, associando all’impresa altri giovani artisti locali. Vengono completate le bozze di tre numeri e, con queste sottobraccio, uno speranzoso Morris affronta Fleet Street, a Londra, sede tradizionale degli editori inglesi. Al parroco preme anche liberarsi dai debiti con le banche, causati dai passivi accumulati da The Anvil e dal fatto che sta pagando di tasca propria Hampson e il resto dello staff. I primi contatti però non sono incoraggianti. Gli editori maggiori, pur riconoscendone il valore, dubitano che il progetto possa risultare redditizio, stanti l’inusuale formato tabloid e la necessità di una stampa con un costoso tipo di fotoincisione (la photogravure) per garantire la resa migliore di disegni e colori. Ma caso vuole che in quello stesso periodo la Hulton Press, editore solido anche se non di primo piano,

VOYAGE TO VENUS 1

TITAN BOOKS, 2004 96 pagine ISBN-13: 9781840236446

VOYAGE TO VENUS 2

contiene anche la storia

‘Mars 1998’

TITAN BOOKS, 2004 96 pagine ISBN-13: 9781840238419

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LESLIE ASHWELL WOOD

Un esempio degli splettacolari ‘cutaway’ di Wood presentati nella Eagle scan: JONATHAN MORRIS (collezione privata) www.flickr.com/photos/calamityjon/

stia attraversando una crisi; così, quando Morris li approccia, i dirigenti della Hulton si convincono che la Eagle possa servire a superare l’impasse, e il 10 ottobre 1949 gli telegrafano di essere “definitely interested”. Nei sei mesi che intercorrono tra quella data e l’esordio della rivista, Hampson, nominatone chief designer (con Morris direttore), lavora freneticamente per trovare disegnatori e sceneggiatori all’altezza, assumendo, insieme a validi professionisti, anche sconosciuti di talento, tra i quali spicca l’ancora inesperto Don

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Harley. La Hulton si adopera intanto per garantire successo all’impresa: oltre a pagare un buon stipendio a quelli che sono ora suoi dipendenti – e a risolvere i guai finanziari di Morris – fa costruire una rotativa capace di stampare in photogravure il milione di copie con cui s’intende far esordire la rivista e, per essere certa che vadano vendute, mette in atto una campagna pubblicitaria senza precedenti. Le cose parrebbero quindi volgere al meglio, sebbene, nell’entusiasmo del momento, Hampson trascuri un dettaglio che gli sarà foriero di conseguenze dolorose: Morris ha concesso alla Hulton la proprietà dei personaggi della Eagle, Dan Dare compreso. Ad ogni modo, venerdì 14 aprile 1950 la Eagle debutta trionfalmente nelle edicole. Il milione di copie basta appena a soddisfare le richieste; in seguito la vendita si stabilizza sulle 750.000 copie alla


settimana, una tiratura superiore a ogni previsione. La Eagle è davvero qualcosa di mai visto prima, che entusiasma lettori di ogni età e ceto. Oltre a personaggi d’avventura ben rappresentati, offre articoli scientifici a misura di ragazzo, meravigliosi paginoni centrali con spaccati di fabbriche e macchinari (i celeberrimi cutaway, curati per lo più da Leslie Ashwell Wood, un maestro di questo tipo di disegno tecnico), biografie di personaggi storici, storie umoristiche, in splendidi colori, spesso acquerellati. Il tutto a opera di una redazione che si assesta sulle duecento unità. Il successo genera supplementi, annuals, tre pubblicazioni gemelle di pari qualità anch’esse dirette da Morris (Girl rivolta alle ragazze, Robin mirato alla fascia d’età tra i 7 e gli 8 anni e Swift inteso come raccordo tra Robin e la Eagle, per una tiratura complessiva di 2 milioni di copie

settimanali) e un lucroso merchandising basato sui personaggi più apprezzati: Jeff Arnold, protagonista di un western maturo e realistico, splendidamente disegnato da Frank Humphris; il sergente della Legione Straniera francese Luke, eroe d’avventure tanto politicamente scorrette quanto trascinante; P.C. 49, un bobby già protagonista di un serial radiofonico scritto da Alan Stranks. Ma è Dan Dare a diventare la meraviglia nazionale oggetto di culto da parte di un’intera generazione. APOTEOSI E CATASTROFE All’esordio della Eagle, Hampson disegna ben tre personaggi: Dan Dare, Tommy Walls (protagonista di una tavola che pubblicizza una marca di gelati) e San Paolo (nella biografia The Great Adventurer, una delle poche storie, in tutto cinque, di carattere religioso che la rivi-

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Le tavole di TOMMY WALLS e THE GREAT ADVENTURER, da Eagle #2, del 21 aprile 1950, scan di Jonathan Morris (collezione privata)

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La prima tavola di Dan Dare, versione ©TITAN BOOKS, Eagle #1, nell’episodio senza titolo successivamente ribattezzato VOYAGE TO VENUS

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sta presenterà). E dei primi due cura anche i testi. Ma premendogli occuparsi solo di Dan Dare, si sbarazza presto degli altri impegni. Per quanto strano possa sembrare, Hampson inizia la saga dell’eroe spaziale senza avere in mente una trama definita. Ha però idee chiare su contesto e personaggi e, volendo essere scientificamente inappuntabile (fatti salvi i diritti della creatività), si avvale dei consigli di Arthur C. Clarke, allora scrittore di Fantascienza agli esordi, voluto da Morris come consulente scientifico della Eagle; la collaborazione dura solo sei mesi, ma Clarke fa in tempo a pubblicare sulla rivista due racconti e a inventare un nome divenuto famoso: Treen. Sebbene la storia nasca puntata dopo puntata, a due tavole per volta, essa pone solide fondamenta a ciò che seguirà. La prima avventura – l’unica senza titolo, battezzata ‘Voyage to Venus’ nelle ristampe – è ambientata nel 1996. Sotto il governo illuminato delle Nazioni Unite regnano pace e progresso; la Space Fleet ha raggiunto la Luna e Marte, e lo spazio circumterrestre è punteggiato di astronavi e stazioni spaziali. Eppure la Terra sta

attraversando un momento critico, causato dall’eccessivo sfruttamento del suolo (sì, nel remoto 1950, Hampson già parla di ecologia). Incombe una carestia globale, e a Dan Dare tocca l’incarico di verificare se sia possibile ricavare cibo da Venere, pianeta supposto ricco di vita. Compiuto un difficile viaggio, l’eroe scopre che il globo è diviso tra due specie intelligenti, biologicamente e moralmente incompatibili. Ai Theron del sud, umanoidi angelicati e blandamente noncuranti, non spiacerebbe aiutare la Terra, ma esitano nel timore di irritare i Treen, spietati rettiloidi padroni dell’emisfero settentrionale, coi quali, dopo guerre millenarie, hanno patteggiato un fragile armistizio. Dare, catturato dai Treen, è condotto a Mekonta, loro capitale, dove scopre che essi sono assoggettati al Mekon, un nano macrocefalo e megalomane che ha in progetto di conquistare tutto ciò che può, a cominciare dalla Terra. Dopo una complessa e avvincente serie di avventure, ricchissima di spunti (tra l’altro, impariamo che la nascita, in un lontano passato, del Mare Mediterraneo è una conseguenza del con-

THE RED MOON MISTERY

TITAN BOOKS, 2004 96 pagine ISBN-13: 9781840236668

MAROONED ON MERCURY

contiene anche la storia

‘Spaceship Away’

TITAN BOOKS, 2005 96 pagine ISBN-13: 9781840238471

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THE RED MOON MISTERY, tavola #49, versione ©TITAN BOOKS

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flitto tra Treen e Theron), si giunge alla resa dei conti, una battaglia tra i Treen e una coalizione di Theron e terrestri combattuta nella piana prospiciente Mekonta. Il Mekon, scomparso nella mischia, è dato per morto e ai Treen non resta che arrendersi. Sono le ore 16,30 del 7 luglio 1996. Citare data e orario non è un vezzo: la saga di Dan Dare segue una ferrea cronologia, ogni episodio pone le premesse del successivo e deriva a sua volta da fatti precedenti, un’altra novità per l’epoca. La continuity non è il solo espediente usato dall’autore per conferire verosimiglianza all’universo che va creando. Esso è anche retto da una inflessibile coerenza interna: le armi, le divise, le astronavi, i luoghi e ogni minimo dettaglio vengono stabiliti una volta per tutte e fissati in model sheet e riproduzioni in scala: c’è il plastico dettagliato del quartiere generale della Space Fleet; le tavole di riferimento coi tratti somatici, l’altezza, persino i dati anagrafici dei personaggi; i busti tridimensionali degli stessi; i panorami dei pianeti alieni e così via. Nulla viene trascurato, e il piano della casa di Hampson adibito a studio diventa

un deposito di meraviglie. Ma ciò non basterebbe a giustificare il trionfo del personaggio. Il primo irresistibile motivo di fascinazione proviene infatti dall’arte di Hampson, capace di creare immagini sempre sorprendenti per bellezza e inventiva. In secondo luogo l’autore si ispira ad avvenimenti ben vivi nella mente degli Inglesi: l’idea del mondo affamato rispecchia le recenti difficoltà patite dall’Inghilterra. L’intera vicenda descritta in ‘Voyage to Venus’ può essere letta come un’allegoria della Seconda Guerra Mondiale, con il Mekon (Hitler) folle e aggressivo, la Terra (l’Inghilterra) minacciata e allo stremo e i Theron (gli Americani) riluttanti a uscire dal loro edonistico isolamento. Hampson poi, da mancato pilota della RAF, finisce col fare di Dan Dare un alter ego idealizzato, l’uomo che avrebbe voluto essere, come dirà in seguito. Il giovane colonnello della Space Fleet è fiero dell’impeccabile divisa che indossa e dei principi etici che ne conseguono. Una visione ingenua dell’esercito, ma in quel 1996 si regge sul presupposto utopistico che i politici cui il soldato deve obbedienza siano

OPERATION SATURN 1

contiene anche la storia

‘The Double Headed Eagle’ TITAN BOOKS, 2005 96 pagine ISBN-13: 9781840238099

OPERATION SATURN 2

contiene anche le storie

‘Operation Triceratops’ ‘The Planulid’

TITAN BOOKS, 2005 96 pagine ISBN-13: 9781845760885

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MAROONED ON MERCURY, tavola #7, versione ©TITAN BOOKS

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migliori dei loro omologhi in carne e ossa. Coraggioso e leale, Dare ricorre di rado alle armi e, tanto più subdoli e feroci sono i suoi nemici, tanto meno è disposto a imitarne i metodi. Non che rifugga dalla lotta, ma le sue vittorie sono frutto di spirito di sacrificio e premesse morali superiori. A loro volta, i terrestri sono permeati di spirito di tolleranza nei rapporti con gli alieni, anch’essi in genere mai ottusamente minacciosi. Agli stessi Treen tocca il ruolo di cattivi ricorrenti solo perché il Mekon esercita su di loro un ascendente negativo, dovuto a ragioni culturali. E persino la malvagia indole del Mekon ha una spiegazione ‘scientifica’ (è causata da una selezione genetica). Per l’autore, e per Dan Dare, insomma, ogni cultura ha le sue ragioni, comprese le quali accordarsi è possibile. È probabile che anche a questo riguardo a Hampson prema dirci qualcosa del mondo reale: tra i personaggi di contorno, che comprendono un Francese e un Americano, lui vorrebbe inserire pure un Russo, ma l’editore gli fa notare che, nel pieno della Guerra Fredda, non è davvero il caso. È bene ribadire che nella saga non c’è traccia di pedan-

teria o moralismo: l’autore bada sempre ad avvincere e stupire. Tuttavia è anche uomo di grande sensibilità ed eticità laica (in un’intervista rilasciata ad Alan Vince dirà: “I’m not religious”), conscio della responsabilità che comporta il creare per i più giovani, e capace di superare i pregiudizi e i luoghi comuni del suo tempo. Un esempio è rappresentato da un altro personaggio ricorrente: la professoressa Peabody. Competente e sicura di sé, è tutt’altro che la donnina decorativa e in attesa perenne di essere salvata dall’eroe, com’è invece usuale trovarne nei fumetti di quel periodo. Dall’opera di Hampson, oltre all’afflato umanista, promana un altro sentore particolare: Dan Dare, o meglio, Daniel McGregor Dare, nato a Manchester nel 1967, con studi a Rossall e Cambridge, non può essere che Inglese (o forse, come piacerebbe essere agli Inglesi). Lo attestano, oltre alla caratterizzazione regionale dei comprimari (Gallesi, Irlandesi, Scozzesi), il solido buon senso e il sottile umorismo. Il che non gli impedisce di essere proposto con successo in molti altri Paesi, Italia compresa. Con l’eccezione vistosa degli

PRISONERS OF SPACE

TITAN BOOKS, 2005 112 pagine ISBN-13: 9781845761516

THE MAN FROM NOWHERE

contiene anche le storie

‘The Robocrabs’ ‘Mars 1997’ ‘Operation Silence’

TITAN BOOKS, 2007 96 pagine ISBN-13: 9781845764128

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OPERATION SATURN, tavola #25, versione ©TITAN BOOKS

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USA, curiosamente incapaci di apprezzare la bellezza e lo spessore del personaggio. Ma, si sa, da quelle parti non c’è afflato che valga il martello di Thor o la ragnatela di Spiderman. Al consolidarsi del trionfo della Eagle e di Dan Dare corrisponde il crescere dell’attaccamento dell’autore per la sua creatura. L’artista ottiene dalla Hulton la disponibilità di un team composto da ben sei disegnatori e coloristi, supportato all’occorrenza da altre persone. E gli basta appena per soddisfare un complesso piano di lavoro. Ogni lunedì, lui prepara lo storyboard di un episodio, badando che inizi con una scena particolarmente suggestiva; abbozza poi i disegni, rifacendosi al materiale di riferimento e allegando fotografie di persone vestite come i personaggi, per facilitare la visualizzazione di scene cinetiche o di particolare impatto; infine ripartisce le vignette tra i membri dello staff, riservandosi la rifinitura della prima pagina. Severo e infaticabile, se boccia il lavoro degli altri, come spesso accade, lo rifà personalmente, tra nuvole di fumo di pipa, trascurando persino di andare a letto. Nella seconda avventura,

‘The Red Moon Mystery’ – per gli appassionati tra le migliori della saga –, la minaccia proviene da un asteroide, detto la Luna Rossa, in rotta di collisione con la Terra. Il suo approssimarsi provoca disastrose inondazioni, ma in breve si scopre che il pericolo maggiore è costituito dalle ignote entità che lo manovrano. Tramite una sorta di locuste robot, gli alieni depredano periodicamente il Sistema Solare, lasciandosi dietro pianeti desolati (in precedenza, avevamo appreso che le rovine di una civiltà estinta di Marte testimoniavano di una simile catastrofe, avvenuta 200.000 anni prima). In ‘The Red Moon Mistery’ risalta la capacità dell’artista di coniugare il fantastico con il quotidiano in modo tale da darci l’illusione di leggere la cronaca di fatti accaduti realmente. Nell’avventura successiva ‘Marooned on Mercury’ torna in ballo il Mekon, e in ‘Operation Saturn’ l’eroe deve debellare un persino più sinistro nemico (Vora, alieno misterioso proclamatosi “Last of the great ones who came from outer space”) che da Saturno minaccia di distruggere la Terra. Dopo un altro ritorno del

ROGUE PLANET

TITAN BOOKS, 2007 144 pagine ISBN-13: 9781845764135

REIGN OF THE ROBOTS

include il capitolo

THE SHIP THAT LIVED

TITAN BOOKS, 2008 136 pagine ISBN-13: 9781845764142

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PRISONERS OF SPACE, tavola #83, versione ©TITAN BOOKS

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Mekon in ‘Prisoners of Space’, nel 1955 inizia il periodo d’oro della saga, grazie all’apporto di Don Harley, divenuto un eccellente disegnatore e il cui stile si integra alla perfezione con quello di Hampson. Dan Dare, Pilot of the Future diventa il fumetto meglio disegnato di sempre. Hampson inizia anche ad avvalersi dell’esperto Alan Stranks come collaboratore alle sceneggiature. Nasce così ‘The Man from Nowhere’, prima parte di una trilogia che porta Dan Dare e alcuni suoi compagni fuori dal Sistema Solare. Motivo del viaggio è la richiesta d’aiuto dei Crypt, alieni pacifici e inermi il cui pianeta è periodicamente invaso dai Phant, bellicosi abitanti di un erratico pianeta gemello. Nella seconda parte della trilogia, ‘The Rogue Planet’, si descrive la guerriglia condotta contro gli invasori. Qui il perfezionismo di Hampson raggiunte vette incredibili. Non c’è dettaglio della flora e fauna aliene o delle città che sia trascurato, persino i gradi dei soldati phant sono accuratamente descritti nei model sheet. Riportata la pace tra i due mondi grazie alla scoperta di ciò che rende i Phant tanto aggressivi e allo smascheramento del

maligno computer che li vuole tali, Dare torna a casa. In ‘Reign of the Robots’ (ultima parte del trittico) il nostro eroe scopre che, mentre compiva in animazione sospesa l’andata e ritorno interstellari, sulla Terra sono passati ben dieci anni; e che nel frattempo dev’essere accaduto qualcosa di terribile, perché Londra appare deserta, abbandonata da un pezzo. Ovviamente, c’entra il Mekon che, soggiogata l’umanità nel 2002, ora se ne serve come cavia per folli esperimenti. Con l’aiuto dei Theron, anche questa volta il terribile omiciattolo viene sconfitto, e forse poi muore inghiottito da una sorta di sabbie mobili venusiane nella breve avventura ‘The Ship that Lived’. Segue ‘The Phantom Fleet’, una storia controversa, sebbene anch’essa meravigliosamente disegnata. Inizia con l’approssimarsi alla Terra di una flotta aliena. La Space Fleet è in allarme, ma Dare scopre che le astronavi trasportano un popolo di pacifici tritoni inseguiti da altri esseri acquatici, loro nemici, molto meno rassicuranti. Hampson, informato da Morris che i lettori non gradiscono, si affretta a concludere la vicenda, presu-

THE PHANTOM FLEET

contiene anche la storia

‘Operation Plum-Pudding’ TITAN BOOKS, 2009 96 pagine ISBN-13: 9781848561274

SAFARI IN SPACE

include il capitolo

TERRA NOVA

TITAN BOOKS, 2009 96 pagine ISBN-13: 9781848563728

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REIGN OH THE ROBOTS, tavola #5, versione ©TITAN BOOKS

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mibilmente senza aversene troppo a male perché ha già in mente quello che nelle sue intenzioni sarà l’apice della saga… All’inizio di ‘Safari in Space’ apprendiamo che il passato di Dan Dare cela una tragedia. Quand’era bambino, suo padre, William Dare, pioniere del volo spaziale, perì durante il collaudo di un’astronave di nuova concezione, esplosa in volo. O almeno così ha creduto Dare, perché un bizzarro scienziato ora gli dice di avere le prove che l’astronave è invece partita alla volta di un pianeta extrasolare, Terra Nova. Sono passati trent’anni, ma Dare e lo scienziato, decisi a scoprire che ne è stato di Dare senior, partono su una replica di quell’astronave, il Galactic Galleon. Come si è detto, Hampson ha grandi progetti. La ricerca del padre deve portare Dare su molti pianeti, facendolo entrare in contatto con altrettante specie aliene, e nello studio dell’artista sono già pronti gli opportuni modellini corredati da minuziose tavole di riferimento. Ma le vite del personaggio e del suo creatore stanno per cambiare radicalmente, una svolta che sbigottirà, le cui premesse erano però nell’a-

ria da tempo. Nei primi anni della Eagle, Hampson, esaurito dal gran lavoro, è stato costretto a lasciare il tavolo da disegno per due lunghi periodi, nei quali ha potuto solo coordinare il suo team. Sebbene l’apporto di Harley gli abbia poi alleviato le fatiche, permangono altre pene, causate paradossalmente proprio dal successo della rivista. Sono ormai centinaia le licenze commerciali concesse, soprattutto ai fabbricanti di giocattoli, legate ai personaggi della rivista per promuovere prodotti che Hampson giudica d’infima qualità. Ovviamente, il più richiesto è Dan Dare, che tra il 1951 e il 1955 è protagonista di un serial radiofonico trasmesso con successo da Radio Lussemburgo, per il quale l’autore riceve una ricompensa forfettaria di sole 250 sterline: infatti, non avendo egli diritti sul personaggio, il fiume di denaro che esso produce (si parla di un milione di sterline all’anno, una cifra enorme per l’epoca) neppure lo sfiora. Malgrado tutto, Hampson è gratificato da un lavoro che ama, da uno stipendio ottimo, e da una certa libertà artistica (che la Hulton è ben lieta di concedere a un

TRIP TO TROUBLE

include il capitolo

PROJECT NIMBUS

e le storie

‘Space Race’ ‘Operation Moss’

TITAN BOOKS, 2011 96 pagine ISBN-13: 9781848563667

DAN DARE - PILOT OF THE FUTURE

HAWK BOOKS, 1987-1988 112 pagine ISBN-13: 9780948248757

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THE SHIP THAT LIVED, tavola #9, versione ©TITAN BOOKS

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team capace di procurarle simili profitti). Lo amareggia, è vero, il fatto di non poter realizzare i progetti che gli sembrano il logico sviluppo della saga: un film a disegni animati e una tavola domenicale da proporre negli USA, con testi adattati al gusto di quel pubblico – e sarebbe solo l’inizio di un’avventura artistica e commerciale paragonabile a quella di Walt Disney, prevedendo persino un parco a tema. Tuttavia egli non dispera di poter riuscire a convincere col tempo l’editore ad assecondare anche queste sue ambiziose idee. Ma ecco il colpo di scena: nella primavera del 1959 sir Edward Hulton, convinto che la televisione sia un nemico invincibile per i piccoli editori come lui, vende l’azienda alla Odhams Press, uno dei colossi editoriali inglesi degli anni ’50. Morris e Hampson vedono il loro futuro in bilico. E con ragione, perché i nuovi padroni decidono subito di ridimensionare lo staff di Dan Dare. Anche il look del personaggio, secondo loro datato, va rinnovato in modo drastico, e le sue storie devono essere brevi e poco approfondite, ritenendo erroneamente che ai lettori ormai piaccia

solo ciò che richiede un livello minimo di attenzione. Le condizioni sono inaccettabili e l’artista abbandona la creatura alla quale ha dedicato dieci appassionati anni di vita. Le sue ultime tavole appaiono sulla Eagle numero 27 del 1959. La Odhams affida allora a Frank Bellamy la parte grafica del fumetto, mentre la trama pensata da Hampson e Stranks viene stravolta e resa mediocre da Eric Eden, negando agli appassionati le meraviglie che Hampson aveva in serbo per loro. Bellamy è comunque un disegnatore di raro talento, ma quel lavoro non gli piace e lo accetta per un solo anno, il tempo di portare a termine il rinnovamento preteso dalla Odhams, che consiste nell’abbandono della coerenza interna (nessuno bada più a model sheet, modellini ecc.), nella minor cura dei dettagli e nella banalizzazione di trame e personaggi. Dan Dare resta allettante dal punto di vista visivo, ma non ha più l’allure di quand’era un capolavoro. Ormai è solo un fumetto ben disegnato che delude i vecchi lettori senza attrarne di nuovi. Dopo Bellamy, se ne occupano due ottimi disegnatori, già collaboratori di Hamp-

THE RED MOON MISTERY and MAROONED ON MERCURY

contiene anche la storia

‘Mars1988’

HAWK BOOKS, 1988 160 pagine ISBN-13: 9780948248801

OPERATION SATURN

contiene anche la storia

‘The Double Headed Eagle’ HAWK BOOKS, 1989 144 pagine ISBN-13: 9780948248818

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SAFARI IN SPACE, tavola #11, versione ©TITAN BOOKS

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son, cioè Don Harley e poi Keith Watson, che però nulla possono contro una politica editoriale dissennata e la conseguente disaffezione dei lettori. La Odhams, pur non avendo capito che Dan Dare vale solo se creato col metodo di Hampson, ne tiene comunque conto. Più in generale, non impone un clima draconiano nelle redazioni delle quattro riviste, dove il cambiamento di proprietà passa quasi inosservato. Ma alla Fleetway Publications che nel 1961 assorbe l’Odhams – sono anni di grande turbolenza e accentramenti per l’editoria inglese – importa poco o nulla del personaggio: la Eagle adesso è solo un tassello di un impero che comprende più di 200 tra periodici, giornali e riviste per ragazzi. E anche il mondo sta cambiando in fretta: Londra è sul punto di scoprire la minigonna e diventare swinging, i Beatles stanno imparando il mestiere ad Amburgo e di lì a poco scoppierà al cinema il fenomeno James Bond. Nel tentativo di rincorrere i gusti dei lettori (mentre la Hulton, secondo le idee di Hampson e Morris, li creava) la Fleetway accumula errori su errori, aggravati da una liberistica

ossessione per il risparmio realizzato sulle spalle dei dipendenti; i compensi risicati e l’arroganza dei nuovi dirigenti fanno scappare i migliori collaboratori, e così peggiora anche la qualità delle parti redazionali, mentre ai personaggi che hanno fatto la gloria della Eagle ne subentrano altri via via più scadenti. Arrivano migliaia di lettere di lettori che reclamano la Eagle di una volta: invano. Crollate le vendite, il 26 aprile 1969 appare il 992° e ultimo numero del settimanale (le tre riviste gemelle hanno chiuso da anni), ormai ridotto a un’ombra di ciò che era stato. Tra tutti i personaggi delle origini, Dan Dare è il solo a resistere sino alla fine, sia pure tra mille travagli e servito da sceneggiature inadeguate. Nel marzo del ’62 viene spostato nelle pagine interne e stampato in bianco e nero. Poi riguadagna i colori e la prima pagina nel marzo del ’63, prima di essere nuovamente retrocesso nel luglio del ’65. Nel giugno del ’66 si riduce a una tavola, e agli inizi dell’anno seguente subentrano le ristampe dei lavori di Hampson (un tempo disprezzati in quanto obsoleti), sino alla chiusura, a quel punto pietosa euta-

PRISONERS OF SPACE

contiene anche la storia

‘Operation Triceratops’

HAWK BOOKS, 1990 112 pagine ISBN.13: 9780948248429

THE MAN FORM NOWHERE

contiene anche la storia

‘The Robocrabs’

HAWK BOOKS, 1991 80 pagine ISBN-13: 9780948248535

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Una tavola tratta da THE ROAD OF COURAGE, versione ©TITAN BOOKS

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nasia di una pubblicazione divenuta inguardabile la cui tiratura è ridotta al 5% di quella degli esordi. Quando ciò accade, Marcus Morris se n’è andato da tempo: nell’ottobre del 1959 l’Odhams l’aveva in pratica costretto a lasciare la direzione della rivista. È un epilogo amaro; tuttavia la Eagle e la Hulton sono destinate a rappresentare solo un capitolo della sua vita. Morris ha ormai deciso che il lavoro editoriale è la sua vera vocazione: il suo sacerdozio si è ridotto alla recita di qualche sermone, e con gli anni pure la sua fede diventerà tiepida sino a sfiorare l’agnosticismo. Il 31 dicembre 1959 la National Magazine Company lo assume come editorial director e managing director designate, con l’incarico di promuovere in Inghilterra le riviste del gruppo Hearst. Per l’ex parroco seguiranno anni di gratificazioni professionali ed economiche. Tutt’altro sviluppo avrà la vita di Hampson. La Odhams, discutibile nei metodi ma non irragionevole, non ha intenzione di perdere l’artista. Morris ha ancora un impegno con quell’editore, la sceneggiatura della biografia di Cristo, e Hampson, che vuole levarsi dalla testa

Dan Dare, accetta di disegnarla, purché possa farlo a modo suo; la Odhams acconsente allora a mandarlo a documentarsi in Palestina. Ne esce The Road of Courage, dove l’autore propone nell’arco di 56 puntate una vita di Cristo di abbacinante bellezza, avvalendosi dell’aiuto di Joan Porter, coloratrice e sua assistente già con Dan Dare (l’unica del disperso team alla quale sia ancora concesso aiutarlo). Com’è sua abitudine, non c’è dettaglio, riferimento storico o luogo che non sia frutto di infinite ricerche. Ma è nella rappresentazione dei volti che l’artista dà una prova di un’inimitabile capacità introspettiva. Semmai ce ne fosse ancora bisogno, The Road of Courage attesta in modo definitivo la grandezza del suo genio. Purtroppo questo è anche il suo canto del cigno. Incapace di andare d’accordo con i manager della Fleetway e disperato per il modo in cui trattano Dan Dare, nell’estate del 1961 lascia la Eagle. Più che una scelta è un obbligo: per Hampson è difficile lavorare su soggetti altrui, e le idee che per qualche tempo propone alla Fleetway e ad altri editori non trovano riscontro o, se lo trovano, muoio-

ROGUE PLANET

contiene anche la storia

‘Operation Silence’

HAWK BOOKS, 1992 144 pagine ISBN-13: 9780948248832

REIGN OF THE ROBOTS

include il capitolo

THE SHIP THAT LIVED

HAWK BOOKS, 1993 128 pagine ISBN-13: 9780948248986

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TERRA NOVA, tavola #15, versione ©TITAN BOOKS

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no sul nascere perché l’autore non può più reggere l’assillo di quelle che considera solo spietate logiche di mercato. Qualcosa si è spezzato per sempre nel suo animo, ed è un uomo stanco, deluso e abbattuto quello che, a soli 43 anni e nel pieno della propria maturità artistica, si lascia alle spalle il mondo del fumetto. Dopodiché, il genio che ha deliziato milioni di lettori svanisce nel nulla. AMMIRATORI ED EREDI Nel 1964 gli autori della fanzine Astral, emanazione del Dan Dare Club fondato da un gruppo di appassionati, iniziano a scrivere a Hampson, ragguagliandolo sulle loro attività. Dalla sua unica sofferta risposta trapela l’eco di una tragedia personale, le cui vere proporzioni si sapranno solo in seguito. Avvinto da una spirale di depressione, aggravata dal fatto che le sue tavole originali, frutto di tanto lavoro e ora proprietà della International Publishing Corporation (subentrata alla Fleetway), sono conservate malamente, e che su di lui pare sia calato l’oblio, l’autore tenta il suicidio e si salva solo per l’anticipato rientro a casa di Dorothy. La meschineria

della I.P.C. giunge al punto di negargli la minima disponibilità sulla sua creazione, gli è persino proibito regalare schizzi di Dan Dare ai fan. Per vivere, Hampson inizia a illustrare libri per la Ladybird Books. Ne realizza sette al ritmo di uno all’anno. Nel 1970, mentre sta ultimando le ricerche per l’ottavo – una biografia di Churchill – gli viene diagnosticato un tumore alla gola. Guarisce, ma non è più in grado di dedicarsi continuativamente al disegno. Si impiega allora prima come perito grafico presso l’Ewell Technical College e poi come insegnate di disegno alla Epsom School of Art. Riprende anche gli studi presso la Open University per conseguire il titolo di Master of Art. Ma sono anni di ristrettezze e gli Hampson sono costretti a vendere parti della loro casa. Al risentimento che l’artista prova nei riguardi degli editori, si aggiunge quello per Morris, accusato di non essersi adoperato per salvare la Eagle né per difendere Dan Dare. Per quanto se ne sa, sono accuse immotivate: nessuno avrebbe potuto opporsi alle manovre dei colossi di Fleet Street. È più verosimile che la vera colpa di Morris, agli occhi di

THE PHANTOM FLEET

HAWK BOOKS, 1993 80 pagine ISBN-13: 9780948248399

TERRA NOVA TRILOGY

contiene i capitoli

SAFARI IN SPACE TERRA NOVA TRIP TO TROUBLE

e la storia

‘Operation Plum-Pudding’ HAWK BOOKS, 1994 128 pagine ISBN-13: 9780948248597

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TRIP TO TROUBLE, tavola #5, versione ©TITAN BOOKS

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Hampson, sia l’essersi lasciato alle spalle ciò che per il disegnatore resta invece un tormento. C’entra in questo anche la differenza di carattere: Hampson è rimasto un uomo rigoroso e incapace di rinunciare ai propri principi (un esempio è la sua fedeltà alla moglie, laddove Morris al contrario non si fa scrupolo di collezionare svariate avventure extraconiugali), mentre l’ex parroco, un tempo così severo nei riguardi di ciò che giudicava robaccia americana, è poi finito, per un lucroso stipendio, a promuovere riviste quali She e Cosmopolitan. Il rancore dell’artista per le ingiustizie subite aumenta nel 1975, quando una nuova legge sui diritti d’autore gli consentirebbe di riappropriarsi dei suoi lavori ma la I.P.C. gli comunica di non sapere dove sia finito il materiale originale. Sempre nel 1975, si apre anche uno sprazzo di luce: Rinaldo Traini, in qualità di direttore della mostra del fumetto di Lucca, invita in Italia l’esperto inglese di fumetto Denis Gifford, e quest’ultimo chiede a Hampson di accompagnarlo. Nella città toscana c’è una persona che, avendo lavorato in Inghilterra e ap-

prezzando particolarmente il vero Dan Dare, è ansiosa di conoscere l’artista: Hugo Pratt. Quando il fumettista italiano apprende da Gifford l’amara vicenda di Hampson ne rimane inorridito e si dà da fare perché all’artista venga assegnato il premio Yellow Kid come migliore disegnatore e sceneggiatore del dopoguerra. È una soddisfazione inattesa, ma Hampson non ne trae grandi giovamenti, se non un breve interesse da parte della stampa inglese. Due anni più tardi, il Science Museum di South Kensington gli commissiona due pannelli murali con i suoi personaggi da collocare in una nuova ala dedicata ai bambini. Al solito, l’artista dà il meglio di sé. Nel frattempo qualcosa accade pure a Dan Dare. Nel 1973 la I.P.C. ha pubblicato Dan Dare Annual 1974, un volume cartonato con la ristampa delle avventure ‘The Red Moon Mistery’ e ‘Safari in Space’ mutilate di molte tavole ma splendidamente riprodotte (in Italia il volume è tradotto dall’editore Dami). Nel 1977 appare il testo celebrativo The Best of Eagle, curato da Morris, che nella prefazione, pur diffondendosi con mille dettagli sulla storia del settimanale,

PROJECT NIMBUS

include il capitolo

MISSION OF THE EARTHMEN

e contiene anche la storia

‘Space Race’

HAWK BOOKS, 1994 96 pagine ISBN-13: 9780948248993

SOLID SPACE MYSTERY and Other Stories include i capitoli

THE PLATINUM PLANET THE EARTH STEALERS

HAWK BOOKS, 1995 128 pagine ISBN-13: 9781899441204

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GREEN NEMESIS, da ©SPACESHIP AWAY, volume #7, tavola #5

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non pare troppo ansioso di mettere in luce l’apporto fondamentale di Hampson; comunque, il volume propone alcune tavole da ‘Voyage to Venus’. Nel febbraio del 1977 la I.P.C. lancia il settimanale a fumetti 2000 A.D. infarcito di personaggi debordanti brutalità e cinismo, almeno uno dei quali, il beffardo Judge Dredd, diventerà poi celebre; il periodico contiene anche un sedicente Dare Dare, in realtà il violento clone degenere di quello vero, che il rigetto dei lettori condanna a una rapida fine. Nel 1979 la Dragon’s Dream, fondata dall’illustratore Roger Dean, pubblica il primo di tre volumi con la ristampa della trilogia ‘The man from Nowhere’. Il formato è ridotto rispetto a quello usato nella Eagle, ma offre tavole riprodotte al meglio; nel primo volume addirittura le vignette iniziali degli episodi sono ridisegnate da Harley su abbozzi di Hampson per cancellare il logo con l’aquila e rendere la narrazione più fluida; è un esperimento riuscito, che però non prosegue nei 2 volumi successivi, nei quali la rimozione del logo è ottenuta spostando o allargando arbitrariamente le vignette. La ristampa in verità non riscuote succes-

so e un annunciato quarto volume con ‘Safari in Space’ non vedrà mai la luce; ma la Dragon’s Dream fa in tempo a pubblicare anche una meravigliosa edizione di ‘The Road of Courage’. Qualcosa sta insomma cambiando nei riguardi del vero Dan Dare e di Hampson. Non però nelle teste dei dirigenti della I.P.C., che in varie occasioni esprimono giudizi sarcastici sulla Eagle e sull’opera dell’artista, definiti moralistici e ingenui. A riprova della loro ottusità, quando il produttore Lew Grade rende noto di volere dedicare una serie televisiva al personaggio (poi mai realizzata), si affrettano a mettere in cantiere una nuova Eagle, che esce nel 1982 proponendo oltre a orridi fotoromanzi a puntate pure le avventure di un bis-bis-bis-nipote di Dan Dare. Sebbene disegnate decentemente da Gerry Emberton, lasciano giustamente indifferenti i lettori, e la nuova rivista tira avanti alla meno peggio. Nel 1989 l’editore lascia finalmente perdere cloni aggressivi e remoti discendenti. Uno strillo in prima pagina annuncia infatti il ritorno di ‘The Original Dan Dare’. È una storia di 18 tavole in 6 puntate che finalmente

DARE: THE FINAL VOLUME

contiene i capitoli

ALL TREENS MUST DIE! THE MUSHROOM THE MOONSLEEPERS THE MENACE FROM JUPITER

e la storia

‘Operation Moss’

HAWK BOOKS, 1995 160 pagine ISBN-13: 9781899441259

DAN DARE #1

VIRGIN COMICS 1° novembre 2007

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DAN DARE #2

VIRGIN COMICS 2 dicembre 2007

DAN DARE #3

VIRGIN COMICS 3 gennaio 2008

si rifà senza vergognarsene al vero personaggio. Ben scritta e, soprattutto, ottimamente disegnata da Keith Watson, non sfigura con i lavori di Hampson. Purtroppo è solo una parentesi, perché poi riprendono le storie illeggibili. Quando quella Eagle chiude, nel 1994, nessuno rimpiange il bis-bis-bisnipote. Per fortuna è anche l’ultimo tentativo di ‘modernizzare’ il personaggio, perpetrato dagli editori che l’hanno affossato. Intanto, nel 1988, altra testimonianza del crescente interesse per il lavoro di Hampson e per il magazine che lo aveva ospitato, era nata la fanzine Eagle Times, pubblicata ancor oggi, un’imperdibile fonte di informazioni per gli appassionati. Nel 1990 la rivista Revolver pubblica Dare - The Controversial Memoir of Dan Dare, Pilot of the Future, miniserie in 8 puntate, poi raccolta in volume unico, scritta da Grant Morrison e disegnata da Rian Hughes. Narra di un Dan Dare in pensione che scopre cose orribili sul proprio governo, colluso col Mekon. Sebbene sia un’ottima storia, ben fatta e rispettosa dell’autore e del personaggio, vale più come pamphlet contro il liberismo

di Margaret Tatcher. Nel 2007-2008 è Garth Ennis a proporci una sua ipotesi su ciò che potrebbe essere accaduto al vero Dan Dare e all’Inghilterra dopo le avventure raccontate da Hampson. L’iconoclasta propensione all’eccesso dello sceneggiatore fa temere il peggio, ma la miniserie in 7 episodi Dan Dare è invece un ottimo lavoro, coinvolgente ed epico (notevoli le battaglie spaziali disegnate da Gary Erskine), che analizza la natura dell’eroe, descritto come la sintesi delle migliori aspirazioni etiche britanniche, quasi mai avveratesi nel corso della per lo più cupa storia dell’isola: un ritorno alle origini consapevole delle miserie dell’oggi. Oltre al Mekon, infatti, il nemico da battere è anche qui il capo del governo. C’è da augurarsi che l’opera di Ennis, pubblicata anche in Italia da Magic Press Edizioni, costituisca la riflessione definitiva, in termini di arte sequenziale, sul personaggio. Sarebbe infatti difficile dire di più e meglio. Un omaggio che mira alla mimesi è invece quello proposto a partire dal 2003 da Rod Barzilay con la fanzine Spaceship Away, una pubblicazione in splendidi colo-

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CRONOLOGIA

delle storie a fumetti di DAN DARE Capitoli della saga principale

Eagle 1950-1969 (vol/num)

PILOT OF THE FUTURE [VOYAGE TO VENUS] (da 1/1 a 2/25) THE RED MOON MYSTERY (da 2/26 a 3/11) MAROONED ON MERCURY (da 3/12 a 3/46) OPERATION SATURN (da 3/47 a 5/21) PRISONERS OF SPACE (da 5/22 a 6/18) THE MAN FROM NOWHERE (da 6/19 a 6/47) ROGUE PLANET (da 6/48 a 8/7) REIGN OF THE ROBOTS (da 8/8 a 9/4) THE SHIP THAT LIVED (da 9/5 a 9/16) THE PHANTOM FLEET (da 9/17 a 9/52) SAFARI IN SPACE (da 10/1 a 10/18) TERRA NOVA (da 10/19 a 10/40) TRIP TO TROUBLE (da 10/41 a 11/11) PROJECT NIMBUS (da 11/12 a 11/28) MISSION OF THE EARTHMEN (da 11/29 a 11/52) THE SOLID SPACE MYSTERY (da 11/53 a 12/23)

THE PLATINUM PLANET (da 12/24 a 12/47) THE EARTH STEALERS (da 12/48 a 13/9) OPERATION EARTHSAVERS (da 13/10 a 13/23) THE EVIL ONE (da 13/24 a 13/32) OPERATION FIREBALL (da 13/33 a 13/42) THE WEB OF FEAR (da 13/43 a 13/52) OPERATION DARK STAR (da 14/1 a 14/9) OPERATION TIME TRAP (da 14/10 a 14/38) THE WANDERING WORLD (da 14/39 a 15/13) THE BIG CITY CAPER (da 15/14 a 15/22) ALL TREENS MUST DIE (da 15/23 a 15/42) THE MUSHROOM (da 15/43 a 16/6) THE MOONSLEEPERS (da 16/7 a 16/29) THE SINGING SCOURGE (da 16/30 a 17/6) GIVE ME THE MOON (da 17/7 a 17/26) THE MENACE FROM JUPITER (da 17/27 a 18/1) UNDERWATER ATTACK (da 18/52 a 19/3)

Storie apparse negli Eagle Annuals 1951-1974 Senza titolo [MARS 1997] (Annual #1, 1951) MARS 1988 (Annual #2, 1952) THE DOUBLE HEADED EAGLE (Annual #3, 1953) OPERATION TRICERATOPS (Annual #4, 1954) OPERATION PLUM PUDDING (Annual #5, 1955) OPERATION SILENCE (Annual #6, 1956) SPACE RACE (Annual #7, 1957) OPERATION MOSS (Annual #8, 1958) THE VANISHING SCIENTISTS (Annual #9, 1959) MOON RUN (Annual #10/1961) [1960] THE SOLID GOLD ASTEROID (Annual 1962) [1961] THE ROBOCRABS (Annual 1963) [1962] OPERATION CRUSOE (Annual 1964) [1963]

MARCH OF THE ANTS e FIRE IN THE SKY (Annual 1965) [1964] SPACE ROCKS (Annual 1966) [1965] THE MEN FROM S.T.E.A.L. (Annual 1967) [1966] THE UNSEEN ENEMY (Annual 1968) [1967] THE MOON-EATERS (Annual 1969) [1968] THE WORLD OF THOUGHT (Annual 1970) [1969] THE FUNFAIR OF DEATH (Annual 1971) [1970] THE MEKON MENACE (Annual 1972) [1971] THE PLANET OF PERIL (Annual 1973) [1972] THE SPACE POACHERS (Annual 1974) [1973] Senza titolo (Annual 1975)

Altre storie apparse nel periodo 1950-1975 SPACESHIP AWAY (ABC Film Review, ottobre 1952) DAN AND DONANZA e DIGBY - THE GUINEA PIG (Dan Dare’s Spacebook, 1953) THE PLANULID e THE PLANET OF SHADOWS (Dare Dare’s Space Annual 1963)

MISSION TO THE STARS (Sunday People dal 20/04/1964 al 04/10/1964) PERIL FROM OUTER SPACE (Eagle Summer Special, 1966)

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Storie 2000 A.D. 1977-1979/1997 DAN DARE (2000 A.D. 1-11) HOLLOW WORLD (2000 A.D. 12-23) [Ciclo THE LOST WORLDS, 2000 A.D. 28-118] LEGION (2000 A.D. 28-33) GREENWORLD (2000 A.D. 34-35) STAR SLAYER (2000 A.D. 36-51) DOPPELGANGER (2000 A.D. 52-55) WATERWORLD (2000 A.D. 56-60) NIGHTMARE PLANET (2000 A.D. 61-63) ICE WOLRD (2000 A.D. 64-66) GARDEN OF EDEN (2000 A.D. 67-72) MUTINY! (2000 A.D. 73-78) THE DOOMSDAY MACHINE (2000 A.D. 79-85) [Ciclo] SERVANT OF EVIL! (2000 A.D. 100-107 [118]) ATTACK ON ETERNIUM! (2000 A.D. 109-118) TRAITOR (2000 A.D. 119-126)

Senza titolo (2000 A.D. Summer Special, 1977) THE CURSE OF MYTAX (2000 A.D. Annual 1978) [1977] VISCO (2000 A.D. Sci-Fi Special, 1978) Senza titolo (2000 A.D. Annual 1979) [1978] Senza titolo 1 e 2 (Dan Dare Annual 1979) [1978] THE PLANET OF FROZEN FEAR (2000 A.D. Sci-Fi Special, 1979) Senza titolo (2000 A.D. Annual 1980) [1979] Senza titolo (Dan Dare Annual 1980) [1979] DARE [DARE: THE FUTURE] [DARE - THE CONTORVERSIAL MEMOIR...] (Revolver, 7 parti + Crisis, 1 parte, 1190) THE RETURN OF DAN DARE (3000 A.D., supplemento 2000 A.D. 1034, 1997)

La nuova EAGLE 1982-1994 RETURN OF THE MEKON (1-33) THE DARE REPORT (34-38) FIREFLIGHT (39-54) YOUNG DARE (55-73) THE BATTLE FOR EARTH (74-83) THE TIMADS (84-93) PRISONERS OF SPACE (94-116) RENAGOL (117-130) PLEASURE PLANET (131-155) MINEFIELD (156-158) THE FLESH EATERS (159-172) THE ANIMAL ARMY (173-187) THE BUBBLE (188-199) THE CRYSTAL SPORES (200-209) THE TWO DAN DARES (210-229) DARGATH, PRINCE OF EVIL (230-258) MISSION OF THE MYTHEREONS (259-267) GALACTIC MARSHAL (268-298) ROBOT RIOT (299-305) DRAKKEN (306-353) RESIGNATION (354-386) TOXIC (388-393) ROGUE ROBOT (394-395) JOURNEY TO THE SPACE VILLAGE (396-406) MONGRAL (407-410) POWER STORM (411-416) CADETS (417-422) NIGHTMARE MACHINES (423-428)

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THE KREUN (429-430) THE KULGAN THREAT (431-435) PLAGUE OF THE NITRAX (436-441) BEAUTY CONTEST (442-447) DESTINATION UNKNOWN (448-455) MUTATION (456-461) JUNK SHIP (462-467) THE CIRCUS (468-473) DOG STAR (474-488) BRAINWASHED (489-505) MENACE OF THE MEKON (Eagle Annual 1983) Senza titolo 1 e 2 (Eagle Annual 1984) Senza titolo (Eagle Annual 1985) Senza titolo (Eagle Annual 1986) Senza titolo (Eagle Annual 1987) Senza titolo (Dan Dare Annual 1987) Senza titolo (Eagle Annual 1988) Senza titolo (Eagle Annual 1989) Senza titolo (Eagle Annual 1990) GALACTIC COLLECTOR e VOLCANO (Dan Dare Holiday Special, 1990) Senza titolo Warspite (Eagle Annual 1991) Senza titolo (Dan Dare Annual 1991) THE THRAGANS e DIGBY (Dan Dare Holiday Special, 1991) COSMIC COLD e DEATH RAY (Eagle Yearbook 1992)


ri spedita tre volte all’anno solo agli abbonati. Agli inizi imperniata su storie di Dan Dare, disegnate da Keith Watson e, dopo la sua morte, da Don Harley, oggi propone anche altri personaggi, tra cui Hal Starr del veterano Sydney Jordan. Lo scopo, raggiunto, è ricreare la Eagle degli anni migliori. All’inizio di ogni episodio appare quindi il logo con l’aquila, e la continuity e i dettagli contestuali della saga sono rispettati scrupolosamente. Hampson l’avrebbe di certo apprezzata… ma purtroppo la sua vita è giunta da molti anni a un penoso epilogo. Nel 1982 un colpo apoplettico lo priva dell’uso della parola e degli arti. In seguito recupera la parola, ma resta confinato su una sedia a rotelle. Prosegue gli studi, deciso a diventare finalmente Master of Art, l’ennesima toccante dimostrazione di una indefettibile dedizione all’arte. L’8 luglio 1985, all’età di 67 anni, muore per un attacco cardiaco. Dorothy si trasferisce in un’altra casa e tutto l’archivio dei riferimenti finisce nell’immondizia! Se fosse vissuto poche altre settimane, l’artista avrebbe avuto almeno la gioia di vedere pubblicata la sua bio-

grafia The Man who Drew Tomorrow scritta con competenza e affetto da Alastair Crompton, che costituisce l’inizio della riscoperta della sua opera. È infatti del 1987 l’uscita di Dan Dare, Pilot of the Future per la Hawk Books, il primo volume di una deluxe edition che propone nel formato originale tutto il Dan Dare di Hampson, Bellamy e Harley e buona parte di quello di Watson. Trascurando l’assenza di apparati critici e il fatto che alcune tavole degli inizi sono riprodotte in modo insoddisfacente, data l’indisponibilità degli originali, i 12 volumi della serie, completata nel 1995, sono quanto di meglio si è visto in relazione a Dan Dare. La Hawk stampa anche un prezioso The Dan Dare Dossier ricco di dati e materiale altrimenti introvabile. Nel nuovo secolo è la Titan Books a riproporre, dal 2004, la ristampa della saga. Il formato è ridotto e le prime tavole conservano i difetti dell’edizione Hawk, ma gli apparati critici sono notevoli (tra l’altro, possiamo leggere una lunga intervista concessa da Hampson ad Alan Vince nel 1974 mai pubblicata prima). Nel complesso, sono volumi raccomandabili.

Altre pubblicazioni REMEMBRANCE (The Planet, 1996) DAN DARE IN SOMERSET (The Stacks, 1998) PROJECT PLUTO (Daily World Post + Spaceship Away) DAN DARE (7 volumi, Virgin Comics, 2007-2008)

SPACESHIP AWAY #31

SPACESHIP AWAY THE PHOENIX MISSION (#1-4) SPACEMAN DIGBY’S AFTER DINNER DREAM! (#2) PROJECT PLUTO (#2-7 in pausa) GREEN NEMESIS (#4-22) DAN DIRE (parodia #5-19) ALL CHANGE (#5-7 storia illustrata) THE GATES OF EDEN (#9-21) PARSECULAR TALES (#22-in corso) PLANET ON SUNDAY’S DAN DARE (#22) PRE-EMPTIVE STRIKE (#23-26) DIGBY’S BAD DREAM (#24) MISSILES & MISTLETOE (#25) DAN & DIGBY’S HAPPY LANDING (#25)

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Il DAN DARE di Erskine/Ennis, 2 tavole dal vol. #1, versione italiana ŠMAGIC PRESS

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DAN DARE #4

VIRGIN COMICS 4 febbraio 2008

DAN DARE #5

VIRGIN COMICS 5 marzo 2008

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Restano infine da ricordare i tre giochi per computer ispirati a Dan Dare apparsi alla fine degli anni ’80, e una serie televisiva di animazione in CG del 2002, dignitosa ma priva di qualunque fascino. Del resto, trasporre sullo schermo l’eroe e il suo mondo è impresa che solo un regista di grande talento e versatilità potrebbe tentare. Non dispiace troppo quindi che le voci su un film interpretato dal Sam Worthington di Avatar circolate nel 2010 non abbiano per ora avuto seguito. Forse Hampson si stupirebbe nel vedere quanta importanza si dà oggi al suo lavoro. Le sue 1000 e più tavole originali – opportunamente svanite dagli archivi dell’I.P.C. per poi riapparire in vendita nelle aste di Christie’s – valgono migliaia di sterline e sono oggetto di studio nelle scuole d’arte. E noti architetti e designer inglesi ammettono di ispirarsi ai suoi disegni. Ma sono tanti i personaggi celebri che dichiarano un debito di riconoscenza verso Dan Dare. Per tutti, valga la risposta che Stephen Hawking ha dato a chi gli ha chiesto in che modo lo ha influenzato il personaggio: “Why am I in cosmology?”.

A proposito di influenze, ce n’è una, curiosa, che risale al 1964, quando Stanley Kubrick inizia le riprese di 2001: Odissea nello Spazio. Al suo fianco, in qualità di sceneggiatore, c’è Arthur C. Clarke. Il regista, perfezionista maniacale, legge e consulta tutto ciò che può servirgli per il film. In una delle scene più celebri, vediamo l’hostess della navetta PanAm camminare in assenza di gravità lungo i 360° di una parete circolare: una scena simile si vede anche nella prima vignetta della puntata di Dan Dare del 19 maggio 1950. E c’è un’altra, più sorprendente, somiglianza: la sequenza più nota e celebrata del film è quella in cui la scimmia assassina getta in alto l’osso che poi diventa un’astronave. Clarke scrive che nessuno sa come sia venuta l’idea a Kubrick. Ebbene, nell’Eagle Annual 1963 è presente una breve storia di Dare (‘The Robocrabs’) disegnata quasi certamente da Harley e forse sceneggiata da David Motton, in cui, nella quarta vignetta della prima tavola, c’è il disegno di un selce scheggiata sovrapposta a un satellite artificiale, sullo sfondo dello spazio. La didascalia dice: “…mentre sulla Terra l’umanità progredisce


Bibliografia Articoli e interviste

Libri

Sufferin’ satellites, the Comic is dead… di John Windsor, The Indipendent, 06/03/1993;

The man who Drew Tomorrow: how Frank Hampson created Dan Dare, the World’s Best Comic Strip di Alastair Crompton, Who Dares Publishing, 1985, ISBN-13: 9780948487019;

An Interview with Frank Hampson di Alan Vince, 1993, in 4 parti, nei volumi Voyage to Venus 2, The Red Moon Mystery, Marooned on Mercury, Operation Saturn 1, Titan Books; Dan Dare conquers the art market di Tim Bowler, BBC News, 29/12/2005; Sufferin’ satellites! We’ve built the future! di Jonathan Glancey, The Guardian, 28/04/2008; Dan’s back, with extra muscle di Michael Pilgrim, The Observer, 30/06/2002; Dan Dare ‘Inspired UK innovation’ di Andrew Webb, BBC News, 01/05/2008;

Siti

EAGLE TIMES eagle-times.blogspot.it SPACESHIP AWAY spaceshipaway.org.uk BARNEY www.2000ad.org

dagli strumenti di pietra alla tecnologia spaziale”. Difficile credere che si tratti solo di una coincidenza. Frank Hampson non è stato solo l’autore di un fumetto di straordinaria bellezza e non è per un capriccio del caso che la sua fama, lungi dallo svanire, sia anzi aumen-

The Best of Eagle di Marcus Morris, Michael Joseph and Ebury Press, 22 agosto 1977, ISBN-13: 9780718115661; Living with Eagles di Sally Morris e Jan Hallwood, The Lutterworth Press, 1998, ISBN-13: 9780718829827;

DAN DARE #6

VIRGIN COMICS 6 maggio 2008

The Eagle Annual of the Cutaways Daniel Tatarsky, Orion Books, 2008, ISBN-13: 978-1409100140; The Dan Dare Dossier Norman Wright e Mike Higgs, Hawk Books, 1990, ISBN-13: 9780948248122

TITAN BOOKS titanbooks.com MAGIC PRESS EDIZIONI www.magicpressedizioni.it THE LOST CHARACTERS OF FRANK HAMPSON www.frankhampson.co.uk

tata nel tempo, alimentata dall’entusiasmo di coloro che sono cresciuti leggendo le sue opere, molti dei quali sono oggi artisti, ingegneri, architetti, scienziati… I suoi intenti – promuovere speranza, amore per il bello, comprensione, curiosità – si sono pienamente realizzati.

DAN DARE #7

VIRGIN COMICS 7 luglio 2008

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Art FOLIO

Vestendo parole

eSUGGESTIONI

FANTASY

di ELISA FAVI

“A poco a poco ho scoperto il mondo fantasy, e ora sono costantemente immerso in immagini di draghi, mostri, eroi con le spade e reami fatati.”

C

HI NON HA MAI VISTO almeno una delle magnifiche copertine dei libri della saga Cronache del Mondo Emerso, editi da Mondadori, alzi una mano. Donne magiche, aliene, esotiche, ultraterrene, avvolte da una selva di colori e luce, che da sole trasmettono tutta la meraviglia di un mondo fantastico. Sì, Paolo Barbieri, mantovano, classe 1971, deve la sua fama alla realizzazione di queste straordinarie copertine, ma credo che anche i libri di cui stiamo parlando debbano molto all’incredibile ve-

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ste grafica che Paolo ha confezionato e che li ha resi immediatamente riconoscibili in qualsiasi libreria. Quella di riuscire a legare in maniera così indissolubile uno stile artistico a una produzione editoriale è una capacità che solo con l’esperienza e la passione è possibile sviluppare. Paolo ha lavorato alle copertine di svariati autori famosi, come Desmond Bagley, Marion Zimmer Bradley, Bernard Cornwell, Michael Crichton, Clive Cussler, Umberto Eco, Cornelia Funke, Lian Hearn, Ursula K. Le Guin, Sergej Luk’Janenko, George R. R.


FAVOLE DEGLI DEI

MONDADORI, 2011 132 pagine ISBN-13: 9788804613305

L’INFERNO DI DANTE

illustrato da Paolo Barbieri

MONDADORI, 2012 116 pagine ISBN-13: 9788804625179

Martin, Wilbur Smith e tanti altri. La sua passione per il disegno nasce in connubio con quella per la Fantascienza classica e d’animazione, fatta di robottoni ed esplorazioni spaziali. Paolo ricorda spesso come il soggetto preferito per i suoi primi disegni giovanili sia stato il cartone animato Atlas Ufo Robot. Poi, con gli anni, ecco crescere anche l’amore per il Fantasy. Al suo lavoro di copertinista si affianca una consistente

produzione personale, che gli ha permesso di pubblicare con Mondadori vari libri illustrati; nel suo curriculum artistico spicca inoltre l’importante partecipazione alla realizzazione del lungometraggio animato Aida degli Alberi, una delicata favola ecologista ispirata all’Aida di Giuseppe Verdi e musicata da Ennio Morricone. Di tutto ciò e di altro ancora, l’autore ci parlerà nell’intervista che segue, gentilmente rilasciata per il nostro Magazine.

L’INFERNO DI DANTE

illustrato da Paolo Barbieri

MONDADORI, 2013 106 pagine ISBN-13: 9788804633808

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Intervista a

Paolo Barbieri Ciao Paolo, benvenuto in Terre di Confine! La prima cosa che ci piacerebbe sapere è come sia avvenuto il tuo passaggio dalle tecniche di disegno tradizionali a quelle digitali: se sia stato dettato da esigenze lavorative, o semplicemente dalla curiosità di provare nuove strade. E torni mai a usare l’aerografo? In realtà non ho utilizzato molto l’aerografo, una tecnica che ho imparato mentre frequentavo il biennio in un’accademia milanese, ma che mi ha annoiato piuttosto rapidamente. Io volevo realizzare disegni con colori stesi con pennelli su carta o tela, in modo da ottenere una colorazione più spontanea e immediata, e con l’aerografo, che si avvale delle mascherature, questo non è quasi mai possibile. Per un certo periodo ho dipinto adoperando i pennelli per gli oggetti in primo piano dopo aver eseguito i fondali con l’aeropenna, ma ben presto ho abbandonato quasi completamente questo strumento per poter utilizzare in libertà colori ad olio, acquerelli, acrilici, gessetti e matite. Nel mio lavoro il computer è arrivato verso la fine nel 2005, e mi sono serviti alcuni mesi per riuscire a impadronirmene. Ho semplicemente voluto provare la nuova tecnologia, che mi ha subito entusiasmato. La colorazione digitale mi ha consentito una maggiore velocità di esecuzione e correzione, e soprattutto mi ha

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CAVALIERE ROSSO (GUERRA) tratto da APOCALISSE ©PAOLO BARBIERI, MONDADORI


copertina de

IL DRAGO DI GHIACCIO

©PAOLO BARBIERI, MONDADORI

permesso di sperimentare all’infinito, per poter evolvere il mio stile in più direzioni. Per concludere, direi di no, non utilizzo più l’aerografo. A volte torno a lavorare con i metodi classici, ma usando matite o pennelli.

copertina de

I REGNI DI NASHIRA

Ci parli della tua esperienza nel campo dell’animazione? Nel 2001 ho lavorato per il cartone animato Aida degli Alberi, regia di Guido Manuli e prodotto da Lanterna Magica. È stato l’art director del lungometraggio, Victor Togliani, che già conoscevo, a contattarmi per colorare le scenografie ‘chiave’. In pratica, le scenografie principali realizzate al tratto seguendo le matite di Togliani mi venivano passate; io le coloravo attenendomi alle indicazioni del regista, e queste illustrazioni, a loro volta, servi-

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©PAOLO BARBIERI, MONDADORI

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copertina di

LEGGENDE DEL MONDO EMERSO Trilogia ©PAOLO BARBIERI MONDADORI

TESTA DI DRAGO

©PAOLO BARBIERI

copertina de

LA PRINCIPESSA DI LANDOVER

©PAOLO BARBIERI MONDADORI

OROLOGI SENZA TEMPO

©PAOLO BARBIERI

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vano a tutti gli scenografi impiegati (italiani, europei e coreani) per dipingere il resto delle scenografie. Ho lavorato tre mesi a Seul proprio per dirigere gli scenografi coreani, continuando nella realizzazione dei cosiddetti key background. Sei diventato anche autore di libri illustrati, sono stati progetti che hai portato avanti da solo o hai avuto una richiesta da parte della Casa Editrice? Ne seguiranno altri? Dopo alcuni anni di collaborazione, con Mondadori si era spesso ventilata l’idea di poter realizzare un libro illustrato a tema fantasy. Fu così che nel 2008 venne alla luce Creature del Mondo Emerso, basato sulla prima trilogia della scrittrice romana Licia Troisi. Di seguito eseguii il mio secondo libro illustrato basato sulla seconda trilogia della Troisi, e intitolato Guerre del Mondo Emerso - Guerrieri e Creature (Mondadori, 2010). L’apprezzamento del pubblico per il mio lavoro fu tale che, con la casa editrice, decidemmo di realizzare il mio primo progetto per così dire da ‘solista’, intitolato Favole degli Dei (Mondadori, 2011), in cui, oltre a disegnare le illustrazioni, ho scritto anche i testi. In questo libro ho reinterpretato gli Dei e le creature dell’affascinante mitologia greca. Nel 2012, sempre per Mondadori, è uscito L’Inferno di Dante illustrato da Paolo Barbieri; inutile dire quanto sia stato importante ed emozionante per me confrontarmi con una delle opere letterarie più importanti di tutti i tempi. L’ultimo mio lavoro arrivato in libreria

è Apocalisse illustrata da Paolo Barbieri (Mondadori, 2013), in cui ho cercato di evolvere il mio stile verso un’arte più simbolica e metafisica, ma senza dimenticare la mia ‘classica’ base fantasy. Quanta importanza riveste nella tua attività la presenza in rete? Consideri Internet un canale di divulgazione indispensabile per i tuoi lavori? Si, oggi Internet, anche grazie all’immediatezza dei social network, è uno strumento molto importante. Il passaparola per il mio lavoro non deriva però solo dalla rete: anche i libri cartacei svolgono una funzione fondamentale perché consentono ai lettori di osservare le illustrazioni in grande formato e con una stampa ben definita. Occorre inoltre considerare il fatto che il mio lavoro come illustratore è iniziato nel 2006, e tanti anni di copertine e poi di libri illustrati sono sicuramente serviti per farmi conoscere a più livelli. Quale è stato il lavoro più complicato, travagliato e frustrante che ti sia mai capitato di svolgere durante la carriera da illustratore? Ho sempre voluto disegnare Fantasy e Fantascienza, ma all’inizio della mia carriera non è stato possibile. Probabilmente uno dei momenti peggiori è stato quando, alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, un editor piuttosto importante mi disse che con illustrazioni di quel tipo per me sarebbe stato impossibile lavorare in Italia. Ora che ci penso quella fu una bella mazzata dal punto di vista emotivo. Diciamo che in seguito non mi sono mai

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arreso e, anche quando ho affrontato lavori per così dire ‘noiosi’, ho sempre preteso di migliorarmi per poter accumulare esperienza da poter poi sfruttare quando fossero giunti momenti più interessanti, che poi in effetti sono arrivati. Sei noto al grande pubblico come autore di copertine di libri, e ho letto un’intervista in cui parlavi del processo di produzione: ci sono regole particolari a cui una copertina deve attenersi rispetto a un’illustrazione libera? La copertina di quale opera avresti voluto ti fosse affidata? Io di solito non seguo regole precise. A volte faccio lo schizzo su carta, a volte direttamente in digitale, e in altri momenti inizio col colore, come se eseguissi una tela impressionista. Il mio istinto la fa da padrone e, non avendo mai seguito corsi particolari, il mio spirito da autodidatta sceglie spesso strade libere. I procedimenti che posso seguire sono vari, che si tratti di copertina, disegno libero o immagine per un libro illustrato. Nei libri illustrati la casa editrice mi concede sempre grande libertà. Nelle copertine il procedimento varia a seconda delle richieste, che possono essere più o meno specifiche. Non bisogna infatti dimenticare che nel mio lavoro è necessario soddisfare le richieste dei committenti, quindi la mia interpretazione di un soggetto deve essere approvata da più persone. La copertina che avrei voluto realizzare? Domanda difficile. Scegliere un solo libro mi è impossibile. Riassumendo direi Il Signore degli Anelli, le opere di Lovecraft, Dune di Frank Herbert, la serie della Fondazione di Asimov, e tante altre.

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THE WITCH

©PAOLO BARBIERI


copertina de

IL SANTUARIO DELLE TENEBRE

©PAOLO BARBIERI, MONDADORI

copertina de

LA DANZA DEI DRAGHI

©PAOLO BARBIERI, MONDADORI

Quale è il tuo rapporto con i fumetti? Sia da lettore che da eventuale autore. Hai mai avuto desiderio di disegnarne uno, o può essere questo un tuo progetto per il futuro? A essere sincero non sono mai stato un gran lettore di fumetti. Avevo preso i primi 100 numeri di Dylan Dog che divoravo in treno quando frequentavo l’accademia a Milano. Poco dopo mi sono lasciato incantare da Spawn di McFarlane, ma poi ho lasciato perdere. Adoro Gea e Lilith di Luca Enoch, e da piccolo avevo numeri sparsi di Topolino, I Fantastici Quattro, L’Uomo Ragno, Tv Junior, libri illustrati dei cartoni giapponesi come Mazinga Z e Capitan Harlock, Metal Hurlant e altro ancora. Il fumetto mi piace molto per questioni narrative e ‘tecniche’, ma alla fine ho sempre preferito l’illustrazione da copertina (o da libri illustrati), perché mi avrebbe comunque consentito di rinnovare in continuazione sia il mio percorso artistico sia i soggetti da visualizzare. Detto in soldoni, quando vidi per la prima volta le opere di Hans Ruedi Giger, Frank Frazetta, Rodney Matthews, Chriss Foss, Gerald Brom e tanti altri illustratori rimasi a bocca aperta, e in un certo senso fu allora che capii quale sarebbe stato il mio percorso. Un percorso che, siamo certi, riserverà ancora molte soddisfazioni. Ringraziamo Paolo per la sua disponibilità e diamo a tutti i lettori appuntamento in libreria, per continuare ad ammirare le sue splendide realizzazioni.

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TERRE DI

CONFINE

SEZIONE ANTOLOGICA

WWW.PLESIOEDITORE.IT

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N. 2 APRILE

2014

ASMODEO

di ©PAOLO BARBIERI www.paolobarbieriart.com


Sei un di tale narratore nto? In o un di COME v iaci la segnat SI INVIANO t ore ua ope RACCONTI E a n c h e tu al FUMETTI PER LA r la rivis a! Partecip SEZIONE ANTOLOGICA? a ta!!! 1. GENERI Terre di Confine riceve e valuta per la pubblicazione in rivista tutte le storie contenenti elementi fantastici e/o fantascientifici; quindi, a titolo indicativo: Fantascienza, Fantasy, Fantastico in generale, ma anche Horror, Gotico, Avventura, Epica, Giallo, Thriller, Distopico, Umoristico, Mistery ecc., se caratterizzati da ben riconoscibili connotati o ambientazioni o argomenti rientranti nella definizione di cui sopra. Attinenti possono essere temi come il soprannaturale, il surreale, lo strano, il perturbante, la tecnologia, il mistero, la magia, la mitologia ecc. Nel caso di opere borderline, è la Redazione a valutarne di volta in volta la pertinenza.

2. OPERE AMMESSE E DIRITTI La sezione antologica propone racconti e fumetti selezionati. Non ci sono limiti di lunghezza: eventuali opere lunghe possono essere suddivise in puntate; se ritenute eccessivamente corpose* per la pubblicazione in rivista, vengono comunque sottoposte all’attenzione dell’editore Plesio per altri possibili sviluppi editoriali. Riassumendo, esaminiamo con piacere e passione: a) racconti, *romanzi, fiabe (in lingua italiana); b) fumetti autoconclusivi o a puntate, graphic novel (in lingue italiana, ingle154

se, francese, tedesca, spagnola). Le opere possono essere sia inedite che edite, purché gli autori garantiscano il possesso dei diritti e siano pertanto in grado di autorizzare la pubblicazione a titolo gratuito. I diritti resteranno in ogni caso proprietà dei concedenti. La rivista ha finalità culturali e divulgative, nessun contributo (monetario o di qualsiasi altro genere) verrà mai chiesto all’autore da Terre di Confine per la pubblicazione. La rivista s’impegna a preservare (o migliorare, in accordo con gli autori) l’integrità artistica delle opere, e a valorizzarle in tutte le maniere compatibili con le proprie risorse tecniche ed economiche. 3. MODALITÀ DI INVIO Le opere possono essere trasmesse via e-mail a selezione@terrediconfine.eu sotto forma di allegati o come link a file scaricabili dalla rete. CONTATTI Per ogni domanda o informazione, restiamo a disposizione agli indirizzi redazionali: www.terrediconfine.net www.terrediconfine.eu redazione@terrediconfine.eu


IL TRADIMENTO DI PELLEGRINO

di ©CLAUDIA GIULIANI claudiagiuliani.blogspot.it

IL

BENANDANTE di GIANFRANCO SHERWOOD

U

na fiaba friulana ripresa da Italo Calvino narra di due amici che si giurano d’essere compari d’anello. Alla morte dell’uno, l’altro, prossimo al matrimonio, lo evoca dalla tomba e, durante il banchetto nuziale, gli domanda dell’aldilà. «Vieni con me» è la risposta del morto «e ti farò conoscere i luoghi del Paradiso.» Lo sposo accetta, ma quando torna sulla terra scopre che nel frattempo sono passati molti anni e la sua storia è ormai leggenda. Gli chiedono di narrare cos’ha visto nel suo viaggio, e lui cade morto. I benandanti e Domenico Scandella sono realmente esistiti. Le loro amare vicende sono state sottratte all’oblio da Carlo Ginzburg.

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* * *

P

ellegrino Gasparutto ebbe il destino segnato nell’attimo che uscì dalla pancia di sua madre. «È nato con la camicia!» esclamò la levatrice prima di togliergli la membrana amniotica, che fu messa da parte per essere battezzata con lui. Fu quindi inevitabile che, al compimento dei suoi vent’anni, lo chiamassero i benandanti. Accadde in un giorno di fine estate del 1575. Dall’alba stava voltando il fieno in un campo di padron Bartolo, ai margini di Meduno, paese situato nella parte di Friuli rimasta a Venezia dopo la guerra con l’Austria. A Pellegrino, solo al mondo dopo aver perso i genitori nella pestilenza dell’anno precedente, per campare non sarebbero bastati i magri campi lasciatigli dai suoi; doveva perciò lavorare anche la terra degli altri. Ma i suoi giorni, gravati anche dai debiti contratti con il parroco don Jacopo, restavano miseri e ignari di speranza. Sul finire della giornata di fatica, interrotta solo il tempo necessario per mandar giù un boccone di pane, si apprestava a falciare qualche bracciata di foraggio per la sua stalla, quando sulla campagna calò improvviso il silenzio. Tacevano gli stridii degli insetti, muti si erano fatti gli uccelli, persino le fronde degli alberi parevano come fissate dal gelo. Pellegrino colse con la coda dell’occhio un movimento furtivo. Posò la falce e si sporse oltre il muretto a secco che recintava il campo, certo di sorprendere qualche monello in vena di scherzi, ma non vide nessuno. Lo invase una sottile inquietudine. Ora, persino la luce del tardo pomeriggio gli pareva offuscata da un velo. Di colpo, come a un segnale, le cicale ripresero a frinire. Pellegrino scosse la testa, poi levò la cote dal corno di bue e affilò la falce, alternando due lente passate per lato. Alla fine provò la lama con il pollice e cominciò a tagliare, concentrato sul movimento delle spalle robuste; ma un rumore aspro lo fece trasalire: la punta della falce si era spezzata e c’era un sasso accanto al frammento lucente. Pellegrino conosceva ogni palmo del campo eppure non aveva mai visto prima quella pietra maligna. Levò il pugno al cielo già striato dai colori del crepuscolo e imprecò. In quel momento arrivò un giovane che sorrise vedendolo inginocchiato. Era il suo amico fraterno Pietro Rotaro. Nato anche lui

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con la camicia, già da alcune stagioni comandava la compagnia dei benandanti di Meduno. «Amen, Pellegrino» disse allegro. «Hai un modo curioso di recitare le orazioni. Ti si sente bestemmiare a cento passi di distanza.» Pellegrino tese le braccia, mostrando la punta della falce e la pietra, e spiegò cosa gli era capitato. «Sfortuna maledetta» concluse con voce rotta. «Sempre e solo quella, nella mia vita.» Pietro si fece serio. «Fratello, forse la tua non è solo mala sorte. Ti cercavo perché ho qualcosa da dirti, in merito.» Pellegrino infilò le corregge della gerla, appoggiò falce e forcone sulla spalla e si avviò insieme all’amico verso il paese. Fecero un tratto in silenzio, mentre nell’aria si diffondeva il suono delle campane dell’Ave Maria, poi Pietro disse: «Hai compiuto vent’anni, l’età in cui i nati con la camicia si fanno benandanti. È tempo che tu ti unisca a noi.» «Ne avevamo già parlato» replicò cauto Pellegrino. «Allora ti dissi che ci volevo pensare. Non ho ancora deciso.» «Non c’è nulla da decidere, è il tuo destino. Certo, potresti far finta di nulla e tentare l’esistenza di tutti, noi benandanti lo accetteremmo, ma… gli Altri? Per loro, che tu lo voglia o no, sei già un nemico. Perciò ti dico: attento, Pellegrino, lo sbilfone è sulle tue tracce. O credi che le disgrazie della tua vita vengano solo dal caso?» Pellegrino fece per rispondere, ma vide Maria, china sulla fontana. Lei colse la sua occhiata, prima di voltare la testa, poi sollevò il bilanciere con i ramaioli pieni d’acqua e si avviò. Pietro sorrise allo sguardo intenerito dell’amico. «Le hai già parlato?» chiese. «A che servirebbe?» rispose amaro Pellegrino. «Maria è l’unica figlia del Veneziano, mentre io sono soltanto un disgraziato a giornata da suo padre.» «Sia pure, ma dai suoi occhi capisco che lei ti ricambia.» «Bastasse questo! Padron Bartolo Bonacelli si è fatto ricco col commercio del legname, io invece…» «Sì, lo so, sei solo un disgraziato. Ma vedo che Maria ha rallentato. Se ti sbrighi, puoi augurarle la buona sera.» Pietro lo sospinse. «Vai, prima che ti incoraggi con una pedata.» Pellegrinò si affrettò a raggiungere la ragazza. Ben fatta, bionda, con gli occhi azzurri e le guance vermiglie, l’aveva amata dalla prima volta che l’aveva vista in chiesa. «Buona sera, Maria» disse impacciato. «Posso aiutarvi?»

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Lei si fece ancora più rossa in viso. «No» mormorò, lo sguardo fisso davanti a sé. «Grazie, Pellegrino» aggiunse. Il suono del suo nome dalle labbra di lei lo illanguidì. «Permettetemi almeno di accompagnarvi a casa.» «Come volete, la strada è di tutti.» Proseguirono, timidi e muti, tra le mura del borgo sino al portone aperto sul cortile dei Bonacelli, ed entrarono nell’ombra del portico. Uno sciame di galline dava le ultime beccate nell’aia e i cani sonnecchiavano tra le cataste di legna. Davanti a una porta da cui giungevano voci e rumori di cucina, attendeva Bartolo Bonacelli. Era un uomo ormai maturo, di solide membra e carattere imperioso. Fece cenno a Maria di entrare in casa, poi porse un fagotto a Pellegrino. «Tieni, per la tua giornata» fece brusco. Pellegrino prese l’involto. «Grazie, padron Bartolo» disse, ed esitò. «Che c’è ancora?» «C’è che ho rotto la falce su una pietra del vostro campo. La dovrò portare dal magnano, e dato che non ho i soldi e che è successo mentre lavoravo per voi, mi chiedevo se voi…» «No!» tagliò corto il Veneziano. «Hai già avuto quanto pattuito. Non è colpa mia se sei stato malaccorto.» Pellegrino chinò la testa e fece per andarsene. «E un’altra cosa…» aggiunse l’altro. «Bada a tenere le tue mani di pezzente lontano da mia figlia o te ne farò pentire.» Pellegrino si irrigidì e fissò rabbioso il Veneziano. «Fratello!» lo chiamò Pietro dal portone. «Vieni via, non è la sera giusta per questi ragionamenti.» Bartolo lo fissò di scatto. «Giusto voi! Ho da dirvi una parola.» Pietro uscì dall’ombra e sostenne con fermezza lo sguardo ostile dell’altro. «Sono a vostra disposizione.» «Corre voce che l’inquisitore di Aquileia abbia interrogato un benandante di Giàssico» disse Bartolo. «Voi che avete da dire a riguardo?» «Che è storia vecchia. Come il fatto che l’ha lasciato andare senza infliggergli alcuna pena.» «Carne e sangue!» imprecò il Veneziano, e i cani levarono brontolando la testa. «Vi rendete conto che ora sa di voi? Quanto credete impiegherà ad arrivare anche qui? Ci volete tutti nelle mani del Sant’Uffizio?» Pietro scrollò le spalle. «Quelli vanno a caccia di seguaci del diavolo e luterani. Noi siamo benandanti.»

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«E per l’Inquisizione dove starebbe la differenza, di grazia?» replicò sarcastico Bartolo. «Nel semplice fatto che noi non facciamo nulla di male. Voi siete un uomo cocciuto. Venite dalla città, è vero, e agli inizi non potevate sapere quale battaglia si combatte qui e contro quali nemici, ma dopo tanti anni pensavo che ormai vi fosse almeno chiaro che i benandanti difendono i raccolti dai malefici delle streghe.» «Streghe? Malefici? Scempiaggini! È il lavoro dei contadini, con il sole e l’acqua che Dio manda, a fare prosperare i raccolti. Quando capirete che una palata di letame vale più di tutte le vostre magie?» «Come vi pare. Ma noi continueremo a difendere i nostri campi, vi piaccia o non vi piaccia.» Pietro si girò e uscì in strada. Dopo un attimo di esitazione, Pellegrino gli andò dietro. Bartolo si affacciò al portone. «Attento a voi, bifolco» scandì con voce arrochita dall’ira. «Non vi permetterò di essere la nostra rovina.» Pietro non replicò e si allontanò a passi rapidi seguito da Pellegrino che gli disse: «È furioso. Forse dovresti…» «È solo uno sciocco, non vede che affari e zecchini. Ma basta, di questo. Vieni con me.» Svoltarono per una salita tra gli orti e arrivarono nel cortile dei Rotaro. Un nugolo di bambini felici e ben nutriti si rincorreva sotto i canti delle rondini dirette al nido. I fienili colmi e le vaste stalle testimoniavano della serena opulenza di quella famiglia. Pietro volle la falce rotta e si impegnò a ripararla a proprie spese. Poi porse all’amico una delle sue. Pellegrino esitò. «Non so come potrò sdebitarmi.» «È semplice: non dandotene pensiero» sorrise Pietro. Poi tacque un istante, seguendo il filo dei propri pensieri, prima di aggiungere: «Ora non resta che farti sposare Maria.» «E tu credi ancora che sia possibile?» si meravigliò Pellegrino. «Di più, ne sono certo. Al punto di giurare che ti sarò compare d’anello.» La sua sicurezza commosse Pellegrino. «E io giuro che sarò il tuo» promise. «Così sia. Vuoi fermarti a cena da noi?» «No, vado a casa. Ho da pensare a molte cose.» «Anche a quello che ti ho chiesto, spero.» «Sì, lo sai bene» rispose Pellegrino avviandosi nel crepuscolo. Quando arrivò nel suo cortile lo trovò più buio e desolato che

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mai. Andò nella stalla a controllare il bue e posare gli attrezzi, poi entrò in cucina. Là, accese la lucerna, marezzando di ombre i muri macchiati di fuliggine e, al solito, fissò lo sguardo sulla sedia di sua madre. Gli venne in mente il tempo felice in cui, la sera, il focolare era vivo e lei gli chiedeva della sua giornata, trovando le parole per consolarlo se si lagnava della loro miseria. Poi arrivava anche suo padre e fino al momento di andare a letto la cucina risuonava di parole serene e risate… No! Doveva convincersi che era tutto finito, spazzato via dalla peste, che i ricordi servivano solo ad accrescere il dolore. Aprì il fagotto di padron Bartolo. Vi trovò una fetta di polenta, una magra razione di formaggio, due uova sode e un pizzico di sale. Sorrise amaramente, mentre osservava il misero cibo. Pensò poi a Pietro, alla sua casa piena di voci e abbondanza, e, inattesa, la serpe dell’invidia gli morse il cuore. Ne provò subito vergogna e, ricordando la generosità dell’amico, scacciò l’orribile sentimento, rimproverandosi e giurando a se stesso che mai più l’avrebbe provato. Ma sentiva che qualcosa era mutato nel suo animo… Da fuori venne un lieve rumore, simile al fruscio di passi furtivi. Pellegrino aprì la porta e scrutò nell’oscurità. Nessuno. Eppure, per la seconda volta in quella giornata, gli era parso di cogliere il movimento circospetto di un bambino. Lo assalì un’improvvisa, invincibile stanchezza. Salì a passi lenti la scala esterna che portava alla sua stanza. …Camminava in una pianura costellata di cespugli ritorti, diretto alla cortina lattiginosa dell’orizzonte. Non conosceva quel luogo né sapeva perché lui vi si trovasse, ma intuiva un’oscura minaccia. Di colpo, qualcuno balzò a sbarrargli la strada. Basso, la testa enorme sul corpo nocchiuto, gli occhi folli e feroci, l’essere lo guatò poi soffiò graffiando l’aria con dita adunche. Pellegrino capì di essere di fronte allo sbilfone. Arretrò terrorizzato e inciampò, cominciando a cadere all’indietro, lungamente, inerte come una foglia morta, mentre gli occhi del mostro gli si facevano sempre più vicini… Si levò di scatto dal pagliericcio e per un momento provò l’impulso di fuggire, poi riconobbe la sua stanza. Si passò una mano tremante sulla fronte madida di sudore. Era stato solo un sogno,

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ma orribile come nessun altro in vita sua. Quando si fu ripreso, scese in cucina e bevve avidamente un mestolo d’acqua, poi uscì nell’aia. La notte era alla fine, tra poco i galli avrebbero salutato il primo lucore del giorno, tutto pareva come sempre. Ma Pellegrino attese l’alba afflitto dal ricordo dello sbilfone. Un raggio di sole illuminava i resti del copioso pranzo di don Jacopo. Il parroco fece un largo sorriso all’ospite che gli sedeva di fronte. «Davvero non ne volete un sorso?» chiese levando la caraffa. «Badate che è nettare dai vigneti del Collio.» «Non bevo mai vino» rispose Bartolo. «Voi fate come vi pare» continuò, calcando la voce sul voi. «Mmm. Dite, la domenica vi siete mai chiesto perché non celebro l’eucarestia con l’acqua?» «No» rispose acido il Veneziano. «In chiesa bado solo a seguire la Messa con devozione.» «Da quel bravo cristiano che siete» approvò il parroco, affondando il mento nella pappagorgia. «Tuttavia, l’ultima cena e le nozze di Canaan dimostrano ad abundantiam che Nostro Signore non ci pretende astemi. Per tacere di Giovanni che definisce Gesù con la metafora della vera vite.» Allargò soddisfatto le braccia tozze. «Quod erat demonstrandum.» «Alla malora il vostro latinorum!» eruppe Bartolo. «Devo essere burlato anche da voi? Che avete tutti, in questo maledetto paese?» «Quanta foga» disse placido il parroco. «Non dimenticate che siete nella casa del ministro di Dio.» «E voi che non sono qui per sentirvi cianciare di vino. Al dunque! Avete saputo cosa pensa l’inquisitore della situazione? O a Udine avete badato solo a rimpinguare la vostra cantina?» Don Jacopo sospirò. «No, ho parlato con chi di dovere, naturalmente usando tutte le cautele del caso.» «E allora?» Il parroco si versò un altro bicchiere e lo sorseggiò senza fretta, incurante dello sguardo esasperato dell’altro. «È una faccenda delicata» disse finalmente. «Giulio d’Assisi, l’inquisitore di Aquileia, ha a cuore la situazione, avendo assodato la presenza dei benandanti in tutto il Friuli, e tuttavia ha anche ottime ragioni per non agire. Vi vedo perplesso. Eppure, da fedele suddito della Serenissima, dovreste sapere che Venezia non vede di buon occhio che l’Inquisizione adempia alla sua santa missione nei propri territori. Per tacere del fatto che va anche considerata la disposizione

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d’animo dei friulani, Medunesi compresi.» «Che intendete dire? Non vi capisco.» «Purtroppo! Il fatto è che nei dieci anni che vivete tra noi avete badato solo ai vostri affari. Voi questa gente non la conoscete affatto. Vedete, qui tutti credono che la loro fortuna dipenda dal buon esito dei riti dei benandanti. I quali, peraltro, si professano ferventi cattolici, frequentano la chiesa e si accostano regolarmente ai sacramenti. Addirittura, stando al benandante di Giàssico, si sentono al servizio di Dio e sono certi di andare in Paradiso. Beati loro, mi viene da dire. In ogni caso, è un fatto che, dove agiscono i benandanti, non v’è traccia né di sabba né di streghe, e anche di questo va tenuto conto.» «Storie! Per me, alla fine, saranno giudicati allo stesso modo dei seguaci di Satana.» «Dite bene, per voi. Io, invece, che non so davvero come andrà a finire, per adesso non vedo ragione di turbare la pace di Meduno.» Il parroco studiò il volto torvo di Bartolo. «Perdonate, ma non riesco a capirvi. Che fretta avete di vedere in azione gli sbirri del vescovo? Quando vengono, non c’è sasso che non rivoltino o segreto che non estorcano.» «Lo so! Infatti è l’ultima cosa al mondo che vorrei. Tuttavia, mi risulta dalle mie fonti a Venezia che l’Inquisizione aspetta solo l’occasione propizia per colpire i benandanti. A quanto pare, voi badate soltanto alla vostra tranquillità. Io invece temo, e molto, per i miei affari. Con il paese messo sotto sopra dagli inquisitori, non riuscirei più a onorare i miei contratti. Chi taglierebbe e trasporterebbe il legname? Devo escogitare qualcosa, prima che ad Aquileia decidano di muoversi. Speravo in un vostro consiglio, ma a questo punto…» «Un po’ di pazienza, amico mio. Se le cose stanno così, i vostri timori sono tutt’altro che infondati… Vediamo, escogitare qualcosa, dite? Che metta in condizioni di non nuocere i nostri benandanti prima che si muova Giulio d’Assisi? E, mi preme aggiungere, senza ferire i sentimenti del mio gregge? Ahimè, è cosa ardua, tertium non datur, sapete…» Bartolo balzò in piedi. «È meglio che vada.» «Aspettate, ho detto che è cosa ardua, non impossibile.» Il parroco si alzò, andò alla finestra e là rimase fissando i campi, le mani incrociate dietro la schiena. «Però dipende anche da voi» proseguì. «Anzi, soprattutto da voi.» «Spiegatevi e io farò ciò che occorre.»

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«Benone. Per prima cosa, bisognerebbe conoscere i luoghi dei loro riti, dei quali è noto solo che avvengono nei giovedì delle Quattro Tempora… tenete presente che la prossima cade alla fine di settembre… Per il resto, io so che il capo dei benandanti locali è Pietro Rotaro. E so anche che il suo più caro amico è Pellegrino Gasparutto.» Si girò sulla spalla. «Risulta pure a voi?» «Come a tutti, sono fatti risaputi.» «Allora seguite il mio ragionamento. Gasparutto è nato con la camicia, dunque sarebbe destinato a diventare benandante, tuttavia mi è giunta voce che la prospettiva non lo entusiasma.» Il parroco alzò gli occhi alle decorazioni del soffitto. «Dicono anche che ami vostra figlia.» «Che c’entra Maria?» Don Jacopo indicò l’armadio che conteneva le sue carte. «Ed è anche indebitato con me. Capite?» «No! Piuttosto brucerei all’inferno!» «Ma solo se il legno della pira venisse dai vostri magazzini, se vi conosco bene.» Il parroco guardò negli occhi Bartolo che tacque, fissando aggrondato il pavimento. «Dopotutto, non è un cattivo giovane e a Maria piace» riprese Don Jacopo. «Animo, dunque, faremo entrambi un piccolo sacrificio, ma in cambio, in un colpo solo salveremo i vostri affari e l’anima di tanta brava gente. E senza clamore.» Bartolo rifletté, tormentandosi le mani. «E sia, per Maria» concesse. «Ma voi cosa avete in mente?» «Oh, ne riparleremo presto: settembre è alle porte.» Il parroco allungò la mano verso la caraffa. «Siete proprio sicuro di non voler assaggiare?» Nell’aia dei Rotaro casse d’uva passavano di mano in mano sino al locale della pigiatura; altre braccia portavano ceste di mele nei piani alti del casone. L’aria settembrina inebriava per il profumo di mosto e frutta. Pellegrino cercò Pietro e lo trovò impegnato a discutere con tre uomini. Di due sapeva che erano gli altri benandanti di Meduno; non conosceva il terzo, anche se gli pareva di averlo già visto. Pietro congedò i suoi interlocutori e lo salutò con un abbraccio. «Allora, fratello, come ti senti?» «Frastornato. E anche preoccupato, temo.» «È più che giusto la prima volta. Ma per noi benandanti entrare nell’Altro Mondo è semplice come bere un sorso d’acqua. Basta

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volerlo. Piuttosto, non hai mangiato, vero?» «No, no. Ho fatto come hai detto.» «Bravo, dobbiamo essere digiuni. Ma stasera ricorda di mordere una testa d’aglio, serve a tenere lontane le streghe.» «Lo farò» annuì Pellegrino e guardò l’aia. «È stata una buona vendemmia.» «Sì, e non solo per noi. Per grazia di Dio, abbiamo sempre conquistato il campo, nelle ultime Tempora.» Pietro lo guardò con malizia. «Mi pare che anche la tua vita abbia preso il verso giusto.» «Non posso negarlo, da quando padron Bartolo ha cambiato idea su di me» ammise riluttante Pellegrino. «Ti ha promesso la mano di Maria e preso in casa come ospite e fattore da un momento all’altro, così.» Pietro schioccò le dita. «Neppure io speravo che il buonsenso irrompesse così velocemente nella sua testa di sasso. Si è fatto gentile pure con me. Vedessi i sorrisi, quando mi vede.» «È il suo carattere agire d’impulso» spiegò Pellegrino, pesando le parole. «Adesso poi ha mente solo per il suo progetto di trasportare il legname sul fiume e non cerca litigi. Ha persino chiamato da Venezia due marinai per verificare se la cosa è fattibile. Li avrai visti in giro.» «E quelle brutte facce sarebbero marinai? A me sembravano più dei tagliaborse. Ho anche saputo che don Jacopo ha prorogato la scadenza del tuo debito. Lo sai, vero, perché ti accade questo?» «Che intendi dire?» scattò Pellegrino. «Sii chiaro!» «Sei davvero inquieto» si stupì Pietro. «Volevo solo ribadire che per te tutto è diverso da quando hai deciso di unirti a noi.» Scompigliò i capelli di un bambino che passava correndo. «Vedi, è come usare la stadera. Prima eri sbilanciato, senza un punto di equilibrio, e ciò ti attirava la mala sorte. Ma ora che sei nel posto che ti compete e il tuo peso è giusto, le buone cose vengono a te naturalmente. Questo lo sbilfone lo sa. Non ti ha più assillato perché adesso può attaccarti solo nel prato dei confronti.» «Mi chiedo dove possa essere un luogo del genere.» «In nessun luogo e ovunque. Dipende dalle circostanze. Noi preferiamo i luoghi curati dalle nostre mani e stanotte ci troveremo nella mia vigna.» Pietro si accigliò. «So che non sarà un confronto facile. Siamo troppo pochi. Per questo ho chiesto a un benandante di Montereale di aiutarci.» «Di Montereale, hai detto? Sì, mi pareva d’averlo già visto. Non

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è Domenico Scandella, il mugnaio?» «È proprio lui. Però vuole essere chiamato Menocchio. È un uomo fidato e di valore.» «Lo terrò a mente. Ma riguardo questa sera, vorrei saperne di più. Come faremo a…» Pietro scosse la testa. «Prima di svelarti i nostri segreti, devo sapere quanto vali sul campo, perché non tutti sono adatti. Ma ho fiducia in te.» Vide una donna che gli faceva dei cenni. «Mia madre mi vuole. A più tardi.» Pellegrino lo salutò e scese pensieroso verso la casa del Veneziano. Lo accolse Maria. «Finalmente!» esclamò. «È da tanto che ti aspettano nello scrittoio. Mio padre ha chiesto di te non so più quante volte.» Notò lo sguardo teso di Pellegrino. Gli prese una mano e se la portò alla guancia. «Non devi preoccuparti» aggiunse, «ormai lo conosci, quando si tratta di affari, lui è…» Aggrottò la fronte. «Perché è di questo che dovete discutere, vero? O c’è dell’altro?» Pellegrino negò con la testa e ritirò la mano. Neppure il dolce contatto con il viso di Maria aveva placato la sua ansia. Entrò nello scrittoio. Vi trovò Bartolo, don Jacopo e i due stranieri. Disse loro quanto aveva saputo da Pietro. «Ben fatto» approvò il parroco. «La tua è stata una scelta saggia e in primavera ne trarrai i frutti più prelibati. Dico bene, padron Bartolo?» «La promessa di matrimonio è stata fatta» confermò seccamente il Veneziano. «Allora perché quell’espressione, figliolo? Cosa ti turba?» «Ebbene… Sentite, don Jacopo, voi sapete cosa accade davvero nei riti dei benandanti?» Il parroco congiunse le punte delle dita e si appoggiò alla sedia «Ovviamente, no. Ma non li immagino dissimili dai sabba.» «Volete dire che arrivano davvero le streghe? E anche il diavolo?» «Per nulla» rispose gioviale il parroco. «Intendo dire che si tratta quasi sempre di fantasie, come chiarisce Gerolamo Cardano nel ‘De rerum varietate’.» «Ma se è così, perché gli inquisitori sono tanto severi?» insisté Pellegrino. «Ho detto quasi sempre, figlio mio. Comunque, nel nostro caso,

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ritengo si tratti di visioni prodotte da un eccesso di umore atrabiliare nel sangue. In effetti…» «Un’altra volta» lo interruppe Bartolo. «Siamo qui per decidere cosa fare stasera.» «In tal caso…» Don Jacopo si affrettò ad alzarsi. «Non è necessario che ne io sappia di più.» «Naturalmente» replicò Bartolo guardando il parroco infilare svelto l’uscio. «Ubriacone ipocrita» mormorò con disprezzo. Poi guardò gli altri. «Dunque?» Pellegrino si agitò a disagio sulla sedia. I due Veneziani restarono in attesa, fermi come i loro sguardi di ghiaccio. La luce della luna piena filtrava tra i filari della vigna. Pietro prese dal farsetto una stoffa che aprì delicatamente e distese sull’erba. Sul tessuto bianco spiccavano intarsi dorati a cornice di una figura di leone rampante. Era lo stendardo della compagnia di Meduno. I cinque benandanti si disposero attorno allo stendardo e Pietro diede a ognuno una bacchetta di viburno. «Sediamo» disse poi con solennità. «Siamo qui convenuti per combattere il male al fine di difendere la salute dei campi e la nostra prosperità. Tenete a mente che basta un’annata magra per vedere chi amiamo mangiare l’erba. Aprite dunque i vostri cuori alla fede e alla forza che a Dio piacerà concederci. E ora, silenzio.» Pellegrino rabbrividì e fissò Menocchio, che gli sedeva di fronte, sperando di cogliere un riflesso della sua severa serenità. La notte era placida, ma nell’aria vibrava una segreta magia. In breve lo prese uno strano sopore e le sue palpebre si fecero di piombo. Chiuse gli occhi… …Conosceva quel posto, era la landa del suo incubo. Stessa la luce crepuscolare, uguale la pallida cortina dell’orizzonte, immutati gli arbusti simili a mani d’agonizzante. Camminava, brandendo il viburno, sulle orme di Pietro che procedeva sicuro, scrutando davanti a sé. Poi vennero le streghe. Procedevano a balzi di ragno, nere come l’inferno, le teste informi trafitte dalle fiamme degli occhi, agitando canne di sorgo. Alle loro spalle sventolava uno stendardo con quattro demoni neri in campo rosso. Lo reggeva lo sbilfone. «Ferme, figlie di Satana!» intimò Pietro. «In nome di Dio onnipotente, ritiratevi!» Le streghe esitarono e quando Pietro si avventò levando il vibur-

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no, seguito da Pellegrino e dagli altri, fuggirono lasciando cadere le canne di sorgo. Lo sbilfone osservava immobile la scena. Pietro raggiunse una strega e la percosse, traendone un lamento d’animale ferito. Anche Pellegrino ne colpì una e poi un’altra e un’altra ancora. Ora non aveva più paura e gioiva del buon peso delle vergate che infliggeva e degli ululati di dolore delle streghe. Poi vide l’amico andare verso lo sbilfone. «Pietro!» gridò d’istinto. Pietro si voltò, e lo guardò, sorpreso. In quell’attimo, lo sbilfone spiccò un balzo sovrumano e gli piombò sulla schiena, atterrandolo, poi affondò gli artigli. Pellegrino corse a soccorrere l’amico. Quando fu a pochi passi, il mostro alzò la testa e gli fece un orrendo sorriso, poi balzò all’indietro, recuperò lo stendardo e sparì. Intanto, anche le streghe erano scomparse. Pellegrino aiutò Pietro a sollevarsi e lo vide pallido e sofferente. Gli altri arrivarono correndo. «Abbiamo vinto» disse Pietro con un sorriso tirato. «Possiamo tornare indietro…» …Aprì gli occhi e vide Pietro, che si premeva una mano sul petto, sorretto dagli altri benandanti. «Mi sento meglio, amici» lo sentì dire. «Per questa notte è finita. Tornate alle vostre case, e siate fieri di voi.» «Sei sicuro che vada tutto bene?» chiese preoccupato Menocchio. «Non è stata una battaglia come le altre, mi è parsa sin troppo facile. E lo sbilfone ti ha colpito.» «Sì» ammise Pietro. «Ma non nel corpo. Ascoltate, il campo è nostro, e questo è ciò che conta. Io, poi, non ho nulla cui non possa porre rimedio una notte di buon sonno.» Rassicurati, i benandanti se ne andarono, tranne Pellegrino che restò a osservare Pietro intento a piegare con cura lo stendardo. Nella sua mente, più che mai dubbiosa, ora si agitavano mille domande. Ma poi volle pensare che non avevano mai lasciato la vigna e che il parroco aveva ragione nel sostenere che solo di fantasie si trattava. O di sogni. In quel momento, poi, lui aveva ben altri impegni da onorare. «Dunque abbiamo vinto» disse. «Sì, e ti sei portato bene» confermò Pietro con voce stanca, infilando lo stendardo nel farsetto. «Però non avresti dovuto distrarmi. Mi hai esposto allo sbilfone. Non importa, imparerai.» Pellegrino esitò, poi pensò di cogliere l’occasione. «Non è stato un caso, avevo i miei buoni motivi.»

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Pietro si fece attento. «Buoni motivi? Che intendi dire?» «Lo saprai, ma prima ho qualcosa da mostrarti.» Pellegrino lo guidò fuori della vigna e prese il sentiero dietro le case sino al ruscello. Ne seguì il corso chioccolante aumentando il passo finché non ebbe distanziato Pietro. Allora balzò in una macchia di noccioli e stette nascosto ad aspettare. Arrivò Pietro e si fermò, guardandosi attorno. «Fratello!» chiamò. «Dove sei? Sono troppo stanco per giocare a nascondino…» S’interruppe vedendo i due uomini armati di pugnale e Bartolo sbucare dagli alberi. I sicari colpirono, rapidi e letali, e tutto si compì in un attimo. Pellegrino uscì allo scoperto, si avvicinò al corpo riverso di Pietro e vide che era ancora mosso da un flebile respiro. Pietro lo guardò. «Tu» rantolò, «e lo sbilfone…» Una mano di ghiaccio strinse il cuore di Pellegrino. La sua determinazione si dileguò come nebbia al sole. «Non volevo» balbettò. «Te lo giuro, io non volevo.» «Nella mia tasca» riuscì a dire Pietro prima di tacere per sempre, le labbra macchiate di schiuma sanguigna. Pellegrino si morse le nocche. Poi cercò nel farsetto, da cui sporgeva un lembo insanguinato dello stendardo. Trovò un borsellino di tela. Dentro c’erano due fedi d’argento. Bartolo lo scansò rudemente. «Via!» disse, e rivolto ai sicari: «Fate sparire il corpo, che nessuno lo trovi. E bruciatemi quello straccio» aggiunse, indicando lo stendardo. Più tardi, mentre sospinto dal Veneziano tornava inebetito verso il paese, Pellegrino ripensò all’orribile sorriso dello sbilfone. Cos’ho fatto? si chiese inorridito. Il prato dietro la chiesa era giallo di tarassaco primaverile. Nel sagrato, una ressa di paesani si accalcava attorno ai tavoli del ricco rinfresco; a casa Bonacelli, poi, si stava allestendo un banchetto senza precedenti. Il Veneziano aveva fatto le cose in grande per il matrimonio della sua unica figlia. Come gli era capitato di dire spesso negli ultimi tempi, voleva che il ricordo di quelle nozze restasse a lungo nella memoria della gente. Pellegrino vagava tra la folla, accettando indifferente complimenti e felicitazioni. Se doveva sorridere, lo faceva solo con le labbra. La fede che ora portava al dito gli pesava più di una macina. Sobbalzò nel sentire una mano sulla spalla. Era Menocchio, che gli disse gelido: «Mi compiaccio per la tua buona sorte.» «Ti ringrazio» replicò Pellegrino con imbarazzo.

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«Ho saputo che non vuoi più essere benandante.» «No, non più.» «Già. E poi, con la scomparsa di Pietro, è finita anche la compagnia di Meduno. Ma questo tu lo sai bene, vero?» chiese Menocchio trafiggendolo con lo sguardo. Pellegrino abbassò la testa. «Pietro è andato via per il bene del paese. Non voleva attirare qui l’Inquisizione.» «Senza dir nulla agli amici? Lasciando i suoi in pena? Le tue bugie sono le stesse del Veneziano. Sei stato bravo nell’imparare la lezione di Giuda.» «Non so di che parli» mormorò Pellegrino. «Ma saprai almeno che nelle ultime due Tempora nessuno è sceso in campo per difendere il tuo paese dallo sbilfone. Proprio adesso che è tornata la peste, si parla di un’altra guerra con l’Austria e le scorrerie dei Turchi minacciano tutto il Friuli.» Menocchio fece un gesto verso la folla. «E qui, nessuno ti ha detto che ci sono di nuovo bambini con la tosse cattiva? Hai visto che fiori e gemme sono in ritardo? Pensaci, la tua prima notte di nozze.» Menocchio gli lanciò un’ultima occhiata sprezzante prima di allontanarsi. Pellegrino restò a capo chino, ormai indifferente alla ressa che lo circondava, finché non arrivò Maria, felice nel suo abito da sposa. «Pellegrino…» cominciò a dire sorridente, ma si interruppe vedendo il suo volto terreo. «Cos’hai? Stai male? Caro, rispondimi.» Quelle parole suscitarono una rabbia ingiusta in Pellegrino. «Che devo avere?» replicò con astio. «Sono stufo di fare lo zimbello! Il ricco padron Bortolo si vanta di aver allestito un banchetto come non si è mai visto? E allora andiamo, prima che gli arrosti si raffreddino.» «Come vuoi» mormorò lei. «Avverto mio padre.» Tornò con Bortolo che squadrò il genero e chiese: «Cos’è questa storia? Oggi non voglio brutte figure.» «Brutte figure, dite?» rise amaro Pellegrino. «E davanti a chi? A quello, forse?» Indicò don Jacopo che barcollava tra le risate della gente agitando un orcio di vino. Bortolo rifletté. «Ho visto che parlavi con quel Menocchio» disse poi, mutando tono. «Sì. Di Pietro Rotaro, come potete immaginare.» Bartolo emise un profondo sospiro. «E va bene, andiamo a casa. Tu però sta’ calmo.» Maria osservò suo padre allontanarsi. «Perché parlavate di Pie-

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tro?» chiese poi inquieta. «Cos’ha a che fare con noi, oggi?» Pellegrino evitò il suo sguardo. «Ora non è il momento. Più tardi, forse…» «Devo sapere!» insisté accorata Maria. «Mi avevi detto che gli anelli erano un regalo di Pietro. Pensavo che tu lo avessi visto, dopo che era sparito, che sapessi dov’è nascosto e ti fossi impegnato a non dirlo a nessuno.» Gli afferrò le braccia. «È così? Dimmelo? Oppure…» Assunse l’espressione sgomenta di chi intuisce una verità troppo atroce per essere creduta. Un’immensa stanchezza invase Pellegrino. «Maria, è meglio che tu non sappia. Non voglio che…» Lei gli posò una mano gentile sulle labbra. «Ricorda che ti amo» disse guardandolo negli occhi. «Saprò ascoltarti senza giudicare, qualunque cosa tu abbia da dirmi.» In quell’attimo li chiamò Bartolo, che intanto aveva organizzato il corteo nuziale. Gli sposi si misero alla testa del serpente di persone festanti e partirono verso il centro del paese. Maria teneva la mano del marito e a tratti gli guardava il volto cupo. Quando furono davanti alla casa di Pellegrino, lui si fermò. «Aspetta» disse, ed entrò, senza darle il tempo di parlare. Nessuno era più stato nella sua aia, da quando abitava dai Bonacelli. Passò attraverso ciuffi di ortica e si affacciò nella stalla vuota, dove un ragno crociato aveva avuto il tempo di stendere una vasta tela sulla mangiatoia. Chiuse gli occhi, respirando a fondo l’aria che sapeva ancora di fieno e stallatico. No, non serviva. Si era illuso che la vista dei luoghi che gli erano stati cari potesse placare il tumulto del suo animo, ma così non era, e il frastuono del corteo aumentava la sua sofferenza. Aprì la porta della cucina. Dalle imposte chiuse filtravano raggi fitti di pulviscolo sino a lambire la sedia di sua madre. In quell’attimo seppe che il peso della colpa lo avrebbe schiacciato per tutta la vita e si sentì perso. Se solo fosse potuto tornare indietro! Avrebbe respinto le tentazioni e sventato i piani dello sbilfone. Ma soprattutto, non si sarebbe reso suo complice… Udì Maria chiamarlo, ma restò immobile, la testa piegata sul petto. «Lo vuoi davvero?» chiese la voce di Pietro. Pellegrinò trasalì vedendo l’amico ucciso. Una lieve luminescenza lo profilava nella penombra, ma per il resto pareva reale e concreto, come se fosse ancora vivo. «Spettro» gli disse con voce ferma, «se sei qui per vendicarti, sappi che accetto il mio destino.»

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Pietro sorrise. «Ah, fratello! Come sempre, badi solo al lato peggiore delle cose.» «Fratello, dici?» proruppe Pellegrino. «A me che ho armato le mani dei tuoi assassini? Io imploro il tuo perdono!» «Perdono, vendetta, vita, morte… null’altro che parole. Ma per ciò che può valere, sappi che il mio perdono non ti è mancato neppure nell’attimo estremo. Ora, poi, nemmeno ricordo il senso delle passioni cattive. Non so più cosa sia l’odio.» «Neppure per lo sbilfone? Che ti ha voluto morto?» «Sono stati gli uomini a uccidermi. In ogni caso, ho pietà anche di lui… Senti? Maria ti chiama. Sai che ti ama più di quanto tu meriti?» «Sì… Ma dimmi, cos’hai visto? Cos’hai imparato? Sai qual è infine lo scopo di…» Pellegrino allargò le braccia, cercando le parole, «…di tutto questo soffrire? E c’è poi uno scopo?» Negli occhi di Pietro parve riflettersi l’immensità di una notte stellata. «Oh sì, però non conosco le parole per dirlo. È un cammino che va percorso.» «Insegnamelo!» «Potrei, ma solo se tu venissi con me.» «Lo farò! Ti seguirò ovunque tu vada!» «Va bene. Ma ti avverto, la tua scomparsa provocherà molto dolore, che tu dovrai scontare sino in fondo… In verità, dovrai espiare anche dell’altro, ma questo già lo sapevi, immagino. La tua pena sarà severa, così vuole la stadera che regola il creato. Se la accetti, puoi seguirmi.» Pietro gli tese una mano. «Ma devi decidere subito, perché tra un momento verranno a cercarti.» «Ho deciso nell’attimo che ti ho visto» disse Pellegrino afferrandogli la mano. Poco dopo, Bartolo irruppe nell’aia. Guardò in cucina e nella stalla, poi chiamò perché lo aiutassero a cercare. In breve, fu chiaro che Pellegrino era sparito. Allora, da fuori, giunse il grido disperato di Maria. Dapprima chiuse gli occhi, alla forte luce del giorno, poi si guardò le mani, rigirandole, e vide la fede. Era di nuovo tra i vivi, a pochi passi dalla sua casa. Si incamminò sulla carreggiata, deserta a parte una vecchia rannicchiata sulla nuda terra, e scorse uno sconosciuto affacciarsi alla sua porta. Fece capolino anche un bambino che l’uomo rimandò dentro con una manata affettuosa. Come gli fu di fronte, Pellegrino chiese: «Scusate, abitate qui?»

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L’uomo lo guardò incuriosito. «Sì, da quando ho comprato la casa dal parroco» rispose. «Don Jacopo, intendete?» «Jacopo? No, il nostro parroco si chiama Gaspare. Voi chi siete?» «Un tempo vivevo qui. Ci sono ancora i Rotaro?» L’uomo si grattò la testa. «Ah, ho capito, erano quelli con il figlio stregone. So che hanno lasciato il paese quando l’Inquisizione ha colpito i benandanti, ma è stato molto tempo fa…» L’uomo lo scrutò. «Sentite, ma voi…» «Ancora una parola. Ditemi dei Bonacelli.» «I Bonacelli?» ripeté l’uomo sempre più perplesso. «No, non ci sono più neanche loro. C’è stata una brutta storia, tanti anni fa. È rimasta solo la figlia.» Girò la testa verso la vecchia. «Ha perso lo sposo il giorno delle nozze, poveretta, ed è impazzita. Figuratevi che lo aspetta ancora. Ma, tornando a voi…» Pellegrino non gli badò più e andò verso la vecchia. «Maria» le disse. Lei alzò gli occhi offuscati dagli anni. «Pellegrino, sei davvero tu?» chiese. Pellegrino s’inginocchiò e le prese le mani. Vide che anche lei portava la fede. «Sì. Sono qui, finalmente.» Lei sorrise e per un attimo parve tornare quella che in un’estate ormai perduta aveva attinto acqua alla fontana. «Sapevo che saresti tornato» disse. Si appoggiò al muro e trasse un lungo respiro. «Sai» riprese a fatica, «alla fine anche mio padre ha capito. È arrivata l’Inquisizione, hanno bruciato il povero Menocchio e gli altri…» ansimò. «Sono tanto stanca, Pellegrino.» «Riposati» disse lui con dolcezza, stringendola a sé. «Io intanto ti parlerò del mio viaggio.» Maria sospirò felice e lo ascoltò narrare le cose meravigliose che aveva visto e del luogo in cui l’avrebbe portata, un luogo stupendo in cui lo sbilfone non aveva potere, da dove avrebbero osservato le miserie degli uomini, compatendole come fa il buon padre con i capricci del figlio. Pellegrino parlò sinché non sentì il cuore di Maria fermarsi. Allora diede un ultimo sguardo al cielo, poi posò la testa sul grembo di lei e la seguì. Più tardi arrivò don Gaspare, avvisato dall’uomo, e li trovò così. Ci fu chi credette di riconoscere quel giovane. Il parroco si fece il segno della croce e mandò a chiamare l’Inquisizione. Da qualche parte, Maria e Pellegrino sorrisero.

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RANGDA

di ©CLAUDIA GIULIANI claudiagiuliani.blogspot.it

LA MASCHERA

DI BALI

di FRANCESCO DURIGON

Abigail si aggiustò la benda di seta sugli occhi e appoggiò la mano sulla porta del laboratorio: legno levigato, caldo, al centro lo stemma reale in rilievo. Allargò le dita e una macchia luminosa brillò sotto il palmo, espandendosi come un’increspatura in uno stagno. L’immagine della stanza chiusa emerse dal buio. Dentro la gabbia di contenimento un vecchio era incatenato mani e piedi alle sbarre di metallo. Teneva la testa inclinata di lato e un filo di bava gli colava dall’angolo della bocca al 37 rosso cucito sulla

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camicia a righe bianche e nere. Un soldato armato di revolver e sciabola stava di guardia a un passo di distanza: alto, castano, almeno trentacinque anni. Fuori dalla gabbia, Lord Fairfax si stava chinando su una scatola di legno piena di paglia, appoggiata sul tappeto persiano, sotto il quadro del Ministro degli Affari Sovrannaturali Chamberlain. Ne tirò fuori tre maschere tribali e le ripose sulla scrivania di mogano, accanto al fonografo. Fissò gli occhi sulla porta, prese il cipollotto d’argento e controllò l’ora. Lo ripose nel panciotto e soffiò seccato tra i baffi da tricheco. Diamine, sono in ritardo. Mi rimprovera anche oggi! Abigail afferrò la maniglia ed entrò. «Buongiorno!» Si tolse la benda dagli occhi: il soldato nella gabbia aveva al massimo venticinque anni. Ed era biondo. Anche stavolta ho sbagliato qualcosa! Ma cos’è che non faccio nel modo giusto? È il respiro? Bevo troppo laudano al mat…? Lord Fairfax diede un colpo di tosse. «Ho detto buon pomeriggio, Miss Murrey. Finalmente ci degnate della vostra presenza.» «Come?» Abigail si voltò: Lord Caulfield la fissava torvo. «Oh, oh, certo. Buon pomeriggio.» Chiuse la porta e gli si avvicinò di un passo. «Vi prego di scusarmi, Milord. Gli esercizi di trasmigrazione spirituale mi hanno richiesto più tempo del solito. Sono mortificata.» Lord Fairfax inarcò un sopracciglio. «Miss Murrey, è la seconda volta questa settimana. Un altro ritardo e mi troverò costretto a fare rapporto a Lord Shepard.» «Capisco, Milord. Vi assicuro che non accadrà più.» Abigail si sedette al tavolino, accanto alla scrivania, e prese i tarocchi dalla borsa. Lord Fairfax annuì. Prese un’ultima maschera dalla scatola, la soppesò e la posizionò accanto alle altre. Si sedette alla scrivania. «Bene, allora cominciamo. Procedete alla lettura di controllo.» «Sì, Milord.» Abigail mischiò il mazzo doppio di tarocchi e ne stese quattro sul tavolino. Lord Fairfax accompagnò l’ago del fonografo sul cilindro di cera. Avvicinò la bocca al diaframma dell’apparecchio e girò la manovella.

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«Londra, 17 Giugno 1897. Dipartimento di Scienze Occulte. Progetto di ricerca sulle maschere tribali. Esperimento numero 22.» Prese la prima maschera del gruppo e si rigirò l’etichetta tra le dita. «Maschera 454. Provenienza: Bali, Indonesia. 1815. Maschera raffigurante Rangda, strega. Potere presunto: sconosciuto» La manovella smise di girare. «Parson!» Il soldato scattò sull´attenti. «Signore!» «Fate indossare la maschera al Soggetto 37.» «Sissignore!» Parson uscì dalla gabbia e prese la maschera dalle mani di Lord Fairfax: era di legno laccato di rosso e aveva gli occhi chiusi. Dalla bocca priva di labbra spuntavano quattro zanne ricurve, due verso l’alto e due verso il basso. Parson ritornò nella gabbia. Si avvicinò al Soggetto 37 e gliela fece indossare. Lord Fairfax estrasse il cipollotto dal panciotto. Contò i secondi ad alta voce. «1, 2, 3…» Il soggetto emise un suono gutturale, come un conato di vomito, e urlò. Abigail sobbalzò sulla sedia. «…9, 10, 11…» Lord Fairfax scosse la testa, gli occhi fissi sulle lancette. «Folli. Ci fanno lavorare con i folli.» Un altro urlo. Nella gabbia il Soggetto 37 si dimenò avanti e indietro, scrollando la testa come un cane. Le catene stridettero contro le sbarre d’acciaio in una cacofonia di note metalliche che si mischiò alle urla. La maschera si staccò dal volto e cadde a faccia in su sul pavimento. Il Soggetto 37 sputò per terra. Strabuzzò gli occhi e ansimò a pieni polmoni. Lord Fairfax sospirò. «Nemmeno mezzo minuto, non va bene. Parson!» Il soldato annuì e raccolse la maschera. Il Soggetto 37 sbarrò gli occhi, la bocca dischiusa in una smorfia di terrore. Abigail tornò con lo sguardo sui tarocchi. I primi quattro le avevano mostrato due volte se stessa, un soldato e un lord. Indicavano l’esperimento. E ora il quinto: la riduzione cabalistica dice di pescare la settima carta dall’alto. Stese il quinto tarocco in mezzo agli altri: un automa. Si grattò la fronte. E adesso quest’automa che c’entrava?

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Sette è un numero primo, pessima cosa. Devo pescare un’ultima carta con la riduzione di Riemann: l’undicesima dal fondo. Abigail stese il sesto tarocco e un fremito la percorse da capo a piedi. La stanza rabbuiò. Le carte tremarono sul tavolo. Si alzarono in volo e le immagini sfarfallarono davanti agli occhi come i fotogrammi di un kinetoscopio. Demoni rosso sangue. Una città avvolta dalle fiamme. Una corona che cade a terra. «Daaaah!» Abigail sobbalzò sulla sedia per lo spavento. I tarocchi erano immobili sul tavolo, la luce non se n’era mai andata. Nella gabbia di contenimento il Soggetto 37 aveva il volto imbrattato di sangue, il soldato Parson era piegato in due e si teneva il naso. «Diamine!» Lord Fairfax si fiondò nella gabbia. «Giovanotto, che cosa vi insegnano al campo d’addestramento oggigiorno? Dico, è solo un vecchio pazzo!» Parson annuì, due dita a stringere il naso. «Mi sghusi, Sinore» «Diamoci un taglio: passatemi la maschera e tenete ferma la testa del soggetto!» Parson lasciò andare il naso e un fiotto rosso corse sul mento già sporco di sangue. «Sissignore!» Consegnò la maschera a Lord Fairfax e si avvicinò al Soggetto 37. Il malato di mente arretrò di un passo scuotendo la testa. Abigail rimise i tarocchi nel mazzo. Qualcosa non va. Meglio controllare. Rimescolò le carte, gli occhi fissi sul tavolino. «Insomma,» tuonò Lord Fairfax «fatelo star fermo!» «Ci sto provando, Signore.» Abigail stese i tarocchi uno dopo l’altro. Due volte me stessa, il soldato, il lord… «Dico, dategli un pugno, se necessario!» «Sissignore!» Abigail stese il quinto e il sesto tarocco. …l’automa… …demoni rosso sangue… Il sangue! Il Soggetto 37 è sporco di sangue! Abigail scattò in piedi. «Milord, aspettate! Le carte…» Il soldato Parson diede un pugno sul mento al Soggetto e quello

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andò a sbattere di nuca contro le sbarre. Lord Fairfax si girò verso Abigail, nero in volto. «Miss Murrey, non iniziate anche voi, adesso!» Il Soggetto 37 scoppiò in un pianto sommesso. Che mi sia sbagliata? «Ma…» Lord Fairfax la fulminò con lo sguardo. «Non una parola di più!» Si girò e infilò la maschera sul volto insanguinato del soggetto, calcandola per bene con il palmo della mano. Il Soggetto 37 cadde a peso morto, sorretto dalle catene ai polsi. Il pianto cessò con un sibilo aspirato, la luce delle lampade a gas s’affievolì tremando. Abigail trattenne il fiato. Qualcosa è fuori posto. Nella penombra Lord Fairfax passò con gli occhi da Abigail al soldato Parson, la fronte corrugata. La pendola a muro scandì l’una di pomeriggio. Il suono riecheggiò sordo nella stanza, come rallentato. La luce tornò stabile. Lord Fairfax si lisciò i capelli all’indietro e aggiustò il panciotto tirandolo da sotto. «Bene.» Tossì imbarazzato. «Possiamo riprend…» Il Soggetto 37 scoppiò a ridere, la risata stridula di una vecchia. Alzò la testa di scatto e il corpo si sollevò da terra, fluttuando a mezz’aria. Abigail si portò una mano al petto. Mio Dio! Lord Fairfax arretrò di un passo, le braccia a schermare il volto. La pelle ai lati della maschera si sciolse come cera e colò a terra, sostituita da una rete di vene blu. Il volto di legno penetrò nella faccia col sibilo della carne che brucia. Gli occhi si spalancarono, piansero sangue. La bocca scattò in un ghigno divertito e i capelli crebbero lunghi e folti, ondeggiando assieme al corpo sospeso in aria. Tra le fauci si srotolò una lingua blu, lunga fino al petto. Lord Fairfax si avventò sul Soggetto 37 e gli strinse le mani ai lati della maschera. Il mostro lo spinse via, mandandolo a sbattere di testa contro la gabbia. «Milord!» Lord Fairfax si aggrappò alle sbarre, le palpebre socchiuse percorse da un tremolio e si accasciò sul pavimento. Parson fece fuoco tre volte col revolver. Il mostro tornò con i

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piedi per terra, le ferite in pieno petto che chiazzavano a malapena la camicia a righe bianche e nere. Afferrò le catene che lo imprigionavano e le strappò dalle sbarre della gabbia. Parson tremava. Il revolver gli scivolò di mano e cadde a terra. Il mostro si strappò le catene dai piedi, raggiunse il soldato con un balzo e gli trafisse lo stomaco con una mano artigliata. Lo fissò. Rise. Inclinò la testa e gli soffiò del fumo viola sul volto. Abigail afferrò la borsa e si fiondò fuori dalla stanza. La creatura scoppiò di nuovo a ridere, la risata di una vecchia strega. Nel corridoio Abigail premette le mani sulle orecchie e gridò a pieni polmoni. John si sedette davanti a un oblò dell’aeronave, prese il binocolo e lo mise a fuoco: dense colonne di fumo nero si allungavano dagli edifici divorati dalle fiamme. Uno sciame di puntini rossi saettò fuori dall’ultimo piano di un palazzo, lasciando scie incandescenti di fumo viola, e sfondò le finestre di quello di fronte. Cristo, allora il rapporto non mentiva: i demoni stanno invadendo Londra! Più sotto auto a vapore e carrozze trainate da cavalli erano abbandonate per strada, bloccate dalla marea di persone che fuggivano a piedi. Centinaia di disperati si accalcavano sulle banchine del Tamigi, in cerca di un battello, altri si stavano menando all’entrata della stazione dei dirigibili di St. Pancras. Il rombo distante di un’esplosione. Una truppa di golem corazzati invase Trafalgar Square e aprì il fuoco. Le sventagliate di mitra raggiunsero un gruppo di demoni intenti a spolpare cadaveri. I bastardi caddero al suolo e si rialzarono avvolti dalle fiamme. Uno di loro lanciò un urlo stridulo, le fiamme sulla sua schiena che avvamparono in una colonna bianco incandescente, e altri demoni piovvero dai tetti attorno alla piazza. I golem corazzati scagliarono una scuoti-bomba e l’esplosione inghiottì la piazza in una sfera di fiamme verde acqua. L’onda sismica si espanse a cerchi e il terreno sussultò come in un terremoto. I vetri dei palazzi esplosero in una pioggia di schegge. La colonna dell’ammiraglio Nelson crollò al suolo, alzando una nube di polvere che coprì ogni cosa. La sfera di luce si espanse fino a dissolversi. John girò le lenti del binocolo e strinse la visuale.

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Una dozzina di fiammelle si accese nella nube che si diradava: i demoni erano di nuovo in piedi. Porca puttana, sono immortali! I bastardi balzarono sui golem in prima linea e li fecero cadere di schiena sul terreno. Le macchine si dimenarono come insetti per rimettersi in piedi, ma i demoni strapparono le placche d’acciaio dell’armatura a mani nude e scavarono nell’argilla fino a raggiungere i piloti all’interno. John abbassò il binocolo. Chiuse gli occhi e si strinse la radice del naso. Ci stanno mandando al macello. Un fischio d’approvazione. «Però, non proprio una cosetta da niente, eh?» John riaprì gli occhi: il Dottor Springheel sedeva sul sedile accanto e si stava asciugando la fronte con un fazzoletto sporco di grasso da motore, gli occhi incollati sulla scena duemila piedi più sotto. Due sedili più in là Sconer e Graves stavano fumando l’ennesima sigaretta. Ellington sgranava il rosario sottovoce. Il resto della squadra fissava lo spettacolo fuori dagli oblò. Sotto gli occhialoni da aviatore la fronte era fradicia di sudore. John li sollevò e se l’asciugò. «Nervoso, dottore?» «Io? Figliolo, certo che no! Non devo mica fiondarmi là fuori, io. Piuttosto direi… eccitato.» Springheel si grattò il mento con le unghie lerce. «Sì, eccitato è la parola giusta: dico, mai visto niente del genere! Mi piacerebbe catturare una di quelle bestiole e vivisezionarla. Non sarebbe niente male!» John sospirò. Scosse la testa e ripose il binocolo nella cintura tattica. «Dottore voi siete un fottuto psicopatico, lo sapete?» Springheel sorrise, i denti gialli e marroni. «Dite, figliolo?» Un colpo di tosse. All’altro capo della cabina apparve il Sergente Stern. «Signori, attenzione. A breve raggiungeremo il punto di lancio. La situazione è…» Stern si schiarì la voce. «Ragazzi, siamo nella merda.» Graves rise. A metà della cabina Blake agitò un pugno davanti al volto. «Evviva!»

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Stern sogghignò. «Be’, sentite: siamo spacciati, lo sappiamo, ma non siamo morti. Non ancora. Dico, se dobbiamo tirare le cuoia, allora diamine, moriamo da Inglesi!» Blake alzò di nuovo il pugno a mezz’aria. Scosse la testa e riabbassò la mano come a scacciare una mosca. Il resto della squadra fissava il pavimento. Ellington aveva la testa tra le mani, il Cristo del rosario che gli penzolava accanto al mento. «Ci attaccheranno…» disse con un fil di voce. «Il dirigibile è pieno d’idrogeno e quelli hanno le fiamme dell’inferno.» Graves gli strinse una spalla. «Non volano, Ellington, fanno solo dei gran balzi. Siamo troppo in alto qui. Loro sono… sono come polli in fiamme.» Sul fondo della cabina qualcuno scoppiò a ridere. Barly si portò una mano alla fronte e la fece scivolare sugli occhi. «Cristo, Graves come ti escono certe stronzate?» Graves scrollò le spalle. Ellington non rideva. Si tolse la mani dai capelli con un sospiro e le appoggiò sulle ginocchia. Il Sergente Stern passò in rassegna i volti dei soldati. «Dottore, prego.» Springheel si alzò in piedi. «Su col morale, figlioli, non ci sono solo cattive notizie. La vedete la pelle tra braccia e torace? L’ho aggiunta alla divisa ieri notte. Serve a guidare la discesa: se tenete ben spalancate le zampe dovreste riuscire a controllare meglio la spinta del propulsore.» Il dottore s’infilò il mignolo destro dentro l’orecchio e diede una scrollata, gli occhi socchiusi a seguire un pensiero. «Ah, sì, ho anche ricalibrato al volo i meccanismi dell’Ercolizzatore. Ora le armature dovrebbero mettervi in grado di contrastare gli attacchi di quelle graziose bestiole là fuori.» Springheel tolse il mignolo dall’orecchio e lo strofinò contro la giacca della divisa. «Oh, be’, diciamo un attacco o due, almeno. In ogni caso, mi raccomando le molle: date qualche giro di chiave di tanto in tanto o rimarrete bloccati come tante belle statuine, d’accordo?» Scrollò le spalle. «Ora scoprite un braccio, su!» I soldati obbedirono. Il dottore fece un giro di iniezioni. L’ago affondò nel braccio di John e un’ondata di calore gli attraversò il corpo. I respiri si fecero profondi, il cuore batteva nel petto come un martello pneumatico. John strinse denti e pugni.

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Portò le mani al volto e spalancò le dita. Un brivido serpeggiò lungo la schiena. Meglio dell’ultima volta. Strinse i pugni e il cuoio dei guanti scrocchiò. Ma di che cazzo abbiamo paura? Li facciamo fuori quei bastardi! Gli sfuggì una risatina. Due ragazzi della squadra si unirono a lui. Il Sergente Stern aprì il portello e l’aria gelida si riversò ululando nella cabina assieme al ronzio assordante delle eliche. La luce del tramonto era sfumata sul rosa. «Bene signori, siamo arrivati! Ellington, Barly, Marsh!» La prima unità si lanciò fuori dall’aeronave. Seguirono la seconda e la terza. «Sconer, Graves, Plye!» La quarta unità raggiunse il portello e Sconer e Graves si gettarono nel vuoto. John calò gli occhialoni da aviatore sugli occhi e rimase solo davanti all’apertura: i ragazzi della squadra volavano verso la Torre di Londra lasciandosi dietro lunghe scie bianche. Duemila piedi più in basso Londra era un mare crepitante rosso e arancione. Rise. La missione è un suicidio. Grida stridule graffiarono l’aria. La mano di John corse all’elsa della sciabola. Otto demoni col corpo in fiamme stavano saettando nel cielo come fuochi d’artificio rossi. Sempre più in alto, verso l’aeronave. Rise di nuovo. Polli ‘sto cazzo! Al primo scossone Abigail si aggrappò al bracciolo di velluto rosso del divano. Il vagone pneumatico rallentò la sua corsa con un sibilo di freni. Un altro scossone e si fermò. Abigail si alzò in piedi. Estrasse dalla borsa il pendolino per le previsioni e lo tenne sospeso sopra il palmo della mano sinistra. La sfera di metallo disegnò un cerchio minuscolo in aria. Un altro, più grande. Uno scatto in avanti, verso il portello del vagone. Bene. Abigail mise piede sulla banchina: la stazione della Torre di Londra era immersa nel silenzio. Giornali, bastoni da passeggio e cilindri erano sparsi sulle mattonelle bianche e nere del pavimento illuminato dai lampioni a gas. L’orologio della stazione diede otto

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rintocchi. Già le otto. Devo sbrigarmi. Camminò lungo la banchina e girò a destra, fino a raggiungere lo spiazzo al centro della stazione. Una dozzina di cadaveri, uomini e donne, giacevano scomposti a terra, immersi in pozze di sangue. Avevano le teste spappolate. Abigail represse un conato di vomito. Distolse lo sguardo e sollevò il pendolo: doveva continuare a muoversi o quelle creature infernali l’avrebbero trovata. Con l’occhio della mente scorse i tarocchi della previsione. Due me stessa… Che vuol dire? Nessuna spiegazione. Il soldato. Dopo di me veniva il soldato. Chiuse gli occhi e visualizzò il tarocco. Li aprì e il pendolino oscillò. Il corridoio che indicò era lordo di sangue. John si lanciò nel vuoto e schiacciò il pulsante dell’accensione. Il propulsore si attivò col ruggito delle fiamme, la spinta lo fece schizzare in avanti come un proiettile. John si infilò tra i demoni in avvicinamento e li oltrepassò, l’aria sferzava il volto così veloce da togliere il respiro. Allargò le braccia e corresse la traiettoria di volo. La Torre di Londra era all’orizzonte, dritta davanti a lui. Piegò qualche grado a sinistra e sorpassò un compagno in balia di quattro demoni: il propulsore s’era spento e i bastardi lo stavano smembrando in volo. Due demoni si accorsero di John e lo puntarono. John portò le braccia al petto. Perse quota e si fiondò tra di loro. Gli artigli di quello a destra graffiarono il propulsore senza riuscire ad afferrarlo e John schizzò ancora più in basso, dentro a una colonna di fumo. Tossì, avvolto dal grigio, riaprì le braccia e sbucò dalla nube. Il tetto di un palazzo. Inevitabile. Oh, merda! John sfiorò le tegole con le ginocchia e ne staccò alcune coi piedi, trascinandole nel vuoto. Piombò tra due edifici, sopra le teste della folla riversa in strada e con un colpo di reni raddrizzò la schiena, l’ugello del propulsore puntato verso il suolo. La gente urlò, corse via dalla strada e si ammassò sui marciapiedi, contro i palazzi. Mi schianto, mi schianto, mi schianto!

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John portò le ginocchia al petto e la fiammata del propulsore lambì il tetto di una carrozza. Oh, cazzo. Cazzo! Lasciò andare le gambe e atterrò col piede sinistro sul sedile del cocchiere. Si spinse con un calcio: la carrozza oscillò, il tetto in fiamme, e John sfrecciò in alto, accanto a un balcone e oltre l’oblò di una mansarda. Scoppiò a ridere. Per un pelo. Le mura esterne della Torre di Londra erano a un soffio. S’ingrandivano sempre più e John era ancora troppo in basso. Il propulsore tossì e si spense. Il pallone! John tirò la maniglia sulla spalla sinistra e il pallone di discesa si gonfiò d’idrogeno. La spinta verso l’alto si scaricò sul corpo di John con uno scossone, smorzò la caduta e lo sollevò oltre la merlatura. La bombola dell’idrogeno si sganciò dall’armatura e precipitò sul terreno. Il sibilo dell’aria scomparve e Londra si riempì di nuovo del ruggito degli incendi e delle esplosioni di proiettili. John si guardò attorno, la mascella serrata per la tensione. La planata era lenta. Troppo lenta. Era un bersaglio facile. Lo strillo di un demone gli fece gelare il sangue. Controllò a destra e a sinistra: la bestia era già in picchiata. «Cazzo!» Lanciò un’occhiata in basso: il terreno era troppo distante anche per le molle dell’armatura. L’unica alternativa erano i tetti. Tirò uno dei cavi-guida del pallone e quello si piegò a destra, portandolo verso una delle costruzioni all’interno del cortile della Torre. L’edificio era lontano, la planata sempre lenta. Digrignò i denti. Un altro verso, più forte stavolta. Devo sbrigarmi! Sguainò la sciabola e tagliò il tubo che lo collegava al pallone. Cadde sul tetto in piedi, ma perse l’equilibrio e rotolò di lato. Aveva appena sollevato la sciabola al cielo che il demone gli piovve addosso e gli afferrò la mano armata e la spalla sinistra. La pelle del mostro era lambita dalle fiamme. L’armatura si stava scaldando. John afferrò con la sinistra la lama della sciabola. La bestia appoggiò tutto il peso su di lui e snudò le fauci con un urlo. L’alito puzzava di zolfo. John spinse la sciabola sul petto del mostro, ma le zanne marce gli arrivarono a un soffio dalla faccia. Il demone

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lo sollevò in aria con un balzo e lo inchiodò di nuovo sul tetto facendogli sbattere la testa. Cento puntini di luce saettarono davanti agli occhi come insetti. Un boato risuonò nell’aria e il demone si girò. Un’aeronave stava precipitando al suolo, avvolta dalle fiamme. John spinse il pulsante dell’Ercolizzatore sul petto dell’armatura. I meccanismi interni si azionarono con un ding argentino e le molle andarono in tensione: ora il demone pesava meno di un bambino. Lo afferrò per la gola e lo fece rotolare di lato. La bestia urlò dal dolore. John caricò il braccio destro fino alla massima tensione delle molle e lo rilasciò: la lama della sciabola scivolò da una parte all’altra del collo del demone e la testa rotolò giù dal tetto. Un fiotto di sangue schizzò dal moncone, seguito da una nuvola di fumo viola. John scattò in piedi, si portò una mano alla bocca per non inalare. Fece un passo indietro e un refolo di vento lo investì dalle spalle, disperdendo il fumo in un nuvola di polvere fina. Ma che diamine… Il cadavere sul tetto era quello di un uomo. Nudo, la pelle rossa e nera di bruciature. John fece un altro passo indietro. «Ma che cazzo sta succedendo?» «Ehi, voi, soldato! Che ci fate lì? Dovevate atterrare sull’armeria, non sull’ospedale!» Disse una voce femminile. Una ragazza castana vestita con gonna e giacca azzurra e una blusa bianca si stava sbracciando sul tetto dell’edificio accanto. In mano stringeva un ciondolo. «Non state lì impalato. Raggiungetemi. Dobbiamo andarcene!» Il cortile interno era pieno zeppo di cadaveri immersi in pozze di sangue, decapitati o con la testa spappolata. Al centro, vicino alla Torre Bianca, giacevano i corpi scomposti di due ragazzi della compagnia. Le armature erano coperte di sangue e ammaccate: dovevano aver sbattuto contro l’edificio prima che il propulsore esaurisse la carica. In vita c’era solo la ragazza. «Ehi, voi! Siete sordo per caso? Seguitemi, non abbiamo molto tempo!» Una ragazzina insistente. Le labbra di John si incresparono in un sorriso. Che alternativa ho?

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Abigail fermò il pendolo e lo lasciò andare di nuovo: il vagone pneumatico viaggiava nella direzione giusta. Il soldato Plye sedeva sul divano di fronte a lei. Aveva sfilato il fucile da un attacco sulla schiena, l’aveva ispezionato e se l’era poggiato accanto. Ora stava ricaricando gli ingranaggi dell’armatura con una chiavetta da orologiaio. Lavorava in silenzio, gli occhialoni da aviatore sui capelli e la fronte madida di sudore. A giudicare dal collo era un ragazzo muscoloso. Ma che cavolo ti metti a pensare adesso, Abby? Non è certo il momento adatto, no? «Vi è tutto chiaro, Mister Plye?» Il soldato sollevò la testa e un fremito gli passò per le labbra. I mustacchi ballarono come un’altalena. «Io sarei il soldato che avete visto nelle carte, giusto?» Anche la voce non mi dispiace. «Sì, esatto.» «Eppure ci siamo paracadutati in dodici prima che l’aeronave fosse attaccata. Come fate a esserne certa?» Abigail gli mostrò il pendolo. «Ho usato questo. Mi sono concentrata su ciò che dovevo raggiungere e ho trovato voi.» Il soldato annuì. «Certo. E ora quel vostro ciondolo ci sta guidando da…» «…un Lord e un automa.» «Già, esatto, un lord e un automa. E poi cosa? Cosa dovrebbe accadere, di grazia?» Il volto di Abigail avvampò. Era la prima volta che un popolano le rispondeva a tono. Era eccitante. Distolse lo sguardo e fissò il pavimento in parquet del vagone. «Be’, vedete Mister Plye, in realtà non lo so. Non ancora. Sto solo seguendo la mia previsione. Noi ci saremmo incontrati comunque. Era destino. Solo non sarebbe successo esattamente così.» Abigail si stropicciò le mani. «È… è più chiaro adesso?» Il soldato Plye diede un colpo di tosse. O era un grugnito? Abigail rialzò lo sguardo. Il soldato si stava grattando la nuca, la fronte corrugata, gli occhi inchiodati su di lei. «Miss Murrey, non prendetela come un’offesa alle vostre competenze professionali, ma le carte le hanno anche mostrato due volte se stessa. Avete forse una gemella?» Adesso sta esagerando.

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«No, Mister Plye, temo di no. Ditemi: voi avete altre domande dalla risposta scontata?» Il treno si fermò col sibilo dei freni sulle rotaie. Il soldato Plye si alzò in piedi. «Solo una, signorinella, come diamine faremo a seguire la pre…?» Lo sguardo del soldato si fissò oltre la sua spalla. Un sorriso nervoso gli increspò le labbra. Abigail si girò. Sulla banchina del Dipartimento di Scienze Meccaniche una folla di demoni si litigava i corpi senza vita di tre ragazze. John afferrò il fucile e balzò in piedi. Nella stazione c’erano pochi lampioni a gas ancora in funzione, ma illuminavano almeno una ventina di bastardi. «Miss Murrey, resti dietro di me. Qualunque cosa succeda non si muova da qui!» Tolse la sicura. Ce la poteva fare. L’unico ingresso del vagone era il portello centrale: se restavano dentro poteva affrontarli uno alla volta. Sì, ce la poteva fare. I demoni urlarono eccitati, la pelle percorsa da lingue di fuoco. Quello più vicino strappò un ultimo brandello di carne dalla gamba che stava spolpando e si avventò sul portello del vagone. John fece fuoco. Il fucile Perkins vomitò una raffica di proiettili e sbuffi di vapore bianco e il vetro del finestrino scoppiò in una pioggia di schegge. Il volto del demone esplose in mille brandelli di ossa e carne. La bestia cadde a terra, in preda agli spasmi, e del fumo viola salì fino al soffitto. Gli altri demoni corsero verso il vagone. John urlò. Sparse la raffica mirando alle gambe. I bastardi caddero a terra. John staccò il caricatore e ne infilò un secondo. I demoni erano già in piedi. Uno aveva perso la gamba destra, altri tre zoppicavano. John mirò all’altezza dello stomaco. I demoni crollarono di nuovo al suolo. Il sangue si allargò sulla banchina e colò sulle rotaie. Il vapore espulso dal fucile riempì il vagone e appannò i vetri restanti. John lasciò andare il grilletto, prese un respiro profondo, tese le orecchie: le urla dei demoni avevano lasciato il posto a un tappeto di guaiti e lamenti. Si asciugò col dorso di una mano il sudore della fronte e si rimise in posizione, il fucile puntato verso la banchina.

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Miss Murrey respirava affannata. «Forse ora possiamo uscire?» John portò un dito davanti alle labbra per intimarle il silenzio. Aveva una strana sensazione. «Mister Plye, non…» «Silenzio, Miss Murrey.» Già, silenzio, anche fuori dal vagone. Il vapore stava uscendo dal finestrino. Aleggiava sulla banchina mischiandosi alla luce fioca dei lampioni a gas. Dove cazzo sono finiti? Sono morti? «Se la via è sicura dobbiamo andare, Mister Plye. Dobbiamo trovare…» John si girò di colpo. «Vi ho detto di fare silenzio, per Dio!» Stridore metallico. Il portello del vagone cedette con un clang secco. Miss Murrey lanciò un grido. John si girò e aprì il fuoco. Una mano artigliata afferrò la canna del fucile e lo strattonò. John tenne salda la presa, venne sbalzato sulla banchina della stazione. «Mister Plye!» I demoni lo accerchiarono, le lingue che schioccavano contro i denti, le fiamme che lambivano gli artigli. John si rialzò da terra e gettò al suolo il fucile. I demoni risero. «Vi divertite, eh, bastardi?» John sguainò la sciabola e azionò le molle dell’armatura. «Fatevi avanti, stronzi!» Un urlo. Le fiamme si alzarono in colonne bianco incandescente sulle schiene dei bastardi. Un demone senza un braccio si gettò in avanti e John scartò di lato, tagliandogli la testa in due all’altezza del naso. Si girò su se stesso e sferrò un pugno al demone più vicino che si schiantò contro due compagni e li trascinò al suolo con sé. Un’artigliata alle spalle. John venne sbalzato in avanti e sbatté la testa contro il vagone pneumatico: all’interno Miss Murrey lo guardava terrorizzata. Si voltò. Quattro demoni gli stavano davanti, altri tre si stavano avvicinando all’entrata del vagone. Menò un fendente e la sciabola si incastrò nella spalla del demone più vicino. Tirò per disincastrarla, ma il bastardo afferrò la lama e la spezzò. Spinse John contro il vagone e si strappò il frammento conficcato nella carne.

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Lo lanciò a terra. John alzò i pugni in difesa. Cazzo! La porta di metallo all’altro capo della banchina si aprì con un sibilo. Due delle bestie vicino a John si girarono. Un automa sbucò dal corridoio buio dietro la porta. Tra le mani stringeva una mitragliatrice: le canne presero a roteare e a vomitare fiammate. Un dolore lancinante attraversò il petto di John. I quattro demoni che gli stavano davanti crollarono al suolo. John cadde in ginocchio, privo di forze. Il sapore del sangue gli riempì la bocca e il respiro lasciò il posto a un gorgoglio. Si appoggiò con la schiena contro il vagone. La vista si appannò. Il dolore… Abigail si gettò sul pavimento. La raffica crivellò le pareti del vagone e i finestrini esplosero in una pioggia di vetro. I proiettili le fischiarono sopra la testa. Distrussero infissi e divani: schegge di legno e piume d’imbottitura schizzarono in aria e planarono come fiocchi di neve. L’arma tacque. Le ultime piume si posarono sul pavimento e su Abigail che rimase rannicchiata al suolo a tremare. Il cuore le batteva in petto come se stesse per esplodere. Tre demoni giacevano scomposti fuori dall’entrata del vagone. Gemevano, immobili. Un rumore di passi risuonò sulla banchina. Un demone fuori dal suo campo visivo urlò dal dolore. Che sta succedendo? L’urlo si spense, seguito da un rumore di ossa che si frantumano. «Bene così, Shell-Head, stacca tutte le teste.» La voce di un uomo anziano. Abigail tirò un sospiro di sollievo. Si aggrappò al divano e si tirò su. A lato della banchina un automa era inginocchiato su uno dei demoni. La creatura infernale gemeva. L’automa le aveva sfondato il cranio, infilzandolo con le dita metalliche e tirava per staccarlo dal corpo. Un gentiluomo vestito di nero seguiva la scena appoggiato al bastone da passeggio. Le dava le spalle. Il Lord e l’automa. Abigail mise piede sulla banchina. Un passo e si fermò. Il soldato Plye sedeva sul pavimento con la schiena appoggiata al vagone.

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Delle scie di sangue gli colavano dalla bocca e da cinque fori di proiettile all’altezza del petto. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Mister Plye… Un colpo di tosse. «E lei Signorina chi è, di grazia?» Abigail si voltò. L’uomo accanto all’automa la fissava. Aveva la metà sinistra del volto coperta da una maschera di ottone e una lente al posto dell’occhio, come un monocolo da gioielliere. Barba, baffi e capelli bianchi incorniciavano l’altra metà della faccia. Le puntava contro un revolver. Abigail riprese a tremare. «Perdoni le mie maniere, Signorina, ma come può capire oggi è una giornata in cui è meglio non fidarsi di nessuno.» Un colpo di tosse, più di imbarazzo che altro. «Sono Lord Caulfield, direttore del Dipartimento di Scienze Meccaniche. Il vostro nome?» «Abig…» L’urlo di un demone sovrastò la voce. L’automa sollevò in aria un’altra testa. «Abigail Murrey, Dipartimento di Scienze Occulte.» Il sospetto sulla faccia di Lord Caulfield lasciò il posto a una smorfia di disgusto. Abbassò il revolver. «Una degli stregoni, eh?» Il gentiluomo sospirò e lanciò uno sguardo ai demoni sul pavimento. «Ditemi che avete combinato.» «…mi sentite?» La voce suonava distante. John aprì gli occhi, la luce glieli fece chiudere di nuovo. La testa doleva come dopo una sbronza colossale. «Ah, bene! Ci siamo!» La voce di uno sconosciuto. John dischiuse le palpebre. Era tutto sfocato. C’era una lampada sul soffitto, circondata da degli specchi. Guardò in basso e la vista si schiarì. Era a torso nudo, disteso su un tavolo di metallo: una ferita serpeggiava dal torace all’ombelico, chiusa di fresco da una serie interminabile di punti di sutura. «Mister Plye?» Di nuovo la voce maschile, a sinistra. John girò la testa. Era un vecchio con metà del volto coperto di ottone e un aggeggio nero al posto dell’occhio sinistro. Indossava un grembiule bianco, lordo di sangue. «Chi hè lehi?» Cos’ha la mia voce? «Mister Plye, non si sforzi. Avete avuto un incidente. Vi ho ap-

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pena operato. Mi chiamo Caulfield, Lord William Caulfield.» Incidente? John chiuse gli occhi. Il salto dall’aeronave. Miss Murrey. L’interno del vagone pneumatico. I demoni che smembravano le tre ragazze sulla banchina. L’automa. Il morso dei proiettili. Raccolse le forze e sollevò la schiena. Il corpo rispose subito, ma era intorpidito. Non avvertiva nulla: né la temperatura dell’aria, né la consistenza del tavolo sotto di sé. Il pavimento della sala operatoria era sporco di sangue quanto il grembiule del vecchio. C’era anche del vomito. Sulle piastrelle qualcuno aveva tracciato in nero cerchi, stelle a cinque punte e altri simboli che John non conosceva. Nascosta dietro al vecchio c’era Miss Murrey. Teneva un fazzoletto di pizzo premuto sulla bocca. Aveva le guance rigate di lacrime. «Mhiss Muhrrey?» La ragazza singhiozzò. «Mi dispiace John. Non c’era alternativa. Ho dovuto aiutarlo.» Gli diede le spalle e uscì dalla stanza. Appoggiato alla parete c’era un tavolo con sopra un vassoio chirurgico. Sopra al vassoio una pila di organi: stomaco, intestino, fegato, reni e tutto il resto. «Mha che sushede?» Il vecchio gli mise una mano sulle spalle. «Mister Plye ho delle brutte notizie per voi. Pessime, in verità.» Il vecchio inclinò la testa di lato. Inarcò il sopracciglio e un ghigno gli apparve sulle labbra. «L’incidente che avete avuto vi è stato fatale. Voi siete morto, Mister Plye.» John fece strada lungo le rotaie. L’automa che l’aveva ucciso avanzava accanto a lui a scatti veloci e precisi, i motori elettrici delle giunture che ronzavano a ogni passo. Sulla schiena i pistoni del motore a vapore si alzavano e abbassavano a ritmo costante, stretta nella destra la mitragliatrice a manovella rifletteva la luce delle lampade a gas. Un automa. Un oggetto senz’anima. John si portò una mano davanti agli occhi: era pallida, sottopelle le vene erano diventate viola. E io cosa sono, adesso? Quando il dottore gli aveva detto come stavano le cose, John aveva sentito il bisogno di vomitare, ma non c’era riuscito. Ovvio,

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non aveva più lo stomaco. Gli erano rimasti solo i polmoni e il cuore, collegati a delle grosse batterie voltaiche. Erano in azione anche adesso: ogni respiro ossigenava il Fluido Riattivatore e ogni battito lo metteva in circolo. Ma quanto sarebbe durata? Quanto ci avrebbe messo il corpo a marcire? Raggiunsero la stazione e salirono sulla banchina. Di fronte a loro troneggiava una porta di metallo con sopra la scritta Dipartimento di Scienze Evoluzionistiche. Lord Caulfield annuì soddisfatto, grattandosi la barba. «Bene…» «Voglhio morirhe.» Miss Murrey si asciugò gli occhi arrossati col fazzoletto. Non aveva mai smesso di piangere, non aveva detto una parola da quando aveva lasciato la sala operatoria. Lord Caulfield inarcò il sopracciglio. «Ma, Mister Plye, voi siete già morto.» John digrignò i denti. Lo afferrò per il bavero della giacca e se lo portò vicino alla faccia. «Nohn mi prendehre per il cuhlo, vehio bastahrdo.» L’automa a guardia del vecchio prese John per un braccio e lo allontanò con uno strattone. John gli assestò un pugno sul volto, ma la macchina lo scaraventò a terra e gli puntò contro la mitragliatrice. «Basta così, Shell-Head.» Lord Caulfield poggiò una mano sull’automa che abbassò l’arma. Il vecchio aprì la porta e fissò John con un ghigno compiaciuto. «E così volete morire, soldato Plye? Be’, non preoccupatevi, ci sono buone probabilità che in questo dipartimento troverete la soluzione al vostro problema. Prego, dopo di voi.» John si rimise in piedi. Imbracciò il fucile e oltrepassò la soglia. Un corridoio poco illuminato correva diritto fino a un’altra porta di metallo. Porte numerate in ordine decrescente si affacciavano sui lati. La maggior parte erano aperte, all’interno mobili ribaltati, documenti sparsi a terra, pozze di sangue e cadaveri decapitati. John raggiunse il portone alla fine del corridoio. Un’esplosione aveva deformato i battenti di metallo verso l’esterno. Sopra stava la scritta Laboratori. Gli altri si avvicinarono. «Bene, proseguiamo.» Lord Caulfield controllò l’orologio e annuì, lo sguardo perso in un ragionamento. «Miss Murrey, una volta dentro ci dovremo muovere in fretta: non allontanatevi da

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me, mi raccomando. Mister Plye, a voi e a Shell-Head il compito di farci strada.» Il vecchio sorrise, il solito ghigno di merda. «E buona fortuna.» Sadico bastardo «Shell-Head, apri la porta e scortaci nel laboratorio!» L’automa appoggiò le mani sui battenti e li spalancò senza sforzo. Miss Murrey e Lord Caulfield si turarono il naso. John aggrottò le sopracciglia. «Che c’hè?» «Non… non lo sentite?» Chiese la ragazza. John abbassò lo sguardo. «No.» Si voltò ed entrò assieme a Shell-Head nel laboratorio. Una lampada elettrica illuminava lo stanzone, l’unica superstite di quattro. Ai lati, le pareti erano coperte da gabbiette sfondate e sul pavimento giacevano i corpi smembrati di un mucchio di conigli bianchi. Altri conigli sporchi di sangue tremavano accalcati negli angoli della stanza. La porta per il laboratorio successivo era a terra, in pezzi. John la raggiunse e passò oltre. Le urla delle scimmie chiuse nelle gabbie lo sommersero. Le bestie saltavano su e giù nel poco spazio che avevano a disposizione e mostravano le zanne. Avevano tutte lo stesso sguardo spaventato. Al centro del laboratorio due gorilla sventrati giacevano su tavoli chirurgici. Uno respirava ancora, buona parte dell’intestino riverso sul pavimento. John ignorò le urla delle scimmie e si avvicinò al gorilla in vita. Sulla fronte due piccole corna s’inarcavano all’indietro. Cos…? La bestia gli strinse le mani attorno alla gola e scese dal tavolo. Nessun dolore. John lasciò andare il fucile e si avvinghiò ai polsi del gorilla. Puntò un piede sulle costole esposte e gli sferrò un calcio allo stomaco, ma lo stivale restò aggrovigliato nelle interiora lordandosi di sangue viola. Shell-Head, Lord Caulfield e Miss Murray entrarono nella stanza. La ragazza gridò. Lord Caulfield le afferrò la mano e la trascinò nella stanza successiva, seguito da Shell-Head. Il gorilla portò il volto di John alla bocca con uno strattone. Le

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zanne affondarono nella carne morta, strapparono via la mandibola e una lunga striscia di pelle, giù fino alla base del collo. Il sangue colò copioso sull’armatura. Nessun dolore. Sono un’idiota! Non devo difendermi, sono già morto. John lasciò la presa sui polsi. Attivò l’armatura e sferrò un pugno sull’occhio destro della bestia. Il gorilla scosse la testa, lo sguardo perso nel vuoto. Lasciò la presa sul collo e cadde all’indietro sul pavimento, trascinando John per il piede ancora avvolto negli intestini. John travolse il tavolo e crollò a fianco del gorilla. Il fucile era a un passo dal petto della bestia. Il fucile! John allungò un braccio, ma il gorilla gli sferrò un calcio al petto. L’armatura si deformò e una costola si spezzò con un crack umido. John tossì sangue e distese ancora il braccio, le dita che accarezzavano il fucile. Inarcò la schiena e le strinse attorno alla canna. Il gorilla si mise carponi, gli afferrò di nuovo la gola. John gli spinse in faccia il fucile. Addio, stronzo. Tirò il grilletto. La testa della bestia esplose come un frutto troppo maturo, gli schizzi di sangue e materia grigia imbrattarono John. Il corpo senza vita gli cadde addosso. John lo spinse di lato, si mise seduto e disattivò l’armatura. La testa gli girava. Il corpo era più intorpidito di prima. Il Fluido Riattivatore e il sangue grondavano dalle ferite al volto e al costato: senza mandibola non ci sarebbe voluto molto prima di morire dissanguati. Da uno dei laboratori si levò un urlo, seguito da una raffica di mitragliatrice. Miss Murrey! John si tirò su e corse nella stanza successiva. Le pareti sfarfallavano in vortici di colore. No, era altro: brulicavano di creature a metà tra gechi e camaleonti, grandi come gatti. Gli animali si fermarono e sulla parete destra i corpi ammassati disegnarono un grande occhio d’oro. John fece un passo verso il centro della stanza. L’occhio lo seguì. Ma cosa? Un’altra raffica di colpi. Altre urla. Del vecchio, stavolta. John corse nella stanza successiva: era vuota. E così la terza e la quarta. Oltrepassò un’altra soglia. Nella stanza c’erano sei demoni che barcollavano, immersi nel vapore. Uno era grosso il doppio

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degli altri: aveva le gambe di un caprone e il torso e la testa di un leone cornuto. Una fiammella azzurra galleggiava a mezz’aria tra le corna, dalla schiena spuntavano otto tentacoli lunghi come un uomo. Che cazzo di esperimenti conducevano qui? Miss Murrey e Lord Caulfield erano stretti in un angolo. Il vecchio sadico non aveva più la mano sinistra: gli era stata troncata di netto e giaceva a terra, ancora stretta al bastone da passeggio. Il moncherino slabbrato fiottava sangue. Shell-Head era davanti a loro, le canne della mitragliatrice ancora fumanti. John mirò alla testa di leone e fece partire una raffica. La bestia porto le zampe al volto e cadde al suolo urlando. John attivò l’armatura e le si scagliò addosso: le afferrò il collo e tirò con tutta la forza che aveva. Dai, per Dio, spezzati! Un tentacolo lo avvolse per la vita e lo scaraventò contro un muro. Sbatté la testa e cadde a faccia in giù sul pavimento. Il mostro avanzò, i tentacoli che ondeggiavano disposti a raggiera attorno al corpo, la fiammella che lo seguiva a ogni passo. John si tirò in piedi e si appoggiò con la schiena alla parete. Il lato destro della stanza sparì nel buio. Del liquido colò sulla guancia destra. John portò una mano all’occhio e tastò piano. È andato… I tentacoli lo avvolsero e lo sollevarono in aria: il vecchio bastardo e Miss Murrey erano spariti. Shell-Head aveva perso un braccio e stava strangolando uno dei demoni con la mano che gli era rimasta. Il demone con la faccia da leone ruggì. Il rumore di ossa che si spezzavano riempì l’aria, seguito da quello della carne che si strappava. La luce nella stanza si affievolì, i suoni si fecero più ovattati. John chiuse gli occhi e inspirò a fondo. È la seconda volta che muoio oggi… Una raffica di colpi. Il demone-chimera cadde al suolo e gli altri si girarono verso l’entrata. Abigail lanciò un grido. John? Il soldato Plye aveva perso metà della faccia, l’armatura tinta di viola dal liquido che gli colava dalla ferita.

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Lord Caulfield le afferrò un braccio e la trascinò oltre il tavolo chirurgico ribaltato in mezzo alla stanza, verso la parete opposta. Spinse uno dei mattoni e una porzione del muro arretrò, rivelando un passaggio segreto. «Presto Miss Murrey, da questa parte.» «Milord, no! Mister Plye…» «Non c’è niente che possiamo fare ormai!» Lord Caulfield si girò verso l’automa. «Tu resta qui, Shell-Head. Assicurati che nessuno ci segua.» Trascinò Abigail fuori dal laboratorio e il passaggio si richiuse alle loro spalle. Abigail si liberò con uno strattone. Si appoggiò al muro e spinse con tutte le forze. Dall’altra parte della parete giungevano i versi eccitati dei demoni e nessun rumore di spari. Si voltò verso Lord Caulfield. «L’abbiamo abbandonato!» «Smettetela! Non aveva più la mascella. Sarebbe morto comunque.» Lord Caulfield allentò il colletto della camicia con un dito. «E poi non ha più importanza. Dobbiamo raggiungere la macchina. Tutto il resto è irrilevante!» «Come fate a dire certe cose? Mister Plye è corso in nostro aiuto anche dopo che l’abbiamo strappato all’aldilà. Vi ha seguito senza fare domande e ora che aveva bisogno di noi, l’abbiamo lasciato a morire!» Lord Caulfield si slacciò la cravatta. Era pallido, il volto imperlato di sudore. «Era quello che voleva.» Ansimò. «E comunque non ha sofferto: un cadavere non può soffrire.» Barcollò e si appoggiò al muro. Il volto aveva perso la solita aria divertita. Il moncone della mano sinistra spruzzava deboli fiotti di sangue. «Milord…» Abigail gli si avvicinò. Spiegò il fazzoletto e lo premette sulla ferita. Lord Caulfield la scacciò con uno strattone. «Prego, lasciate stare. Non ho molto tempo. Aiutatemi piuttosto, dobbiamo raggiungere un macchinario custodito in fondo al corridoio.» Abigail annuì. Si passò il braccio sano del gentiluomo sopra le spalle e camminarono in silenzio sotto una serie di lampade elettriche, fino a entrare in un montacarichi. Lord Caulfield estrasse un mazzo di chiavi, l’infilò in un pannello alla sinistra dell’entrata

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e diede due mandate. Le porta a fisarmonica si chiuse e il montacarichi scese. Un piano. Due. Lord Caulfield era pallido come un cadavere, aveva il respiro pesante. Si appoggiò a una parete e chiuse gli occhi. Ingoiò a vuoto, respirò a fondo. Quattro. Cinque. Il montacarichi si fermò con un sobbalzo. Al di là della porta a fisarmonica si allargava uno stanzone di mattoni. Tubi alti fino al soffitto ne costeggiavano le pareti, illuminando l’ambiente di una fredda luce azzurra. Delle creature galleggiavano all’interno, immobili, addormentate: avevano un aspetto umano, ma la pelle era bianca e lucida come il ventre di un pesce, e i volti possedevano la bocca, sette occhi disposti in tre colonne e nient’altro. Abigail si portò una mano al petto. «Che cos’è questo posto?» Lord Caulfield aprì la porta e uscirono. Respirava sempre più a fatica. «Solo i capi dipartimento ne sono a conoscenza. Qui hanno luogo gli esperimenti di massima segretezza.» In fondo alla sala trovarono una piattaforma circondata da quattro colonne in metallo e sormontata da una quinta che pendeva dal soffitto. Ogni colonna terminava con una sfera metallica ed era collegata a un macchinario coperto di indicatori, contatori, manopole e interruttori a coltello. Al centro troneggiava un enorme orologio: c’era una lancetta in più del solito, segnava il giorno. Lord Caulfield si liberò dall’abbraccio della ragazza e si avvicinò all’orologio. Con l’indice riportò la lancetta delle ore indietro quasi di un giro completo. Si voltò verso Abigail ed estrasse il revolver. «Salga sulla piattaforma.» Abigail restò dov’era. «Cos’è questo marchingegno?» Lord Caulfield armò il cane e tossì. Nonostante l’aspetto da moribondo la mano era ben salda sull’impugnatura. «Miss Murrey, vi prego, fate come dico. Non c’è tempo per le spiegazioni e io non posso prendere il vostro posto. Sulla piattaforma! Adesso!»

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Abigail obbedì. «Si metta sotto la sfera al centro e non si preoccupi» disse Lord Caulfield. «Non le succederà niente di male.» Abigail strinse i pugni, gli occhi sulla pistola. «Mi è difficile crederlo, Milord.» Lord Caulfield scosse la testa. Senza spostare lo sguardo, abbassò col moncone il primo di tre interruttori a coltello del macchinario che gli stava affianco. Un ronzio cupo riempì la stanza. Sulla macchina gli aghi degli indicatori ballarono dietro i vetri. Qualcosa è fuori posto. Un formicolio partì dalle gambe e si irradiò in tutto il corpo di Abigail che non riuscì più a muoversi. Scariche elettriche saettarono da una all’altra delle sfere in cima alle colonne, crepitando, fino a formare un cerchio sopra la piattaforma. «C-che succede?» Il secondo interruttore seguì il primo. Altre scariche, più forti. L’intreccio di lampi collegò le sfere a terra con quella che pendeva dal soffitto facendola brillare di un azzurro intenso. Una forza invisibile sollevò Abigail dal suolo. «È tutto normale.» Lord Caulfield lanciò il revolver sulla piattaforma e abbassò il terzo interruttore. «Le spari in faccia! In faccia!» Abigail gridò, ma la voce le morì in gola. Una pioggia di scariche elettriche si riversò su di lei. La luce la avvolse e Abigail fluttuò senza peso, immersa nel candore e nel silenzio. Bianco fino all’orizzonte in tutte le direzioni. Dove sono finita? Un tuono scosse l’aria. Il rombo riecheggiò nel vuoto e la luce si frammentò in un turbine di scintille. Un altro tuono e le scintille si dileguarono come uno sciame di lucciole, sciogliendosi nel nulla. Abigail era in un corridoio della Torre di Londra: del laboratorio segreto non c’era traccia. Da dietro una porta chiusa giunse il rumore di tre spari. Abigail si voltò e toccò qualcosa col piede: era il revolver di Lord Caulfield. Si chinò e lo raccolse. Qualcosa è fuoriposto. La porta da dove erano venuti gli spari si spalancò. Un’altra Abigail apparve sulla soglia. Sbarrò gli occhi, terrorizzata. «C-chi…?» Ma che succede?

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Nella stanza c’era una gabbia. All’interno Lord Fairfax era disteso sul pavimento, privo di sensi, e un demone stava soffiando del fumo viola in faccia a un soldato. Non è possibile. Quella è Rangda. Questo è l’esperimento di ieri pomeriggio! L’Abigail dentro la stanza fece un passo indietro e cadde seduta a terra. Abigail strinse il revolver. «Presto, dobbiamo fermare la strega!» Scavalcò il doppione e corse fino all’entrata della gabbia. Rangda lasciò cadere il soldato a terra. L’uomo tremava: la sciabola che aveva al fianco sbatteva sul pavimento in pietra col suono di una campana d’allarme. La pelle gli si stava colorando di rosso acceso. Un braccio prese fuoco, coprendosi di piccole fiamme arancioni. Sulle dita spuntarono artigli neri e ricurvi. Abigail sollevò il revolver con due mani. La strega la guardò con la testa inclinata di lato, come un animale curioso, e rise. Abigail inghiottì a vuoto e sparò. Il rinculo le sbatté il revolver contro la faccia e la mandò stesa sul pavimento. Un dolore lancinante s’irradio dal naso alla nuca. Artigli ricurvi le infilzarono il braccio. Abigail riaprì gli occhi, la vista offuscata dal sangue e dalle lacrime. La strega era sopra di lei: il proiettile era penetrato nella faccia, sotto lo zigomo destro. La ferita si stava richiudendo. Rangda non rideva più. Le trafisse i lati della gola con gli artigli e la sollevò da terra. Abigail la afferrò per il braccio, il sangue che schizzava copioso sulla gonna e sul pavimento. «No!» La voce dell’altra Abigail. La lama di una sciabola spuntò dal ventre della strega, che lasciò la presa. Abigail cadde a terra. Rangda si girò e spalancò le braccia: una forza invisibile inchiodò l’Abigail con la sciabola contro la parete della gabbia. La strega rise. Sul pavimento, Abigail strisciò fino a raggiungerla e le afferrò una caviglia. La pelle era rovente. Rangda le sferrò un calcio, si chinò e le trafisse il petto. Abigail sorrise. Proprio quello che volevo, idiota. Le poggiò il revolver contro la fronte e fece fuoco. Un fiotto di sangue le investì il volto. Rangda si prese la faccia tra le mani e

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cadde in ginocchio urlando. L’altra Abigail apparve accanto alla strega, la sciabola sollevata in aria. La lama piovve sul collo di Rangda e affondò nella carne, incastrandosi nell’osso. Uno schizzo di sangue investì il volto disgustato dell’Abigail in piedi che appoggiò un piede contro la spalla di Rangda. Urlò di rabbia e strappò la sciabola con una spinta. La lama saettò di nuovo sul collo e la testa di Rangda disegnò una parabola in aria e cadde sul pavimento con un tonfo. Il corpo senza vita si accasciò di lato, percorso da spasmi. Si ricoprì di crepe che gettarono una luce arancione e prese fuoco. L’Abigail con la sciabola tirò un calcio al cadavere della strega che si dissolse in una nube viola. È finita. Abigail tossì, distesa in una pozza di sangue, gli abiti e i capelli zuppi, appiccicati alla pelle. I contorni delle sbarre si ridussero a una nube grigia. Le mani dell’altra Abigail le sollevarono la nuca. La testa di Rangda era una massa sfocata sul pavimento. Abigail strinse gli occhi e i dettagli si fecero più distinti: la maschera si era staccata dal volto ed era di nuovo inanimata. La faccia del Soggetto 37 era sciolta fino all’osso. «Il… il soldato?» L’altra Abigail si voltò a controllare. «È morto. Non…» La luce scomparve e con essa il calore. I volti di Mister Plye, Lord Caulfield e Shell-Head apparvero nel buio. Abigail ripensò alla previsione di qualche ora prima. Demoni rosso sangue. Una città avvolta dalle fiamme. Una corona che cade a terra. Sorrise. Anche stavolta ho sbagliato qualcosa.

editing a cura de Il Duca di Baionette www.agenziaduca.it www.vaporteppa.it racconto tratto dall’antologia GLI INGRANAGGI DELL’IGNOTO (primavera 2014)

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PLUSGENE FIGHTER

di ©STEFANO MARINETTI stefanomarinetti.deviantart.com

L’ARENA DEI

PLUSGENE di POLLY RUSSELL

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V

edo almeno sei paia di piedi, un paio femminili ­– le orrende scarpette cremisi non passano inosservate. Trattengo il respiro e mi sposto a un lato della grata; il lampione sembra puntato proprio su di me e potrebbero vedermi. Bloccato in un fottuto scantinato. Che posto del cazzo per materializzarsi. Fa caldo e ho sete. I titolari dei dodici piedi ridono e parlottano, l’argomento sono io. Io e ‘il modo bizzarro’ in cui mi hanno visto sparire dal ring. Sarà bizzarro per loro. Mi stanno dando del vigliacco: dovrei crepare per il loro sollazzo. Genepiatti di merda! Vorrei sapere come hanno fatto dei fottuti sapiens a fregarci tutti! Mi siedo a terra, lontano dalle fessure di luce gettate sul pavimento lercio. Devo andarmene ma non ho visuale. Fottuto collare inibitore! Sono tre anni… riuscissi ad aprirlo sarei già sdraiato al sole in qualche isola tropicale, invece di star qui ad aspettare che sei stronzi muovano il culo e mi lascino vedere cosa cazzo c’è di fuori. «Ho pagato quasi seicento carte per vedere dei veri plusgene combattere. Se l’incontro salta rivoglio indietro i soldi.» E brava la troietta, arrabbiati, andate a chiedere il rimborso. «Ha ragione Lucrezia, è una presa in giro. Torniamo alla cassa. Oltretutto qui fuori si soffoca!» Cazzo se era ora! Aspetto che il ticchettio delle scarpette cremisi si allontani… afferro le sbarre di questa specie di finestra e mi sollevo. La visuale è riempita dal palazzo all’altro lato della strada. Fisso una finestra buia… Il mio corpo perde consistenza, fluttuo nel nulla, solo un attimo… fa freddo adesso. Come sempre. Poi in meno di un battito di ciglia avvampo. Il lieve formicolio mi avvolge… ora non sono più formiche ma scorpioni e ratti, e mi stanno mordendo. Cazzo come brucia! E il cuore pompa come se dovesse scoppiare. I morsi si acquietano e rimane solo un ronzio cupo. Sono nella stanza che avevo puntato. È il collare elettronico a produrre le anomalie e tutto questo dolore. Prima, materializzarmi era facile e naturale come respirare. Ma sembra passato un secolo. Ho bisogno di qualche istante… appoggio le mani sul davanzale. Non sento nulla, come se il mio corpo non mi appartenesse. Stringo il marmo, almeno credo di farlo. Ecco, ora sento il freddo della pietra e l’umidità sotto i palmi, le dita mi dolgono. Sono tornato.

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La stanza è vuota. L’appartamento anche. Un rumore dalla tromba delle scale. Passi veloci, molti. Saltando fuori dal complesso dell’Arena si è attivato il segnalatore. Sempre questo collare bastardo! Mi affaccio alla finestra, due dei miei carcerieri sono in strada. Da qui vedo un angolo del parco cittadino. Saranno quasi cento metri: al limite della portata del collare, o forse oltre. Non tento un salto del genere da tre anni. All’ingresso dell’appartamento un vecchio antifurto lampeggia. Sfioro il display: niente riconoscimento biometrico. «Buona sera Carlos. Devo aprire?» dice la robocasa. «Col cazzo! Blocca e inserisci l’antisfondamento.» Forzeranno comunque la serratura, ma avrò almeno la soddisfazione di friggergli una mano quando ci proveranno. Torno alla finestra e fisso un punto tra due grosse magnolie… L’intorpidimento è più lungo del solito, so di aver saltato ma non vedo nulla. Le braccia e le gambe mi fanno un male fottuto, e se non recupero in fretta sarà stato tutto vano. Finalmente i miei occhi si abituano alla luce, mi bruciano anche, ma credo sia normale. È quello che vedo intorno a me che non è normale. Il primo contatto con la realtà è un colpo in faccia. Sento il labbro spaccarsi come una mela matura, e il sapore del sangue mi riempie subito la bocca. «Bentornato Jaime.» Come posso essere di nuovo qui? Come cazzo hanno fatto a riportarmi in questa prigione di merda? «Davvero pensavi che non lo avremmo previsto? Andiamo Jaime, sei un teleporta! Sei stato abile a trovare quella falla nel perimetro di contenimento, ma appena salti da qualsiasi posto esterno al complesso il collare inibitore ti riaggancia al faro della tua cella. C’è una ragione se nessuno è mai evaso da qui.» Il figlio di puttana mi fissa da dietro la spalla del suo picchiatore. Non sono solo affari. Non è solo per soldi che ci obbliga a combattere quasi ogni sera. Lui ci gode a farci massacrare tra noi. Mentre provo a concentrarmi la sua risata mi anticipa. «Non pensarci neanche Jaime, non puoi più saltare. Abbiamo riprogrammato il tuo collare. Fidati, non sarebbe piacevole.» A questo punto non ho molto da perdere, tanto non può andare peggio di così… Oh sì che può!

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Non credevo di poter provare tanto dolore in un colpo solo! Come se un branco di lupi stesse banchettando con le mie carni. Riesco a sentire la pelle che si lacera e i tendini strapparsi uno a uno, ma quando smetto di gridare sono sempre nella mia cella e la pelle è ancora tutta al suo posto. Sorride il bastardo, quanto vorrei spaccargli quei denti perfetti. «Sei diventato più fastidioso che remunerativo. Gli scommettitori si sono parecchio indispettiti per il tuo numero di prima. Se non ti batti dovrò risarcire le scommesse. E perderò dei soldi. Parecchi. Quindi ti batterai.» Un cenno a quella specie di mastino e lui mi colpisce. Ancora e ancora. Cado a terra, ma lui non smette di pestare. I colpi quasi non mi fanno respirare. Stringo gli occhi, il sudore e il sangue me li fanno bruciare e quando li riapro vedo solo il ghigno del mio padrone. «Bisogna morire molte volte per imparare a vivere» dice – la sua solita frase, citata da non so che cazzo di tizio italiano, forse uno che aveva il dono di risorgere. Poi si rivolge al bastardo che m’ha pestato: «Fallo lavare e rimandalo sul ring.» Se non posso saltare, sono morto. Il picchiatore mi trascina nelle docce, è un plusgene anche lui, un cane da guardia bene ammaestrato, e pagato con l’esenzione dal ring. «Spogliati.» Dolorante, fatico a sfilarmi la tuta, la lascio cadere a terra e mi avvicino alla parete. Appoggio i palmi sulle piastrelle e aspetto. L’acqua è gelata. Meglio. «Andiamo, sei pulito, infilati una tuta nuova e seguimi. Non fare scherzi o crepi prima ancora di arrivarci nel quadrato.» Le luci dell’Arena mi disorientano e il boato della folla m’investe come un’onda. Non ho scelta, quindi afferro una delle corde e salgo sul ring. Manolo mi aspetta all’angolo opposto. Hanno voluto il mio migliore amico per farmi la pelle. Il gong sta ancora suonando e lui già mi è addosso. Schivo il primo fendente per miracolo, ma il secondo va a segno. Volo alcuni metri più là e la montagna di muscoli e placche ossee mi è di nuovo sopra. Mi arpiona il collare e mi solleva da terra. Coglione: saltando ti avrei tranciato via le dita di netto! Invece mi ritrovo

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sbattuto contro le corde elastiche. Non posso fare granché contro uno che ha il corpo corazzato, ma Manolo è il mio migliore amico, si fermerà prima di ammazzarmi. Mi sollevo a fatica e lui fa due passi indietro. Lo vedo roteare su se stesso, è una mossa che abbiamo provato un sacco di volte. Lui che tenta di falciarmi con la coda, io che salto e mi materializzo alle sue spalle: questo era il vecchio copione. Il colpo è talmente forte da fare rumore. Nel boato della folla che lo accompagna, riesco a sentire qualcosa incrinarsi all’interno del torace. Grido, ma il fiato mi muore in gola. Manolo è disorientato, gira su se stesso, finge di reclamare i suoi applausi ma sta aspettando che io mi riprenda; intanto l’arbitro inizia a contare. Sollevo lo sguardo sul tabellone, il mio nome è scritto a chiare lettere anche per l’incontro successivo. Mi trascino al mio angolo cercando di prendere fiato; Manolo continua a temporeggiare, ma la folla ha mangiato la foglia e inizia a fischiare e a tirare oggetti nel quadrato. Il mio amico mi lancia un’occhiata. Il tappeto si copre di bicchieri di plastica e cartacce, e lo strepitare è sempre più forte. Mi sollevo, aggrappato alle corde, guardo il mio compagno. So quello che accadrà e lo sa anche lui. Tra pochi istanti una scossa elettrica arriverà al suo collare, un avvertimento, e lui dovrà decidere se salvarsi la pelle o crepare con me. Ma non voglio che sia lui a farmi fuori. Uno dei guardiani passa accanto alle corde, la sua attenzione è tutta per la folla che esige un corpo morto. Mi sporgo e afferro il suo bastone elettrico. Il gesto è quasi automatico, sfilarlo al bastardo e puntarlo all’unico punto scoperto della pelle di Manolo è un solo movimento. La scarica lo coglie alla gola, dove avevo mirato. Un rumore forte e acuto esplode, insieme alle urla della folla che adesso grida il mio nome. Bastardi! Solo un branco di bastardi figli di puttana! Mi aspettavo di vedere il mio amico intontito, almeno un po’, invece è una furia e sta correndo verso di me. Mi alzo, voglio offrirgli la possibilità di farlo in fretta. Poi vedo un rivolo di fumo levarsi dal suo collare. È andato in corto! «Manolo! Il collare del cazzo è disattivato!» Si arresta a un soffio da me, sento il suo fiato sulla faccia. Mi crede, per fortuna mi crede e inizia a mutare! E per davvero, altro

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che quel surrogato di mutazione concessa dal collare! Cresce sotto i miei occhi, le placche ossee si fondono tra loro e il suo collare salta via con uno schiocco. Le guardie hanno capito, sono salite sul ring, i bastoni elettrici accesi. Guardo quello che ora sembra solo un’informe ammasso di roccia e alzo il mento, esponendo il collo. «Dai cazzo, muoviti!» Stringe il mio collare tra dita giganti e lo frantuma. La prima scarica mi arriva alle spalle, un’altra alla gamba. Chiudo gli occhi e sento Manolo gridare, stanno colpendo anche lui. Mi volto verso il nostro padrone, che indietreggia di un passo portandosi dietro alla linea gialla che adesso non può più delimitare il raggio dei nostri movimenti. Mi prendo anche il lusso di sorridergli, prima di saltare. Quando si rende conto dell’inutilità del suo gesto, la sua testolina di cazzo è stretta tra le mie dita. Bisogna morire molte volte? Scommettiamo che a te ne basterà una sola! Salto. Sento solo il rumore, come di spugna strappata, e, quando compaio di nuovo accanto al mio amico, la testa del nostro aguzzino è ancora tra le mie mani, mentre il suo corpo si affloscia, dieci metri più in là. Almeno tre bastoni elettrici sono schiacciati contro la pelle di Manolo dura come il marmo. «Gira!» lo incoraggio. Ripete la mossa che lo ha reso famoso, e ruota quella coda che adesso è una sorta di colonna, spazzando via metà delle guardie. Distinguo l’ordine di spararci, mi lancio su di lui e lo abbraccio. Ora, se i nostri aggressori sono intelligenti e veloci, si sbrigheranno a toglierci le mani di dosso. O me le porterò dietro. Ho pensato a un posto caldo, assolato. Un’isoletta dove andavo sempre, prima che mi catturassero. Un bellissimo angolo di Paradiso in mezzo al Pacifico. Manolo barcolla e io cado a sedere nella sabbia. Gli sorrido, poi scoppio a ridere, ma mi fermo quasi subito perché la costola incrinata fa un male cane. Manolo si massaggia la testa, di nuovo della misura normale. «Come facciamo con gli altri?» mi chiede. «Dammi un momento… e poi ce li andiamo a riprendere. Uno per uno.» Ora è di nuovo facile.

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WOUNDED

di ©MATHIEU DEGROTTE - M.D. Art www.facebook.com/Mathieu.D.Art www.m-d-art.com

L’UOMO BUONO SI PERDONA

7 VOLTE

di LUCA GERMANO

P

iù Satrian guardava l’uomo prosternato ai suoi piedi, più l’incertezza cresceva, nonostante anni di devoto sacerdozio lo avessero abituato a lacrime e suppliche. Quante volte a implorare era stata la paura della punizione e non la sofferenza per il peccato commesso. Quante volte Satrian, Primo tra i Giusti, aveva dovuto ascoltare la confessione di atti innominabili e dar seguito a penose condanne perché perdonare avrebbe reso ancor più ignobili le colpe. Ma in questo caso… Il suo sguardo, colmo di tristezza, si posò sul corpo nudo della ragazzina. Giaceva immobile, in una pozza scura, la lama lucente ancora piantata nel petto. Non aveva sofferto.

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«Vi prego… abbiate pietà di me» ripeteva senza posa, tra i singulti, colui che, fino a quel giorno, era stato un fedele timorato e scrupoloso. Ora col capo chino, le braccia abbandonate… Quel pentimento sembrava così sincero! «Mareb, guardami.» «So che ho sbagliato. Mi vergogno tanto…» L’uomo cercò di asciugarsi le lacrime con le mani, non facendo altro che spargere il sangue della fanciulla su tutto il viso. L’orrida maschera del colpevole. «Negli occhi, Mareb. Guardami negli occhi.» Tra le fila di adepti e sacerdoti si diffuse un palpabile disagio e si bisbigliarono superstiziose giaculatorie. Mareb si fece, se possibile, ancor più piccolo e indifeso. Satrian ne ebbe compassione. «Guardami.» Il devoto ubbidì. L’incontro di sguardi fu breve, eppure bastò a fugare ogni dubbio. Sincero. Quest’uomo è sincero. Il suo pentimento reale. È un uomo buono. Rivolgendosi ai Fratelli, tutti adesso in sacrale silenzio, Satrian decretò: «Che la colpa sia mondata col perdono!» Poi fece cenno a Mareb di alzarsi. «La Carne riconosce il tuo pentimento. E ti concede l’assoluzione. Tu sei sempre stato un Giusto, non ti sia allora preclusa la via della Redenzione.» Il fedele riprese a piangere. Cercò di alzarsi sulle gambe malferme… Satrian fece segno a due neofiti di prestargli aiuto, e costoro, quasi sollevandolo di peso, lo condussero oltre l’arcata meridionale della Sala delle Celebrazioni, lontano dalla vista degli altri. Satrian sospirò. Togliere la vita alla giovane era stato uno scellerato sacrilegio, ma condannare Mareb allo stesso destino non vi avrebbe posto rimedio. Due Carni perdute in un giorno solo… Sì, la cosa Giusta è stata fatta. Di nuovo saldo nel proprio giudizio, Satrian s’incamminò verso le scale che lo avrebbero riportato all’ingannevole vita di ogni giorno. Fu un improvviso vociare a fermarlo: «È viva! È ancora viva!» L’eccitazione pervase la navata centrale del Tempio della Carne. Satrian si voltò verso la fanciulla. E il suo cuore sussultò per l’emozione. «La Carne ci benedice!» esclamò qualcuno. La cosa Giusta è stata fatta! E la Carne ce ne offre ricompensa!

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La ragazzina respirava. Tossì. Emise un lungo lamento. Si mosse. Ma il dolore la bloccò a terra. Si guardò il petto. E vide la lama che la trafiggeva. Urlò. O almeno tentò di farlo: dalle sue labbra solo un altro pietoso rantolo. Sconvolta, cercò aiuto. I suoi occhi incontrarono volti sconosciuti. Decine di persone, nude sotto i mantelli bianchi, uomini e donne, che continuavano a guardarla senza osare muoversi. Alcuni però presero a sorridere. E qualcosa, illuminato dalle candele rituali, parve accendersi in quelle bocche… immonde: non avevano denti normali, ma zanne di metallo. La giovane cercò ancora di urlare, inutilmente perché nessuno l’avrebbe udita. Nessuno sarebbe giunto a soccorrerla. Il gesto empio che, al posto di infliggerle la Prima Ferita, in un ultimo ripensamento aveva cercato di liberarla dal supplizio di venir divorata viva come i precetti della Carne comandavano, aveva mancato di precisione e convinzione. La lama non aveva trafitto il cuore. Così la ragazzina fu cosciente quando il Celebrante Satrian acconsentì all’inizio al Banchetto. Fu cosciente quando trenta, uomini e donne, giovani e vecchi, le si avventarono contro, i mantelli bianchi, candidi. Tutti in preda alla Fame della Carne. E fu cosciente quando i primi morsi la lacerarono… Sentì la vita fluire via, nel suo sangue, del quale tutti bevvero. Il Celebrante non partecipò, ma osservò in silenzio, commosso per la gioia dei suoi fedeli, che vedeva nutrirsi a sazietà. Di Carne viva e benedetta. Quanta felicità aveva diffuso in quel tempio la saggezza di lasciare in vita un uomo buono! Terminato il Banchetto, il Secondo Prescelto – al quale Satrian aveva accordato il cuore della sacrificata – si avvicinò al Celebrante, umilmente, la riconoscenza negli occhi, e il sangue della ragazzina che ancora chiazzava il suo corpo perfetto. Satrian lo osservò con ammirazione ed eccitazione. «Eravate nel Giusto a voler risparmiare Mareb. La Carne ci ha premiato. Ma… se dovesse fallire di nuovo? Se alla prossima Celebrazione si rifiutasse ancora di infliggere la Prima Ferita e di assaggiare il frutto della sua Carne? Quante volte ancora dovremmo perdonare?» Satrian volle sapere: «Quanti figli ha Mareb, oltre alla fanciulla che questa sera la Carne ha benedetto?» «Altri sette. Compreso quello di cui è in attesa sua moglie.» «Allora la Carne sarà disposta a perdonarlo in tutto sette volte.»

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s ic Sheep Electric Sheep New de per il gruppo Electr an gr a all so iu ch è le si L’anno 2013 Collection curata per lla de o alb e du i im pr e di A. Comics. Sono usciti i A. Cascio con le matit di , lat Sp & h uc To . io re western. Edizioni Il Fogl strizza l’occhio al gene e ch l ve no c hi ap gr a Buffa, è un hi compagni di sere un gioco tra vecc es va ra mb se e ch hing è la llo Que n la morte. Blood Was co o nt me ta un pp l’a a scuola divent po storico degli firma di tutto il grup la a rt po e a cit us a anni second eria americana degli rif pe lla ne to ta en bi sono gli ESC. Un pulp am inalità e tanta vigenza rim oc cr mi o, ss se e dalla a ’70, drog dato soddisfazioni fin ha e ch o tt me fu to tuale degli ingredienti di ques 13 è la nuova casa vir 20 l de a icc ch a tim Ul prevendita. w.escomics.com. a raggiungibile su ww or cs mi Co p ee Sh ic Electr I fumetti che presen tiamo in questo questo numero sono: Posso Volere... Voglio Potere , tratto dall’omonimo racconto di Bill Pronzini (‘I Wish I M ay, I Wish I Might’, 19 73), sceneggiato e disegnato da Gino Carosini, autore di lun go corso :) che attualmente pubblica fumetti e illustrazioni per Edizioni Hypnos; e Level Comp leted, scritto e disegn at o da Claudia Giuliani, giovane ar tista che vedremo pr ossimamente impegnata per la colla na ‘Demian’ de Il Fogl io Letterario. eep Comics sul blog È possibile seguire gli Electric Sh raverso Facebook (www.escomics.com) oppure att eepComics). (www.facebook.com/ElectricSh he per proporre Per ulteriori informazioni, ma anc pubblicazione, i vostri fumetti per una eventuale gmail.com. scrivete a electricsheepcomics@

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Per questo numero abbiamo terminato. Ci auguriamo sia stata una buona lettura. Grazie per averci seguito! Arrivederci alla prossima uscita e... ...non dimenticare di venirci a trovare on-line! www.terrediconfine.net 224



ASSOCIAZIONE CULTURALE

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