Terre di Confine Magazine #3

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DEL FANTASTICO

CINEMA • TV • CARTONI • FUMETTI • RACCONTI • ARTE • CULTURA • LETTERATURA

LA RIVISTA

TERRE DI

OTTOBRE

2014

www.terrediconfine.net • aperiodico di cultura fantastica

CONFINE

PLESIO EDITORE

in collaborazione con

3 TDC MAGAZINE


Immagine di copertina: CROW di ©RENÁTA SZENTIRMAI renegraphics.deviantart.com


TERRE DI

CONFINE MAGAZINE

Aperiodico di cultura fantastica realizzato da

Associazione Culturale

TERRE DI CONFINE in collaborazione con

PLESIO Editore Terre di Confine n. 3 - Ottobre 2014 Prima pubblicazione: 5 ottobre 2014 ISBN 9788898585137 ©2014 A.C. TERRE DI CONFINE ©2014 PLESIO EDITORE Largo S. Carlo, 3/13 Via Plutarco, 38 33085 MANIAGO (PN) 47121 Forlì (FC) Cod. Fisc. 90012230935 P.IVA: 03966240404 redazione@terrediconfine.eu info@plesioeditore.it www.terrediconfine.net www.plesioeditore.it • Tutti i diritti riservati •

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l’EDITORIALE

PHANTASMagorico C

ARI LETTORI, eccoci al terzo incontro con TdCM! Tra i contenuti principali del numero, segnalo subito l’ampia recensione sulla saga horror di Fantasmi, dalle pagine elettroniche di The Obsidian Mirror; l’occasione per proporla è stata l’uscita del libro Phantasm Exhumed e l’annuncio dell’avvenuta messa in produzione di Ravager, ossia quel quinto (risolutivo?) cinecapitolo che i fan di Don Coscarelli attendevano da più di 15 anni! La sezione cinema/TV prosegue con un articolo sulla mitica Spazio 1999, frutto di una preziosa collaborazione con il sito SerieTV.net. Grazie alla presenza ormai fissa dello staff di Anime Asteroid, ci occupiamo poi della suggestiva Serial Experiments Lain, e completiamo il tema Baldios, aperto in TdCM #2, con il film che conclude le avventure del robot guerriero. In Letteratura, oltre al consueto ren-

di MASSIMO DE FAVERI

dez-vous con le rubriche ‘Stile e Dintorni’ e ‘Fabbricanti di Universi’, spicca l’analisi di 1984, classico orwelliano della sci-fi distopica. Sul fronte fumetti, gli ammiratori di Alan Moore troveranno spunti interessanti nella recensione de La Lega degli Straordinari Gentlemen, mentre gli appassionati di manga non potranno perdersi le vicende cruente (e piccanti) di Gantz; ringraziamo BAO Publishing e Panini Comics per averci fornito le magnifiche tavole a corredo. Infine, in sezione antologica, ritroviamo l’immancabile rassegna di racconti fantastici, seguita dai fumetti a colori Beyond e Daddy 9, direttamente dal concorso ‘In Love With My Robot’ organizzato da Verticalismi.it. Spero di aver solleticato la vostra curiosità, e v’invito dunque a sfogliare le pagine di TdCM #3, augurando a tutti voi una buona e divertente lettura! <

l’ASSOCIAZIONE

T

ERRE DI CONFINE è un’associazione culturale non profit, costituitasi nel 2010, avente come finalità lo studio, la promozione e la diffusione della cultura, delle scienze e dell’arte – quest’ultima con particolare riferimento ai generi letterari Fantascienza e Fantastico e all’Animazione Giapponese – intese sotto ogni loro forma espressiva; oggetto d’interesse sono pertanto Letteratura, Cinema-

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tografia e Televisione, Animazione e Fumetti, Storia e Arte, Costume e Società, Mistero e Paranormale, Scienza e Tecnologia, e, più in generale, tutto ciò che attiene agli obiettivi summenzionati. L’adesione all’Associazione è aperta a tutte le persone che, interessate alla realizzazione delle finalità istituzionali, ne condividano lo spirito e gli ideali. www.terrediconfine.net/statuto/ <


i CREDITI REDAZIONE

RINGRAZIAMENTI (in ordine di articolo)

Renáta Szentirmai Jamari Lior Marco Pulitanò Mark Bukumunhe Mary Solyanick Django Wexler Mauro Daltin George Schmauch George Krallis Edli Akolli Ben Wootten Cheska Flaherty Rob Rey Andrew Shelton (Phantasm on Blu-Ray Facebook Page) Phil Fasso Giuseppe Turdo Renata Bertola, Claudio Secco (SerieTV.it)

Martin Willey (The Catacombs Comprehensive Guides to Space: 1999) Domenico Alfieri Jacopo Mistè, Simone Corà (Anime Asteroid) Chris Boland Lorenzo Bolzoni (BAO Publishing) Leonello Di Fava (PANINI Comics) Carlo Gisteni Victor Scorrano Luís Matos Matteo Pecoraro Babette Van Den Berg Eleonora Bruni Mario Del Pennino Roberto Vezzali Fabrizio Castano

LINKS REDAZIONALI Anime Asteroid anime-asteroid.blogspot.it

Figura 4 figura4.com

Plesio Editore www.plesioeditore.it

Bravi Autori www.braviautori.it

Fumetti di Carta www.fumettidicarta.it

Sat’Rain satrain.altervista.org

Colonia Lunare www.colonialunare.it

Giampaoolo Giampaoli giampaologiampaoli-it. webnode.it

SerieTV.net www.serietv.net

Continuum continuum.altervista.org Dusty Pages in Wonderland dustypagesinwonderland. blogspot.it

La Foresta dei Sussurri fantasy-italiano.com La Zona Morta www.lazonamorta.it

ESC Electric Sheep Comics www.escomics.com

Leonardo Colombi Blog leonardocolombi.blogspot.it

Fabbricanti di Universi www.fabbricantidiuniversi.it

Oracolo dei Venti mentore.wordpress.com

Alessandro Napolitano Andrea Carta Claudio Fallani Claudio Piovesan Cuccu’ssétte Davide Longoni Diego Capani Elisa Favi Fabiana Redivo Federica Urso Giampaolo Giampaoli Gianni Falconieri Giordana Gradara Laura Tosello Leonardo Colombi Luca Germano Massimo Baglione Massimo De Faveri Oscar Riva Roberto Furlani Roberto Napolitano Roberto Paura Severino Forini Stefano Baccolini Stefano Marinetti Stefano Moscatelli

IMPAGINAZIONE Massimo De Faveri

Stefano Marinetti DA stefanomarinetti.deviantart. com The Obsidian Mirror insidetheobsidianmirror. blogspot.it Work On Color www.workoncolor.com

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SOMMARIO 4

Editoriale

5

Redazionale

PHANTASMAGORICO

PHANTASM

La celebrazione di un mito horror

LETTERATURA 10

8

Redazionale

9

Photo Dream

DIRITTI IMMAGINI BLUE THINKING

188 INVIO MATERIALE Photo Dream

242 BLUE DISCOVERING

IL PRESIDENTE NON DEVE MORIRE 22/11/’63

CREDITI

Redazionale

6

56

14

LUNGA VITA ALLA CORTE DEL VAMPIRO

Rubrica di stile

40 CIAK, L’AUTORE

IN CABINA DI REGIA Fabbricanti di Universi

44 TERRE REALI,

TERRE IMMAGINARIE

Anno Dracula

18 SPADE, MAGIE

E VECCHI MOSCHETTI I Mille Nomi

22 ANALISI DI UNA

PROFEZIA TOTALITARIA 1984

22


90

124

CINEMA E TV 56 LA CELEBRAZIONE

DI UN MITO HORROR Fantasmi

90 LE EPICHE AVVENTURE DELLA LUNA ERRANTE Spazio 1999

116

L’ULTIMA IMPRESA DEL LADRO GENTILUOMO Basette

120 QUANDO IL FINALE NOBILITA L’OPERA

Baldios - The Movie

124 CERCANDO LA

COSCIENZA NEL WIRED

Serial Experiments Lain

134

SIGLE 131

Serial Experiments Lain TOBI SAKEBI DUVET

FUMETTI 134 FATTI E MISFATTI

DEGLI EROI VITTORIANI

La Lega degli Straordinari Gentlemen

160 RECLUTATI DALLA

MISTERIOSA SFERA NERA Gantz

180 LA SEDUCENTE

PALADINA DEL MALE Satanik

ANTOLOGIA Racconto

189 CYBGEN

Racconto

200 ARIA FREDDA Racconto

210 L’UOMO CHE

CUCIVA ANIME

Racconto

212 IL MERCANTE

DI CIELI IN BOTTIGLIA

Fumetto

217 BEYOND

Fumetto

231 DADDY 9

160

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Disclaimer e Diritti delle Immagini Le copertine dei libri, le tavole a fumetti e le immagini relative a film, serie tv e cartoni animati sono utilizzate in base ai criteri del ‘fair use’, a solo scopo esemplificativo, divulgativo e di recensione. Tutti i diritti sono riservati ai rispettivi proprietari. La foto di Kevin O’Neill è di LUIGI NOVI, fonte Wikimedia Commons, ed è usata e accreditata secondo licenza Creative Commons 3.0. La foto di Stephen King è di SHANE LEONARD, tutti i diritti riservati. La foto di George Orwell è di pubblico dominio. L’illustrazione de La Spada di Shannara è opera di GREG E TIM HILDEBRANDT, tutti i diritti riservati. La foto di Roger Avary, fonte Internet Movie Database, è proprietà del Paris International Fantastic FIlm Festival, tutti i diritti riservati. Le illustrazioni di Lain Iwakura sono opera di YOSHITOSHI ABE, tratte dai suoi artbook, tutti i diritti riservati. Tutte le altre illustrazioni e foto sono state concesse direttamente dagli autori (che ne hanno inoltre personalmente visionato e approvato lo specifico utilizzo), in forma scritta ed esplicita alla Redazione di Terre di Confine, per l’uso in questo singolo numero della rivista. Tutti i diritti riservati.

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Terre di Confine, sta cercando uno sponsor unico, che voglia legare il proprio nome a quello della rivista! Per ogni informazione e chiarimento, rivolgersi ai recapiti redazionali: Amministrazione Ass. Cult. Terre di Confine tel. 338.9774517 redazione@terrediconfine.eu tdc.terrediconfine@gmail.com


BLUE THINKING

di ©JAMARI LIOR www.jamari-lior.com modella: OPHELIA OVERDOSE bodypainter: PETER e PETRA TRONSER supporto: MICHAEL HORACZEK

Photo DREAM 9


Reading TIME

Il Presidente

NON DEVE

MORIRE

di MARCO PULITANÒ

Sullo sfondo di uno dei drammi a più forte impatto mediatico della storia americana, King elabora il suo personale contributo al tema dei viaggi nel tempo.

S

ECONDO UN FAMOSO motto, le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Proprio questo principio sembrerebbe aver guidato la mano di Stephen King nel dare vita a una storia che, utilizzando ingredienti noir all’interno di un contesto fantascientifico, punta dritta al cuore di uno degli eventi che maggiormente hanno segnato la storia e l’immaginario statunitensi. I temi tradizionali del viaggio nel tempo e degli universi possibili formano la cornice fantastica di 22/11/’63, un classico what if… che

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disegna una realtà all’interno della quale John F. Kennedy non è stato assassinato. Il tutto ha inizio quando Jake Epping, un anonimo professore di letteratura con alle spalle un matrimonio fallito, viene invitato dal suo amico Al Templeton a vedere una cosa sul retro della tavola calda di proprietà di quest’ultimo: un varco temporale che conduce alle ore 11.58 del 9 settembre 1958. Questa soglia permette a chi la supera di spostarsi indietro nel tempo, vivere nel passato per un periodo indefinito e poi


22/11/’63

(11/22/63, 2011) FANUCCI Editore traduzione di Wu Ming 1 pagine 767 ISBN: 9788866215073

tornare al presente (dove l’assenza risulta sempre di due soli minuti). Ogni volta che si attraversa il passaggio ci si trova perciò nella condizione di poter modificare il corso della Storia, e al ritorno constatare gli effetti dei cambiamenti, con la garanzia di poterli annullare o correggere in successivi viaggi. Solo una persona, oltre al viaggiatore, sembra conservare memoria dei passati variati: un misterioso individuo con una ‘carta verde’ che si trova poco lontano dall’uscita del varco. Al spiega tutto questo a Jake per convincerlo a realizzare un suo proposito rimasto incompiuto a causa del suo ammalarsi di cancro dopo quattro anni di permanenza nel passato: impedire a Lee Harvey Oswald di assassinare il presidente John F. Kennedy il 22 novembre 1963. Secondo Al, cancellare dalla Storia quel tragico evento produrrebbe un mondo migliore, nel quale gli Stati Uniti non avrebbero partecipato alla guerra in Vietnam e, forse, l’attentato a Martin Luther King non sarebbe mai avvenuto. Dopo un viaggio di prova, relativa-

mente breve, durante il quale si impegna per evitare lo sterminio della famiglia di Harry Dunning (il bidello della scuola al quale è molto affezionato), Jake accantona ogni riserva e accetta di mettere in atto il piano di Al, assumendo la falsa identità di George Amberson. Al gli fornisce documenti d’identità falsi e 9.000 dollari in contanti che gli serviranno per iniziare la sua vita nel passato. A cominciare dal salvataggio della famiglia di Harry, come nel precedente viaggio, Jake/George mette in atto una serie di interventi al

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STEPHEN KING

foto: SHANE LEONARD fonte: stephenking.com

fine di cambiare il corso di cose andate secondo lui nel modo sbagliato. Tuttavia si rende presto conto che il passato non è una materia inerte sulla quale intervenire indisturbati, ma anzi oppone resistenza, tanto più intensa quanto più ‘rilevante’ è l’evento che s’intende alterare. Jake si cala perfettamente nella parte di George, dividendosi tra il suo ruolo di insegnante presso una scuola di Dallas, la sua relazione con la collega Sadie e l’attività di sorveglianza nei confronti di Lee Harvey Oswald. Malgrado un’opposizione sempre più violenta da parte del passato, il protagonista arriva al suo appuntamento col fatidico 22 novembre del ’63 e, non senza sacrifici, riesce a correggere la Storia. Eppure, tornato nel presente, trova un mondo di gran lunga peggiore rispetto a quello che si era lasciato alle spalle cinque anni prima. Kennedy è ar-

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rivato alla fine del suo mandato e Lyndon B. Johnson non è mai diventato presidente; ma nemmeno i movimenti per i diritti civili hanno mai avuto luogo. E la Terra è sconvolta da continui terremoti che la stanno lentamente distruggendo. Attraversato di nuovo il varco, Jake incontra l’uomo con la carta verde (una sorta di custode a guardia del tempo), che gli spiega come i terremoti siano conseguenza di fratture nelle linee temporali determinate proprio dall’avventata ingerenza sul passato. Ancora una volta è una forma di male a dominare la scena della narrazione di King. Ma, a differenza di altre volte, il protagonista non è colui che lotta contro questo male, è piuttosto colui che lo compie. Jake porta avanti il progetto di Al armato delle migliori intenzioni e nella più completa buona fede; la sua volontà di riplasmare la storia secondo le sue convinzioni rivela però una superbia cieca e tirannica, ai confini del fanatismo. Fino a quando non lo vede con i propri occhi, Jake non sembra venire neppure sfiorato dall’ipotesi che mutare eventi già accaduti possa influire sulla Storia in modo negativo, né che la resistenza al cambiamento da parte del passato possa essere una forma di autoconservazione. Le azioni di Jake sono guidate dalla certezza di sapere cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia giusto modificare e cosa


possa essere invece abbandonato al suo più o meno triste destino. Questa sicurezza affonda le radici in una fede incondizionata nei confronti del mito di JFK. Il Kennedy che Jake vorrebbe salvare non è quello che ha governato il Paese coerentemente con le linee politiche tracciate dalle amministrazioni precedenti – quello della crisi missilistica di Cuba e dell’incremento delle forze militari statunitensi in Vietnam, quello che appoggiò lo sbarco nella Baia dei Porci in spregio a tutte le promesse elettorali a base di pace e libertà. È piuttosto il mito ancora oggi oggetto di ammirazione, quello che vive grazie all’opinione che il mancato attuarsi delle sue promesse per un mondo migliore sia da imputare solo alla tragica interruzione del suo mandato. Jake Epping si comporta insomma come un fan sfegatato che non riesce ad accettare la prematura scomparsa del suo idolo. Le sue azioni sono guidate da un unico, granitico imperativo: Kennedy non deve morire. Il suo rapporto con la storia di JFK appare analogo a quello che l’infermiera Annie Wilkes intreccia con lo scrittore Paul Sheldon in Misery. Pur con tutte le differenze a livello di profili psicologici e morali, Annie Wilkes e Jake Epping condividono il medesimo desiderio di sovvertire il finale di una vicenda rendendo giustizia ai protagonisti. Jake intende cancellare mezzo secolo di Storia sostituendola con quel futuro che lui crede avrebbe dovuto esserci; Annie costringe Paul a distruggere l’unica copia del suo nuovo romanzo, reo di aver preso indegnamente il posto di un ennesimo capitolo della saga di Misery. Seguendo questa analogia, ci si potrebbe chiedere

se la figura di Annie Wilkes non sarebbe risultata meno negativa se le vicende in Misery fossero state narrate attraverso il suo punto di vista. Oppure, viceversa, se Jake risulterebbe ancora un personaggio positivo qualora il suo viaggio venisse raccontato attraverso lo sguardo di un guardiano delle linee temporali. Il nostro ‘eroe’, anche grazie alla sua preparazione culturale, razionalizza costantemente il proprio ruolo nel passato, giustificando le proprie azioni in virtù di ciò che sa del futuro da cui proviene. E sulla base della sua idea di un bene più grande non esita mai; nemmeno quando arriva il momento di indossare i panni dell’assassino. Ma quello di cui non sembra rendersi assolutamente conto è che il suo agire per fermare Lee Harvey Oswald con ogni mezzo possibile – ossia uccidendolo – è speculare a quello di Oswald stesso. Entrambi mirano a imporre un futuro che ritengono migliore, il primo sicuro di poterlo realizzare mantenendo Kennedy in vita fino alla fine del suo mandato, il secondo non meno persuaso dell’esatto contrario. Quella che prende forma è la fisionomia di un male che, al di là degli aspetti fantastici, affonda le proprie radici in un terreno tutt’altro che fantasioso. Gli alibi che Jake fornisce a sé stesso svelano le fondamenta di un immaginario che riscrive costantemente un passato in cui egli non debba trovarsi costretto a fare i conti con le proprie azioni e, soprattutto, con i valori e le convinzioni che le guidano. Sono menzogne utili a distogliere lo sguardo dallo specchio, dove potrebbe intravedere i lineamenti del proprio volto sfumare in quelli della sua Nemesi. <

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Reading TIME

Lunga vita alla

CORTE DEL

VAMPIRO

di GIANNI FALCONIERI

Un romanzo che riprende le sorti del più celebre revenant della Letteratura, laddove il suo creatore Bram Stoker lo aveva lasciato...

C

HI NON CONOSCE Dracula? Nelle sue mille variazioni, vecchio e aristocratico, mostruoso e zannuto, giovane e affascinante, sanguinario e assassino, il personaggio del famoso libro di Bram Stoker – tra i capostipiti del filone della letteratura horror-gotica di matrice ‘vampirica’ – è uno dei cattivi più conosciuti di tutti i tempi. Ciò che è meno noto è che Kim Newman nel 1992 ha tentato di raccogliere in un compendio narrativo le molteplici versioni del vampiro e tutte le varianti presentate da cinema e letteratu-

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ra. Ovviamente un simile libro, primo tassello di una quadrilogia, non poteva che chiamarsi Anno Dracula. La trama iniziale è ben descritta nella quarta di copertina dell’edizione italiana, a cura di Fanucci: “Inghilterra 1888. Dopo aver sconfitto Van Helsing e i suoi amici, il Conte Dracula domina sul Regno Unito. Il Re dei Vampiri ha sposato la Regina Vittoria, trasformandola in una non-morta, e i nosferatu imperversano. Le strade della Londra notturna sono battute da bande di vampiri in cerca di preda e, nella luce dei lam-


ANNO DRACULA

(Anno Dracula, 1992) FANUCCI Editore edizione 2003 ISBN: 9788834709320

pioni, prostitute-vampiro adescano i clienti in cambio di una pinta di sangue. Nelle ombre di questa metropoli si aggira uno spietato assassino che uccide solo giovani donne non-morte, e si fa chiamare Jack lo Squartatore... Charles Beauregard, agente speciale alle dipendenze del misterioso Club Diogene, e Geneviève Dieudonné, vampira gentile di una stirpe che si contrappone a quella del conte di Transilvania, uniscono le loro forze per scovare l’autore di questi efferati delitti, che minacciano di sovvertire l’ordine sociale di un mondo sorprendente, in cui vivi e non-morti coesistono e la legge di Dracula ha soppiantato le regole della civiltà.” Kim Newman immagina quindi un mondo dove il conte, alla fine delle vicende narrate nel romanzo di Bram Stoker, ha vinto ed è riuscito a conquistare la Gran Bretagna, stabilendo a Buckingham Palace una sorta di governo vampirico e classista che complica ancor più la già esplosiva situazione sociale della Londra di fine ’800. Sintetizzando, le premesse narrative potrebbero stare tutte nella frase pronunciata da Van Helsing nel libro di Stoker: “Lo scopo del Conte è di diventare padre o fondatore di

un nuovo ordine di esseri, la cui via porta attraverso la Morte, non la Vita”. In questa Londra dominata dai vampiri, Jack lo Squartatore non può che comportarsi di conseguenza… Newman fonde allora il primo serial killer della storia con il Dottor Seward, unico sopravvissuto non vampirizzato scampato alla sconfitta totale del team di Van Helsing (si è salvata anche Mina, che è stata ‘posseduta’ dal Conte). Charles Beauregard, lo Sherlock Holmes della situazione, è chiamato dal Club Diogene (loggia segreta già imma-

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KIM NEWMAN

foto: ©MARK BUKUMUNHE www.flickr.com/people/psionicdreams

ginata da Arthur Conan Doyle), a fermare gli assassinii che mettono in crisi il potere vampirico e la stabilità del regno. Continuando per questa strada, l’autore costringe ad abbandonare – brevemente – la lettura per fare qualche ricerca sui personaggi letterari che si diverte a inserire. Ce ne sono davvero tantissimi, non solo famosi vampiri come Lord Ruthven (Il Vampiro di Polidori), Kurt Barlow (Le Notti di Salem), Lestat de Lioncourt (Intervista col Vampiro), ma anche mortali come Basil Hallward (il pittore de Il Ritratto di Dorian Gray). Rimangono fuori dalla formazione titolare, trattandosi di un romanzo del 1992, protagonisti di opere più recenti come Twilight, True Blood e Buffy. Poco male. Questo citazionismo non deve far pensare a un romanzo ironico, magari post-moderno come andava di moda sulla fine degli anni ’80. Le citazioni sono quasi tutte perfettamente integrate nella storia e, salvo qualche forzato cameo, non ostacolano il progredire della trama, cui

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Newman ha dedicato molta attenzione. Il romanzo coinvolge, infatti, anche per la sua originalità, non solo per la capacità dell’autore di giocare con più generi e con i più svariati personaggi dell’immaginario della letteratura inglese. Il ritmo è quello di un thriller di alto livello. Londra è cupa, sporca, piena di malattie, fame e soprusi (tra le altre amenità, nel codice penale inglese viene introdotta la pena di morte per impalamento!), e anche i quartieri più aristocratici sono decadenti. Gli spunti che rendono viva e interessante l’ambientazione sono molti, tra cui il contesto della rivoluzione industriale, che miete le sue vittime nei ceti inferiori gettando le basi per possibili rivolte. È qui, in questo intreccio tra storia e finzione, che il dominio del Conte si trasforma anche in allegoria politica. Le speculazioni distopiche alla base del romanzo aprono al seguito steampunk, Il Barone Sanguinario (The Bloody Red Baron, 1995), in cui gli stessi protagonisti dovranno affrontare Dracula a capo degli imperi centrali, in una versione horror e ucronica della Prima Guerra Mondiale. La saga prosegue poi con Dracula Cha Cha Cha (1998) – qui perfino il nome è una citazione, dal titolo della canzone interpretata da Bruno Martino – ambientato nel 1959 in una Roma di inequivocabile sapore felliniano. Chiude la quadrilogia Johnny Alucard (2013), portandoci a New York negli anni ’80. <


DRACULA

di ©MARY SOLYANICK ‘MIRAGEMARI’ miragemari.deviantart.com

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Reading TIME

Spade, magie

E VECCHI

MOSCHETTI di LUCA GERMANO

Richiami vittoriani e suggestioni mediorientali nel primo capitolo della saga flintlock di Django Wexler.

S

PALLEGGIATA DAI PREDONI del grande deserto Desol, la rivolta religiosa chiamata Redenzione ha sconvolto il regno di Khandar. Gli antichi ordini sacerdotali sono stati sciolti e ovunque si susseguono stragi ed esecuzioni sommarie. Dopo che buona parte dell’esercito ha tradito e sposato la causa degli insorti, il re è fuggito. Altrettanto hanno fatto le truppe di Coloniali inviate in precedenza dal regno alleato di Vordan, rintanatesi ora dietro le mura fatiscenti di Forte Coraggio. Il loro sentimento di appartenenza a un esercito e il desiderio di combat-

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tere sono sbiaditi come il blu oramai indistinguibile delle divise, bruciate dal sole. Del resto poco ci si può aspettare da un contingente esiguo, e noto come il peggio dell’esercito vordaniano: gli ufficiali sono nobili caduti in disgrazia che vivono il loro incarico come una condanna, e i soldati sono incapaci, male addestrati, non di rado teste da forca arruolatesi per sfuggire alla pena. Si attende dunque solo l’ordine di rientro in patria. Eppure, quando finalmente da Vordan arriva la flotta per la supposta evacuazione, ne sbarcano invece alcune migliaia di reclute neanche


I MILLE NOMI

(The Thousand Names, 2013) Primo volume del ciclo The Shadow Campaigns FANUCCI Editore ISBN: 9788834726501

ventenni, comandate dall’alto ufficiale Janus bet Vhalnich Mieran il quale tutto sembra avere in mente fuorché la ritirata. I Mille Nomi (The Thousand Names, 2013), dell’autore statunitense Django Wexler, è il primo dei cinque volumi previsti per la saga The Shadow Campaigns, che ha già visto pubblicato negli States il secondo capitolo The Shadow Throne (2014) e il breve racconto The Penitent Damned (2013) che ne costituisce il prequel. In una cornice d’ispirazione rinascimentale e moderna anziché medievale (un contesto metastorico vittoriano ma geograficamente spostato fuori dall’Europa, con nomi e luoghi che evocano le sterminate e aride distese del Nord Africa e dell’Afghanistan), Wexler racconta, tramite grandi affreschi immaginifici simili a quelli di Erikson e dettagliatissime avvolgenti descrizioni come quelle di Rothfuss, una grande campagna militare. Rispetto al fantasy classico, si privilegiano i moschetti alle spade, e più il senso di mistero e superstizione che la magia. Queste particolarità pongono il romanzo nell’ambito del flintlock fantasy, un genere di recente definizione creato per abbracciare opere di autori quali Stephen Hunt e Brian McClellan,

dove il consueto dualismo sword & sorcery viene sostituito dal nuovo magic & muskets. Il termine flintlock fa riferimento alla pietra focaia necessaria per incendiare la polvere nelle prime armi da fuoco. Il racconto si caratterizza così per le cruenti battaglie: coraggiosi assalti e strenue difese, arguti stratagemmi, manipoli soli contro la moltitudine, inviati in avanscoperta o a creare teste di ponte, ordinate schiere di soldati che avanzano serrando i ranghi, cariche di cavalleria a cui si oppongono i quadrati dei fucilieri

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DJANGO WEXLER

foto: ©RACHEL THOMPSON djangowexler.com

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irti di acuminate baionette, mentre intorno si spande la coltre grigia originata dai colpi dei moschetti e rimbomba ovunque il suono possente dei cannoni… Scene di cui Wexler narra ogni tratto, le gesta eroiche e le straordinarie intuizioni come pure i grossolani errori e gli atti vili e aberranti. L’autore pare ben consapevole di aver importato nel proprio mondo molte delle palesi contraddizioni dei tempi del colonialismo. Per esempio il combattere in luoghi lontani da casa per riconsegnare troni a ex regnanti che nessuno rimpiange, con la pretesa di aiutare popolazioni i cui usi e i costumi in realtà non ci si impegna nemmeno a comprendere. Se è vero che i Redentori appaiono come l’incarnazione palese di un fanatismo religioso folle e cieco, volto sostanzialmente all’autodistruzione, non si scorge tra le fila dei Coloniali alcun ideale: si combatte perché così è stato ordinato. La scelta di narrare le vicende dai differenti punti di vista di due protagonisti, il capitano Marcus d’Ivoire e il soldato (anzi soldatessa) Winter Ihernglass, pare quanto mai azzeccata. I due sono assai diversi, per estrazione sociale, aspirazioni e ruoli. Marcus d’Ivoire è un eroe mancato: colpito da una terribile sciagura familiare, non ha potuto fare la carriera a cui probabilmente era destinato, e si ritrova tra le fila dei coloniali per una scelta dettata dal sentimento di amicizia che lo lega a un altro ufficiale. Pur non conoscendone le reali intenzioni, Marcus sarà al fianco del colonnello Janus in ogni decisione, comprese le più ardite e apparentemente dissennate, invise al resto degli ufficiali e ai soldati. Winter Ihernglass è una ragazza che si fa passare per maschio: fug-

gita da un orfanotrofio e arruolatasi sotto mentite spoglie, vivrà ogni battaglia in prima linea, lontana dal centro di comando. Alternando le prospettive di questi personaggi, Wexler compone un quadro dettagliato, convincente e drammaticamente umano. Non si giunge tuttavia al disincanto e all’ironia di opere come The Heroes di Joe Abercrombie: esistono gli eroi nella storia di Wexler, e spesso, le loro capacità e il loro valore trovano adeguato riconoscimento, così come trovano severa implacabile punizione la viltà e l’arroganza. Se le battaglie sono probabilmente il punto di forza del romanzo, ottima è anche la costruzione dei personaggi (dinamiche e rapporti) e del quadro generale. I regni escono da un oscuro medioevo, ma l’ingresso nel mondo moderno non ha cancellato del tutto le ombre più profonde e misteriose, che prepotentemente cercheranno di riemergere alla prima occasione propizia. I personaggi si muovono complessi, in eterna lotta con l’ombra del proprio passato, ma senza contraddizioni; nella desolazione del deserto, nell’aridità assoluta e desolante, scopriranno lentamente sé stessi. Il lettore si immerge a fondo nella campagna militare, consapevole che gli scontri narrati non sono fini a sé stessi: una trama sotterranea emerge a poco a poco, illuminando di particolare significato molti eventi altrimenti oscuri. Si avverte che il respiro del romanzo è ben più ampio delle iniziali premesse e, se pure I Mille Nomi possa essere letto come storia autonoma, la conclusione argutamente apre un breve scorcio su quanto potrà ancora avvenire in prosieguo di saga. <

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Cult BOOKS

Analisi di una

PROFEZIA TOTALITARIA di MAURO DALTIN

In una parabola fantascientifica, la critica alle utopie classiche e la lucida, attualissima denuncia dei pericoli impliciti in ogni regime assolutista.

A

LL’INTERNO delle opere letterarie distopiche della fine dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, il romanzo 1984 di George Orwell viene unanimemente considerato il punto finale e definitivo di un genere. È l’ultima utopia negativa, come tradizionalmente viene intesa: dopo le opere di H.G. Wells, Evgenij Zamjatin e Aldous Huxley, Orwell rappresenta la conclusione più ovvia e coerente. Ed è una conclusione angosciosa e priva di speranza, che traduce tutti i caratteri di disincanto e disillusione che

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accompagnano la vita e le opere dello scrittore. In questo senso, la data del titolo dell’opera, l’anno di pubblicazione e l’ambientazione in cui si svolge la storia, sono solo alcune delle prove inconfutabili che portano a considerare l’Oceania di 1984 la descrizione definitiva del peggiore dei mondi possibili. Il libro viene scritto nel 1948 (invertendo le ultime due cifre, l’autore dà il titolo al romanzo) e pubblicato nel giugno del 1949, quindi dopo la Seconda Guerra Mondiale e i grandi regimi totalitari che


1984

(Nineteen Eighty-Four, 1949) Edizione MONDADORI, 2013 ISBN: 9788804627821

hanno caratterizzato il XX Secolo, in un’epoca in cui il mondo si stava dividendo in due zone di influenza contrapposte. L’autore aveva ben presente la situazione storica, avendo vissuto gli accadimenti in prima persona sia attraverso un impegno politico attivo sia attraverso una costante critica della società in cui operava. A differenza dei precedenti scrittori di opere letterarie distopiche, Orwell possiede perciò una visione più completa e lucida della realtà e dei possibili scenari a cui avrebbe potuto andare incontro la società che ne sarebbe seguita. Sulla base di questa visuale privilegiata, lo scrittore decide di ambientare il romanzo nell’anno 1984. Questa scelta è molto significativa. Rispetto alle opere letterarie distopiche pubblicate sino a quel momento, Orwell non colloca la narrazione in un futuro lontanissimo, ma solo trentasei anni dopo la fine dell’ultima stesura. Questo dato fa pensare che il futuro, profetizzato dallo scrittore, fosse in realtà già presente nella società degli anni Cinquanta del XX secolo. Con ciò egli ammoniva che, se si fosse continuato a percorrere quella strada, si sarebbe raggiunto, da lì a pochi anni, il terribile universo descritto nel romanzo. Un’importante raffigurazione riguarda l’ambientazione dell’opera.

La capitale dell’Oceania è Londra. Una Londra squallida, sporca, costantemente bombardata, ormai in rovina. Orwell pone la sua distopia nel cuore del continente europeo, al centro del mondo reale. È un altro monito per le generazioni future: anche nella culla della democrazia, al centro del sistema occidentale, si possono annidare i germi del totalitarismo, della Psicopolizia, del Grande Fratello. Il riferimento al mondo reale è presente in tutto il romanzo. I richiami alla situazione attuale sono costanti e fanno sì che l’opera debba essere letta e analizzata da un ulteriore punto di vista: non più, o meglio

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LA MACCHINA DEL TEMPO

(The Time Machine, 1895) di Herbert G. Wells UGO MURSIA EDITORE, 2007 ISBN: 9788842538226 La Terra futura tratteggiata nel viaggio immaginario di Wells rappresenta una delle prime distopie fantascientifiche. Incapaci di vere attività intellettuali, gli inerti Eloi vivono apparentemente felici, ma alla completa mercé dei primitivi Morlock.

non solo, come frutto della pura fantasia dello scrittore, ma come il risultato di un’attenta analisi, di una lucida critica che sfocia in una serrata denuncia, in un atto di accusa a un sistema privo di valori. Prendendo in esame alcuni dei principali temi dell’opera, si possono notare chiare affinità non solo con la società del tempo ma anche, grazie a un intuito profetico

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non comune, con quella dei nostri giorni. Uno degli aspetti più inquietanti contemplati nel romanzo è quello che attiene al potere occulto dei mass media. Oceania è invasa da Teleschermi ed è tenuta sotto controllo dal Grande Fratello. Ponendo in relazione 1984 con il Panopticon di Jeremy Bentham, si riscontrano analogie e la capacità, da parte di Orwell, di prevedere il pericoloso sviluppo della tecnologia mediatica. Il Panopticon è, apparentemente, una proposta per risolvere il problema delle prigioni: un edificio a pianta circolare, con al centro una torretta dove si trova un unico controllore che così può vigilare i vari settori della costruzione circostante, nella quale sono alloggiati i detenuti. Ogni cella risulta visibile in tutta la sua estensione; i prigionieri non possono vedere il guardiano, ma sanno di essere visti. Questo tipo di struttura vuole rappresentare un modello utopistico di organizzazione della società. Oceania rappresenta per eccellenza la struttura panottica, che tuttavia non potrà sussistere e si rivelerà pura utopia. Il Teleschermo, cioè il Controllore, diventa un simulacro: dietro il Teleschermo c’è il vuoto; il medium proietta l’immagine di un controllore che non esiste. Orwell annulla quindi la tensione fra il sorvegliante e il sorvegliato che era presente in Bentham: in Oceania tutti sono guardati, e al posto del Controllore c’è il Teleschermo. 1984 supera il sistema panottico e profetizza la presenza capillare del televisore e del potere occulto dei media, che annulla il libero pensiero tenendo l’individuo asservito. Perché proprio il televisore, e non altri mezzi di comunicazione di massa, per


esempio la radio che, come strumento di propaganda e controllo ideologico, durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale era già una realtà? Orwell prevede che sarà la televisione a essere onnipresente nel tempo avvenire. E sarà vate in tempi non sospetti: il primo televisore era stato progettato da Baird nel 1926, le prime trasmissioni sperimentali erano apparse attorno al 1935, in Inghilterra e negli Stati Uniti s’iniziò a parlare di televisione non sperimentale solo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Ciò che è profetico non è l’idea che la televisione ci permetterà di vedere fatti e persone distanti migliaia di chilometri, ma che quelle persone potranno vedere noi. È questa l’idea del controllo a circuito chiuso, che si applicherà nelle fabbriche, nelle carceri, nei locali pubblici. Un’immagine avveniristica che solo più tardi Michel Foucault avrebbe ripreso dall’idea benthamiana del Panopticon. Orwell, però, suggerisce in Oceania qualcosa di più: la minaccia che il mondo intero si trasformi in un immenso Panopticon. 1984 è chiaramente la rappresentazione del totalita-

rismo che vigeva al tempo dell’autore, e l’avversione di quest’ultimo per tale sistema si ritrova in ogni pagina del libro. Egli si riferisce, in particolare, alla lotta Stalin-Trotsky, alle grandi purghe che avvenivano in Unione Sovietica. L’enciclopedia sovietica che rivendicava agli scienziati russi le grandi scoperte scientifiche del secolo, l’attribuzione al dittatore di tutte le imprese storiche che avevano portato al trionfo del regime, persino la correzione continua della storia, tutto ciò era già cronaca, anche se rimossa. Tutte le denunce nei confronti del regime sovietico hanno portato la critica letteraria e politica a ritenere 1984 un testo accusatorio verso il solo blocco sovietico. Addirittura, fino al 1989, il romanzo era una lettura proibita in Unione Sovietica e in tutti i Paesi dell’allora blocco socialista. Per decenni, possedere un esemplare del libro costituì una prova a carico nei processi politici. Anche la critica europea, soprattutto subito dopo la pubblicazione, poneva l’accento quasi esclusivamente sulla questione politica e sugli aspetti di denuncia al socialismo. Solo in tempi più recenti Orwell e la sua opera

ROMANZI Senza un Soldo a Parigi e Londra Down and Out in Paris and London (1933) Giorni in Birmania Burmese Days (1934) La Figlia del Reverendo A Clergyman’s Daughter (1935) Fiorirà l’Aspidistra Keep the Aspidistra Flying (1936) La Strada di Wigan Pier The Road to Wigan Pier (1937) Omaggio alla Catalogna Homage to Catalonia (1938) Una Boccata d’Aria Coming Up For Air (1939) La Fattoria degli Animali Animal Farm (1945) 1984 Nineteen Eighty-Four (1948) Una Storia da Fumoir (non terminato)

A Smoking-Room Story (1949)

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ARCIPELAGO GULAG

(Архипелаг ГУЛаг, 1973) di Aleksandr Solženicyn MONDADORI, 2013 ISBN: 9788804629139 Il saggio analizza e denuncia gli aspetti aberranti del sistema totalitarista sovietico, che hanno trovato triste manifestazione nei famigerati campi di lavoro.

sono stati rivalutati secondo una prospettiva più giusta e obiettiva. Si deve infatti tenere in conto l’appartenenza dell’autore a una nazione, l’Inghilterra, che usciva dalla Seconda Guerra Mondiale vincitrice sul nazismo, e molte delle atrocità che si celebrano in Oceania ricordano da vicino appunto costumi e riti nazisti: si pensi, ad esempio, alla pedagogia dell’odio, al razzismo che separa i membri del Partito dai prolet, ai bambini educati a spiare e de-

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nunciare i genitori, al puritanesimo della razza eletta per cui il sesso deve valere solo come strumento eugenetico. Quello che fa Orwell non è tanto inventare un futuro possibile, ma incredibile, quanto analizzare un passato credibilissimo perché è già stato possibile. L’autore insinua il sospetto che il mostro del XX secolo sia stato la dittatura totalitaria e che le differenze ideologiche, in tale sistema, contino molto poco. Per analizzare a fondo la relazione tra 1984 e la realtà, è significativo porre in rapporto il libro con un’altra opera, Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn. Apparentemente queste due opere hanno poco in comune: l’una considerata frutto dell’immaginazione, della fantasia, seppur con degli espliciti richiami alla storia, l’altra, al contrario, frutto dell’esperienza diretta dello scrittore russo. Al di là delle differenze che si possono ritrovare nelle storie di vita dei due scrittori e dei diversi sfondi culturali e politici in cui operarono, i due libri si completano a vicenda. Entrambi svelano le strutture più profonde del sistema totalitario nei suoi aspetti più inquietanti e perversi. Il gulag è, quasi, l’Oceania di 1984, vissuta in modo crudo da milioni di esseri umani nella decadenza e nella degradazione quotidiana, senza le architetture della fantascienza. L’universo di 1984 è inoltre immerso nella paura e nella menzogna prodotte dall’apparato in cui si vive; esemplificativi sono i campi di rieducazione sui quali Winston Smith, il protagonista del romanzo, non ha il coraggio di prendere informazioni. Winston non vuole conoscere le implicazioni del Potere, e in modo simile i sovietici rifiu-


tavano di sapere alcunché sui campi di lavoro che pur costituivano una parte integrante della loro realtà. Questo rifiuto li rendeva complici dei metodi del potere, e la complicità è una delle colpe più gravi che il protagonista del romanzo di Orwell dovrà espiare. L’esperienza di Winston può essere paragonata a quella del giovane Solženicyn: quando il primo viene arrestato si rende conto che la prigione non è che la logica conseguenza della vita fino allora condotta in Oceania; il secondo racconta che, quando venne arrestato, pur proclamando la sua innocenza, ponendosi in modo incessante la domanda ‘perché io?’ arrivò infine a comprendere che la domanda da farsi era un’altra: ‘perché non io?’. Come in Oceania, nel sistema reale sovietico era consentito che tutti potessero essere imprigionati in qualunque momento. I due libri, seppur collocati in epoche differenti, affrontano ambedue come tema principe i pericoli del totalitarismo. Entrambi denunciano senza mezzi termini il sistema di dominio assoluto che porta a non distinguere il vero dal falso, il bene dal male. Quello che più sorprende è la comune preoccupazione dei due autori di salvare la lingua dalla corruzione della parola e, di conseguenza, del pensiero: in Arcipelago Gulag, Solženicyn, durante la sua permanenza nei campi di rieducazione, lavora a un dizionario di parole e di idiomi minacciati di scomparire a causa della lingua imposta dalla propaganda politica; in 1984, la Neolingua tende a soffocare la lingua vivente fino a farla scomparire. I finali divergono: Winston Smith soccombe, solo di fronte al sistema, muore

UNA UTOPIA MODERNA

(A Modern Utopia, 1905) di Herbert G. Wells UGO MURSIA EDITORE, 1990 ISBN: 978884250739 Dalle pendici di Pizzo Lucendro, nelle Alpi Svizzere, i due protagonisti si ritrovano trasportati “in un batter d’occhio” sullo Stato-Mondo di Utopia, un pianeta Terra alternativo situato “al di là di Sirio”. Lì l’organizzazione della società ha raggiunto livelli ‘superiori’, da cui tuttavia non mancano di emergere anche pesanti tratti distopici.

amando il Grande Fratello; Solženicyn, al contrario, ritrova, grazie alla fede, la solidarietà umana. Ma il messaggio dei due libri converge in un’esigenza morale comune: conservare la memoria e ammonire le generazioni future. Sia a Orwell

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IL RISVEGLIO DEL DORMIENTE

(The Sleeper Awakes, 1910) di Herbert G. Wells UGO MURSIA EDITORE, 2005 ISBN: 9788842535560 Pubblicato in una prima versione nel 1899 con il titolo When the Sleeper Wakes, il romanzo descrive una ipotetica Londra di inizio XXII Secolo, rovinata da un sistema capitalistico degenere.

che a Solženicyn premeva mettere in evidenza il pericolo che si potrebbe correre o che si è già corso nel tentativo di creare una struttura conservatrice e totalizzante che soffoca l’individuo, annullandolo nelle sue facoltà e potenzialità. Si è accennato alla Neolingua. Questa è, senz’altro, uno tra i processi più terrificanti e complessi, che lo scrittore delinea. Il tema della lingua è strettamente colle-

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gato a quello della cultura e può essere considerato una delle problematiche più attinenti alla realtà di 1984 e, per l’autore profetico, alla realtà del nostro tempo. Nel romanzo di Orwell, come in quasi tutte le opere utopiche e distopiche, la cultura, soprattutto nella forma letteraria e poetica, è annullata dal Potere assoluto. Questo ritiene l’arte un’espressione del pensiero, della fantasia, della conoscenza di ciò che avviene, troppo pericolosa per essere lasciata incontrollata. Gli unici due libri che compaiono in 1984 sono il diario del protagonista e il libro di Goldstein, capo dell’opposizione denominata Fratellanza; parrebbero presentati come volumi rivoluzionari negli intenti e nei contenuti, ma, come analizzeremo più avanti, sono complementari alle modalità del potere esercitato dal Partito che governa. In Oceania si continua a correggere la storia passata per allinearla con quella divulgata nel presente dal Grande Fratello; i testi vengono scritti da macchine assai simili ai computer, e gli intellettuali sono tutti impegnati al Ministero della Verità (anche Winston Smith), cioè nel luogo dove si fabbricano le menzogne. La letteratura è morta, non esiste più come espressione di libero pensiero. Questa fine della cultura è dovuta alla mancanza di parole per esprimere i concetti: la Neolingua ne contempla un numero di molto inferiore a quello dell’Archeolingua che sta per scomparire. Il paradosso che sottende alla compilazione della stesura definitiva del vocabolario della Neolingua è inquietante: l’eliminazione delle parole eterodosse o, in qualche modo, ritenute pericolose determina anche l’annienta-


mento della loro sostanza concettuale. La Neolingua si fonda sul fatto che l’individuo subisca una serie di microlesioni dei centri nervosi cerebrali preposti all’attività del pensiero e del linguaggio; l’effetto finale dovrebbe essere, nelle intenzioni del Partito dominante, la riduzione dell’attività mentale degli individui a una serie di coppie ‘stimolo-risposta predeterminata dal Potere’. Le caratteristiche della struttura della Neolingua sono esposte nell’appendice del libro, che prende appunto il titolo de I Principi della Neolingua. Un esempio può chiarire il fine a cui mira il potere egemonico: “La parola libero esisteva ancora in neolingua ma poteva essere usata solo in affermazioni come ‘questo cane è libero da pulci’ oppure ‘questo campo è libero da sterpi’. Non poteva essere usata, però, nell’antico significato di ‘politicamente o intellettualmente libero’, dal momento che la libertà politica ed intellettuale non esistevano più come concetti e non vi era, perciò, una parola che li esprimesse.” Un’altra utilizzazione distorta del linguaggio è il bispensiero, cioè la capacità di sostenere simultaneamente due opinioni in palese contraddizione tra loro e di accettarle entrambe come esatte. La regola del processo totalitario consiste nell’usare un inganno cosciente e nello stesso tempo mantenere una fermezza di proposito che dimostri una totale onestà: spacciare deliberate menzogne e credervi, ignorare ogni avvenimento scomodo, in definitiva negare l’esistenza della realtà. Quindi, credere realmente a tutto quanto sostenuto dall’oligarchia, prendere come incontrovertibile certezza – se il Partito lo desidera – che “2+2 è matematicamente

NOI

(Мы, 1920) di Evgenij Ivanovič Zamjatin VOLAND, 2013 ISBN: 9788862431422 Nel romanzo fantascientifico di Zamjatin, lo Stato Unico dirige una società pianificata nella quale la privacy non esiste e i cittadini sono ridotti a numeri spersonalizzati.

5”. Il ricordo del passato viene abolito per due ragioni: la prima è che i membri del Partito Esterno e i prolet sopportano le condizioni di vita a cui sono costretti in Oceania proprio perché non possiedono alcun mezzo di confronto (tutti i documenti, i libri e la letteratura di epoche precedenti sono stati distrutti); la seconda è la salvaguarda dell’infallibilità del Partito, che effettua un continuo aggiornamento della storia per sembrare non

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UOMINI COME DEI

(Men Like Gods, 1923) di Herbert G. Wells UGO MURSIA EDITORE, 2005 ISBN: 9788842535546 L’utopia sperimentata dal protagonista, Mr. Barnstaple, è quella di un’avanzata Terra alternativa, nella quale non esiste un governo centrale; tutto funziona grazie a una anarchia disciplinata dai ‘Cinque princìpi della Libertà”: Riserbo (la privacy), Libero Movimento, Conoscenza Illimitata, sincerità (“La Menzogna è il delitto più Mostruoso”), Libera Discussione e Critica.

mutar mai opinione né sbagliare mai le sue previsioni. A Orwell importava accentuare il fatto che una contrazione del linguaggio produce una riduzione nella capacità di astrazione e giudizio, fino a un livello in

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cui la riflessione e l’analisi non hanno più luogo. Si tratta sicuramente di un paradosso: lo scrittore aveva ben presente che esistono forme di comunicazione non verbale e che l’uomo, in ogni caso, non è un computer che elabora dati sulla base esclusiva delle informazioni che gli vengono fornite. Egli intendeva, comunque, sottolineare come anche il linguaggio sia un forte alleato e un decisivo strumento nelle mani del potere oppressivo. Per condurre una critica al Partito e alla sua tattica, Orwell doveva utilizzare lo stesso linguaggio, ossia un linguaggio astratto, staccato dalla realtà, che si presta a un’ambigua interpretazione, in definitiva tautologico e totalitario, un adeguato corrispettivo del double think di Oceania. All’interno del testo, si notano numerosi e puntuali esempi di contraddizioni dialettiche. Innanzitutto, i tre slogan del Partito ‘guerra è pace, libertà è schiavitù, ignoranza è forza’ e i nomi attribuiti ai quattro Ministeri che organizzano la vita in Oceania e le loro rispettive funzioni. Anche l’episodio dell’improvviso cambiamento delle alleanze nel perenne gioco bellico fra Oceania, Estasia ed Eurasia può essere considerato facente parte di incoerenza. Addirittura nell’incipit del romanzo si può già comprendere l’importanza della lingua e dell’uso che ne fa il Potere: “Era una luminosa, fredda giornata d’aprile, e gli orologi battevano tredici colpi”. L’universo appare subito straniato, deforme; nessun orologio batte, di norma, tredici colpi e, attraverso questo, lo scrittore mette subito in guardia il lettore. Inoltre, questa frase rappresenta anche una violazione della norma del tempo atmosferico in Occidente: aprile


in Oceania è luminoso e freddo, non piovoso come verrebbe da immaginare. Attraverso la lucida e spietata critica alla lingua, alla cultura, all’arte e alla letteratura, Orwell denuncia il ruolo che la figura dell’intellettuale riveste sotto qualunque regime totalitario. L’intellettuale che, secondo lo scrittore, dovrebbe essere il tramite ideale fra la cultura e le persone, e sempre libero di esprimere il proprio pensiero, si trasforma in Oceania (e, come sappiamo, in tutti i sistemi totalitari) in strumento utilizzato dal Potere. In un universo in cui vige la dittatura, la corruzione della parola e l’impossibilità di espressione conducono a opere stereotipate e standardizzate, costantemente sottoposte al controllo, e messe al bando se giudicate contrarie ai dettami del regime. A tutto ciò si dovrebbe opporre l’intellettuale, politicamente impegnato, che attraverso l’uso della ragione delinei modelli di vita di logico equilibrio. Una violenta critica è nei confronti di quegli intellettuali che, sotto i regimi totalitari, scendono a patti con il potere, non per convinzioni ideologiche ma per semplice paura. Si nota come il rapporto tra i due protagonisti di 1984, O’Brien e Winston Smith, si manifesti anche nell’antinomia fra due intellettuali giunti, per strade diverse, al più basso livello di degradazione. Il primo, che nel dialogo con la sua vittima esibisce una capacità argomentativa senza pari, e che vive in un mondo raffinato, è il rappresentante di un universo in cui il potere è stato consegnato nelle mani di intellettuali come lui, attratti da un’ambizione di dimensioni cosmiche: l’edificazione di un sistema politico privo di errori, perfetto in ogni suo aspetto. Il

IL MONDO NUOVO RITORNO AL MONDO NUOVO

(Brave New World, 1932 Brave New World Revisited, 1958) di Aldous Huxley MONDADORI, 2013 ISBN: 9788804633969 Nel totalitarismo ‘dolce’ descritto da Huxley, la società è divisa in caste progettate geneticamente. Gli individui, condizionati tramite la ipnopedia e l’assunzione di una droga chiamata soma, hanno abbandonato ogni ambizione personale in funzione di un pacifico ma vuoto benessere.

secondo, distrutto nel fisico e nell’anima, diventa l’esempio di ciò che attende i difensori della parola nei luoghi in cui la scrittura, la letteratura, gli oggetti, le persone e i pensieri che conferiscono forma all’arte non possono esistere ed

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LA RIVALSA DELLE SCIMMIE (LA SCIMMIA E L’ESSENZA)

(Ape and Essence, 1948) di Aldous Huxley GARGOYLES BOOKS, 2014 ISBN: 9788898172320 La storia inizia col ritrovamento, da parte di un regista, di un soggetto scartato per un film di fantascienza. Lo script, con a margine i commenti dell’autore, è ambientato nel XXII Secolo, a circa 100 anni dalla fine della Terza Guerra Mondiale, combattuta con armi chimiche e nucleari. Ciò che rimane del genere umano è ridotto in schiavitù da una civiltà di scimmie evolute.

esprimersi. In questo senso, il fallimento di Winston è il fallimento di Orwell come intellettuale: l’incapacità dello scrittore di modificare lo stato di cose per una sorta di complesso di inferiorità rispetto al

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politico. Probabilmente l’autore percepiva, negli anni in cui scriveva il romanzo, il fatto che il potere politico, e non quello culturale, possedesse strumenti maggiormente adeguati per riuscire a dettare regole di supremazia. Orwell si rendeva conto che la propria posizione risultava velleitaria e vuota a fronte di uno schema organizzativo che proponeva un processo di controllo totale. In tal modo, 1984 diventa un apologo non solo e non tanto sulla degenerazione storica e politica del mondo contemporaneo, quanto sulla degenerazione politica e morale del soggetto che tale mondo pensa e interpreta. 1984 è stato definito un romanzo distopico. Confrontando le opere letterarie precedenti, si nota come l’autore denunci le opere utopiche classiche in maniera chiara e forte. Egli manifesta il suo giudizio in due modi: il primo è quello di contraddire le caratteristiche delle città ideali, descrivendo Oceania come l’esatto contrario dei mondi perfetti del passato; il secondo è quello di ingigantire determinate peculiarità delle utopie passate, facendone quasi una parodia. Perché a Orwell premeva compiere questa operazione di critica nei confronti dei suoi predecessori? La risposta si può trovare nel fatto che l’autore considera l’utopia tout court un nemico, non entrando nel merito e quindi non differenziando le opere utopiche le une dalle altre. Questa è, senz’altro, un’operazione scorretta da un punto di vista metodologico e storico: vi sono delle diversità fra le opere sia dal punto di vista del contenuto (utopie essenzialmente politiche, urbanistiche, economiche) sia da quello temporale (non è corretto paragonare opere distanti secoli le une dalle


altre). Il bersaglio diventa allora l’utopia in sé (e il modo di pensare e di agire che sta alla base di un’opera utopica), un’utopia che crea universi totalitari, che tende al consolidamento dell’omogeneo, della ripetizione, dell’ortodossia. Orwell costruisce quindi Oceania come una grande utopia conservatrice e priva di ogni libertà fondamentale. Il messaggio è chiaro: se il migliore dei mondi possibili dovesse realizzarsi, non si otterrebbe il paradiso promesso ma il peggiore degli inferni. Uniformità sociale, assenza di storia e di passato, controllo sulla famiglia, sulla sessualità, sull’amore, sulla cultura, sull’educazione, sulla religione sono solo alcuni dei temi presenti nel programma dell’impianto totalitario, ancora più ingigantito e deformato in Oceania. Per Orwell, il termine chiave è contraddizione. L’utopia si presenta come il mondo della libertà, dei desideri, dei bisogni, ma, alla fine, queste città si riveleranno luoghi di costrizione dove tutto è regolamentato e ordinato in relazione al fine ultimo e unico: la stabilità dello Stato. L’utopia punta a realizzare la completa affermazione dell’individuo mentre, in realtà, ritrova la negazione e la subordinazione del singolo in favore della collettività. Utopia si può considerare la fuga dai mali del presente per raggiungere un futuro possibile, anche se lontano; nell’opera di Orwell, invece, cancella ogni dimensione temporale, elimina la storia e si fissa in un presente senza prospettive. L’utopia indica la proprietà privata come fonte principale dell’oppressione e della sofferenza dell’uomo, e ne sopprime pertanto i principi instaurando varie forme di comunismo che provocano dei modelli di dominio e di oppressione uguali, se non

LA FATTORIA DEGLI ANIMALI

(Animal Farm, 1945) di George Orwell MONDADORI, 2011 ISBN: 9788804613114 Il romanzo satirico, pubblicato quattro anni prima di 1984, descrive in forma allegorica la parabola della Rivoluzione Russa: dall’utopia bolscevica ispirata al socialismo, alla sua degenerazione nel totalitarismo stalinista.

peggiori, di quelli sviluppatesi nei regimi basati sulla proprietà privata. Queste contraddizioni di fondo sono presenti in ogni pagina del romanzo di Orwell. Egli, a differenza degli altri autori di opere letterarie distopiche, rende esplicita la sua critica e il suo rifiuto al modo di concepire il migliore dei mondi possibili. Oceania, dunque, non è solo la

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NEL 2000 NON SORGE IL SOLE

(1984) Edmond O’Brien e Jan Sterling interpretano, rispettivamente, Winston e Julia nel film diretto da Michael Anderson nel 1956.

rappresentazione di una realtà distopica o un’assurda proiezione del presente, ma anche una parodia grottesca di quell’utopia stessa, intesa come modello razionale o come programma ideale. Rispetto alle opere precedenti dell’autore e rispetto alle altre opere distopiche, quello che rende 1984 un libro disincantato, pessimistico, inquietante in tutti i suoi aspetti è la profondità delle riflessioni che Orwell compie non solo verso la situazione storico-politica, ma soprattutto nei riguardi dell’individuo singolo. Confrontando 1984 con La Fattoria degli Animali (Animal Farm, 1945), la differenza principale che si nota riguarda proprio

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il binomio collettività/individualità. La Fattoria degli Animali può essere considerata una distopia allegorica in forma di favola. I simbolismi sono espliciti e il lettore non fa fatica a comprendere la chiara satira sulla rivoluzione bolscevica e sullo stalinismo. Tale opera è definibile distopica in quanto la società perfetta basata sull’uguaglianza degli animali si trasforma nella peggiore delle dittature, costruita sul terrore e sulla subordinazione di molti a pochi. Anche in questo libro, a Orwell non interessava soffermarsi sulle dispute ideologiche riguardanti il socialismo o gli altri modelli di società; egli dimostra come l’umanità intera venga sempre più disumanizzata. Manca un personaggio nel quale Orwell stesso si identifichi, e questa figura viene sostituita da una proiezione collettiva: sono gli animali, cioè gli uomini, nel loro complesso a sperimentare la rivolta, la speranza e la sconfitta. Non accade come nelle altre


ORWELL 1984

(Nineteen Eighty-Four) Proprio nel 1984, Michael Radford realizzò una seconda pellicola tratta dal romanzo di Orwell. Nel foto Suzanna Hamilton nel ruolo di Julia e John Hurt in quello di Winston. La parte di O’Brien è recitata da Richard Burton, alla sua ultima apparizione cinematografica.

opere dello scrittore, in cui veniva delineato prima il conflitto poi il fallimento individuale; in questo caso tutti gli uomini sono coinvolti e il fallimento è generalizzato. La Fattoria degli Animali è una parabola, un’allegoria pessimistica, ma non ancora priva di spiragli di speranza: la forma narrativa utilizzata da Orwell rende il testo meno drammatico e meno angoscioso; la favola, tradizionalmente, lancia un messaggio, ma non vuole essere la copia

di una realtà che appare comunque lontana. Questa allegoria e questa ‘leggerezza’ verranno abbandonate con 1984, in cui l’angoscia e l’assenza di speranza non lasciano spazio ad alcuna possibile interpretazione e ad alcun simbolismo, rappresentando una realtà lontana, ma possibile. Ciò che rende 1984 un romanzo pessimista è l’analisi concentrata sul singolo. Lo scrittore denuncia il fatto che si è passati dalla società pre-individualista alla società post-individualista, senza che se ne sia mai realizzata – se non in modo limitato – una capace di tener conto dell’individuo, ossia di persone autocoscienti, critiche, autonome. I soggetti (Winston Smith, la sua compagna Julia, i prolet) sono sconfitti, falliscono e non hanno alcuna possibilità di opporsi alla società oceanica, rappresentata da O’Brien, dal Grande Fratello, dalla Psicopolizia. L’uomo, quin-

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PARIGI NEL XX SECOLO

(Paris au XXe Siècle, 1863/1994) di Jules Verne NEWTON COMPTON, 1995 ISBN: 9788879839926 In questo romanzo, rimasto inedito per 130 anni, Verne presenta una capitale francese futuristica (per l’epoca), caratterizzata dal consolidato ingresso della tecnologia nella quotidiana: automobili, luce elettrica, televisori, calcolatori, reti di comunicazione... Il benessere nasconde tuttavia il disagio di chi, in una società che antepone la scienza alla cultura e all’arte, perde ogni possibilità di esprimere sé stesso, come accade al giovane poeta protagonista.

di, è sacrificato a vantaggio della collettività. Come la libertà si oppone all’autoritarismo, così l’individualismo è la negazione del totalitarismo che, per sua

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natura, è antindividualista. Orwell teme e rifiuta una situazione olistico-organicistica dove l’individuo è al servizio della società secondo un modello gerarchico; egli, al contrario, auspica il passaggio a un sistema individualistico e liberale, dove la società è al servizio dell’individuo. La vera e profonda critica di Orwell è rivolta ai singoli per il ruolo che occupano nella società. Nel periodo storico e sociale in cui egli scriveva 1984, l’individuo sembrava essere puro ingranaggio senza possibilità di pensiero e di azione. Il romanzo descrive proprio come il rapporto dell’individuo con la società, nei regimi totalitari, non esista, sostituito dall’unico rapporto possibile, quello con il regime stesso. La figura di Winston Smith è rivelatrice del pensiero dello scrittore. Il protagonista è preso ad esempio di tutti gli uomini del XX Secolo (nell’intenzione di Orwell, 1984 si sarebbe dovuto intitolare The Last Man In Europe), e per meglio rappresentarli deve assommare in sé un vero e proprio campionario di psicosi: onirismo, complesso di colpa, sindrome di Stoccolma, zoofobia e poi claustrofobia, schizomania, nevrosi sessuale e così via. Winston è solo l’esempio, ma tutti gli abitanti di Oceania sono afflitti da psicopatologia della vita quotidiana; essi soffrono perennemente sia a livello fisico sia sul piano mentale. Lo scrittore, inoltre, attribuisce al protagonista caratteristiche di incoerenza. Winston appare un eroe, un ribelle; in realtà, analizzando a fondo i suoi comportamenti, si nota che egli non è altro che un antieroe, un uomo già inserito nel sistema. Il diario che egli scrive in gran segreto non è altro che una ripropo-


sizione degli slogan e delle direttive del Partito; sin da subito, quindi, egli appare succube del mondo di Oceania a cui si oppone. Inoltre, quando decide di far parte della fantomatica ribellione al Partito, la Fratellanza, non si rende conto che essa riproduce, in tutto e per tutto, i metodi del Partito, che ne è la copia esatta, il riflesso speculare. L’iniziazione di Winston alla rivolta contro il regime è indistinguibile dall’iniziazione alla militanza al Partito: i delitti a cui lo si vuole pronto non sono diversi da quelli quotidianamente perpetrati dagli organi repressivi dello Stato, e il nastro delle promesse che egli riascolterà durante l’interrogatorio con O’Brien lo pone sullo stesso piano dei torturatori. Anche il libro di Goldstein, il manuale rivoluzionario che Winston legge con avidità e partecipazione, non fa che sistematizzare l’ordine vigente: spesso le sue pagine ripetono le dichiarazioni di principio e le considerazioni politiche del Partito, non rappresentando, quindi, una ricchezza alternativa, ma qualcosa di complementare al sistema già operante. Un’altra caratteristica che rende il protagonista un personaggio ambiguo e complesso è la sua onniscienza. Winston sa fin dall’inizio che la sua ribellione sarà perdente, sa che Syme (un suo collega che lavora alla stesura del vocabolario della Neolingua) sarà vaporizzato, sa che incontrerà O’Brien, sembra conoscere in anticipo tutte le fasi della tortura fisica e intellettuale che lo attende e che nessuno può avergli descritto in precedenza; sogni, allucinazioni e fantasie gli fanno prevedere nei dettagli quel “Paese meraviglioso” che diventerà il teatro reale della sua prima esperienza erotica con

Riferimenti bibliografici G. Bulla, ‘L’ultima utopia’, prefazione a Romanzi e Saggi di G. Orwell, Milano, Mondadori 1995. A. Chiaruttini, Introduzione a 1984, Milano, Mondadori 1986. U. Eco, Introduzione a 1984, Milano, Mondadori 1984. V. Fortunati, ‘Da Bentham a Orwell: un’utopia panottica del potere’, in Utopia e Distopia di A. Colombo, Milano, Franco Angeli 1987, pp. 4958. V. Fortunati, ‘1984: un’utopia della simulazione e della trasparenza’, in Orwell: 1984 di L. Russo, Palermo, Aesthetica 1986, pp. 47-59. M. Foucault, Sorvegliare e Punire, Torino, Einaudi 1976. H.G. Wells, La Macchina del Tempo, Milano, Mursia 1965. A. Huxley, Il Mondo Nuovo - Ritorno al Mondo Nuovo, Milano, Mondadori 1961. S. Manferlotti, George Orwell, Firenze, La Nuova Italia 1979. G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori 1976. G. Orwell, La Fattoria degli Animali, Milano, Mondadori 1977. G. Ravaglia, L’Altro Orwell, Bologna, Casa Editrice Conti 1989. A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, Milano, Mondadori 1995. E. Zamjatin, Noi, Milano, Feltrinelli 1990.

Julia. Anche attraverso tale onniscienza, Winston è l’ennesima reincarnazione dell’intellettuale orwelliano: secondo l’autore, nel libro come nella realtà, gli intellettuali che operano sotto un regime totalitario sono estremamente e lucidamente consapevoli delle terrificanti conseguenze cui può portare la dittatura, ma accettano di sottomettersi alle direttive e ai divieti del potere, continuando a esercitare le loro funzioni anche se sottoposti

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GEORGE ORWELL

(pseudonimo di Eric Arthur Blair)

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a restrizioni di parola, espressione, azione. Orwell denuncia tale asservimento con la figura di Winston, che a parole disdegna i metodi con cui convive ma con i fatti li accetta e li subisce. La parabola che il protagonista compie è quella che si ritrova in tutti i personaggi dei romanzi di Orwell e, probabilmente, anche quella che lo scrittore teme per sé stesso: dalla ribellione, alla speranza, alla fine della speranza, all’asservimento, alla tortura. Attraverso il personaggio di Winston Smith, Orwell, in definitiva, vuole esemplificare la condizione dell’individuo nel tempo in cui viveva. Ci vuole trasmettere come, nel mondo di Oceania, un’opposizione e una libertà di pensiero non solo siano sistematicamente soppresse dal controllo del potere, ma non siano minimamente possibili. Il Partito ha raggiunto una tale egemonia da estinguere oltre la libertà di azione e di movimento anche quella di pensiero. Il Grande Fratello ha annullato la coscienza dell’individuo. Bisogna sottolineare ancora una volta che per l’autore non era importante quale tipo di regime totalitario si dovesse combattere: in qualunque società in cui vige una supremazia assoluta, sia di destra o di sinistra, è sempre il soggetto singolo a venire sconfitto. Il libro di Orwell è stato giudicato dalla critica soprattutto come un’opera profetica: la creazione di un mondo futuro terribile, ma possibile. Questa visione viene ribaltata analizzando il testo: ponendolo in rapporto con la realtà in cui operava l’autore, 1984 non è il frutto di pura fantasia, ma è storia contemporanea, seppur ingigantita ed estremizzata. È probabilmente questa considerazione

ad aver decretato il successo mondiale del romanzo: la coincidenza fra il mondo reale e l’universo creato dalla fantasia. Molti critici hanno infine concluso che 1984 non lascia alcuna speranza, che la distopia catastrofica di Oceania non permette alcuna possibilità di cambiamento, che Orwell è lo scrittore del disincanto. Tutto perfettamente condivisibile e vero. Però, forse, le parole conclusive che lo scrittore desiderava si stampassero nella mente del lettore non erano “Ora amava il Grande Fratello”, bensì le ultimissime frasi dell’Appendice al libro: “Si stavano traducendo diversi scrittori, come Shakespeare, Milton, Swift, Byron, Dickens e altri. Una volta che un simile processo si fosse concluso, i loro scritti originari e con essi tutto quanto ancora sopravviveva della letteratura del passato sarebbero stati distrutti. Si trattava di un compito lento e difficile, e ci si aspettava che potesse concludersi solo nel primo o secondo decennio del XXI secolo. Ed era unicamente per garantire un giusto lasso di tempo a questo lavoro di traduzione preliminare che l’adozione integrale della neolingua era stata fissata per il 2050”. Attraverso tale conclusione Orwell dice che la versione in Neolingua dei capolavori del passato è l’opera più ardua che il Partito debba affrontare, tanto da far slittare il trionfo della lingua che uccide il pensiero in un futuro lontano rispetto all’anno in cui è ambientato il romanzo. L’unica opposizione vera e reale che il potere si trova a fronteggiare è quella della letteratura, il cui linguaggio, intriso di libertà, oppone una forte resistenza a farsi tradurre nella lingua degli schiavi e del regime totalitario. <

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STILE e dintorni

Ciak, l’autore

IN CABINA

DI REGIA

di FABIANA REDIVO

“L’arte di scrivere è l’arte di ben pensare, e ben esprimere i nostri pensieri; talché divengano altrui niente meno che nostri.” Pietro Giordani

L

O SCRITTORE è il dio del suo mondo. Determina la sequenza degli eventi, decide chi vive e chi muore, crea le atmosfere in cui si muovono i personaggi, fotografa momenti di vita e li riproduce a uso e consumo della sua storia. Tutto questo mi fa ricordare una frase di Karen Blixen: “Bisogna scrivere una storia semplice con la massima semplicità possibile. Nella semplicità di una storia ci sono già abbastanza complessità, ferocia e disperazione”.

Sono perfettamente d’accordo con la scrittrice danese. Partire da una trama complessa può generare fastidiose digressioni in corso d’opera, tanto da far perdere di vista l’obiettivo finale. Personalmente m’è capitato spesso, anche con autori famosi, di interrompere la lettura pensando: “vieni al punto, maledizione!” Veniamo al punto del nostro articolo facendo prima una digressione. Appositamente, così ci capiamo. Curiosando tra

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WRITER’S BLOCK 1

foto: ©GEORGE SCHMAUCH scherbius.deviantart.com modella: OXY ACETYLENE

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i testi che trattano di scrittura creativa, mi sono imbattuta in esempi ed esercizi utili a collaudare se la stesura di un testo risulta più efficace in prima persona piuttosto che in terza, al presente o al passato… Dal punto di vista pratico, la scelta della forma narrativa dovrebbe ricadere su quella più congeniale. Inutile forzare la mano, soprattutto se si è alle prime armi. Tuttavia sarà pratico tenere ben presente alcuni dettagli. Il narratore onnisciente, pur offrendo la possibilità di far conoscere al lettore ciò che i personaggi non sanno, a volte può creare un fastidioso inserimento dell’autore all’interno della vicenda. Chiariamo. L’autore è ovunque, come dicevo prima è il dio del suo mondo, tuttavia non credo sia sano sottolinearlo troppo. Ricordo che al mio esordio come scrittrice (avevo usato la terza persona onnisciente), amici e parenti mi dicevano “ma come scrivi bene, mentre leggevo sentivo proprio la tua voce nella mia testa!”. In un primo momento mi sembrò un gran complimento. Poi mi resi conto che le cose non stavano così. In rete ho trovato una frase di Susanna Tamaro che secondo me rende molto bene l’idea di ciò che intendo: “Io sono convinta che la scrittura non serva per farsi vedere ma per vedere”. Naturalmente l’atto di vedere non è appannaggio esclusivo dell’autore. E infatti Herbert Spencer diceva che “Leggere è vedere per procura”. Vedendo per procura, il lettore aggiunge sempre qualcosa di proprio, se non altro il suo stato d’animo. Il narratore onnisciente può diventare molto fastidioso, soprattutto quando

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il ‘delirio da onnipotenza’ si manifesta quale deus ex machina. Che poi la frase latina è una trasposizione dal greco e originariamente indicava una divinità che compariva sulla scena per sciogliere una situazione non risolvibile secondo i canoni classici. Non mi sembra il caso di ‘finire in tragedia’. Posso scherzarci impunemente sopra solo perché ci sono passata. Il racconto in prima persona ha indubbiamente il suo fascino. Sappiamo sempre cosa pensa il protagonista e ci permette di approfondire la sua personalità pescando perfino nel ricordo delle sue esperienze personali in maniera diretta. I vantaggi appena descritti, comportano dei limiti. Ad esempio non è possibile raccontare fatti non vissuti dal protagonista se non riportati da terzi. Stessa cosa per quanto riguarda eventuali sensazioni e pensieri di comprimari. Si offre al lettore una storia vista da un unico punto di osservazione. In buona sostanza non si può rendere manifesto ciò che supera la percezione sensoriale del protagonista. Anche il tempo narrativo ha i suoi perché. In modo semplicistico possiamo dire che il passato ci condurrà attraverso una vicenda che sappiamo essersi già conclusa, mentre il presente ci fa vivere l’azione nel suo svolgimento. Scegliere a tavolino tra queste modalità non è facile. Non esiste un valore assoluto cui fare riferimento. Il metodo giusto è quello che funziona meglio per l’autore. Oltre alla padronanza delle tecniche, tutto dipende dall’effetto che desideriamo ottenere. Notevole digressione. Però ci sta, per-


ché, venendo al punto, quanto sopra è necessario. Predisporre un buon ‘canovaccio’ da seguire è importantissimo. Faccio volutamente riferimento al ‘canovaccio’ della commedia dell’arte, cioè la traccia su cui gli attori inserivano le loro improvvisazioni senza perdere di vista l’obiettivo. Ecco perché, come diceva la Blixen, è importante scrivere storie semplici in modo semplice. Ogni personaggio ha un suo personale vissuto in base al quale reagisce, ogni sfondo scenografico subisce un’evoluzione determinata anche dal solo scorrere del tempo, cambiano i contesti in cui si svolge la vicenda perché tutto si muove contemporaneamente e non necessariamente nella direzione che si era preventivata. Per gestire tutte queste cose ci vuole polso, oltre a una grande chiarezza di idee. Immaginiamo per un momento di trovarci all’interno di una cabina di regia. I monitor ci mostrano le immagini di più fatti che avvengono contemporaneamente e che in qualche modo sono legati tra loro. Per ricavarne un film dobbiamo selezionare gli episodi significativi e montarli in modo da ottenere una sequenza organica, logica e ben strutturata. Considerare i tempi narrativi. Di azione e reazione. Dare il senso dello scorrere di minuti, ore, giorni e anni. Osservare attraverso gli occhi del protagonista e dare la visione dell’insieme. Analessi (o flashback, se preferite), prolessi (flashforward), interruzioni del flusso naturale della storia per dare spessore alla scena proposta, ai personaggi. Non basta. Il cameraman va opportunamente istruito in base all’effetto che vo-

gliamo ricavare. In alcuni momenti daremo l’ordine di eseguire dei primi piani per mettere in risalto alcune espressioni del volto o gesti. Potremmo aver bisogno di panoramiche a campo lungo, dello zoom su alcuni particolari, di mettere in risalto la presenza di alcuni oggetti o di determinati colori e luci, di puntare su fenomeni atmosferici. Ho descritto il montaggio di un film muto. La colonna sonora non va trascurata. In cabina di regia si scelgono musiche e rumori di sottofondo. Tra le molte scene ripetute, verrà utilizzata quella che unirà il massimo della perfezione possibile tra suono e immagine. I toni usati dai personaggi devono essere quelli giusti. Sicuramente un regista aggiungerebbe molte altre cose a quanto ho indicato. Noi però ci occupiamo di scrittura. Bene, quando programmiamo la nostra storia, ci comportiamo in parte come dei registi, passando attraverso tutte le esperienze sensoriali. Più che raccontare, dobbiamo vivere e far vivere la storia tenendo ben presente quali sono i suoi punti salienti, il messaggio che vogliamo far passare e il tipo di linguaggio che vogliamo usare. Un duro lavoro quello di domare parole, personaggi, sentimenti, eventi e quant’altro. Narrare storie semplici. Descrivere normali reazioni umane con naturalezza per riprodurre artificialmente qualcosa di vero. Concludo l’articolo con un invito alla riflessione sulle parole dello scrittore Francis Scott Fitzgerald: “Gli scrittori non sono esattamente persone. O, se sono qualcosa di buono, sono un intero gruppo di persone che cerca davvero duramente di essere una persona”. <

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TERRE REALI,

Terre Immaginarie

di ROBERTO PAURA

Tra world-building e sub-creazione: come nasce un universo fantastico di successo.

Q

UANDO J.R.R. TOLKIEN descriveva il processo di invenzione di un mondo immaginario come sfondo per un’opera letteraria, lo chiamava sub-creazione. Il prefisso che egli usava aveva più di un significato: dal punto di vista della sua fede cristiana, la creazione poetica di uno scrittore è sempre seconda a quella di Dio, unico e vero Creatore; dal punto di vista più strettamente letterario, quel ‘sub’ sta a intendere anche un’altra veri-

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tà, e cioè che il mondo concepito dall’autore è sempre subordinato al mondo reale di cui è diretta emanazione. «Ogni scrittore che crei un Mondo Secondario, probabilmente desidera in parte almeno essere un creatore effettivo, o almeno spera di attingere alla realtà: spera che l’essenza propria di questo Mondo Secondario (se non ogni suo particolare) derivi dalla realtà oppure a essa confluisca»: con queste parole Tolkien spiegava in una


FABBRICANTI di Universi

A WORLD BEYOND OUR WORLD

di ©GEORGE KRALLIS georgekrallis.daportfolio.com

conferenza del 1939 all’Università di St. Andrews il suo concetto di subcreazione. Perciò, essendo il mondo immaginario figlio del mondo reale, ha più di un legame con esso e non è mai del tutto svincolato dal Creato vero e proprio. Il rapporto tra subcreato e creato, tra la terra reale e la terra immaginaria, nella letteratura fantasy, è stato del tutto ignorato dai critici tranne che in qualche studio rivolto proprio all’opera di Tolkien. Generalmente si ritiene infatti che la narrativa fantastica, immaginaria per definizione, sia del tutto priva di legami con la realtà, quando invece i punti di contatto tra i due mondi meritano di essere analizzati in profondità.

Pur rifiutando recisamente la possibilità che nella sua opera vi fossero allegorie e riferimenti al mondo reale, Tolkien inventò la sua ‘Terra di Mezzo’ sulla falsariga dell’Europa occidentale. Il nome stesso proviene da una precisa tradizione medievale europea: «dall’uso del termine dell’antico inglese mid-del-erde (o erthe), modificazioni del termine dell’antico inglese middangeard: il nome per le terre abitate dagli uomini ‘in mezzo al mare’», come lo stesso Tolkien spiegava a proposito. Nella mistica medievale la Terra-di-mezzo simboleggia la brevità della vita terrena, una condizione di semplice passaggio verso quella ultraterrena. L’i-

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MORDOR

di ©EDLI AKOLLI edli.deviantart.com Una rappresentazione della terra tenebrosa che J.R.R. Tolkien scelse come dimora per l’Oscuro Signore Sauron, dalla saga de Il Signore degli Anelli.

dea è ripresa in Tolkien, dove appunto gli elfi (e anche Gandalf e i ‘portatori dell’Anello’ Bilbo, Frodo e Sam) al termine della loro esistenza lasciano la Terra di Mezzo per giungere a Valinor, il reame beato. Sempre nello stesso passo in cui spiegava l’etimologia, Tolkien precisava: «…benché non abbia cercato di far coincidere la forma delle montagne […] con le ipotesi dei geologi riguardo al passato, questa ‘storia’ è ambientata su questo pianeta, in una certa epoca del vecchio continente…». Un indizio delle similitudini tra i paesi della Terra di Mezzo e alcune realtà del nostro mondo ci viene dalle lingue usate da Tolkien. L’Ovestron che è la lingua cor-

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rente ne Il Signore degli Anelli, viene ‘tradotta’ in inglese perché è appunto la lingua dominante. Si tratta in realtà di una forma vernacolare di lingue più arcaiche e nobili, e non stupisce che venga parlata dagli Hobbit, le cui abitudini e stili di vita riecheggiano in larga misura quelle inglesi. Così se da una parte gli Hobbit rappresentano la pingue borghesia inglese, una versione più classica della lingua Oveston è parlata invece dai popoli di Gondor, discendenti di Numenor. La loro lingua, scrive Tolkien, presenta forti influenze di quella elfica, e perciò è più pura della versione corrente. L’elfico, sia esso il Quenya o il Sindarin, è la lingua nobile per definizione, analogamente al greco e al latino (l’autore stesso parla di un ‘elfico-latino’), ma come tale è una lingua morta, o meglio appartenente a un mondo in disfacimento. Perciò il popolo di Gondor rappresenta l’ultima e decadente incarnazione di una tradizione antichissima. Considerando l’appunto di Tolkien, che nella


carta dell’Europa attuale poneva Minas Tirith, la capitale di Gondor, all’altezza di Firenze, si intuisce che Gondor è l’Italia proprio tenendo conto che l’antico Impero romano era Numenor, la cui lingua classica derivante dal nobilissimo Quenya altro non è che il latino. Inoltre il brutale linguaggio degli orchi, il Linguaggio Nero, nella morfologia è ripreso dal tedesco e testimonia l’evidente volontà di Tolkien di identificare Mordor con la Germania nazista, e non certo con l’Unione Sovietica come qualche critico semplicistico a suo tempo concluse notando che Mordor si trovava ‘a Est’. Ad ogni modo, la spiegazione più dettagliata sulle analogie tra la Terra di Mezzo e l’Europa deriva da una lunga lettera di Tolkien del febbraio 1967 ai coniugi Plimmer, tramite la quale lo scrittore chiariva alcuni punti errati dell’intervista da lui concessa, che i Plimmer gli avevano inviato in bozza prima della pubblicazione sul Daily Telegraph Magazine. Tolkien invitava a non usare il termine ‘Europa nordica’ per chiarire la fonte della sua ispirazione, perché l’aggettivo «si associa, benché di origini francesi, a teorie razziste». Con perspicacia preferiva il termine ‘settentrionale’, e chiariva: «L’azione del racconto si svolge nella parte a nord-ovest della Terra di Mezzo, che come latitudine equivale alle terre costiere dell’Europa e alle coste settentrionali del Mediterraneo. Ma quest’area non si può definire nordica. Se Hobbiton e Rivendell si trovano alla stessa latitudine di Oxford, Minas Tirith, a 600 miglia a sud, sarà pressappoco alla stessa latitudine di Firenze. Le Foci dell’Anduino e l’antica città di Pelargir si troveranno alla stessa latitudine

dell’antica Troia». Inoltre, in una lettera di alcuni anni prima (1960) molto citata dagli studiosi, Tolkien paragonava le Paludi Morte e ‘i dintorni del Morannon’ “alla Francia settentrionale dopo la battaglia della Somme”. È questo l’unico vero indizio, peraltro molto labile, di come l’esperienza reale di vita abbia influenzato Tolkien nella realizzazione del suo mondo secondario. Va detto per inciso che, in seguito a un suo viaggio in Italia, Tolkien paragonò esplicitamente Gondor a Venezia. In realtà il riferimento non era tanto geografico (come si è detto, Minas Tirith era localizzata verso Firenze e Gondor era più o meno l’Italia intera) ma culturale: senza dubbio la particolare architettura veneziana suggeriva a Tolkien l’ideale di grandezza decaduta dei regni degli Uomini, e la conformazione della città sull’acqua doveva riecheggiare nello scrittore la vicenda dell’inondazione di Numenor. Ambientare Il Signore degli Anelli in un’Europa preistorica e geograficamente diversa dall’attuale, ma soprattutto in una precisa parte dell’Europa (quella settentrionale, appunto), non è in Tolkien segno di un simbolismo esplicito o latente. Proprio nell’importante lettera ai coniugi Plimmer, lo scrittore chiarisce il suo intento; per lui, diversamente da come aveva sostenuto W.H. Auden nelle sue recensioni dell’opera tolkieniana, il Nord non è un ‘luogo sacro’: «Alla zona nord-ovest dell’Europa […] sono affezionato, come ogni uomo è affezionato alla propria patria. Amo la sua atmosfera, e conosco la sua storia e le sue lingue più di quanto non conosca quelle delle altre parti del mondo; ma non è ‘sacra’, né esaurisce tutto il mio interesse e tut-

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LA SPADA DI SHANNARA

di ©GREG E TIM HILDEBRANDT Una delle illustrazioni contenute nella prima edizione (1977) del romanzo di Terry Brooks.

ti il mio affetto». Non a caso, continua Tolkien, nel Nord ci sono le fortezze del Male (quelle del Regno di Angband, dove Morgoth aveva ne Il Silmarillion la sua base sulla terra). Più del Nord, è l’Ovest, l’Occidente, ciò che sta a cuore a Tolkien, ma ancora una volta non come insieme di valori contrapposti all’Oriente malvagio, ma come patria in cui Tolkien ha vissuto, di cui conosce e apprezza la storia e la cultura. Il suo primo e ultimo intento era quello di creare una finta mitologia per l’Inghilterra, di cui la Contea pur nella sua piccolezza rappresenta l’intima essenza. L’idea che la terra immaginaria che fa da sfondo alla narrazione non sia altro che una trasfigurazione del nostro stesso

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mondo viene ripresa dal principale erede della fantasy tolkieniana, Terry Brooks. Le Quattro Terre della saga di Shannara sono fin da subito pensate non come parte di un mondo alternativo – che è la soluzione adottata per esempio nel ciclo di Landover (ispirato però in parte a Il Mago di Oz, dove l’idea di una terra alternativa viene per la prima volta sfruttata appieno per ovviare al problema della spazialità fisica del mondo fantastico) – ma come parte del nostro stesso mondo. La differenza con la Terra di Mezzo consiste nel fatto che, mentre quest’ultima rappresentava per stessa ammissione di Tolkien un’Europa preistorica attraverso la quale la vicenda veniva proiettata nel remoto passato della nostra Storia, le Quattro Terre sono invece un’evoluzione futura del mondo attuale, e quindi trasferiscono la vicenda nel remoto futuro. Già ne La Spada di Shannara, Allanon racconta


a Shea (benché solo per accenni) delle Grandi Guerre che distrussero e modificarono l’assetto del vecchio mondo. Guerre che sprigionarono una forza immensa, di natura termonucleare: “La potenza profusa in quei pochi minuti di battaglia non solo riuscì a cancellare migliaia di anni di crescita umana, ma diede anche l’avvio a una serie di esplosioni e sommovimenti che alterarono completamente la superficie della terra […] spaccando i continenti, prosciugando gli oceani, rendendo terre e mari inabitabili per centinaia di anni”, raccolta Allanon al suo discepolo. Sempre nel suo primo romanzo, Terry Brooks mostra alcune vestigia dell’antica civiltà, in cui la compagnia guidata da Allanon s’imbatte. Nelle profondità di una foresta appaiono le rovine di una grande città sopravvissuta alle Grandi Guerre: quel che resta di un alto palazzo spunta dalla vegetazione con l’aspetto di “una serie di travi, rugginose”. Come sostiene Menion Leah, la civiltà di cui le rovine sono testimoni ha ben poco da offrire al nuovo mondo: “Niente di più che qualche trave arrugginita”. Nel corso della saga, Brooks affronta più in dettaglio il passato delle Grandi Guerre. Ne Il Druido di Shannara buona parte della vicenda è ambientata a Eldwist, una grande metropoli le cui rovine sono state perfettamente conservate grazie dall’azione di Uhl Belck e del suo mostruoso figlio, il Maw Grint,

capace di mutare tutto ciò che tocca in pietra. I protagonisti descrivono a loro modo le carcasse delle automobili, i grattacieli dai ventri squarciati, il vetro e il cemento, le enormi fognature. Ancora, ne Il Labirinto di Shannara l’azione è ambientata in un’altra grande città al di là dello Spartiacque Azzurro (probabilmente l’oceano atlantico, quindi in Europa laddove le Quattro Terre, come si apprenderà poi, sono ciò che resta dell’America del Nord). Castledown, così si chiama l’antica fortezza (il nome è mantenuto in inglese, la vecchia lingua dei suoi costruttori), rappresenta l’apice della creazione tecnologica del Vecchio Mondo poco prima della sua distruzione. L’enorme labirinto di sale sotterrane, creato per ospitare tutta la conoscenza umana, è protetto da una potente intelligenza artificiale, Antrax, che difende quella conoscenza con

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IL MAGICO REGNO DI LANDOVER

(Magic Kingdom for Sale - Sold!, 1986) MONDADORI, edizione 1993 ISBN: 9788804376491

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DISTURBER OF THE PEACE

di ©BEN WOOTTEN / WETA WORKSHOP benwootten.daportfolio.com www.wetanz.com Una splendida ricostruzione della Contea (the Shire), la pacifica patria degli Hobbit come concepita da Tolkien.

le armi più avanzate e distruttive. La morfologia delle Quattro Terre viene gradualmente rivelata nella saga ‘La Genesi di Shannara’. L’ambientazione è la nostra Terra, ancora geograficamente e topograficamente riconoscibile, nell’epoca delle Grandi Guerre. L’azione si concentra nelle rovine di Seattle, una delle ultime metropoli ancora libere dall’invasione dei demoni. Il grosso dell’esercito degli uomini si è abbarbicato nelle Fortezze, di cui Castledown costituiva l’antesignano letterario. Si scopre così che le future Quatto Terre, che morfologicamente richiamano in modo prepotente l’Europa occidentale, non sono altro che l’America settentrionale trasformata dalle mutazioni continentali. Infatti molti dei luoghi presenti nella saga di Shannara si ritrovano qui: il reame delgi Elfi e la loro capitale, Arborlon, sono situati nella foresta di Cintra, nell’Oregon, così come le remote montagne dove è custodita la Pietra Nera; il Fiume Argento non è altro che il fiume Columbia; le Quattro Terre risultano molto più ristrette geograficamente di quanto previsto, e si limitano alla parte orientale degli Stati Uniti. Le terre dove, ne La Regina degli Elfi di Shannara, si rifugiano gli Elfi in esilio sono verosimilmente poste in quel che resta del Centro America, considerando il

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clima tropicale e la presenza di un grande vulcano. In sostanza la ragione della scelta di Brooks di ambientare le vicende di Shannara nel nostro mondo va rintracciata nel messaggio etico che l’intera produzione dello scrittore vuole veicolare. In alcuni passi de La Spada di Shannara s’intravede una forte critica allo sviluppo tecnologico scriteriato, ma Brooks in realtà non si scaglia contro la scienza e la tecnologia quanto contro la sconsideratezza umana. La saga del Verbo e del Vuoto e soprattutto la trilogia de ‘La Genesi di Shannara’ approfondiscono questo tema. La trasformazione del nostro mondo in quello selvaggio e pericoloso delle Quattro Terre simboleggia l’inevitabile rivincita della natura sulla tecnologia. Il Regno del Fiume Argento, una sorta di Eden nell’universo di Shannara, è l’ideale meta del viaggio che le varie razze del mondo


devono compiere per purificarsi dalle colpe accumulate con le Grandi Guerre, le successive Guerre delle Razze e i tanti errori generati dalla brama di potere (lo spietato dominio della Federazione, l’avvento degli Ombrati causato degli Elfi…). L’interazione tra mondo reale e immaginario diventa completa nella saga di Harry Potter di J.K. Rowling. Il mondo dei maghi elaborato dall’autrice fin nei minimi dettagli non è localizzato in un vago altrove né in una dimensione parallela alla nostra, ma nel nostro stesso mondo di cui condivide gli spazi. La scuola di Hogwarts è in Scozia; la strada dove vive Harry, Privet Drive, dal nome del tutto anonimo, è immaginata come parte di uno dei tanti sobborghi metropolitani inglesi, non molto lontano da Londra. E proprio a Londra si sviluppano molte vicende: qui ha sede il Ministero della Magia, l’Ospedale di

San Mungo e soprattutto Diagon Alley, il rione dei maghi il cui accesso si trova sul retro del pub ‘Il Paiolo Magico’, invisibile ai normali ‘babbani’ ma posto su Charing Cross Road, una delle strade principali di Londra. Il binario 9 e ¾, da dove parte l’Espresso per Hogwarts ogni primo settembre, viene collocato dalla scrittrice nella stazione londinese di King’s Cross. La sua fama è tale che i dirigenti della stazione hanno negli ultimi anni realizzato proprio lì un angolo dedicato agli appassionati di Harry Potter con la dicitura ‘binario 9 e ¾’. Il nome stesso sintetizza un po’ la filosofia alla base della convivenza tra i due mondi – babbano e magico – secondo la Rowling: il binario 9 e ¾ è una simbolica ‘terra di nessuno’, o meglio una Terra di Mezzo tra due realtà fisiche (i binari 9 e 10). Tra questi due blocchi del mondo reale c’è lo spazio per inserire un mondo

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immaginario che, quindi, non necessariamente cozza con quello conosciuto dai babbani. Quando Harry per la prima volta giunge al numero 12 di Grimmauld Place, a Londra, dove l’Ordine della Fenice ha posto il suo quartier generale, si stupisce che questo numero civico non sia visibile tra le case che danno sulla piazza: ma im-

provvisamente il numero 11 e il numero 13 si scostano consentendo l’emersione per magia di una piccola porta con tanto di numero 12. Ecco un altro caso di luogo immaginario che occupa le interruzioni di continuità del mondo reale. L’Ospedale San Mungo, dove i maghi inglesi vengono ricoverati, si trova anch’esso a Londra e corrisponde fisicamente a un grande magazzino abbandonato da decenni, con tanto di insegna ‘Purge & Dowse Ltd’. Il pericolo, con la soluzione trovata dalla Rowling, è che il lettore finisca coll’individuare tra le righe della vicenda fittizia più riferimenti del voluto al mondo reale. Questo rischio naturalmente è presente in ogni romanzo, ma risulta maggiore nel momento in cui s’innesta un gioco di parallelismi tra un mondo reale e un mondo immaginario coesistenti. Il sesto volume della serie, Harry Potter e Il Principe Mezzosangue, si apre con un preludio ambientato nello studio del Primo Ministro inglese. Questi si trova a barcamenarsi tra i resoconti di diverse disgrazie che hanno colpito il Paese nei precedenti mesi, che il lettore sa essere dovuti all’azione di Voldemort e dei suoi Mangiamorte. Il critico più smaliziato cercherà di estrarre da quel breve ma intenso capitolo eventuali riferimenti della Rowling alla situazione politica contemporanea: il primo ministro dipinto dalla Rowling potrebbe essere Tony Blair, considerata la battuta nel testo (fat-

IL MAGO DI OZ

(The Wizard of Oz, 1939) Il film diretto da Victor Fleming e interpretato da Judy Garland ha riproposto al cinema con enorme successo il mondo fantastico creato da L. Frank Baum.

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DIAGON ALLEY

foto di ©CHESKA FLAHERTY cheska1992.deviantart.com La lunga via ‘di Londra’ dove Harry Potter e i suoi colleghi maghi effettuano i loro acquisti. È ricostruita a Orlando (Florida), all’interno del The Wizarding World of Harry Potter, l’area tematica della Universal Pictures dedicata alla saga di J.K. Rowling.

ta da un suo avversario politico) sul ‘clima sinistro’ calato sulla nazione, ma, tenendo conto della cronologia che si evince dai romanzi, ci troviamo nell’estate 1996 e per pochi mesi ancora a capo del gabinetto britannico sarà il conservatore John Major. Ancora, alcuni critici hanno letto nella scelta della Rowling di ubicare in Albania il nascondiglio segreto di Voldemort, negli anni precedenti la sua risurrezione, come un’eventuale spiegazione ‘alternativa’ agli sconvolgimenti politici che proprio in quegli anni hanno scosso il Paese balcano. La Rowling trova un modo per allontanare il rischio di poter scorgere nelle sue opere relazioni col mondo reale anche laddove non esistano: semina nel testo riferimenti deliberatamente errati,

per sottolineare che i due piani della realtà – quella primaria e quella secondaria – restano sfalsati e non sovrapposti. Un esempio compare nel quarto romanzo, cronologicamente ambientato nel 1994, dove Dudley viene descritto giocare con una Playstation, cosa ‘impossibile’ essendo (nella realtà) la console sbarcata in Europa nell’autunno del 1995. A nulla serve dunque che il lettore si accanisca nel cercare sulla mappa la possibile ubicazione di Hogwarts e Hogsmeade, di Beauxbatons e Durmstrang: esattamente come il babbano che si avventura nelle vicinanze di Hogwarts e non scorge altro che un vuoto terreno recintato, il lettore non può pensare di penetrare i misteri del mondo immaginario di Harry Potter affidandosi alle nozioni del mondo reale. C. S. Lewis fa del Regno di Narnia un mondo parallelo al nostro, ma dove non mancano i passaggi dimensionali che permettono l’interazione tra le due realtà: un vecchio armadio in una stanza dimenticata, un grande quadro raffigurante un veliero, un portone abbandonato che dà sull’esterno di una scuola… Nel preludio al ciclo, Il Nipote del Mago, i protagonisti

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THE NEVERENDING STORY

di ©ROB REY www.robreyart.com robreyart.blogspot.com Nel romanzo La Storia Infinita, di Michael Ende, il protagonista Bastiano (Bastian) riesce a entrare nel regno di Fantàsia attraverso la lettura di un volume sottratto dal negozio di antiquariato del signor Coriandoli (Koreander).

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si trovano in una grande e antica foresta che è una sorta di ‘porto d’imbarco’ per altri mondi, e nei tanti stagni che vi si trovano c’è una porta per un universo completamento ‘alieno’: l’apparente assenza di confini fisici e temporali della foresta simboleggia l’infinitezza dell’immaginazione, quella stessa immaginazione che è alla base dell’elaborazione di ogni creato-


LE CRONACHE DI NARNIA

Nella saga ideata da C. S. Lewis, la piccola Lucy scopre casualmente all’interno di un armadio il passaggio che conduce dal mondo reale al mondo fiabesco di Narnia.

re di mondi. Il rapporto tra mondo reale e immaginario è qui sfasato: Narnia è un luogo ‘altro’ non solo in termini spaziali ma anche temporali: ogni giorno sulla Terra corrisponde quasi a un anno nel tempo di Narnia, cosicché i protagonisti del ciclo vedono l’alba e il tramonto di un mondo intero nel corso della loro vita. Il senso di infinitezza si ritrova ne La Storia Inifinita di Michael Ende. Il regno di Fantàsia non ha confini fisici e non ha una precisa estensione geografica: la sua infinita estensione è però messa a rischio dal Nulla, che rappresenta la perdita d’immaginazione. Se infatti è la fantasia (intesa come immaginazione) a permettere l’esistenza di quel mondo, allora solo il Nulla lo può distruggere, perché esso è appunto il contrario dell’immaginazione,

è l’assenza di ogni cosa immaginabile, innanzitutto di sogni e desideri. In un passo del libro si legge la seguente, fondamentale affermazione: “Tutto ciò che accade, tu lo scrivi. Tutto ciò che io scrivo accade”. La frase sintetizza il pensiero di Ende: tutto ciò che l’immaginazione crea, esiste. Per uno scrittore quest’affermazione è una sorta di Credo: ciò che egli inventa nella sua mente diviene immediatamente reale se trasmesso ad altri attraverso la scrittura; così il mondo immaginario diventa in qualche modo parte della realtà. Fantàsia, frutto dell’immaginazione degli uomini, può esistere solo finché c’è fantasia. Questo spiega il senso dell’enigmatica risposta di Mork, l’inviato del Nulla, alla domanda di Atreiu sul perché egli voglia distruggere Fantàsia: “Voi avete avuto un mondo vostro, e io no”. Ende esplora così il concetto di subcreazione ancor più di quanto abbia fatto Tolkien. Entrambi i mondi esistono se esiste Fantàsia, altrimenti ci sarà solo il Nulla, il non-luogo. <

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Cult MOVIE

La celebrazione

DI UN MITO

HORROR

di SEVERINO FORINI

In attesa dell’imminente V capitolo, gettiamo un ampio sguardo sulla saga ‘funebre’ creata da Don Coscarelli.

E

SATTAMENTE 35 anni fa usciva nelle sale il primo capitolo, intitolato semplicemente Phantasm (Fantasmi, nella versione italiana), di una serie di film a basso costo ideata da un regista ventitreenne all’epoca praticamente sconosciuto, Don Coscarelli, il quale, usando mezzi di fortuna e con l’ausilio di amici e parenti, creò quello che contro ogni aspettativa era destinato a divenire uno dei più grandi successi horror di sempre. Anniversario a parte, esistono almeno altri due validi motivi per ricordare proprio in questo periodo l’opera di Coscarelli.

Il primo è una recente notizia che non poteva lasciare indifferenti gli amanti della serie: poche settimane fa il regista ha annunciato al mondo la tanto attesa realizzazione del quinto capitolo della saga. Varie volte in passato voci incontrollate di un possibile nuovo sequel erano circolate per poi essere smentite. Oggi possiamo affermare, senza più ombra di dubbio, che un nuovo Phantasm è in arrivo. Con ben sedici anni di ritardo sul quarto capitolo della saga. Si intitolerà Phantasm: Ravager e potrà vantare la presenza di tutto il cast originale, incluso il leggen-

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dario Angus Scrimm, oggi 88enne, negli usuali panni del terrificante ‘Tall Man’. Il secondo motivo è ancora legato all’attualità: il 21 aprile scorso è uscito un libro dedicato alla fortunata serie, Intitolato Phantasm Exhumed: The Unauthorized Companion. 268 pagine impreziosite da oltre 260 fotografie inedite e da una prefazione scritta dallo stesso Angus Scrimm: il volume è un’incredibile testimonianza dell’immenso lavoro di ‘making of’ che Coscarelli e company hanno compiuto dal 1979 a oggi. La firma è di Dustin McNeill, uno dei maggiori esperti in materia e owner del blog Phantasmarchives. UN RAGAZZINO E I SUOI FANTASMI Prima di parlare nello specifico delle pellicole, volevo cercare di capire con voi i motivi per cui Fantasmi è divenuto il mio film di culto ­­­– e quindi i motivi per cui lo è diventato anche per molti spettatori allora giovani come me – provando a magari a mettere un po’ d’ordine tra i ricordi sbiaditi di quel ragazzino che ero nel 1979 e la lucidità (o presunta tale) della versione adulta dello stesso. Una delle cose che più adoravo del cinema a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 era la particolare predilezione a proiettare, almeno una domenica su due, film horror. Passavano titoli che sarebbero in seguito divenuti dei cult assoluti, come lo Zombi di Romero o il Fog di Carpenter; passavano i goduriosi film sugli animali killer, come Lo Squalo di Spielberg o L’Orca Assassina di Michael Anderson. Ma ciò che veniva proiettato con maggior frequenza era il trash più trash che memoria d’uomo ricordi, come quei clamorosi, farlocchissimi, zombi-sequel diretti da Lucio Fulci, e altra roba che

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oggi fortunatamente ho rimosso. Ma, tra tutti quei fotogrammi che scorrevano freneticamente davanti ai miei occhi, ce ne sono stati alcuni che ancora oggi rivedo con un certo disagio e una inspiegabile angoscia. Fantasmi, naturalmente, appartiene proprio a questa categoria. La storia narrata da Coscarelli vede come protagonista l’orfano tredicenne Mike (Michael Baldwin) che, persi i genitori, vive nel timore perenne che anche il fratello maggiore, Jody (Bill Thornbury), possa abbandonarlo. Questo è il primo punto su cui riflettere. Il tema della perdita e dell’abbandono è un classico della psicanalisi e se, come ha fatto Coscarelli, lo materializziamo nel corpo di un ragazzino, ecco che subentra inevitabile l’identificazione. Secondo punto: il giovane Mike si accorge che il becchino (Angus Scrimm) trafuga cadaveri dal cimitero cittadino. Ecco un altro tema interessante: la paura della morte o, più nello specifico, la paura di ciò che accadrà al nostro corpo dopo la morte. Terzo punto: Mike comincia a indagare, e ciò che scopre porta in superficie un’altra paura, quella sul destino dell’anima, se mai ne esista una. Quarto punto: il rapporto tra i due fratelli appare per taluni aspetti, come dire, quasi morboso. Orfani, come detto, di entrambi i genitori, si inseguono, cercando di proteggersi a vicenda, ma allo stesso tempo si respingono. Il tema qui è quello della famiglia vista come l’unica possibile difesa dalle forze del male. Non mi resta che proiettare sul me stesso bambino i quattro temi del film… Come dicevo, il redattore che oggi trovate qui a scrivere era, in quegli anni, un coetaneo del Mike-personaggio. Un ragazzino

come Mike ma con una differenza sostanziale, cioè quella di essere figlio unico. Mi immagino già orde di psicanalisti pronte a indicare nella mancanza di fratelli e sorelle il nocciolo della questione. Resta il fatto, qualcuno osserverà, che forse non è del tutto normale che un ragazzino di tredici anni se ne vada al cinema da solo la domenica pomeriggio a guardare film dell’orrore. Per quanto riguarda la paura della perdita, penso fosse un concetto troppo prematuro per poterlo considerare. Si può dire che in quegli anni vivevo al riparo dalle brutture del mondo reale. È vero, avevo già le mie piccole fregole pre-adolescienziali, i miei piccoli traumi da innamoramenti randomici non corrisposti, ma non c’era nulla che mi spaventasse davvero, almeno a livello conscio. A livello inconscio, beh, di quello credo si possa anche parlare. Sebbene la morte non avesse mai bussato direttamente alla mia porta, sentivo, sia pure in modo vago, che qualcosa di terribile sarebbe potuto un giorno capitarmi. Quei cimiteri, dove talvolta mi capitava di venire portato in visita ad antenati mai conosciuti, mi mettevano nella condizione di farmi delle domande. Cosa ci faceva tutta quella gente sotto quelle lapidi? Chi erano prima di finire in quel posto? Erano come me? E poi stavano davvero là sotto, oppure erano ‘in cielo’ come mi si diceva? Ma se erano in cielo, allora là sotto cosa c’era? Ripensandoci adesso, credo che il succo del discorso sia tutto qui. Il film di Coscarelli aveva dato forma alla mia domanda ‘proibita’, al mio incubo più segreto: cosa ne sarà di noi? Oggi, trent’anni dopo, non l’ho ancora capito.

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PHANTASM, L’ORIGINE DELLA SPECIE Ripartiamo adesso dall’inizio. Cosa rispondereste, di primo acchito, se qualcuno vi chiedesse il nome di una celebre saga horror? Alla maggior parte di voi verrebbe in mente Nightmare, oppure Hellraiser, o Halloween, o ancora Venerdì 13. Qualcuno se ne verrebbe forse fuori con Scream, e magari alcuni originaloni potrebbero citare addirittura il Chucky de La Bambola Assassina. La ragione per cui di getto non viene in

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mente l’opera di Coscarelli è molto semplice: nonostante il successo del primo film, e sebbene con il trascorrere degli anni la serie si sia elevata a stato di cult – perlomeno secondo l’opinione di ristrette schiere di fan – ciò che innegabilmente non possiamo dire di Phantasm è che sia, appunto, celebre. Le domande senza risposta allora sono: cosa trasforma una serie horror in un cult universale? E cosa è mancato a questa, che è invece rimasta relegata ai confini dell’Olimpo? Eppure è facile notare delle evidenti ana-


logie con saghe come le già citate Halloween e Nightmare: analogalmente a quelle, Phantasm rientra nel sottogenere horror conosciuto come slasher, secondo le cui regole, precise e immodificabili, un inarrestabile villain mascherato (spesso orrendamente sfigurato) si diletta a far strage di adolescenti idioti poco inclini alla sopravvivenza. Gli slasher, per loro stessa natura, nascono già con la prospettiva della serializzazione: come ben sapete, infatti, il cattivone di turno, anche se ucciso, sbudellato, decapitato, tritato o maciullato, risorge inevitabilmente (e soprattutto inspiegabilmente) nell’ultima scena prima dei titoli di coda, preannunciando il proprio ritorno grosso modo nel giro di un anno (tanto quanto serve per raccogliere quattro soldi e produrre l’ennesimo sequel). È forse questa la chiave del successo? È solo questione di una… come dire… sapiente strategia di marketing? Quando Don Coscarelli diede alla luce Fantasmi non c’era in effetti alcuna intenzione di realizzarne un seguito, sebbene il finale aperto possa oggi lasciare più di un dubbio. Inoltre i temi che venivano affrontati non era-

no immediati, e la loro presentazione sullo schermo, con quelle atmosfere claustrofobiche, oniriche, e con alcuni ben dosati sprazzi di surrealismo, era tutto fuorché un viatico per il successo. Il successo però arrivò, sorprendendo per primo lo stesso regista. Forse arrivò addirittura per motivi diversi da quelli da lui immaginati, ma resta il fatto che dal baco di una piccola autoproduzione uscì un’elegante farfalla. Il termine ‘onirico’ ben si adatta alla pellicola, perché la genesi di Fantasmi si dice deriverebbe da un sogno dello stesso regista, un incubo in cui egli fuggiva lungo interminabili corridoi inseguito da una minacciosa sfera metallica. Il risultato è un film ricco di incongruenze – e quale sogno non lo è? – che miscela sapientemente – qualcuno direbbe maldestramente – diversi generi, un po’ horror, un po’ fantascienza, un po’ tante altre cose. Come già accennato, la storia vede come protagonista Mike (Michael Baldwin), un tredicenne insicuro che, dopo la morte dei genitori, vive con il fratello maggiore, Jody (Bill Thornbury). Un giorno, dopo aver assistito al funerale di un amico di

Scheda tecnica TITOLO:

Phantasm (it Fantasmi) ANNO E PAESE:

1979 USA REGIA:

Don Coscarelli SCRITTO DA:

Don Coscarelli FOTOGRAFIA:

Don Coscarelli MONTAGGIO:

Don Coscarelli MUSICHE:

Fred Myrow Malcolm Seagrave REPARTO SCENOGRAFICO:

Kate Coscarelli (scenografia) David Gavin Brown (architetto-scenografo) PRODUTTORE:

Dac Coscarelli Paul Pepperman (co-prod.) PRODUZIONE:

New Breed Productions Inc.

Cast A. MICHAEL BALDWIN (Mike) BILL THORNBURY (Jody) REGGIE BANNISTER (Reggie) ANGUS SCRIMM (Tall Man) KATHY LESTER (Donna in viola) MARY ELLEN SHAW (Chiaroveggente)

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famiglia, il giovane Mike si accorge che il becchino (Angus Scrimm), finita la cerimonia, quando tutti si sono allontanati, anziché terminare di sotterrare la bara la carica nuovamente sul carro funebre e se la porta via. Ma non è quello l’unico aspetto inquietante della situazione: ciò che fa rabbrividire Mike è soprattutto il fatto che l’uomo abbia sollevato una cassa di due quintali da solo, senza il minimo sforzo. Il ragazzo inizia una sua personale indagine, sebbene deriso da Jody con il quale aveva tentato di confidarsi, e riesce a introdursi nottetempo nel cimitero alla ricerca di indizi da presentare all’incredulo fratello. Gli indizi non si faranno attendere: Mike, nel giro di pochi minuti, farà la conoscenza di alcuni sinistri nani incappucciati, di sfere metalliche volanti in grado di uccidere tramite lame retrattili che si piantano nei crani dei malcapitati, e naturalmente del ‘Tall Man’, l’inquietante figura-simbolo di tutta la saga, quel becchino, magistralmente interpretato dall’eterno Angus Scrimm, che aveva agitato i sonni dell’ex bambino che qui scrive. Il film si immerge nelle paure più recondite dell’essere umano. Quel maestoso mausoleo che il Tall Man ha scelto come sua dimora terrena è veramente terrificante: i suoi lunghi e labirintici corridoi rivestiti di marmo, sui cui lati si affacciano centinaia di loculi (quelli che noi chiamiamo colombari), e quella minacciosa sfera metallica che si aggira alla ricerca di vittime. Sarà proprio in questo scenario che Mike, Jody e il loro amico Reggie (Reggie Bannister) scopriranno il segreto che si cela dietro il becchino, una specie

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di custode infernale che preleva i cadaveri dalle loro sepolture e li trasforma in piccoli nani, peraltro molto simili a quelli, più noti, del quasi contemporaneo Guerre Stellari di George Lucas. Laddove c’è un custode infernale non può mancare una porta, solo che in questo caso la porta è un passaggio spazio-temporale per un inferno completamente estraneo ai soliti canoni: l’aldilà sembrerebbe una specie di pianeta alieno nel quale i nani vengono utilizzati come schiavi. Ho detto sembrerebbe perché a noi non è concesso che un solo fugace sguardo verso quel mondo ultraterreno. Realtà? Fantasia, sogno, visione? Il finale del film non chiarisce tutti i punti. Si direbbe quasi che la storia non sia stata altro che un sogno. Mark si sveglia e si trova sulla tomba di Jody, anche lui forse morto tempo prima assieme ai genitori. Ma a un passo dai titoli di coda ecco un nuovo twist da far saltare sulla sedia. Il Tall Man ci sta aspettando? Sta aspettando noi tutti? “If this one doesn’t scare you, you’re already dead”, diceva la locandina nella hall del cinema. Ho accennato poco fa a quell’incubo che innescò l’idea di Fantasmi: in seguito a quell’avvenimento il giovane regista si ritirò per diversi mesi nella solitudine di una baita in montagna lavorando a un soggetto che potesse svilupparsi da quell’idea di base e includere anche quelle che erano le sue paure infantili, prima tra tutte la paura della morte: la decisione di ambientare Fantasmi in un cimitero fu quasi naturale. Una volta realizzato il soggetto, non disponendo di mezzi sufficienti a girare, al nostro autore non restava che chiedere aiuto ad amici

e parenti. Il padre Donald sr racimolò il denaro necessario per la produzione, e la madre Kate si occupò delle scenografie, del make-up e dei costumi. Per il ruolo dei protagonisti furono reclutati gli amici più cari, tra i quali il già citato Reggie Bannister, che già aveva aiutato Coscarelli nei suoi primi esperimenti di regia.

Intermezzo cosmogonico …Iddio compose il mondo di tutto il fuoco e acqua e aria e terra, non lasciando fuori niuna parte o valore di niuno di quelli. In prima, perché il mondo fosse, quanto poteva, animale perfetto, e di perfette parti; e, oltre a ciò, perché fosse uno, non essendo lasciata materia donde generare si potesse un altro simigliante: e poi ancora perché egli fosse senza morte e vecchiezza; avvisando bene Iddio, che il caldo, il freddo e tutte l’altre cose che hanno forte possanza, stando di fuori ai corpi e quelli fuori di tempo assalendo, li sciolgono, e, inducendo morte e vecchiezza, sí li fanno venire a corruzione. Per tal cagione e ragione Iddio lo fe’ uno e tutto, compiuto e di compiute parti, e perpetuamente sano e giovine; e diedegli figura alla natura di lui assai convenevole. E da poi che all’animale deputato a raccogliere dentro sé tutti gli altri animali quella figura si conveniva, la quale dentro sé raccoglie tutte le figure; per questo lo torniò in forma di SFERA, il mezzo da ogni parte rimoto dagli estremi egualmente, dandogli di tutte le figure quella piú perfetta e simigliante piú a sé medesima… (Platone, Timeo)

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PHANTASM II: THE BALL IS BACK Otto anni fa ebbero inizio le mie visioni. Straordinarie rappresentazioni di quanto accadrà. Visioni che mi riempiono sempre di sgomento ma che mi hanno permesso di entrare in contatto con te, Mike, e di conoscere il tuo amico Reg. Purtroppo ho trovato anche lui: lo spirito del male. Non so da dove questo essere demoniaco sia venuto. Forse da un’altra dimensione. Con il suo esercito di creature mostruose distrugge le città e profana le tombe, porta via i morti e li rende suoi schiavi. Ogni giorno lo sento avvicinarsi sempre più. Lui sa che io lo vedo e so cosa ha intenzione di fare. Otto anni dopo il clamoroso successo di Fantasmi, Don Coscarelli ci riprova e mette in cantiere il seguito della fortunata pellicola che lo aveva reso celebre. Lo scenario ora è completamente cambiato: la Universal Pictures, avendo fiutato il business, mette a disposizione del regista tre milioni di dollari per la produzione, una somma spropositata se pensiamo a quanto poco era bastato per realizzare il primo film. Talmente grande è la voglia di ritornare a fare

horror, dopo una sfortunata parentesi fantasy (Kaan Principe Guerriero, 1982), che Coscarelli infine accetta, pur consapevole di mettersi nelle mani di personaggi che finiranno per snaturare completamente l’idea originale. Quell’atmosfera onirica, cupa e angosciante che aveva reso Fantasmi un capolavoro non poteva essere gradita ai nuovi finanziatori. Un cambio completo di stile era quindi necessario: non più sogni e visioni, non più illusionismi di sorta. La trama del sequel doveva essere lineare (pur introducendo alcuni accenni di novità) e non concedere il minimo spazio a possibili diverse interpretazioni – che però, nel corso della saga, continuarono ad attecchire nell’immaginario dei fan grazie agli indizi disseminati qua e là dalla sapiente mano del regista. Il cast originale che, lo ricordiamo, era composto prevalentemente da amici e parenti di Coscarelli, era inaccettabile, e inoltre venne ritenuto indispensabile l’inserimento di presenze femminili che potessero meglio intrattenere ‘visivamente’ il pubblico pagante. Vennero quindi reclutate la modella Samantha Phillips e, soprattutto, la giova-

Scheda tecnica TITOLO:

Phantasm II (it Fantasmi II) ANNO E PAESE:

1988 USA REGIA:

Don Coscarelli SCRITTO DA:

Don Coscarelli FOTOGRAFIA:

Daryn Okada MONTAGGIO:

Peter Teschner MUSICHE:

Fred Myrow Christopher L. Stone REPARTO SCENOGRAFICO:

Philip Duffin (scenografia) Byrnadette DiSanto (architetto-scenografo) Dominic Wymark (arredi) COSTUMI:

Carla Gibbons PRODUTTORE:

Roberto A. Quezada PRODUZIONE:

Spacegate Productions Starway International Inc Universal Pictures

Cast JAMES LE GROS (Mike) REGGIE BANNISTER (Reggie) ANGUS SCRIMM (Tall Man) PAULA IRVINE (Liz) SAMANTHA PHILLIPS (Alchemy) KENNETH TIGAR (Padre Meyers)

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ne attrice Paula Irvine, che avrebbe dovuto occuparsi dell’iniziazione sentimentale dell’ormai cresciuto Mike. I tre protagonisti di Fantasmi, vale a dire Bill Thornbury, Reggie Bannister e Michal Baldwin, erano sacrificabilissimi, non avendo avuto alcuna esperienza di rilievo nel cinema dopo il primo capitolo. Servivano nomi di grido che, stampati sui cartelloni, potessero fungere da calamita per il pubblico. Don Coscarelli riuscì in qualche modo ad ottenere che almeno uno dei tre potesse partecipare al sequel e la scelta più ovvia fu quella di mantenere Reggie Bannister. Il personaggio di Thornbury (Jody, il fratello di Mike) era stato infatti dato per morto al termine del primo film e, senza grossa fatica, poteva rimanere tale. Il personaggio di Baldwin (Mike), tredicenne nel primo capitolo, era ormai sostituibile con un qualsiasi adolescente di bell’aspetto. La Universal stava in poche parole facendo a pezzi il lavoro di Coscarelli ancor prima di cominciare. Al termine dei provini realizzati per trovare un nuovo volto al ruolo di Mike (ai quali, si dice, partecipò anche un certo Brad Pitt) la scelta cadde sul giovane James Le Gros: scelta alquanto opinabile, visto che il ragazzo all’epoca aveva al suo attivo solo un orribile filmetto di fantascienza direct-to-video dall’agghiacciante titolo di Solarbabies (I Guerrieri del Sole, 1986). Non si può tuttavia dire che Le Gros, a conti fatti, se la sia cavata male: riuscì a costruire un buon feeling con Bannister e a lasciare a posteri un Fantasmi II tutt’altro che disprezzabile. Se guardiamo la cosa dall’alto, più in generale, possiamo tranquillamente riconoscere che i dirigenti della Universal

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avevano di fatto individuato in Angus Scrimm l’unico volto veramente insostituibile della serie. Per quanto molte scelte possano apparire oggi discutibili, non va dimenticato che erano trascorsi ormai otto anni dal primo capitolo (ne sarebbe stato necessario un altro prima della release ufficiale) e che gli anni Ottanta, che ormai volgevano al termine, avevano cambiato drasticamente il modo di fare cinema in Occidente. L’horror in particolare aveva messo definitivamente da parte gli stilemi gotici per lasciare spazio al gore. L’orrore non doveva più essere solo immaginato, bensì mostrato con spavalderia agli spettatori che, a loro volta, chiedevano a gran voce quei fiumi di sangue finto (spesso fintissimo) ai quali si erano ormai assuefatti. Il nuovo capitolo inizia nel punto esatto in cui termina il precedente, riprenden-

do alcune scene già viste e integrandole con altre nuove girate utilizzando una ragazzina, ripresa di spalle, nei panni della versione tredicenne di Mike. Piccola digressione: il doppiaggio italiano, dispiace dirlo, lascia immediatamente esterrefatti, trasformando il defunto fratello di Mike in… una donna! Proprio all’inizio del film, infatti, a Reggie viene fatto dire “Mi dispiace che tu abbia perso tua sorella Jodie”! Un errore clamoroso, indubbiamente dovuto al fatto che la frase originale in inglese poteva dare adito a fraintendimenti, ma soprattutto alla superficialità del traduttore dei dialoghi, che evidentemente non si prese la briga di guardarsi il primo film prima di preparare i brani del sequel da doppiare. Fine della digressione. Dopo gli avvenimenti narrati nel primo capitolo, troviamo Mike in un ospedale psichiatrico nel quale è rimasto confina-

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to per ben sette anni. Non ci spieghiamo come sia potuto finire lì, dopo che Reggie alla fine del primo film aveva promesso di prendersi cura di lui, ma è meglio non farsi troppe domande. Ora tutti affermano che sia stato Mike a sognare i terribili avvenimenti narrati nel primo film: non solo lo psichiatra che lo ha in cura, ma anche Reggie, in un flashback di sette anni prima, si diceva certo di questo. Sarà una costante di tutti i capitoli della saga: si suggerisce di continuo, o perlomeno si insinua il dubbio, che il tutto possa essere il frutto della mente di Mike. Quando però il giovane viene finalmente dimesso dalla clinica, il Tall Man torna a colpire da vicino, sterminando la famiglia di Reggie. A quel punto Mike e Reggie, riunitisi e armatisi fino ai denti, si mettono sulle tracce del mostro, il quale, contrariamente a quanto avevamo capito nel primo film, scopriamo ora essere un vil-

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lain ‘itinerante’ che, oltre ai nani incappucciati, ha persino degli assistenti: se nel primo capitolo tutto avveniva nei limitati confini del Morningside Cemetery, dove il nostro sembrava muoversi con relativa discrezione, oggi troviamo il Tall Man spostarsi di città in città alla ricerca di nuovi cimiteri da depredare e di nuovi cadaveri da utilizzare per i suoi nefasti scopi, lasciando al suo passaggio un’opprimente scia di morte e desolazione. Il Tall Man – e questo veniva palesato anche nel primo film – non si limita a trafugare i cadaveri ma uccide per procurarseli, e sembra avere un interesse speciale per Mike. In diversi momenti il racconto della caccia di Mike e Reggie assume la forma, molto abbozzata, del road movie. Mentre Mike ha delle premonizioni, facciamo la conoscenza della giovanissima Liz (Paula Irvin), una ragazza i cui sogni sono tormentati dal nostro nero becchi-


no; già nella prima scena scopriamo l’esistenza di una sorta di contatto telepatico tra i giovani; il legame che i due sembrano avere anche con il Tall Man ribalta ben presto la loro situazione e, da inseguitori, si ritrovano prede in una caccia al topo, con il Tall Man che, anche quando non previene le loro mosse, riesce comunque a vanificarle, fino al finale (banale quanto si vuole) nel quale il cattivo sembra morto ma poi riappare, ad insinuare il dubbio che la sua essenza non sia di natura fisica e che quindi sia potenzialmente immortale. Questo Fantasmi II è molto diverso dal suo predecessore. La natura sovrannaturale del legame tra il Tall Man e Mike contribuisce ad aumentare le differenze: il timido adolescente qualunque si trasforma per il malvagio in una sorta di nemesi, anche se il fulcro della saga (ma lo si vedrà meglio nella terzo film) inizia a ruotare sempre di più intorno a Reggie. Quest’ultimo, ex gelataio, eroe atipico, diventa un personaggio quasi caricaturale alle prese con situazioni comiche affiancato alle bellone di turno le quali, spesso, rispediranno al mittente i suoi maldestri tentativi di approccio. Anche dalle sequenze di lotta, talvolta, sembra uscire vincitore un po’ per caso, e l’ironia di certe scene ricorda quella che ha reso grande La Casa dell’amico (di Coscarelli) Sam Raimi. Per fortuna Coscarelli non insiste troppo sulla storia d’amore tra Mike e Liz, puntando invece sull’azione e sul ritmo per conservare l’attenzione degli spettatori, cosa che tristemente non riescono a fare i dialoghi, spesso di una banalità imbarazzante. Le atmosfere cupe hanno

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lasciato il posto al gore, grazie al maggior budget a disposizione per realizzare gli effetti speciali: le sfere metalliche faranno molti più danni di quanti ne avessero fatti in precedenza e ci divertiremo un sacco a vedere i risultati di una battaglia tra motoseghe (un chiaro rimando a La Casa 2), di una iniezione di acido e di incendi ed esplosioni varie. In realtà di sangue se ne vede ben poco (colpa della censura?), ma l’adrenalina è garantita. Se l’approccio psicologico è solo accennato, il regista non rinuncia però a disseminare per tutta la pellicola piccoli indizi sulla natura del Tall Man, dell’universo (per così dire) da cui proviene e delle creature che lo popolano. Se, per come ve l’ho raccontato, qualcuno pensa di poter facilmente arrivare alla conclusione che questo film sia poco più di un malriuscito tentativo di dare un seguito a un inarrivabile cult, ebbene si sbaglia. Certamente il film ha diverse pecche, in primis incongruenze nella sceneggiatura (non ci si spiega, ad esempio, come mai il Tall Man non catturi Mike mentre è internato tra le mura dell’ospedale, come mai attenda ben sette anni prima di sterminare la famiglia di Reggie, come mai si lasci sfuggire Liz più volte…), ma, tutto sommato, il risultato è godibile. Grazie all’agghiacciante figura del becchino dispensatore di morte, Fantasmi II riesce a elevarsi nettamente sopra la media dei film horror prodotti in quel – per certi versi malaugurato – decennio. Qual è lo scopo ultimo del Tall Man ancora non è dato sapere. Ma al termine della visione ci rimarranno nelle orecchie per molto tempo le sue ultime parole: “Non è mai finita!”.

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PHANTASM III: LORD OF THE DEAD Nonostante la lunga attesa e il palpabile entusiasmo per il ritorno del Tall Man sul grande schermo, il secondo capitolo di Phantasm non ebbe un eccellente riscontro al botteghino. Perlomeno il riscontro non fu quello che la Universal si attendeva. Così, quando sei anni più tardi venne alla luce il terzo capitolo, la voce ‘spese’ era tornata a gravare praticamente intera sulle spalle di Don Coscarelli, che dovette mettere mano a tutti i suoi precedenti guadagni per poter regalare ai fan una nuova ‘fantasmatica’ avventura. Sebbene il budget fosse comunque nettamente superiore a quello del primo capitolo, gli spettatori più attenti non poterono fare a meno di notare gli innumerevoli stratagemmi messi in atto per risparmiare qualche soldo qua e là: la colonna sonora, per dirne una, non cambiò di una virgola (mentre abitualmente nelle saghe succede che nuovi arrangiamenti vengano introdotti di capitolo in capitolo, anche se il tema rimane sempre uguale). Fantasmi III: Lord of the Dead, lo diciamo subito a

scanso di equivoci, per chi scrive rappresenta il punto più basso della serie. Se già il secondo film aveva fatto storcere il naso a qualcuno, questo terzo riuscì a far imbestialire anche molti dei fan più accaniti. Una sceneggiatura inverosimile, dei dialoghi imbarazzanti, l’introduzione di nuovi personaggi fuori da ogni grazia di Dio avrebbero davvero potuto decretare la definitiva morte della saga. Passando al cast… Angus Scrimm e Reggie Bannister erano ormai imprescindibili, e infatti li ritroviamo precisi, solo un po’ più invecchiati. James Le Gros, l’attore che fu imposto a Coscarelli dalla produzione sei anni prima, non venne riconfermato e al suo posto, nella parte di Mike, ritroviamo un volto storico, quello di Michael Baldwin, che già aveva interpretato il protagonista tredicenne del 1979. È un Mike decisamente migliore quello che ritroviamo: il suo personaggio, ormai adulto, è malinconico, riflessivo, quasi perso tra le sue fantasie, in poche parole molto più in linea con il mood del capitolo originale. Coscarelli, che evidentemente aveva ripreso il controllo totale della situazio-

Scheda tecnica TITOLO:

Phantasm III: Lord of the Dead ANNO E PAESE:

1994 USA REGIA:

Don Coscarelli SCRITTO DA:

Don Coscarelli FOTOGRAFIA:

Chris Chomyn MONTAGGIO:

Norman Buckley MUSICHE:

Fred Myrow Christopher L. Stone REPARTO SCENOGRAFICO:

Ken Aichele (scenografia) Wendy Guidery Candi Guterres (architetti-scenografi) Charley Cabrera (arredi) COSTUMI:

Carla Gibbons PRODUTTORE:

Don Coscarelli Seth Blair (co-prod.) PRODUZIONE:

Starway International Inc.

Cast REGGIE BANNISTER (Reggie) A. MICHAEL BALDWIN (Mike) BILL THORNBURY (Jody) ANGUS SCRIMM (Tall Man) GLORIA LYNNE HENRY (Rocky) KEVIN CONNORS (Tim) CINDY AMBUEHL (Edna) SARAH SCOTT DAVIS (Tanesha)

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ne, richiamò anche l’altro grande assente di Fantasmi II, vale a dire Bill Thornbury, a cui venne riassegnata la parte di Jody (nota: il fatto che Jody fosse morto alla fine del primo capitolo venne ritenuto un dettaglio secondario). Forse allo scopo di strizzare di nuovo l’occhio al mainstream, al gruppo storico si aggiunsero Gloria Lynne Henry nella parte di Rocky, una ragazza afroamericana esperta di arti marziali a metà strada tra Grace Jones e Blade, e Kevin Connors nella parte di Tim, un ragazzino talmente odioso che lo spettatore inizia a sperare possa morire ammazzato già cinque minuti dopo la sua prima apparizione. La storia inizia esattamente dal punto in cui si era interrotta alla fine del film precedente, ma lo fa spiazzando lo spettatore con una serie di incredibili contraddizioni. Avevamo lasciato Reggie morente sull’asfalto e miracolosamente lo troviamo in piedi come se nulla fosse, armato del suo classico fucile a quattro canne (di cui si era liberato tempo prima e che ora gli riappare in mano). Neanche il tempo di versare una lacrima per la defunta Liz e si passa subito oltre. Per inciso, della poveretta intravediamo solo una testa bionda staccata dal collo (senza spiegazione alcuna), poi il personaggio scompare dalla storia senza lasciare traccia. Non verrà più menzionata, quasi non fosse mai esistita, ed è un peccato visto che, nel secondo capitolo, era stata ampiamente ventilata la possibilità che il suo ruolo fosse ben più importante di quello di una semplice comprimaria. Lasciamo per un attimo Mike, che non sta passando un bel momento (lo ritroviamo in stato comatoso e poi prigioniero del

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Tall Man), e seguiamo le vicissitudini di Reggie lungo le polverose strade americane alla ricerca del malvagio becchino. Questa è forse la parte più interessante del film: ci troviamo immersi in un’atmosfera quasi apocalittica, tra paesaggi desolati e decadenti città vuote alla The Walking Dead. Reggie metterà insieme uno scalcinato gruppo di ‘guerrieri’ assieme a Tim, il già citato ragazzino, che vive in solitudine in una grande casa riempita di trappole come quelle di Mamma Ho Perso l’Aereo (ma un po’ più letali), e a Rocky, la ragazza armata di flagello che si negherà ai maldestri approcci di Reggie per tutto il resto del film. Anche Jody rientrerà nel gruppo, ritornando dall’aldilà sotto forma di angelo custode imprigionato in una delle sfere del Tall Man. Se poi ci infiliamo dentro anche tre zombi bislacchi abbiamo chiuso il cerchio. Nemmeno il becchino, se vogliamo proprio dirla tutta, si salva dallo scempio di questo terzo capitolo, parlando troppo e perdendo in tal modo gran parte della sua allure. Un sequel terribile, caricato con troppi personaggi fastidiosi che non aggiungono nulla; una pellicola che oscilla tra momenti splatter e umorismo da quattro soldi, il tutto per raccontare una storia incoerente che non conduce da nessuna parte. È un po’ lo stesso destino che ha avuto La Casa di Sam Raimi, un grande cult trascinato nel baratro dai suoi sequel demenziali. Ma non è tutto da buttare in questo Fantasmi III: un suo motivo d’interesse lo trova nel fatto di aggiungere diversi tasselli al puzzle. Scopriamo per esempio che le sfere metalliche sono in parte anche or-

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ganiche, perché contengono il cervello di quei cadaveri che furono trafugati dal Tall Man (i cui corpi, come sappiamo, sono ridotti alla dimensioni di nani privati della coscienza). Bella l’idea, ripresa dal primo film, di utilizzare come scenario dello scontro finale un mausoleo dove il nostro gruppo di improvvisati eroi decide, genialmente, di nascondersi (anche se tutto è reso in modo meno claustrofobico e, di conseguenza, meno adrenalinico). Ma soprattutto cominciamo a renderci davvero conto che il rapporto di Mike con il Tall Man è molto più profondo di quanto poteva apparire, il che ci spalanca nuovi inaspettati (ed entusiasmanti) scenari. Mike è forse un predestinato, come il cattivo cerca più volte di suggerirci/gli? Resta un mistero anche il perché il Tall Man, dopo aver rapito il giovane, si limiti a tenerlo prigioniero e, quando gli viene chiesto “Fammi uscire di qui”, risponda “Tu sai qual è l’uscita”. C’è qualcosa che non sappiamo di Mike? Oppure è ancora una volta un’insinuazione al fatto che tutto quello a cui stiamo assistendo non è altro che un parto dell’immaginazione del ragazzo? E ancora: qual è il segreto del Tall Man? Chi è davvero quell’inquietante individuo che nel primo capitolo ritenevamo potesse essere un alieno in cerca di schiavi? Qual è il suo obiettivo, che in questo terzo episodio ci appare più ampio, quasi fosse quello di conquistare tutti gli anfratti del tempo e dello spazio? Un finale di nuovo aperto e che più aperto non si può ci proietta prepotentemente verso quello che sarà il migliore dei sequel, Phantasm IV: Oblivion, per spessore addirittura paragonabile al suo capostipite.

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IL CAPITOLO FANTASMA Il terzo capitolo di Phantasm, pur con tutte le sue pecche, ha lasciato i fan in un punto maledettamente cruciale. Mike aveva abbandonato Reggie nel timore che qualcosa dentro di sé stesse cambiando, più di una sensazione viste le trasformazioni anche fisiche che aveva cominciato a notare sul suo corpo. Reggie, dal canto suo, era ancora una volta alla prese con il Tall Man e le con le sue terrificanti sfere metalliche, quando i titoli di coda avevano interrotto improvvisamente la narrazione. Don Coscarelli aveva insomma elargito nuovi ed entusiasmanti spunti alla saga, ma sul più bello aveva deciso di rimandare la conclusione a un eventuale capitolo successivo. Intanto però gli anni passavano uno dopo l’altro inesorabili, e i fan erano sempre più impazienti. Il silenzio più completo tuttavia non faceva presagire nulla di buono, anzi si andava diffondendo sempre di più la voce che il terzo capitolo fosse destinato a rimanere l’ultimo della serie. Coscarelli si diceva avesse voluto mollare tutto dopo essere caduto in depressione a causa delle pesanti critiche piovutegli addosso per la scelta di inserire elementi umoristici nel terzo capitolo. Una voce probabilmente infondata, visto che basterebbe dare un’occhiata alla filmografia del regista per rendersi conto di come sia solito far trascorrere non meno di sei o sette anni tra un film e l’altro; ma, se si fosse rivelata vera, gli appassionati si sarebbero trovati di fronte a un numero spropositato di questioni irrisolte. Fu così che un imprecisato giorno, tra il 1995 e il 1996, uno dei fan più accaniti di Phantasm telefonò a Coscarelli e gli disse

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DON COSCARELLI

foto: ©PHIL FASSO deathensemble.com

più o meno: “Ehi Don! Mi chiamo Roger Avary. Ho qui pronta una sceneggiatura per te. Ci sto lavorando da tempo, spesso tralasciando i miei tanti impegni di lavoro, ma ho deciso che dovevo portarla a termine nonostante tutto, perché credo più al mio cuore che alla mia testa. Questa è la sceneggiatura di Phantasm IV. Quando cominciamo a girare?”. Si trattava di QUEL Roger Avary che solo l’anno prima aveva scritto Pulp Fiction per Quentin Tarantino, portandosi a casa l’Oscar per il miglior soggetto originale. Mica pizza e fichi. Il progetto scaturito dalla mente di Avary non si realizzò mai, ma quei pochi che ebbero la fortuna di leggere la sua sceneggiatura riferiscono che si sarebbe trattato di qualcosa di incredibile. Avary aveva

immaginato uno scenario postapocalittico globale, sul genere di Dawn of the Dead, in cui le uniche due città risparmiate dal caos e dalla distruzione sarebbero state New York e Los Angeles, due supermetropoli cinte da mura altissime, dove tutto ciò che restava del genere umano viveva nel terrore di ciò che era rimasto fuori. Oltre le mura, tutto il mondo era regno incontrastato del Tall Man e dei suoi malefici nani servitori. Tutto il mondo era ridotto a un cumulo pestilenziale di macerie, le tombe erano state scoperchiate e la morte aveva trionfato ovunque. Il destino aveva separato Reggie e Mike: mentre il primo aveva trovato rifugio nella Grande Mela, il secondo sopravviveva a stento nella Città degli Angeli. Sebbene si fosse ormai quasi completamente

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ROGER AVARY

foto: PARIS INT. FANTASTIC FILM FESTIVAL fonte: www.imdb.com

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impadronito del mondo, il Tall Man non aveva ancora rinunciato al suo proposito originale, quello di continuare a tormentare il povero Mike. Reggie, in seguito a un incubo (o forse a un contatto telepatico) si sarebbe convinto che Mike fosse in pericolo e, impavido, avrebbe deciso di abbandonare la relativa sicurezza offerta da New York per raggiungere l’amico in California, affrontando un viaggio ai limiti dell’impossibile. Sulle sue tracce si sarebbe inevitabilmente gettato il Tall Man con le sue orde di non-morti. La resa dei conti, si sussurra, sarebbe avvenuta oltre il portale, nella dimensione extraterrestre del Tall Man. Il film si sarebbe dovuto intitolare ‘Phantasm 1999 A.D.’ oppure ‘Phantasm 2012 A.D.’ oppure ancora ‘Phantasm’s End’ e, si dice, fu anche offerto un ruolo importante a Bruce Campbell, l’eroe de La Casa di Sam Raimi. Purtroppo tutto finì in niente. Per mettere in scena un progetto così importante sarebbe stata necessaria una somma spropositata di denaro (vennero stimati circa dieci milioni di dollari), e non ci volle molto per rendersi conto che nessuno avrebbe mai tirato fuori un centesimo per produrre il quarto capitolo di una saga che era già stata dichiarata spacciata dal grande pubblico. Fu così che Coscarelli e Avary si salutarono, entrambi con un grande amaro in bocca (Avary apparirà tuttavia in un cameo del vero Phantasm IV). Ma anche dell’esperienza più negativa è possibile trovare il lato positivo e, in questo caso, la buona notizia fu che Coscarelli era stato risvegliato dal suo tradizionale torpore. Ancora solo un po’ di pazienza e sarebbe sul serio giunto il momento di un quarto episodio.

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PHANTASM IV: OBLIVION Oblio [o-blì-o] - raro obblio - s.m. (pl. Oblii) - lat. oblīvĭum (sost. nt. II decl.) - Dimenticanza prolungata, completa; perdita di ogni memoria, cancellazione del ricordo: cadere nell’oblio, venir dimenticato. - Sottrarre all’oblio, richiamare alla memoria - Il fiume dell’oblio, il mitico Lete, bagnandosi nelle cui acque si perdeva la memoria. Se la visione dei primi due sequel ci aveva quasi fatto dimenticare le decadenti atmosfere del capostipite, questo Phantasm IV: Oblivion sottrae definitivamente all’oblio le ragioni della nostra incrollabile fede per una saga horror che ormai possiamo tranquillamente definire leggendaria. Erano trascorsi diversi anni dal deludente ‘Lord of the dead’ e Don Coscarelli si era ormai del tutto convinto che quei toni da commedia umoristica che avevano fatto imbufalire gran parte dei suoi fan erano stati un errore. Solleticato dall’atmosfera postapocalittica che lo script di Roger Avary gli aveva suggerito per un possibile (e mai realizzato) sequel, il nostro aveva iniziato a riflettere sull’opportunità

di riportare Phantasm alle sue origini. I dieci milioni di dollari stimati per l’ipotetica realizzazione della sceneggiatura di Roger Avary costituivano una somma non impossibile per l’epoca, ma decisamente ragguardevole per un film che ormai interessava solo pochi incrollabili ammiratori. In mancanza di adeguati finanziamenti, a Coscarelli non rimase che tentare nuovamente la strada che era stata seguita vent’anni prima, vale a dire quella dell’arrangiarsi. Con un cast ridotto al minimo (solo i personaggi ‘storici’ avevano accettato un ruolo in Phantasm IV), una buona dose di materiale di recupero e innumerevoli mezzi di fortuna, il regista riuscì a completare il lavoro in soli 23 giorni e con un budget di soli 650.000 dollari. Con una simile somma a disposizione non c’era molto da fare in termini di effetti speciali e scene d’azione, ma questo per certi versi fu un bene, visto che il risultato finale fu suggestivo e inquietante tanto quanto il primissimo capitolo. Il deserto del Nevada, delle spettrali formazioni rocciose, delle sterili saline, e una Los Angeles senza vita doneranno alla pellicola quel mood ultrater-

Scheda tecnica TITOLO:

Phantasm IV: Oblivion ANNO E PAESE:

1998 USA REGIA:

Don Coscarelli SCRITTO DA:

Don Coscarelli FOTOGRAFIA:

Chris Chomyn MONTAGGIO:

Scott J. Gill MUSICHE:

Christopher L. Stone REPARTO SCENOGRAFICO:

Naython Vane (scenografia) Mike Roth (architetto-scenografo) Bret Schweinfurth (arredi) COSTUMI:

Shelley Kay PRODUTTORE:

Don Coscarelli A. Michael Baldwin (co-prod.) PRODUZIONE:

Starway International Inc.

Cast A. MICHAEL BALDWIN (Mike) REGGIE BANNISTER (Reggie) BILL THORNBURY (Jody) ANGUS SCRIMM (Tall Man) HEIDI MARNHOUT (Jennifer)

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reno, soprannaturale, come nemmeno i grandiosi mausolei e gli antichi cimiteri dei capitoli precedenti erano riusciti a fare. Ma, d’altra parte, a questo punto della storia era giunta l’ora di concentrarsi sulle atmosfere di disperazione e di solitudine che il Tall Man, avendo ormai conquistato il mondo, aveva creato. Combattere non aveva più senso. Il mondo si era arreso e ciò che restava da fare era capire chi fosse l’artefice della fine dei tempi. Phantasm IV: Oblivion ci porta quindi lontano dall’azione e ci getta in un paesaggio onirico dove tutto è permesso. Gran parte del film è stato girato nella desertica Death Valley i cui scenari, assolutamente spettacolari, sono un invito a nozze per il talento fotografico di Coscarelli, che ci trascina nel suo mondo immaginario nel quale veniamo immediatamente intrappolati. A tratti sembra quasi di guardare uno dei quei vecchi episodi di Ai Confini della Realtà, con il sapiente uso del flashback, i salti nel tempo e nello spazio che così spesso ci lasciano disorientati come se fossimo sotto l’effetto di qualche sostanza acida. Forse per scelta, forse per necessità, Don Coscarelli recupera circa trenta minuti di materiale scartato dal Phantasm originale e riesce ad infilarlo nell’ora e mezza scarsa di questo quarto capitolo. Il risultato è magistrale: il vecchio girato si incastra perfettamente con il nuovo, un innesto talmente naturale che quasi si direbbe fosse stato programmato vent’anni prima proprio per poterlo riproporre in Oblivion. Vedere i volti degli stessi protagonisti, continuamente invecchiati e ringiovaniti di vent’anni, credo sia tra l’altro

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un caso più unico che raro nel cinema. La narrazione, ancora una volta, riprende nello stesso punto in cui si era interrotta alla fine del capitolo precedente. La nostra attenzione è però ora focalizzata su Mike, che ritroviamo alla guida di un carro funebre, lungo una strada solitaria in mezzo al deserto, nel tentativo di allontanarsi dal terrificante Tall Man. Il ragazzo, terrorizzato da sé stesso e da ciò che gli è accaduto, cerca di mettere più chilometri possibile anche tra sé e Reggie, che intanto il Tall Man, come obbedendo ad una logica prestabilita e a noi (almeno per ora) incomprensibile, ha lasciato in vita. Rocky e Tim sono già spariti dalla storia. Mentre Reggie, questa volta relegato a un ruolo secondario, si occupa di un poliziotto-zombi e dell’ennesima autostoppista sexy (una piccola concessione ai fan dei primi due sfortunati sequel), Mike viaggia attraverso il tempo e lo spazio. Rivede sé stesso bambino, mosso a compassione per un Tall Man impiccato, e in un delirio onirico tenta a sua volta il suicidio, appendendosi per il collo al ramo di un albero. Il Tall Man, reale o immaginario che sia, accorre in suo aiuto e gli tende una mano, chiedendogli di unirsi a lui. Perché? La sfera metallica che è impiantata nel cranio di Mike potrebbe essere un indizio, ma nulla in questo film è come sembra. A tratti pare di poter intuire quale possa essere il vero obiettivo finale del Tall Man, ma quasi sempre i nostri ragionamenti vengono ricacciati indietro. Oblivion non è il solito sequel di intrattenimento, non è il solito film riempitivo realizzato per cavalcare l’onda di un precedente successo. È dichiaratamente un netto avvicinamento alla soluzione della

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storia. E così, a un certo punto, riusciamo a dare una sbirciatina a quelle che si direbbero essere le vere origini del Tall Man e apprendiamo qualcosa di più sul significato dei portali dimensionali che, a più riprese, incontriamo sin dal primo capitolo. Mike, attraversando uno dei tanti portali che gli si parano innanzi, si affaccia su un luogo sconosciuto appartenente ad un’epoca passata (si direbbe attorno alla metà del XIX secolo), dove s’imbatte in Jebediah Morningside, un inventore sull’orlo di una grande scoperta, quella di un portale in grado di collegare qualunque punto nel tempo e nello spazio. L’uomo, lo avrete già capito, ha lo stesso volto del Tall Man, ma di lui è una versione ‘buona’, uno scienziato gentile e ospitale come lo era il ‘Doc’ di Ritorno al Futuro. Che il Tall Man camminasse su questa terra da tempi remoti avevamo avuto il sentore già nel primo capitolo (quando Mike incappò in un paio di vecchie fotografie), e ora ne abbiamo la certezza. Nei flashback di Mike, Morningside dimostra di aver sviluppato una tecnologia che sembra troppo avanzata per il XIX secolo, pertanto non è da escludersi che il Tall Man possa essere un individuo vissuto non nel nostro passato ma nel passato di una realtà parallela… o alternativa. Ma sono ancora solo teorie. Sul più bello, quando sembra che le nostre domande stiano per avere una risposta, Mike fugge, rimandando a data da destinarsi ogni ulteriore spiegazione. Abbiamo visto il Tall Man prima che diventasse il Male: c’è forse un modo di impedire la sua trasformazione? È una strada che viene solo accennata. Quando Mike

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riattraversa il portale col fratello Jody, l’anima di Jebediah Morningside sembra nel frattempo essersi già corrotta. Come se ciò che è accaduto non sia ormai più modificabile. Una cosa tuttavia è certa: la soluzione non può essere trovata che in un altro luogo e in un altro tempo. “Che cos’è questo luogo?” chiede Mike. “Non chiederti cosa, ma quando” è la risposta di Jody (o perlomeno di quella ‘cosa’ che sembra essere Jody, e della quale nemmeno Mike sembra più fidarsi). Ancora una volta il finale lascia molto in sospeso, e dovremmo forse iniziare a dubitare di ciò che ci è stato fin qui spiegato. PHANTASM V: RAVAGER Chi è il Tall Man? Quali sono i suoi obiettivi? Qual è il legame che sembra connetterlo così strettamente a Mike? Esistono altri poteri latenti in Mike? Qual è il ruolo di Reggie nella storia? Queste sono solo alcune delle domande che Phantasm: Oblivion, il quarto capitolo della serie, aveva lasciato in sospeso nel 1998. Da allora sono passati sedici anni. Sedici lunghi anni che, con il loro lento trascorrere, hanno gettato nello sconforto fan in tutto il mondo. Il dubbio è: cosa ha fatto Don Coscarelli in tutto questo tempo? Se proviamo a cercare la risposta nella sua filmografia ci sale la depressione: in sedici anni ha diretto solo Bubba Ho-Tep Il Re è Qui (2002), un episodio della serie Masters of Horror (2005) e John Dies at the End (2013). È pochino, anche se Coscarelli non è mai stato molto prolifico. Conoscendo i suoi tempi biblici, nessuno si aspettava nulla negli anni immediatamente successivi a Oblivion, ma trascorsi

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quelli… Tra l’altro l’età anagrafica di Angus Scrimm (classe 1926) saggiamente consigliava di dare un’accelerata anziché frenare: cosa sarebbe Phantasm senza il Tall Man originale? E fu così che a un certo punto le voci più incontrollate cominciarono a circolare. Si dice che Roger Avary abbia rimesso mano a quello script originale presentato prima di Oblivion è poi abbandonato per ragioni di costi, per inserirvi dentro alcuni elementi della continuity che mancavano (come il personaggio di Jebediah Morningside), ma ancora una volta l’esperimento non ebbe seguito. Nel 2005 la società di produzione New Line Cinema incaricò uno dei suoi collaboratori, Jeff Katz, di iniziare a lavorare con Coscarelli a un remake del primo Phantasm; si accennò addirittura ad un completo reboot della saga, che in quattro e quattr’otto sarebbe dovuta diventare addirittura una trilogia. Alla notizia seguirono diverse conferme e altrettante smentite. Nel 2007 apparve un video di Coscarelli con una brevissima scena che, si suppose, poteva far parte di un inedito quinto capitolo. In quella scena si vedeva il Tall Man (con due sfere sopra le spalle) rivolgersi a Mike e dire “Questo deve essere un sogno”. La risposta di Mike era “No, non lo è”, e così dicendo si puntava una pistola alla tempia e premeva il grilletto. L’attesa era forse giunta al termine? Macché! Quel video, si seppe in seguito, era solo un divertente fake. L’ennesima delusione per i fans! Coscarelli parlò in prima persona di un possibile sequel nell’ottobre del 2010, nel corso di un’intervista rilasciata a Bloody Disgusting: “Nonostante il tempo stia

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passando e tutti noi, oggettivamente, stiamo invecchiando, il nostro desiderio di fare un Phantasm V è rimasto intatto. Dobbiamo solo mettere a fuoco un paio di idee, e mi piace pensare che quando avremo finito John Dies at the End, riusciremo a metterci lì e far saltare fuori qualcosa di concreto perché, sai, nel corso degli anni ho scritto un sacco di differenti sceneggiature di Phantasm, e mi dispiacerebbe proprio non realizzarne nemmeno una. Trovo entusiasmante che, dopo tutto questo tempo, la gente ancora è lì a chiedermi un quinto capitolo. È davvero una cosa da capogiro. Ma il bello e il brutto di Phantasm è che in quattro film non ha dato mai alcuna risposta e capisco che la gente a questo punto abbia bisogno di sapere cosa diavolo sta succedendo.” Trascorrono altri due anni e Coscarelli ritorna sull’argomento nel corso di un’intervista, pubblicata nel marzo 2012 sul sito Dread Central, nella quale gli vengono chiesti lumi su rinnovate voci a pro-

posito di un remake: “C’è stato effettivamente un gran parlare di remake negli ultimi anni. In realtà ho avuto una sola offerta che è andata in vacca all’ultimo minuto, ma penso che avrebbe potuto venirne fuori una cosa buona. In generale penso che sarebbe meraviglioso se qualcuno riuscisse a dare una nuova linfa alla saga rispettando l’iconografia originale. Ma è rischioso. Essendo io il primo fan di Phantasm non vorrei mai vedere un remake in mani sbagliate, ed è per questo che mi sono sempre trattenuto dal cedere i diritti. E poi ci sono Angus Scrimm e Reggie Bannister, che ancora oggi sono i miei migliori amici. Sono persone fantastiche, sai? Amiamo uscire insieme e anche lavorare insieme. Per cui ti dico… mai dire mai. Rifammi questa intervista tra sei mesi: potrei avere qualcosa di nuovo e interessante da raccontarti.” Di mesi ne passano sei e ritroviamo Coscarelli alle prese con il successo ottenuto da John Dies at the End, nel cui cast

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Phantasm Exhumed

Autore di Phantasm Exhumed è Dustin McNeill, uno dei moderatori della Phantasm Community (un forum dove si ritrovano da non so quanti anni tutti i ‘Phans’ della mitica saga) e autore del blog Phantasm Archives. Non siamo molto lontani dalla verità se diciamo che McNeill è il massimo esperto vivente di Phantasm, forse più ancora degli stessi protagonisti, avendo collaborato a più livelli alla realizzazione di inserti extra per DVD e Blu-Ray, tra cui il documentario ‘The Ball is Back’. Phantasm Exhumed è lo straordinario risultato di cinque anni di lavoro; vi si possono trovare – come recita la quarta di copertina – una introduzione di Angus Scrimm, un sacco di curiosità relative a scene tagliate, alle diverse modifiche apportate nel tempo alla sceneggiatura, vari estratti dal diario personale che Angus Scrimm scriveva durante le riprese, e oltre 250 fotografie rare o mai viste prima dei ‘dietro le quinte’, concesse in esclusiva da Kristen Deem e Guy Thorpe (anch’essi membri di Phantasm Community) che ai tempi del secondo film facevano parte della troupe di Coscarelli. Ci sono ampie parti dedicate ai capitoli mai realizzati e materiale esclusivo su Phantasm V. 88

figura anche l’inossidabile Angus Scrimm. Ancora una volta critica e pubblico si trovano compatti nel riformulare la stessa domanda: “A quando un nuovo capitolo?”. Il regista risponde attraverso Bloody Disgusting: “Sono state fatte un sacco di speculazioni su questo argomento per tantissimo tempo. Quando ho girato Phantasm IV ero convinto che fosse il capitolo conclusivo. Ed effettivamente era a suo modo una fine, se ci pensate bene. Ma poi negli anni mi sono state fatte un sacco di domande a proposito di Phantasm V. E non stiamo parlando di remake! I fans della saga vogliono un Phantasm V con gli attori originali e tutti loro sono ancora in ottima forma (in particolare Angus Scrimm, che ha fatto un lavoro eccellente in John Dies at the End), per cui da quel punto di vista non ci sarebbe alcun problema. Per anni ho sempre ricacciato indietro qualunque tentazione di avventurarmi in un quinto capitolo, ma i fan scalpitano e non posso ora far altro che prenderla seriamente in considerazione. Quindi tranquilli, appena avrò finito il lavoro di promozione di ‘John’, troverò un mondo per farlo.” La grande notizia arriva come un fulmine a ciel sereno il 26 marzo 2014: Phantasm V è diventato realtà. Il nuovo capitolo, battezzato Phantasm: Ravager, è stato girato in gran segreto negli ultimi due anni nel sud della California. Il cast comprende tutto il gruppo storico, vale a dire Angus Scrimm e Reggie Bannister, ai quali si sono uniti Michael Baldwin, Bill Thornbury e Kathy Lester. “Abbiamo avuto la fortuna di girare incredibili nuove sequenze con l’icona horror Angus Scrimm e grazie a lui alcune scene sono


davvero terrificanti”, ha dichiarato Coscarelli. “Phantasm è stato per anni al centro di una lunga battaglia con diversi studi di produzione, che avrebbero voluto acquistare i diritti e ricominciare daccapo con nuove logiche da franchising hollywoodiano e nuovi volti al posto di quelli storici. Abbiamo sempre tenuto duro per rispetto dei nostri fan che non avrebbero accettato di vedere la loro saga preferita ridotta a un blockbuster qualsiasi.” Il giorno successivo, 27 marzo 2014, è stato rilasciato il trailer ufficiale. Pochissimi dettagli della trama sono stati finora rivelati: secondo Coscarelli “il nuovo capitolo porterà a scoprire più da vicino il mondo del Tall Man, e ci sono anche alcune sorprese che non mancheranno di stupire anche i fan di lunga data.” A sorpresa però Phantasm V non sarà diretto da Coscarelli, bensì dall’esordiente David Hartman, il cui curriculum per il momento è solo televisivo, e include perlopiù serie animate (la più recente è Transformers Prime). “Sentivo che era tempo di lasciare qualcun altro a giocare con il

Hanno collaborato Testi: Severino Forini insidetheobsidianmirror.blogspot.it Immagini: Andrew Shelton www.facebook.com/PhantasmonBluRay mio trenino”, ha dichiarato Coscarelli in un comunicato stampa su Entertainment Weekly. “David aveva già curato la fotografia in Bubba Ho-Tep e recentemente aveva realizzato delle cose sorprendenti che ho utilizzato nel mio John Dies at the End. I nostri gusti estetici sono molto simili e David è sicuramente un tizio molto in gamba.” “Avendo già lavorato in passato con Coscarelli ed essendo io un grande fan della saga di Phantasm, sento che è davvero un privilegio quello mi è stato dato”, commenta dal canto suo Hartman. “Questo film è davvero un punto di svolta per la serie. Ci sarà un vero finale e mi auguro che i fan ne siano soddisfatti come lo sono io.” A questo punto non ci resta che aspettare con impazienza l’uscita di Ravager! <

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CULT Serie

Le epiche avventure

DELLA LUNA

ERRANTE

di GIUSEPPE TURDO

Atmosfere suggestive e un design divenuto culto: dalla fervida immaginazione dei coniugi Anderson, la serie che ha saputo innovare la fantascienza in TV.

S

UL FINIRE degli anni Sessanta, i guru degli show girati in ‘Supermarionation’ (Thunderbirds, Stingray, ecc.), Gerry e Sylvia Anderson, decisero di cambiare modulo televisivo e di produrre alcune serie live action con attori veri. La prima fu UFO (1969-70), un telefilm fantascientifico e avveniristico; la seconda fu Gli Invincibili (The Protectors, 1972-74), thriller con elementi di spionaggio e mistero. Il grande successo di questi spettacoli incoraggiò gli Anderson ad alzare

il tiro e a iniziare nel 1973 la produzione di una serie televisiva di fantascienza ad alto budget che sarebbe dovuta essere il seguito di UFO. Il progetto finì in realtà con l’abbandonare ogni riferimento alle avventure del Comandante Straker e acquisire invece una fisionomia autonoma e distinta. Fu così che, anche per impulso del produttore americano Lew Grade, boss della ITC, nacque Spazio 1999. I finanziamenti furono tali (275.000 $ per episodio) da permettere l’ingaggio fra i

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protagonisti di due noti divi di Hollywood come Martin Landau e Barbara Bain, e di una pletora di guest star di rilievo, tra cui Christopher Lee, Peter Cushing, Margaret Leighton, Brian Blessed, Roy Dotrice, Leo McKern, Joan Collins… Gli effetti speciali – una delle caratteristiche più importanti della serie, che ancor oggi regge il confronto con i più moderni effetti CGI – furono affidati a Brian Johnson, che aveva fatto esperienza nello staff di 2001 Odissea nello Spazio e che in seguito si aggiudicherà due Oscar. Keith Wilson fu il responsabile delle scenografie della base lunare, degli arredamenti e di gadget divenuti icone quali il commlock e la pistola laser. Lo stile visivo che Wilson impresse allo show è caratterizzato dal contrasto fra tonalità chiare e scure; le uniformi, le pareti e le suppellettili della base lunare

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sono per lo più bianche, mentre console, computer e tastiere sono essenzialmente nere; i colori sono ridotti al minimo. Anche le famose astronavi Aquila rispecchiano questa dicotomia cromatica. I vari set si presentano spesso come spazi ampi e poco ammobiliati; questa rappresentazione minimalista degli arredi contribuisce a creare un ambiente asettico e inquietante. Tali caratteristiche, associate a inquadrature fortemente angolate e distorte, realizzate da registi veterani come Ray Austin, Charles Crichton e David Tomblin, riuscirono ad alimentare un’atmosfera di mistero, trepidazione e a volte addirittura terrore. Le musiche vennero affidate al collaboratore storico degli Anderson, Barry Gray; si tratta di composizioni per lo più orchestrali con temi a sfondo cupo, echi


di strumentazione futuristici ed elementi psichedelici, tipici di quell’epoca. L’ITALIA SULLA LUNA L’alta qualità di produzione portò a sforare sia i tempi previsti per le riprese sia il budget destinato ai singoli episodi. Si rese indispensabile un’iniezione finanziaria che provenne dalla nostra RAI, i cui dirigenti di allora, recatisi sul set delle riprese, vennero convinti ad associarsi al progetto degli Anderson a fronte della partecipazione di quattro attori italiani nella serie – anche se l’idea non fu accolta favorevolmente da alcuni degli autori. Sylvia Anderson andò personalmente a Roma per visionare alcuni potenziali interpreti, e rimase molto colpita da Giancarlo Prete, a cui propose una parte da co-protagonista. Gli impegni dell’attore e una certa diffidenza nei suoi confronti da parte di alcune star – Sylvia Anderson ha confermato a chi scrive che Martin Landau era geloso – fecero modo che Prete partecipasse solo all’episodio Fantasmi su Alpha. Gli altri tre attori scelti furono Carla Romanelli, la cui apparizione non fu però significativa, Gianni Garko e Orso Maria Guerrini. Gli ultimi due furono protagonisti di episodi memorabili, e il ruolo di Tony Cellini interpretato da Garko ne Il Dominio del Drago rimane uno dei più apprezzati dai fan. La sua parte era stata inizialmente scritta per il personaggio di Alan Carter, ma l’attore che lo interpretava, Nick Tate, fu costretto a cederlo al collega italiano. Tate racconta che aiutò Garko a memorizzare la pronuncia inglese delle sue battute registrandole su nastro, senza che Gianni immaginasse a

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chi davvero apparteneva quella voce. Ad avere problemi con la lingua fu invece Orso Maria Guerrini, le cui battute, nell’episodio Il Testamento di Arkadia, furono doppiate in post-produzione da Robert Rietty proprio perché il suo inglese era troppo incerto. DUE STAGIONI DIVERSE La serie si divide in due stagioni di 24 episodi ciascuna che, per atmosfere, argomenti e interpreti, sono completamente diverse. La prima mostra contenuti più adulti e utilizza i temi della fantascienza per proporre approfondimenti psicologici e sondare i misteri dell’animo umano, lasciando spesso le risposte all’immaginazione dello spettatore. La seconda stagione differisce così tanto dalla prima che molti la considerano come una serie distinta. In questo caso l’errata dicitura ‘prima serie’ e ‘seconda serie’ può a buon titolo essere accettata. Sotto la produzione di Fred Freiberger, la stagione 2 prende da subito una piega più spettacolare, ma anche più infantile. Dal bianco glaciale ai colori sgargianti, dagli alieni alteri e dignitosi ai mostri squamosi e repellenti, dalle profonde riflessioni psicologiche sul senso della vita alla birra fatta in casa di Tony Verdeschi e a battutine insipide che non facevano sorridere nessuno. L’impressione di Freiberger che la prima serie fosse troppo ‘intellettuale’ e che bisognasse “mettere più azione e mostri” si rivelò sbagliata: gli ascolti della seconda stagione calarono al punto da causare la cancellazione dello show. È abbastanza noto presso i fan che Gerry Anderson odiò profondamente i cambiamenti apportati. In un recente incontro, Nick Tate mi ha confessato che per lui la seconda

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serie era troppo “silly”; e questa è un’opinione comune a tutti gli attori che hanno partecipato a entrambe le stagioni. Spazio 1999 comunque ottenne un successo planetario, anche se i giudizi variarono da vette di entusiasmo autorevoli, come quella di Wernher Von Braun, a pareri del tutto negativi. Maggiormente, i critici si concentrano a turno sulle interpretazioni ‘legnose’ degli attori, che vengono spesso immeritatamente paragonati ai pupazzi utilizzati proprio dagli Anderson nelle loro produzioni precedenti, e su alcune inconsistenze scientifiche che effettivamente, a volte, richiedevano un notevole sforzo di ‘sospensione dell’incredulità’. STORIA E TEMATICHE Nel 1999 la Luna è divenuta il deposito delle scorie radioattive prodotte sulla

Terra. Alla base lunare Alpha giunge un nuovo comandante, John Koenig, per indagare sulle cause di una strana epidemia che uccide il personale, e per accelerare i preparativi di una nuova straordinaria avventura spaziale: il viaggio dell’uomo verso il pianeta Meta, da cui provengono da tempo segnali di una presenza intelligente. Ma all’improvviso, la violenta esplosione di alcuni depositi di scorie scaraventa la Luna fuori dall’orbita terrestre, spingendola verso l’ignoto, in una traiettoria a uscire dal Sistema Solare e senza la minima speranza di ritorno. Contrariamente ad altre serie fantascientifiche, dove i protagonisti viaggiano a bordo di un’astronave e sono dunque in grado di stabilire una rotta, gli abitanti di Alpha si ritrovano in totale balìa dei percorsi casuali della Luna e dei capricci del

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destino, attraverso buchi neri, wormholes e rischi di collisione con altri corpi celesti. Anche le premesse iniziali si discostano da quelle usuali in altri telefilm futuristici, come Star Trek o Buck Rogers: gli uomini non hanno affatto risolto i loro conflitti sociali, né superato i problemi planetari come inquinamento, malattie e fame. Nell’episodio pilota, Separazione, emergono continui contrasti di natura morale fra il comandante Koenig e il commissario Simmonds circa la morte misteriosa di ben nove astronauti; la malattia viene infatti minimizzata e insabbiata dalle gerarchie superiori e da politici senza scrupoli. Inoltre vi sono cenni ai problemi finanziari e logistici legati allo stoccaggio delle scorie nucleari sulla Luna e al programma di esplorazione spaziale. Questi scandali presentati all’inizio introducono lo show

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in modo più verosimile e permettono allo spettatore degli anni Settanta di identificare in essi riferimenti a eventi reali. Gli aspetti ‘terrestri’ vengono poi abbandonati negli episodi successivi per concentrarsi sull’esplorazione di mondi alieni e sull’incontro con popoli e creature misteriosi, spesso intesi come mezzi per porre gli alphani di fronte alle proprie paure, per esplorare la loro psicologia e la loro spiritualità. Lo spettatore viene dunque a contatto con aspetti dello show che vanno oltre l’effimero mostro della settimana, e che gli offrono, se vuole, l’opportunità di fermarsi a riflettere per un attimo sul significato di alcune scene o sui loro risvolti morali. Uno degli aspetti più stimolanti del telefilm è la possibilità di scorgervi riferimenti a situazioni sociali contemporanee allo


show. Come accennato, il fattore scatenante che scaglia la Luna negli abissi siderali è l’esplosione delle scorie radioattive depositate incautamente sulla sua faccia nascosta, conseguenza indiretta dell’annoso problema dell’energia. Questo tema verrà trattato spesso, specialmente negli episodi Forza Vitale, Destinazione Obbligata: Terra, Sole Nero, La Macchina Infernale e Il Testamento degli Arkadi; la base lunare si trova costantemente alle prese con gravi difficoltà di sopravvivenza dovute alla scarsità delle risorse. Queste situazioni ricorrenti rispecchiano la nota crisi energetica del 1973, che coinvolse i cittadini di mezza Europa. Anche la ‘cultura’ coeva delle droghe allucinogene viene trattata, nell’episodio Il Pianeta Incantato, dove agli abitanti di Alpha viene offerta la felicità eterna ma in una condizione apatico-vegetativa. Koenig, l’unico a opporsi a questa ‘proposta’, ci insegna che una vita difficoltosa e un dolore vero sono sempre preferibili a uno stato di beatitudine indotto artificialmente. Spesso la trama tocca aspetti filosofici e spirituali. Uno di questi è la possibilità di una vita eterna, e viene esplorato in ben tre episodi: Fine dell’Immortalità, in cui un tiranno immortale, interpretato da un Peter Bowles psicopatico quanto basta, si diverte a torturare e uccidere gli abitanti di Alpha, semplicemente perché non ha altro da fare; Il Pianeta di Ghiaccio, che vede una colonia di umani acquisire l’immortalità, ma al prezzo di una prigionia perpetua in un mondo inospitale; La Macchina Infernale, dove uno scienziato alieno impianta la propria personalità nel computer della sua astronave, per poter vivere per sempre, ma finendo con

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l’andare incontro a un’eterna solitudine. L’esplicito messaggio morale sulla vacuità della ricerca di un’esistenza senza fine è ben condensato nella frase che chiude uno di questi episodi: “è la morte che dà senso alla vita”. Un altro tema è quello della fede, intesa come credo nell’esistenza di entità superiori in grado di manipolare (nel bene o nel male) il destino dell’uomo. Nell’episodio Sole Nero, la Luna è destinata a essere risucchiata e distrutta da un buco nero. Nonostante la morte incombente, gli alphani non si scoraggiano e danno fondo a tutte le loro energie per alimentare una flebile speranza, allestendo un (probabilmente inutile) campo di forze intorno alla base. La Luna sopravvive e i suoi abitanti vanno incontro a esperienze extracorporee e a un contatto ravvicinato con un presunto Dio, quasi a definire il principio che la salvezza non risiede nei numeri o nella logica (non a caso, il computer viene tenuto spento) ma nel profondo dell’anima. Lo stesso tema riaffiora nell’episodio Rotta Di Collisione, dove Koenig deve convincere il resto della base lunare a fidarsi, contro ogni logica, di qualcosa di cui solo lui è a conoscenza, ossia del fatto che lo scontro con un pianeta non provocherà nessun danno alla Luna e che, altresì, servirà agli abitanti del pianeta stesso a raggiungere uno stato mistico superiore. Ne Il Testamento degli Arkadi, assistiamo all’intervento di forze sconosciute che ‘inducono’ Luke e Anna a colonizzare un pianeta disabitato, mettendosi contro tutta la comunità di Alpha. Infine, ne Il Dominio del Drago, l’astronauta Cellini viene ritenuto responsabile della morte del suo equipaggio in un incidente

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occorso a una vecchia missione, perché la sua versione è in contrasto con i rigorosi dati della scatola nera. In questi episodi intellettualmente stimolanti non viene fornita una reale spiegazione circa la natura delle forze o delle entità coinvolte, e il comportamento dei protagonisti non è dipendente da certezze scientifiche ma da un atto di fede. Il mistero della vita dopo la morte è anch’esso argomento ricorrente. In particolare, negli episodi Questione di Vita o di Morte, Forza Vitale e Fantasma su Alpha lo spettatore viene a contatto con forme di vita incorporee o ultraterrene, a prima vista ostili; in realtà non sono di per sé malevoli, seguono soltanto il loro naturale ciclo vitale, ma gli alphani ne avranno comprensione solo dopo aver trattato queste forze come nemiche.

Spesso, ciò che non capiamo ci porta a esprimere il peggio di noi stessi, facendoci guidare dalla paura e dalla diffidenza. È ciò che accade nell’episodio Mondo Proibito, dove una decisione di Koenig porta conseguenze disastrose per la base lunare. E a proposito di natura umana, l’episodio Circolo Chiuso dimostra le affinità comportamentali fra gli uomini delle caverne e i moderni tecnocrati di Alpha, gelosi, spaventati, vendicativi: “pensi siamo cambiati così tanto in quarantamila anni?”. Episodi come Il Testamento egli Arkadi e La Missione dei Dariani hanno come oggetto i temi della sopravvivenza della specie e dell’origine dell’uomo. La tesi sugli antichi astronauti fu assimilata dallo scrittore Johnny Byrne, che volle sviluppare, in entrambi gli episodi, l’idea del

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trasporto della vita durante lunghissimi viaggi spaziali al fine di popolare pianeti lontani e perpetuare la propria specie. Negli anni Settanta, la teoria sull’origine extraterrestre della razza umana, rilanciata da autori come Von Daniken, costituiva un forte argomento ‘antireligioso’, capace di attirare la curiosità di molti lettori ma restando pur sempre di nicchia; Spazio 1999 ebbe il coraggio di sdoganarlo in televisione. Insomma, Gerry e Sylvia Anderson erano riusciti a creare uno show che si discostava nettamente dagli altri, producendo episodi ‘cerebrali’ di notevole contenuto artistico, trattando temi fino ad allora ignorati da programmi televisivi simili (perché scomodi o perché ritenuti di scarso interesse presso il pubblico, sempre più orientato al materialismo e al consumismo), e facendolo da una distanza di sicurezza: venticinque anni nel futuro. L’arrivo di Fred Freiberger (e quindi l’ingresso degli Americani in produzione) cambia tutto e riporta il telefilm entro canoni più ‘accettabili’ per l’audience televisiva. L’innovazione più evidente (e grave, per i fan) è la colossale interruzione della continuity, in termini di personaggi e di ambienti. La maestosa sala comando della base lunare, con annesso ufficio rotante di Koenig, viene smantellata per far posto a un centro di controllo grande quanto uno sgabuzzino, e alcuni dei personaggi principali vengono sostituiti senza fornire spiegazione alcuna. I temi morali e le atmosfere austere lasciano il posto al classico telefilm d’azione, con trame prevedibili e uno humour spesso fuori luogo. Le uniformi vengono rese più colorate, con decorazioni di ogni tipo, e le

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musiche, composte da Derek Wadsworth (ottime, peraltro) assumono connotati jazz più consoni al nuovo stile. L’unico merito della cura Freiberger è stato quello di dare una profondità caratteriale ai personaggi, fornendo a volte delle informazioni sul loro passato e sulla loro indole – cosa che, in effetti, latitava nella prima stagione, dove i protagonisti erano essenzialmente bidimensionali. Infatti, episodi come Attenti ai Terrestri, Luton, Onde Lambda rivelano parecchio sul passato di Koenig e sulla dottoressa Russell, più di quanto non sia stato fatto in tutta la prima stagione. Ma, nonostante le buone intenzioni di Freiberger, Spazio 1999 fece la stessa fine di un’altra serie da lui prodotta, Star Trek, che venne cancellata al termine della terza stagione. I dati d’ascolto convinsero la ITC a non finanziare la prevista terza stagione; Spazio 1999 fu cancellata e non si seppe mai se gli alphani fossero riusciti a trovare un pianeta da colonizzare. Il destino di John Koenig, Helen Russell e compagni rimase un mistero per più di 20 anni… Poi, proprio nel 1999, in occasione della convention Breakaway, alcuni membri del club Fanderson, in collaborazione con lo scrittore Johnny Byrne e con Gerry Anderson, produssero un mini episodio dal titolo Messaggio dalla Base Lunare Alpha, in cui Zienia Merton riprende il suo ruolo di Sandra Benes per spiegare che è stato degli abitanti di Alpha; la conclusione è straordinariamente in tema con l’episodio pilota Separazione: l’ultimo messaggio inviato dalla base prima del suo abbandono è infatti identico al ‘segnale Meta’, raccolto dai terrestri tanto tempo prima. Il cerchio dunque si

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chiude con gli alphani che trovano… sé stessi. Qualche anno dopo, un altro fan, lo scrittore Robert Wood, autore di Destination: Moonbase Alpha, un voluminoso libro sulla storia del telefilm, convinse Barry Morse a girare qualche minuto di dialogo poi montato egregiamente in un mini episodio dal titolo Il ritorno di Victor Bergman, presentato nel 2010; il cortometraggio cerca di dare una spiegazione all’assenza (mai motivata) del personaggio di Bergman nella seconda stagione. IL FUTURO È FANTASTICO Questo slogan storico, utilizzato dagli Anderson, ben si presta a rilanciare Spazio 1999 nella sua – possibile – nuova incarnazione. Sulla scia del filone dei remake di serie tv degli anni ’70-’80, (Battlestar Galactica, Visitors, La Donna Bionica…), il produttore Jace Hall della HDFILM, in collaborazione con ITV Studios

Hanno collaborato Testi: Giuseppe Turdo www.serietv.net Immagini: Martin Willey catacombs.space1999.net America, ha annunciato il reboot della serie, col titolo Space: 2099. Il progetto è attualmente in fase embrionale, e sembra che Juliet Landau, figlia di Martin e Barbara Bain, sia stata contattata per far parte del cast. Hall ha dichiarato che la sua idea sarebbe quella di orientare la serie verso le tematiche tipiche della prima stagione; in ogni caso, sembra muoversi nella direzione che tutti i fan sperano: rivedere un giorno, anche se sotto veste rinnovata, un nuovo popolo di alphani vagare nello spazio incontro ad avventure straordinarie. Fino alla prossima chiusura del cerchio. <

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1.1

BREAKAWAY (SEPARAZIONE) Sulla base lunare Alpha è in programma una missione destinata a raggiungere il pianeta Meta, ma un’improvvisa e misteriosa malattia sta mettendo in serio pericolo il progetto. Il nuovo comandante, John Koenig, sospetta che a causarla siano le scorie nucleari ammassate sulla Luna e ordina di disperderne i contenitori, ma è già troppo tardi. Una gigantesca esplosione...

1.2

EARTHBOUND (DESTINAZIONE OBBLIGATA: TERRA) Mentre la Luna prosegue il suo viaggio verso l’ignoto, un’astronave aliena alluna nei pressi della base. Il vascello proviene dal pianeta morente Kaldor ed è diretto verso la Terra, nella speranza di trovarvi ospitalità. La morte di un Kaldoriano libera un posto nel vascello alieno, offrendo a un abitante della base Alpha la possibilità di tornare a casa.

1.3

BLACK SUN (SOLE NERO) La Luna entra nel campo gravitazionale di un sole nero da cui è attratta inesorabilmente. Il Professor Victor Bergman, pur consapevole che la distruzione della Luna è inevitabile, mette a punto un campo di forza intorno alla base, utilizzando tutta l’energia disponibile. Per maggior sicurezza, Koenig ordina a un gruppo di sei alphani di mettersi in salvo a bordo di un’Aquila.

1.4

MATTER OF LIFE AND DEATH (QUESTIONE DI VITA O DI MORTE) Un’Aquila in missione esplorativa viene colpita da misteriosi fasci di luce che impediscono le comunicazioni con la base. Al rientro, i piloti vengono ritrovati privi di sensi, ma illesi. Inspiegabilmente, insieme a loro vi è un terzo uomo. Si tratta del marito di Helen Russell, creduto morto da oltre cinque anni in seguito al fallimento di una missione spaziale nei pressi del pianeta Giove.

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1.5

ALPHA CHILD (FIOCCO AZZURRO SU ALPHA)

Jack Crawford è il primo bimbo nato su Alpha. Mentre tutti festeggiano la venuta al mondo, qualcosa di incredibile si verifica sotto gli occhi della madre: Jack raggiunge in pochi minuti uno sviluppo fisico paragonabile a quello di un bambino di circa cinque anni d’età. Jack è sordo ma non sembra avere alcun altro problema; il suo quoziente intellettivo è anzi superiore alla media.

1.6 ANOTHER TIME, ANOTHER PLACE (UN ALTRO TEMPO, UN ALTRO LUOGO) Attraversando una strana turbolenza nello spazio, la Luna subisce uno ‘sdoppiamento’, ritrovandosi inspiegabilmente di nuovo nelle vicinanze del Sistema Solare. In breve raggiunge la Terra e si inserisce nella sua orbita. Insieme alla felicità per l’inaspettato ritorno a casa, sulla base Alpha cresce anche l’inquietudine per questa situazione incomprensibile.

1.7

VOYAGER’S RETURN (IL RITORNO DEL VOYAGER)

La Luna incrocia il Voyager 1, lanciato dalla Terra nel 1985. La sonda è dotata di un propulsore rivoluzionario ma pericoloso, che provoca la distruzione di un’Aquila. Il professor Queller, inventore del motore e membro del personale di Alpha, riesce a far allunare l’apparecchio senza ulteriori danni, ma durante il recupero della scatola nera compaiono tre minacciose astronavi...

1.8

FORCE OF LIFE (FORZA VITALE)

Una sfera di luce blu, di cui il computer di Alpha non rileva la presenza, investe il tecnico Anton Zoref. Nello stesso istante, la base lunare subisce un brusco calo di energia. Da quel momento qualsiasi cosa Zoref tocchi gela istantaneamente, sia che si tratti di oggetti inanimati, sia che si tratti di esseri viventi...

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1.9

GUARDIAN OF PIRI (IL PIANETA INCANTATO) A giudicare dalle analisi del computer, il pianeta Piri è adatto alla vita umana, ma i due piloti mandati in ricognizione piombano in una beatitudine vegetativa da cui Koenig non riesce a risvegliarli. Tornato alla base, il comandante scopre che l’operazione Exodus è già stata avviata. Lui è il solo a dubitare del paradiso offerto dal Guardiano di Piri...

1.10

RING AROUND THE MOON (GLI OCCHI DI TRITONE) Un’entità aliena s’impossessa della mente del tecnico Ted Clifford, che comincia a trasmettere verso il pianeta Tritone tutte le informazioni contenute nel computer di Alpha. Quando Clifford muore, la dottoressa Russell diviene a sua volta vittima dell’entità. Intanto il professor Bergman scopre che il pianeta Tritone non esiste più da molto tempo...

1.11

MISSING LINK (GLI AMANTI DELLO SPAZIO) In seguito a un grave incidente con un’Aquila, il comandante Koenig cade in coma, e a nulla valgono i disperati tentativi di rianimarlo operati dalla dottoressa Russell. In realtà, mentre il corpo di Koenig giace in infermeria, il suo spirito si trova sul pianeta Zenno, dove lo scienziato Raan sta studiandone le reazioni emotive, sottoponendolo a esperimenti a tratti anche molto crudeli.

1.12

THE LAST SUNSET (L’ULTIMO TRAMONTO) La Luna si avvicina al pianeta Ariel e riceve in dono un’atmosfera adatta alla vita umana. Gli alphani possono assaporare di nuovo il piacere di passeggiare all’aria aperta, di sentire il calore del sole e lo scrosciare della pioggia. Quando le precipitazioni però diventano eccessive, minacciano di inondare il cratere di Platone nel quale è stata costruita la base lunare...

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1.13

COLLISION COURSE (ROTTA DI COLLISIONE)

Alan Carter decolla con un’Aquila per distruggere un asteroide in rotta di collisione con Alpha. L’esplosione danneggia gravemente la navicella, ma Alan sopravvive grazie all’intervento di Arra, regina del pianeta gigante Atheria, la cui traiettoria lo porterà anch’esso a scontrarsi presto con la Luna. Arra assicura che l’impatto non provocherà alcun danno, ed è anzi necessario per...

1.14

DEATH’S OTHER DOMINION (IL PIANETA DI GHIACCIO)

Un messaggio di benvenuto giunge alla base Alpha dal pianeta di ghiaccio Ultima Thule. Koenig, Helen, Bergman e Alan scendono in missione esplorativa ma, dopo l’atterraggio, si perdono in una furiosa tempesta di neve. Vengono tratti in salvo da un gruppo di terrestri: i superstiti di una missione lanciata verso Urano nel 1986, di cui si erano perdute le tracce.

1.15

THE FULL CIRCLE (CIRCOLO CHIUSO)

Sette alphani dispersi: è il tragico bilancio della missione esplorativa inviata sul pianeta Retha. A bordo dell’Aquila, che torna telecomandata su Alpha, viene trovato solo un uomo dell’età della pietra. Koenig, Helen, Alan e Sandra scendono sul pianeta per indagare. Una volta atterrati, però, il comandante e la dottoressa spariscono attraversando una strana nebbia, e Sandra...

1.16

END OF ETERNITY (FINE DELL’IMMORTALITÀ)

Koenig, Victor Bergman e il pilota Baxter esplorano un asteroide dotato di una cavità in cui è stata rilevata la presenza di atmosfera respirabile. Nel tentativo di penetrarvi, involontariamente provocano la morte di un alieno presente all’interno. La dottoressa Russell si appresta a eseguire l’autopsia, ma all’improvviso le ferite dell’extraterreste scompaiono in modo spontaneo...

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1.17

WAR GAMES (MONDO PROIBITO) Incredibilmente, tre vascelli da guerra terrestri si dirigono minacciosi verso Alpha. Il fuoco di avvertimento ordinato dal comandante Koenig scatena una risposta di violenza inaudita: in pochi istanti la base lunare viene annienta. Muoiono 131 persone, mentre ai superstiti non restano speranze a causa della distruzione dei centri energetici.

1.18

THE LAST ENEMY (NEMICI INVISIBILI) I pianeti Beta e Delta, orbitanti ai lati opposti dello stesso sole, sono in guerra tra loro da tempo immemorabile. Data la loro posizione non possono sferrarsi attacchi diretti, ma il transito della base Alpha rompe suo malgrado questo equilibrio; la superficie lunare rappresenta infatti una perfetta piattaforma di lancio per i missili di entrambe le parti.

1.19

THE TROUBLED SPIRIT (FANTASMA SU ALPHA) Mentre sta svolgendo nella serra di Alpha, insieme ad alcuni colleghi, un ‘esperimento’ medianico di comunicazione con le piante, il botanico Dan Mateo viene colto da un improvviso malore. Da quel momento, nella base lunare iniziano ad accadere fatti inquietanti, tra cui la morte misteriosa del dottor Warren, dichiaratamente avverso agli studi di Mateo.

1.20

SPACE BRAIN (IL CERVELLO SPAZIALE) Qualcuno cerca di comunicare con Alpha: tutti gli schermi della base iniziano improvvisamente a trasmettere una serie di scritte indecifrabilii, che sembrano provenire da un punto dello spazio. Koenig ordina l’invio di un’Aquila in ricognizione, ma, appena giunto in vista di ciò che appare come un enorme ‘anemone spaziale’, il velivono viene avvolto da strani filamenti...

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1.21

THE INFERNAL MACHINE (LA MACCHINA INFERNALE)

Koenig, la dottoressa Russell e Bergman vengono invitati a bordo di un’astronave atterrata sulla Luna. Qui incontrano il Compagno, un vecchio che vive prigioniero della sua creatura, ossia l’astronave stessa, dotata di pensiero autonomo. Essa tratta l’anziano come un servitore. L’uomo è malato ed Helen insiste perché la nave le consenta di portarlo su Alpha...

1.22

MISSION OF THE DARIANS (LA MISSIONE DEI DARIANI)

Un S.O.S. attira l’attenzione della base lunare. A lanciarlo è un immenso vascello che ospita una colonia di Dariani, ciò che resta di una civiltà antica e altamente progredita. Da secoli questi superstiti vagano nello spazio alla ricerca di un pianeta abitabile su cui potersi stabilire. Gli alphani scopriranno presto che l’astronave cela segreti terribili...

1.23

DRAGON’S DOMAIN (IL DOMINIO DEL DRAGO)

L’alphano Tony Cellini è turbato da visioni che risvegliano in lui il ricordo di un incidente capitatogli anni prima, quando il suo vascello venne attaccato da una creatura mostruosa che uccise l’intero equipaggio. Tony riuscì a salvarsi per miracolo, ma, una volta sulla Terra, la Commissione Spaziale, di cui anche Helen Russel faceva parte, non credette alla sua versione.

1.24

THE TESTAMENT OF ARKADIA (IL TESTAMENTO DEGLI ARCADI)

La Luna viene catturata da una forza misteriosa che la trattiene immobile nei pressi di Arcadia, un pianeta simile alla Terra, ma completamente disabitato. Nel frattempo Alpha subisce una inarrestabile perdita di energia. La sopravvivenza della base appare compromessa, non resta che inviare un’Aquila in esplorazione sul pianeta, per verificare se sia possibile stabilirvisi.

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2.1

THE METAMORPH (PSYCON) Un’Aquila inviata a raccogliere titanio su un pianeta che ha incrociato la traiettoria della Luna si ritrova braccata, e poi catturata, da un misterioso globo di luce. Poco dopo giunge una comunicazione da parte di Mentor, sovrano del pianeta, che rassicura gli alphani sulla sorte dei piloti dell’Aquila e accetta un rendez-vous nello spazio. Ma si tratta di un trucco...

2.2

THE EXILES (GOLOS) Intorno alla Luna entrano in orbita decine di oggetti artificiali, che che si rivelano essere delle capsule contenenti degli umanoidi in stasi. La dottoressa Russell riesce a rianimare uno degli alieni, un giovane d nome Cantar, che prega il comandante Koenig di risvegliare anche il resto della sua gente, prima che le capsule si disintegrino a causa delle forze gravitazionali.

2.3

ONE MOMENT OF HUMANITY (VEGA) Gli androidi del pianeta Vega rapiscono Tony Verdeschi e la dottoressa Russell perché insegnino loro cosa siano le emozioni. Non sono affatto interessati a provare sentimenti di amore e fratellanza, ma sono ansiosi di apprendere a odiare. L’odio li renderebbe infatti capaci di uccidere, e di potersi così liberare degli ultimi esseri umani rimasti sul loro pianeta.

2.4

ALL THAT GLISTERS (LA MILGONITE) Un’Aquila si posa su un pianeta che il computer giudica ricco di milgonite, un minerale indispensabile per i sistemi di mantenimento della base Alpha. Viene trovata una roccia luminescente, ma il geologo Dave Reilly afferma che non si tratta di milgonite. Un campione, portato a bordo dell’Aquila per ulteriori analisi, si rivela essere una creatura vivente...

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2.5

JOURNEY TO WHERE (IL RITORNO)

La base Alpha riceve un’inattesa chiamata dalla Terra. Dopo la comprensibile diffidenza iniziale, il comandante Koenig si convince che i progressi scientifici sul pianeta d’origine possano ora consentire comunicazioni di grande portata. Sulla Terra infatti è già il 2120 e un gruppo di scienziati è pronto a tentare un trasporto a distanza per riportare a casa gli alphani...

2.6

THE TAYBOR (TAYBOR)

Sulla base lunare si materializzano strani oggetti luminescenti. Il responsabile di questi inaspettati regali è Taybor, un pittoresco commerciante dello spazio che chiede il permesso di planare sulla Luna per offrire la sua mercanzia. Il veicolo spaziale su cui viaggia, battezzato da Koenig ‘saltapicchio’, può saltare nell’iperspazio, coprendo enormi distanze in poco tempo.

2.7

THE MARK OF ARCHANON (ARCHANON)

Carter accompagna un geologo nel sottosuolo lunare alla ricerca di cristalli di dilenide. Nel tentativo di frantumare una parete di roccia, viene portata alla luce una camera di stasi all’interno della quale si trovano i corpi di due umanoidi. Trasportati in infermeria, i due, padre e figlio, riprendono conoscenza dopo un sonno durato centinaia di anni...

2.8

THE RULES OF LUTON (LUTON)

Maya e Koenig stanno esplorando un pianeta simile alla Terra. Senza pensarci troppo, il comandante mangia una bacca e Maya coglie un fiore da un arbusto. Immediatamente, una voce possente sopra le loro teste li minaccia di una terribile punizione. Sul pianeta, infatti, anche le piante fanno parte della ‘società’, ed è proibito nuocere a qualsiasi essere vivente.

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2.9

BRIAN THE BRAIN (IL ROBOT) Un vascello terrestre facente parte di una missione stellare partita nel 1996 incrocia l’orbita della Luna e si posa su di essa. Non c’è traccia dell’equipaggio, a bordo è presente solo un robot parlante che gli alphani battezzano “Cervello”. La straordinaria macchina intelligente racconta la sorte dei suoi compagni di viaggio, morti dopo essere sbarcati sul pianeta ‘D’...

2.10

NEW ADAM, NEW EVE (MAGUS) Sullo schermo del centro di controllo di Alpha compare la figura di un uomo che si proclama il creatore dell’universo. Il sedicente dio chiede di essere chiamato Magus e, dopo aver dato prova di possedere grandi poteri, offre agli alphani un lussureggiante pianeta, una seconda Terra su cui ricominciare. Pur con scetticismo, Koenig accetta di visitare questo nuovo Eden...

2.11

THE AB CHRYSALIS (LE CRISALIDI) Alpha è scossa da violente onde d’urto causate da una serie di esplosioni nello spazio, che si ripetono con forza crescente ogni dodici ore. Secondo Maya è impossibile che il fenomeno sia di origine naturale e ritiene che si tratti di una sorta di avvertimento proveniente da un verde pianeta verso cui la Luna sta puntando. Koenig decide di andare a controllare con un’Aquila...

2.12

CATACOMBS OF THE MOON (IL TIRANIUM) La giovane Michelle necessita di un trapianto di cuore; per realizzare un organo artificiale c’è però bisogno di tiranium. Il geologo Patrick, marito di Michelle, guida una spedizione nel sottosuolo lunare in cerca del raro minerale, ma viene colto da catastrofiche visioni. Intanto Alpha comincia a venire avvolta da ondate di calore di cui non si riesce a capire l’origine.

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2.13

SEED OF DESTRUCTION (KALTHON)

A bordo di un’Aquila, Koenig e Alan Carter raggiungono un asteroide venutosi a trovare a breve distanza dalla Luna. Una volta atterrati, un guasto costringe Alan a trattenersi a bordo, mentre il comandante s’inoltra in una grotta per ispezionarla. Le pareti della caverna sono rivestite da grandi cristalli che riflettono le immagini come in una galleria degli specchi...

2.14

THE BETA CLOUD (LA NUVOLA)

La Luna incrocia un’immensa nuvola di polvere e gas, attraversata la quale quasi tutti i componenti di Alpha, compreso il comandante Koenig, vengono colti da una febbre debilitante. Un’Aquila inviata in ricognizione torna senza equipaggio ma con a bordo un mostro invulnerabile ai laser, che pare intenzionato a raggiungere la centrale energetica della base.

2.15

A MATTER OF BALANCE (VINDRUS)

Vindrus del pianeta Sunim entra in contatto con la giovane botanica Shermeen Williams e la convince ad assecondare le sue folli richieste. L’alieno proviene da un mondo di antimateria e intende trasferirsi insieme al suo popolo nel mondo della materia, a scapito degli alphani, che secondo i suoi piani dovrebbero prendere il loro posto per mantenere l’equilibrio della natura.

2.16

SPACE WARP (I NAUFRAGHI)

Mentre Koenig e Tony si dirigono con un’Aquila verso il relitto di una nave stellare, la Luna attraversa una deformazione spaziale, coprendo in pochi istanti una distanza di cinque anni luce. Intanto su Alpha la dottoressa Russell deve affrontare l’improvvisa febbre di Maya, che nel delirio perde il controllo delle sue trasformazioni molecolari, mettendo in pericolo tutta la base.

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2.17 THE BRINGERS OF WONDER - PART I (ATTENTI AI TERRESTRI - PARTE 1) Per ragioni sconosciute Koenig perde il controllo dell’Aquila che sta pilotando, ma riesce miracolosamente a salvarsi. Mentre il comandante si trova al centro medico, Sandra scopre sul radar il segnale di un’astronave in avvicinamento che procede a velocità superiore a quella della luce. Quando lo schermo inquadra il vascello, ci si rende conto che proviene dalla Terra...

2.18 THE BRINGERS OF WONDER - PART II (ATTENTI AI TERRESTRI - PARTE 2) La base lunare è in fermento dopo l’arrivo della nave terrestre, con a bordo parenti e conoscenti degli alphani. Il solo a non condividere il generale entusiasmo è Koenig, al quale i nuovi arrivati appaiono con l’aspetto di orripilanti creature aliene. La dottoressa Russell ritiene che il comandante sia preda di allucinazioni, dovute al trattamento medico a cui è stato sottoposto.

2.19

THE LAMBDA FACTOR (ONDE LAMBDA) La Luna attraversa una zona dello spazio satura di onde lambda, che accrescono i poteri psichici degli esseri umani. Gli alphani diventano irascibili, Koenig è vittima di terribili visioni e atroci sensi di colpa, e strani incidenti causano la morte di una persona. La dottoressa Russell decide di sottoporre l’intero personale della base a una serie di test...

2.20

THE SEANCE SPECTRE (TORA) Un pianeta in formazione si trova sulla rotta della Luna. Alcuni alphani sostengono che sia adatto alla vita umana e accusano Koenig di voler nascondere il fatto per timore di perdere il ruolo di comando. La loro certezza nasce dalle visioni di Greg Sanderson, il quale insiste nella sua tesi anche dopo che il comandante, sceso di persona sul pianeta, ne ha constatato l’inabitabilità.

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2.21

DORZAK (DORZAK)

Un’astronave proveniente dalla galassia di Croton chiede ad Alpha il permesso di planare sulla Luna per poter prestare soccorso a un membro dell’equipaggio gravemente ferito. L’autorizzazione viene accordata, ma appena sbarcata, il capitano della nave, l’avvenente Sahala, colpisce Maya con un’arma che la riduce in uno stato di sospensione vitale.

2.22

DEVIL’S PLANET (IL PIANETA DEL DIAVOLO)

Dopo aver visitato un pianeta simile alla Terra, chiamato Ellna, e averne trovati morti tutti gli abitanti, Koenig sbarca sulla sua luna; lì assiste a una spietata caccia all’uomo, venendo a sua volta catturato. Il mondo su cui si trova è un bagno penale governato dalla crudele Elizia, che non ha alcuna intenzione di consentire al prigioniero terrestre di andarsene.

2.23

THE IMMUNITY SYNDROME (IL LAMPO CHE UCCIDE)

Su un pianeta disabitato e accogliente che sembra adatto a ospitare la vita umana, un alphano impazzisce dopo avere fissato una strana luce accecante. In preda a una furia omicida aggredisce Verdeschi, che per difendersi lo uccide. Subito dopo anche Tony cade vittima dello stesso fenomeno. D’un tratto le condizioni ambientali cambiano e i metalli iniziano a corrodersi...

2.24

THE DORCONS (I DORCONIANI)

Una nave di Dorconiani, la razza più potente dell’universo, si avvicina alla base lunare. Una sonda esamina gli alphani a uno a uno, soffermandosi a lungo su Maya, in preda al panico. La ragazza spiega come questi alieni usino il ganglio cerebrale degli Psyconiani per assicurarsi l’immortalità. Infatti la portavoce dei Dorconiani pretende che le venga consegnata la transmuta.

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Short TIME

L’ultima impresa

DEL LADRO GENTILUOMO di CUCCU’SSETTE

Omaggiando il mitico Lupin III, Gabriele Mainetti ci narra la triste parabola di un ladro di borgata.

P

OSSONO I FAN-MOVIE avere pretese artistiche? In vari casi si tratta di cortometraggi rivolti a un pubblico di irriducibili appassionati. I registi sono spesso dilettanti animati da tanto entusiasmo ma privi di competenze professionali, talvolta autodidatti che rifuggono le critiche e cercano applausi senza porsi dubbi né grosse pretese riguardo la qualità delle loro opere. Del resto si rivolgono a spettatori che sovente sono disposti ad apprezzare anche le cose più ingenue purché immortalino in modo fedele i loro beniamini. Per fortuna, le pellicole non sempre nascono con così poche ambizioni.

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Basette è un corto ispirato ai personaggi del celebre cartone giapponese Le Avventure di Lupin III (dal manga Rupan Sansei di Monkey Punch). È stato diretto con mano sicura da Gabriele Mainetti, e interpretato da attori professionisti, tutti volti noti del cinema e della televisione: Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Daniele Liotti, Luisa Ranieri (Fujiko) e Flavio Insinna. Protagonista è Antonio, un giovane della borgata romana che tira a campare compiendo piccoli furti; una persona mediocre cresciuta negli anni Settanta con il mito del più famoso ladro dei cartoon. La sua è una famiglia di taccheggiatori di su-


Scheda tecnica TITOLO:

Basette ANNO E PAESE:

2008, Italia REGIA:

Gabriele Mainetti SOGGETTO E SCENEGGIATURA:

Nicola Guaglianone FOTOGRAFIA:

Maurizio Calvesi MONTAGGIO:

Alessandro Giordani MUSICHE:

Michele Braga Gabriele Mainetti SCENOGRAFIA:

Valeria Zamagni COSTUMI:

Patrizia Mazzon PRODUTTORE:

Emiliana De Blasio Gabriele Mainetti PRODUZIONE:

permarket, che ricorda più i personaggi di Pier Paolo Pasolini che i coatti del Piotta. Osserviamo Antonio apprestarsi a iniziare una sua giornata da ladro: insieme agli amici è in procinto di compiere il colpo grosso, quello che dovrebbe cambiare definitivamente la sua condizione. Un flashback ci descrive le miserie della sua esistenza, l’infanzia passata a rivendere giocattoli rubati nel periodo delle feste natalizie, l’arresto della madre, colta all’uscita dei

grandi magazzini con in borsa proprio un costume da carnevale di Lupin, naturalmente non pagato. Di colpo ci ritroviamo allora a seguire le gesta del simpatico ladro in giacca rossa e dei suoi insuperabili compagni… A proposito della giacca: forse stona un po’ la scelta di usare quella rossa (con camicia blu e cravatta bianca), caratteristica della seconda serie anime (nel corto c’è una scena che inquadra una tv dove si trasmette l’episodio numero 7, La Maledizione di

Briaxis Film

Cast VALERIO MASTANDREA (Antonio/Lupin) MARCO GIALLINI (Franco/Jigen) DANIELE LIOTTI (Tony/Goemon) LUISA RANIERI (Prisca/Fujiko) FLAVIO INSINNA (Ispettore Zenigata) LIDIA VITALE (Mamma)

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Tutankhamon), e non quella verde vista nella mitica prima serie diretta da Hayao Miyazaki e Isao Takahata; i fan più affezionati, però, possono sempre prenderlo come un omaggio alla versione animata d’esordio, quella del pilot del 1969, dove la giacca era appunto rossa. Ma torniamo alla nostra storia… Lupin (Mastandrea) è in stato di arresto al commissariato, alle prese con un iracondo Zenigata (Insinna). Il pistolero Jigen (Giallini) e il samurai Goemon (Liotti) accorrono in suo soccorso ma, anziché portare a termine la liberazione, si attardano nel magazzino delle droghe sequestrate. Il nostro eroe, tuttavia, riesce a evadere anche da solo, ingannando per l’ennesima volta l’ispettore e andandosene poi in moto con Fujiko, che era fuori ad aspettare. Questo però è solo l’estremo sogno di Antonio. Nella realtà, la rapina che doveva cambiargli la vita è finita in tragedia. I compari sono cadaveri sull’asfalto e lui sta agonizzando. Al paramedico che gli domanda come si chiami risponde «Lupin», poi muore, sorridendo, come aveva sorriso a lui la madre il giorno in cui era stata chiusa in carcere. La sua donna se ne andrà in moto, sola verso il tramonto, come nel finale della serie tv – stavolta la prima. Basette può essere considerato un fan-movie dal momento che buona parte dei sedici minuti di proiezione è dedicata al personaggio noto, ma l’analogia con questo genere si limita all’omaggio rivolto all’eroe, senza diventare una sua ennesima avventura. Ha in comune con le fiction televisive il modo apparentemente semplice di narrare la vicenda, la fotografia dimessa, il sottotitolo “tratto da

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LUPIN III CAST 1° SERIE

di ©DOMENICO ALFIERI handesigner.deviantart.com

una fantasia vera” che ammicca al ‘tratto da una storia vera’ tipico dei film-inchiesta degli anni Novanta. Le parti dedicate al ladro giapponese abbandonano lo stile da film tv e bene imitano il cartoon, come pure la sequenza finale. Basette è stato presentato come parodia, ma non è una rivisitazione scollacciata e boccaccesca: piuttosto l’umorismo si abbraccia con il tragico, si ride con l’amaro in bocca. Lupin viene reinterpretato, sfruttato per rappresentare il potere della fantasia, ma ben consapevoli di come, nel nostro concreto mondo, le

cose vadano diversamente e l’eroe sia solo un dolce, straziante sogno. La spacconeria e la sfacciata fortuna sbiadiscono nel dolente ritorno alla realtà. Anche lo spettatore che conosca poco l’anime originale può apprezzare questo fan-movie, montato con esperienza e dotato di un sonoro impeccabile; non è un caso che abbia trionfato al Sardinia Film Festival e al Festival del Corto (il premio connesso alla trasmissione televisiva La 25a Ora - Il Cinema Espanso), e che si sia guadagnato la proiezione fuori concorso in molte rassegne cinematografiche. <

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Anime MOVIE

Quando il finale

NOBILITA

L’OPERA

di JACOPO MISTÈ

Una serie tv interrotta bruscamente, un agguerrito drappello di fan indignati, un film conclusivo a cui è affidato il compito di riparare al torto...

V

ISTO IL PESANTE flop commerciale di Baldios - Il Guerriero dello Spazio, l’episodio 32, trasmesso il 25 gennaio 1981, segna la battuta d’arresto definitiva all’opera della Ashi Productions: gli sponsor sono così delusi da decidere di chiudere tutto all’improvviso, senza neppure concedere alla serie un finale anticipato. Le puntate 33 e 34, già realizzate, non vengono trasmesse, e la puntata 32 conclude dunque la storia troncandola brutalmente, con un cliffhanger che lascia in sospeso la guerra fra i terrestri e

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l’esercito di Aldebaran, la storia d’amore tra Marin e l’acerrima ‘nemica’ Aphrodia e soprattutto l’esito delle spaventose inondazioni che colpiscono la Terra. Accade però – per fortuna di quella e delle successive generazioni – che i pochi ma irriducibili fan inizino una martellante campagna di ‘sensibilizzazione’ subissando gli autori di telefonate per pretendere il giusto finale. La loro azione è presto seguita dalle riviste specifiche del settore, le uniche che hanno colto la forza dell’opera. Se, sulle prime, la Ashi Productions


ritiene che un libro cartonato contenente tutti i segreti della serie e i riassunti delle puntate mai viste sia il massimo che si possa concedere, qualche tempo dopo, convinta dalla mole di lettere di supplica e da una celebrazione a cui partecipano centinaia di fan, recepisce che l’interesse esistente è sufficiente da giustificare la ricerca di sponsor per realizzare un lungometraggio conclusivo. Lo studio trova

il suo sostenitore in Toei Animation, e il film animato esce sul finire di quello stesso anno, il 1981. Baldios - The Movie fornisce finalmente l’agognato finale alle avventurose vicende dei Blue Fixer, e si tratta di un epilogo estremamente drammatico ed evocativo, come ci si attende. Estremizzando al limite massimo i vari moniti contro il nucleare e la guerra, Baldios trova un apice

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potentissimo che chiude perfettamente il cerchio; amaro e ben poco consolatorio, di una bellezza poetica e nichilista capace di stamparsi indelebilmente nella memoria. Non è possibile andare nel dettaglio, pena rovinare la sorpresa, ma davvero, questo è l’unico anime robotico ‘vecchio stile’ a prevedere un destino spiazzante per la contesa fra terrestri e invasori (senza contare la peculiarità di dare uno spazio quasi inesistente al robottone protagonista e ai classici rituali mecha). Il ‘problema’ che spesso è rinfacciato al film, però, è il come si sia giunti a questa apoteosi conclusiva: lo si è fatto attraverso un’opera di riassunto lunga un’ora di girato, estrapolato dalla serie tv, limitando a circa 40 sintetici e veloci minuti la parte inedita animata da zero – contenente pure una ingenuità di sceneggiatura (a parere di chi scrive del tutto trascurabile, comunque). La porzione riassuntiva presta il fianco a svariate critiche, in quanto, più che un lavoro di ‘taglia e cuci’, si configura come una rielaborazione vera e propria della fabula originale, capace di modificare a posteriori elementi delle caratterizzazioni dei protagonisti principali (soprattutto Marin e Aphrodia) e di rinnegare alcuni fatti di una certa importanza facendo prendere una svolta diversa all’intreccio. Si può tranquillamente affermare che l’intero segmento di storia compresa tra gli episodi 18 e 34 viene completamente riscritto. Azzeccata o no che appaia questa scelta, resta il fatto che il Baldios televisivo non può reggersi senza lo splendido finale, e allo stesso modo il lungometraggio non può vivere staccato dalla serie: si compensano a vicenda, e il risultato, pur con

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rimpianti più o meno forti, nella sua interezza è notevole. Le troppe critiche alla prima ora del film sono in ogni caso esagerate, visto che quella parte rivisitata può vantare comunque un gran numero di variegate sequenze nuove di zecca, abbastanza da rendere interessante il sunto anche a chi abbia già guardato l’originale. Inoltre queste scene aggiuntive, come la lunga parte finale, sono realizzate attingendo a un budget sensibilmente più corposo rispetto alla versione tv, e ciò si traduce in animazioni più fluide e disegni più par-

ticolareggiati, che aumentano la qualità dell’anime senza tradire lo stile originale, anzi ben amalgamandosi con le sequenze di repertorio. Baldios - The Movie ha insomma il grande merito di donare un finale alla serie tv, ed è un finale indimenticabile che basta da solo a giustificare l’intera opera: un ulteriore motivo per invitare i fan a riscoprire la bellezza di questo anime, ingiustamente sottovalutato. Va segnalata infine la qualità e la fedeltà del doppiaggio e dell’adattamento italiani, a cura di Yamato Video. <

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Cult ANIME

Cercando la

COSCIENZA

nel

WIRED di SIMONE CORÀ e JACOPO MISTÈ

Nella parabola allucinata di una giovane liceale, la profetica analisi della generazione ‘connessa’, in un futuro divenuto ormai già presente.

A

POCHI GIORNI dal suicidio della studentessa Chisa Yomoda, alcune compagne di scuola ricevono una sua e-mail, nella quale la giovane afferma di non essere morta ma di vivere ‘senza corpo’ all’interno della rete informatica Wired. Il messaggio arriva anche alla riservata Lain Iwakura, che decide di indagare, dopo aver chiesto in regalo al padre un nuovo PC, un NAVI di ultima generazione con cui esplorare il Wired al massimo delle potenzialità. La ragazza inizia così a legare sempre più la propria esistenza

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alla navigazione in rete, in un mondo cosmopolita dove i rapporti sociali sono regolati da telefonini all’ultimo grido e chat virtuali. C’è però qualcosa di strano nel Wired, qualcosa che Lain non comprende ma che la attrae: entità enigmatiche come i Knights, che cercano continuamente di mettersi in contatto con lei, e due agenti segreti che sembrano controllare ogni suo movimento. Ma soprattutto c’è un’altra Lain, nel Wired, un’altra Lain uguale a lei: il suo avatar, sempre più diverso dal suo io reale, sembra prendere vita...


IL PARERE DEL CORÀ A più di quindici anni dalla prima messa in onda, Serial Experiments Lain non ha perso un grammo della sua potenza critica; della profetica, devastante, spietata analisi della generazione informatica che, nel bene e nel male, stava nascendo in quel periodo. La rapida trasformazione sociale ci ha catapultati – rendendoci assuefatti, dipendenti – negli scenari immaginati dall’opera diretta da Ryutaro Nakamura, impedendoci forse, oggi, di rimanere spiazzati dalla brutalità con cui nel 1998 essi descrivevano l’evoluzione di Internet, ma non di continuare ad apprezzare un capitolo fondamentale dell’animazione cyberpunk e della fantascienza tutta. Basterebbe citare due singole scene, o meglio, due semplici linee di dialogo, per

rendersi conto della cruda verità divinatrice, dialoghi ancora attuali e per nulla scontati: quando il padre di Lain, dopo averle regalato il NAVI, le dice sorridendo “Bene, ora non avrai più bisogno di uscire e vedere i tuoi amici”; o quando la ragazza, ormai totalmente rapita dal Wired, chiede al computer (al computer, non a una persona in carne e ossa) se lei esiste veramente o meno. Sono granate, granate capaci tutt’ora di annichilire. Serial Experiments Lain non è un’opera per tutti; la glaciale, ossessiva regia e le atmosfere minimaliste svolgono il loro dovere disturbante nel dipingere l’era che sarebbe giunta, ma creano un prodotto freddo, avulso, di non sempre pulita assimilazione. Lo scopo non era certo sollecitare l’empatia dello spettatore ver-

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so i personaggi; anzi, la serie sfrutta il distacco emotivo per completare la propria desertica visione del futuro, una scelta che, seppur giusta, aumenta esponenzialmente il già ostico meccanismo narrativo e potrebbe allontanare i curiosi. Aiuta invece il gradevole, morbido character design dai volti tondeggianti di Takahiro Kishida, ideale nel suo contrapporsi agli incubi incomprensibili del Wired. La progressione della storia è pachidermica, asfissiante, e spesso prende strade che lasciano storditi a causa dell’accumulo di sottotrame. Nulla è lasciato al caso, particolari in apparenza secondari o semplicemente oscuri guadagnano una spiegazione mentre la serie volge alla conclusione, ma ciò implica una visione eccessivamente cerebrale, cose da mani che premono sulle tempie per non perdere la concentrazione e non farsi distrarre da niente. Alla già ardua complessità strutturale si aggiungono momenti di puro delirio onirico, sterzate cyber-mistiche, gelidi simbolismi, il tutto mescolato con questa già citata direzione opprimente e angosciosa, che più di una volta si munisce di spezzoni di filmati reali e musiche dissonanti, schitarrate oblique e suoni martellanti (immancabili le sequenze in discoteca) per distruggere il cervello dello spettatore. Questa serie richiede perciò sforzo di comprensione e un impegno mentale a chi vuole approcciarsi al suo mondo cacofonico, grigio, durissimo, e seguire una sceneggiatura fatta allo stesso tempo di dialoghi lunghi e articolati e silenzi abissali. Potenzialmente indigeribile, sicuramente pesante e faticosa, ma di notevole, forse irrinunciabile, suggestione.

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IL PARERE DEL MISTÈ È troppo facile cadere nella tentazione di abbandonare Serial Experiments Lain dopo i primi 2 o 3 episodi: è una serie talmente lenta e criptica da risultare fin da subito asfissiante; ma significherebbe abbandonare una delle visioni cyberpunk più avveniristiche che l’animazione dagli occhi a mandorla abbia mai prodotto in tutta la sua storia. Lain nasce nel 1998 da un soggetto scritto a due mani dall’illustratore Yoshitoshi ABe e dal produttore Yasuyuki Ueda, trovando poi effettiva forma sotto la regia del promettente Ryutaro Nakamura, la sceneggiatura di Chiaki J. Konaka e le animazioni della Triangle Staff. L’opera si staglia dunque, sul finire del decennio, come uno dei figli più rappresentativi ed estremi della rivoluzione d’autore inaugurata da Neon Genesis Evangelion (1995) e da La Rivoluzione di Utena (1997), da posizionare soprattutto nel solco tracciato dalla seconda. Ormai avvezzi all’uso di

computer, chat, community online ed MMORPG, e consci di tutte le conseguenze sociali che questi media comportano (alienazione, rarefazione dei rapporti sociali, perdita dei valori più semplici, costruzione di maschere e identità lontane dalla vita reale), è specialmente oggi che scopriamo in Lain quanto avessero ragione le tragiche intuizioni di ABe, Ueda e Konaka, nel dipingere una favola oscura e colma di simbolismi dove trovano sfogo tutti i timori più oscuri di una generazione che viveva l’avvento di Internet. La sinossi iniziale bene esemplifica il tenore enigmatico delle atmosfere della serie, tanto che già andare oltre è difficile, vista la coltre di misteri evocata dalla storia, tra oscuri Knights che agiscono dietro le quinte di un Wired che si rivela substrato della realtà, divinità che dimorano nella rete, sequenze visionarie e metafore grafiche che provvedono più e più volte a mandare fuori strada lo spettatore, inducendolo a chiedersi cosa stia

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effettivamente guardando. Scontato dirlo: nel suo cervellotico stile, il racconto non offre mai una traccia chiara e lineare da seguire, chi la cerca probabilmente non riuscirà mai ad apprezzarlo. Offre invece, come Utena, tanti piccoli indizi disseminati qua e là (frasi-chiave soprattutto), che aiutano, a mano a mano che prosegue la visione, a contestualizzare sempre più il senso della storia, che non è realistica o terrena bensì una semplice fiaba dallo stile postmoderno. Un’allegoria dove riflessioni e timori sulla tecnologia sono trattati con l’ausilio di scene simboliche: che presentano magari utenti incapaci di staccarsi dalla rete e addirittura posseduti dal PC, in senso letterale, catturati da fili e cavi (scena che ricorda le visioni infernali di Shinya Tsukamoto nella trilogia di Tetsuo); oppure che mostrano una tresca fra allieva e insegnante scoperta nel Wired, e ivi rappresentata tramite una simbolica soggettiva, come se una spia entrasse furtiva nella stanza dove si consuma il fatto; o che descrivono l’introversa protagonista e i suoi familiari così isolati dalla realtà da dubitare addirittura sulla loro reciproca esistenza, negandosi a vicenda la parentela. Non è tanto importante la successione principale dei fatti, la semplice fabula che, anzi, viste le onnipresenti atmosfere lisergiche del racconto, diventa elemento secondario (forse quello meno interessante dell’opera), quanto comprendere cosa vogliano dire gli autori, che snocciolano decine e decine di spunti di riflessione. È possibile rinvenire addirittura echi di filosofia politica e sociale nell’assunto che il mondo, come le poleis elleniche, è un ‘cosmo ordinato’/‘sistema opera-

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tivo’ di cui tutti gli individui rappresentano ramificazioni/applicazioni, giusto a testimoniare la ricchezza di intuizioni che portano l’opera a porgersi come un ideale precursore della trilogia cinematografica di Matrix (1999), similarmente a Megazone 23 uscito tredici anni prima di Lain. Se è palese che il messaggio finale non può che essere una ferma condanna del condizionamento determinato da Internet e dalla tecnologia, sono presenti molti interrogativi su cui poter meditare: la distanza tra scienza e religione (chi ha inventato il Wired?), le potenzialità psichiche dell’individuo, il significato dell’esistenza nella vita reale, priva di avatar… Serial Experiments Lain è una visione indubbiamente pesante perché densa, densissima di spunti, o anche solo per il connubio tra la lentissima regia di Nakamura e la sceneggiatura di Konaka che si esprimono in animazioni e disegni minimalisti, poche linee di dialogo, lunghissi-

mi silenzi, uso preponderante e pietrificato di volti in primo piano per sottolineare le sensazioni di distacco e alienazione degli attori, e un’estetica sonora impressa da suoni elettronici intermittenti o martellanti che comunicano la lenta trasformazione di Lain in un software, umano o virtuale che sia. È onesto dire che l’opera è un notevole mattone, con un ritmo che tarpa subito le ali allo spettatore occasionale, e solo una mente attiva e paziente potrà godere delle prelibatezze che offre la trama. Riuscire a reggere la visione significa più volte stupirsi dell’intelligenza con cui i realizzatori hanno anticipato tutti i pericoli – di grande attualità – insiti in una società cosmopolita tecnologica, lanciando un inquietante monito sul prezzo da pagare per una simile universalità di comunicazione. È un’opera sinceramente e devotamente di nicchia, ma quantomeno da provare. <

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LAIN IWAKURA

di © YOSHITOSHI ABE

dall’artbook AB# Rebuild an Omniprescence in Wired 130


Sigle MANIA

LAIN

Serial

Experiments Sigla originale di chiusura

Toi Sakebi

Interprete: REICHI ‘CHABO’ NAKAIDO Testo, musica e arrangiamento: REICHI ‘CHABO’ NAKAIDO Nan no tsumi mo nai hazu na no ni Nanraka no batsu o uketeru Jibun de maita tane de mo nai no ni Sakimidareta hana tsumasareru

Anche se non dovrei avere alcun peccato Sto accettando una sorta di punizione Anche se non ho seminato quei semi Sono fatto per strapparne i fiori prolifici

Shiranai koto to mo ienai ga Katabou katsuida oboe wa nai Jiyuu o takaku kawasareta ki mo suru ga Kokoro made yasuku utta oboe wa nai

Non posso dire di non sapere Ma non ricordo d’esser stato complice Sento che la mia libertà è costata cara Ma non ricordo di aver svenduto il mio cuore

Hey Hey kutabatte o-sarabasuru made Hey Hey dare no te ni mo kakaranai Tooi yoru o urotsuiteru Shiranai darou eien no narazu mono-tachi o

Hey Hey, fino a che non morirò e dirò addio Hey Hey, non sarò preso da nessuno Mi chiedo se non conosci gli eterni predatori che si aggirano nella notte lontana

Yurusenai shiuchi de mo nai ga Iyaseru kizu de mo aru mai Nakesou na yoru ni wa onna daite Kono chinke na shaba kara takatobi sa

Anche se l’atto non è imperdonabile Le ferite non possono essere guarite Nelle notti in cui mi viene da piangere, faccio l’amore con una donna e spicco il volo da questo mondo insignificante e corrotto

Hey Hey kutabatte o-sarabasuru made Hey Hey dare no te ni mo kakaranai Tooi yoru o urotsuiteru Shiranai darou eien no narazu mono-tachi o

Hey Hey, fino a che non morirò e dirò addio Hey Hey, non sarò preso da nessuno Mi chiedo se non conosci gli eterni predatori che si aggirano nella notte lontana

Nan no tsumi mo nai hazu na no ni Nanraka no batsu o uketeru Jiyuu o takaku kawasareta ki mo suru ga Kokoro made yasuku uritobasu hara wa nai

Anche se non dovrei avere alcun peccato Sto accettando una sorta di punizione Sento che la mia libertà è costata cara Ma non ho il fegato di svendere il mio cuore

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Sigla originale di apertura

Duvet

Interpreti: BÔA (voce: JASMINE RODGERS) Testo, musica e arrangiamento: BÔA

And you don’t seem to understand A shame you seemed an honest man And all the fears you hold so dear Will turn to whisper in your ear And you know what they say might hurt you And you know that it means so much And you don’t even feel a thing

E tu sembri non capire Che vergogna tu apparissi un uomo onesto E tutte le paure che tenevi tanto care Torneranno a sussurrarti nell’orecchio E sai che ciò che dicono potrebbe farti male E sai che significa così tanto Eppure non senti nulla

I am falling I am fading I have lost it all

Sto cadendo Sto svanendo Ho perso tutto

And you don’t seem the lying kind A shame that I can read your mind And all the things that I read there Candle-lit smile that we both share And you know I don’t mean to hurt you But you know that it means so much And you don’t even feel a thing

E tu non sembri il tipo del bugiardo Una vergogna che io possa leggerti la mente E tutte le cose che in essa ho letto Condividiamo entrambi un sorriso a lume di candela, e sai che non intendo farti del male Ma sai che significa così tanto Eppure non senti nulla

I am falling I am fading I am drowning Help me to breathe

Sto cadendo Sto svanendo Sto affogando Aiutami a respirare

I am hurting I have lost it all I am losing Help me to breathe

Sto facendo del male Ho perso tutto Sto perdendo Aiutami a respirare 133


Cult COMICS

Fatti e misfatti

DEGLI EROI

VITTORIANI di ANDREA CARTA

Dal fertile talento di Moore e dal suo gusto per le citazioni, una saga ambiziosa ma non priva di pecche.

N

ON C’È GRANDE che nel corso della propria vita non abbia sognato, e talvolta provato a realizzare, un’opera colossale, destinata a coronare una carriera già brillante e rimanere ai posteri a imperituro ricordo. C’è chi riesce nell’impresa: Manzoni, per esempio, ha tirato i remi in barca dopo avere scritto (e più volte riveduto) I Promessi Sposi. Qualcuno, invece, neanche ce la fa ad iniziare, com’è accaduto ad Alejandro Jodorowski con l’adattamento cinematografico di Dune. C’è poi chi muore senza aver visto completato il suo chef d’oeuvre, troppo mastodontico per poter essere portato a termine in

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tempi ragionevoli: un perfetto esempio è Antoni Gaudì, con la sua Sagrada Familia. C’è infine chi viene stroncato da circostanze avverse e deve abbandonare i suoi sogni in corso d’opera: il lettore attento ricorderà certamente quanto accaduto a Frank Hampson durante la realizzazione di Safari in Space. Nel mondo dei fumetti, proprio in questi anni, uno dei ‘grandi’ si sta cimentando nel suo ‘capolavoro’, non senza ritardi e difficoltà. Ancora non è chiaro se e quando riuscirà a portarlo a compimento; anzi, molti lettori ormai disperano di vederne la fine, perché ogni nuovo volume


ALAN MOORE

foto: ©CHRIS BOLAND www.flickr.com/photos/chrisboland/

del progetto introduce sviluppi e complicazioni del tutto inattesi. L’autore in questione è Alan Moore, che non ha certo bisogno di presentazioni, e l’opera è The League of Extraordinary Gentlemen, iniziata ben 15 anni fa. I ‘gentlemen’ nascono nel 1999, sotto l’egida di America’s Best Comics (o ABC), una sussidiaria della più nota Wildstorm creata dall’artista coreano Jim Lee nel 1992. Casa editrice giovane, indipendente e innovativa, la Wildstorm può finalmente offrire ad Alan Moore quell’autonomia creativa lungamente e inutilmente cercata; ben presto, però, l’azienda viene assorbita dall’odiata (da Moore) DC Comics. L’autore cerca di ingoiare il rospo; ma alla lunga le ‘solite’ interferenze della DC, per quanto motivate da seri problemi di copyright – che Moore stesso ha provocato – passano il limite, e i gentlemen si trasferiscono alla inglese Knockabout Comics, un piccolo editore realmente in-

dipendente e coraggioso (tra le sue pubblicazioni, alcune opere minori di Robert Crumb, il discusso autore di Fritz il Gatto). La tranquillità editoriale, almeno per il momento, non sembra più in discussione. Ma chi sono gli ‘Extraordinary Gentlemen’? Semplicemente, un gruppo di celebri individui presi in prestito dalla narrativa avventurosa dell’epoca vittoriana, personaggi del calibro dell’Uomo Invisibile, del dr. Jekyll, del capitano Nemo e così via. Il progetto di Moore è quello di costruire un mondo nel quale tutti costoro esistano contemporaneamente, e immaginare cosa possa scaturire dal loro incontro: quali avventure, quali scontri, quali amori. L’idea, assolutamente geniale, finisce per espandersi, lentamente ma inesorabilmente, estendendo le storie ad altre epoche storiche e finendo per coinvolgere eroi del cinema, della televisione, e addirittura ‘controfigure’ di persone

8 KEVIN O’NEILL

foto: ©LUIGI NOVI fonte: Wikimedia Commons

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VOLUME 1

BAO PUBLISHING, 2013 188 pagine ISBN-13: 9788865431566

VOLUME 1, ISSUE #1

EMPIRE DREAMS

ed. originale, marzo 1999

reali, in un calderone senza fondo che ad ogni nuovo volume scade sempre di più nell’autoreferenzialità. Alan Moore sta lavorando alla sua idea già nel luglio del 1996, come viene a sapere il collega Andy Diggle in una famosa intervista; i gentlemen sono ancora ‘gentlefolk’, ma il loro nucleo originale è già delineato. Tre anni più tardi inizia la pubblicazione del primo volume della serie, diviso in 6 capitoli apparsi tra il marzo del 1999 e il settembre del 2000, nei quali questo nucleo prende forma ufficialmente diventando una sorta di JLA di fine ’800 (la storia è ambientata nel 1898). Il supergruppo (o ‘league’, lega) viene ‘assemblato’ dai servizi segreti britannici, già allora diretti da un misterioso ‘M’, e l’unica donna a farne parte ne viene anche messa a capo: si tratta di Mina Murray (la Mina rapita da Dracula nel romanzo di Bram Stoker), che in questa visione alternativa del mondo ‘letterario’ ha divorziato dal marito Jonathan Harker, per ragioni mai chiarite ma sicuramente legate alle sue (dis)avventure col vampiro più famoso di tutti i tempi. Vale la pena notare, infatti, che Moore, pur servendosi

a piene mani dei personaggi della letteratura vittoriana, ne dà una sua personale interpretazione; talvolta molto personale, come nel caso di James Bond trasformato in cattivo, o di Harry Potter… ma ne parleremo più avanti. Con l’aiuto di tale Campion Bond, braccio destro di M (e nonno di James Bond), Mina recluta, uno dopo l’altro, il capitano Nemo (il cui Nautilus ha assunto un aspetto ancora più avveniristico di quello immaginato da Verne), Allan Quatermain, invecchiato e ormai tossicomane, il dottor Jekyll (che, con l’aspetto di Hyde, dopo aver finto di morire al termine del ‘suo’ romanzo, si nasconde a Parigi, ivi ritrovato da un vecchio ma sempre efficiente Auguste Dupin) e infine Hawley Griffin, l’uomo invisibile di H.G. Wells, pure lui sopravvissuto al proprio romanzo. La Lega entra presto in azione: l’incarico di M è quello di impedire che il dottor Fu Manchu (nientedimeno!) possa bombardare Londra servendosi della ‘cavorite’ (da I Primi Uomini sulla Luna di Wells) da lui rubata tempo addietro allo scopo di fornire energia alla sua flotta aerea. I gentlemen, superando reciproche diffidenze e incomprensio-

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VOLUME 1, pagina 9 (capitolo 1), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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VOLUME 1, pagina 16 (capitolo 1), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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ni, riescono nell’impresa, salvo poi scoprire che M non è, come avevano pensato, Mycroft, il fratello di Sherlock Holmes, bensì l’arcinemico di quest’ultimo, il professor Moriarty (sopravvissuto alle cascate di Reichenbach). Moriarty vuole realizzare per conto proprio il piano di Fu Manchu dopo essersi sbarazzato del rivale e impossessato della cavorite: servirà un nuovo intervento dei gentlemen per porre fine, una volte per tutte, al pericolo che incombe su Londra, e far diventare Mycroft Holmes il nuovo M, stavolta sul serio. La storia, nell’insieme, si fa apprezzare. Ma le citazioni sono tali e tante da diventare spesso fini a sé stesse, se non d’intralcio a una trama altrimenti splendidamente costruita. Oltre ai cinque gentlemen e ai loro illustri avversari, infatti, una miriade di personaggi minori, tratti dalle più svariate opere vittoriane e spesso del tutto sconosciuti al lettore, occupa ogni pagina del volume, rendendo arduo seguire la storia senza attingere al famoso commento del superesperto Jess Nevins. Fra i comprimari più importanti vale la pena citare, dopo Auguste Dupin e il profes-

sor Cavor, il famoso Ismaele, protagonista di Moby Dick e adesso marinaio sul Nautilus. Il successo di questa prima storia, a dispetto dei problemi sopracitati, è enorme; Hollywood ne trae un omonimo film nel 2003, noto più per essere stato l’ultima fatica cinematografica di Sean Connery (nel ruolo di Quatermain) che per la fedeltà alla trama. L’ira di Moore, che ha sempre odiato gli adattamenti cinematografici delle sue opere, è senza limiti: il film, come se non bastasse, è anche di livello discutibile. Prima che la pellicola esca nelle sale, tuttavia, Moore porta a compimento il secondo volume della sua opera: diviso anch’esso in sei parti, appare tra il settembre del 2002 e il novembre del 2003. Volendo utilizzare una metafora sportiva, l’asticella si alza! Appaiono il famoso John Carter di Marte (proprio quello tornato alla ribalta recentemente in un ottimo film prodotto dalla Walt Disney e dalla stessa affossato a causa di lotte intestine) e il meno celebre Gullivar Jones (precursore di Carter in avventure romantico-fantastiche di inizio ’900); dopodiché Moore

VOLUME 1, ISSUE #2

GHOSTS & MIRACLES

ed. originale, aprile 1999

VOLUME 1, ISSUE #3

MYSTERIES OF THE EAST

ed. originale, maggio 1999

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VOLUME 1, ISSUE #4

GODS OF ANNIHILATION

ed. originale, novembre 1999

VOLUME 1, ISSUE #5

SOME DEEP, ORGANIZING POWER...

ed. originale, giugno 2000

reinventa, letteralmente, La Guerra dei Mondi di Wells, narrandola da un altro punto di vista e chiudendola con una variante ingegnosa: non è il raffreddore a uccidere i marziani, ma una terribile arma batteriologica ideata dal dottor Moreau (altro pezzo grosso della letteratura fantastica). La storia del raffreddore diventa una copertura per nascondere l’uso di un’arma di distruzione di massa, cosa che lascia disgustati i gentlemen. Il capitano Nemo (disegnato con una lunga barba nera che lo rende simile, forse non casualmente, allo stesso Moore) non riesce a trattenere la sua ira nei confronti dell’impero britannico, verso il quale già nutriva scarsa simpatia, e abbandona per sempre il gruppo. Poiché nel corso della storia muoiono Griffin, che dopo aver tradito i gentlemen viene ucciso da Hyde, e lo stesso Hyde, che si sacrifica combattendo contro i marziani, la Lega finisce per sciogliersi e i destini dei superstiti, in pratica i soli Mina e Quatermain (nel frattempo diventati amanti), restano incerti. Alzare l’asticella, comunque, non significa superarla. I difetti del primo volume si accentuano: più personaggi,

più riferimenti, più citazioni. E, quel che è peggio, Moore usa tutti i personaggi in modo sempre più ‘disinvolto’ e meno fedele all’originale: passi per il dr. Moreau, che in fin dei conti è sempre stato l’archetipo del mad scientist; passi per Mina, che da giovane devota al marito diventa una femminista acida, spesso antipatica (in fondo il suo personaggio non è tra quelli più curati, in Dracula): passi anche per Griffin, già malvagio ne L’Uomo Invisibile (anche se non sino al punto immaginato da Moore)… Ma che dire del capitano Nemo, che da raffinato e compassato gentiluomo si trasforma in un sikh collerico e intollerante? E di Allan Quatermain, il cui rapporto con Mina tocca punte di sorprendente volgarità (sono pur sempre personaggi vittoriani!)? E infine di Jekyll/Hyde, trasformato in Banner/Hulk e utilizzato in modo analogo, con Jekyll ormai scomparso e Hyde più buono che cattivo, persino un po’ innamorato di Mina? Se l’idea di far interagire insieme tutti questi personaggi è indubbiamente geniale, Moore, ormai travolto dalle sue stesse sterminate conoscenze letterarie, dimentica che il lettore preferisce

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VOLUME 1, pagina 23 (capitolo 1), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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VOLUME 1, pagina 30 (capitolo 1), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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sempre gli originali: un Hyde totalmente devoto al male (lui, e non Griffin, dovrebbe tradire), un Nemo malinconico e posato, un Quatermain eroico (lui, e non Hyde, dovrebbe sacrificarsi), una Mina gentile, magari compassionevole. Il dubbio che il genio di Northampton si stia facendo prendere la mano si concretizza; ma il peggio deve ancora venire. Dal momento che, come spesso avviene nelle sue opere, Moore ha riempito i primi due volumi di testi scritti e di illustrazioni che fanno riferimento a eventi collaterali, i lettori sono consapevoli dell’esistenza di altre due ‘leghe’ di eroi, che precedono quella agli ordini di Mina Murray: la prima, attiva agli inizi del ’600, è guidata dal duca Prospero (da La Tempesta di Shakespeare) e annovera Don Chisciotte e Orlando (da Orlando di Virginia Woolf) tra i suoi componenti; la seconda, creata a metà ’700, è comandata da Lemuel Gulliver e comprende la Primula Rossa e nuovamente Orlando (immortale nel romanzo della Woolf). Molti ritengono quindi che il terzo volume della serie, una volta sciolta la Lega di Mina, dovrà occuparsi di

una delle altre due; lo stesso Moore non nega una simile eventualità. Invece, dopo quattro anni di silenzio, Moore sforna una graphic novel interlocutoria (secondo alcuni, creata al solo scopo di non lasciare disoccupato troppo tempo Kevin O’Neill, disegnatore della serie), intitolata Black Dossier. Siamo nel novembre del 2007, e la storia – se così si può definire – lascia abbastanza interdetti i lettori. Più che di un fumetto, si tratta di un concentrato di dossier, per l’appunto, che narrano eventi collegati direttamente o indirettamente con la storia delle diverse leghe; messi insieme, questi fascicoli formano una sorta di manuale dalla copertina nera onnicomprensivo sui gentlemen, il ‘black dossier’ del titolo, che Mina (immortale in quanto vampirizzata da Dracula) e Quatermain (ringiovanito tra un volume e l’altro dopo essere passato nel fuoco dell’eterna giovinezza, da La Donna Eterna di Haggard) devono sottrarre ai servizi segreti inglesi. La storia vera e propria, che in un bizzarro gioco di specchi si alterna alle pagine dello stesso dossier, è ambientata nel 1958, diversi anni dopo la fine della Seconda Guer-

VOLUME 1, ISSUE #6

THE DAY OF BE-WITH-US

ed. originale, settembre 2000

VOLUME 2

BAO PUBLISHING, 2013 224 pagine ISBN-13: 9788865431672

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VOLUME 2, ISSUE #1

PHASES OF DEIMOS

ed. originale, settembre 2002

VOLUME 2, ISSUE #2

PEOPLE OF OTHER LANDS

ed. originale, ottobre 2002

ra Mondiale (combattuta non contro Hitler, ma contro Hynkel, da Il Grande Dittatore di Chaplin). La Lega, a quanto pare rimessa in piedi dopo gli eventi narrati nel secondo volume, ha rotto i rapporti con M, in seguito all’instaurazione in Gran Bretagna di un regime totalitario (quello descritto da Orwell in 1984, che Moore ha trasferito nel 1948, giocando con l’originale inversione delle ultime due cifre); nel 1958 la democrazia sembra ristabilita, ma Mina e Quatermain continuano a non fidarsi troppo dei servizi segreti inglesi, dove ancora si annidano elementi del vecchio regime: questo è il motivo che li spinge a recuperare il fascicolo che riguarda i gentlemen e a portarlo al sicuro, naturalmente dopo varie peripezie e colpi di scena. È con Black Dossier che Moore si lancia ‘verso l’infinito e oltre’. Ai personaggi già conosciuti in precedenza se ne aggiungono decine d’altri, sia coinvolti direttamente nella storia principale che citati più o meno di sfuggita: c’è chi proviene dal teatro shakespeariano (il duca Prospero), chi dalla narrativa moderna (Jeeves) o da storie per bambini (il

Golliwogg, della scrittrice inglese Florence Upton), e chi arriva persino dal cinema (Hynkel e James Bond, quest’ultimo schierato decisamente coi cattivi, sadico, misogino, traditore e assassino), dalla televisione (mrs. Peel da Agente Speciale), e da altri fumetti (Dan Dare). L’immenso calderone, lungi dall’intrigare il lettore, trasforma una storia non così banale in un miscuglio di citazioni incrociate, appesantite da problemi di copyright (per esempio, Bond e mrs. Peel non vengono mai nominati in modo esplicito) e spesso incomprensibili. A dare il colpo di grazia arrivano una serie di tavole in 3D (da ‘apprezzare’ con i classici occhialini bicolori, inclusi nel volume) che sembrano uscite da un incubo all’LSD e che spostano le avventure in una dimensione onirico-psichedelica (chiamata ‘Blazing World’) dove può avvenire tutto, e il contrario di tutto, e dove il duca Prospero, a quanto pare diventato il nuovo capo della Lega, regna sovrano. Dulcis in fundo, Black Dossier finisce anche per causare la definitiva rottura fra Moore e la DC Comics, come già si era accennato, proprio a causa dei troppi problemi di

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VOLUME 1, pagina 48 (capitolo 2), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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VOLUME 1, pagina 56 (capitolo 3), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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copyright. In ogni caso, tra le pieghe di questo sterminato dossier emergono tanti di quei dettagli da fornire materiale per chissà quanti volumi. Per esempio, vi si trovano accenni a una Lega francofona (con Fantomas, Robur e perfino Arsenio Lupin) e un’altra germanofona (con il dr. Caligari, il dr. Mabuse e il dr. Rotwang, tutti presi dal cinema fantastico di scuola tedesca). Nonostante ciò, nel 2009, cambiata casa editrice, Moore torna a occuparsi della Lega di Mina, opportunamente ristrutturata dopo quanto accaduto nel volume 2. L’asticella s’alza ancora: il nuovo volume è in realtà una trilogia, con la prima parte ambientata nel 1910, la seconda nel 1969 e l’ultima nel 2009 stesso. Alla storia viene dato il titolo, quanto mai appropriato, di Century. In quanto all’avversario da sconfiggere, Moore deve ritenere ormai troppo banali personaggi come Moriarty, i marziani e persino il regime di 1984, e con un definitivo salto di qualità (o no?) porta in gioco addirittura l’Anticristo. Non stupisce, quindi, che le deboli forze del gruppo di gentlemen, per quanto ricco di immortali, non ba-

stino più e serva anzi l’intervento di Dio in persona per porre fine alla vicenda, che inevitabilmente sconfina nel ridicolo, spesso e volentieri. Ma andiamo con ordine: il primo episodio, ‘1910: What Keeps Mankind Alive?’, esce nell’aprile del 2009 e ci mostra una nuova Lega, sempre guidata da Mina, composta dal solito Quatermain (ringiovanito), dal già menzionato Orlando, da Thomas Carnacki (un detective di inizio ’900 creato dall’inglese William Hodgson) e da A.J. Raffles (il famoso ladro gentiluomo, precursore di Arsenio Lupin). Orlando è adesso il vero centro del gruppo, e i suoi periodici cambiamenti di sesso (idea della Woolf, non di Moore, che tuttavia ‘fonde’ il personaggio col più classico Orlando della narrativa epica) lo rendono ancora più strano dei suoi compagni d’avventura; col tempo, costruirà con Mina e Allan il più classico dei ménage à trois. Avversario della Lega è l’occultista Oliver Haddo (da The Magician di Somerset Maugham), a sua volta modellato su un personaggio reale del secolo scorso: Aleister Crawley. Haddo, che si scoprirà essere immortale grazie alla sua capacità di trasferirsi da un cor-

VOLUME 2, ISSUE #3

AND THE DAWN COMES UP LIKE THUNDER

ed. originale, novembre 2002

VOLUME 2, ISSUE #4

ALL CREATURES GREAT AND SMALL

ed. originale, aprile 2003

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VOLUME 2, ISSUE #5

RED IN TOOTH AND CLAW

ed. originale, luglio 2003

VOLUME 2, ISSUE #6

“YOU SHOULD SEE ME DANCE THE POLKA...” ed. originale, novembre 2003

po all’altro, sta pianificando l’arrivo dell’Anticristo. I tentativi della Lega di contrastare i suoi piani si alternano con altre vicende, collegate con l’arrivo a Londra della figlia del capitano Nemo – nel frattempo morto nella sua Lincoln Island (l’isola ‘misteriosa’ di Verne) – e con la riapparizione di Jack lo Squartatore dopo più di vent’anni di ‘inattività’. La resa dei conti con l’occultista viene rinviata al secondo episodio, ‘1969: Paint It Black’, uscito nel luglio del 2011. Il lettore scopre che Haddo si sta preparando a occupare il corpo di… Mick Jagger (qui chiamato Terner), leader dei Purple Orchestra (i Rolling Stones, ovviamente). Durante un concerto tenutosi ad Hyde Park, Mina, sotto gli effetti dell’LSD, salva Jagger/Terner dopo aver lottato sul ‘piano astrale’ contro Haddo; ma non può impedire che quest’ultimo finisca per impossessarsi del corpo di un giovane, bizzarro spettatore, che sembra più interessato a portarsi Mina a letto che a seguire il concerto. Il giovane è – incredibile ma vero – Voldemort (della saga di Harry Potter!), e, una volta posseduto da Haddo, si affretta in direzione di Hogwarts (lo si vede sparire

nel famoso binario 9 e ¾ di King’s Cross) lasciando Mina in preda a terribili allucinazioni indotte dall’acido che ha assunto e dal volo di centinaia di pipistrelli su Hyde Park, liberati nel corso del concerto (in realtà gli Stones liberarono migliaia di farfalle, non pipistrelli, in memoria di Brian Jones, morto due giorni prima). Ricoverata in manicomio, scomparirà per ben 40 anni, finché Orlando (Quatermain, ricaduto vittima delle droghe, si è ormai tirato fuori dalla mischia) non riuscirà a ritrovarla nel 2009. E siamo così al terzo e ultimo episodio, ‘2009: Let It Come Down’, che esce nel giugno del 2012. Qui Moore supera stesso, ovviamente in peggio. Mina e Orlando scoprono che il treno per Hogwarts e lo stesso castello che ospita la scuola di magia sono stati distrutti pochi anni prima. La verità, un po’ per volta, emerge, sconvolgente: l’Anticristo è nientemeno che… Harry Potter! Tutti gli eventi narrati dalla Rowling sarebbero stati sapientemente orchestrati da Haddo/Voldemort allo scopo di ‘risvegliare’ le tendenze sataniche del giovane apprendista mago. Lo scontro finale, davanti al numero 12

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VOLUME 2, pagina 21 (capitolo 1), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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VOLUME 2, pagina 120 (capitolo 5), versione italiana ŠBAO PUBLISHING

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di Grimmauld Place (la casa ereditata dal protagonista negli ultimi libri della saga), è inevitabile, e Potter/Satana, dopo aver ucciso il ritrovato Quatermain, sembra sul punto di prevalere su ciò che resta dei gentlemen, nonostante Orlando sia in possesso di Excalibur, la prodigiosa spada appartenuta a suo tempo a re Artù. Sul più bello (o brutto?), dal Blazing World arriva Dio in persona, sotto le spoglie di Mary Poppins, la quale, essendo notoriamente un’esperta di ragazzini problematici, trasforma senza difficoltà il cattivissimo Harry in un disegno a gesso sul marciapiede (come sua abitudine). La pioggia pone fine alla sua esistenza, anche se la testa di Haddo/Voldemort, che Potter/Satana aveva conservato gelosamente, continua a predire sventure… Non ci vuole molto a rendersi conto che gli eccessi riscontrati nei primi due volumi della serie sembrano poca cosa, se confrontati con quanto avviene in Century. Anche i problemi di copyright, non più contenuti dalle interferenze della DC Comics, si moltiplicano senza ritegno, e le acrobazie a cui ricorre Moore per aggirarli finiscono per aumentare il

senso di irritazione: era davvero necessario allontanarsi dalla falsariga dei primi due volumi, ambientati in un’epoca molto più tranquilla da questo punto di vista? La solita massa di citazioni, oltretutto prive di ogni rapporto con la storia, arriva a un punto tale da rendere preferibile tirare dritto senza servirsi dei commenti di Nevins, a meno di non voler restare impantanati in ogni vignetta. Il miscuglio di personaggi tratti da ogni possibile media e da realtà più o meno alternative, per di più mescolati senza criterio e poco o per nulla approfonditi, tollerabile forse in un volume a sé stante come Black Dossier, qui diventa insopportabile. Come detto, ai componenti della Lega si affiancano la figlia di Nemo, Jack lo Squartatore, i Rolling Stones, il duca Prospero, nuovamente mrs. Peel e James Bond (e gli attori che lo hanno interpretato al cinema, diventati le sue ‘controfigure’ ufficiali), Mary Poppins, Andrew Norton (viaggiatore del tempo creato da Iain Sinclair solo pochi anni prima), i personaggi della Rowling e decine di altri minori, spesso appena accennati. È come se Moore abbia perso del tutto il controllo sul-

BLACK DOSSIER

BAO PUBLISHING, 2013 192 pagine ISBN-13: 9788865431795

CENTURY

BAO PUBLISHING, 2012 244 pagine ISBN-13: 9788865431122

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CENTURY

COMPLETE EDITION

ed. originale, luglio 2014

CENTURY, ISSUE #1

1910: WHAT KEEPS MANKIND ALIVE? ed. originale, maggio 2009

la sua opera, tanto più che ogni protagonista sembra ormai una caricatura di sé stesso. Dopo avere stravolto James Bond, il colmo viene raggiunto con Harry Potter trasformato nell’Anticristo, e la scena in cui questo personaggio, amato e apprezzato in tutto il mondo, usa i suoi ‘attributi virili’ come fossero la bacchetta magica suscita più disgusto che altro. Talmente grottesco è il trattamento che Moore riserva al maghetto della Rowling da far pensare che gli stia segretamente – e sommamente – antipatico; ma quello che Moore non ha capito è che Harry Potter è troppo al di là delle sue capacità per poter essere ridicolizzato in questo modo. E quindi è Moore, non il maghetto, a coprirsi di ridicolo: il genio di Northampton, pur capace di descrivere in modo splendido personaggi moralmente ambigui (si pensi al Rorschach di Watchmen) o sull’orlo della pazzia (il Joker in Batman: The Killing Joke, o il dr. Gull in From Hell), non ha mai brillato quando ha dovuto confrontarsi con eroi di stampo classico (vedasi il suo appena discreto Superman, realizzato negli anni ’80, e lo stesso Batman). Poco importa che il suo intento sia quello

di rivisitarli, di stravolgerli o di farne una parodia: il risultato resta poco convincente. Questo, a ben vedere, è il vero limite dei gentlemen, che da solo ne spiega il sostanziale fallimento. Non è un caso che il capolavoro di Moore sia Watchmen, cioè un fumetto originale e privo di veri ‘eroi’, nonostante la sua bibliografia sia ricca di opere dedicate a personaggi già noti, come Swamp Thing e i già citati Batman e Superman. Moore, il cui ego è un po’ eccessivo (per non dire smisurato), ha sempre avuto difficoltà nel riconoscere i propri limiti, e questa dei gentlemen non è neanche un’occasione perduta: è semplicemente uno spreco del suo immenso talento. Pure, Moore non è ancora pago. Cosa ci riserva il futuro della saga? In più di una intervista si è parlato di una storia che dovrebbe svolgersi nel passato, nel 1964, e di un’altra ambientata subito dopo Century, probabilmente nel 2011 o nel 2012; ma, in quanto ai contenuti, nulla è trapelato. D’altronde, dopo che nel calderone sono stati gettati Dio e l’Anticristo, che altro rimane? E così, tanto per riordinare le idee e guadagnare un po’ di tempo, ecco giungere

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BLACK DOSSIER, versione italiana ©BAO PUBLISHING

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CENTURY, pagina 16 (1910), versione italiana ©BAO PUBLISHING

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uno spin-off, come si usa in quella Hollywood tanto disprezzata dallo stesso Moore. Si tratta di una storia, intitolata Nemo e divisa in tre parti come Century, dedicata a Jenny, la figlia del comandante del Nautilus, la quale dopo la sua comparsa nel 1910 sembrava in effetti pronta per nuove, mirabolanti avventure degne del padre. La storia è ancora in via di sviluppo (il secondo volume è da poco uscito), e forse vale la pena attenderne la fine prima di trarre qualche conclusione. Se non altro il primo volume sembra promettente, ricco di riferimenti ai leggendari Le Montagne della Follia di Lovecraft e Le Avventure di Gordon Pym di Poe (senza dimenticare La Sfinge dei Ghiacci di Verne). Rimane però da esaminare l’altro (l’ennesimo) punto dolente della sterminata saga: il disegno di Kevin O’Neill. Disegno che, anche a volerlo giudicare con tutta la benevolenza possibile, raggiunge a stento la sufficienza. Perché mai Alan Moore, che pure in passato ha lavorato con disegnatori eccezionali come Brian Bolland (Batman: The Killing Joke) o comunque superiori alla media come Dave Gib-

bons (Watchmen, Superman e altro) e David Lloyd (V for Vendetta), ne ha scelto uno così mediocre per il suo chef d’oeuvre? La risposta, purtroppo, si indovina facilmente: come lui stesso ha recentemente ammesso, ha scelto l’unico col quale sia in buoni rapporti, vale a dire O’Neill, il solo ad averlo sempre appoggiato nelle sue infinite liti con tutte le case editrici, DC Comics in primis. Fatto sta che non è facile trovare un qualche disegno di O’Neill dove siano rispettate le semplici proporzioni fra i personaggi, o dove questi personaggi, quantomeno, non cambino aspetto tra una vignetta e la successiva, problema ulteriormente complicato dai cambiamenti nella moda tra un’epoca e l’altra, da personaggi che ringiovaniscono, invecchiano, cambiano sesso… Consapevole del difetto, O’Neill finisce per accentuarlo volutamente, nella speranza di aggiungere un tocco stravagante e surreale ad avventure già bizzarre per conto loro. Ma, anche volendo approvare questa scelta, non si può far finta di nulla di fronte a disegni così statici da risultare quasi fastidiosi: tant’è vero che le scene d’azione sono state ridotte

CENTURY, ISSUE #2

1969: PAINT IT BLACK ed. originale, luglio 2011

CENTURY, ISSUE #3

2009: LET IT COME DOWN ed. originale, giugno 2012

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NEMO - CUORE DI GHIACCIO

BAO PUBLISHING, 2013 56 pagine ISBN-13: 9788865431385

NEMO - LE ROSE DI BERLINO

BAO PUBLISHING, 2014 56 pagine ISBN-13: 9788865432204

al minimo indispensabile, e ciononostante quelle poche rimaste andrebbero saltate a piè pari. Il punto cruciale sta nel fatto che O’Neill, più che un disegnatore di fumetti, è un ottimo illustratore, abile nella composizione delle scene, accurato, pignolo quasi, nei dettagli e nella scelta delle inquadrature. Non a caso le copertine dei volumi della serie sono tutte eccellenti, in grado di evocare avventure misteriose e fantastiche. Ed è anche buona, tutto sommato, la capacità espressiva dei suoi disegni, che in parte compensa gli altri difetti. Si sente, però, anche la mancanza di un grande colorista, in grado di far emergere dall’ombra quei dettagli che sono la specialità di O’Neill. Viceversa, una colorazione piatta, smorta e poco varia – nulla a che vedere con le tonalità brillanti di Watchmen o di Batman: The Killing Joke – nasconde tutto sotto una patina opaca che rende ancora più difficoltosa la lettura, già appesantita dalla massa di citazioni superflue e dai troppi dialoghi, spesso inutili, noiosi e poco comprensibili. Il merito (si fa per dire) di questa colorazione ricade sulle spalle dello sconosciuto americano di origini filippine

Ben(edict) Dimagmaliw, che gli appassionati non dimenticheranno facilmente. Può lasciare un po’ stupiti che The League of Extraordinary Gentlemen venga valutato così severamente. In fin dei conti si tratta di un’opera davvero monumentale, che mostra quanto siano sterminate e profonde le conoscenze letterarie, cinematografiche e televisive di Moore. È raro trovare qualcosa del genere, anche abbandonando fumetti e narrativa avventurosa e rivolgendosi alla cosiddetta letteratura mainstream. Ed è fuori discussione che buona parte del successo dell’opera si debba proprio a questa esondazione di conoscenze che riempie ogni pagina e ogni vignetta. Ma il problema è Moore, appunto. Un autore talmente geniale da poter essere paragonato a Re Mida, data la sua capacità di ridare nuova vita a personaggi banali (come Superman) o quasi dimenticati (come Swamp Thing) e, in generale, di realizzare solo capolavori, senza fermarsi mai. Se i gentlemen fossero stati partoriti da qualsiasi altro autore, fosse pure un altro genio come Frank Miller – il cui genere è comunque ben diverso –, le

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CENTURY, pagina 134 (1969), versione italiana ©BAO PUBLISHING

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CENTURY, pagina 228 (2009), versione italiana ©BAO PUBLISHING

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valutazioni non potrebbero che essere positive: l’idea?, straordinaria come i gentlemen stessi; la rivisitazione dei personaggi?, un modo originale per non narrare da capo le loro storie; il disegno?, rozzo ma efficace ed espressivo. Due pesi e due misure, insomma? Purtroppo è inevitabile. Da chi ha creato Watchmen, ci si aspetta ormai solo un capolavoro dopo l’altro. Già un’opera eccellente e visionaria come From Hell appare non completamente riuscita, marcando forse l’inizio del declino creativo di Moore; i gentlemen confermano in pieno questa tendenza. Farseli piacere, per chi conosce a fondo Watchmen, The Killing Joke e V for Vendetta, è troppo. Probabilmente, Moore avrebbe dovuto chiudere le avventure della Lega alla fine del secondo volume, approfittando del suo scioglimento conseguente alla battaglia finale contro i marziani di Wells. L’insieme dei primi due volumi, strettamente collegati e omogenei nell’ambientazione e nella struttura narrativa, ne avrebbe fatto un’opera certamente minore ma ancora pregevole, priva degli eccessi delle storie successive. Il primo dei due

volumi, in particolare, riesce ancora a proporre, dei personaggi vittoriani, una versione fedele e nello stesso tempo rivisitata al punto giusto: un Hyde ambiguo ma certamente non buono, una Mina ancora incerta sul proprio ruolo, un Nemo più controllato, e così via. Il disegno di O’Neill, per quanto rozzo, sarebbe stato in effetti considerato ‘innovativo’, adeguato alla bizzarria della storia illustrata. L’impatto dell’idea di fondo, soprattutto, non sarebbe stato annacquato dall’uscita dei volumi successivi. Ma così non è stato. Quando si parla di un Grande, di uno come Alan Moore, il senso critico dei lettori svanisce progressivamente. Ogni opera viene incensata. Ogni nuova creazione mette in ombra quelle precedenti. È solo in retrospettiva, quando il rischio di dispiacere all’autore si attenua, che emergono finalmente giudizi più obiettivi. Ma non sarebbe meglio trovare, da subito, il coraggio di dire che il Re è nudo? I gentlemen, ormai, sono quelli che sono. Ma Moore, se fosse costretto a un bagno di umiltà, potrebbe ancora ritrovare la genialità dei suoi giorni migliori. Proviamoci, allora. <

LA LEGGENDA DEGLI UOMINI STRAORDINARI

(The League of Extraordinary Gentlemen, 2003) Regia di Stephen Norrington

PETA WILSON

nel ruolo di Mina Harker

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Manga TIME

Reclutati dalla

MISTERIOSA

SFERA NERA di LEONARDO COLOMBI

Combattenti per caso, armi avveniristiche, invasioni aliene, ragazze sexy in un manga tutto azione.

B

EFORE the world was created, the Word already existed. The Word was the source of life, and this life brought light to mankind. The light shines in the darkness, and the darkness has never put it out. (dal Vangelo di Giovanni)

Q 160

UESTO BREVE passaggio in inglese ricorre nelle copertine anticipando

il tono epico e sovrannaturale di Gantz, seinen manga di Hiroya Oku, 383 capitoli raccolti in 37 volumetti pubblicati dal 2000 al 2013 nella rivista Weekly Young Jump. Prodotta in un così lungo arco di tempo, la storia offre innumerevoli cambiamenti in termini di trama e personaggi, lasciandosi molto spesso influenzare dalla produzione cinematografica hollywoodiana a cui Oku stesso conferma di essersi ispirato. L’opera si può suddividere in tre macro blocchi narrativi denominati ‘fasi’ (phases), ciascuno dei quali caratterizzato da dinamiche proprie, esplicitate dalle


differenti scelte cromatiche nelle sovra copertine (anche se la modalità non rispetta in toto le diverse phases). I titoli dei cicli sono: ‘Missions’, capitoli dall’1 al 237 (volume 20); ‘Katastrophe’, dal 238 al 303 (volume 30); ‘Invasion’, dal 304 al 383. PHASE 1: MISSIONS L’inizio della storia segue quanto accade a Kei Kurono e Masaru Kato, due liceali amici di infanzia che trovano la morte sulle rotaie della metropolitana, travolti nel tentativo di soccorrere un ubriacone caduto sui binari. Anziché finire nell’aldilà, i due si ritrovano in una stanza di un comune appartamento di Tokyo, assieme a degli sconosciuti, ai quali poco dopo si aggiunge una ragazza di nome Kei Kishimoto, che viene materializzata completamente nuda sotto gli occhi dei presenti. Nella stanza, da cui non c’è modo di usci-

re, è presente anche una grossa e misteriosa sfera nera che in seguito verrà definita ‘Gantz’; al cui interno siede un essere umano in stato vegetativo. Accompagnata da un vivace sottofondo musicale, una scritta compare sulla superficie della sfera: “Le vostre vecchie vite sono finite. Ora spetta a me decidere cosa fare delle vostre nuove vite. E questo è quanto”. I presenti vengono quindi equipaggiati con armi e tute futuristiche, vagamente istruiti su ciò che dovranno fare e teletrasportati per le strade di un quartiere di Tokyo con l’obbiettivo di cacciare un misterioso alieno antropomorfo. La squadra scoprirà di avere un perimetro limite entro cui agire (oltrepassare il quale causerebbe la detonazione di una bomba inserita nella loro testa) e un tempo massimo da rispettare per completare la missione. Terminata la caccia – risoltasi in un massacro – i superstiti vengono materializ-

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GANTZ VOL. #1

PANINI COMICS

GANTZ VOL. #10

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zati ancora al cospetto della sfera nera, per vedersi assegnare un punteggio e poi venire liberati. Periodicamente e senza preavviso la sfera preleverà i sopravvissuti e selezionerà nuovi ‘gantzer’, richiamandoli nella medesima stanza per formare altre squadre da inviare contro creature via via più forti e pericolose. Mentre il gruppo, regolarmente trucidato dalle ‘prede’, cambia composizione a velocità sorprendente, i superstiti apprendono come usare al meglio l’equipaggiamento, e scoprono che ognuno di loro, al raggiungimento dei propri 100 punti, potrà scegliere un beneficio tra: ricevere un’arma o un veicolo più potente, resuscitare una delle persone ‘archiviate’ nel database di Gantz, ottenere la libertà per sé stessi. PHASE 2: KATASTROPHE Il secondo arco narrativo introduce nuovi personaggi e prevede missioni anche al di fuori di Tokyo (missioni di Osaka e di Roma), oltre a coinvolgere più squadre di gantzer in contemporanea. La cooperazione e la sinergia non sono tuttavia elementi scontati tra i partecipanti. Nel frattempo, seguendo le indagini effettuate da

un giornalista indipendente, Seiichi Kikuchi, vengono lentamente approfondite le reali origini di Gantz: a gestire la produzione e la distribuzione su scala mondiale delle sfere nere vi è un ricco industriale tedesco, Heinz Bernstein, e parrebbe che grossi gruppi industriali, così come i governi, siano a conoscenza del fenomeno. Dietro tutto si celano delle razze aliene che hanno trovato nella figlia di Bernstein, muta fino all’età di tre anni, una sorta di ‘canale ricetrasmittente’ per comunicare ai terrestri le informazioni necessarie a produrre avveniristici equipaggiamenti, allo scopo di preparare l’umanità a un’imminente catastrofe, come lascia intendere il titolo stesso di questo ciclo narrativo. PHASE 3: INVASION Nell’ultima parte del manga emerge la verità sulle creature affrontate dai gantzer: sono fondamentalmente degli esuli, alieni rifugiatisi sulla Terra per sfuggire alla devastazione portata nei loro mondi da una bellicosa razza di giganti antropomorfi. Quando quest’ultima, inaspettatamente, raggiunge anche la Terra, gettando il mondo nel caos e dando

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Dal capitolo 280, IL PRELUDIO DELLA CATASTROFE PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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Dal capitolo 280, IL PRELUDIO DELLA CATASTROFE PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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vita a uno sterminio di massa, solamente i gantzer riescono a opporsi, forti delle armi in loro possesso e della possibilità di teletrasporto fornita dalle sfere nere. Vengono a crearsi due fronti: uno nello spazio, a bordo delle immense astronavi aliene, dove si lotta per liberare i prigionieri umani prima che vengano usati letteralmente come cibo e per scongiurare ulteriori ondate di invasori; e uno sulla Terra, con strategie da parte degli alieni conquistatori che variano dall’utilizzo di imponenti mecha corazzati in battaglie campali allo sfruttamento dei mass media da aizzare contro i gantzer. Nel contesto di questa guerra tra mondi, verranno infine svelati anche gli ultimi misteri sugli alieni, sulle sfere nere e su concetti quali ‘anima’ e ‘divinità’. GANTZ E ALTRI MEDIA Gantz non è così lineare come la sintesi potrebbe indurre a credere. Sono molteplici i cambiamenti proposti da Hiroya Oku, per delineare i personaggi che di volta in volta si avvicendano nelle diverse sessioni e per introdurre elementi paralleli alla storia, come l’indagine del giornalista Seiichi Kiku-

chi, oppure la comparsa di un gruppo di vampiri inizialmente ostili ai gantzer, che per alcuni capitoli riescono a sviare l’attenzione dei lettori dando una decisa virata alla trama – e generando un po’ di perplessità. Nel tessere questi intrecci l’autore si è dimostrato piuttosto eclettico ma, più che fantasia e originalità, la sua è una sorta di rielaborazione di elementi già visti al cinema (o nel suo precedente manga, 01), senza troppa badare alla coesione generale. È facile individuare nelle pagine richiami a produzioni hollywoodiane: ne sono esempi evidenti la presenza di vampiri in concomitanza con le uscite della trilogia di Twilight e l’impostazione iniziale della phase 3 che allude a La Guerra dei Mondi versione Spielberg; in una delle sessioni appaiono addirittura dei dinosauri, ammiccanti a Jurassic Park, oppure un alieno d’aspetto simile a ‘Spider’ Smith di Lost in Space. La stessa presenza di creature extraterrestri esuli sul nostro pianeta rimanda a Men in Black. Non mancano neppure gli omaggi a personaggi dello spettacolo, come George Clooney e Steve Buscemi, che danno volto a due gantzer, o il can-

GANTZ MINUS

PANINI COMICS ISBN-13: 9788891250513

GANTZ EXA

PANINI COMICS ISBN-13: 9788891252760

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tante folk Seiji Tanaka, preso a modello per l’alieno Tanaka, nemico da abbattere nella seconda missione. Le citazioni non si fermano al cinema ma coinvolgono videogame (con personaggi identici agli eroi di Tomb Raider, Virtua Fighter, Tekken…), altri manga e anime, ed elementi della mitologia nipponica. Tutta questa abbondanza di suggestioni e rielaborazioni, sia pure mescolate in modo a volte troppo disinvolto, contribuisce a suscitare interesse e a creare una sorta di gioco con i lettori, i quali possono divertirsi nel ritrovare volti o icone familiari. Il discreto successo conseguito su scala internazionale si è tradotto nella realizzazione di ulteriori opere corollarie che vanno ad arricchire l’universo creato da Oku. Collegate alla serie originale vi sono le due light novel: Gantz Minus, pubblicata nel 2010, che funge da prequel per gli avvenimenti del manga, e Gantz Exa, del 2011, incentrata sulle vicende di un gruppo di astronauti che entra in contatto con le misteriose sfere nere. Nello stesso periodo sono stati realizzati due live-action, Gantz e Gantz: Perfect Answer, entrambi per la regia di Shinsuke Sato. Risale invece al 2009 Gantz/Osaka una miniserie manga che segue le missioni del gruppo di gantzer di Osaka; mentre è del 2004 il volume intitolato Gantz/Manual in cui vengono raccolti dettagli e spiegazioni dell’autore in merito a personaggi, equipaggiamenti e vicende descritte nel fumetto. Sempre al 2004, targata Studio Gonzo, risale l’omonima Gantz, serie animata di 26 episodi divisa in due stagioni denominate Gantz: The First Stage e Gantz: The Second Stage, che ripropone la fase iniziale del manga.

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ELEMENTI DI SUCCESSO: TECNOLOGIA E PUPE SEXY La continua varietà di equipaggiamenti e armamenti è l’espediente narrativo che Oku utilizza per mantenere l’attrattiva delle storie, capitolo dopo capitolo, confezionando un microcosmo tecnologico a uso e consumo dei gantzer. Si va dalle imprescindibili katane giapponesi alle armi più avanzate e fantasiose, come lo Z-gun, capace di produrre una devastante pressione verticale nell’area verso cui viene orientato. Non mancano poi congegni per l’invisibilità, futuribili veicoli motorizzati (uno di essi ricorda la Rimfire vista nel cartone Spiral Zone) e giganteschi mecha corazzati, echi dei grandi classici della produzione animata giapponese. Senza dimenticare le aderentissime gantz suit (e le loro versioni fortificate, le hard suit dalle gigantesche braccia robotiche) che garantiscono un notevole potenziamento fisico, e sul piano visivo rappresentano l’equivalente delle classiche calzamaglie dei supereroi. L’estetica molto curata, elegante e di forte impatto, con notevole attenzione ai particolari, conferisce ad armi e tute una formidabile impronta futuristica contribuendo senza dubbio alla qualità dell’opera. Oltre all’equipaggiamento proposto e ai power-up introdotti con dinamiche similari a quelle dei videogame, risulta molto suggestiva e vincente anche la soluzione visiva escogitata dall’autore per il teletrasporto: un raggio prodotto dalla sfera nera inizia a disintegrare il personaggio, dalla testa ai piedi, mentre sezione per sezione esso viene ‘ricostruito’ nel luogo di destinazione, per cui può capitare che

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GANTZ OSAKA VOL. #1

SHUEISHA ISBN-13: 9784088767352

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SHUEISHA ISBN-13: 9784088767352

parte del suo corpo si trovi nell’appartamento della sfera nera e parte – esposta ed indifesa – sia già sul luogo della caccia. Il parallelo con il mondo dei videogame è evidente: la struttura delle sessioni, di difficoltà via via più complessa, ricalca le dinamiche videoludiche dove attività di esplorazione si alternano a combattimenti contro molti avversari di basso profilo (seppur letali), fino a scovare il boss di fine livello che spesso si rivela dotato di capacità terrificanti. Analogamente a quanto avviene nei popolarissimi MMORPG, è inoltre possibile giocare in solitaria oppure svolgendo lavoro di squadra, cooperando ma a prezzo di un punteggio inferiore. Accanto all’elemento tecnologico e all’impostazione video ludica, un altro fattore che senza dubbio ha contribuito al successo del manga è la presenza di belle ragazze, spesso molto formose e discinte, sia all’interno della storia sia negli intermezzi presenti tra un capitolo e l’altro, quasi fossero testimonial per qualche réclame: un fan service che risponde a esigenze di marketing oltre ad assecondare i gusti dell’autore, stando a quanto

da lui stesso confermato in varie interviste (va ricordato che Hiroya Oku ha iniziato la propria carriera come assistente di Naoki Yamamoto, prolifico autore di manga per lo più di genere hentai). Questa strategia sembra comunque aver raggiunto l’obbiettivo, almeno per quanto riguarda il pubblico maschile, solleticando interessi pruriginosi da parte dei lettori e traducendosi in svariati milioni di copie vendute. Nello stile di disegno si avverte una forte attenzione al dettaglio, sia per quanto riguarda ambientazioni ed equipaggiamenti, sia in termini di anatomie e fisionomie, soprattutto nei primi piani e nelle scene di nudo; le figure sono molto ben delineate e le sensazioni provate dai personaggi vengono rese con enfasi. Le tavole sono suggestive, non si lesinano primi piani di forte impatto e scene piuttosto cruente. Sebbene il pesante utilizzo del disegno al computer possa far storcere il naso ai puristi, rendendo Gantz forse più freddo e impersonale rispetto a manga disegnati con tecniche ‘tradizional’, vi si respira comunque un’aria di pulizia e chiarezza non così scontata in altre opere di produzio-

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Dal capitolo 274, RAFFICA DI PROIETTILI UMANI PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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Dal capitolo 311, UNA SPERANZA DALL’INVISIBILE PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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ne nipponica. L’impressione globale è quella di un ‘anime stampato’ più che un manga vero e proprio. I PERSONAGGI La presenza di innumerevoli personaggi, che non sempre rimangono in vita a lungo o che vengono resuscitati o clonati, rappresenta un elemento bivalente che, da un lato, può suscitare la curiosità dei lettori, instaurando i medesimi principi su cui si basano i moderni reality-show, dall’altro può risultare spiazzante, soprattutto quando si assiste a improvvisi stermini, come avviene nella missione ‘Buddhist Temple Alien Mission’ a cui sopravvive solo Kei Kurono. Di contro, rispetto ad altre serie dal nutrito cast tuttora in corso (Bleach, Naruto o One Piece per citarne alcune), viene concesso poco spazio per esplorare il background dei gantzer, incalzati da un ritmo narrativo tutto focalizzato sulla spettacolarità dei combattimenti, sui colpi di scena e sulla crudezza di certe situazioni. Capita inoltre che permangano misteri irrisolti e subentrino a volte contraddizioni, difetti che sarebbe stato possibile limare se solo si fosse allentato un poco il ritmo per

dedicare maggior spazio alle spiegazioni, fugando così la sensazione di assistere a dinamiche entropiche già riscontrate in opere quali Bastard!! di Kazushi Hagiwara o Hunter x Hunter di Yoshihiro Togashi, dove l’estro e la creatività degli autori finisce col generare confusione e incoerenze. Tra i personaggi principali, Kei Kurono è senza dubbio quello più presente e caratterizzato; attorno a lui si sviluppa la maggior parte degli eventi. Caparbio, impulsivo, orgoglioso, volubile, a tratti insopportabile; all’inizio del manga si dimostra anche opportunista ed egoista. Traspare da lui – e dalla ripetuta ricerca di una compagna con cui soddisfare i suoi bisogni carnali – una forte necessità di affermazione e di contatto fisico. L’essere morto e poi risorto solo per divenire una pedina in un gioco perverso è, comprensibilmente, motivo di tensione. Le vicende e le angoscianti sessioni di caccia affrontate, in cui trovano la morte i suoi compagni – o quelle combattute in solitaria, a volte addirittura senza gantz suit –, lo obbligheranno a cambiare atteggiamento: stringerà una relazione con Tae Kojima, e diverrà un

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Anno: 2010 Regia: SHINSUKE SATO

GANTZ: PERFECT ANSWER

Anno: 2011 Regia: SHINSUKE SATO

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GANTZ VOL. #21

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leader naturale a cui compagni e mondo intero affideranno ogni speranza di sopravvivenza. La crudeltà e la truculenza di cui è testimone lo porteranno quindi a comprendere il valore della vita e dei sentimenti, a sconfiggere il senso di solitudine che lo attanaglia, a maturare e a migliorarsi. Masaru Kato, alle spalle una pesante situazione familiare e un fratello minore a cui badare, è invece un ragazzo pacato e responsabile, altruista, alto e di bell’aspetto: una sorta di fidanzato ideale per le ragazze giapponesi. Consapevole dell’importanza di cooperare per sopravvivere alle missioni, la sua figura incarna valori ideali come il rispetto, la giustizia e lo spirito di sacrificio. Accanto a questi due protagonisti si avvicendano numerosi comprimari; di alcuni viene tratteggiata una minima caratterizzazione, altri sono fondamentalmente delle comparse funzionali a fornire chiavi di lettura o spiegazioni, come un teppista che si azzarda a usare una X-Gun al di fuori delle missioni, venendo ‘consumato’ dalla stessa; oppure i gantzer di altre squadre che evidenziano differenti modi di affrontare la pro-

pria condizione di schiavi in un contesto in cui vita e morte non hanno più alcun significato: nella squadra di Osaka troviamo ad esempio Hanaki Kyou che fa ricorso all’eroina, Kuwabara Kazuo, un vero e proprio maniaco sessuale, e Hachiro Oka, che ha completato il ‘gioco’ per ben otto volte ma continua a parteciparvi, agendo sempre in solitaria. Tornando alla squadra di Tokyo… tra i comprimari più importanti per lo sviluppo della storia c’è la morbida Kei Kishimoto, dall’indole dolce e tranquilla: ‘arruolata’ da Gantz dopo essersi suicidata, inizierà a maturare maggior stima di sé stessa anche grazie all’incontro con Kato, di cui si innamorerà; Kurono a sua volta si invaghirà della ragazza, senza venirne ricambiato, e le offrirà ospitalità nel suo appartamento innescando una sorta di triangolo sentimentale. Hiroto Sakurai è invece un impacciato liceale vittima di bullismo che sviluppa notevoli poteri ESP insegnatigli dallo scanzonato telecineta Kenzo Sakata, gantzer anch’esso che chiederà di non venir mai più resuscitato, annientato dalla troppa violenza delle missioni; il massiccio Daizaemon Kaze, laco-

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Dal capitolo 150, LEADER PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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Dal capitolo 311, UNA SPERANZA DALL’INVISIBILE PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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nico praticante di arti marziali alla ricerca di avversari forti con cui misurarsi, finirà invece per trovare l’amore, e deciderà di prendersi cura del piccolo Takeshi Koumotoe, finito al cospetto della sfera nera vittima delle sevizie dei propri genitori. Infine troviamo Reika Shimohira, una popolare idol giapponese, infatuata del carismatico Kurono di cui, dopo essere stata rifiutata, realizzerà un clone chiedendo a Gantz di resuscitarlo; e Tae Kojima, timida, poco appariscente, dai tratti infantili, che pur non combaciando affatto con i ricorrenti prototipi di femmina pubblicizzati diventa personaggio importante per la storia (addirittura obbiettivo di una missione di Gantz), nonché compagna del Kei Kurono ‘originale’. Tra i personaggi più controversi troviamo: Hikawa, il leader del gruppo di vampiri introdotti sul finire della prima phase (si tratta di persone mutate da nano macchine), che nel dare la caccia a Kei Kurono finirà col partecipare suo malgrado alle sessioni dei gantzer; Joichiro Nishi, studente delle medie, cupo, individualista e calcolatore, che sembra possedere molte informazioni su Gantz; Izumi Shion, alto e

prestante, talmente ossessionato da Gantz da compiere una strage nel ‘mondo reale’ pur di rientrare nel gioco dopo esserne stato liberato. Nel corso della storia vengono poi tessute relazioni e sottotrame che coinvolgono i vari personaggi, creando parallelismi e rimandi, ma senza mai svelare troppo, vedasi il legame tra Joichiro Nishi e Izumi Shion, che in passato sembrano aver militato assieme nelle sessioni di Gantz. Questa tattica riesce a solleticare l’interesse dei lettori senza appesantire la narrazione con digressioni e flashback, ma rappresenta anche un limite in un’opera che per questo risulta sì variegata ma poco approfondita. ALIENI O DIVINITÀ? Nella parte finale del manga, pur mantenendo l’attenzione sugli scontri, gran parte delle azioni sono ambientate a bordo delle astronavi aliene, concedendo scorci sullo stile di vita degli invasori. Al di là delle gigantesche dimensioni e di alcune differenze fisiche, costoro non risultano poi tanto diversi dagli uomini. Nel corso della guerra globale che si innesca tra la razza umana e quella degli alieni giganti,

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GANTZ VOL. #30

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GANTZ VOL. #31

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GANTZ VOL. #37

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l’autore trova l’occasione di fornire alcune spiegazioni sulle sfere nere e sull’origine della vita: i gantzer finiscono in una stanza bianca (la ‘Stanza della Verità’) dove stazionano due enormi creature che continuano a mutare aspetto, generando all’interno del torso e della testa il volto di personaggi noti della storia umana oppure creature animali; questi esseri sono in grado di fornire risposta a qualunque domanda venga loro posta. Con un distacco assoluto viene così rivelato che non esistono divinità, anima o aldilà, e che i processi esistenziali riguardano solo la mutazione della materia, quella stessa materia che le due entità possono manipolare a piacimento analogamente a come riesce a fare la tecnologia di Gantz, i cui principi sono stati comunicati ai terrestri perché potessero opporsi agli invasori (non tanto per simpatia verso il genere umano, ma per preservare un certo equilibrio cosmico). Nell’arco di una manciata di capitoli, Hiroya Oku fornisce al lettore una chiave di interpretazione della storia e di alcuni dei misteri lasciati in sospeso, ma senza concedere molto tempo per metabolizzare le rivelazioni:

come un’epifania, gli esseri svaniscono e i gantzer tornano all’emergenza rappresentata dagli invasori, fino al confronto finale che vedrà l’umanità trionfare o perire. CONCLUSIONE Senza dubbio Gantz è un’opera sfaccettata e interessante, che ha dalla sua un notevole impatto grafico e una discreta versatilità nel gestire personaggi e situazioni, e nel produrre shock al lettore in termini di colpi di scena e rivelazioni. Come già accennato, l’aspetto visivo è un elemento fondamentale, con tavole pregne di elementi, mai caotiche, nelle quali regna il potere della computer graphic. Il dettaglio di certe ambientazioni sfiora talvolta il fotorealismo così come le tavole dedicate ai personaggi risultano molto pulite e nitide, con grande attenzione ai volti e alle loro reazioni. In un contesto destabilizzante come quello offerto da Gantz, in cui la vita umana sembra non avere valore e tutto si riduce alla mera fisicità, l’enfasi posta sull’emotività dei personaggi diviene un tramite per creare un contrasto e per coinvolgere il lettore. Con l’avanzare dei capitoli si nota un certo mi-

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Dal capitolo 378, AFFRONTARE IL PESO PIÙ GRANDE PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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Dal capitolo 360, CONFESSIONE E PENTIMENTO PANINI COMICS (GANTZ © 2000 by Hiroya Oku/SHUEISHA Inc.)

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glioramento, con tratti sempre più maturi ed efficaci nella resa estetica dei personaggi, umani o mostri che siano, e nel complesso lo stile dell’autore si assesta su ottimi livelli di spettacolarità. L’estetica, soprattutto quella degli alieni, è molto particolare e mai univoca: seppure vi siano evidenti richiami a produzioni hollywoodiane o alla mitologia nipponica, questi elementi costituiscono per lo più una base con cui l’autore può dare sfoggio della propria creatività. Parafrasando la scioccante rivelazione della Stanza della Verità, tutto è cambiamento, materiale da manipolare, distruggere e rimodellare a piacere. E gli alieni puntualmente non lesinano propaggini e duplicazioni di parti anatomiche. L’ottimo stile grafico, enfatizza le scene di lotta regalando momenti di rara crudezza: tra arti smembrati, teste mozzate e massacri degni dei migliori film splatter, le vignette di Gantz costituiscono una visione consigliata decisamente a un pubblico maturo. L’ avvertimento può riferirsi non solo alla violenza senza inibizioni proposta nelle battaglie o nello sterminio della razza umana, ma anche a quella più sottile che riguarda aspetti distanti dalle missioni dei gantzer, come possono essere le sevizie di cui sono vittime Takeshi Koumotoe o Hiroto Sakurai, o la strage perpetrata da Izumi, riproposizione di quelle che tristemente si verificano nei licei d’oltreoceano. Abbondano scene di nudo e amplessi, alcune motivate da situazioni contingenti – vedasi gli esseri umani rapiti e trattati alla stregua di bestie – altre più forzate e disturbanti, spesso operate da deviati che vedono nelle missioni l’occasione per

sfogare le proprie depravazioni, abusando delle prede. In quest’ottica, Gantz rappresenta una sorta di cartina al tornasole del mondo giovanile giapponese che, dietro una facciata di normalità e controllo, nasconde molta repressione e un certo male di vivere determinato dalla perdita di riferimenti e di limiti. Ecco quindi che, al pari di videogame e altri media, le vicende proposte nel manga di Oku costituiscono un mix vincente di ordinarietà e di situazioni estreme, da metabolizzare però alla stregua di un gioco. Eccettuati gli ultimi capitoli in cui è in palio la salvezza dell’umanità, tutta la violenza e la pressione che i protagonisti vivono risulta fine a sé stessa, priva di scopi, a uso e consumo dei personaggi obbligati a sopravvivere e a ottenere un certo punteggio pena la derisione nella stanza della sfera nera. È difficile non leggere in questo le tensioni e le pressioni che le generazioni più giovani avvertono, soprattutto in un contesto sociale come quello giapponese in cui il tasso di suicidi è piuttosto elevato e le aspettative da soddisfare molto alte e precise sin dai tempi della scuola. Vero è che nel contesto proposto, sia che si tratti di sessioni da vivere in qualità di cacciatori, sia che si tratti di reagire all’ostilità, emerge dai personaggi molta determinazione e una gran forza di vivere. Un punto a sfavore dell’opera è purtroppo il finale: affrettato e poco incisivo, non rende giustizia al contesto fantascientifico che Hiroya Oku ha saputo creare. Ai lettori rimane quindi un po’ di amaro in bocca, per non aver visto appagate le immancabili aspettative coltivate nel corso di una storia durata oltre un decennio.<

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CULT Comics

La seducente

PALADINA

DEL MALE

di GIAMPAOLO GIAMPAOLI

Tra crimini e vendette, soprannaturale ed erotismo, si muove la più spregiudicata, perfida e affascinante protagonista del fumetto nero italiano.

E

RA IL DICEMBRE del 1964 quando appariva per la prima volta in edicola, con l’albo ‘La Legge del Male’, la serie Satanik firmata da Magnus (Roberto Raviola, disegni) e Max Bunker (Luciano Secchi, testi), destinata a portare per dieci anni un contributo unico al genere noir che imperversava in Italia nel periodo del boom economico. ‘Sorella’ di Kriminal, altro stimato personaggio della coppia Magnus & Bunker, nato pochi mesi prima e palesemente ispirato a Diabolik (1962) della sorelle Giussani, la bella e perico-

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losa Marny Bannister protagonista della saga è molto più originale, specialmente se si vuole prenderne in esame la personalità. Non c’è però bisogno di paragonare Satanik alla miriade di altri personaggi che affollavano le edicole e rendevano il noir un genere di largo consumo, produzioni di qualità spesso discutibile. Erano gli anni delle proteste e della liberalizzazione dei costumi, gli anziani rimanevano legati alle tradizioni e non avevano strumenti per comunicare con i giovani, che


LA LEGGE DEL MALE

Il primo volume della serie Satanik, pubblicato nel dicembre del 1964 da EDITORIALE CORNO.

ambivano invece a svincolarsi dai vecchi tabù: in questo contesto il noir, che proponeva storie violente e sanguinarie, rappresentava un affrancamento rispetto a ogni genere di censura moralista, da quella ufficiale ‘di Stato’ a quella del parroco di campagna che selezionava per il cinema paesano le pellicole ‘accettabili’. Di conseguenza il genere, come riscosse le preferenze dei lettori, fu subito perseguitato dai benpensanti: all’Editoriale Corno diretta da Secchi spesso giungevano i richiami delle autorità e le denunce per i numeri con le storie più macabre e cruente. Erano anche gli anni dell’emancipazione femminile, di cui le sorelle Giussani furono sostenitrici, e Satanik proponeva proprio la donna libera dal dominio dell’uomo e capace di eguagliarlo nel suo stesso ‘campo’; la malvagia eroina, infatti, in violenza e avidità non era da meno ai suoi colleghi maschi, in particolare Kriminal. Il valore e l’originalità del personaggio, però,

non si limitavano al suo essere una inedita versione al femminile dei protagonisti maschili del noir. A differenza della maggioranza delle serie simili, dove il malvagio di turno inizia immediatamente a rubare e a uccidere prima ancora d’essere presentato, la storia personale di Marny Bannister viene ben descritta dai suoi autori che, con profonda umanità, rappresentano la protagonista come una vittima quasi costretta ad abbracciare il delitto come unica forma di riscatto da una vita difficile. Non che per Kriminal o Diabolik mancassero giustificazioni più o meno comprensibili alla scelta

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SATANIK #99

Tra Genialità e Follia

SATANIK #178

L’Uomo Vestito di Grigio

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d’essersi dedicati alla delinquenza, ma la tragedia umana che li caratterizza veniva spiegata solo successivamente, quando il lettore si era già fatto un’idea negativa del personaggio, e non è comunque legata a menomazioni fisiche. Marny Bannister invece, affetta da una malattia che le deturpa il viso rendendola una sorta di freak, non può che avere un trascorso da bambina e ragazza emarginata; malgrado l’impegno nello studio, il suo aspetto le impedisce una vita serena. Con palese riferimento al capolavoro di Stevenson, come Jekyll anche la dottoressa Bannister, insegnante di chimica, si rivolge alla scienza, in questo caso chiedendo di riparare all’errore che la natura ha commesso; il risultato è anche qui un essere caratterizzato unicamente dalla malvagità. Ma, se il distinto Jekyll si trasforma nell’orrendo Hyde per separare le sue due nature, l’intento di Marny è molto più ‘innocuo’: desidera solo un volto sanato, diventare una bella donna. Riuscita nel suo intento, nasce poi in lei anche la bramosia di vendetta per tutti i soprusi subiti, e a farne per primi la spese sono le sue sorelle

Dolly e Lydia e il padre Sam, che l’hanno sempre schernita. Da questo momento inizia la vita di Satanik, donna spietata a caccia di ricchezza e fama (nel terzo numero ‘Sete di Gloria’, all’alba della sua nuova esistenza riesce addirittura a diventare per breve tempo un’attrice), che con le sue azioni nefande fa dimenticare al lettore quell’umanità alla base del suo sofferto esordio. Soltanto a circa metà della serie (composta da 231 albi) la protagonista inizierà ad attenuare la sua feroce sete di sangue, subendo un processo di umanizzazione che la accomunerà a Diabolik (e dovuto sicuramente alle pesanti critiche indirizzate agli autori). Tratti caratteristici della trama sono la presenza del soprannaturale, del sesso, di situazioni spesso sadiche, talvolta splatter, il tutto seguendo le inclinazioni criminali e scellerate della provocante antieroina. Un elemento ricorrente è la continua ricerca di un modo per rendere più duraturi possibile gli effetti della pozione che ha donato a Marny la bellezza, da lei messa a punto seguendo le teorie dell’alchimista Masopust; introdotta come docente di


chimica, Marny finirà con l’assomigliare sempre più a una sorta di strega. Al numero 200 interviene un colpo di scena che costituisce anche una svolta in direzione un po’ più ‘mitigante’ nel tenore narrativo della serie: Satanik muore bruciata per poi rinascere l’albo successivo. Ormai è uscito di scena anche il tenente Trent, avversario che per Satanik rappresentava un ulteriore stimolo ad affermare la propria personalità malvagia – e figura immancabile nel noir, basti pensare al Ginko di Diabolik e al Milton di Kriminal. Da Satanik è stato tratto nel 1968 un omonimo film, per la regia di Piero Viva-

relli, con Magda Konopka nel ruolo della protagonista. Come tante altre versioni cinematografiche di fumetti celebri, la pellicola non rende merito fino in fondo alla complessità del personaggio a cui si ispira – un giudizio simile fu riservato da Gian Luigi Bonelli anche al film di Duccio Tessari su Tex Willer. Non potendo condensare in un paio di ore l’evoluzione che un personaggio come Marny Bannister affronta in oltre duecento albi, l’unico pregio di questa trasposizione è stato quello di permettere agli appassionati di vedere una conturbante versione in carne e ossa della loro beniamina. <

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LA LEGGE DEL MALE (albo #1), pagine 5, 27

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TERRE DI

CONFINE

SEZIONE ANTOLOGICA

WWW.PLESIOEDITORE.IT

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N. 3 OTTOBRE

2014

CROW

di ©RENÁTA SZENTIRMAI renegraphics.deviantart.com


Sei un di tale narratore nto? In o un di COME v iaci la segnat SI INVIANO t ore ua ope RACCONTI E a n c h e tu al FUMETTI PER LA r la rivis a! Partecip SEZIONE ANTOLOGICA? a ta!!! 1. GENERI Terre di Confine riceve e valuta per la pubblicazione in rivista tutte le storie contenenti elementi fantastici e/o fantascientifici; quindi, a titolo indicativo: Fantascienza, Fantasy, Fantastico in generale, ma anche Horror, Gotico, Avventura, Epica, Giallo, Thriller, Distopico, Umoristico, Mistery ecc., se caratterizzati da ben riconoscibili connotati o ambientazioni o argomenti rientranti nella definizione di cui sopra. Attinenti possono essere temi come il soprannaturale, il surreale, lo strano, il perturbante, la tecnologia, il mistero, la magia, la mitologia ecc. Nel caso di opere borderline, è la Redazione a valutarne di volta in volta la pertinenza.

2. OPERE AMMESSE E DIRITTI La sezione antologica propone racconti e fumetti selezionati. Non ci sono limiti di lunghezza: eventuali opere lunghe possono essere suddivise in puntate; se ritenute eccessivamente corpose* per la pubblicazione in rivista, vengono comunque sottoposte all’attenzione dell’editore Plesio per altri possibili sviluppi editoriali. Riassumendo, esaminiamo con piacere e passione: a) racconti, *romanzi, fiabe (in lingua italiana); b) fumetti autoconclusivi o a puntate, graphic novel (in lingue italiana, ingle188

se, francese, tedesca, spagnola). Le opere possono essere sia inedite che edite, purché gli autori garantiscano il possesso dei diritti e siano pertanto in grado di autorizzare la pubblicazione a titolo gratuito. I diritti resteranno in ogni caso proprietà dei concedenti. La rivista ha finalità culturali e divulgative, nessun contributo (monetario o di qualsiasi altro genere) verrà mai chiesto all’autore da Terre di Confine per la pubblicazione. La rivista s’impegna a preservare (o migliorare, in accordo con gli autori) l’integrità artistica delle opere, e a valorizzarle in tutte le maniere compatibili con le proprie risorse tecniche ed economiche. 3. MODALITÀ DI INVIO Le opere possono essere trasmesse via e-mail a tdc.terrediconfine@gmail.com sotto forma di allegati o come link a file scaricabili dalla rete. CONTATTI Per ogni domanda o informazione, restiamo a disposizione agli indirizzi redazionali: www.terrediconfine.net www.terrediconfine.eu redazione@terrediconfine.eu


CREATION OF CONCEPT

di ©VICTOR SCORRANO www.spritzthevik.com

CYBGEN L

di CARLO GISTENI

a musica andava a tutto volume, i poster alle pareti oscillavano a ogni botta di subwoofer. C’era l’immagine computerizzata dei Metevils Cannibals, il gruppo metal-rock demoniaco di grido; c’era Mad Blood, l’idolo furioso del wrestling; c’erano le foto nude e scosciate di un paio di sex-trash model: una seduta sul water, l’altra intenta a raschiarsi una merda di cane da uno scarpone; quest’ultima aveva indosso solo gli scarponi e un passamontagna di cuoio, la prima non aveva un pelo in tutto il corpo tatuato, era schizzata d’escrementi da capo a piedi e una protesi meccanica luccicava al posto della mano sinistra. Le viscere d’un Los Angeles cop fumavano tra le mani del disgraziato, mentre l’accoltellatore quattordicenne gli orinava addosso assieme agli altri tre baby gangster (colpo da Pulitzer d’un ex oscuro reporter). La musica rimbombava nella stanzetta e i poster cambiavano colore al ritmo dell’insegna pubblicitaria di una marca di elettrostorditori da borsetta. Fuori della finestra si vedevano solo una lettera T e i tratti orizzontali d’una E, appese all’impalcatura di tubi che rivestiva la facciata da quindici anni. Diogene in pratica c’era nato con quella roba davanti alla finestra. Pareva che il co-

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mune non avesse alcuna fretta di finire. Intanto l’intonaco cadeva a pezzi, le insegne cambiavano e l’impalcatura restava. Quando Diogene andava alle elementari c’era un manifesto di plastica grande quanto l’intera facciata, e il sole filtrava nella stanza attraverso il capezzolo sinistro della regina discinta dei cellulari. Gli piaceva, quel mega capezzolo appeso sul suo micro orizzonte, ma la T rosso fuoco poi verde acqua era meglio. Specialmente quando era rossa. A dire il vero non gli andava quando virava al verde: il verde gli rubava energie. Diogene premette un pulsante e la musica cessò all’improvviso lasciando l’aria lacerata e sgomenta. Per qualche secondo tornò preda del martellare incessante dei lavori alle fognature giù in strada, poi il monitor s’accese e la ludostazione ingoiò il dischetto cromato. Un pot-pourri di rumori elettronici si mixò al baccano e un’armonica di colori cangianti si sovrappose sui poster al verde proveniente dalla finestra. Diogene si stravaccò di traverso sul letto, con la schiena appoggiata ai cuscini, prese il joypad tra le mani e regolò il volume fino a coprire i martelli pneumatici. Per mezz’ora distrusse auto, carri armati ed elicotteri, schiacciò vecchiette sui marciapiedi, rubò motociclette, caricò prostitute e stuprò scolarette sulla pubblica piazza. Poi il gioco gli venne a noia. Si versò una lattina di Under Eighteen, la quasi birra degli adolescenti trendy. Non conteneva alcol, solo qualche blando allucinogeno d’uso legale. Almeno finché la normativa non si fosse aggiornata: poi la multinazionale avrebbe cambiato qualche virgola alla molecola attiva e tutto sarebbe andato avanti anche meglio. Diogene gettò la lattina vuota sotto il letto, a far compagnia alle mutande sporche e ai calzini spaiati. Sua madre si sarebbe incazzata, facendo le pulizie. Gli piaceva farla incazzare. Era uno spasso vedere come s’infuriava per niente, quando tornava a casa, stravolta da nove ore alla cassa dell’iper e una abbondante di metrò. Se lo meritava la troia, per aver fatto scappare suo padre. Suo padre sì che era un ganzo. S’era intascato i soldi dei clienti ed era scappato all’estero chissà dove. Diogene l’avrebbe raggiunto, quando fosse riuscito a sapere dov’era. Sostituì il CD con un DVD porno, si sdraiò e si fece svogliatamente una sega. Si pulì con un calzino di spugna e nascose anche quello sotto il letto. Lo ficcò tra la parete e il materasso, spingendo giù bene per assicurarsi che finisse sul pavimento. Si alzò, aprì lo zaino di scuola e ne tirò fuori la valutazione

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quadrimestrale. Andò in bagno, ci si pulì e la gettò nella tazza. La carta era dura e lo sciacquone non riuscì a spingerla giù. Rimase a galleggiare sopra le feci. Diogene andò in cucina, si fece un toast con cipolline, conserva di nocciole, formaggio fuso e burro d’arachidi, bevve un’altra Under e tornò alla ludostazione. Stavolta inserì un gioco nuovo. Glielo aveva regalato nonna per il compleanno tre mesi prima, ma non ci aveva ancora giocato. Nonna sceglieva sempre cose pallose, ‘formative’ a suo dire. Diogene di solito le barattava per un po’ di fumo, senza manco aprire la confezione. Anche questa stava ancora ravvolta nel cellofan. ‘Cybgen’ si leggeva sotto la plastica trasparente. In copertina si vedeva un pezzo di braccio con una mano che tendeva un dito verso un’altra mano con un altro pezzo di braccio. Non era fatta al computer, sembrava molto vecchia quella roba. Pareva dipinta con sistemi primitivi: pennelli e tempera, manco aerografo e acrilici. Giusto l’illustrazione che poteva piacere a nonna. Magari c’era qualche oscuro ‘riferimento culturale’. Una cagata di gioco, con quella copertina scabeccia non si poteva manco barattare con un altro taroccato. Lo spacchettò. L’avrebbe messo su tanto per ridere, poi l’avrebbe bruciato dentro il bidè. Due ore dopo, Diogene era ancora incollato allo schermo. In fin dei conti quella roba era abbastanza ganza. Si trattava di costruire un mondo, anzi, volendo, lo scenario poteva comprendere un universo intero, ma quello nella modalità hard, per esperti. Per ora si stava impratichendo in easy mode: già ce n’era d’avanzo. Aveva iniziato mettendo a posto la luce solare, poi aveva separato le terre emerse dagli oceani e aveva popolato entrambi di dinosauri e animali fantastici. Questo nei primi settanta minuti; poi si era preso una pausa. Aveva fatto fuori due dolci confezionati e un pacco di patatine. Creare mondi metteva fame. A metà sacchetto gli era di nuovo venuta voglia d’andare al bagno. La pagellina si era inzuppata per bene. Quando tirò lo sciacquone scivolò nello scarico in un sandwich curioso. Prima di uscire dal bagno si controllò l’acne allo specchio, spremette vermicelli di pus dai brufoli infiammati e si disinfettò con lo sputo. Intanto il gioco era andato avanti: i dinosauri si erano estinti, ora il mondo era popolato da un sacco di omini, maschi e femmine, che facevano le loro faccende ed erigevano altari agli dei. Fico! Bastava gettare le premesse e dare un’occhiata ogni tanto! Però quegli ometti affannati, coi loro animali domestici e

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le loro religioni bizzarre, non gli andavano a genio. Ne salvò un gruppetto a caso assieme alle bestie più divertenti, poi selezionò ‘diluvio’ nel menù opzioni e cancellò tutto il resto sotto una valanga di pioggia. Avrebbe preferito una valanga di vomito, ma non era previsto. Era divertente vedere tutti quegli esserini virtuali infradiciarsi e annegare, le capanne crollare invase dal fango, carcasse gonfie e cadaveri come otri galleggiare nella corrente. C’era da sbellicarsi dalle risate. Anche all’idea della faccia che avrebbe fatto nonna. Non male quel gioco, l’avrebbe ripreso più avanti. Non spense, si limitò a sistemare altre opzioni e a chiudere l’audio. Voleva vedere che scenario avrebbe trovato al ritorno. Prese lo skate, controllò i cuscinetti con una ditata, l’infilò sottobraccio e uscì pensando ch’era valsa la pena di far sega a scuola. Rientrò subito, prese il suo tirapugni preferito, quello con le punte affilate, lo mise nella tasca a marsupio della felpa e uscì nuovamente. Uscendo ebbe cura di sbattere forte la porta. L’appartamento rimase vuoto. Di lì a poco la porta si riaprì ed entrò Priscilla. Priscilla era la sorella maggiore. Gettò lo zaino per terra accanto al divano e si diresse in cucina. Dimostrava un sedici, diciassette anni. Aveva capelli lunghi, lisci e neri, vestiva in jeans e canottiera. La cinta dei pantaloni lasciava scorgere qualche pelo del pube e sul dietro metà fondo schiena; la canottiera le scendeva a malapena sotto le tette, o meglio ci sarebbe scesa se le avesse avute. Aprì il frigo e s’ingozzò di tutto quel che trovò di proprio gusto. Mangiò yogurt ai lamponi, marmellata di ribes, una costa di sedano cruda intinta nel formaggio molle, bevve succo di pompelmo e latte scremato. Aveva una fame mortale. Aprì uno stipo, s’ingozzò di biscotti e ci bevve sopra ancora latte e pompelmo. Poi andò in bagno, s’inginocchiò sulla tazza, si mise due dita in gola e si liberò lo stomaco. In camera sua si mise nuda sulla bilancia, col cuore in tumulto. Le sue costole sporgenti, i fianchi e le ginocchia ossute diventavano verdi e poi rosse e poi verdi… La finestra era occupata da una T e dall’asta inclinata d’una lettera A. Prese un accappatoio di spugna, raccolse i capelli sotto una cuffia di plastica e tornò in bagno per farsi una doccia. Sotto il getto bollente s’insaponò e strofinò col guanto di crine fino a scor-

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ticarsi. Uscì dal box con la pelle pallida e opaca, quasi verdastra, chiazzata di rosso. Pareva che i colori della scritta pubblicitaria le si fossero appiccicati sul corpo. Aveva il cuore oppresso, sentiva il bisogno di scrivere qualche riga nel suo quaderno del cuore. Lo prese dallo zainetto, poi, ravvolta nell’accappatoio, si sedette alla turca sopra il divano, col quaderno in grembo. Il divano era azzurro, l’accappatoio bianco, la copertina del quaderno era rosa a fiori minuti verde pallido e arancione. I capelli scendevano picei sopra l’accappatoio. Le unghie dei piedi erano laccate di nero al pari di quelle delle mani, smozzicate con un lavoro alacre di denti. Non le piaceva la luce cangiante della sua camera, specie quel rosso sangue che le ricordava le sue mestruazioni stentate. Per fortuna lì nel soggiorno-ingresso non arrivava. Arrivava solo la luce, grigia di smog e arancione di ciminiere, del sobborgo industriale. Prese a scrivere sul quaderno con la matita viola. S’accorse subito che il colore non s’intonava alle parole. Scese dal divano e s’accosciò per cercare nello zaino la matita grigia. Per quanto frugasse non riusciva a trovarla. Le prese un attacco di stizza: Diogene, sicuramente! Non c’era posto dove non mettesse le mani. Lo odiava; lo odiava dacché era nato. Odiava lui, la mamma, e sé stessa. Anche pa’ odiava, da quando li aveva abbandonati. Il mondo faceva schifo, e ora Diogene le aveva preso la matita grigia. Entrò nella camera del fratello a pugni serrati, isterica, determinata a mettere tutto a soqquadro pur di trovarla. Non ci entrava quasi mai. Le ragazze nude appese ai muri le davano la nausea, per non parlare del poliziotto sventrato. Quello proprio non riusciva a guardarlo. Era decisa a cercare in apnea, poi sarebbe fuggita in camera propria, tra i suoi mobili di giunco e le sue foto di gatti e di uccelli. Non voleva più scrivere poesie, era troppo furiosa. Si sarebbe gettata sul letto con la testa sotto il cuscino, per non vedere le luci, e avrebbe pianto di rabbia. C’era un tanfo di calzini putridi e di sperma rappreso; il monitor della ludostazione era acceso. Sullo schermo s’affannavano figurette quasi umane. Fu incuriosita dalle didascalie che si susseguivano a piè di schermo. C’era molto dolore in quei dialoghi, e lotta e disperazione. E ancora dolore. Prese il pad e ripristinò l’audio. Sapeva come fare. Anche lei giocava ogni tanto con la realtà virtuale, ma non i giochi sanguinari di Diogene. A lei piaceva quel pupazzo volpino che cavalcava l’orso polare dentro una galleria di ghiaccio.

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Col sonoro era anche peggio: urla, pianti e voci rabbiose. Diede una rapida scorsa ai numerosi scenari. Si poteva scegliere il luogo del mondo e poi zumare e zumare, fino a isolare azioni di gruppo o singoli personaggi. Pareva un gioco molto complesso, molto reale. Selezionò e zumò. Dappertutto c’erano dolore e sopraffazione. Tornò al menù principale, mutò alcune opzioni, poi escluse il sonoro e tornò a cercare il lapis. Alla fine dovette desistere, preferiva perderlo piuttosto che frugare oltre in quel luridume. Uscì rasserenata: adesso le sovrimpressioni riportavano anche frasi d’amore, gli omini si muovevano meno convulsi, gli scenari si susseguivano più lindi, i colori erano più brillanti, il sole s’alternava pacificamente alla luna, e dappertutto, pur nel contrasto e nel dramma, trapelava una nuova speranza nascente. Diogene rientrò dopo cena. Ma’ aveva lasciato un piatto coperto sul tavolo e un foglietto con una freccia disegnata a rossetto. Sotto il piatto c’era della pastasciutta appiccicata e fredda. La freccia puntava sul microonde. Lo sportello era aperto e dentro c’erano delle crespelle al formaggio precotte e surgelate. Nel foglio c’era anche qualche riga vergata a biro. Diogene lesse: “Ciao tesoro io e Pri abbiamo cenato. Ti ho lasciato qualcosa da scaldare col microonde. Sono al Gatto Morto con Guido a farci due birre. Tieni acceso il cellulare che poi ti chiamo. Bacio, Mamma.” Guido era il ganzo di sua madre: un tipo tozzo, volgare, coi bicipiti che non stavano nelle maniche e il collo da manzo. Che ci trovava ma’ in quello stronzo? Poi un’idea gli venne. Se tanto gli dava tanto… Immaginò sua madre sodomizzata da Guido e si carezzò sopra i jeans. Scatarrò sopra la pasta rappresa, s’assicurò che il cellulare fosse spento e s’infilò in camera sua. Non aveva fame, s’era già ingozzato di cheeseburger e fish and chips al Mark Donand. Pure una maxy, s’era scolato, un’alcolica vera, alla faccia dei legislatori fessi. Mica era un problema per un minore infrangere la legge sull’alcol. Nemmeno trovare i soldi era un problema: c’erano un sacco di froci alla stazione, disposti a sganciare per farti un pompino. Certi amici suoi si vendevano il culo, lui no. Gli veniva troppo bene per le sue funzioni naturali e non voleva sciuparselo. Diede il cinque a Mad Blood sul manifesto, poi si lasciò cadere sul letto col joypad in mano. Stava come al solito di traverso al materasso, coi cuscini dietro la schiena e la nuca contro il muro.

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Venivano dei rumori attraverso la parete: dalla stanza di Pri. Sentire… C’era un parlottare concitato, urletti, qualche sospiro, schiocchi che non parevano di baci… La sorellina s’era portata il ganzo in camera. Ogni tanto le molle del letto facevano gneck! Ma non come di due che scopano, come quando uno cambia posizione di colpo. Dal tono di voce la sorellina non pareva contenta, il ganzo ridacchiava. Doveva essere Tiziano, quello rosso, allampanato, compagno di acne. Gli andava a genio, Ti. Forse per il fatto dell’acne, forse perché gli aveva dato la dritta della stazione. Ti non aveva più bisogno di far quelle cose coi froci per tirare su piccioli. Faceva il pusher adesso. Non sarebbe stata una cattiva idea chiedergli un subappalto. Era il momento giusto. Mica si dice di no a un fratello di cui ti fotti la sorella! Mollò il pad e scese dal letto. Uscendo gettò un occhio distratto allo schermo: qualcosa non andava per il verso giusto. Avrebbe controllato più tardi, ora doveva pensare a introdursi nel mondo magico dello spaccio. Entrò senza bussare: Pri aveva il top tirato sopra quel niente che s’ostinava a chiamare tette, e i pantaloni sulle caviglie. Anche gli slip, aveva calati. Ti stava in ginocchio sul letto, nudo bruco a parte i piercing, i tatuaggi e i calzini. Con una mano si tirava la testa di Pri verso il membro, quello lo teneva con l’altra. Aveva il pelo intonato ai capelli e il cazzo intonato alla faccia. Un bel presepe quei due! San Giuseppe, consorte e pargoletto. Il presepe si scompose tra gli strilli di Pri. Diogene schivò il cuscino senza fatica, Gesù bambino coi capelli rossi s’ammosciò con tutta calma. Diogene tornò in camera sua soddisfatto. Grande Tiziano! Gli spiaceva avergli interrotto lo stupro. Ma tanto quella squinzia di Pri con un altro paio di sberle gliel’avrebbe mollata. Come faceva Tiziano a tirare a Priscilla, quel mucchio d’ossa con la testa tra le nuvole? Si sedette pensando che nel mondo, quello reale, accadevano un sacco di fatti incomprensibili. CAZZO se le cose non andavano per il verso giusto sullo schermo della ludostazione! Diogene ci mise un po’ per controllare il mondo. Pareva che dappertutto regnasse amore, una roba da vomito! Nessun omino aveva troppo e tutti avevano abbastanza, le coppie si formavano e mettevano al mondo i figli con amore, la gente aveva poche necessità, semplici e naturali; i popoli andavano d’amore e d’accordo, il concetto di fratellanza soverchiava l’idea di nazione, le calamità naturali provocavano gare di soli-

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darietà, i governi erano illuminati o non esistevano affatto; l’arte, la musica e la letteratura regnavano sovrane e chiunque poteva esprimere la propria creatività; dovunque si faceva cultura e la filosofia imperante propugnava la tolleranza, il rispetto e l’amore per il prossimo. Non esistevano religioni, tantomeno di stato, ma una religiosità diffusa che apriva i cuori e allargava le menti. Tutti ammiravano la bellezza del creato e il creato era dovunque pervaso di bellezza. Cazzo, cazzo, cazzo! Ma così non c’era più divertimento, solo nausea melensa, una roba da tagliarsi le vene! Bisognava correre ai ripari. Per fortuna in certe cose lui era un genio. Alzò il livello generale d’ansia e di sospetto, tarò a stecca la smania di potere, creò religioni integraliste e le mischiò col potere politico, distribuì odio a man bassa, formò e inserì leader politici avidi e corrotti, istituì servizi di intelligence abilissimi nella disinformazione, impiantò multinazionali bramose di profitto e sparse in ogni dove industrie inquinanti, mise trivelle petrolifere in Alaska, in Oriente e nei paradisi marini, profanò i templi della natura, mercificò l’arte e asservì la cultura, abbassò la percezione generale dell’estetica, suggerì bisogni fittizi, spostò i cursori dalla posizione essere alla posizione avere e da conoscere ad apparire… Fu una bella fatica, ma ne valse la pena. Come ebbe sistemato l’ultima opzione, rifece uno zapping esplorativo: già si vedevano i primi conflitti, l’intolleranza, razziale e religiosa, si diffondeva a velocità crescente, dappertutto si faceva sesso ma senza l’ombra d’amore. Ora sì c’era di che divertirsi! Quei tipi dalla pelle scura che si mutilavano a colpi di machete nelle terre del sud erano grandi! Fico tutto quel sangue che spruzzava dai moncherini, fichi gli sguardi stupiti e sgomenti quando si vedevano gambe e mani separate dal corpo! Fantastiche le cataste di corpi che imputridivano le acque del fiume! Molto meglio, molto fico, molto splatter. Anche dalle mine a forma di bambola poteva trarre scene mica male. Nemmeno un attimo d’esitazione: nell’apposita casella spostò il puntatore da rifiuta ad approva e confermò. Perché mai avrebbe dovuto salvaguardare i bambini? Vederli saltare per aria e poi mutilati, urlanti e piangenti lo faceva sballare dal ridere. A ogni esplosione si faceva una gran risata ballando sopra il letto. Pure utilizzarli come magazzini ricambi lo divertiva un mondo. Gli piaceva vederli vendere o rapire, poi vivisezionare e depredare degli organi interni. Cosa non avrebbero fatto quelle cariatidi putride e ricche sfondate per poter ammorbare l’atmosfera ancora

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un giorno col loro fiato di zombi! Eh sì, gran cosa l’egoismo! Peccato il cursore fosse già a fine corsa. Anche l’idea di turismo di cert’altri marpioni era mica male. Con una zumata su un collegio di religiosi si procurò un master in pedofilia. Era bello vedere tutto e fare e disfare a suo piacimento. Quel gioco gli andava a genio: lo faceva sentire onnipotente e onnisciente. Dio, si sentiva! Zumò ancora una violenza di gruppo su una ragazzina di colore, ci si masturbò di gusto, poi crollò esausto e s’addormentò. Il mattino seguente Priscilla s’alzò dolorante e coperta di lividi. Aveva nausea e una gran voglia di piangere. In bagno, pulendosi, trovò tracce di sangue nella carta igienica. Si mise sotto la doccia e sfregò con rabbia sui lividi. Le sue lacrime calde si diluivano nell’acqua fredda. In cucina ma’ aveva lasciato la colazione pronta sul tavolo. Pri mise tre dita nella marmellata di more e se ne riempì la bocca: il suo corpo le chiedeva cibo, malgrado la nausea. Controllò il primo conato spalmando marmellata dentro e intorno alla bocca, poi non ce la fece più e si lasciò andare sul pavimento, raggomitolata come un feto. Con una mano si teneva lo stomaco scosso dagli spasmi, con l’altra cercava di rimettersi in bocca la marmellata mista col vomito. Tornò sotto la doccia, poi s’intabarrò in un telo di spugna, strizzò e raccolse i capelli e si fissò nello specchio: nelle orbite bistrate di sofferenza i suoi occhi brillavano di febbre. I capelli le scivolarono sulle spalle: anche bagnati erano la cosa più bella che avesse. Prese le forbici e ne tagliò via ciocche lunghe e irregolari. Si buttò addosso una felpa tre misure più grande, poi tornò in cucina e bevve una tazza di tè. Questo riuscì a tenerlo. L’orologio a batteria ticchettava sulla parete con un rumore stizzoso, come le prime gocce d’un temporale. Era ancora presto, ma decise che per quel giorno avrebbe fatto sega a scuola. Diogene però doveva svegliarlo. Ma’ aveva ancora qualche remota speranza che non buttasse via l’anno. Accostò il viso alla porta e lo chiamò due volte, poi la spinse ed entrò. Il fratello dormiva mezzo vestito, col copriletto rigirato attorno alle gambe e la testa sotto il cuscino. Fuori dalla finestra, imperterrita anche nella luce grumosa del giorno, l’insegna dava il suo contributo all’effetto serra. Chiamò: «Diòoo!»

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Poi: «Diogene?» Poi: «Diò» un altro paio di volte, scuotendolo. Lui la colpì col cuscino, la mandò ‘in culo’ e mollò un peto nella sua direzione. Come il fratello fu uscito, Pri tornò nella sua stanza. Già prima aveva notato i colori macabri e stridenti che s’agitavano sul monitor della ludo, ma con lui presente non si sarebbe mai azzardata. Si sedette col pad in mano e fece uno scan generale. Dio mio! Si portò una mano alla bocca e lasciò scorrere le prime lacrime. Miodio, miodio, miodio, quanta sofferenza! Un mondo di storpi, pazzi e confusi; pornografia, droga, disperazione; lotte economiche, di razza, di religione; tutti in guerra con tutto e con sé stessi; la natura umiliata, stuprata e offesa; l’umanità alienata, sfruttata e vilipesa; i corpi violentati, mutilati, mercificati; le menti torturate, lavate, annullate! Immaginò il ghigno di Diò, il suo divertimento maligno, la sua soddisfazione perversa nel premere i comandi che mandavano nel mondo virtuale uragani, eruzioni, epidemie… Un’entità crudele compiaciuta del proprio umorismo sanguinario, plagiata dalle divinità mediatiche affisse in effigie alle pareti del suo santuario. Ebbe per lui una pietà sconfinata. E per il suo creato. C’era troppo, troppo dolore nel mondo ideato e manipolato da Diogene! Virtuale la terra, la luce degli astri; virtuali gli oceani, gli animali, le piante e la gente… ma in ogni elemento dolore vero: sofferenza concreta e tangibile come quella che l’assediava nella realtà quotidiana. Per giunta compressa, condensata… esposta in ogni lurida scena, esplorabile in ogni sordido anfratto. L’emanazione di tanto dolore l’assalì alla bocca dello stomaco, le annebbiò la vista, le sopraffece il pensiero. Pri scivolò a terra e vomitò sul joypad una boccata di bava e fiele. E del pianto d’ogni singola cellula del suo organismo anoressico. Poi si riprese. Non poteva abbandonare tutti quegli omini disperati e dolenti, in ostaggio del dio crudele che li aveva creati non per amore ma per compiacersi di sé e occupare il tempo ridendo delle loro miserie. Si rimise ai comandi e tentò l’impossibile. Per ore estenuanti, febbrili, convulse, tentò e tentò e tentò ancora, senza riuscire. Invano spostò i cursori, scelse opzioni di gioia, bellezza e sapere; inutilmente s’accanì contro i governi supernazionali, contro i poteri occulti, contro l’intelligence, contro i profitti delle multinazionali, contro l’ansia, l’impotenza e il delirio globalizzati. Priscilla tentò: progettò uomini d’anima e di pensiero e li inserì

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nel gioco perché diffondessero insegnamenti di tolleranza, religiosità e non violenza; fece artisti sublimi capaci di commuovere i sassi; sparse i germi della musica che risuonava nel suo cuore di fanciulla offesa; plasmò capi carismatici che portassero i popoli oltraggiatati alla rivolta. Nel gioco il potere isolò alcuni dei pensatori e li ridusse all’indigenza, altri corruppe e ricattò, altri ancora inglobò nel sistema tributandogli onori e svuotandone il pensiero dei contenuti. Alcuni non si piegarono né furono assimilati o isolati: sparsero la coscienza dei diritti di tutti gli omini e fecero proseliti. Come si contarono videro d’essere in molti, avanzarono le loro richieste ma furono spazzati via con le armi, con la povertà, con la droga. Gli artisti si rivolsero invano alle coscienze rincretinite coll’incertezza e coll’ansia, aggiogate alla scrivania e al tornio, private del tempo per contemplare e creare. La musica della nostalgia e del desiderio d’amore si tramutò in espressione di rabbia, le sue note struggenti divennero gemiti e urla di schiavi tormentati. I capi carismatici furono assassinati, i rivoltosi incarcerati, torturati e fatti sparire. La loro disfatta fu sfruttata come esempio per intimidire gli irrequieti; le loro lotte furono mistificate, travisate, storpiate, derise e consegnate deformi alla storia. Il grido di libertà fu misconosciuto dai media corrotti, ogni eco nelle coscienze rimosso coi reality show o sepolto sotto cumuli di telespazzatura. Il gioco era andato troppo avanti e non c’era più nulla che potesse ripristinare nel mondo la purezza primigenia; il male permeava ogni singolo bit del processore e niente poteva arrestare la marea crescente di dolore. Le creature virtuali erano fatte d’energia, d’energia il loro mondo; il male era fatto d’energia negativa e contaminante. Priscilla pensò che perfino il volpachiotto e l’orso, contaminati, non avrebbero più potuto saltare spensierati nel ghiaccio ma solo raggelare e soffrire. Il male straripava dalla ludostazione e invadeva con miasmi mefitici l’atmosfera già puzzolente della stanza di Diogene. Anche il mondo reale, Priscilla pensò, era fatto d’energia negativa, e lei ne era contaminata. Il male s’annidava nel suo petto scarno e ansante, nel suo utero anoressico e sterile. Per questo non c’era più nulla che potesse tentare. Fece la sua ultima doccia, si vesti sulla pelle nuda del velo quasi nuziale della prima comunione, poi aprì la finestra e salì sull’impalcatura. A metà volo, la lettera T virò dal verde smeraldo al rosso. <

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COOL AIR, TAVOLA #1

Dall’adattamento a fumetti disegnato da BERNIE WRIGHTSON, rivista Eerie n. 62 del gennaio 1975.

ARIA FREDDA (Cool Air, 1926) di HOWARD PHILLIPS LOVECRAFT traduzione di MASSIMO DE FAVERI e ANDREA CARTA

M

i chiedete di spiegare perché io abbia paura d’un soffio d’aria fredda; per­ché nell’entrare in una stanza gelida io mi senta più a disagio degli altri, e provi nausea e ribrezzo se il fresco della sera s’insinua nel tepore di una mite giornata d’autunno. C’è chi dice che io reagisca al freddo come altri ai cattivi odori, e lungi da me negare quest’impressione. Ciò che farò, semmai, è raccontarvi l’esperienza più terrificante che io abbia mai vissuto, lasciando a voi giudicare se la cosa costituisca o meno una valida spiegazione della mia peculiarità. È sbagliato immaginare che l’orrore sia indissolubilmente associato al buio, al silenzio e alla solitudine. Io l’ho provato durante un pomeriggio luminoso, nel fragore di una metropoli, in mezzo al brulicare di una squallida e banale pensione, con accanto una prosaica padrona di casa e due uomini vigorosi. Nella prima­vera

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1923 avevo trovato un lavoro triste e poco remunerativo presso una rivista a New York; e, non potendomi permettere grossi affitti, andavo alla deriva da una pensione a buon mercato all’altra, a caccia di una stanza che combinasse le virtù di una decente pulizia, di una mobilia in stato passabile e di un prezzo ragionevole. Ben presto fu chiaro che potevo scegliere solo il minore fra vari mali, ma dopo qualche tempo capitai in una casa nella Quattordicesima Strada Ovest che mi disgustò assai meno delle altre che avevo provato. Il posto era di mattoni, a quattro piani, probabilmente dei tardi anni Quaranta, con decorazioni in legno e marmo il cui splendore, pur appannato dal tempo, indicava un retaggio d’alto livello, raffinatezza e opulen­za. Nelle camere, alte e spaziose, tappezzate da un’assurda carta da parati e decorate da pesanti, ridicole cornici di stucco, stazionavano un deprimente odore di muffa e un sentore di qualche strana cucina; ma i pavimenti erano puliti, il cambio di biancheria accettabilmente regolare, e l’acqua calda non troppo spesso fredda né centellinata. Cosicché giunsi a ritenerlo come un posto quanto meno sopportabile dove andare in letargo fino al momento di tornare a vivere davvero. La pa­drona di casa, una Spagnola sciatta e quasi barbuta di nome Herrero, evitava di annoiarmi con i suoi pettegolezzi e non protestava se tenevo la luce elettrica accesa fino a tardi, nella mia camera al terzo piano; e i miei coinquilini se ne stavano tranquilli e tacitur­ni quanto si potesse desiderare, essendo in maggior parte Spa­gnoli poco più che rozzi e grossolani. Solo il frastuono delle automobili nella strada sottostante si rivelò un fastidio serio. Ero lì da circa tre settimane quando si verificò il primo fatto strano. Una sera, verso le otto, udii rumore di schizzi sul pavimento e mi resi improvvisamente conto che già da un po’ stavo avvertendo un pungente odore di ammoniaca. Cercandone la causa, notai che il soffitto era umido e goc­ciolava; l’infiltrazione sembrava provenire da un angolo nel lato che dava sulla strada. Ansioso di bloccare la cosa sul nascere, mi affrettai a raggiungere il seminterrato per informare la padrona di casa, e fui da lei rassicurato che il problema sarebbe stato risolto rapidamente. «El dottore Muñoz» strillò, mentre correva al piano di sopra, precedendomi, «ha rovesciato sue sostanze chimiche. Lui es troppo enfermo per curarse da solo – peggiora ogni giorno que passa – ma non vuole aiuto de otros. Lui es muy bizzarro in sua malattia, tutto el giorno fa bagni con strani odo­ri, y non può agitarse o

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acalorarse. Fa da solo sue faccende domestiche ­– sua pequeña camera es piena de bottiglie y macchine, y non lavora più como dottore. Ma una volta era grande ­– mi padre, in Barcelona, ha sentito parlare de lui! – proprio de recente ha guarito el braccio de l’idraulico che all’improvviso aveva preso a fargli male. Non esce mai, va solo en el tetto, y mio figlio Esteban gli porta cibo, biancheria, medicine y prodotti chimici. Diòs, quanta ammoniaca usa este hombre para stare al fresco!». La signora Herrero sparì su per le scale del quarto piano e io tornai nella mia camera. L’ammoniaca aveva smesso di gocciolare, e mentre ne pulivo i residui e aprivo la finestra per arieggiare sentii di sopra i passi pesanti della padrona di casa. Il dottore non l’avevo mai sentito, salvo certi suoni come di un motore a benzina; i suoi passi erano leggeri e felpati. Per un attimo mi chiesi quale strana malattia lo affliggesse, e se il rifiuto ostinato di un aiuto esterno non fosse conseguenza di una sua eccentricità senza fondamento. C’è, riflettei banalmente, una tristezza infinita nella condizione di chi, una volta eminente, è poi decaduto. Non avrei mai conosciuto il dottor Muñoz se non fosse stato per l’attacco di cuore che mi colpì all’improvviso una mattina, mentre ero seduto nella mia stanza a scrivere. I medici mi ave­vano parlato del rischio di simili crisi e sapevo che non c’era tempo da perdere; così, ricordando ciò che la padrona aveva detto sull’aiuto prestato dall’invalido medico all’idraulico, mi trascinai al piano superiore e bussai debolmente alla porta soprastante la mia. Ai colpi rispose, in buon inglese, una voce incuriosita proveniente da una certa distanza sulla destra, che mi chiese come mi chiamassi e cosa volessi. Accertate le due cose, fu aperta la porta adiacente a quella a cui mi ero rivolto. Una corrente d’aria fredda mi accolse; e benché fosse una del­le giornate più calde di fine giugno rabbrividii nel varcare la soglia di un grande appartamento il cui ricco e raffinato arredamento mi sorprese, visto il rifugio squallido e trasandato nel quale ci trovavamo. Un divano-letto, ora impiegato nel suo ruolo diurno di sofà, la mobilia in mogano, le tende sontuose, i quadri antichi e le lussuose librerie facevano pensare più allo studio di un gentiluomo che alla stanza di un affittacamere. Mi accorsi allora che la stanza sopra la mia – la ‘pequeña’ camera con le bottiglie e i macchinari che la signora Herrero aveva menzionato – era semplicemente il laboratorio del dottore; e che il posto in cui viveva si trovava nella spaziosa sala attigua, le cui ampie nicchie e il largo bagno

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adiacente permettevano di te­nere nascosti armadietti di ogni tipo e strumenti utili ma ingombranti. Il dottor Muñoz era certamente un uomo di ottima famiglia, colto e distinto. La figura di fronte a me era bassa ma squisitamente proporzionata, vestita in un abito alquanto formale di taglio impeccabile. Il volto aristocratico aveva un’espressione autoritaria ma non arrogante ed era incorniciato da una corta barba color grigio ferro, mentre un antiquato pince-nez schermava gli occhi grandi e scuri, sormontando un naso aquilino che conferiva un tocco moresco a una fisionomia altrimenti decisamente celto-iberica. I capelli folti e ben curati, che implicavano il servizio puntuale di un barbiere, erano divisi con grazia sull’alta fronte; e l’impressione complessiva indicava un’evidente intelligenza e illustri natali. Nondimeno, nel vedere il dottor Muñoz in quella folata d’aria fredda provai una ripugnanza che nulla nel suo aspetto poteva giusti­ficare. Solo il suo colorito tendente al livido e il tocco gelido avreb­bero potuto fornire un presupposto fisico alla mia sensazione, per quanto, data la nota invalidità dell’uomo, fossero più che comprensibili. Magari fu pure quel freddo insolito a stranirmi: era davvero anormale in una giornata così calda, e l’anormalità suscita sempre avversione, diffidenza e paura. Ma la ripugnanza cedette il posto all’ammirazione non appena il dottore manifestò la sua estrema competenza a dispetto della freddezza e del tremore delle sue mani che parevano esangui. Comprese chiaramente le mie necessità alla prima occhiata, e vi si dedicò con l’abilità di un luminare; intanto mi assicurava, con voce finemente modulata seppure stranamente roca e senza timbro, d’essere il più accanito tra i nemici giurati del­la morte, per contrastare e debellare la quale si era consacrato, perdendo i suoi averi e tutti i suoi amici in una vita spesa in bizzarri esperimenti. Sembrava esserci in lui qualcosa del benevolo fanatico; mentre continuava i suoi sproloqui in tono garrulo mi auscultava il torace e miscelava il giusto assortimento di farmaci che aveva recuperato dal piccolo laboratorio. Evidentemente trovava che la compagnia di un uomo di buona famiglia fosse una novità insolita in quell’ambiente grigio, e così si lasciò andare a discorsi a cui non era abituato, sommerso dal ricordo dei suoi giorni migliori. La sua voce, sia pure strana, aveva almeno un effetto calmante: non lo sentivo neanche prender fiato mentre le frasi fluivano con eleganza. Cercò di distrarmi dal pensiero del malore parlando delle sue teorie e dei suoi esperi­menti; ricordo con quanto tatto

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mi consolò riguardo al mio cuore debole, insistendo che la volontà e la consapevolezza sono più forti della stessa vita organica, tant’è che la struttura corporea, se inizialmente sana e ben conservata, per mezzo di un potenziamento scientifico di tali qualità può mantenere una sorta di animazione nervosa nonostante le più serie menomazioni, difetti o perfino la mancanza di certi organi. Mi disse, semiserio, che un gior­no o l’altro mi avrebbe insegnato a vivere – o almeno a conservare una sorta di esistenza cosciente – addirittura senza il cuore! Da parte sua era affetto da un complesso di malattie tale da richiedere un regime rigoroso che includeva freddo costante. Ogni sensibile aumento della tempe­ratura, se prolungato, avrebbe potuto risultargli fatale; la rigida temperatura del suo alloggio (circa 55 o 56 gradi Fahrenheit) veniva mantenuta da un sistema frigorifero ad assorbimento di ammoniaca, del cui motore a benzina avevo spesso udito le pompe dalla mia camera sottostante. Riavutomi dal mio attacco con meravigliosa rapidità, lasciai da discepolo devoto le stanze da brivido del dotato recluso. In seguito venni a trovarlo spesso, indossando un cappotto e ascoltandolo mentre raccontava di segrete ricerche e di risultati quasi spaventosi, tremando un po’ quando esaminavo i libri non convenzionali e incredibilmente antichi posti sugli scaffali. Alla fine, posso aggiungere, guarii in modo pressoché definitivo dalla mia malattia grazie alla sua magistrale assistenza. A quanto pareva non disprezzava gli incantesimi dei medievalisti, poiché era convinto che quelle formule criptiche contenessero rari stimoli psicologici che probabilmente avrebbero potuto avere effetti singolari sulla sostanza di un sistema nervoso dal quale fosse cessata ogni pulsazione organica. Rimasi colpito dal suo resoconto sull’anziano dottor Torres di Valencia, che aveva condiviso con lui i suoi primi esperimenti nel corso della grave malattia avuta diciotto anni prima, dalla quale derivavano i suoi disturbi attuali. Non appena il venerabile medico ebbe salvato il collega, soccombette egli stesso a quel sinistro nemico contro cui aveva combattuto. Forse i suoi sforzi erano stati eccessivi; infatti, sussurrando, il dottor Muñoz chiarì – anche se non in dettaglio – che i metodi usati per guarirlo erano stati davvero straordinari, e avevano richiesto scenari e procedimenti non accettati tra i seguaci di Galeno più anziani e conservatori. Mentre le settimane passavano, osservai con rammarico che il mio nuovo amico stava lentamente ma inequivocabilmente per-

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dendo terreno sul piano fisico, proprio come aveva intuito la signora Herrero. Il colorito livido s’intensificava, la voce diven­tava più roca e indistinta, i movimenti meno coordinati, e la sua mente e la sua volontà parevano meno brillanti. Di questo tri­ste cambiamento non sembrava per niente ignaro, e a po­co a poco i suoi modi di fare e le sue conversazioni presero una piega di umorismo macabro che fece riaffiorare in me la sottile repulsione provata inizialmente. Sviluppò strani capricci, acquisendo una predilezione per gli aromi esotici e l’incenso egiziano, finché la sua stanza non prese a odorare come la tomba di un faraone sepolto nella Valle dei Re. Allo stesso tempo aumentò la sua richiesta d’aria fredda, e col mio aiuto ampliò le tubature di ammoniaca della sua stanza e modificò le pompe e l’alimentazione della macchina refri­gerante fino ad abbassare la temperatura tra i 34 e i 40 gradi Fahrenheit, e infine addirittura a 28; il bagno e il laboratorio, ovviamente, furono meno raffreddati per evitare che l’acqua gelasse e i processi chimici venissero impediti. L’inquilino della stanza accanto si lamentò dell’aria gelida che filtrava dalla porta comunicante, così lo aiutai a tappezzarla pesan­temente per ovviare al problema. Una sorta di orrore crescente, qualcosa di morboso ed esagerato, sembrò impossessarsi di Muñoz. Non faceva che parlare di morte, ma rideva raucamente quando con cautela si accennava a cose come la sepoltura o in generale le disposizioni funerarie. Insomma, diventò un compagno sconcertante e addirittura lugubre; io però, grato per avermi guarito, non potei abbandonar­lo in mano a estranei, e, avvolto in un pesante pastrano che avevo comprato appositamente, fui scrupoloso nello spolverargli la camera tutti i giorni e nel provvedere ai suoi bisogni. Inoltre, feci molte delle sue compere, restando a bocca aperta di fronte ad alcuni dei prodotti chimici che ordinava ai farmacisti o alle ditte di forniture per laboratori. Una crescente e inspiegabile atmosfera di panico sembrava diffondersi attorno all’appartamento. Come ho già detto, la casa intera puzzava di muffa; ma nelle stanze di Muñoz l’odore era ben peggiore – e questo nonostante tutte le spezie, l’incenso, e le pungenti sostanze chimiche necessarie ai bagni, ora incessanti, che il dottore insisteva a fare senza aiuti. Percepii che la cosa era connessa alla sua malattia, e rabbrividii nel riflettere su quale mai potesse essere. La signora Herrero si faceva il segno della croce quando lo vedeva, e me lo affidò senza riserve; non lasciò

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nemmeno che suo figlio Esteban continuasse a fare commissioni per lui. Quando suggerivo di chiamare altri medici, il malato faticava a trattenere la collera. Evidentemente temeva gli effetti che avrebbero avuto sul suo fisico le emozioni violente, eppure la sua forza di volontà sembrava crescere anziché scemare, e rifiutava di rimanere confinato a letto. La spossatezza dei primi giorni di malattia lasciò il posto a un ritorno dei suoi ardenti propositi, così da fargli lanciare la sfida al demone della morte, proprio mentre questo antico nemico lo stava ghermendo. Aveva ormai smesso di far finta di mangiare, cosa che, curiosamente, era sempre stata una formalità da parte sua; e soltanto il potere della mente pareva trattenerlo dal collasso totale. Il dottore prese l’abitudine di scrivere lunghi documenti che poi si­gillava con cura, e che mi raccomandava di trasmettere dopo la sua morte a certe persone che nominò – per la maggior parte letterati dell’India, ma in un caso un medico francese un tempo celebre e ora ritenuto morto, sul conto del quale si erano mormorate cose davvero inconcepibili. Alla fine ho bruciato tutte queste carte senza consegnarle né aprirle. L’aspetto e la voce di Muñoz erano diventati assolutamente spaventosi, e la sua presenza quasi insopportabile. Un giorno di settembre, un operaio che era venuto a riparare la lampada della sua scrivania fu colto da una crisi epilettica dopo averlo intravisto improvvisamente; tenendosi ben nascosto alla vista, il dottore gli prescrisse un efficace rimedio. Quell’uomo, per quanto strano possa sembrare, aveva attraversato gli orrori della Grande Guerra senza incorrere in uno spavento simile. Poi, alla metà di ottobre, l’orrore degli orrori giunse con una repentinità sorprendente. Una notte, verso le undici, la pompa della macchina frigorifera si ruppe, cosicché nel giro di tre ore il processo di raffreddamento ad ammoniaca divenne impossibile. Il dottor Muñoz mi richiamò battendo sul pavimento, e io lavorai disperatamente cercando di riparare il guasto, mentre il mio ospite lanciava maledizioni in un tono tanto spen­to, rantolante e cavernoso da sorpassare ogni descrizione. I miei sfor­zi dilettanteschi, comunque, si rivelarono di nessuna utilità; e quand’ebbi portato un meccanico da un vicino garage aperto tutta la notte, apprendemmo che nulla poteva esser fatto fino al mattino, quando avremmo potuto procurarci un pistone nuovo. La rabbia e il terrore dell’ere­mita morente lievitarono a livelli grotteschi, parendo quasi frantumare ciò che restava del suo fisico debilitato; una

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volta uno spasmo lo costrinse a met­tersi le mani sugli occhi e a correre in bagno. Ritornò brancolando, con il volto strettamente fasciato, e io non rividi mai più i suoi occhi. Il gelo dell’appartamento era sensibilmente diminuito e verso le cinque del mattino il dottore si ritirò in bagno, ordinandomi di for­nirgli tutto il ghiaccio che avrei potuto ottenere dalle farmacie notturne e dalle caffetterie. Quando tornavo dai miei viaggi a volte scoraggianti e deponevo il bottino davanti alla porta chiusa del bagno, potevo udire un irrequieto sguazzare all’interno, e una voce pesante gracchiare «Ancora… Ancora!». Alla fine spuntò un giorno caldo e i negozi aprirono uno dopo l’altro. Chiesi a Esteban di aiutare a reperire il ghiaccio men­tre io avrei cercato il pistone per la pompa, o viceversa di procurarsi il pistone mentre io avrei pensato al ghiaccio; ma, consigliato dalla madre, rifiutò categoricamente. In conclusione reclutai uno sfaccendato dall’aria trasandata che avevo incontrato all’ango­lo dell’Ottava Avenue, affinché rifornisse il paziente di ghiaccio da un negozietto che gli feci vedere, e impegnai tutto me stesso nel compito di trovare un pistone e ingaggiare gli operai capaci di montarlo. Sembrò un’impresa interminabile: mi arrabbiai, quasi con la stessa furia dell’eremita, nel constatare che le ore scivolavano via in un affannoso giro di telefonate inconcludenti, e in febbrili corse in metropolitana o in tram avanti e indietro da un posto all’altro. Verso mezzogiorno arrivai in un magazzino adeguato, molto lontano, e all’una e trenta circa fui di ritorno con l’armamentario necessario e due meccanici robusti e intelligenti. Avevo fatto tutto ciò che potevo e speravo di essere in tempo. Un oscuro terrore, tuttavia, mi aveva preceduto. La pensione era in completo subbu­glio e al di sopra del brusio di voci intimorite distinsi un uomo pregare in tono grave. Nell’aria c’era qualcosa di demoniaco, e gli inquilini recitavano sui grani dei loro rosari nel percepire l’odore che filtrava da sotto la porta chiusa del dottor Muñoz. Lo sfaccendato che avevo assunto, a quanto pareva, era scappato urlando e con gli occhi strabuzzati non molto dopo la seconda consegna di ghiaccio, forse a causa di un’eccessiva curiosità. Ovviamente non poteva aver chiuso a chiave la porta dietro di sé; ma adesso risultava serrata, presumibilmente dall’interno. Da dentro non proveniva alcun suono, salvo un lento, intenso gocciolìo. Consultatomi brevemente con la signora Herrero e con gli ope-

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rai, nonostante una paura che mi mordeva il profondo dell’anima, suggerii di abbattere la porta; ma la padrona di casa trovò il modo di far girare la chiave dall’esterno con del fil di ferro. Prima avevamo aperto le porte di tutte le stanze che davano sul quel corridoio, e spalancato tutte le fi­nestre. Ora, coi nasi protetti da fazzoletti, irrompemmo tremanti nella maledetta camera a sud, che ardeva col caldo sole del primo pomeriggio. Una specie di scura, melmosa traccia conduceva dalla porta aperta del bagno a quella sul corridoio, e di lì alla scrivania, dove si era formata una mostruosa pozza. Qualcosa era lì, scarabocchiato a matita da una orribile mano cieca, su un pezzo di carta sinistramente imbrattato da quegli stessi artigli che avevano tracciato le ultime, affrettate parole. Poi la scia si dirigeva al divano e terminava in un modo che non si può raccontare. Che cosa ci fosse, o ci fosse stato, sul divano non posso e non oso dire qui. Ma questo è ciò che decifrai rabbrividendo sul biglietto viscido, prima di estrarre un fiammifero e ridurlo in cenere; ciò che decifrai nel terrore, mentre la padrona di casa e i due operai fuggivano precipitosamente da quel posto infernale per andare a farfugliare le loro storie incoerenti alla più vicina stazione di polizia. Le parole nauseanti sembravano quasi incredibili in quella dorata luce solare, col frastuono delle automobili e dei camion che saliva rumorosamente dall’affollata Quattordicesima Strada, ma con­fesso che allora ci credetti. Se io ci creda ancora adesso, onestamente non lo so. Ci sono cose su cui è meglio non speculare, e tutto quello che posso dire è che odio l’o­dore dell’ammoniaca e mi sento svenire se avverto uno spiffero di aria più fredda del solito. «La fine», riportava quel disgustoso scarabocchio, «è arrivata. Niente più ghiaccio – l’uomo ha guardato ed è fuggito. Fa più cal­ do ogni minuto, e i tessuti non possono durare. Immagino che lei abbia capito – ciò che ho detto a proposito della volontà e dei nervi e del corpo conserva­to anche dopo che gli organi hanno cessato di funzionare. Era una buona teoria, ma non si poteva andare avanti all’infinito. C’è stato un gradua­le deterioramento che non avevo previsto. Il dottor Torres sapeva, ma lo shock l’ha ucciso. Non poteva sopportare ciò che dovette fare – dovette portarmi in un luogo strano, oscuro per acconsentire alla mia richiesta e poi farmi tornare indietro. E gli organi non avrebbero mai più funziona­to. Bisognò fare a modo mio – conservazione artificiale – perché, vede, io sono morto allora, diciotto anni fa.» <

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COOL AIR, TAVOLA #7

Dall’adattamento a fumetti disegnato da BERNIE WRIGHTSON, rivista Eerie n. 62 del gennaio 1975.

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THE PREACHER

di ©LUÍS MATOS bloodyzone.deviantart.com

L’UOMO CHE

CUCIVA

ANIME di LUCA GERMANO

«V

uole decidersi?» insistette, insofferente. «È ancora dell’idea di non uscire dalla stanza, Sara?» le chiese il prete, che invece di eseguire il suo volere se ne restava seduto. Crede forse che io possa rimanere impressionata? Braccia conserte, Sara accennò col mento verso il letto: «Lo guardi, ha mai veduto cosa più patetica?» «È suo padre…» Avrebbe dovuto significare qualcosa? «Proceda» comandò. Il prete, nel fruscio delle vesti nere, si alzò lentamente, riponendo il rosario – con il quale, era sicura, non aveva recitato nulla, sebbene si trovasse in quella stanza fin dal mattino. Nessuno poteva contraddire una Meridia: avrebbe ubbidito, come chiunque altro, e avrebbe impartito a suo padre l’estrema unzione. Così forse suo padre si sarebbe finalmente deciso a morire. Tuttavia ne dubitò quando don… come ha detto di chiamarsi?… si accostò al letto senza stringere in mano alcun simbolo della sua fede. «Gabriel Meridia, io ti conosco…» L’uomo nel letto, improvvisamente, sgranò gli occhi incavati, e l’attimo dopo fu colto da una terribile crisi: tossì sangue scuro sulle maleodoranti lenzuola ricamate, cercando invano di inspirare. Il rumore la disgustò. Muori! MUORI! La consunzione lo divorava insaziabile.

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«E tu, mi riconosci?» Suo padre iniziò a scalciare. Ad artigliare l’aria. Squassato dalla tosse, soffocato dal proprio sangue. Indifferente, il prete tracciò con le mani strani segni, sui polsi e sui piedi e poi sul petto e sulle spalle dell’infermo. Non erano croci: sembrava piuttosto che le dita stessero tirando fili invisibili e disfacendo trame. E ad ogni gesto pareva che suo padre patisse dolori più atroci. Il viso, di un giallo malsano, si ricoprì di un velo untuoso di sudore, stravolto dal dolore. Dalla bocca aperta uscivano gorgoglii raccapriccianti e lamenti soffocati. Il prete cominciò… a tirare! E il petto di suo padre si gonfiò, anche se non c’era aria nei suoi polmoni; e la schiena prese a inarcarsi, tra gli spasmi, quasi che un artiglio invisibile lo stesse strappando via dal suo letto, da quella vita cui ostinatamente restava abbarbicato. Poi accadde qualcosa di inatteso: suo padre la supplicò. Non ricordava di averlo mai visto piangere, né implorare: erano le sue vittime a farlo, non lui. Ma quella volta gli occhi del potente Meridia piangevano e supplicavano che qualcuno – lei? – ponesse termine a quel supplizio. All’improvviso ci fu lo strappo. Insieme alle vesti del sangue di Nesso intrise, brandelli della sua carne… L’urlo fu agghiacciante … Ma non era suo padre a urlare. Infine, silenzio. Il prete uscì da casa Meridia poco dopo. Chiuse gli occhi e assaporò il dolore che il capofamiglia aveva fatto patire a ogni uomo e donna che aveva incontrato, specie a sua figlia. Gustò le torture e le violenze. E per ultimo assaporò il dolore dello stesso Meridia. Il brandello di anima corrotta che gli aveva cucito addosso poco dopo la sua nascita aveva attecchito bene. Tanto nel profondo da trasferirsi nella figlia. Evento inatteso e foriero di inimmaginabili, future delizie. Tornò alla cappella che tutti veneravano non sapendo che fosse sconsacrata da anni. Quando la coppia bussò alla sua porta era pronto. «Padre siamo qui per…» «Lo so. Come intendete chiamarlo?» «Marco» risposero senza esitazione. Il prete prese tra le proprie le mani del bambino. Che iniziò a piangere. E poi i suoi piedi. E intanto cuciva… «Marco. Lieto di fare la tua conoscenza.» <

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THE HIDDEN MESSAGE

di ©BABETTE VAN DEN BERG babsartcreations.deviantart.com modella: JAMARI LIOR www.jamari-lior.com

di MATTEO PECORARO

IL MERCANTE DI CIELI

IN BOTTIGLIA S

i presentò una mattina con quell’aria da prestigiatore stanco, pallido in mezzo alla piazza grigia; dalla bocca estraeva piccoli mammiferi color cobalto che esplodevano in uno sbuffo di peli sottili come fumo quando toccavano il palmo delle sue mani. Ansimava da far pena per lo sforzo di trainare il carretto fino alla città alta attraverso la chiocciola delle strade, curvato sotto il peso degli anni e delle bottiglie che portava appese al collo con corde di canapa. Il clangore di vetri che aveva accompagnato la sua lenta ascesa alla rocca, e gli animali turchese che continuavano a disfarsi in polvere davanti al suo viso colmo di sudore… volevano servire a mendicare la nostra attenzione; non appena seppe di

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averla catturata, fu un unico gesto ricomporsi e spalancare le ante del carro straripante di bottiglie che tintinnavano al tocco delle sue dita. «Signore e signori» gridò in un crescendo insospettabile, sollevandosi ritto, i vestiti che splendevano sotto il cielo carico di nubi. Afferrò un paio di bocce opache e le agitò sopra la testa. «Le opere più grandi di Dio: il sole, il mare…» Grace… «Cento dei cieli del Vecchio Mondo. Per un soldo soltanto, i cieli che non esistono più. L’aria pura dei ghiacci sotto i bagliori fantasma delle aurore polari, così rada da farti annaspare. Guardate, guardate come dopo tanti anni appanna ancora il vetro…» non è vero, non è vero, è il respiro di Grace… «Se la respiri ti riempirà il petto di quelle luci gelide.» Parlava come si parla nei sogni: perdendo frasi, liberandole a caso nell’aria come bolle; per ognuna che pronunciava, un’altra gli rimaneva sulle labbra. «L’atmosfera abbacinante del Mediterraneo, l’odore salato e polveroso dei suoi moli. L’afflato soffocante della giungla, con i suoi fiori carnosi e ovunque l’angoscia dell’alito di belve in agguato.» E l’aria di Grace. La raccolsi tra le sue cosce, in mezzo ai suoi seni caldi, presi l’aria dei suoi baci, l’aria dei suoi occhi ardenti, l’aria crepitante dei suoi gemiti, dei suoi sorrisi che risplendevano al buio. La raccolsi tutta, attorno al suo corpo che non riusciva mai a stare fermo, fino a che non si sentì soffocare e mi strinse affannata per succhiare in prestito l’aria dei miei polmoni. Grace… la sua pelle vorace d’amore respirava più di quanto non facesse la mia bocca. La gente non faceva caso ai silenzi tra le sue parole. Si avvicinava affascinata dal rimestare di bottiglie, incuriosita dal loro contenuto invisibile, mentre il vecchio lanciava rapide occhiate al palazzo, ai profili dietro le tende delle stanze illuminate. «In qualche città ruppi una fiasca con l’aria calda della Martinica» raccontava intanto, come recitando un ricordo imparato a memoria. «Per ore tutti socchiudemmo gli occhi sotto quel sole enorme, sul mare dorato, convinti di trovarci sopravento ai Caraibi. Quando l’illusione si disperse, i nostri corpi avevano prodotto la melanina che credevano di necessitare.» Risate scettiche ma anche meravigliate, cui oppose lo spiegarsi di tele enormi, espulse dai cassetti del carro come da molle nascoste. «E stoffe che non potete nemmeno immaginare. Guardate i

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colori…» diceva palpando un lino che pareva ribollire di luci di mille tonalità, poi un drappo candido come i suoi vestiti. «Sentite la consistenza di questi tessuti. Fremono, si muovono incessantemente…» come la pelle di Grace… «Pulsano senza sosta, intessuti con vere farfalle vive» e intanto si scioglieva un filo attorno alle tasche perché un pugno di piccole farfalle bianche si levasse dai pantaloni, spargendosi sopra le teste incantate dei presenti. «E infine» annunciò nel silenzio fitto di persone «il mio articolo più prezioso…» Arrivò a mostrarlo al Governatore in persona e alla sua corte, nella sala grande del palazzo, esibendo le stesse giare di metallo scuro, con lo stesso scatto della serratura e il bagliore immenso che ne era scaturito quando ne aveva aperta una e la luce calda, naturale, aveva inondato per un interminabile istante la penombra fiacca della piazza. «La luce del nostro sole, che ancora splende sopra le nuvole che hanno sepolto il Nuovo Mondo!» La stessa esplosione di luce viva investì la sala, più forte delle lampadine, e il Governatore strinse i braccioli del sedile, alzandosi in piedi, gli occhi semichiusi contro il calore magnifico e dimenticato del sole. «Come può essere…» mormorò, mentre gli ultimi riverberi si rincorrevano sui soffitti. «Specchi, mio Signore» rispose il vecchio. Gli stessi specchi che hanno riflettuto Grace, mio Signore. Grace al mattino, assonnata; Grace la sera; il viso splendente di Grace a tutte le ore. Che sia sua la luce che rilasciano ora questi specchi? «Specchi vecchi di tanti anni da ricordare il vero riflesso delle cose illuminate dal giorno.» E se è la luce di Grace, la riconosci, mio Signore? «Ti pagherò quelle anfore a peso d’oro» esclamò il Governatore. «E a cosa ti servirà il mio sole in bottiglia?» replicò il mercante. «Usalo per i ranuncoli. Crescono smunti sotto la luce delle lampade. Il ranuncolo rosso era il suo fiore.» Un’ombra passò rapida sul volto del Signore. «Mi piacerebbe vedere il letto dove la tua Signora ha consumato i suoi respiri. Le lenzuola che ha stropicciato con il suo corpo senza pace. Non riusciva mai a smettere di muoversi, vero? Sono

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sicuro che se scoperchiassi la sua tomba la troveresti bocconi, scomposta come dormiva da ragazza.» «Come osi!» proruppe il Governatore. Il vecchio si mosse lento verso lo scranno, le bottiglie al collo che sbatacchiavano come campane. Le guardie accorsero, ma il Signore le trattenne con un cenno. «Uno potrebbe dire che è questo il Nuovo Mondo terribile, senza pietà per gli uomini» continuò il mercante. «Ma io ricordo la crudeltà di quei giorni azzurri, prima delle nuvole. Aveva il tuo volto allora giovane, i tuoi lineamenti da rapace. Ricordo quando Grace s’inerpicò come una lucertola sul tuo cavallo, quando trascinasti il suo dibattersi da rettile sulla sella del tuo frisone scuro come il mare di notte e le spalancasti le braccia e il petto nudo, la schiena premuta contro l’immenso collo dell’animale, l’arco delle sue vertebre costretto ad aderire alla criniera folta e stopposa, che le fregava la pelle, mentre i tuoi uomini da terra le stringevano i polsi.» Il silenzio cadde sulla corte, allineata lungo le pareti come per allontanarsi dall’inevitabile furia del Governatore. «Smise anche di gridare, quando fu troppo esausta per farlo, rovesciò la testa tra le orecchie della bestia e continuò a piangere in silenzio, le lacrime che scivolavano dai suoi occhi fino a quelli del cavallo, come se a piangere fosse lui; gli occhi di Grace, quel giorno, stanchi di frugare l’erba alta alla ricerca del mio corpo ucciso a bastonate.» Il Signore estrasse la pistola, puntandola contro la sua avanzata che sembrava non finire mai. «Grace? I tuoi ricordi sono finti, vecchio. La mia Signora si chiamava Elena. Stai sprecando le tue accuse.» Alzò la voce, perché tutta la sala potesse sentirlo: «È uno di quei simbionti, quegli uomini parassitati del Nuovo Mondo, ne sono certo. Vagano per le città-stato con memorie fasulle. Credono di ricordare il Vecchio Mondo, mentre sono solo i mostri del Mondo Nuovo.» Sollevò la canna all’altezza del viso emaciato del vecchio mercante, delle sue guance ispide. «Mi ucciderai davvero?» rise lui, a un passo dall’arma spianata. «E se era Grace? Se scopriranno che era Grace, cosa ne sarà di te? Agli occhi della tua corte avrai ucciso due volte me, ma lei una per ogni giorno che hai passato al suo fianco.» «E se invece era Elena? Per quale inutile scopo sarai morto se

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lei era Elena?» «Per sentire la tua voce rotta dal panico, dopo tutti questi anni. Finalmente ho qui nel cuore qualcosa che…» Il Signore non indugiò oltre. Un fiore scarlatto sbocciò tra gli occhi del vecchio, scagliandolo all’indietro, contro il pavimento. Le bottiglie di vetro che portava legate al collo si infransero in un inferno di cocci, mentre il volo spaventato di migliaia di farfalle bianche si districava dai suoi vestiti e riempiva ogni cosa, lasciandolo nudo sul marmo. «Avete sentito?» gridava il Governatore sopra la confusione. «Apritegli il petto e vedrete! Quei mostri possono riempirsi le cavità del cuore di aghi e farli entrare in circolo a piacimento. Se li fanno scorrere nelle arterie, lungo le braccia, dentro i capillari delle dita, fino a farli riemergere dai polpastrelli per uccidere con il tocco.» Ma il profumo delle bottiglie rotte aveva già invaso ogni cosa, diffuso dai battiti delle farfalle impazzite: l’odore di Grace stravolta d’amore, l’atmosfera scaldata dal suo corpo rovente, un aroma tanto intenso da consumare l’aria nei polmoni. E mentre i presenti cadevano, boccheggiando, non riuscivano a vedere altro che Grace che si contorceva nuda tra le coperte, fluorescente nella notte, Grace con la sua pelle irrequieta, con i suoi occhi, i suoi gemiti, i suoi sorrisi che risplendevano al buio… Il Governatore avvampò e si diresse con una smorfia orribile verso le sue stanze, proprio mentre il medico esaminava il cadavere premendosi una pezza contro il viso. «Mio Signore, il suo cuore è vuoto. Voglio dire, pieno di sangue secco e null’altro. Era già morto, ma era un uomo.» Il Signore, di spalle, aspirò forte col naso e proseguì fuori dalla sala, senza voltarsi. Fui io a trovarlo, la mattina seguente. Io che curo i giardini macilenti del palazzo sotto il ronzare delle lampade e mi occupo del cimitero privato, ma non dei fiori, non posso toccare i fiori sulla tomba della Signora, dove una nuvola di ranuncoli pallidi copre costantemente l’enorme lapide. Quel giorno sembravano più rossi, schizzati del sangue del Signore precipitato dall’alto della torre; e com’erano fitti! Me ne accorsi mentre li spostavo, mi azzardavo a scoprire l’epitaffio e il suo nome: Elena. La sua foto giovane, meravigliosa, con un sorriso strano, a guardarla ora, e gli occhi un po’ malinconici e il suo nome in chiare lettere d’oro puro. Elena. Il suo nome vero scritto con leggere volute d’oro chiaro. Elena. Elena Grace. <

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BLUE DISCOVERING

di ©JAMARI LIOR www.jamari-lior.com modella: JAMARI LIOR bodypainter: PETER e PETRA TRONSER supporto: MICHAEL HORACZEK

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Per questo numero abbiamo terminato. Ci auguriamo sia stata una buona lettura. Grazie per averci seguito! Arrivederci alla prossima uscita e... ...non dimenticare di venirci a trovare on-line! www.terrediconfine.net


ASSOCIAZIONE CULTURALE

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