DEL FANTASTICO
CINEMA • TV • CARTONI • FUMETTI • RACCONTI • ARTE • CULTURA • LETTERATURA
LA RIVISTA
TERRE DI
2015
AGOSTO
www.terrediconfine.eu • aperiodico di cultura fantastica
CONFINE
PLESIO EDITORE
in collaborazione con
4 TDC MAGAZINE
Immagine di copertina:
FATA MEDUSA 2010
©OLIVER WETTER www.fantasio.info fotografo: LOUIS KONSTANTINOU modella: KATKILL
TERRE DI
CONFINE Aperiodico di cultura fantastica
MAGAZINE
a cura di
MASSIMO DE FAVERI •
Associazione Culturale
TERRE DI CONFINE in collaborazione con
PLESIO Editore Terre di Confine n. 4 - Agosto 2015 Prima pubblicazione: 7 agosto 2015 ISBN 9788898585281 ©2015 A.C. TERRE DI CONFINE ©2015 PLESIO EDITORE Largo S. Carlo, 3/13 Via Plutarco, 38 33085 MANIAGO (PN) 47121 Forlì (FC) Cod. Fisc. 90012230935 P.IVA: 03966240404 redazione@terrediconfine.eu info@plesioeditore.it www.terrediconfine.eu www.plesioeditore.it • Tutti i diritti riservati •
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l’EDITORIALE
BOTTEGHE e Sussurri di MASSIMO DE FAVERI
C
ARI LETTORI, ben ritrovati al quarto appuntamento con la vostra TdC Magazine! In questa introduzione ai contenuti è un piacere ringraziare La Bottega del Barbieri, che ha contribuito alla sezione Letteratura con il gustoso articolo su Harlan Ellison e la recensione de La Svastica sul Sole curati, rispettivamente, dall’astrofilosofo Fabrizio Melodia e dal boss Daniele Barbieri in persona. La sezione antologica si avvale anch’essa degli scritti di bottegai doc come Riccardo Dal Ferro, Fabio Lastrucci e Mauro Antonio Miglieruolo, con l’imprescindibile Andrea Carta (per l’occasione trasmigrato dalla sezione Fumetti) a completare il canonico quartetto di fantaracconti. Gradito l'esordio su TdC dei booksblogger Agnese Mignozzi e Michele Del Vecchio, e di Solange Mela con un nuovo capitolo di ‘Stile e Dintorni’; Nicola Parisi si è adoperato a intervistare un sempre in forma Silvio Sosio, e dalla Colonia Lunare l’immancabile Marco Pulitanò ci parla di una droga virtuale chiamata Snow Crash. I fan e controfan di Lost si saranno poi chiesti cosa mai contengano i misteriosi cofanetti con la S. cubitale che J.J. Abrams ha disseminato in tutte le librerie del globo terracqueo: ebbene il nostro buon Luca Germano è qui per soddisfare anche questa curiosità.
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Nella sezione Cinema e TV, The Obsidian Mirror ci regala stavolta un articolo ricco di approfondimenti sulla saga coreana Whispering Corridors, una pentalogia di film horror accomunati dall’ambientazione scolastica e da un sapore psicologico squisitamente orientale; Lucia Patrizi ci conduce invece alla riscoperta dell’affascinante Dark City. Lo spazio telefilm propone Kronos, grazie al gusto vintage di Cuccu’ssette e all’ormai abituale collaborazione con SerieTV.net. L’anime di turno è l’apocalittico Ideon, trattato con la consueta sagacia dal duo asteroidale Jacopo Mistè e Simone Corà, e sigle gentilmente tradotte da Cristian Giorgi. Veniamo al doppio appuntamento con i fumetti: incursione di Orlando Furioso in pieno periodo maccartista con Fighting American, e discesa di Leonardo Colombi negli abissi psicanalitici di Homunculus. Ultime ma non ultime due succose gallerie fotografiche (con la novità del nuovo ‘Cosplay Corner’), a corredo delle interviste curate da Davide Longoni: abbiamo incontrato per voi il talentuoso concept artist messicano Michel Omar B., e l'italianissima NadiaSK, best performance al World Cosplay Summit 2014. Cos’altro mi resta dunque da aggiungere, se non: lunga lettura e prosperità! <
i CREDITI Redazione e Links Redazionali Andrea Carta Claudio Piovesan Cuccu’ssétte Davide Longoni Elisa Favi Fabiana Redivo Giampaolo Giampaoli Gianni Falconieri Giordana Gradara Jacopo Mistè Laura Tosello Leonardo Colombi
Anime Asteroid • anime-asteroid.blogspot.it Luca Germano Bravi Autori • www.braviautori.it Marco Pulitanò Colonia Lunare • www.colonialunare.it Massimo De Faveri Continuum • continuum.altervista.org Oscar Riva Cronache di un Disadattato • www.obifrankenobi.it Roberto Furlani Figura 4 • figura4.com Fumetti di Carta • www.fumettidicarta.it Roberto Paura Giampaoolo Giampaoli • giampaologiampaoli-it.webnode.it Severino Forini La Bottega del Barbieri • www.labottegadelbarbieri.org Simone Corà La Foresta dei Sussurri • fantasy-italiano.com Solange Mela La Zona Morta • www.lazonamorta.it Stefano Baccolini Leonardo Colombi Blog • leonardocolombi.blogspot.it Oracolo dei Venti • mentore.wordpress.com Stefano Moscatelli
Impaginazione Massimo De Faveri
Plesio Editore • www.plesioeditore.it Sat’Rain •satrain.altervista.org SerieTV.net • www.serietv.net Stefano Marinetti DA • stefanomarinetti.deviantart.com The Obsidian Mirror • insidetheobsidianmirror.blogspot.it Work On Color • www.workoncolor.com
Ringraziamenti (in ordine di articolo) Oliver Wetter • germania Chiaki e Nasrin • australia Phil Konstantin • stati uniti Agnese Mignozzi • italia Salone Int. del Libro di Torino • italia Michele Del Vecchio • italia Josh Malerman • stati uniti Katie L. Thompson • stati uniti Daniele Barbieri • italia Nicolás Rosenfeld • argentina Francesco Stefanacci • italia Gage Skidmore • stati uniti Nicola Parisi • italia Silvio Sosio • italia Ingar Sørensen • norvegia Fabrizio Melodia • italia
Vincent Coviello • stati uniti Lucia Patrizi • italia Renata Bertola • italia Claudio Secco • italia Cristian Giorgi • italia Nadia Baiardi • italia Orlando Furioso • italia Lorenzo Bolzoni (BAO Publishing) • italia Leonello Di Fava (PANINI Comics) • italia Michel Omar B. • messico Riccardo Dal Ferro • italia Mauro Antonio Miglieruolo • italia Madison Kirkman • stati uniti Isis Sousa • norvegia Fabio Lastrucci • italia Piotr Szot • polonia
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SOMMARIO 4
Editoriale
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Redazionale
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Redazionale
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Photo Dream
BOTTEGHE E SUSSURRI CREDITI
DIRITTI IMMAGINI SECOND AWAY MISSION Redazionale
249 INVIO MATERIALE Photo Dream
250 TURNABOUT INTRUDER 6
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WHISPERING CORRIDORS
Il Mormorare di Fantasmi Irrequieti
LETTERATURA 10
LA DROGA CHE INFETTÒ IL METAVERSO Snow Crash
15 PERSEGUITATA DA
OSCURE PRESENZE
La Casa dei Fantasmi
18 E VENNE IL GIORNO
34 SCHEGGE DI FANTASTICO TRA CARTA E WEB
Intervista a Silvio Sosio
44 SE IL PROTAGONISTA
SOFFRE DI SOLITUDINE? Rubrica di Stile
54 LA DINAMITE
DELLA FANTASCIENZA
Fabbricanti di Universi
DELLA RINUNCIA AL CIELO
La Morte avrà i tuoi occhi
22 UN RESIDUO BELLICO CHIAMATO NAZISMO
La Svastica sul Sole
26 VIAGGIANDO IN CERCA DI DESTINAZIONE
S. La Nave di Teseo
54
114
146
CINEMA E TV 60 IL MORMORARE
DI FANTASMI IRREQUIETI
Whispering Corridors
108 I PREDATORI DEI
RICORDI PERDUTI Dark City
114 DISPERSI NEL TUNNEL DEL TEMPO
Kronos - Sfida al Passato
130 IL ROBOT CHE DISTRUSSE L’UNIVERSO
Space Runaway Ideon
141 CANTATA ORBIS
FUKKATSU NO IDEON COSMOS NI KIMI
Space Runaway Ideon
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FUMETTI, ANTOLOGIA 200 ARTE E ILLUSTRAZIONE 206
IVAN ODRADEK L’OSCURO Racconto
GESÙ AL BAR SPORT Racconto
146 CON AGO E FILO ALLA
CONQUISTA DEL SOL LEVANTE
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Intervista a Nadia SK
158 IL SUPEREROE CHE
PICCHIAVA COMUNISTI Fighting American
168 L’UOMO CHE
SUSSURRAVA ALLE ANIME Homunculus
184 RESPIRANDO TUTTI
I COLORI DEI SOGNI
Intervista a Michel Omar
218 2, PLACE LAMARTINE Racconto
232 LA MECCANICA
DELL’AMBARADÀN Racconto
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Disclaimer e Diritti delle Immagini Le copertine dei libri, le locandine e le immagini relative a film, serie tv e cartoni animati sono utilizzate in base ai criteri del ‘fair use’, a solo scopo esemplificativo, divulgativo e di recensione. Tutti i diritti sono riservati ai rispettivi proprietari. La foto della Underwood Hall è proprietà della Yonsei University di Seoul; il grafico del tasso di suicidi 2011 è proprietà di Economist.com; la foto ‘Competitività’ è proprietà di JUNG YEON-JE, AFP/Getty Images; tutti i diritti riservati. La foto della compagnia di ribelli coreani, di Frederick Arthur McKenzie, è di pubblico dominio, tratta dal volume The Tragedy of Korea (ed. E. P. Dutton & Co., New York 1908); fonte Wikimedia Commons. L’illustrazione della Compagnia dell’Anello è opera di GREG E TIM HILDEBRANDT, tutti i diritti riservati. Le tavole a fumetti sono state concesse e autorizzate alla Redazione Terre di Confine dalle case editrici aventi i diritti; tutte le altre illustrazioni e foto sono state concesse direttamente dagli autori (che ne hanno inoltre personalmente visionato e approvato lo specifico utilizzo), in forma scritta ed esplicita alla Redazione di Terre di Confine, per l’uso in questo singolo numero della rivista. Tutti i diritti riservati.
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SECOND AWAY MISSION
©CHIRINSTOCK
chirinstock.deviantart.com
modelle (da dx): NASRIN e CHIAKI foto e costumi: NASRIN e CHIAKI
Photo DREAM 9
Reading TIME
La Droga che
INFETTÒ IL METAVERSO di MARCO PULITANÒ
Dalla visionaria fantasia di Neal Stephenson, le avventure di un hacker in un futuro distopico, alle prese con iperrealtà, miti sumeri e virus linguistici.
IN
UN MONDO nel quale il governo federale degli Stati Uniti ha ceduto la maggior parte del suo potere a organizzazioni private e corporazioni di varia natura, il territorio si trova diviso in tante enclave sotto il controllo di innumerevoli franchise. Ci sono la Super HongKong di Mr. Lee, Le Porte del Paradiso del Reverendo Wayne, la Narcolombia, la Nuova Sicilia sotto il controllo della Mafia, e così via. Gli Stati Uniti stessi non sono altro che un franchise in mezzo a tanti. E all’interno del proprio territorio ogni
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franchise si occupa dei suoi affari e dei servizi al cittadino secondo le modalità che ritiene più opportune. La sicurezza e la sorveglianza sono diventate appannaggio di società private in concorrenza fra loro. Destino analogo è toccato ai servizi postali: la consegna della corrispondenza è affidata a compagnie che si avvalgono di korrieri, persone che si muovono su skateboard altamente tecnologici, indossano tute speciali e usano arpioni magnetici per agganciare i mezzi in transito e sfruttare la loro velocità per muoversi
SNOW CRASH
(Snow Crash, 1992) di Neal Stephenson BUR Rizzoli (2007) traduzione di Paola Bertante pagine 551 ISBN-13: 9788817016827
attraverso il traffico. Interamente brandizzata, la struttura sociale si trova soggetta prima di tutto alle regole, commerciali e non solo, del marchio al potere. Più che acquisizione di potere politico da parte delle istanze economiche, si tratta di un’esplicita brandizzazione del potere di governo, non il politicizzarsi dell’economia ma il dissolversi della politica nel mercato. Parallelamente si è andata sviluppando una realtà virtuale, chiamata ‘Metaverso’, all’interno della quale ci si muove e si agisce attraverso l’utilizzo di avatar personalizzati. Si tratta di una sorta di enorme sistema operativo – puntualmente regolato e monitorato da demoni che lavorano più o meno in background – al quale le persone si connettono diventando a loro volta software che interagisce con altro software. Sebbene nello spazio virtuale gli avatar abbiano la possibilità di fare cose che nella realtà sarebbero impossibili, e per quanto le regole che lo normano risultino apparentemente differenti, il Metaverso non è uno spazio altro rispetto alla realtà, tantomeno rappresenta una
fuga da essa. Il Metaverso è uno degli strumenti attraverso i quali la struttura capitalistica che fonda la legittimità e l’autorità dei vari franchise consolida la propria natura iperreale. Non a caso il prestigio di una persona all’interno di questo spazio deriva essenzialmente da due elementi: l’accuratezza e l’originalità dell’avatar utilizzato (di fatto, l’avatar è il marchio della persona), e la possibilità di accedere a spazi riservati o comunque esclusivi. Entrambi i piani del reale sono privi di qualsivoglia fine o obiettivo altro rispetto alla propria mera autoripro-
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duzione. Tutto è già scritto o definito nel codice che li regolamenta: il codice informatico nel caso del Metaverso, quello capitalistico nella realtà quotidiana. Il raddoppiamento della realtà rappresentato dal Metaverso non solo non è concorrenziale o alternativo, ma ne rappresenta il definitivo consolidamento. Gli intrecci e le correlazioni tra i due spazi cancellano qualsiasi concorrenza in favore di una stabilizzazione generale del principio che li alimenta. Nel loro insieme, i due mondi danno vita ad una iperrealtà che non è annullamento della realtà primaria posta come vera, quanto piuttosto un suo eccesso. Snow Crash è la narrazione di un simulacro, della fine della realtà intesa in senso classico: le categorie del vero e del falso vengono a decadere all’interno di una dimensione nella quale la realtà non è più oggetto di indagine o rappresentazione, ma è autoriproduzione di un codice, di una matrice iniziale. Non c’è produzione di verità o falsità, ma solo variazioni all’interno dell’orizzonte definito dal codice stesso. Negli spazi brandizzati delle enclave, come in quelli virtuali del Metaverso, la realtà è trasparente a se stessa. All’interno di questo contesto, Hiro Protagonist, un hacker molto abile sia nella programmazione che nell’uso della katana, e Y.T., una giovane korriere molto sveglia e agile, si incontrano, diventano amici, e hanno modo di consolidare il loro rapporto indagando insieme su una droga virtuale chiamata ‘Snow Crash’ in cui Hiro s’imbatte durante una delle sue avventure all’interno del Metaverso. In realtà, Snow Crash è una droga nel mondo reale mentre nel Metaverso si rivela
essere un virus informatico estremamente pericoloso, in grado di danneggiare, oltre ai computer, anche le menti delle persone. I suoi effetti si concretizzano in un reset completo della mente di chi la assume. Come avrà modo di scoprire Hiro nel corso delle sue indagini, si tratta dell’evoluzione di un potente virus linguistico che risale alla civiltà sumerica antecedente la distruzione della Torre di Babele. Snow Crash è un’ulteriore dimostrazione dell’assoluta continuità tra realtà e Metaverso: al di là delle differenti modalità di funzionamento dovute alla diversità fisica dei contesti, in entrambi gli spazi si comporta in modo analogo. Partendo dall’idea secondo cui i Sumeri avrebbero utilizzato una forma di linguaggio in grado di interfacciarsi direttamente con la struttura del cervello, Neal Stephenson lega Snow Crash al culto di Asherah, facendo risalire a questo le origini del virus linguistico. Mescolando la sua rilettura dei miti sumeri a una variante della psicologia cognitiva, Stephenson dà vita ad una vicenda nella quale, a partire dal parallelismo tra cervello e computer, si esplicita la pericolosità del linguaggio come possibile portatore di virus e infezioni mentali. Prendendo le mosse dall’idea che il cervello umano possa essere considerato alla stregua di un hardware sul quale la mente funzioni come un software, si possono distinguere due diversi tipi di linguaggi: il linguaggio binario, che si interfaccia direttamente con la macchina, e i linguaggi di programmazione ad alto livello, che possono essere interpretati solo dai computer nei quali si trova installato quanto serve per la loro decodifica. Le lingue moderne
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NEAL STEPHENSON
2 giugno 2013: Starship Century Symposium, San Diego, California (USA) foto: ŠPHIL KONSTANTIN
americanindian.net
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sarebbero simili a linguaggi di programmazione ad alto livello, e pertanto nativamente impossibilitate a ricevere input che non ne rispettino la sintassi. La pericolosità di Snow Crash deriverebbe pertanto proprio dalla sua capacità di bypassare la comunicazione verbale e utilizzare l’ambientazione codificata del Metaverso per interfacciarsi direttamente col ‘bios’ del cervello. La relazione tra linguaggio e virus in Stephenson percorre strade analoghe a quelle solcate da William Burroughs. L’enorme pericolo rappresentato da Snow Crash si fonda sull’impossibilità da parte della mente di difendersi da uno stimolo audiovisivo al quale può trovarsi esposta. Un filo rosso collega la dimensione religiosa dei culti sumerici alla realtà sociale all’interno della quale si muovono Hiro e Y.T.: i pericoli derivanti dal potere infettivo del linguaggio muovono a partire dal codice che regolamenta l’ideologia dominante. A un certo punto, Stephenson definisce chiaramente l’ideologia come un virus, una trappola che si autoriproduce. E il Metaverso è la riproduzione dell’ideologia capitalista che va a dissolversi all’interno di uno spazio virtuale. Non si tratta di una falsificazione della realtà, quanto piuttosto di un procedere per sovrapposizioni, per eccessi. Non è una sottrazione, ma un sovrappiù di realtà che in un gioco di specchi ne ridefinisce radicalmente i confini. Così facendo, Stephenson crea una narrazione all’interno della quale il protagonista onnipresente è un concetto di simulacro decisamente più aderente all’impostazione di Baudrillard di quanto non fosse quello, ad esempio, che i fratelli Wachowski avevano portato sul grande
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schermo con Matrix. Il simulacro non è una finzione, non è una falsificazione del reale, e non può nemmeno essere creato o distrutto: è la realtà che diventa trasparente a se stessa. Se, con McLuhan, il medium è il messaggio, similmente con Baudrillard l’immagine è la realtà. Il simulacro si dà nella sua trasparenza, non può essere contraffatto né tantomeno costruito artificialmente: non è l’illusione che si sostituisce alla realtà, quanto piuttosto la realtà che dissolve l’illusione all’interno di sé. La corrispondenza tra realtà e simulacro non si basa sulla presenza di un’ipotetica illusione che nasconderebbe la realtà, quanto piuttosto sul fatto che non v’è alcuna illusione, ma solo il sistema di segni che costituisce l’orizzonte del reale: i segni non nascondono la realtà, semmai occultano il fatto che non v’è alcuna altra realtà. Il dominio dell’ideologia di mercato che regolamenta le enclave come il Metaverso non deriva da una sua azione volta a occultare altri sistemi di potere, quanto dal fatto che non rimanda più a nient’altro che a se stessa. Il Metaverso non è più o meno vero rispetto alla realtà non virtuale: si tratta di un secondo differente modo di palesarsi della stessa realtà ideologizzata. All’interno di un simile contesto, la minaccia apocalittica rappresentata da Snow Crash deriva dalla sua capacità di oltrepassare i linguaggi ad alto livello per interfacciarsi direttamente col bios della mente, di bypassare il simulacro e dissolverlo intaccando direttamente il codice nel quale si identifica. Ma una volta dissolto il simulacro, non rimane altro che il niente, perché non c’è una realtà oltre quella del simulacro: il simulacro è la realtà. <
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Perseguitata
DA OSCURE
PRESENZE di AGNESE MIGNOZZI
Un lutto da superare; un annuncio per un lavoro da istitutrice; due bambini da accudire in una grande casa... infestata da un’entità misteriosa e feroce...
“Q
UANDO TORNO al momento in cui la mia vita passò dalla serenità all’orrore, e ciò che è naturale divenne abominevole, mi ritrovo seduta nel salotto della nostra modesta casetta vicino a Hyde Park, a studiare i bordi sfilacciati del tappeto davanti al focolare, a chiedermi se fosse giunto il momento di comprarne uno nuovo o se cercare di aggiustarlo da me. Semplici pensieri domestici. Quella mattina pioveva, uno scroscio titubante ma ininterrotto, e quando spostai lo sguardo dalla finestra colsi il mio rifles-
so nello specchio sopra il camino, e il mio aspetto mi lasciò avvilita. […] Allora feci una cosa sciocca: mi sorrisi, nella speranza che un’espressione soddisfatta migliorasse l’effetto, e trasalii quando vidi un secondo volto, molto più piccolo del mio, restituirmi lo sguardo dall’angolo in basso dello specchio. Trattenni il fiato, una mano al petto, poi…” L’incipit è intrigante, colloca la storia nella Londra del 1867 e ci presenta Eliza Caine, giovane di famiglia modesta ma rispettabile, amante dei buoni libri, che
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vede nell’arco di pochissimo tempo cambiare la sua vita. La morte del padre la induce a lasciare Londra e recarsi nel Norfolk a Gaudlin Hall, per diventare l’istitutrice dei piccoli Isabella e Eustace Westerley. Nella grande casa dove vivono, Eliza incontra solo i due bambini: i genitori – protagonisti di una storia di abusi, ossessioni e gelosie – e gli adulti sembrano svaniti nel nulla. Ben presto Eliza inizia a percepire cose strane. “C’era una presenza in quella casa, qualcosa di sacrilego; un’idea che
avevo allontanato come follia s’impadronì di me e mi dissi che era vero. Solo che c’era qualcos’altro, qualcosa che prima non avevo immaginato. Le entità misteriose erano due.” Giorno dopo giorno Eliza scopre d’essere l’ultima di una serie di governanti finite molto male. Il mistero si infittisce quando la ragazza si troverà ad affrontare un’entità feroce e spietata che spadroneggia nell’antica dimora. I bambini sono il fulcro del mistero, sono parte del mistero, sono il mistero. Riuscirà la nostra eroina a districarsi tra i segreti che si annidano a Gaudlin Hall e che rischiano di inghiottire anche lei? Nella bellissima e suggestiva Londra dell’Ottocento si snoda una vicenda che, pur non presentando tematiche originali, riesce a coinvolgere il lettore fin dalle prime pagine, messaggere di futuri nefasti accadimenti. Una fanciulla, che sogna l’indipendenza e un destino diverso da quello delle sue coetanee, si troverà a vivere una storia mozzafiato in cui coraggio e determinazione diventeranno le sue armi vincenti. Con una scrittura appassionante,
LA CASA DEI FANTASMI
(This House is Haunted, 2013) di John Boyne RIZZOLI (2015) traduzione di Beatrice Masini 301 pagine ISBN-13: 9788817079235
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JOHN BOYNE
al Salone del Libro 2014, 8 maggio, Lingotto Fiere, Torino foto: ©Salone Internazionale del Libro www.flickr.com/photos/33302214@N06/
che fa palpitare il cuore, John Boyne ci attrae nella malefica magione di Gaudlin Hall dove ad attenderci troviamo i due fratellini: Isabella, misteriosa, a volte arrogante, consapevole d’essere depositaria di un orribile segreto; Eustance, timido, educato, bisognoso di dare e ricevere amore, succube della sorella. I due piccoli Westerley sono deliziosi ma sfuggenti, capaci di mostrare il loro affetto eppure chiusi in un mondo popolato da inquietanti presenze. La Casa dei Fantasmi (This House is Haunted, 2013) si presenta come una ghost story in cui la tensione è subito palpabile, sottolineata e sorretta da un ritmo in crescendo che diventa serrato nelle ultime pagine. Vari accadimenti, forze soprannaturali, misteriosi incidenti danno vita a una girandola di situazioni che confondono il razionale con l’irrazionale, annullando il confine tra i due mondi, fino all’apoteosi in un finale sospeso tra terra e cielo, tra la vita e la morte. Avvincente l’epico scontro tra il Bene e il Male descritto da Boyne con un forte senso scenico: le parole assumono vita propria trasformandosi in immagini surreali al cui fascino non ci si può sottrarre. La storia, resa emozionante dall’empatia che lega personaggi e lettore, scorre fluida, godendo di una sottile ironia e regalando brividi intensi che portano a divorare letteralmente le 300 pagine di cui il libro si compone.
La forza di questo romanzo risiede nell’attrazione che noi esseri umani proviamo verso ciò che non conosciamo, in particolare verso l’idea di un’esistenza ultraterrena che sfugge alla nostra comprensione, impossibilitati come saremmo a cogliere per intero tutto ciò che caratterizza il mondo ‘terreno e spirituale’. Non stupiamoci delle stranezze, anzi riflettiamo su una citazione di Shakespeare, riportata nel romanzo, che recita: “Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia”. <
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Reading TIME
E venne il giorno dellaRINUNCIA
AL CIELO
di MICHELE DEL VECCHIO
Magnetismo alla Shyamalan e prospettive di trasposizione cinematografica nel debutto letterario di Josh Malerman, leader dei The Hung Strung.
U
NA MAMMA, scalza in una casa buia, i capelli spettinati, magari un pigiama sbiadito, va a svegliare i suoi piccoli. Le finestre chiuse, ma fuori è già giorno. Gli uccelli, nella loro gabbia, cantano: il suono che fanno somiglia a un allarme antincendio. Ora di andare a scuola. Il Bambino e la Bambina – privati del nome, condannati per sempre al buio – si vestono, indossano da bravi il loro zaino, non si lamentano. Risparmiano sulle parole, il cibo, la
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luce. Allevati come segugi ad assecondare il più utile dei cinque sensi in un mondo da affrontare tutto a occhi chiusi: guidati dall’udito. Escono di casa che è ancora presto, ma non hanno un pulmino giallo, un ‘bravissimo’ da prendere sui compiti e compagni di giochi ad aspettarli. Una panoramica di quel quartiere in rovina di un mondo in rovina per precisare che quella non è la storia di una famiglia americana. Il che non è del tutto corretto: Malorie, un
LA MORTE AVRÀ I TUOI OCCHI
(Bird Box, 2014) di Josh Malerman PIEMME (2015) traduzione di Stefano Bortolussi 308 pagine ISBN-13: 9788856638295
figlio per mano e gli occhi bendati, i piedi che si muovono accorti lungo i giardini di un vicinato decimato, è il soggetto principale di una grande storia di famiglia; solo, la storia ha lo sfondo nero dell’apocalisse. Cinque anni prima, un boom di suicidi inspiegabili ha indotto la necessità di barricarsi in casa come topi in una tana, per non avere contatto alcuno con le creature che hanno rubato i nostri spazi: sono silenziose, invisibili, misteriose. Non chiederti cosa vogliono. Non guardarle. Chi le ha fissate negli occhi – ma hanno occhi? – è diventato pazzo. Malorie non esce da allora, e i suoi figli non sono usciti mai. Il romanzo ha inizio con il loro primo e falso giorno di libertà, in fuga da una casa con la moquette e le pareti luride di sangue, verso un fiume che scorre e una voce – finalmente una voce umana, dopo tanta solitudine – che chiama. E dice vieni qui, ché c’è un posto: speranza. La Morte Avrà i Tuoi Occhi (Bird Box, 2014) di Josh Malerman è un romanzo che ho iniziato a leggere
sovrappensiero. Mi aveva attirato, mesi prima, ma… il booktrailer ben confezionato, l’autore famoso in un campo diverso da quello letterario, la prospettiva di un film… mi insospettivano. Temevo delusioni. In trecento pagine, predisposto al fiasco, ho poi temuto ancora, sì, ma di sentirmi esposto agli artigli – hanno artigli? – degli invasori, mentre facevo miei gli occhi bendati di personaggi che guidano il lettore, al buio, tra impieghi quotidiani e piani persi in partenza. Se la trama non si rivela troppo ori-
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JOSH MALERMAN
foto: ŠKATIE L. THOMPSON
twitter.com/BigSamThompson www.flickr.com/photos/bigsamthompson/
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ginale, si apprezza però la struttura nata per farsi cinema e la curiosa limitazione dei punti di vista: la storia è soprattutto quella di Malorie, ma è raccontata in terza persona e si apre, capitolo dopo capitolo, ai caratteri vari di quelli che saranno i suoi compagni di viaggio durante i nove mesi di ‘dolce’ attesa. Le tensioni interne, la repulsione dell’esterno. Sei Malorie che partorisce da sola, Felix che va al pozzo, Tom che strimpella al piano Cole Porter, Don e Gary che seminano dubbi. Ma sei limitato, bendato, imprigionato come lo sono loro. Vivi al di qua della loro benda sugli occhi, pensi con le orecchie, leggi di continuo tra le sfumature di un panno nero. Un fruscio fa saltare, un ramo spezzato spezza il fiato: sarà il vento, o altro? Intanto, nella loro gabbia, gli uccelli urlano. Come quelli che si portano appresso gli operai delle miniere, per presagire gli eventuali crolli. Con la scusa perfetta di una cecità forzata, Malerman, cantante, esordiente scrittore con una personalità stilistica da mettere ancora a fuoco ma ottima come trampolino di lancio, ti distoglie dal pensiero che la storia di Malorie, in altri modi, sia già stata raccontata altrove, e fabbrica atmosfere dense di fascino e spifferi gelidi. Non scorre il sangue, non c’è un serial killer da cacciare, ma l’apocalisse alternativa di cieli che crollano e genitori che allevano imperturbabilmente la loro prole nonostante il futuro sia una tempesta di punti di domanda, inquieta ed emoziona. Al regista de Il Sesto Senso, quel Shyamalan prima maniera che ancora era artefice di storie di un certo peso (non il successivo), purtroppo Malerman non ruba un
epilogo psicologico e sferzante; eppure la fine – e l’immagine di una barchetta alla deriva, e di due piccoli eroi che remano, e del sole all’improvviso – piace, tira le fila di un romanzo non straordinario ma che ha il pregio di essere costruito con consapevolezza. Si ferma, e potrebbe benissimo ripartire da dove lo lasciamo. La Morte Avrà i Tuoi Occhi ha una trama accattivante, da film dell’orrore, e una dedica lunga e toccante che l’autore rivolge alla donna che l’ha messo al mondo. Scelta curiosa: ho questa idea che le madri non leggano storie di paura, e voi? Mia madre, al posto della signora Malerman, mi avrebbe ringraziato, si sarebbe anche un po’ commossa, ma un romanzo così, con spunti fantascientifici e il ritmo del thriller, probabilmente non lo avrebbe letto. Invece Josh Malerman – leader di quegli The High Strung a cui dobbiamo la Luck You Got che risuona da cinque stagioni nella sigla cult di Shameless – avrà pure pensieri truci e suonerà pure rock, ma scrive con musicalità e conquista, anche il pubblico femminile, con una fiaba dark dotata di un incipit diretto e di grande sensibilità. Ragiona come M. Night Shyamalan – e qui c’è il meglio, a tratti, di The Village e di E Venne il Giorno – ma fa sua la forza delle donne, con l’ammirazione e l’invidia di noi, uomini grandi e grossi che vediamo creature minute mettere al mondo miracoli. Quelle donne che, in una casa assediata da demoni, si domandano se accecare i loro figli in culla così che non sappiano mai quanto è azzurro il cielo, o se farli vivere nella mancanza. Quelle che, negli incidenti automobilistici, sollevano le macchine. <
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Cult BOOK
Un residuo bellico
CHIAMATO
NAZISMO
di DANIELE BARBIERI
Nell’ucronia di Dick un monito su cui riflettere: non basta vincere una guerra per abbattere un’ideologia.
“…E
RANO RIUSCITI (NdR: i tedeschi) a malapena a vincere la guerra (NdR: la Seconda Guerra Mondiale), e a un tratto si erano lanciati alla conquista del sistema solare […] In definitiva avevano avuto successo con gli ebrei, con gli zingari e con gli studiosi della Bibbia. E gli slavi erano stati ricacciati indietro di duemila anni […] Ma l’Africa […] laggiù i nazisti avevano mostrato dell’autentico genio […] Il Mediterraneo chiuso, prosciugato, trasformato in terreno coltivabile per mezzo dell’energia atomica […] Il ben noto, vigoroso saggio di
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Rosenberg era stato pubblicato nel 1958: in quell’occasione era stata pronunciata per la prima volta la parola. Per quanto riguarda la Soluzione Finale del problema africano, abbiamo quasi raggiunto i nostri obiettivi […] c’erano voluti duecento anni per liberarsi degli aborigeni americani, e la Germania, in Africa, ce l’aveva fatta in quindici anni”. Questa breve citazione già ben chiarisce dove sta precipitando il mondo immaginato nel 1962 da Philip K. Dick ne La Svastica sul Sole (in italiano ora lo si trova anche come L’Uomo nell’Alto Castello, traduzione fedele
LA SVASTICA SUL SOLE
(The Man in the High Castle, 1962) di Philip K. Dick FANUCCI (2014) traduzione di Maurizio Nati 316 pagine ISBN-13: 9788834724477
del titolo originale The Man in the High Castle). La Triplice – cioè Germania e Giappone con l’Italia in secondo piano – ha vinto. Chiarisco subito che non siamo dentro quel filone di ‘fanta-revisionismo storico’ dove si immagina come sarebbe bello un mondo in mano ai nazisti. Di certo Dick non ha alcuna simpatia per loro. Semmai nel romanzo ne emerge un po’ per i Giapponesi, spiegata dal fascino che la cultura orientale esercitava sull’autore, e forse da altri due motivi: una certa disinformazione sui crimini di guerra nipponici e un senso di colpa (inconscio?) per ciò che gli Americani avevano fatto ai concittadini di origine giapponese dopo Pearl Harbor: deportati in massa nei campi di concentramento. Il romanzo è ambientato negli ex Stati Uniti, ora divisi in due zone distinte sotto i Tedeschi e sotto i Giapponesi. Qui circola clandestinamente un libro, ‘La cavalletta non si alzerà più’, dove Hawthorne Abendsen immagina che Germania e Giappone abbiano perso la guerra; questa contro-storia alimenta una ribellione ora sotterranea e ora esplicita. Ma l’ucronia nell’ucronia – ovvero il romanzo di Abendsen – non è banalmente il ‘nostro’ piano
temporale (insomma il mondo nel quale Dick viveva), ci sono differenze importanti… E questi ‘patrioti’ non sono certo gente magnifica: Dick li descrive come spesso affascinati dalle idee naziste e razzisti nel profondo. Questo libro, complesso per i molti sottintesi (e sottotesti) eppure di facile e piacevole lettura, non è l’unico del genere: chi è appassionato di fantascienza conoscerà l’ironico romanzo di Norman Spinrad Il Signore della Svastica (The Iron Dream, 1972) dove Hitler è… proprio uno scrittore di science fiction. Ma,
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PHILIP KINDRED DICK
di NICOLĂ S ROSENFELD
rosenfeldtown.deviantart.com www.rosenfeld.daportfolio.com
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come spesso gli accade, Dick è più avanti (oltre, se preferite). Fra i molti piani di lettura de La Svastica sul Sole ce n’è uno particolarmente interessante che sembra chiedere a chi legge: in che cosa il nazismo ha vinto, e in cosa ha perso? Per batterlo abbiamo adottato, almeno in parte, i suoi metodi e le sue idee? I Sessanta erano anni di guerra fredda e di minacce atomiche ma anche, negli USA del trentenne Dick, di confuse speranze nel ‘sogno’ kennediano. Meno di due anni dopo la pubblicazione del romanzo, però, il primo dei fratelli Kennedy viene assassinato, e all’altro toccherà la stessa sorte nel 1968. Intanto l’America s’immerge nella guerra più ‘sporca’ della sua storia e al potere arriva Nixon, che Dick – e con lui molti altri – considera il peggior bugiardo in circolazione e un fascista quanto meno potenziale. Una delle riflessioni suggerite dal romanzo è quella sulla confusione o contaminazione che regna fra nazisti e antinazisti nella ‘realtà’ (scenica e non). Vale la pena ricordare allora alcuni dati storici, accertati, verificabili eppure così inquietanti che molti preferiscono ignorarli. La guerra non era ancora finita che già gli USA si preoccupavano di arruolare non solo scienziati tedeschi (in testa Wernher Von Braun) ma anche militari nazi-fascisti (fra loro pure Junio Valerio Borghese della Xa Mas). Appena si capì come il conflitto sarebbe finito, dentro il Vaticano – con la complicità di vari servizi segreti – si mise in piedi una rete per consentire ai capi nazisti di fuggire, con le valigie piene di soldi e documenti, perlopiù verso Paesi ‘amici’ in America Latina: infatti è qui che anni dopo verrà scovato Adolf Eichmann.
Sulla base del Freedom of Information Act è possibile accedere ai documenti segreti – declassificati, cioè resi pubblici dopo un certo numero di anni – degli Stati Uniti, perciò chiunque può verificare che queste complicità tra Alleati, Vaticano e alti esponenti del nazismo non rappresentarono casi isolati (o addirittura calunnie) ma una organica strategia. Certamente non pianificata ma incoraggiata e persino ovvia in un certo senso fu l’amnistia per i criminali di guerra: in Germania e in Giappone pochissimi finirono sotto processo, in Italia ancor meno. Solo dopo il processo Eichmann (nel 1961 a Gerusalemme) giudici coraggiosi ascolteranno in Germania testimoni vecchi e nuovi, e altri processi prenderanno corpo, soprattutto legati ai campi di sterminio; ne racconta L’Istruttoria (un’opera teatrale in forma di oratorio) di Peter Weiss, che è stata tradotta – e messa in scena – anche in Italia, un Paese dove invece i processi ai nazi-fascisti sono rimasti chiusi nei cassetti e in un particolare ‘armadio della vergogna’ (chi vuole saperne di più inizi a leggere i libri di Franco Giustolisi). Questi pochi esempi sono evidentemente un primo piano di certezze che dà risposte inquietanti alle domande di Philip Dick su chi davvero abbia vinto la guerra. Ma da questa ‘confusione’ fra vincitori e vinti, fra democrazie e regimi totalitari, nascono interrogativi di ogni tipo. Quello più terribilmente concreto è quanto il mancato approfondimento delle radici – economiche, politiche, sociali e persino psicologiche – del nazi-fascismo ne faciliti la rinascita. “Il ventre è ancora fecondo” scrisse Primo Levi. E purtroppo aveva ragione. <
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Reading TIME
Viaggiando
IN CERCA DI
DESTINAZIONE di LUCA GERMANO
L’eclettico padre di Lost sperimenta un’altra opera ‘criptica’ dal finale rischioso, stimolando il lettore con una sofisticata struttura a più livelli...
S.
NASCE DA un’idea di J.J. Abrams, noto produttore, regista e sceneggiatore (basti citare Fringe, Lost, o il ciclo reboot di Star Trek) e dalla penna di Doug Dorst, docente universitario di scrittura creativa (autore di Alive in Necropolis). L’opera è sofisticata, attentamente realizzata per destare da subito la curiosità del lettore, sia che questi cerchi qualcosa di diverso dagli usuali schemi e dai troppo affollati sentieri, sia che, inseguendo tutt’altro, serendipicamente vi si imbatta. L’impatto visivo iniziale non è gran cosa:
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la custodia scura, con un’unica grande lettera ‘S’ appena visibile nel contrasto certo non marcato tra nero e grigio, è chiusa con un sigillo che reca (oltre alle immagini di una scimmia e un veliero) una sibillina e misteriosa frase: “Ciò che inizia sull’acqua sull’acqua finisce e ciò che finisce sull’acqua là ricomincerà”. Sul retro il minimo di spiegazioni necessarie a non rimanere eccessivamente disorientati da ciò che la custodia racchiude. Rotto il semplice sigillo, ecco, l’immaginazione dispiega le ali.
S. all’interno: LA NAVE DI TESEO
(S., 2013) di J.J. Abrams e Doug Dorst RIZZOLI LIZARD, 2014 traduzione di Enrica Budetta 472 pagine ISBN-13: 9788817068697
Ci si ritrova infatti tra le mani un libro, dalla copertina spessa e ruvida, con pagine ingiallite macchiate dal tempo e dall’umidità, intitolato La Nave di Teseo. Sul dorso la segnatura dell’immaginaria biblioteca che lo conserverebbe e, in fondo, varie timbrature per la presa in prestito e la restituzione. All’interno ritagli di giornale, cartoline, telegrammi, foto, lettere. Persino un tovagliolo di carta. Ai bordi delle pagine compaiono centinaia di annotazioni scritte (apparentemente) a mano, a penna o matita, e di vari colori. Nella finzione letteraria, il romanzo è il diciannovesimo scritto da tal V.M. Straka, pubblicato nel 1949 dalla Winged Shoes Press (ma sulla costa del libro la casa editrice risulta essere Winger Shoes Press), con note e premessa di tal F.X. Caldeira. La particolare copia che è tra le mani del lettore è stata dimenticata su un tavolo della biblioteca da un giovane ricercatore, Eric, e trovata per caso da una studentessa, Jen, che svolge per l’ateneo l’attività di bibliotecaria. Le annotazioni più risalenti nel tempo, ‘scritte’ a matita, sono proprio di Eric, che lesse il libro già in età giovanile, per riscoprirne intatto il fascino molti anni più tardi. Questi appunti danno occasione a
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Jen di aggiungere propri commenti personali, a penna blu, ai quali Eric, ritornato in possesso del libro, risponde in nero. Successivamente i due continueranno il loro dialogo a distanza utilizzando penne arancioni e verdi, poi viola e rosse, in ultimo entrambi in nero. Un fittissimo dialogo che, occasionato dalla ricerca della verità sul misterioso libro, si allargherà presto a confidenze molto personali, battute, consigli, tenerezze. I piani di lettura divengono così molteplici. Un primo livello è costituito dalla storia narrata ne La Nave di Teseo. Un secondo è fornito dalle note a piè pagina di Caldeira, che non conobbe direttamente l’autore (Straka) ma ebbe con lo stesso un fitto scambio epistolare; Caldeira interviene spesso per illuminare, secondo il proprio personale giudizio, molti passaggi del testo. Un terzo livello è all’evidenza quello rappresentato dalle annotazioni di Jen ed Eric, che costruiscono una storia paralle-
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la principalmente dedicata alla loro vita e alle loro esperienze. Contribuiscono ad arricchire il quadro i numerosi inserti che forniscono aiuti nella decifrazione dei codici contenuti nel testo o aggiungono informazioni sulla vita di tutti i protagonisti. Se di primo acchito S. sembra dedicato a coloro che amano l’oggetto-libro, basta poco per acquisire la consapevolezza di una realtà ben più complessa, rivolta a cultori della ricerca non confinata alla pagina stampata ma, piuttosto, aperta ad ogni possibile contributo. Non a caso sono sorti numerosi siti specializzati che si occupano di rintracciare tutte le anomalie e gli indizi contenuti in quest’opera. Esiste un blog ufficiale, una wiki dedicata, siti che ripercorrono tutta la cronologia degli eventi legati al romanzo e della vita dell’autore immaginario, altri che spiegano l’utilizzo della eotvos wheel (un ‘docodificatore’, tra gli allegati al libro)… Abrams ricerca e ottiene così la ‘multime-
dialità del libro stampato’, che si arricchisce quasi quotidianamente di elementi e di contributi. La storia narrata ne La nave di Teseo si apre con un personaggio che ha dimenticato la propria identità; fradicio, come se fosse appena emerso dall’acqua, girovaga senza meta in una città cupa, di notte, incontrando strani personaggi e inquietanti ombre, fin quando in un locale tetro s’imbatte in una giovane donna, Sola, dalla quale si sente da subito mesmericamente attratto. Non riesce a scambiare con lei che poche parole; viene infatti poco dopo tramortito, probabilmente drogato, e rapito. Al suo risveglio si ritrova su una nave inquietante, salpata verso una meta ignota, condotta da marinai con le labbra cucite (in senso letterale), agli ordini di un losco figuro dalla mole impressionante che parla una lingua pressoché incomprensibile. È proprio quest’uomo a rivelare al rapito che il suo nome è S. tacendo però ogni altra informazione.
Così il malcapitato, in attesa di conoscere il proprio destino, inganna il tempo cercando di comprendere i tanti segreti che la nave sembra celare, oltre alla misteriosa rotta. Perché tutti i marinai (tranne uno) hanno le labbra cucite? Perché quando risalgono da sottocoperta sembrano come esauriti, privi di forza? Perché la nave sembra costruita con materiali di fortuna più volte sostituiti? E su tutte continuerà ad echeggiare sempre più prepotente la domanda: chi è lui? Mentre il lettore segue questa storia, immancabilmente viene costretto a gettare lo sguardo sulla profonda attività di ricerca condotta dai due giovani studiosi Eric e Jen, che cercano di far luce sui reconditi significati del testo e sulla misteriosa scomparsa del suo autore, V.M. Straka, personaggio quasi mitico che la storia pare accostare ai più disparati moti rivoluzionari in ogni parte del mondo. Sui tanti misteri che ruotano attorno a Straka (chi era, cosa ha voluto dire nei suoi tanti romanzi, in cosa era implica-
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to…) pare abbia indagato anche chi ha curato il testo. Le stesse note inserite a piè pagina non sono semplici chiose o commenti, ma veri e propri messaggi in codice. Rivolti a chi? Straka è davvero morto? Mentre Jen ed Eric indagano il profondo mistero, emergono sinistri particolari. ‘S’ infatti non è soltanto la lettera con la quale viene identificato il protagonista immaginario del romanzo (lettera che apparirà nei luoghi più vari da costui raggiunti), ma pare anche un simbolo criptico legato a una qualche misteriosa associazione segreta alla quale era forse legato lo stesso Straka. Questo simbolo è ben conosciuto dall’ex insegnante di Eric e attuale insegnante di Jen, il professor Moody – da Eric accusato d’avergli sottratto il risultato della sua ricerca su Straka –, e dalla di lui assistente Ilsa, in precedenza legata allo stesso Eric e ora relatrice di Jen. In un siffatto quadro, il disorientamento per il lettore è immancabile. Ma è indubitabilmente un risultato voluto.
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Anche quando al lettore sembrerà di aver trovato punti fermi, ci sarà sempre un particolare, una nota, un commento di Jen o Eric a rimettere tutto in discussione. Disseminato di indizi e tracce, simbolismi e false piste, S. vuole risultare di continuo stimolo, e gli spunti per il gioco sono infiniti: il numero 19 ricorre di frequente (19 sono i marinai della nave, 19 sono i libri di Straka, la lettera ‘s’ è la diciannovesima dell’alfabeto americano…); numerosi riferimenti anche espliciti rimandano alle misteriose figure di Nazca; nelle note spesso sono celati codici, e molte delle coordinate che si incontrano possono essere ‘lette’ attraverso la eotvos wheel. A offrire ulteriori chiavi di lettura concorrono i richiami alle precedenti opere di Straka (non sfugge una qualche stretta connessione tra una di queste, intitolata Coriolis, e La nave di Teseo, o meglio, la sua rotta), le tesine di Jen, i parallelismi tra la vita di Straka e altri scrittori e letterati… Perfino gli errori rintracciabili nel testo (come il nome della
casa editrice diverso nella copertina e nel frontespizio, o, per esempio, il fatto che Jen ed Eric facciano risalire alla Seconda Guerra Mondiale l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando) sono presumibilmente voluti per nascondere essi stessi dei codici. La lente attraverso la quale leggere S. può forse ricercarsi su un piano più squisitamente filosofico. Il titolo del libro fa riferimento a una particolarità legata alla nave del famoso eroe greco: le parti di questa venivano di continuo sostituite, tanto che alla fine l’imbarcazione non ebbe più un solo pezzo originale. La questione metafisica che ne emerge è la seguente: un’entità le cui componenti mutino tutte nel tempo, pur in costanza di forma, mantiene la propria identità? S., dimentico di se stesso, assumerà via via ruoli diversi, senza mai ricordare del proprio passato altro che confusi frammenti; nato dall’acqua (e a questa tornato più volte) sembrerà di volta in volta
perdere qualcosa di sé e acquisire qualcosa di nuovo, come la nave sulla quale viaggia. Sicuramente alla fine sarà una persona diversa da quella che era stata rapita; potrà allora dirsi ancora S? Allo stesso modo Jen ed Eric, molto cambiati nel tempo, messi di fronte a scelte importanti e a difficili crisi, sono o no le stesse persone di quando hanno iniziato a leggere La Nave di Teseo? Può il loro incontro avere modificato ciò che erano? La questione è essenziale, se solo si considera che proprio l’identità dei vari protagonisti (da S a Straka a Caldeira, ma non solo loro) è continuamente posta in discussione. Ma è altresì possibile che il gioco, filosofico o meno, sia meramente fine a se stesso e che non ci sia una vera e propria soluzione. Il viaggio, con alta probabilità, vale più della meta. Il che sospinge a interrogarsi sul vero valore di quest’opera. È bene evidenziare che la storia narrata per così dire al primo livello non riveste
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JEFFREY JACOB ABRAMS
Al San Diego Comic-Con International 2015 foto: ©GAGE SKIDMORE www.flickr.com/photos/gageskidmore/
particolare originalità. Come ha fatto ben notare anche Francesco Stefanacci nel suo blog Cronache di un Disadattato, al di là del facile rimando alla ‘K.’ del cognome del protagonista de Il Processo di Kafka (‘k’ come Keine, come negazione di se stessi), ‘S.’ richiama piuttosto con ben maggior vigore V., il romanzo d’esordio del postmodernista americano Thomas Pynchon. Edito nel 1963, da subito osannato dalla critica e divenuto noto al pubblico anche grazie al fumetto di Alan Moore V. per Vendetta (dove il protagonista legge spesso l’indicato testo), il romanzo tratta della inesausta ricerca da parte del giovane Stencil della misteriosa V., il cui nome menzionato con la sola iniziale compare negli appunti del padre (di Stencil) Sidney, membro dei servizi segreti morto in circostanze non chiare durante lo svolgimento di un’indagine sui moti del giugno del 1919 a Malta. I punti di contatto sono notevoli: Stencil (iniziale ‘S’) cerca V. così come S. cerca Sola; altro protagonista di V. è Profane, ex marinaio che entra a far parte della Banda dei Morbosi (the Whole Sick Crew) che
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tanto ricorda l’equipaggio della nave di Teseo, in lento inesorabile disfacimento; lo stesso autore Pynchon, tanto riservato da guadagnarsi fama di misantropo, è misterioso quanto appare esserlo Straka. Non costituisce assoluta novità l’idea di inserire commenti a margine della storia che vengono a costituire essi stessi una storia a parte o una meta-storia, oppure elementi che valicano i limiti della pagina. Si pensi a Infinite Jest, di David Foster Wallace (edito nel 1996), dove le note divengono digressioni infinite, o ancor più a Fuoco Pallido, di Nabokov (edito nel 1962), dove l’opera poetica dell’immaginario John Shade è commentata dall’altrettanto immaginario Charles Kinbote. O ancora, nel recente Le Mappe dei Miei Sogni di Reif Larsen (edito nel 2009) la storia è accompagnata da schizzi e mappe che materializzano l’interesse del giovane protagonista cartografo per ogni dettaglio e per la rappresentazione dei luoghi che visita. Se il progetto S. sconta antecedenti illustri e risente evidentemente del medesimo afflato che aveva suggerito ad Abrams l’idea di Lost, non si può tuttavia che ammirare l’infinita attenzione, precisione e cura realizzativa nel perseguire l’unico, lodevole scopo: consentire al lettore un viaggio quanto mai appagante, a prescindere dalla meta. S. appare dunque a tutti gli effetti un’esperienza che il lettore non può perdersi. <
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Inter VIEW
Schegge di
FANTASTICOtra
CARTA e WEB di NICOLA PARISI
Uno sguardo sull’editoria italiana di genere attraverso le tappe di una ventennale esperienza maturata in prima linea: incontro con Silvio Sosio.
Q
UESTO MESE l’ospitalità offertami da Terre di Confine Magazine mi dà la possibilità di poter riproporre un’intervista apparsa in precedenza sul mio blog Nocturnia, risultato della mia conversazione con Silvio Sosio (conosciuto in rete anche come S*) nella sua duplice veste di appassionato di fantastico e di editore. In particolare voglio soffermarmi un attimo sul secondo ambito, quello di editore. Nel 1994, il nostro crea assieme a Luigi Pachì la rivista online Delos Science
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Fiction, di cui è a lungo anche curatore editoriale, mentre oggi continua a mantenerne il ruolo di direttore responsabile. Nel 1996 è fondatore del sito Fantascienza.com. Altro anno importante è il 2003, quando, assieme a Luigi Pachì e a Franco Forte, costituisce Delos Books, che opera come associazione culturale e casa editrice, pubblicando diversi testi di fantascienza, fantasy e horror. Ringrazio Silvio Sosio, per la sua gentilezza e per essersi prestato al fuoco di fila delle mie domande.
Intervista a
Silvio Sosio Bene Silvio, se sei d’accordo vorrei partire con il Sosio appassionato e poi passare al Sosio editore. Cominciamo con l’appassionato. Mi piacerebbe sapere quando è nato in te l’amore per la narrativa fantastica e perché. Ciao Nicola, grazie per l’ospitalità. I miei primi contatti con la fantascienza risalgono davvero alla notte dei tempi. Avevo credo otto anni quando ho letto per la prima volta Cronache Marziane di Bradbury, seguito dal ciclo della Fondazione. Poi mi capitò di leggere La Storia della Fantascienza di Jacques Sadoul, un libro fondamentale non solo perché fornisce una mappa dei migliori autori e testi del genere ma perché è capace di stimolare in modo incredibile quel ‘senso’ particolare che noi fantascientifici condividiamo, il senso del meraviglioso. Quali sono gli autori che ti hanno più colpito come lettore? Isaac Asimov è stato senz’altro l’autore che mi ha introdotto al genere. Ancora oggi lo considero una delle migliori sintesi del genere fantascienza. Più avanti ho amato molto anche autori ai confini del genere, come Jack Vance o Kurt Vonnegut. Oggi in qualità di curatore di riviste e di collane ho la possibilità di
trasformare le mie preferenze in pubblicazioni, quindi sono sotto gli occhi di tutti: Nancy Kress, Robert Sawyer, Paul Di Filippo, Charles Stross, Aliette de Bodard. Quando poi ti è capitato di incontrare e di conoscere personalmente (magari in veste di professionista, giornalista o editore) alcuni degli scrittori che avevi conosciuto da appassionato, a livello umano quali sono state le maggiori sorprese (sia in senso positivo che negativo)? Quelle in senso negativo non le dico. Ma sono state comunque rare; una cosa che si scopre con piacere
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GLI ESILIATI DI RAGNAROK
(The Survivors, 1958) di Tom Godwin DELOS BOOKS, 2006 Collana ODISSEA FANTASCIENZA 157 pagine ISBN-13: 9788889096406
LA TRILOGIA STEAMPUNK
(The Steampunk Trilogy, 1991-93) di Paul Di Filippo DELOS BOOKS, 2011 Collana ODISSEA FANTASCIENZA 318 pagine ISBN-13: 9788865301746
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è che gli scrittori americani o britannici sono spesso molto più disponibili o alla mano degli autori europei. Alcune persone sono davvero squisite, come Kathryn Rusch, o Sawyer, Di Filippo, Tanya Huff, Mike Resnick. O anche superstar come Neil Gaiman. Una delle sorprese più positive, se vogliamo, è stata quella di Harlan Ellison. Che ha una fama di piantagrane, pronto a fare causa a chiunque; ma è uno degli autori che ho adorato, e gli ho chiesto un racconto. Nell’occasione è stato gentilissimo, e anzi volle lasciarmi un suo pensiero per Vittorio Curtoni, che all’epoca era scomparso da poco e che lui ricordava bene. Il momento in cui hai scoperto l’esistenza di un mondo fatto di altri appassionati come te? Quando ero ragazzo non c’era Internet, ma c’era il bollettino dell’Editrice Nord, il Cosmo Informatore, che pubblicava regolarmente notizie sulle attività degli appassionati. Nel 1980 andai alla mia prima convention, l’Eurocon di Stresa, ma non conoscevo nessuno. Poi nel 1981 venni a sapere di questo club di appassionati costituitosi a Milano, il club
City, mi iscrissi e lì fu davvero l’inizio di molte cose. Veniamo adesso al ‘Sosio professionista del settore’. La trasformazione comincia con la fanzine La Spada Spezzata negli anni ’80 e poi con la fondazione assieme a Luigi Pachì della rivista online Delos Science Fiction nel 1994. Ormai da tutti sei identificato come ‘l’uomo della Delos’, che nel frattempo si è trasformata in vera e propria casa editrice. Che bilancio tracci di questi anni di esperienza? C’è qualche cosa che oggi non ripeteresti? E cosa invece ti ha dato maggiore soddisfazione? È stata una bella cavalcata… a parte un breve periodo di allontanamento, sono più di trent’anni di attività fantascientifica. Abbiamo fatto infinite cose e anche molti errori, ma sempre in buona fede. Abbiamo esplorato tante strade, spesso in anticipo sui tempi, come con la prima rivista online e i primi e-book, pubblicati già nel 1996. Ci sono molte cose che non rifarei col senno di poi – per esempio l’esperienza della Solid, la prima casa editrice fondata nel 2001 lasciando
WEIRD PAUL
Italcon a Bellaria (RN), 2012, è la perfetta occasione d’incontro con Paul Di Filippo.
troppe responsabilità a un amministratore che non fu capace di onorarle – ma d’altra parte anche gli errori servono per imparare, no? Io ho sempre detto che la cosa più difficile è tenere duro e andare avanti. Le cose che mi danno più soddisfazione sono aver pubblicato ben 170 numeri di Delos Science Fiction, di uscire tutti i giorni con una nuova edizione di Fantascienza.com da più di quindici anni, di aver pubblicato 33 numeri di Robot. Per non parlare dei circa quaranta e-book che pubblichiamo ogni mese con Delos Digital ormai da oltre un anno. La Delos ha ormai al suo attivo diverse pubblicazioni interessanti, cito ad esempio la rivista Robot, le collane Odissea Fantascienza e Odissea Zombie. Quali sono le collane che vendono di più e quali i singoli volumi che potete considerare come i più venduti? I nostri libri più venduti sono di gran lunga quelli della serie di Sookie Stackhouse di Charlaine Harris. Dopo di essi credo ci sia Il Prontuario dello Scrittore di Franco Forte. I libri di fantascienza più venduti sono Gli Esiliati di Ragnarok di Tom Godwin e La Trilogia Steampunk di Paul Di Filippo. Tra gli italiani credo Mondo9 di Dario Tonani e Nessun Uomo è Mio Fratello di Clelia Farris. Robot ha un andamento incredibilmente stabile; viceversa, come sai, il mercato librario e in particolare la fantascienza
sono crollati negli ultimi anni. All’inizio gli Odissea Fantascienza vendevano quasi tremila copie, con gli ultimi volumi eravamo scesi sulle seicento copie. Ora abbiamo fatto una lunga pausa sui libri stampati, probabilmente nel 2015 riprenderemo con qualche uscita, più che altro di fantascienza. Sin dal 1993 sei stato uno dei primi a tentare di diffondere la fantascienza (ma anche la narrativa fantastica in generale) in rete. Com’è cambiata in questi anni la percezione dei lettori verso la lettura in digitale? E quali vantaggi porta l’editoria in digitale rispetto a quella tradizionale? Ricordo quando, nel 1995 mi pare, io e Luigi Pachì abbiamo tenuto una conferenza a una convention di fantascienza sulla SF in rete. Potrei fare l’elenco delle
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MYSTICAL JIM
Delos Days a Milano, 2011: quattro chiacchiere in allegria con il pluripremiato Robert James Sawyer (Nebula 1995, Hugo 2003).
persone presenti nel pubblico: non erano più di cinque o sei. Un paio d’anni dopo Fantascienza.com era di gran lunga la testata di fantascienza più letta in Italia (lo è tuttora, direi). Ormai la gente comunica quasi solo via Internet, anche se negli ultimi anni Facebook si è appropriato di quasi tutta l’attività sociale, spogliandone i forum e i blog. Nel frattempo sono arrivati gli e-book: noi siamo stati tra i primi in questo settore, che piano piano anche in Italia sta cominciando a fare numeri interessanti. C’è stato un lungo periodo in cui ogni volta che dicevi ‘e-book’ scattava in automatico la risposta ‘ah io ho bisogno di sentire l’odore della carta’. Ora accade più
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di rado, e d’altra parte comincia a esserci una sostanziosa produzione solo in digitale, quindi anche i più reticenti stanno cominciando a leggere in entrambi i modi. La fantascienza ha sempre goduto di una base di collezionisti sui quali contare quando si pubblicava qualunque libro cartaceo. Con gli e-book questo non funziona. Eppure, a quanto sembra, tra i lettori di e-book la percentuale di persone interessata alla fantascienza è maggiore che non tra i lettori normali. Un buon segno per il futuro del genere? Invece quali sono i maggiori limiti dell’editoria digitale rispetto a quella tradizionale? Ti faccio tutte queste domande perché recentemente sul numero 71 di Robot hai annunciato di voler lentamente ridurre le pubblicazioni in cartaceo a vantaggio del digitale.
Dunque, i limiti dell’editoria digitale sono molti. Per esempio, non puoi usare i libri digitali per regolare la gamba di un tavolo che traballa, per schiacciare le mosche, per tirarli in testa a una persona che dice che la fantascienza è un genere infantile. Inoltre come ben sanno i fan del cartaceo c’è tutta una aromatologia della carta che viene a mancare. Chi usa i libri per leggerli invece tendenzialmente apprezza gli e-book. Non ti costringono a uscire di casa per far loro posto, non ti spezzano la schiena quando ti porti le letture in vacanza, ti permettono di ingrandire il carattere per leggere comodamente anche se sei presbite, eccetera. Da un punto di vista editoriale, certo, vendono ancora un po’ meno dei libri. Anche se in realtà hanno un ciclo di vita molto diverso: il libro vende tutto nei primi due mesi, poi sparisce; l’e-book parte piano ma continua a vendere. Per esempio del nostro libro Gli Esiliati di Ragnarok abbiamo venduto più e-book che copie stampate. Certo, il libro stampato è un disastro. È difficile vendere le copie, e anche quando le hai vendute non sai mai se
resteranno tali, per il perverso meccanismo delle rese. Hai costi di magazzino, devi strozzarti con gli sconti sempre più elevati imposti dalle grandi catene di librerie, costi logistici di spedizione, eccetera. È un mondo affascinante, ma anche difficile. Sempre nell’editoriale del numero 71 di Robot hai chiamato in causa i lettori (definiamola come una sorta ‘di chiamata alle armi’) come aiuto contro la crisi. Dal mio punto di vista di lettore vorrei dire la mia: personalmente mi piacerebbe poter sostenere di più il settore, ma sono in cassa integrazione (non certo per colpa mia ma a causa del proprietario dell’azienda che si è mangiato tutto con la squadra di calcio), di conseguenza mi tocca limitare le mie scelte e i miei acquisti. Come me credo ci siano tanti lettori. Inoltre, quando cerco di ordinare un libro, se non lo trovo in libreria non sono certo aiutato dalla burocrazia, l’IVA, i disservizi postali e altro. Quindi la mia domanda è: come si potrebbe uscire dalla impasse del settore? O se non altro invertire la tendenza?
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MORTI PER SEMPRE
(Dead Ever After, 2013) di Charlaine Harris DELOS BOOKS, 2013 Collana ODISSEA PARANORMAL 355 pagine ISBN-13: 9788865304075
ANGELI E ZOMBIE
(The Reapers are the Angels, 2010) di Alden Bell DELOS BOOKS, 2013 Collana ODISSEA ZOMBIE 190 pagine ISBN-13: 9788865303214
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MONDO 9
(2012) di Dario Tonani DELOS BOOKS, 2012 Collana ODISSEA FANTASCIENZA 167 pagine ISBN-13: 9788865303245
NESSUN UOMO È MIO FRATELLO (2009)
di Clelia Farris DELOS BOOKS, 2010 Versione e-book ISBN-13: 9788865300534
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Dubito che l’IVA possa causarti problemi, i libri non vengono fatturati al cliente finale, che l’IVA non la vede nemmeno. Noi vendiamo libri online da oltre dieci anni e la percentuale di libri persi è minima (e in ogni caso sempre a carico nostro, perché rispediamo quello che non arriva). Per quanto possa dispiacere, perché tutti amiamo le librerie, bisogna rendersi conto che chi è interessato a libri di nicchia non può più pensare di comprarli in un negozio. Acquistare online è più conveniente e la disponibilità delle librerie online non può essere eguagliata nemmeno dalle librerie più grandi. Sento spesso lettori di fantascienza lamentarsi dell’assenza di nuove uscite, ma la realtà è che per pubblicare un libro è necessario un numero minimo di acquirenti. I libri costano, devono essere tradotti, ci sono da pagare anticipi agli autori. Se i lettori di fantascienza spendono i loro soldi solo in Urania usati sulle bancarelle (per tacere di quelli che gli e-book se li procurano solo piratati) è evidente che la macchina non gira. Siccome i lettori di fantascienza sono ormai piutto-
sto pochi, occorre rendersi conto che i lettori hanno una responsabilità nei confronti della sopravvivenza dell’editoria in questo settore. Ecco, vorrei soffermarmi ancora un attimo sull’argomento IVA. Fino a poco tempo fa esisteva una differenza di tassazione tra il libro cartaceo (che era al 4%) e il digitale (al 22%). Adesso da pochi mesi questa disparità è stata cancellata ed entrambi i supporti sono stati portati al 4%. Sarebbe interessante conoscere l’opinione di un editore in proposito. I libri godono di un regime fiscale agevolato; si è portati a pensare che questo sia stato fatto per promuovere la cultura, ma in realtà il motivo va cercato nel ‘curiosissimo’ – dove per curiosissimo intendo allucinante… – modo in cui vengono venduti i libri: l’editore vende il libro alla libreria, la libreria lo paga, lo tiene un po’ lì, se non lo vende lo restituisce all’editore che rende i soldi. In sostanza un editore non sa mai quanti libri ha venduto: può essere convinto che un libro vada benissimo perché le librerie ne comprano tante copie, al punto
SATIRICAL BOB
Anno 2000: Silvio a Venezia in compagnia dell’indimenticabile Robert Sheckley.
magari da esaurirlo e farne una ristampa; poi le librerie non vendono e rimandano indietro tutto. Non c’è da stupirsi se tanti editori poi vanno a gambe all’aria. È comprensibile comunque che questo meccanismo con un’aliquota IVA normale sarebbe ancora più difficile da gestire. Gli e-book non hanno questi problemi. Tuttavia, negli anni l’aliquota IVA è stata estesa ad altri settori che funzionano in modo del tutto diverso, come i periodici o i fumetti. È diventata quindi una vera e propria imposta ridotta per motivi culturali. A questo punto era corretto che anche gli e-book ne usufruissero. Fantascienza in Italia e Fantascienza italiana, due rapporti non sempre idilliaci: secondo te perché? La fantascienza è un genere nato e prosperato in USA e Gran Bretagna, questo è evidente. Tuttavia, mentre in altri Paesi si è cercato di incoraggiare gli autori locali, in Italia è avvenuto il contrario. Sarò esplicito: la colpa di questo ritardo è di Fruttero e Lucentini, che hanno diretto Urania nel periodo d’oro della fantascienza in Italia scoraggiando sistematicamente e programmaticamente gli autori italiani. Che hanno trovato qualche spazio altrove, spesso dimostrando le loro qualità, ma tagliati fuori dalla principale vetrina del genere. Quando è finita l’era F&L ed è nato il Premio Urania le cose hanno
cominciato a cambiare. Purtroppo ormai gli anni d’oro sono finiti. Recentemente sono venute a mancare molte persone fondamentali per il nostro settore, faccio fatica perfino a citarli tutti, ne ricorderò alcuni: Vittorio Curtoni, Riccardo Valla, Gianfranco Viviani, Lino Aldani, Inisero Cremaschi, Ernesto Vegetti, Frederik Pohl, Giuseppe Pederiali. Mi rendo conto che parlare di ognuno di loro non sarebbe possibile, ti andrebbe quindi di tracciare un ricordo di alcune di queste persone, diciamo di quelle che hai conosciuto meglio? Vegetti, Curtoni e Viviani per me sono stati importantissimi, dei mentori dai quali ho imparato moltissimo. Vegetti ha tenuto assieme il fandom in un’epoca molto travagliata, era una persona di grande onestà intellettuale e aveva un grande senso delle Istituzioni, che lui
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Collane
Delos Digital
applicava alla World SF e al Premio Italia; se i nostri politici si applicassero con la stessa serietà alla gestione della cosa pubblica l’Italia sarebbe un paese molto migliore. Curtoni con la sua Robot è stata di ispirazione per me (come per molti altri fanzinari) fin dai tempi de La Spada Spezzata; si può dire che negli anni ho sempre teso a replicare Robot, finché non sono arrivato a fare, proprio con lui, Robot stessa. Aveva una grandissima umanità. Gianfranco Viviani mi ha insegnato il mestiere di editore: quasi tutto quello che so l’ho imparato da lui. Era uno straordinario artigiano, uno al quale piaceva il mestiere di editore dalla A alla Z, uno sempre pronto a darsi da fare, anche a costo di mettersi a spostare scatole. Cremaschi non l’ho mai conosciuto, Aldani e Pederiali purtroppo solo di sfuggita. Valla era un piacere chiacchierarci insieme, un caleidoscopio intellettuale. Frederik Pohl per me era l’incarnazione della fantascienza: fan, scrittore, editore, curatore, agente. Sapeva l’italiano e ogni tanto rispondeva alle mie e-mail con frasi nella nostra lingua. Amichevole e disponibile in modo incredibile. Quali sono i romanzi e gli autori italiani e stranieri che in questi ultimi anni hanno convinto sia il Sosio lettore che il Sosio editore? Be’, tutte le cose che pubblico mi hanno convinto, altrimenti non le avrei pubblicate. Sono particolarmente contento degli autori italiani che abbiamo pubblicato negli ultimi anni, come Dario Tonani, Francesco Verso e Davide Del Popolo Riolo, come pure del romanzo breve di Clelia Farris La Madonna delle Rocce.
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IL CIRCOLO D’IMMAGINAZIONE
Ancora Delos Days, a Milano, 2011, con la rimpatriata tra i soci dello storico club City. In piedi, da sinistra: Silvio Sosio, Luigi Pachì, Dario Tonani, Claudio Battaglini, Franco Forte, Giorgio Ginelli. Seduto: il fondatore Mario Sumiraschi.
Progetti futuri: a cosa stai lavorando adesso e cosa ci dobbiamo aspettare da Silvio Sosio e dalla Delos nel prossimo futuro? I fronti sono come sempre molti. Personalmente sto lavorando ai restyling dei siti web (Fantascienza.com, FantasyMagazine eccetera), a un rilancio della collana Odissea Fantascienza (anche stampata) e a un’espansione delle attività di Delos Digital. Ci sono molte idee, vediamo cosa ne verrà fuori!
Bene, Silvio è tutto, ti ringrazio per esserti sobbarcato questa lunga intervista. Nel salutarti ti rivolgo l’ormai classica domanda finale di Nocturnia: esiste una domanda alla quale avresti risposto volentieri e che io invece non ti ho rivolto? Hai fatto un’intervista molto esaustiva e completa; un argomento aggiuntivo su cui avrei detto qualcosa volentieri sono le varie saghe di fantascienza che abbiamo pubblicato nelle nostre collane Delos Digital, come Mechardionica, Tecnomante, Red Psychedelia, I Necronauti, Chew9, La Guerra di Ain, o le due steampunk che sono in attività e che proporranno ancora bellissimi episodi nei prossimi mesi, Trainville di Alain Voudì e Il Circolo dell’Arca di Roberto Guarnieri. Costano poco e sono serie ben scritte e decisamente divertenti: dategli una possibilità, non ve ne pentirete. <
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STILE e dintorni
Se il protagonista
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SOFFRE DI SOLITUDINE di SOLANGE MELA
Alla ricerca di un perfetto equilibrio tra i personaggi: l’importanza di calibrare i rapporti che li legano e attribuire a ogni ruolo il corretto spazio.
IN
FASE DI progettazione della struttura di una storia, dopo aver delineato i personaggi principali attorno ai quali si svilupperanno le vicende, sorge il problema di quanto spazio e quanta attenzione dedicare ai personaggi di contorno. La scelta dei ruoli spesso è obbligata dal genere di scritto: in una commedia o in una tragedia a sfondo famigliare, per esempio, i personaggi che interagiscono con il protagonista sono principalmente
i parenti, con caratteristiche e ruoli quasi predefiniti dal legame di sangue, di matrimonio, di adozione. Padre e madre, quale che sia il loro carattere, eserciteranno sempre un forte ascendente sul protagonista, anche in loro assenza; e se è il protagonista a essere genitore, simile percezione del ruolo la daranno i suoi figli, ai quali egli sarà legato in maniera possessiva. A seconda dell’epoca storica e dell’ambientazione, i rapporti famigliari variano;
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foto: ©INGAR SØRENSEN
www.sorensenfoto.no
modella: CAROLINE THOMASSEN
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LEGAMI DI FAMIGLIA
Julia Roberts e Sally Field, figlia e madre, in una scena di Fiori d’Acciaio (Street Magnolias, 1989). Il ruolo di coprotagonista valse alla Roberts il Golden Globe.
puntando allora sulla coerenza spaziale e temporale e su diverse tipologie di conflitto si può creare ogni genere di tensione narrativa. Quando invece si scrive una storia slegata dall’ambito famigliare (sia essa fantascienza, fantasy, thriller, erotica o altro genere), i personaggi di contorno perdono la confortante etichetta imposta dal legame di sangue, e sorge il problema di caratterizzarli, di dar loro personalità e voce senza che sovrastino il protagonista. Suddividiamo le tre tipologie dei personaggi in questione, che in ordine ‘gerarchico’ d’importanza sono: il comprimario, il coprotagonista, il secondario.
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IL COMPRIMARIO La definizione di comprimario è: “colui che è primario insieme con altri”. In ambito teatrale: “attore o cantante che ha una prima parte dopo quella dei protagonisti”. [cit. Vocabolario Treccani] Mentre il protagonista innesca il meccanismo principale della storia, i comprimari sono figure di spalla o di contrasto, indispensabili per lo svolgimento della trama. Mediante il confronto con il protagonista ne delineano il carattere, la moralità, gli ideali, le scelte obbligate. Rispetto al personaggio principale: • Possono far parte dell’ambito famigliare, come nel caso del film Fiori d’Acciaio, dove l’attrice non-protagonista (Golden Globe 1990) Julia Roberts è la figlia (Shelby) della protagonista Sally Field (M’Lynn). La storia della figlia malata di diabete è di supporto a quella della madre, una donna all’apparenza fragile, ma
che affronta le scelte della figlia con un coraggio e una fermezza che vanno oltre l’affetto, anche quando queste portano alla morte di Shelby. Nonostante sia Shelby al centro dell’attenzione, la storia è di M’Lynn, ed è attorno a quest’ultima che la famiglia si stringe nei momenti di massima crisi. Di uguale impatto il ruolo drammatico di non-protagonista recitato da Anna Paquin in Lezioni di Piano come figlia di Holly Hunter, che è anche voce narrante della sceneggiatura originale di Jane Campion. Simile a Lezioni di Piano come costruzione narrativa è La Lettera Scar-
LA MOGLIE DEVOTA
Jennifer Connelly in A Beautiful Mind (2001) è premiata con l’Oscar come miglior attrice non protagonista per il ruolo di Alicia, la moglie del delirante matematico John Nash (Russell Crowe).
latta di Nathaniel Hawthorne; anche qui è la figlia della protagonista a raccontarne le vicende. Altrettanto fondamentale il ruolo di comprimaria sostenuto da Jennifer Connelly come moglie di Russell Crowe in A Beautiful Mind, la storia del premio Nobel John Nash liberamente ispirata all’omonima biografia di Sylvia Nasar. • Possono essere gli amici inseparabili, magari un collega o l’amante, qualcuno il cui legame col protagonista implichi spesso un ruolo di confidente, confessore, fratello di anima. È il caso del comprimario di Sherlock Holmes, John Watson, senza il quale le storie del famoso investigatore avrebbero avuto un sapore diverso. Nel controverso I Segreti di Brokeback Mountain, Jake Gyllenhaal interpreta un non-protagonista d’eccezione come
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amante di Heath Ledger, diventando quasi il perno della trama, nonostante la storia sia incentrata sul rapporto tra Ledger e sua moglie. Più sfumati, ma con una presenza costante, i comprimari proposti dai romanzi di Jane Austen: Mr. Darcy di Orgoglio e Pregiudizio, o il colonnello Brandon di Ragione e Sentimento, solo per citarne alcuni. Il primo serve da specchio nel quale l’orgogliosa Lizzie si riflette scoprendosi inadeguata a reggere il confronto con le più raffinate coetanee. Il secondo è una sorta di cavaliere solitario che diventa il supporto familiare delle signore Dashwood, dimostrando che non è l’avvenenza la dote migliore di un uomo ma la costante presenza anche nella disgrazia.
IL MAESTRO
Sean Connery, miglior attore non protagonista, in The Untouchables - Gli Intoccabili (1987) è il poliziotto irlandese Jim Malone, collega, mentore e coscienza dell’agente Eliot Ness (Kevin Costner).
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Un altro comprimario di notevole impatto scenico è Sean Connery ne Gli Intoccabili. Il suo ruolo è di mentore, un collega più anziano ed esperto che non solo collabora col protagonista Kevin Costner (l’agente federale Eliot Ness) ma riesce a diventarne una sorta di coscienza. Così come il silenzioso cowboy interpretato da Jack Palance in Scappo dalla Città, che si trasforma nel maestro di vita di un disorientato Billy Crystal. Indimenticabile la parte di supporto a Nicole Kidman che Renée Zellweger recita in Ritorno a Cold Mountain (le valse l’Oscar come non-protagonista), e la frase che l’ha resa immortale: “Dicono che la guerra è una nube sulla terra, ma che tempo fa l’hanno deciso loro e ora se ne stanno sotto la pioggia a dire ‘ancora piove’”. Renée assume un ruolo di sorella, di madre, di compagna, e condivide con la protagonista – cresciuta nel benessere e nell’inerzia di uno status sociale privilegiato – le difficoltà della fame e della miseria risollevandola dall’indigenza con la
IL PARTNER INSEPARABILE
Il dottor John Watson, amico fidato di Sherlock Holmes nei romanzi di Arthur Conan Doyle, è il comprimario per antonomasia. Qui lo vediamo in versione femminile, interpretato da Lucy Liu nell’originale rivisitazione Elementary. Gran parte della caratterizzazione di Sherlock (Jonny Lee Miller) emerge attraverso le schermaglie dialettiche e l’interazione con Joan.
sua praticità e fermezza. • Possono costituire gli antagonisti, che diventano spesso nemesi del protagonista. Per tornare a Sherlock Holmes, il professor Moriarty è il suo peggior nemico, ombra inafferrabile che si cela dietro alla maggior parte degli omicidi e dei complotti. O si può citare Ra’s al Ghul, uno dei più terribili antagonisti di Batman, ma in passato suo amico e per questo ancora
più difficile da affrontare. Nell’adattamento cinematografico di Amabili Resti, dell’autrice Alice Sebold, il ruolo dell’antagonista è magistralmente interpretato da Stanley Tucci, l’insospettabile vicino di casa, un personaggio caratterizzato in modo straordinario, in apparenza senza nulla che lo associ a un omicida. Nella più imponente opera letteraria fantasy, Il Signore degli Anelli, la figura di Sauron è la massima incarnazione del comprimario che non appare quasi mai in prima persona ma la cui presenza è costante, come un burattinaio che muove i fili dei personaggi. Non è il protagonista principale, eppure senza di lui la storia non avrebbe senso. Riassumendo, il ruolo del comprimario è importante, a volte quanto quello del
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LA COMPAGNIA DELL’ANELLO
Il gruppo di otto eroi che accompagna Frodo alla volta di Mordor, in una delle famose illustrazioni di Greg & Tim Hildebrandt per la serie di calendari de Il Signore degli Anelli.
protagonista. È necessario quindi che la sua caratterizzazione sia ben curata, coerente e fornita di un articolato background. IL COPROTAGONISTA Scendendo la scala di importanza troviamo i coprotagonisti, che possono essere molti. A differenza del comprimario, il cui impatto è rilevante e attivo, i coprotagonisti possono anche limitarsi a un ruolo passivo. Ad esempio, le sorelle Bennet di Orgoglio e Pregiudizio spesso vengono inserite come sole ‘macchiette’, per delineare una panoramica famigliare e rappresentare stereotipi sociali. I coprotagonisti delle opere di Shakespeare sostengono ruoli creati ad hoc, ben definiti ed etichettati, senza necessità di
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background. Pensiamo alla balia e allo speziale in Romeo e Giulietta, o a Puck, a Teseo e Ippolita, a Egeo in Sogno di una Notte di Mezza Estate; questi personaggi di contorno hanno il compito di definire meglio l’ambientazione e partecipano alla trama interagendo direttamente con il protagonista e il comprimario. I coprotagonisti più importanti nelle saghe corali, sia letterarie che teatrali e cinematografiche, appaiono facendo quasi squadra attorno ai protagonisti. Tra i più famosi, i componenti della Compagnia dell’Anello. Ma anche gli amici di Romeo Montecchi, Mercuzio in primis. La saga de Il Trono di Spade ha una lista infinita di coprotagonisti, che a volte sembrano elevarsi al ruolo di comprimari nonostante l’autore abbia già stabilito di eliminare molti di loro in tempi brevi. In mano a un autore esperto, il colpo di scena costituito dalla morte inaspettata di un coprotagonista rilevante è un espediente efficace per imprimere una scossa la storia. Tuttavia, in fase di preparazio-
ne, occorre valutare con cura l’effettiva grammatura di un personaggio: perdere del tempo per caratterizzarne uno che ha un ruolo passivo e secondario, e poi lasciarlo indietro perché la sua presenza non è necessaria, è un’operazione spesso dispersiva e rischiosa. Alla fine il lettore attento potrebbe accorgersi che un filo manca. La morte di un coprotagonista deve servire la trama; notiamo quella di Boromir della Compagnia dell’Anello, tra le più famose in ambito fantasy: crea una svolta nella storia e incide in modo determinante nello stato emotivo del protagonista Frodo. Nell’Amleto, l’intera vicenda fa perno attorno alla morte del re-padre coprotagonista, che appare all’inizio della trage-
USCITA DI SCENA
Dopo quella di Boromir ne Il Signore degli Anelli - La Compagnia dell’Anello, un’altra eliminazione a sorpresa per Sean Bean ne Il Trono di Spade (Game of Thrones), dove recita il ruolo di Eddard ‘Ned’ Stark, lord di Grande Inverno.
dia sotto forma di fantasma reclamando vendetta, per poi permanere solo come ossessione nel figlio. Eclatante in questa tragedia il ruolo di Rosencrantz e Guildenstern, che Shakespeare elimina fuori scena. La loro morte viene semplicemente annunciata nell’ultimo atto della tragedia con la famosa e lapidaria battuta “Rosencrantz e Guildenstern sono morti”. Un’altra opera esemplare dove i coprotagonisti vengono sistematicamente eliminati è Il Profumo, di Patrick Süskind; quei personaggi, pur ‘provvisori’, sostengo un ruolo indispensabile, senza il quale il protagonista Grenouille non potrebbe evolvere nella sua esperienza di profumiere-assassino. IL SECONDARIO Come il coprotagonista, il personaggio secondario può variare da uno a mille, ma la sua presenza non scavalca mai gerarchicamente quella degli altri. La sua importanza è relativa: può servire a definire anche solo una scena e poi
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sparire nel nulla. L’autore gli dedica meno attenzione: lo può descrivere fisicamente, assegnargli un ruolo attivo o passivo, ma senza perdere tempo a delinearne in modo approfondito psicologia, comportamento e background. A volte i personaggi secondari rivestono semplicemente un ruolo tecnico, non legato a un preciso individuo che anzi nel suo ‘incarico’ può essere tranquillamente sostituito da un altro, perfino di sesso diverso. Per citare un esempio pratico, ‘M’, il direttore del Secret Intelligence Service della saga letteraria di James Bond, vie-
LA TATA
Hattie McDaniel è Mami, forse la bàlia più famosa di tutti i tempi, premio Oscar come miglior attrice non protagonista in Via col Vento (Gone with the Wind, 1939) nel ruolo di supporto alla Rossella O’Hara di Vivien Leigh, a sua volta Oscar come miglior attrice protagonista.
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ne interpretato da diversi personaggi, sia maschili che femminili, ma rimane comunque uno dei ruoli secondari più importanti all’interno dell’universo spionistico di Fleming. I secondari sono spesso personaggi-fantasma, possono essere solo citati e non apparire ‘fisicamente’ nella storia. Il loro ruolo è quello di riempimento: possono sostenere un risvolto psicologico di un altro personaggio, rappresentare un soccorso temporaneo, far parte del passato del protagonista, costituire il motivo scatenante di una situazione, generare una svolta nella trama… Ma è sempre consigliato non dargli un’importanza ‘strutturale’, per evitare che il lettore si aspetti una loro ulteriore e attiva comparsa, soprattutto (o perlomeno) nel finale della storia. Personaggio secondario famoso sia in letteratura che in cinematografia è la
IL DIRETTO SUPERIORE
Ralph Fiennes e Judi Dench dietro le quinte di Skyfall (2012), quasi un simbolico passaggio di consegne per il ruolo cinematografio di M, direttore dell’MI6 e fantomatico capo di James Bond nella celebre saga spionistica creata da Ian Fleming.
Mami di Via col Vento, la balia di Rossella O’Hara, e in alcuni momenti anche la sua coscienza. È un punto fermo nella vita della protagonista, rappresenta le radici e la famiglia. L’autrice Margaret Mitchell la riprende a tratti, ma senza mai farne una presenza invadente; Mami si limita a svolgere il suo piccolo ruolo, e se fosse rimossa dalla trama la storia non cambierebbe. Mancherebbe però quella figura solida e radicale che sostituisce i genitori
di Rossella dopo la guerra, escamotage che l’autrice utilizza per ridare alla protagonista lo slancio indispensabile a riprendersi dalle tragedie vissute. Stesso ruolo è quello del maggiordomo Alfred Pennyworth, che assume la veste di silenzioso padre putativo di Bruce Wayne/Batman, aiutando l’eroe a conciliare la sua doppia vita, supportando le sue decisioni e fornendogli arguti consigli su come gestire la complessa interpretazione del cavaliere oscuro. In conclusione, rispettando i ruoli così come la scala gerarchica esige è possibile creare un’ottima squadra di personaggi, ben definiti, che non rischiano di soverchiarsi a vicenda. Compito dell’autore sarà poi distribuire a quei ruoli le giuste caratterizzazioni, secondo le esigenze narrative. <
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LA DINAMITE
della Fantascienza
di FABRIZIO MELODIA
Harlan Ellison: autore eclettico, scrittore e sceneggiatore di talento, autentico cultore della SF.
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MAGINATEVI in un luogo fatto solo di immensi e piatti cunicoli, immersi in una semi oscurità che aumenta l’impatto delle ombre al vostro occhio. Insieme a un gruppetto di disgraziati come voi, sporchi, laceri, emaciati e bastonati, vi trovate sotto il giogo di un’immensa intelligenza artificiale, perfettamente logica ma soggetta a sentimenti di amore e odio, esattamente come voi, capace di pensiero indipendente e creati-
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vo. Però non può muoversi: i suoi creatori umani non l’hanno dotata di gambe con cui potersi spostare. Così medita vendetta, e l’attua costringendo voi in questa galera sottile e abbacinante, in cui siete oggetto di un trastullo sadico; vi tiene in vita, disperati, solo per bastonarvi e torturarvi meglio; vi porta al limite della sofferenza estrema ma lasciandovi il tempo per riprendervi. Alla fine non ce la fate più e ordite con
FABBRICANTI di Universi
TERMINATOR
Emilia Clarke e Arnold Schwarzenegger nel nuovo Terminator Genisys. Il film originale che diede il via alla saga nel 1984, scritto da JAMES CAMERON e GALE ANNE HURD, accredita un significativo “riconoscimento alle opere di” Ellison.
gli altri un piano per uccidervi a vicenda. Purtroppo, fra tutti i carcerati, rimanete in vita solo voi. La macchina senziente è decisamente arrabbiata e vi mostra quanto possa essere fantasiosa e perversa nella sua rappresaglia: vi trasforma in una specie di massa gelatinosa, tutta sensazioni moltiplicate all’infinito, senza organi di comunicazione. Una specie di blob che può sentire tutto il dolore delle sevizie, ma senza potersi muovere né suicidarsi, una entità torturata e macilenta, una condizione da vero e proprio inferno dantesco dove vorreste poter avere almeno la bocca, per urlare. Questo è il più bel racconto che io abbia
letto di Harlan Ellison, autore statunitense classe 1934, romanziere, saggista, scrittore per film e serie televisive. Fu durante un’estate afosa, alla mia solita libreria, mentre chiacchieravo amabilmente con il libraio, che mi venne fra le mani un’antologia degli Urania Mondadori, contenente una selezione di racconti vincitori del premio Hugo. Comincio a sfogliarla e l’occhio cade proprio sul titolo assolutamente evocativo e drammatico che mi avrebbe fatto conoscere il suo autore: Non Ho Bocca e Devo Urlare (I Have No Mouth, and I Must Scream, 1967). Chiesi alcune informazioni al mio maestro-libraio. Lui sintetizzò così: è un autore che in
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Italia non ha avuto la fortuna di una raccolta globale dei suoi racconti, scrive solo pezzi brevi ed è un tipo particolarmente eversivo. Molti affermano che la rivoluzione nella fantascienza sia avvenuta con la pubblicazione di Neuromante (1984) di William Gibson, che dava inizio alle tematiche cyberpunk e al nuovo linguaggio con cui la narrativa fantascientifica s’avventurava lungo le spirali del cyberspazio. Ritengo invece che Harlan Ellison sia stato la vera ‘nuova onda’ che ha spazzato via il calmo e tranquillo universo di un genere che andava lentamente arenandosi.
Io indago poco sulla vita degli scrittori, penso che i testi abbiano una vita propria e che molto spesso vadano ben oltre ogni più rosea intenzione dei loro autori, arrivando a essere vere e proprie entità senzienti, emanazioni platoniche delle idee che si agitano nell’inconscio collettivo di tutti noi. Per Ellison feci un’eccezione, scoprii che era davvero un carattere polemico e irruento, lasciò casa più volte passando da un lavoro all’altro, frequentò l’Università dell’Ohio per 18 mesi, prima di venirne espulso per aver colpito un professore. Alla fine giunse a New York dove intraprese la carriera di scrittore che dura ancora oggi, cominciando a lavorare per serie televisive quali Ai Confini della Realtà – voluto fortemente da Rod Serling, che per primo ne notò il talento vulcanico e la verve corrosiva – e Star Trek, per approdare negli anni novanta alla meravigliosa esperienza di Babylon 5, diretta antagonista, ironia della sorte, della serie Star Trek: Deep Space Nine, arrivando persino ad accuse di plagio da parte di Brannon Braga. Durante la sua carriera di autore televisivo, Ellison scrisse più di 100 racconti e arrivò a curare un’antologia considerata ancora adesso una vera e propria pietra miliare, da cui nessuno avrebbe mai più potuto prescindere: Dangerous Visions (1967, pubblicata in Italia da Mondado-
I HAVE NO MOUTH & I MUST SCREAM
La prima book edition (1967) della short story vincitrice del Premio Hugo (1968). In Italia il racconto è stato pubblicato con due titoli: Il Computer Sotto il Mondo e Non Ho Bocca e Devo Urlare.
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BABYLON 5
Il cast della serie e dei film TV ai quali Ellison lavorò come ‘conceptual consultant’, scrivendo personalmente anche due delle storie: A View from the Gallery (ep. 92, Eroi Invisibili), Objects in Motion (ep. 108, Tempo di Addii).
ri solo nel 1991) la quale ospitava, oltre allo stesso Ellison con il racconto L’Ombra in Caccia nella Città sull’Orlo del Mondo (The Prowler in the City at the Edge of the World, 1967), autori come Fritz Leiber, John Brunner, Philip K. Dick, Damon Knight, James G. Ballard (con lo splendido racconto Il Mattatoio), Norman Spinrad, Roger Zelazny, Samuel R. Delany e tanti altri pilastri che sorreggono i cieli d’acciaio e i tempi che danzano. “Non so come vedete voi la mia missione di scrittore, ma per me non significa essere tenuto a riconfermare i vostri miti consolidati e i vostri pregiudizi provinciali. Il mio lavoro non è cullarvi con una falsa sensazione di bontà dell’universo. Questa
meravigliosa e terribile occupazione che consiste nel ricreare il mondo in un altro modo, ogni volta nuovo e straniero, è un atto di guerriglia rivoluzionaria. Smuovo le acque. Vi do fastidio. Vi faccio colare il naso e lacrimare gli occhi. Consumo la mia vita e chilometri di materiale viscerale in una gloriosa e dolorosa serie di raid notturni contro l’autocompiacimento. Il mio destino è svegliarmi con rabbia ogni mattina, e andare a dormire alla sera ancor più arrabbiato. Tutto questo per cercare l’unica verità che sta al centro di ogni pagina di narrativa mai scritta: siamo tutti nella stessa pelle… ma per il tempo che ci vuole a leggere questi racconti ho solo la bocca.”: così scrive Ellison in Terrori Mortali, introduzione a Idrogeno e Idiozia (Shatterday, 1980), raccolta di sedici suoi racconti pubblicati tra il 1975 e il 1980. Una vera e propria dichiarazione programmatica sulla forza corrosiva e distruttrice della fantascienza, un urlo degno del filosofo Friedrich W. Nietzsche.
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UCCIDERE PER AMORE
(The City on the Edge of Forever) La puntata 28 della 1° stagione di Star Trek, andata in onda il 4 giugno del 1967, vinse il Premio Hugo nella categoria ‘Best Dramatic Presentation’, insieme ad altri 4 episodi della serie. La sceneggiatura originale si aggiudicò anche il Writers Guild of America Award.
Questo è Nietzsche in Al di Là del Bene e del Male (1886): “212. Sono sempre più indotto a credere che il filosofo, come uomo necessario del domani e del dopodomani, si sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi: il suo nemico fu ogni volta l’ideale dell’oggi. Sinora tutti questi eccezionali fautori dell’uomo – ai quali si dà il nome di filosofi e che raramente si sentirono amici della verità, ma piuttosto sgradevoli giullari e pericolosi punti interrogativi – hanno trovato il loro compito, il loro duro, non voluto, ine-
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vitabile compito, e infine la grandezza del loro compito, nel costituire essi stessi la cattiva coscienza del loro tempo. Vivisezionando col coltello proprio il cuore delle virtù del tempo, tradirono quel che era il loro strano segreto: conoscere una nuova grandezza dell’uomo, una nuova strada non ancora mai battuta per il suo innalzamento. Essi svelarono ogni volta quanta ipocrisia e infingardaggine, quanto lasciarsi andare e lasciarsi cadere, quanta menzogna si nascondesse sotto il tipo maggiormente venerato della moralità loro contemporanea, quanta virtù fosse sopravvissuta a se stessa; ogni volta essi dissero: «Dobbiamo arrivare e partire da quel luogo, che oggi è per voi meno di ogni altro familiare». Dinanzi a un mondo delle ‘idee moderne’, che vorrebbe confinare ognuno in un angolo e in una ‘specializzazione’, un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse esistere, sarebbe
HARLAN ELLISON
L’autore come appare nelle copertine della serie di volumi a lui dedicata, pubblicata da Open Road Media nel 2014.
costretto a porre la grandezza dell’uomo, l’idea di ‘grandezza’ proprio nella sua vastità e multiformità, nel suo essere intero in molte cose: determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di sopportare e di assumere sopra di sé, a seconda del limite fino al quale uno può tendere la sua responsabilità. Oggigiorno il gusto e la virtù dell’epoca affievoliscono e assottigliano il volere, nulla è tanto in armonia con i tempi quanto l’estenuazione della volontà.” Vivisezionare con il coltello il cuore della virtù del tempo è proprio quel che Ellison compie programmaticamente nel suo operare: la lama non è altro che la fantascienza, la quale affonda senza alcuna remora dentro le carni marce e putride della società. Un’ultima cosa da ricordare: un episodio della serie originale di Star Trek che ho amato alla follia, senza sapere che fosse suo. In uno dei numerosi viaggi della nave stellare Enterprise, il capitano Kirk e i suoi compagni vengono attirati presso un pianeta, il quale sembra essere l’origine di particolari perturbazioni nel tessuto del continuum spazio-temporale. A causa di un incidente, il dottor McCoy s’inietta una dose spropositata di un farmaco, che gli provoca violente visioni e deliri. Fuggito sul pianeta, McCoy entra in quello che sembra essere la causa delle distorsioni anomale, uno strano artefatto di forma irregolare, parlante, che afferma di es-
sere nientemeno che il Guardiano dell’Eternità, ancor più vecchio dell’Universo stesso. Varcando la soglia del Guardiano, McCoy si ritroverà catapultato indietro nel tempo, e finirà col cambiare il passato, tanto da cancellare dall’esistenza la Federazione dei Pianeti Uniti e la stessa Enterprise. Toccherà a Kirk e Spock, anch’essi entrati nel Guardiano e ritrovatisi agli inizi della Seconda Guerra Mondiale, l’onere di riportare il tempo sulla retta via. ‘Uccidere per amore’ (in originale ‘The City on the Edge of Forever’), vincitore del Premio Hugo e insignito del Writers Guild of America Award, è considerato ancor oggi uno degli episodi migliori della serie. Harlan Ellison tuttora fa discutere e appassionare, un vero e proprio cannibale della fantascienza: dinamite pura, intorno a cui niente può considerarsi al sicuro. <
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Asian MOVIE
Il mormorare di
FANTASMI
IRREQUIETI di SEVERINO FORINI
Ambientazione scolastica, denuncia sociale, amicizia e amore in una pentalogia horror tutta al femminile dove analisi psicologica e soprannaturale si fondono.
IL
30 MAGGIO 1998 usciva nelle sale coreane un film che avrebbe cambiato per sempre gli equilibri dell’horror, spostandone improvvisamente il baricentro verso l’Estremo Oriente. Era l’inizio di una tendenza che, seppure meno intensa, esiste ancora oggi. Quel primo Whispering Corridors (Yeogo Goedam), purtroppo, ci avrebbe messo altri due anni per sbarcare in Europa (in Germania) e ben sette per approdare, sotto forma di DVD, negli Stati Uniti. In Italia non è mai arrivato, ovviamente, come neppu-
re i quattro successivi capitoli di quella che oggi si può definire a tutti gli effetti una saga tra le più importanti del cinema asiatico. Nonostante le qualità della pellicola, più profonda di quanto possa sembrare in prima lettura, la concorrenza del cinema giapponese avrebbe costretto Whispering Corridors in un angolo, oscurandone di fatto per molto tempo la visibilità al di fuori della penisola coreana. Registi navigati quali Hideo Nakata (Ringu) e Takashi Shimizu (Ju-On) furono molto più abili a
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realizzare dei prodotti in grado di soddisfare il palato del pubblico occidentale, grazie all’oculato utilizzo di meccaniche horror classiche, studiate a tavolino per generare tensione ed elargire attimi di puro terrore. In Corea del Sud, al contrario, in un’industria dell’intrattenimento che solo fino a pochi anni prima era fortemente influenzata da fattori culturali, Whispering Corridors fu per tutti un gigantesco pugno nello stomaco. Il timore di corrompere la cultura locale attraverso le influenze provenienti dall’estero e le politiche protezionistiche applicate alle aziende nel campo dell’intrattenimento avevano per decenni favorito, attraverso imposizioni legali, il completo isolamento culturale della penisola coreana. Con questo film
SHINING
(The Shining, 1980) Scorrazzando tra i corridoi del labirintico Overlook Hotel di Stanley Kubrick, può capitare d’imbattersi in passati inquilini.
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da un giorno all’altro tutto cambiò. Parlare di horror in questo contesto è riduttivo se non errato. Whispering Corridors utilizza il genere come pretesto per affondare colpi direttamente al cuore della società coreana e inviare forti segnali di dissenso alle follie della società moderna. Ogni sequenza è leggibile nell’ottica di una critica dirompente all’orrore che ci circonda, quello vero, quello a cui ormai non facciamo più caso. I personaggi che incontriamo nella saga, derivativi solo in parte, li definiremmo innanzitutto problematici e complessi, calati in una realtà che non appartiene loro e con la quale si trovano a dover fare i conti quotidianamente. Tutt’attorno, l’utilizzo di elementi soprannaturali non fa che sottolineare questo tipo di disagio. ‘Derivativi solo in parte’ perché, a differenza delle grandi saghe del cinema mainstream americano, tendenti generalmente a ripetere all’infinito la stessa idea originale perdendo il proprio appeal strada facendo, la serie Whispering Corridors riesce
IL SIGNORE DELLA MORTE
(Halloween II, 1981) Come può ben testimoniare Jamie Lee Curtis, le corsie di un ospedale diventano ancor più inquietanti se ad aggirarvisi c’è un certo Michael Myers.
a mantenere, nell’arco di cinque film e di undici anni, la potenza narrativa, dosando e combinando in modo diverso le tematiche sociali, pur senza allontanarsi troppo dai solchi scavati nella pellicola di partenza. Non si scivola mai nel banale, né tantomeno si scende a compromessi. Il fenomeno tipicamente giapponese di utilizzare le ragazzine in uniforme scolastica per esprimere concetti sessualmente espliciti, per esempio, qui manca del tutto. Così come manca la classica figura, tipica dell’horror orientale, dello spettro vendicativo, inarrestabile quasi più per principio che per altro. Fantasmi qui ce ne sono a bizzeffe, ma sono più che altro fantasmi
romantici, nelle cui eteree figure ci si immerge piacevolmente, condividendo le loro sofferenze e i loro stati d’animo. I CORRIDOI DELLA PAURA Il corridoio è un luogo che racchiude in sé tutti gli elementi di cui abbiamo più terrore. Provate a pensarci. Cos’è un corridoio? Innanzitutto un luogo solitamente buio. In certi corridoi le luci sono sovente temporizzate: le accendi e dopo qualche istante, senza preavviso, esse si spengono, lasciandoti improvvisamente indifeso, in balia di chissà quali pericoli. L’incertezza, a sua volta, è perfettamente rappresentata dal corridoio, la paura anche inconscia per un percorso che si deve intraprendere, una strada da percorrere per poter ottenere il premio finale, che si trova invariabilmente all’estremo opposto. Quali e quanti pericoli si celano nei corridoi? Pensate a tutte le porte che vi si aprono: ciascuna di esse potrebbe nascondere qualcosa o qualcuno pronto a
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REPULSIONE
(Repulsion, 1965) Anche i familiari corridoi di casa possono instillare i peggiori incubi in una mente fragile: è quanto Roman Polanski riserva a una giovanissima Catherine Deneuve.
interrompere il nostro avanzare, ostacoli imprevisti che ci bloccano, che potrebbero farci del male. Inutile dire che il corridoio è stato da sempre uno degli elementi perturbanti più diffusi nel cinema dell’orrore. Crea suspense, e noi passo dopo passo ci identifichiamo in colui che si trova a doverlo percorrere. A lui, il protagonista del film, il più delle volte andrà male. Il corridoio gli sarà fatale. A noi, seduti in poltrona, non andrà meglio. Saremo ancor più saldamente avvolti da una delle nostre paure più ancestrali. Senza pretesa di poter essere esaustivi, proviamo a fare un parziale rapido excursus storico sul ‘corridoio’ utilizzato nel cosiddetto cinema di paura. Iniziamo la
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carrellata con un salto indietro al 1948, anno in cui uscì un lungometraggio intitolato Il Mistero degli Specchi (Corridor of Mirrors) del regista britannico Terence Young, film che gli appassionati di genere ricordano soprattutto per aver segnato l’esordio sul grande schermo di un giovanissimo Christopher Lee. Tratto dall’omonimo romanzo di Chris Massie, narra le vicende di un eccentrico collezionista d’arte convinto che la sua amata sia la reincarnazione di una donna raffigurata in un quadro rinascimentale comprato a Venezia. Una storia morbosa quanto raffinata, dalle forti tinte gialle, nella quale viene sapientemente affrontata la teoria della reincarnazione e dell’ineluttabilità del destino. Nel 1951, è il turno de L’Assassino Arriva di Notte (The Long Dark Hall) della coppia di cineasti inglesi Anthony Bushell e Reginald Beck. Siamo più dalle parti del noir che dell’horror, ma ancora una volta ci troviamo di fronte a una pellicola affascinante, soprattutto per alcuni inquietanti
retroscena che sovrapposero la finzione cinematografica alla vita reale dei suoi interpreti. Il film narra la vicenda di Arthur Groome (interpretato da Rex Harrison), un uomo sposato con Mary (Lilli Palmer, al tempo davvero moglie di Harrison) e ingiustamente accusato dell’omicidio dall’amante Rose. Il film si snoda sulle vicende giudiziarie dell’uomo mentre, nell’ombra, il vero omicida si prepara a colpire di nuovo. Il particolare bizzarro è
IL CORRIDOIO DELLA PAURA
(Shock Corridor, 1963) Difficile mantenere la sanità mentale quando i corridoi sono quelli di un istituto psichiatrico. In questo film di Samuel Fuller, Peter Breck si fa internare in incognito per indagare su un omicidio.
che lo stesso Harrison, tre anni prima, fu accusato della morte della propria amante, Carole Landis, suicidatasi per amore dopo l’ennesimo rifiuto da parte dell’attore di lasciare la moglie. Sembra oggi difficile credere che Harrison e la Palmer abbiano potuto, dopo così poco tempo, interpretare una storia di tradimento tanto simile a quella da loro stessi vissuta. Nonostante il titolo originale lasci presagire la presenza di corridoi, il film Prima dell’Anestesia (Corridors of Blood, 1958) ha poco a che fare con gli altri film citati. Il titolo in inglese altro non è che un modo per sottolineare l’ambientazione ospedaliera, dove troviamo un fenomenale Boris Karloff nei panni di un chirurgo impegnato a testare su se stesso compo-
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sti chimici per creare un nuovo anestetico, con risultati che possiamo facilmente immaginare. Saranno molto più significativi, dal nostro punto di vista, i corridoi dell’ospedale della cittadina di Haddonfield dove la giovane Laurie Strode (Jamie Lee Curtis) cercherà di sfuggire alla lama affilata di uno scatenato Michael Myers ne Il Signore della Morte (Halloween II), secondo capitolo della saga carpenteriana ‘Halloween’ (1978-2009). Degli anni ’60 sono due i titoli importanti che vale la pena ricordare: Il Corridoio della Paura (Shock Corridor, 1963) di Samuel Fuller, e Repulsione (Repulsion, 1965) di Roman Polanski, entrambi facenti parte di quel particolare filone conosciuto come ‘cinema della follia’. Il primo racconta la storia di un giornalista a caccia di gloria che, per indagare su un omicidio avvenuto in un ospedale psichiatrico, si fa ricoverare in incognito. Il secondo è la vicenda allucinata di una giovane donna
SUSPIRIA
(1977) Dario Argento drappeggia corridoi e passaggi segreti nell’accademia di danza di Friburgo, infestata dalle streghe.
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timida e impacciata (Catherine Deneuve) il cui equilibrio mentale, minato dalla sgradita convivenza con la sorella e il di lei amante, si spezzerà definitivamente quando i due coinquilini, un giorno, la lasceranno sola tra le mura di una casa divenuta improvvisamente minacciosa. Memorabile la scena del corridoio con le mani che sbucano dalle pareti per afferrarla. Rimanendo in ‘zona Polanski’, occorre citare anche la scena clou del suo capolavoro Rosemary’s Baby (1968). La storia la ricordate tutti, no? Due giovani sposi traslocano in un nuovo appartamento (un classico!), dove ben presto la loro tranquillità viene turbata dalla presenza asfissiante del vicinato, uno stuolo di persone prevalentemente anziane. Quando la moglie (Mia Farrow) scopre di essere incinta, sentendosi vittima di una congiura ai danni del nascituro farà il possibile per scoprire le reali intenzioni di quelle persone così apparentemente premurose. Troverà la verità dopo aver attraversato una serie di corridoi tra i più inquietanti. La scena di Rosemary’s Baby è molto simile a quella utilizzata dieci anni dopo dal nostro Dario Argento in Suspiria (1977),
NIGHTMARE
(A Nightmare on Elm Street, 2010) Profusione di paurosi corridoi nella saga di Nightmare, territorio di caccia di Freddy Krueger. Eccone uno dall’ultimo film, remake di Nightmare - Dal Profondo della Notte.
in cui l’attrice Jessica Harper giungerà alla resa dei conti con la sua nemesi dopo aver attraversato un lungo e oscuro corridoio. I corridoi sono presenti per tutta la durata del film e costituiscono senza dubbio l’aspetto più perturbante del primo capitolo della ‘trilogia delle Tre Madri’. Come dimenticare le inquietanti notti trascorse nell’Accademia di danza di Friburgo, tormentate dall’ansimante respiro della malvagia Mater Suspiriorum? All’atmosfera di mistero propria di quei corridoi contribuisce l’imponente fotografia di Luciano Tovoli che, alternando forti cromatismi rossi (il colore predominante), blu e verdi, riuscì a creare quell’insoste-
nibile senso di angoscia che oggi, quasi quarant’anni dopo, ancora non riusciamo a dimenticare. Come già per Polanski, i corridoi sembrano aver influenzato quasi tutta la filmografia di Dario Argento. Ricordate il corridoio rivelatore della celeberrima scena finale di Profondo Rosso (1975)? E quell’altro, ancora più spaventoso, che dovette affrontare nello stesso film la scrittrice Amanda Righetti pochi istanti prima di venire assassinata? Altri corridoi furono generosamente offerti da Argento nel successivo Inferno (1980); non solo tutti quelli orribili presenti nella magione newyorkese della Mater Tenebrarum, ma anche e soprattutto il corridoio dell’abitazione di Sara (Eleonora Giorgi), dove sia lei che Carlo (Gabriele Lavia) troveranno la morte in una scena ad alto tasso di suspense. “Le mie paure sono metafisiche, trascendentali, inspiegabili. Non sono paure con-
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PROFONDO ROSSO
(1975) Tanti quadri inquietanti e uno specchio strategico alle pareti dei corridoi di casa Ulmann, dove si apre e si chiude l’indagine di David Hemmings.
crete, reali, quotidiane, ma nascono dai miei incubi. Per questo i miei film hanno tutti una componente onirica. Mi spaventano le scale, mi atterriscono i corridoi e il pensiero che a percorrerli possano essere presenze oscure, maligne”, rivelò tempo addietro Argento nel corso di un’intervista. I corridoi non sono quindi un particolare lasciato al caso nel cinema del regista romano. Seguendo il suo stesso spunto, possiamo ampliare il nostro discorso alle scale, le cui caratteristiche, se vogliamo, sono ancor più sinistre di quelle dei corridoi: nelle scale l’angoscia viene amplificata dall’andamento verticale, oltre a quello orizzontale di cui già sappiamo. Viene subito in mente La Casa con la Scala nel Buio (1983) di Lamberto Bava, la cui scena iniziale è forse una delle più spaventose che io ricordi. Nel corso del film abbiamo a che fare pure con diversi corridoi, non ultimo quello labirintico del
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finale, dove viene rivelato il volto del killer. Troviamo altre scale memorabili nel pregevole Chi C’è in Fondo a Quella Scala… (Pin, di Sandor Stern, 1988) e nell’agghiacciante (decidete voi in che senso) La Scala della Follia (Dark Places, di Don Sharp, 1973); ma l’oscar della più celebre va senza dubbio a quella de La Scala a Chiocciola di Robert Siodmak (The Spiral Staircase, 1945), la storia di una ragazza affetta da un mutismo di origine psicologica, che si troverà alle prese con un serial killer specializzato nell’assassinare donne disabili. Menzioni speciali vanno poi a La Donna che Visse Due Volte di Hitchcock (Vertigo, 1958), con le scale del campanile come vero luogo cardine di tutto il film, e naturalmente a La Corazzata Potëmkin di Ėjzenštejn (1926) con l’indimenticabile scalinata di Odessa. Quest’ultimo, lo so bene, non è un horror né un thriller, ma la scalinata amplifica l’effetto drammatico e orrorifico della mattanza, rappresentata in una scena talmente famosa da essersi meritata almeno una citazione di culto (ne Gli Intoccabili, naturalmente). Torniamo rapidamente ai corridoi. Su quelli cimiteriali immaginati da Don Coscarelli nella sua pentalogia Phantasm
(1979-2015) non credo serva aggiungere nulla (ne abbiamo parlato nel n. 3 di TdC Magazine), così come non serve dilungarsi sul corridoio di hitchockiana memoria ammirato in Poltergeist - Demoniache Presenze (1982) di Tobe Hooper (TdC Magazine n. 2). Interessante invece soffermarsi sui corridoi della metropolitana londinese così come li abbiamo visti nel fondamentale Un Lupo Mannaro Americano a Londra (An American Werewolf in London, 1981). In questo caso si può parlare forse più di tunnel che di corridoi, ma la sostanza non cambia: l’orrore non proviene dai lati, ma dall’incertezza di ciò che attende dietro la prossima curva o, meglio ancora, di ciò che insegue alle spalle, costringendo chi si trova in tale situazione a fare ciò che non avrebbe mai voluto, vale a dire correre a perdifiato verso l’ignoto. Ritroveremo il tunnel al-
UN LUPO MANNARO AMERICANO A LONDRA
(An American Werewolf in London, 1981) John Landis sguinzaglia il suo licantropo yankee su e giù per la City, ivi comprese le gallerie della metropolitana.
tre volte nel cinema dell’orrore, l’ultima cronologicamente forse in quel gioiellino di Absentia (2011), firmato dall’astro nascente Mike Flanagan. È invece obbligatorio parlare del corridoio per eccellenza, il numero Uno dei corridoi, quello che in assoluto ha turbato i sogni di chiunque ne abbia affrontato la visione. Mi sto riferendo naturalmente al corridoio, anzi al dedalo di corridoi, visto in Shining (The Shining, 1980), ovvero a quell’incredibile scenografia messa in piedi da Stanley Kubrick per il suo Overlook Hotel. A chi di noi, ospite di un albergo per vacanza o per lavoro, non sovvengono alla memoria, almeno per un attimo, quelle angoscianti inquadrature? Chi di noi non prova un piccolo brivido quando si ritrova da solo, sbarcato dall’ascensore al piano di un albergo, alla ricerca della porta della propria stanza? A me capita sempre. Tutte le volte. E ogni volta prego che non mi venga assegnata quella maledetta camera numero 237. Sorvoliamo, a proposito di Stanley Kubrick, su quel claustrofobico corridoio circolare visto in 2001: Odissea nello Spazio
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(2001: A Space Odyssey, 1968), e spostiamo l’attenzione su una saga horror nella quale i corridoi l’hanno sempre fatta da padrone: sto parlando di Nightmare (1984-1994) che, sin dal primo capitolo scritto e girato da Wes Craven (A Nightmare on Elm Street), ha elargito corridoi terrificanti in tutte le salse. Corridoi di case, di scuole, di fabbriche abbandonate, e chi più ne ha più ne metta. Non è assolutamente casuale questa abbondanza in un ciclo che ruota attorno al mondo onirico, luogo spaventoso per eccellenza, i cui temi (in questo caso le ossessioni legate all’infanzia) ricalcano i topoi del cinema horror; addirittura li superano incarnando una volta per tutte le paure più ancestrali e materializzandole nel mondo reale sotto forma del demoniaco Freddy Krueger che, dal punto di vista analitico,
CITADEL
(2012) I corridoi di un palazzo fatiscente diventano teatro delle violenze perpetrate da un branco di adolescenti incappucciati.
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rappresenta in realtà la coscienza sporca dalla quale i cittadini di Springwood non riescono a liberarsi. Il corridoio in Nightmare riproduce ancora una volta il punto di passaggio tra l’aldiqua e l’aldilà, ma ciò che lo rende sostanzialmente diverso è la capacità di chiudersi su se stesso, cortocircuitando i propri estremi affinché sia sempre più difficile, per l’incauto viaggiatore, distinguere l’inizio dalla fine, il sogno dalla realtà, il bene dal male, la vita dalla morte. Dopo Nightmare e per tutti gli anni Novanta il cinema occidentale finisce un po’ per trascurare il corridoio come elemento perturbante. Parlando del presente, sono solo due i casi che a memoria riesco a citare: Naboer, film norvegese del 2005 del regista Pål Sletaune, dove il povero John si ritrova alle prese con due invadenti vicine e una casa dai troppi cunicoli; e Citadel, piccolo film irlandese del 2012 di Ciarán Foy, dove i corridoi di un complesso di appartamenti sono il teatro di agghiaccianti episodi di aggressione da parte di individui che (forse) non
2001: ODISSEA NELLO SPAZIO
(2001: A Space Odyssey, 1968) Dietro le quinte con Stanley Kubrick sul set che riproduce il corridio a ruota della Discovery One, non propriamente ‘pauroso’ ma certo uno dei più celebri della storia del cinema.
sono nemmeno più umani. Il secondo, in particolare, mi ha dato più di un brivido, costringendomi a condividere, anche se per poco, l’agorafobia del protagonista. Passiamo al nascente fenomeno conosciuto come J-Horror, e troviamo subito nuova linfa in Ju-On (2000) di Takashi Shimizu. Il film racconta della maledizione di una casa dove, anni addietro, un uomo uccise la moglie e il figlio in un impeto di gelosia: ne rimarrà vittima l’insegnante del bambino, che la propagherà all’esterno come un’epidemia. È proprio la scena girata in notturna nel corridoio di un ospedale, ripresa dalle telecamere di sorveglianza, quella forse più terrificante. Fu Ju-On a inaugurare quel canone orrorifico in base al quale vengono mostrati lunghi corridoi le cui luci si spengono in sequenza avvicinando le tenebre (e la minaccia in esse contenuta) al malcapitato di turno. Tra le tante scene del genere, mi sovviene quella in Coming Soon (2008) del tailandese Sopon Sukdapisit; ma la lista è interminabile, così come l’elenco dei corridoi del cinema asiatico, nel quale, proprio per la tipica struttura degli edifici, queste angoscianti corsie domestiche sono spesso presenti anche quando non necessarie ai fini della narrazione. Tra i tanti possiamo citare Dark Water (Honogurai Mizu no Soko Kara, 2002) di Hideo Nakata, The Eye (Gin Gwai, 2002) dei fratelli Pang, APT (Apateu) e Forbidden Floor
(Nebeonjjae Cheung, aka Hidden Floor) entrambi del 2006 diretti rispettivamente dai coreani Ahn Byeong-Ki e Kwon Ho-Yeong, Apartment 1303 (2007) del giapponese Ataru Oikawa, da Hong Kong Haunted Office (Office You Gui, 2002) di Marco Mak e, perché no, Red Eye (Redeu-ai, 2005, aka Death Train) del coreano Kim Dong-Bin, dove il luogo dell’orrore assume le sembianze del corridoio di un treno. È dunque in questo prolifico scenario che si inserisce la saga Whispering Corridors…
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Scheda tecnica TITOLO:
Yeogo Goedam
ANNO E PAESE:
1998, Corea del Sud
REGIA:
Park Ki-Hyung
SCRITTO DA:
Park Ki-Hyung, In Jung-Ok
FOTOGRAFIA:
Seo Jeong-Min
MONTAGGIO:
Ham Sung-Won
MUSICHE:
Mun Seung-Hyeon, Yu Jae-Gwang
SCENOGRAFIE:
Gang Chang-Gil
COSTUMI:
Lee Jin-Hui, Park Mi, Gwon Hyeon-Ran
PRODUTTORI:
Lee Choon-Yun
PRODUZIONE:
Cine-2000 Film Production
Cast LEE MI-YOUN (Hur Eun-Young) KIM KYU-RI (Lim Ji-Oh) CHOI KANG-HEE (Yoon Jae-Yi) PARK JIN-HEE (Park So-Young) YOON JI-HYE (Kim Jung-Sook) PARK YONG-SOO (Oh Kwang-Goo) LEE YONG-NYU (Park Ki-Sook) KIM YU-SEOK (Insegnante d’Arte)
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CAPITOLO 1: WHISPERING CORRIDORS “Desideravo un’amica che parlasse con me. Non intendevo davvero fare del male a nessuno. Volevo solo qualcuno a cui lasciare un ricordo di me. Tutto qui.” Quando non si hanno amici, poche cose sono più imbarazzanti del percorrere il corridoio affollato di una scuola, da soli, tentando di rendersi invisibili, mentre le voci attorno a noi sembrano abbassarsi di tono al nostro passaggio trasformandosi in risatine e bisbigli. È proprio
in un’immagine come questa che va ricercato il senso di Whispering Corridors (Yeogo Goedam), di Park Ki-Hyung, primo episodio di quella che diventerà, nel giro di pochi anni, una delle più celebri saghe cinematografiche della Corea del Sud. Reali o soltanto immaginati, risatine e bisbigli hanno in qualche modo caratterizzato la vita scolastica di ciascuno di noi. Segnali di disapprovazione, di distinzione o, peggio ancora, di derisione; spesso sintomo di un’insicurezza di fondo, tipica degli
adolescenti di tutto il mondo costantemente alle prese con le pretese di una società competitiva con la quale, sin da bambini, ci si deve commisurare. E, se già vi sembra competitivo il nostro sistema scolastico, allora non conoscete quello coreano… Vigilia dell’inizio del nuovo anno scolastico alla Jookran High School for Girls. È notte fonda, ma qualcuno pare non accorgersene. La tensione è già palpabile quando la macchina da presa ci accompagna all’interno dell’ufficio della professoressa Park, sulla cui scrivania, rischiarata dalla fioca luce di un abat-jour, giacciono alcuni registri di classe risalenti a diverso tempo addietro. In quei registri si cela forse la chiave del mistero sulla morte di un’alunna avvenuta nove anni prima. La professoressa Park è convinta che la defunta Jin-Ju sia tornata dall’aldilà. Tormentata da tale ipotesi, decide di discuterne con una sua ex allieva, Eun-Young… Ma la notte a volte può diventare un tunnel senza sbocco, e una scuola deserta un luogo terribile, ossessionante, malsano, addirittura una trappola mortale. La mattina successiva la scena è da incubo: alcune studentesse trovano il corpo senza vita dell’insegnante penzolare appeso a una corda all’esterno dell’edificio. La morte della professoressa Park viene rapidamente archiviata come suicidio, mentre i registri di classe che la poveretta stava esaminando spariscono misteriosamente. Eun-Young torna a scuola dopo nove anni, stavolta nelle vesti di insegnante, e viene presto travolta dai ricordi e dal rimorso mai sopito per la rottura della sua
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amicizia con Jin-Ju, causata anche dalle pressioni della Park. Sola e vessata dai compagni, Jin-Ju si era suicidata proprio all’interno della scuola. Mentre la giovane professoressa s’imbarca in un’indagine per capire cosa esattamente stia succedendo, le studentesse Lim Ji-Oh e Yoon Jae-Yi passano momenti difficili: Ji-Oh, in particolare, viene presa di mira dal terribile professor Oh… Sebbene il titolo evochi lunghi corridoi male illuminati da cui fantasmi vendicativi osservano e si manifestano per braccare ignari malcapitati, di questo in Whispering Corridors non c’è quasi traccia. Il body count è minimo e ciò, già da solo, basta a chiarire che ci troviamo di fronte a un horror atipico. I lunghi corridoi tra le aule ci sono, naturalmente, ma perlopiù vuoti di qualsiasi presenza, umana o immateriale, quasi a simboleggiare la solitudine degli studenti in un’istituzione scolastica disumanizzante. L’intero film è girato all’interno dell’ambiente scolastico, come se la vita delle studentesse (siamo in un istituto femminile) esistesse solo in rapporto con la scuola. Gli unici adulti sono i professori, quasi tutti individui sgradevoli, impegnati a mantenere la disciplina (arrivando sino alla violenza fisica) e a fomentare la rivalità tra studenti. In uno scenario così competitivo, i compagni di classe sono dei nemici e tutto ciò che conta sono i risultati: chi tentenna o cade viene compatito, deriso, emarginato. Nella scuola coreana, così impietosamente descritta in questo film, non c’è posto per la comprensione e la compassione come non ve n’è per l’estro e l’individualità: è il fallimento totale del concetto di
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educazione. Whispering Corridors è controverso proprio per le ombre che getta sul sistema scolastico nazionale, tanto che all’epoca della sua uscita fu molto contestato. A una visione superficiale può essere scambiato per l’ennesimo film orientale caratterizzato dalla presenza di un fantasma vendicativo, ma se ci si sofferma un attimo non è difficile rendersi conto di quanto questa sia fondamentalmente una pellicola sull’amicizia e sulla solitudine. Come Eun-Young e Jin-Ju, altre coppie di amiche sono destinate a separarsi per sempre. Lo spirito di Jin-Ju non cerca vendetta, ma torna ciclicamente tra i corridori della scuola per trovare ciò che in vita non è riuscita a ottenere: un’amicizia sincera. Il fantasma dispensa morte solo per proteggere se stessa e chi le è amica. Nemmeno la sorte che intende riservare a Eun-Young nasconde cattiveria: nessuna ritorsione, solo la volontà di impedire all’antica amica di mutarsi in una seconda professoressa Park. I colori del film sono smorzati, le musiche appena accennate, l’incedere della narrazione è volutamente lento e intimista; dopo la morte iniziale della Park accade poco di cruento, e nemmeno la successiva dipartita del professor Oh (gradita parentesi di adrenalina) riesce veramente a turbare l’atmosfera quasi onirica. La storia ruota tutta attorno a Ji-Oh e JaeYi, alle dinamiche ancora fragili della loro amicizia e alle vicissitudini scolastiche che le coinvolgono. La parte di Eun-Young è di rimuginare sul passato, non molto di più; ma, con la sua aria perennemente malinconica, la giovane insegnante è di gran lunga il personaggio più singolare, e
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il suo attaccamento verso la scuola, che anche da adulta non riesce a lasciare, altro non è che la spia del suo rimorso per aver involontariamente contribuito alla morte di Jin-Ju. Whispering Corridors è voyeuristico nel mostrare le emozioni (trattenute, alla maniera orientale) dei protagonisti, molto meno nel mostrare il sangue, che difatti, se pur presente, scorre copioso solo alla fine: sangue che è solo simbolico, come quello della famosa scena dell’ascensore di Shining; sangue che è il sangue di Jin-Ju, che cola dalle pareti ma in realtà sgorga direttamente dal suo cuore. Il fantasma, incalzato da Ji-Oh, rinuncerà a far del male a Eun-Young e a restare nella scuola, un gesto di amicizia che lo riconsegna alla solitudine cui appartiene. Ma in nove anni l’insano microcosmo scolastico non è cambiato di una virgola e il passato è destinato a ritornare: altre due studentesse hanno loro malgrado rimesso in scena, con poche variazioni, il dramma già vissuto da Eun-Young e JinJu, e, come si intuisce nel finale, un nuovo spirito inquieto è pronto a prendere il posto di Jin-Ju tra i corridoi della scuola. Questa conclusione, perfetta, non solo rimanda alla ciclicità del passato ma apre furbescamente le porte al sequel, girato l’anno successivo. EDUCAZIONE COREANA Mentre i fotogrammi di Whispering Corridors scorrono davanti agli occhi, ci si chiede se il contorno scolastico e il modo in cui viene descritto siano realistici. Tutto è girato all’interno di una scuola, mattina, pomeriggio, sera, notte: sembra che gli studenti trascorrano l’arco delle
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DRITTI VERSO IL SUCCESSO
Nell’anno in cui Whispering Corridors uscì nelle sale, la Corea del Sud, sorprendenIn primo piano la suggestiva Underwood Hall, uno degli innumerevoli edifici che compongono do il mondo intero, riuscì a mantenere il il complesso enorme dell’Università Yonsei suo impegno a democratizzare i proces(©foto) di Seoul. La Yonsei è una delle tre ‘SKY’ si politici, nominando presidente, anco(le altre sono l’Università Nazionale di Seoul ra una volta in modo democratico, Kim e l’Università della Corea), cioè i tre atenei più Dae-Jung; l’elezione rappresentò il primo prestigiosi del Paese. trasferimento del governo tra partiti con mezzi pacifici. Kim Dae-Jung risollevò il ventiquattro ore interamente tra le mura Paese dalla crisi finanziaria e avviò una dell’istituto. Non sembrano avere altri in- politica di riconciliazione con la Corea del teressi nella vita, e nemmeno una casa, Nord; nel 2000 fu insignito del premio né una famiglia. Dove sono i genitori? Nobel per la pace, per il suo lavoro a faDove sono le attività extrascolastiche ti- vore della democrazia e dei diritti umani. piche degli adolescenti che conosciamo Anche l’industria cinematografia coreana noi (e che eravamo noi)? La risposta è trasse un gran beneficio dal cambiamenmolto semplice: la vita dei giovani core- to sociale e politico, e film come Whispeani è davvero tutta lì! Nulla più di ciò che ring Corridors, solo pochi anni prima imsi vede nei film della serie: scuola, scuola pensabili, riscossero un successo strepie ancora scuola. toso (nell’anno in cui il nostro uscì, divenFacciamo un passo indietro… Il primo ca- ne il settimo film coreano di sempre per pitolo della pentalogia fu il prodotto di un numero di spettatori), e gli fu permesso periodo di grandi cambiamenti in Corea non solo di divertire ma di portare un fordel Sud, iniziati solo pochi anni prima con te segnale di denuncia. Fu proprio in quel’elezione del presidente Kim Young-Sam sto scenario che il regista Park Ki-Hyung, a capo del primo governo civile dai tempi all’epoca appena trentenne, decise di utidel colpo di stato militare del 1961. lizzare la macchina da presa per portare
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all’attenzione del mondo la paradossale esistenza degli studenti coreani, fatta di pressione sociale e di una rigorosa disciplina che non di rado sfocia in abuso fisico perpetrato dagli insegnanti. A un impreparato osservatore occidentale, Whispering Corridors sembra essere una drastica semplificazione, ovvero il metodo ideale per sopperire a una mancanza di budget: tutto è girato, come si accennava, tra le aule (e ovviamente i corridoi) di una scuola. Una situazione che può però leggersi come l’altra faccia della democrazia, l’ennesimo conto da saldare all’ormai scomparso regime militare. Dopo decenni di isolamento, la nazione si era ritrovata a confrontarsi con il resto del mondo e, una volta tirate le somme, a cercare di recuperare il passo affidandosi a un sistema severo e soffocante in grado di garantire un rapido sviluppo economico. Costi quel che costi.
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Un sistema durissimo ma dannatamente efficace: senza l’ossessione maniacale per la competizione, sviluppata già in età prescolastica, la Corea del Sud non sarebbe mai diventata la potenza economica che è oggi. Ma a quale prezzo? Nel 2010, secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, sono stati 146 gli studenti coreani che si sono tolti la vita (il tasso di suicidi più alto tra i Paesi dell’OCSE), mentre in generale si registra un drammatico primato di circa 40 suicidi all’anno ogni 100 mila abitanti (quattro volte più che in Italia). Il sistema di educazione in sé non è tuttavia molto diverso dal nostro: esso consiste in 6 anni di elementari, 3 anni di medie, 3 anni di superiori, poi 4 anni di università e dottorati di vario genere a seguire. Ciò che è diametralmente opposto è il modo ferocemente competitivo con cui vengono affrontati gli anni di studio. L’obiettivo è quello di poter accedere agli
COMPETITIVITÀ
A partire dalla famiglia, l’intero apparato sociale sudcoreano spinge lo studente a lavorare duro per ottenere i massimi risultati scolastici. L’istruzione è quindi di ottimo livello, ma carica di aspettative e pressioni. foto: ©JUNG YEON-JE, AFP/Getty Images fonte: Chicago Tribune
atenei prestigiosi del Paese, gli unici attraverso i quali le carriere lavorative dei giovani coreani possono spiccare il volo verso il successo. Solo una piccola percentuale tra i richiedenti riesce ad accedere ai test di ammissione e, tra questi, pochissimi vengono scelti. Per tutti gli altri non resta che la prospettiva di una vita nell’ombra, macchiata dall’umiliazione. E così 4 milioni di studenti trascorrono maniacalmente 14 ore al giorno sui libri, dalle 8 di mattina alle 10 di sera, a volte dilapidando intere fortune in lezioni inte-
grative private. Spesso, infatti, sono le famiglie stesse a spingere sull’acceleratore della competizione, disposte al sacrificio estremo (quello dei figli) sull’altare di un successo da inseguire. In questo scenario sono gli insegnanti a ricavarne il maggior beneficio, sfruttando a proprio vantaggio la folle corsa all’istruzione dettata dal desiderio di eccellenza, e arricchendosi con attività di tutoring privato o addirittura online. In una corsa senza freni tutto diviene infine ammissibile, e non stupiscono i numerosi casi di abusi che vedono protagonisti gli insegnanti nei confronti dei propri studenti. Whispering Corridors è quindi un impietoso ritratto del sistema educativo coreano. Insegnanti come quelli descritti da Park Ki-Hyung, pur nel loro aspetto caricaturale, non sono molto diversi da quelli reali, ed è questo forse il vero elemento horror.
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Scheda tecnica TITOLO:
Yeogo Goedam Dubeonjjae Iyagi
ANNO E PAESE:
1999, Corea del Sud
REGIA:
Kim Tae-Yong, Min Kyu-Dong
SCRITTO DA:
Kim Tae-Yong, Min Kyu-Dong
FOTOGRAFIA:
Kim Yun-Su
MONTAGGIO:
Kim Sang-Bum MUSICHE:
Jo Seong-Woo
SCENOGRAFIE:
Oh Sang-Man, Lee Dae-Hoon
COSTUMI:
Lee Seung-Hyeon
PRODUTTORI:
Lee Choon-Yun
PRODUZIONE:
Cine-2000 Film Production
Cast PARK YE-JIN (Min Hyo-Shin) LEE YOUNG-JIN (Yoo Shi-Eun) KIM GYU-RI (So Min-Ah) KONG HYO-JIN (Ji-Won) KIM JAE-IN (Yeon-An) BAEK JONG-HAK (Mr. Goh)
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CAPITOLO 2: MEMENTO MORI “Il primo giorno una ragazza viene trovata morta, con la testa svuotata. Forse aveva ricordato la verità. Un’altra muore il secondo giorno, con le gambe mozzate. Forse si era avvicinata troppo alla verità. Un’altra ancora viene trovata morta il terzo giorno, con le orecchie tagliate. Forse aveva sentito la verità. Il quarto giorno ne
muore un’altra ancora, con gli occhi cavati. Forse aveva visto la verità. Il quinto giorno una ragazza muore, con la lingua rimossa. Forse aveva detto la verità. Il sesto giorno ancora una ragazza muore, con le mani tranciate. Forse aveva scritto la verità. E anche il settimo giorno una ragazza sta per morire. Forse…” Abbiamo lasciato la Jookran High School for Girls e i suoi
spiriti inquieti in una situazione di stallo, con un finale aperto che lasciava ampio spazio a un possibile sequel. Tale sequel è inevitabilmente arrivato, ma Whispering Corridors 2: Memento Mori (Yeogo Goedam Dubeonjjae Iyagi), a sorpresa, decide di non raccogliere il testimone della prima parte, né dal punto di vista tematico né da quello stilistico. La mano del regista – stavolta anzi sono due, Kim Tae-Yong e Min Kyu-Dong – è diversa e si vede: ci offre una storia totalmente nuova e una rappresentazione che ha abbandonato i toni vintage a favore di atmosfere decisamente più moderne, mentre dal punto di vista tematico i meccanismi del sistema scolastico coreano questa volta sono appena sfiorati. Ma restiamo pur sempre in una scuola, e ancora una volta in una scuola privata tutta al femminile. Facciamo subito la conoscenza di So Min-Ah, nell’istante esatto in cui si imbatte in un curioso diario dalla copertina rossa, appartenente alle sue compagne Min Hyo-Shin e Yoo ShiEun, un diario che le due evidentemente in qualche modo condividevano. L’oggetto appare alquanto curioso: colorato ed elaborato, è un diario che descrive le tribolazioni delle due ragazze, e racconta di come il loro rapporto speciale – che, andando ben oltre la semplice amicizia, è qualcosa di sostanzialmente inaccettabile tra i corridoi della scuola – finisca gradualmente logorato dal verificarsi di vari eventi. “Il primo bacio ha il sapore delle mele dolci. Con la mia lingua ho sentito il sapore del sangue sulle tue labbra.” Hyo-Shin e Shi-Eun sembrano due adolescenti come le altre – la risata da bambi-
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ne, i pensieri da adulte e il diario riempito di cuoricini – ma in realtà sono lesbiche, impegnate in una relazione molto sofferta. Il diario rosso descrive tutto, dai fremiti dell’innamoramento al rifiuto della propria omosessualità, fino alla tensione che deriva dal loro diverso approccio di fronte all’inevitabile: se in Shi-Eun prevale il disagio per la condivisione di quell’amore davanti agli altri, per Hyo-Shin non c’è ragione di vergognarsi dei propri sentimenti. Ma quando quest’ultima finisce dritta fra le lenzuola di un insegnante depresso, l’amore della prima muore definitivamente. E con la morte dell’amore tutto il mondo precipita, trovando la sua conclusione nel suicidio di Hyo-Shin. Ma sarà questo il vero movente? Lo scopriremo anche grazie alle ‘indagini’ di Min-Ah, completamente ipnotizzata dal diario: esso diventerà per lei un’ossessione che la costringerà compulsivamente a cercare di penetrare i segreti più intimi delle due amanti, cosa che rapidamente la trascinerà in una spirale di follia, complice l’effetto allucinogeno di una pillola che la ragazza ritrova tra gli oggetti della defunta Hyo-Shin. L’essenza della giovane suicida, intanto, incombe su tutto l’edificio – perché Shi-Eun non è l’unica ad avere un debito con lei – fortificata dal flusso continuo dei pensieri degli studenti e del corpo docente che non cessano di interrogarsi sul motivo del suo gesto. Motivo che a noi viene svelato un po’ alla volta, in un lungo flashback, mentre la scuola cade preda al delirio collettivo, tra la furia di Hyo-Shin, lo smarrimento di Min-Ah, il rimorso di Shi-Eun. In un finale memorabile, l’anima inquieta di HyoShin scatena la sua ira su tutti, serrando
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le porte della scuola e non permettendo a nessuno di lasciarla, riportandoci alla mente la celebre Carrie White di Brian De Palma. Cosa vuole Hyo-Shin? Probabilmente solo gridare la sua rabbia; e non venire dimenticata: sul suo diario Min-Ah trova la dicitura “Memento Mori” con accanto la (discutibile) traduzione “ricordati dei defunti”… “Lo sentite? Il mondo è tutto fatto di suoni e ciascuno di noi rappresenta una singola nota. Possono esserci note più o meno belle ma, sommandole tutte insieme, possiamo raggiungere l’accordo perfetto. Vi si aprirà un mondo completamente nuovo… e voi dovrete soltanto tenere a mente quell’accordo. E se qualcuno di noi dovesse morire prima degli altri, promettiamo di ricongiungerci in un giorno di pioggia.” Se si vuole individuare un tema sociale all’interno di Memento Mori, lo si può
trovare nelle problematiche adolescenziali. La storia è in sostanza la descrizione di un rito di passaggio, ben esemplificato dalla rivalità tra le studentesse e dagli attacchi a quelle tra loro che per un motivo o per l’altro emergono dalla massa rivelando una mal tollerata diversità. È emblematica la lunga e imbarazzante sequenza in cui le ragazze, in biancheria intima, vengono sottoposte in classe a controlli medici i cui risultati, annunciati ad alta voce, rivelano chi di loro è più bassa, grassa o meno prosperosa della media; la deriva è tragica quando coinvolge aspetti come la disabilità o l’omosessualità. Shi-Eun è affetta da sordità e cerca disperatamente di tenerlo nascosto, trasformando la sua vita scolastica in un’estenuante finzione cui non vuole aggiungere anche l’onta di dichiararsi omosessuale; mentre Hyo-Shin si dimostra la più coinvolta, la più dipendente dall’altra e, forse per questo, anche la più coraggiosa: la
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pressione sociale è troppo per Shi-Eun ed è proprio il desiderio di Hyo-Shin di vivere la loro relazione alla luce del sole la vera causa della rottura tra le due. Con un’intuizione davvero originale, gli avvenimenti di questo secondo film non vengono presentati in ordine cronologico: passato e presente sembrano accadere in contemporanea, al punto da confondersi lasciando in un primo momento sconcertato lo spettatore. Tuttavia il gioco è condotto in maniera intelligente, accompagnando il pubblico in una direzione per poi sorprenderlo con una piega inaspettata. Un altro horror anomalo insomma, costruito sul senso di colpa e sul dolore, più psicologico che altro. Per merito di trovate a cui all’epoca non ci si era ancora assuefatti (corridoi deserti, mani che sbucano dal nulla…) la tensione rimane costante per tutta la durata del film, nonostante le uniche morti messe in scena siano di fatto due suicidi. Oltre alle visioni di Min-Ah, molto interessante è la scelta di usare la saturazione del colore per narrare il punto di vista dello spirito di Hyo-Shin, e di mostrare il suo volto gigantesco che incombe sull’istituto reso trappola, una metafora del suo potere di possessione e controllo. Ma tutti gli ultimi adrenalinici minuti di delirio collettivo nella scuola sono notevoli, anche se l’elemento orrorifico alla fine viene meno e si sceglie una soluzione struggente. Quando Shi-Eun fa l’atto di salire sul tetto, capiamo che è per ricongiungersi alla sua amata. Questo però non viene mostrato, forse un modo di restituire a lei e a Hyo-Shin, finalmente, l’intimità di una relazione spezzata ma ancora viva e pulsante in fondo ai loro cuori.
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LA COMPONENTE SCIAMANICA Oggi la presenza di spiriti, soprattutto femminili, nella cinematografia orientale è un fatto assodato, ma ai più sembra essenzialmente una moda nata in Giappone e da lì diffusasi ai Paesi limitrofi. La realtà è un’altra: ogni Paese ha la sua peculiare fenomenologia in fatto di apparizioni, e i fantasmi tipici della Corea, effettivamente, sono in prevalenza femminili. Il perché è presto detto: nel confucianesimo, una delle dottrine storiche della Corea, la donna è considerata inferiore all’uomo (concetto ben esemplificato dal famoso detto ‘nam-chun-yeo-bi’ che significa ‘importante l’uomo, insignificante la donna’). Le donne coreane sono sempre state discriminate da una società maschilista fino al midollo, e questo spiega sia il carattere essenzialmente femminile dello sciamanesimo (la religione degli oppressi) sia l’abbondanza di fantasmi femminili afflitti dal cosiddetto Han.
Lo sciamanesimo di cui stiamo parlando è particolarmente interessante in quanto, a differenza di quello classico, nella penisola coreana è praticato in gran parte dalle donne. In senso lato, lo sciamanesimo si basa sul concetto che tutte le risposte ai mali della nostra società risiedono da qualche parte nell’aldilà, e che solo persone estremamente dotate possono azzardarsi a superare il ponte tra i due mondi e poi riuscire a tornare. Sono le donne, in Corea, la vera e unica via di collegamento tra quelli che possiamo definire avvenimenti terreni e gli spiriti ultraterreni. Questione di sensibilità, o di maggiore predisposizione, o quello che volete. Della capacità delle donne d’oltrepassare la soglia a proprio piacimento si parlava già nell’antica Grecia (Ecate, Persefone…). Se consideriamo banalmente nascita e morte come passaggi di stato, è evidente che per le religioni non può che essere la
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donna la chiave di volta: se ad essa è concessa la capacità di procreare, e quindi di trasmutare dalla condizione di ‘non vita’ a quella di vita, le sarà in qualche modo concessa anche la capacità opposta. In Corea le sciamane, dette mudang, sono grossomodo questo: donne che comunicano con i morti e che assistono questi ultimi nel loro viaggio ultraterreno; donne che interrogano i defunti, che eseguono pratiche esorcistiche al fine di allontanare gli spiriti malvagi e che si occupano di curare malattie attraverso canti e danze rituali. Secondo varie religioni tra cui quella cristiana (ma anche numerosi miti indoamericani), la donna è il mezzo con il quale la morte è entrata originariamente a far parte del nostro mondo: una prima volta attraverso la violazione di un tabù divino, e ripetutamente, in seguito, attraverso il sangue mestruale, fenomeno che, specialmente nel Medioevo dell’Inquisizio-
ne, è stato interpretato come la prova definitiva della colpa. La strega delle fiabe è in fin dei conti anch’essa un personaggio che viene dal mondo delle ombre e dei morti; così come la morte stessa, in tutte le culture, si materializza iconograficamente in un’immagine femminile. Lo sciamanesimo coreano non sarebbe quindi un’anomalia, bensì ciò che più probabilmente assomiglia allo sciamanesimo delle origini, successivamente corrotto al fine di adeguarlo alle tendenze patriarcali della società ‘moderna’. Oggi in Corea esistono scuole per sciamane nelle quali vengono insegnati i muga, canti tradizionali – fino a pochi decenni fa tramandati solo oralmente – così antichi da contenere parole che oggi nessuno riesce più a comprendere. Le prime testimonianze scritte delle cerimonie religiose coreane, risalenti all’inizio del XX secolo, le dobbiamo paradossalmente ai Giapponesi, spinti più dallo spirito colonizzatore che da motivi culturali. Fu lo studioso Son Chint’ae il primo Coreano a trascrivere in giapponese, nel 1930, una raccolta di muga provenienti da tutto il Paese, sotto il titolo di ‘Raccolta di vestigia di canti divini’. Ancora una volta la molla non fu puramente accademica, quanto più banalmente un bisogno nazionalista di affermazione dell’identità del Paese nel bel mezzo del periodo della dominazione coloniale giapponese (1910-1945). Sfortunatamente ciò che è giunto a noi sono
MUDANG
La carismatica Kim Keum-Hwa, una delle più celebri sciamane coreane. Immagine dal film documentario Bidankkochgil (lett. ‘il fiore di seta’), del 2013.
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LA RESISTENZA AI GIAPPONESI
Una compagnia di ribelli coreani nel 1907. Foto di Frederick Arthur McKenzie, tratta dal volume The Tragedy of Korea (edizione E. P. Dutton & Co., New York 1908). Fonte: Wikimedia Commons.
solo frammenti sparsi dei muga, spesso semplici riassunti o annotazioni ormai indistinguibili dal testo originale. A proposito del periodo coloniale giapponese, accennavamo prima all’abbondanza, tutta coreana, di fantasmi femminili afflitti dal Han. Il Han (letteralmente risentimento, rancore, sofferenza) è uno stato umano che simboleggia l’epopea di un intero popolo oppresso dall’occupazione straniera e dalle guerre intestine, e se in teoria può riguardare chiunque perché deriva da un’angosciante esperienza, è innegabile che affligga soprattutto i poveri, i deboli e le donne. Non bisogna però confondere il Han con il Ju-On, il rancore della tradizione giapponese. Il Han non rappresenta desiderio di vendetta, ma l’attesa del nuovo incontro in cui possa avvenire una riparazione del torto subito e una riconciliazione (Han-
pu-ri). Il suo carattere inizialmente negativo contiene dunque in sé un fondo di speranza, ed ecco spiegato il finale di Memento Mori, in cui Hyo-Shin, ottenuto il pentimento di Shi-Eun e il mantenimento della sua promessa di amore eterno, molla la presa sulla scuola e ne riapre le porte, rinunciando al massacro che fin lì si presagiva. In Whispering Corridors la componente orrorifica è molto blanda, talvolta quasi completamente assente, mentre il dramma è sempre in primo piano. Ciò in gran parte deriva da una peculiare predisposizione alla malinconia tipicamente orientale. Memento Mori la esemplifica molto bene: Shi-Eun e Hyo-Shin, in particolare quest’ultima, vivono in maniera intensa ogni attimo trascorso insieme, con la consapevolezza della fine incombente; traspare dagli occhi, dalle parole, persino dalla postura del corpo. Quando le due ragazze creano il loro bizzarro diario, lo fanno quasi per dare contenuto e consistenza al proprio amore, per renderlo in un certo senso concreto e farlo sopravvivere, per contrastare insomma quel sentimento cosmico di precarietà che è alla radice del loro animo.
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Scheda tecnica TITOLO:
Yeogo Goedam Sebeonjjae Iyagi: Yeowoo Gyedan
ANNO E PAESE:
2003, Corea del Sud
REGIA:
Yun Jae-Yeon
SCRITTO DA:
Kim Su-A, Lee Yong-Yeon, Lee Sin-Ae, Lee So-Young
FOTOGRAFIA:
Seo Jeong-Min
MONTAGGIO:
Kim Jae-Bum, Kim Sang-Bum MUSICHE:
Park Seung-Won, Jo Min-Su, Song Gyeong-Geun
SCENOGRAFIE:
Ji Sang-Hwa COSTUMI:
Jo Yun-Mi, Lee Ji-Min
PRODUTTORI:
Lee Choon-Yun
PRODUZIONE:
Cine-2000 Film Production, CJ Entertainment
Cast SONG JI-HYO (Yun Jin-Seong) PARK HAN-BYUL (Kim So-Hee) JO AN (Eom Hye-Ju) PARK JI-YOUN (Han Yoon-Ji) KONG SANG-A (Kyoung-Jin) LEE JI-HYEONG (Young-Seon)
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CAPITOLO 3: WISHING STAIRS “Volpe, volpe, esaudisci il mio desiderio. Lasciami vincere solo una volta.” Il terzo film della saga arriva nel 2003, e questa volta il timone passa alla regista Yun Jae-Yeon. Yeogo Goedam Sebeonjjae Iyagi : Yeowoo Gyedan, il cui titolo internazionale è Whispering Corridors 3: Wishing Stairs, non è solo la solita storia sovrannaturale ad ambientazione scolastica, ma segna anche una felice seppur minima incur-
sione nel folclore coreano. Ingranaggio della vicenda è una scalinata di 28 gradini che porta al dormitorio della scuola, la cosiddetta ‘scala dei desideri’: se qualcuno la sale contando i gradini, esiste la possibilità che, in particolari circostanze, possa contarne 29. Colui o colei che riesce a calpestare il fantomatico ventinovesimo gradino potrà chiedere a uno spirito-volpe di esaudire un suo desiderio. Ma per ogni desiderio realizzato ci sarà un prezzo da pagare…
Siamo in un college con annessa scuola di danza. Eom Hye-Ju, una ragazza obesa vittima dello scherno delle compagne, viene a conoscenza della leggenda della scalinata e si rivolge allo spirito per chiedere ciò che chiunque al posto suo avrebbe chiesto. Detto, fatto: nel giro di una notte la ragazza dimagrisce tanto da risultare irriconoscibile. Hye-Ju, inoltre, sembra nutrire una vera e propria venerazione per Kim So-Hee, la più talentuosa ballerina della scuola, ma costei non ha occhi che per l’amica Yun Jin-Seong, il legame con la quale sembra ben più profondo dell’amicizia, almeno da parte di So-Hee. Questo rapporto è messo a dura prova dalla notizia che a breve si terrà l’audizione di una prestigiosa accademia di danza russa per il ruolo di Giselle: So-Hee è la favorita ma Jin-Seong non si rassegna e, scovato il ventinovesimo gradino, chiede di poter vincere il provino. Le cose precipitano dopo la gara, quando un banale incidente manda So-Hee all’ospedale compromettendo, forse, la sua carriera di ballerina. Mentre Jin-Seong raccoglie onori e consensi come nuovo astro nascente del balletto, So-Hee si strugge nella disperazione e nella solitudine fra le recriminazioni di sua madre e l’assenza dalla sua ormai ex amica. Quando So-Hee muore, Hye-Ju si reca nuovamente sulla scalinata per domandare il suo ritorno… Come già nei precedenti capitoli della saga, punto di forza di questo film è la caratterizzazione dei personaggi, primo fra tutti quello di Hye-Ju che, anche da magra, non cessa d’essere la ragazza strana e inquietante che tutti scansano
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e di cui tutti impietosamente prendono in giro manie e comportamenti. La giovane diventa bulimica e il suo desiderio di normalità ben presto affonda, vomitato assieme ai pasti che consuma. La bellezza non le porta la popolarità, continuerà a trascorrere solitari pomeriggi nel seminterrato della scuola. È tratteggiato con efficacia anche il personaggio di contorno di Han Yoon-Ji, una scultrice in erba che perseguita Hye-Ju. Per lei non ci sarà nessuna scalinata e nessun ingannevole spirito-volpe, ma anche a lei il destino riserverà una sorte infausta: diverrà infatti, in carne e ossa, l’opera d’arte perfetta, a tal punto realistica da strappare al suo professore d’arte il tanto agognato complimento “sei la migliore”. Il messaggio, insomma, è chiaro, e cioè
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che è bene stare sempre attenti a cosa si desidera, perché quando il desiderio si avvera non è detto che lo faccia nel modo che avevamo immaginato. È un po’ lo stesso assunto su cui si fonda Wishmaster, capostipite (nel 1997) dell’omonima saga di film che ad oggi conta tre sequel. In Wishing Stairs trovano ampio spazio sentimenti contrastanti come amore, gelosia, tradimento, e si sviscera la complessità di relazioni umane che non sono quasi mai paritarie ma sempre basate su un elemento dominante (qui rappresentato da Jin-Seong, che per l’amica prova un affetto molto distaccato e velato di invidia) e uno più debole (So-Hee, che non cessa mai di voler bene alla compagna). Se nel precedente capitolo l’omosessualità era esplicita, qui vi è solo un’insinuazione sottile (o almeno così può venir percepi-
ta da un osservatore occidentale). Se SoHee è lesbica, allora Jin-Seong ne rappresenta il desiderio inespresso e, a sua volta, Hye-Ju completa il triangolo adorando So-Hee, quasi come fossimo catapultati dentro un disegno di M.C. Escher. Leggendo tra le righe si capisce che, ancora una volta, l’origine della rivalità latente è da ricercarsi in un ambiente che stimola la competizione ai massimi livelli. Il ruolo del sovrannaturale nello svolgersi dei fatti resta piuttosto ambiguo: fa la sua apparizione il solito fantasma dai lunghi capelli corvini, ma si potrebbe credere che a dargli forma sia la cattiva coscienza di Jin-Seong; mentre Hye-Ju ha evidentemente una personalità disturbata e l’assunto che la sua possessione da parte dello spirito di So-Hee sia ‘reale’ non è per nulla scontato. Il solo fatto che la sceneggiatura riesca a insinuare il dubbio sul ruolo attivo del fantasma nella storia toglie alla pellicola un po’ del suo sapore di déjà-vu. Dal punto di vista estetico, il film sfrutta molto bene gli spazi; la profusione di lunghi corridoi (della scuola, dell’annesso dormitorio e dei sotterranei) deserti e poco illuminati rende finalmente giustizia al titolo del franchise. Il resto è un repertorio di effetti già visti mille volte, ma sempre maledettamente efficaci, con la tensione che sale per gradi raggiungendo il climax solo nella seconda metà del film, dove le atmosfere si fanno decisamente cupe e inquietanti. Resta tuttavia una vaga sensazione di occasione mancata: la debolezza è forse da ricercarsi nella sovrabbondanza di trame e sottotrame che, a lungo andare, sottraggono efficacia alla visione d’insieme.
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KUMIHO
di ŠVINCENT COVIELLO covielloart.daportfolio.com vcreatures.tumblr.com v4m2c4.deviantart.com
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LA LEGGENDA DELLO SPIRITO-VOLPE Ma perché parlavo di incursione nel folclore? Perché nel folclore coreano esiste effettivamente uno spirito-volpe mutaforma che si chiama kumiho o gumiho (letteralmente, volpe a nove code). La rassomiglianza con le analoghe figure del mito cinese (huli jing) e giapponese (kitsune) è evidente, ma, mentre queste non sono necessariamente malvagie, la kumiho ha connotazioni prevalentemente maligne e la maggior parte delle leggende la vede intenta a cibarsi di cuori o fegati umani (anche profanando le tombe per procacciarseli) o le attribuisce tendenze vampiriche. Non mancano storie in cui le kumiho cercano di diventare umane (il film Gumiho, aka The Fox with Nine Tails, diretto da Park Hun-Su nel 1994, racconta appunto una vicenda di questo tipo). L’elemento folcloristico è del tutto normale in un paese che può vantare una così lunga e ricca tradizione popolare. Il terzo capitolo della nostra saga è un esempio recente di cinema che affonda il proprio innegabile potere di suggestione nella tradizione, ma già quarant’anni prima un’opera come A Thousand Year-Old Fox (Cheonnyeon Ho, di Shin Sang-Ok, 1969), per fare un esempio, proponeva la sua particolare rivisitazione del mito dello spirito-volpe. Quel vecchio film, praticamente introvabile (a parte una versione in lingua originale non sottotitolata) narra la storia di una donna, YeoHwa, allontanata dal regno di Shilla dalla malvagia regina Jin-Seong che mira ad avere campo libero per sedurre il di lei marito
Kim Won-Rang. Nel corso del suo viaggio attraverso le montagne, Yeo-Hwa, assalita dai banditi, si getta in un lago infestato dallo spirito di una volpe uccisa tempo addietro da un antenato della stessa regina Jin-Seong. Nasce quindi un potente sodalizio fra la donna e la creatura la quale, incarnandosi nel corpo di Yeo-Hwa, tornerà a Shilla per compiere la comune vendetta. La leggenda vuole che una comune volpe, se raggiunge la soglia dei mille anni di età, può diventare una kumiho e ottenere il potere di trasformarsi in donna per compiere i suoi misfatti, non ultimo l’aggirarsi nelle notti di luna piena in cerca di vittime maschili da sedurre e da uccidere. Esattamente come la corrispettiva cinese huli jing e la giapponese kitsune, anche la kumiho può finire col tradire la propria identità, a causa di un particolare che non sarebbe in grado di cancellare durante la sua mutazione: solitamente si tratta della coda (anzi, delle sue nove code), che permane anche nel suo aspetto umano e che, in qualche modo, la kumiho cerca di nascondere tra le vesti. Altre pellicole hanno ripreso la leggenda, nel corso degli anni, ma si tratta più che altro di filmetti di intrattenimento senza alcun valore culturale: sto parlando del già citato Gumiho e della serie TV My Girlfriend Is a Nine-Tailed Fox (Nae Yeojachinguneun Gumiho, 2010). Forse dall’esterno è difficile percepire la profondità del folclore coreano e la sua influenza sulla cultura popolare, ma la sua realtà è innegabile. È un patrimonio vecchio di secoli che non ha nulla da invidiare a quello di altri Paesi più vicini alla nostra sensibilità e cultura.
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CAPITOLO 4: VOICE “Se le note non riescono a miscelarsi bene, allora ciò che ne esce è solo rumore. Ma se lo fanno, allora si trasformano in un bellissimo accordo. Ascoltare quel suono è più importante del cantare bene. Dovreste essere in grado di capire quali note si accordano meglio con le altre. Altrimenti è solo rumore. Esattamente come le relazioni umane.” Perché una musica risulti piacevole all’orecchio, ogni nota deve armonizzarsi con le altre, e accade solo se le voci e gli strumenti che le generano funzionano a dovere, sono integri, ‘oliati’ e atti allo scopo. Con i rapporti umani è lo stesso, le personalità devono legarsi e compenetrarsi, le rispettive mancanze e debolezze devono essere rese manifeste, per essere comprese e accettate: se coloro che si relazionano non si conoscono a fondo, questa fusione di anime non potrà mai avvenire e il rapporto resterà sempre a un livello superficiale, nonostante l’affetto tenda a passare sopra a tutto attaccandosi a quanto di buono il legame può comunque offrire, magari usando i ricordi come collante. Quando però le persone non conoscono
nemmeno se stesse, ogni sforzo sarà vano. Questa premessa è doverosa perché Whispering Corridors 4: Voice (Yeogo Goedam 4: Moksori, 2003), diretto da Choi Equan, è sì ambientato in una scuola, come i precedenti episodi della saga, ma quello spazio fisico nell’economia della storia è importante solo nella misura in cui circoscrive l’azione e intrappola, fisicamente e psicologicamente, alcuni personaggi-chiave; scomparso dalla narrazione ogni riferimento sociale a favore di una dimensione più intima e privata, è la musica a fornire ai fatti il contesto, il movente e la filosofia di fondo. Il film comincia con la misteriosa morte della studentessa Park Young-Eon che, rimasta a scuola fino a tarda ora per esercitarsi nel canto, viene aggredita da uno spirito nel corridoio adiacente l’aula di musica. È una delle poche scene realmente violente di tutta la serie dei corridoi sussurranti: la ragazza si ritrova con la gola recisa da un foglio di carta, uno spartito che saetta nell’aria e colpisce con la violenza di un rasoio. Il cadavere della giovane verrà ritrovato solo giorni
Scheda tecnica TITOLO:
Yeogo Goedam 4: Moksori ANNO E PAESE:
2005, Corea del Sud REGIA:
Choi Equan SCRITTO DA:
Choi Equan FOTOGRAFIA:
Kim Yong-Heung MONTAGGIO:
Kim Sun-Min MUSICHE:
Lee Byung-Hoon, Jang Young-Gyu SCENOGRAFIE:
Kim Joon COSTUMI:
An Sang-Mi, Yun Mi-Ra PRODUTTORI:
Lee Choon-Yun, Lee Mi-Yeong PRODUZIONE:
Cinema Service, Cine-2000 Film Production, CJ Entertainment, Chungmuro Fund
Cast KIM OK-VIN (Park Young-Eon) CHA YE-RYUN (Cho-A) SEO JI-HYE (Kang Seon-Min) KIM SEO-HYUNG (Hee-Yeon) LEE EUN (Mi-Hee) IM HYEON-KYEONG (Hyo-Jung) JEON JI-AE (Hwa-Jung)
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più tardi nel pozzo di un ascensore, ma Kang Seon-Min, la sua migliore amica, inizia da subito a percepire la voce del suo spirito e a intuire che qualcosa di terribile le è accaduto. Con l’aiuto di Cho-A, una compagna sensitiva, avrà conferma che Young-Eon è morta e che il suo fantasma è ora imprigionato tra le mura della scuola. Per tutti gli altri studenti Young-Eon è semplicemente assente, forse malata o impegnata a commemorare l’anniversario della morte di sua madre che cade proprio in quei giorni. Il film, difatti, ci presenta – in maniera molto originale – il punto di vista di tutte e tre le ragazze, permettendoci di empatizzare con la disperazione di Young-Eon che non è, una volta tanto, il solito fantasma orientale in cerca di vendetta, quanto una semplice ragazza colta alla sprovvista da una realtà completamente nuova, da un nuovo stato dell’esistenza del quale fatica a prendere coscienza. In Voice possiamo scorgere una vittima e di conseguenza anche l’inevitabile ricerca di un colpevole, come nelle più classiche delle detective story. Che ruolo ha nella vicenda lo spirito di una ragazza morta suicida molto tempo prima? Young-Eon è sincera quando afferma che non la conosceva? Cosa ci faceva la professoressa di musica nell’edificio scolastico la notte in cui Young-Eon è morta e quale fondamento hanno le insistenti voci circa una relazione intima tra le due? C’è qualcosa nel passato di Young-Eon che la ragazza non riesce a confessare nemmeno a se stessa? Di tutte queste oscure vicende in fondo importa relativamente: noi amiamo osservare la figura di Young-Eon, morta con la consapevolezza di esserlo.
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Ma la morte non è il peggiore dei mali: di peggio c’è l’oblio. Se “ricordati dei morti” era il motto del secondo capitolo, “ricordati di me” è ciò che cerca di dire nel quarto Young-Eon, perché nella sua nuova condizione si rende conto che la chiave della vita eterna è proprio nel ricordo da parte di chi è rimasto. Il giorno che Seon-Min non sarà più in grado di udire la voce della sua sfortunata compagna,
sarà il momento del definitivo oblio, e si chiuderà quell’impercettibile varco che ancora concede all’anima di Young-Eon l’illusione di esistere nella sua forma ‘terrena’. Quel disagio adolescenziale provato dal ‘diverso’, presente anche nei precedenti capitoli, quelle risatine e quei bisbigli di derisione, reali o soltanto immaginati, da parte delle compagne di scuola, in que-
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sto quarto episodio sono ancora presenti ma, una volta tanto, vi è in essi una bidirezionalità. Voci flebili ed eteree che tendono a sfumare con il trascorrere dei minuti: quelle percepite da Seon-Min, ma anche quelle udite da chi, ancora una volta, si sente estraneo agli altri. Se precedentemente avevamo assistito a diversità tutto sommato convenzionali, questa volta ce n’è una ben più sostanziale. La studentessa grassa del terzo capitolo e quella omosessuale del secondo erano ‘diverse’, ma certo non quanto Young-Eon, una ragazza che non appartiene nemmeno più al mondo dei vivi. In questo Voice la diversità è assoluta e qualsiasi forma di comunicazione è fragile. La vicenda è vista in gran parte proprio dalla prospettiva e con gli occhi di un fantasma, che ha ancora un legame con la vita e continua a provare sentimenti d’amore, d’amicizia e di dolore. Perché una musica sia piacevole all’orecchio ogni nota deve armonizzare con le altre, dicevamo all’inizio. È l’essenza stessa dell’amicizia, del suo inizio e della sua fine. Young-Eon, il suo fantasma, la sua scuola, altro non sono che una grande metafora della vita. Nulla è eterno su questa terra, tantomeno lo è l’amicizia che, più di qualunque altra cosa, è perturbabile dall’incedere inarrestabile del tempo. L’amicizia è un momento transitorio destinato a finire, ma del resto, per andare avanti, è doveroso dimenticare: chi esce dalla tua vita diventa invisibile e inudibile proprio come se fosse morto. Young-Eon si aggrappa alla propria voce come si aggrappa alla vita dopo essere morta proprio con la gola recisa, ironicamente.
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LA PAURA DELLA MORTE Per i coreani ogni uomo ha tre anime, una delle quali rimane nella tomba insieme ai resti mortali del defunto; le altre due invece sono destinate a distaccarsene, una per dimorare nelle tavolette mortuarie che i parenti espongono nelle proprie case per onorare il caro estinto, e una per recarsi nell’aldilà, ovvero in uno dei numerosi ‘regni’ o ‘cieli’ ultraterreni governati dal dio Haneullim. I riti e le preghiere dedicati ai defunti nella tradizione servono soprattutto per rabbonire gli spiriti malevoli, di modo che non interferiscano con gli affari dei vivi. Differenze ideologiche e culturali a parte, la morte fa paura a tutte le longitudini. Il Tutto di cui facciamo parte, l’organismo
‘cosmico’, sopravvive però alla morte quotidiana delle sue singole cellule; la morte è necessaria per l’equilibrio della vita. È in questo senso che i morti vanno lasciati andare, senza stimolare legami innaturali, attaccamento o nostalgia per un mondo, quello reale, che più non gli appartiene. Saggiamente, quindi, Seon-Min si allontana dall’amica Young-Eon, non per cancellarne il ricordo ma perché è necessario accettare la sua morte per far sì che lei stessa la accetti. Un analogo allontanamento tra vivi e morti è il mesto epilogo di tutti i film della saga, incluso l’ultimo dove, paradossalmente, la dipartita del fantasma servirà a rinnovare il suo legame con l’amica.
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Scheda tecnica TITOLO:
Yeogo Goedam Daseot Beonjjae Iyagi: Dongban Jasal
ANNO E PAESE:
2009, Corea del Sud
REGIA:
Lee Jong-Yong
SCRITTO DA:
Lee Jong-Yong
FOTOGRAFIA:
Gang Seung-Gi
MONTAGGIO:
Kim Sang-Bum, Kim Jae-Beom
SCENOGRAFIE:
Jeon In-Han COSTUMI:
Park Seon-Jee
PRODUTTORI:
Lee Choon-Yun, Kim Bok-Geun
PRODUZIONE:
Cine-2000 Film Production
Cast SON EUN-SEO (So-Yi) JANG KYOUNG-AH (Eon-Ju) OH YEON-SEO (Yu-Jin) SONG MIN-JEONG (Eun-Young) YOO SIN-AE (Jeong-Eon) HWANG SEUNG-EON (Park Ji-Mi)
CAPITOLO 5: A BLOOD PLEDGE Di Voice abbiamo detto che, così come nella musica, l’armonia è l’essenza stessa dell’amicizia, del suo inizio e della sua fine. Whispering Corridors 5: A Blood Pledge (patto di sangue, Yeogo Goedam Daseot Beonjjae Iyagi: Dongbanjasal, 2009), di Lee Jong-Yong, cerca di spiegarci esattamente questo concetto. Tre amiche, Yu-Jin, EunYoung e So-Yi, decidono di suicidarsi e scelgono di farlo assieme all’interno della scuola superiore che tutte e tre frequentano. Intrufolatesi nottetempo nella cappella dell’istituto, giurano solennemente di morire assieme, invocando una maledizione su chi fra di loro dovesse rompere quel patto di sangue. Qualcosa però impedisce di portare a termine il proposito e alla fine a perdere la vita gettandosi nel vuoto sarà Eon-Ju, una quarta studentessa. Il tragico avvenimento turba profondamente So-Yi, che di Eon-Ju era molto amica (sebbene negli ultimi tempi le due si fossero allontanate); ma la più sconvolta, comprensibilmente, è la sorella minore di Eon-Ju, che accusa apertamente So-Yi. Chi c’era sul
tetto con Eon-Ju la notte in cui morì? Ma soprattutto, la giovane si è davvero suicidata, oppure qualcuno l’ha spinta? Saranno numerosi flashback a scoprire i retroscena e a ricomporre tutti i tasselli del puzzle, ma noi spettatori, sin dall’inizio, intuiamo facilmente che nessuna delle tre ragazze che siglarono il patto di sangue è del tutto estranea all’accaduto. So-Yi però sembra davvero affranta e, naturalmente, le altre ragazze temono le conseguenze di ciò che l’amica, in preda al rimorso, potrebbe rivelare. I successivi giorni scolastici sono cadenzati da un estenuante rincorrersi di pettegolezzi, sospetti e accuse più o meno esplicite, mentre lo spirito di Eon-Ju si aggira inquieto… Fino alla svolta finale che, onestamente, non riserva molte sorprese ma tuttavia prelude a una conclusione poetica e commovente. In questo quinto film della saga, forse ancor più che negli altri, i vivi si rivelano più terrificanti dei morti e finiranno per rivoltarsi gli uni contro gli altri. Sarà questo, e non tanto la maledizione in sé o il rancore di Eon-Ju, a fare giustizia: un atto che al contempo proteggerà l’u-
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nica innocente fra le tre ragazze, o meglio la meno colpevole. Si scoprirà infatti che Eon-Ju, al corrente dei propositi suicidi di So-Yi, si era offerta spontaneamente di morire con lei ed era perciò salita volontariamente su quel cornicione. Si scoprirà pure che gli avvenimenti che avevano portato a quella fatidica notte non erano affatto casuali: Eon-Ju era la migliore studentessa della scuola e la sua prematura dipartita a qualcuno conveniva. So-Yi si disporrà a saltare dal tetto per restare accanto a Eon-Ju per sempre, come in passato le aveva promesso, ma il fantasma pretenderà da lei un diverso modo di onorare il loro patto… Nel film non mancano momenti di tensione e di mistero, né il solito repertorio di effetti, ma prima di arrivare a quel punto il tono resterà a lungo lento e intimista. Lì la suspense latita, e ciò non deve sorprendere perché in fondo A Blood Pledge aspira ad essere il racconto struggente di un sentimento di amicizia che non conosce pausa, che lenisce, perdona e che nemmeno la morte può scalfire. A parte questo, a colpire è ancora una volta il contesto sociale nel quale si sviluppa la tragedia, che poi è anche la causa della futilità del movente. Yu-Jin, brillante e cinica, abituata a ottenere quello che desidera a ogni costo, e Eun-Young la gregaria, picchiata dal padre e alla disperata ricerca di riscatto, sono personaggi negativi ma a modo loro anche drammatici. Il proprio nome in cima a un cartellone, avere l’onore di vedersi consegnare le chiavi della scuola, eliminare la propria rivale in amore: la cronaca c’insegna che si uccide per questo e anche meno, eppure l’incredulità rimane. Si torna quindi a riflettere, di
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nuovo, sull’estrema competitività della società coreana. Quando il valore di una persona si misura esclusivamente con il suo status e con ciò che ha ottenuto, quando l’avere trionfa sull’essere, non è mai un buon segno. Dopo l’elemento folcloristico di Wishing Stairs fa capolino nella saga anche quello religioso, poiché A Blood Pledge è ambientato in una scuola cattolica. Sorpresi? In effetti, la struttura scolastica messa in piedi e mantenuta da cattolici e protestanti nel Paese è imponente, comprende anche un buon numero di università e la percezione dei Coreani è che siano tra le migliori dal punto di vista educativo. Visto e considerato quel che avviene nella cattolicissima scuola di A Blood Pledge, la cosa si tinge di macabra ironia, ma se l’intento sia criticare o ridicolizzare que-
sto tipo di istituzioni in particolare non è dato sapere. L’aspetto religioso nel film è solo iconografico, d’accordo, e né il movente né lo svolgersi degli avvenimenti hanno una matrice religiosa, ma tanto basta. L’iconografia cattolica all’interno di questo film ha un effetto un po’ straniante, fatto singolare perché in realtà la Corea del Sud è una nazione a forte presenza cristiana. Il cattolicesimo è chiamato ‘la religione della mamma’ (perché numerose chiese pongono al proprio ingresso una statua di Maria con le braccia spalancate in un virtuale abbraccio), e diversamente dallo sciamanesimo non è una religione ‘povera’ ma anzi è diffusa fin negli ambienti più elitari. Altro elemento significativo del quinto e ultimo capitolo è il suicidio, o meglio an-
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cora il suicidio collettivo. A Blood Pledge è uno dei pochi film che siano riusciti ad affrontare l’argomento, decisamente spinoso, da un punto di vista analitico. Il suicidio collettivo non è qui solo un pretesto per spettacolarizzare la morte, bensì un’attenta esplorazione delle cause e degli effetti di un fenomeno, oggi molto più che allora, tristemente frequente, un’esplorazione che diventa introspezione psicologica quando indaga le motivazioni più profonde dei vari personaggi. La Corea del Sud è la prima nazione al mondo per numero di suicidi compiuti da donne, e il suicidio è la sua prima causa di morte per i giovani tra i 10 e i 30 anni, quarta fra l’intera popolazione. Nella casistica rientrano anche i cosiddetti ‘patti suicidi’, quei singolari quanto sconvolgenti casi di cronaca nei quali diversi individui, solitamente di giovane età, cercano l’uno nell’altro la forza per raggiungere il terribile scopo che si sono prefissi. Solo quattro anni fa una notizia proveniente, appunto, dalla Corea del Sud raccontava una vicenda di quelle che mettono i brividi: cinque ragazzi si conobbero tramite un sito clandestino specializzato nel mettere in contatto tra loro utenti con uno scopo comune, quello di togliersi la vita. I ragazzi, tre uomini e due donne, si incontrarono di persona e, insieme, raggiunsero il ponte sul fiume Bukhan a Gapyeong da cui, facendosi coraggio a vicenda, si buttarono. Un salto di parecchie decine di metri, nella corrente gelata del fiume in piena: sopravvisse solo una ragazza ventiquattrenne. Ma la lista di fatti analoghi avvenuti in territorio asiatico è lunga. Come già aveva pronosticato il regista Sion Sono nel
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film che lo consacrò, Suicide Club (Jisatsu Saakuru, 2002), questi sono i più folli e incredibili effetti collaterali della rete globale. Si direbbero leggende metropolitane, ma purtroppo non lo sono. Un successo, quello del suicidio organizzato, che è parallelo al crescente fenomeno degli hikikomori, concetto nato in Giappone ma ampiamente esportato anche in Corea del Sud a causa delle forti similitudini culturali che la penisola coreana condivide con il Paese del Sol Levante. Nella lingua giapponese il termine hikikomori sta ad indicare una vera e propria fuga dal mondo reale, volta a rintanarsi in un luogo angusto e protetto dove i rapporti sono filtrati e regolati dalla tecnologia. Migliaia di adolescenti decidono per una reclusione volontaria nella propria cameretta e lo fanno per l’incapacità di
soddisfare le aspettative sociali e personali. Una diversa forma di ‘suicidio’. Perché prendono piede questi fenomeni? Storie diverse, motivazioni diverse, ma in tutto questo uguali sono le sofferenze: un brutto voto a scuola, una delusione d’amore, la mancanza di un lavoro stabile, i debiti da pagare, il sentirsi diversi o rifiutati dagli altri, la perdita di una persona cara. Suicidarsi non è mai facile. Bisogna fare i conti con la paura dell’ignoto, con il timore di provare del dolore, con il dubbio di non riuscire. E allora ci si rifugia in se stessi a tempo indeterminato, oppure ci si appoggia al collettivo, dove quel pezzettino di coraggio lo si assorbe dagli altri, dove ci si trova davanti alla necessità di rispettare un patto, l’ultima responsabilità che si ha nei confronti del mondo.
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IN FONDO AL CORRIDOIO Giunti alla fine del viaggio, è il momento di provare a tirare qualche somma. Sorprendentemente, ecco una saga horror con più alti che bassi. I picchi sono senz’altro Memento Mori e Voice, e non si riscontrano capitoli del tutto non riusciti. Se qualche ovvietà di troppo compare nella trama, viene compensata da un mai banale approfondimento di temi e personaggi, mentre dal punto di vista tecnico-estetico si nota una crescita pressoché costante, tanto che, arrivati alla fine, ci si ricorda appena dell’essenzialità del capostipite. Riguardo i rapporti tra le protagoniste, il confine tra amicizia e amore è sempre molto labile, ma allo stesso tempo nulla di ‘sconveniente’ viene mai mostrato; ci sono due eccezioni da rilevare: in A Blood Pledge, in retrospettiva è evidente che le due protagoniste sono legate solo da affetto fraterno; in Memento Mori, l’episodio con le atmosfere più morbose, l’amore saffico si palesa in diverse situazioni, soprattutto nella famosa sequenza del bacio in classe. Questo tema pesa molto nell’economia del film, anzi si può dire
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che è la sua vera impronta. Si dice che, del cast presente sul set, solo le interpreti di Hyo-Shin e Shi-Eun fossero al corrente di come si sarebbe svolta quella scena, e le reazioni delle altre ragazze sarebbero non finzione scenica ma vera sorpresa e disgusto, cosa che ci dà la cifra di come allora (e probabilmente anche adesso) si reagiva di fronte all’omosessualità. Come già accennato, è vero che nessuno dei Whispering Corridors è un horror nel senso stretto del termine. Forse è Wishing Stairs l’unico a calcare un po’ la mano in certe scene, e in misura minore A Blood Pledge. Insomma l’horror fa capolino, ma non è il vero fulcro delle pellicole; prevalgono piuttosto il dramma e il mistero; e la ricerca di risposte è sì indagine dei fatti accaduti ma soprattutto analisi psicologica ed emotiva. Eppure è proprio ‘horror’ il termine tecnico con il quale questi cinque film sono accreditati ed etichettati. La verità, abbiamo scoperto, è che anche una serie definita horror può offrire dei contenuti sui quali vale la pena soffermarsi un attimo, riflettere e discutere. <
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Cult MOVIE
I predatori
DEI RICORDI
PERDUTI
di LUCIA PATRIZI
Dall’immaginazione di Alex Proyas una elegante ma sottovalutata Matrix ante litteram: sci-fi e atmosfere noir, per meditare sull’essenza dell’uomo.
L
A STRANA storia di questo film e del suo regista è la dimostrazione pratica di quanto il cinema sia un bastardo senza cuore, spietato e anche un po’ infame. Alex Proyas, Australiano ma nato in Egitto da genitori greci, gira nel 1989 un interessante postapocalittico che gli attira addosso l’attenzione di Hollywood. Se ne va in America pieno di belle speranze ed ecco l’uragano Il Corvo (1994), cult generazionale segnato dalla tragica dipartita dell’attore principale durante le riprese. Un incasso da capogiro, un fenomeno di massa, un mito ancora prima di
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uscire nelle sale. Carriera lanciata verso le stelle e oltre. Passano ben quattro anni e Proyas ha l’occasione della vita servita su un piatto d’argento: budget di 27 milioni di dollari per un film di fantascienza che parla di controllo mentale, di ricordi innestati artificialmente e di un’umanità resa schiava inconsapevole, costretta a vivere in un mondo che non è reale. E che ti combina il box office? Niente. Fiasco. Disastro. Ecatombe. Il buon Proyas se ne torna in Australia, con la coda tra le gambe, salvo rifarsi vivo girando brutti thriller millenaristici con Nicolas Cage
Scheda tecnica TITOLO:
Dark City ANNO E PAESE:
1998, Australia | USA REGIA:
Alex Proyas STORIA:
Alex Proyas SCENEGGIATURA:
Alex Proyas, Lem Dobbs, David S. Goyer FOTOGRAFIA:
Dariusz Wolski MONTAGGIO:
Dov Hoenig MUSICHE:
Trevor Jones REP. SCENOGRAFICO:
George Liddle (prod. design), Patrick Tatopoulos (prod. design), Richard Hobbs (art direction), Michelle McGahey (art direction) COSTUMI:
Liz Keogh PRODUTTORE:
Andrew Mason, Alex Proyas, Michael De Luca (executive), Brian Witten (executive), Barbara Gibbs (line) PRODUZIONE:
(Segnali dal Futuro, 2009), che è come finire dritto dritto dentro una fogna a cielo aperto. In mezzo c’è la parentesi Io, Robot (2004) che vorrei aver tanto rimosso dalla memoria – giusto per restare in tema. L’anno dopo Dark City, arriva nei cinema Matrix. Solo che questa volta, al posto di un film cupo, riflessivo, voluta-
mente retrò e dall’atmosfera cinica come quella di un noir, abbiamo Laurence Fishburne che fa gli spiegoni pseudofilosofici pubblicizzando le duracell e tutti vanno in visibilio. Ah che figata quegli occhiali da sole e Neo che schiva i proiettili in pose plastiche, mentre la sceneggiatura frulla mezzo secolo di fantascienza nella sua ver-
Mystery Clock Cinema, New Line Cinema
Cast RUFUS SEWELL (John Murdoch) WILLIAM HURT (Isp. Bumstead) KIEFER SUTHERLAND (Dr. Schreber) JENNIFER CONNELLY (Emma) RICHARD O’BRIEN (Mr. Hand) IAN RICHARDSON (Mr. Book) BRUCE SPENCE (Mr. Wall) MELISSA GEORGE (May)
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sione bignami for dummies e la condisce anche con ettolitri di velleità messianiche da spaccare la faccia ai Wachowski, tanto per passare un pomeriggio in allegria. Anche i due fratellini di Chicago, però, hanno ricevuto la loro punizione dal karma, e speriamo che restino puniti a vita, per i danni che hanno causato all’immaginario collettivo tutto. Dark City non ha un’ambientazione: la città del titolo potrebbe trovarsi in qualunque momento storico e in ogni luogo imprecisato degli Stati Uniti. I personaggi si muovono tra diroccati musei del mare, squallidi alberghetti abitati da prostitute, stazioni di polizia che sembrano usciti da un romanzo di Chandler e fumosi locali dove Jennifer Connelly canta davanti a un vecchio microfono con la voce di un angelo. A questi interni decadenti e polverosi, Proyas alterna mastodontiche scenografie mosse da effetti speciali all’avanguardia, che si spostano ogni volta che scocca la mezzanotte (ma potrebbe anche essere mezzogiorno) e deformano e ricostruiscono la città, dandole un volto nuovo. Un enorme orologio in un sotterraneo scandisce l’attimo in cui ogni cosa si ferma, tutti si addormentano e la loro vita cambia. La Città è una visione: un sogno, o un incubo, in cui la nostra memoria coincide con la nostra anima, in cui una razza antica, dotata di una sola mente collettiva, cerca alla disperata di comprendere ciò che ci rende unici, e costruisce intorno a noi un universo finto per poter carpire indisturbata la nostra individualità. Uno zoo dove non sorge mai il sole, dove ti vengono imposti sentimenti mai provati, dove il tuo passato, quello vero, è cancellato per
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sempre, perduto chissà dove. E chissà se esiste la Terra, chissà se c’è qualcosa oltre quel canale, chissà se l’Oceano non è che la pallida e sbiadita memoria di un qualcosa che non è mai stato e mai sarà. Nella Città puoi addormentarti comune cittadino e risvegliarti assassino, se loro decidono che così deve essere. Nella Città puoi amare qualcuno conosciuto pochi minuti prima, ché quell’amore ti è stato innesta-
to nel cervello, puoi essere convinto di fare lo stesso lavoro da 25 anni mentre ti hanno messo lì da pochi secondi. E ti può capitare di svegliarti mentre la città dorme il suo sonno indotto, e impazzire… oppure diventare l’unico in grado di spezzare questa illusione. La Città è un mondo a parte: non si parla di realtà virtuale, ma di una costruzione reale e concreta, che galleggia nello spa-
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zio e da cui non si può fare ritorno. I creatori di questo mondo sono degli esseri a metà tra cenobiti e vampiri alla Nosferatu: gli Stranieri, osservatori e torturatori che ci considerano alla stregua di topi da laboratorio. Uno scenario davvero originale che si pone al confine tra la fantascienza più visionaria e il noir più disilluso. Proyas offre una creatività sfrenata e uno stile di regia svuotato dalle tentazioni da videoclip presenti ne Il Corvo, al servizio di una storia di ricerca e riscatto di un’umanità perduta. È comprensibile che Dark City non abbia avuto successo, all’epoca. Troppo poco consolatorie le conclusioni, e con un finale che è lieto solo in apparenza. Dalla gigantesca prigione sospesa nell’infinito non si evade; si può cercare di modificarla, renderla più vivibile, ma la consapevolezza di cosa sia davvero quella città resta appannaggio di un solo individuo, gli altri continueranno a vivere di ricordi che non appartengono loro. Ed è questa riflessione sul concetto di memoria che rende Dark City un prodotto unico nel suo genere, un film che suscita una serie di domande, senza avere la pretesa di fornirci risposte rassicuranti, o la salvezza a opera di un eletto che diventa una specie di prete volante. La massa indistinta di individui che abita la città buia non ha un passato reale ma ricreato a tavolino. Lo stesso protagonista John Murdock (Rufus Sewell) ha subìto la cancellazione totale dei ricordi. Lo vediamo vagare, disorientato e confuso, alla ricerca di un qualcosa che possa aiutarlo a ricostruire la propria vita, prima di rendersi progressivamente conto che la sua vita non esiste. Ma se quello che cre-
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diamo essere il nostro substrato sociale, culturale e affettivo è falso, cosa resta da salvare dell’essere umano? Dov’è quel nucleo centrale, quel marchio unico che ci rende uomini? Non si tratta quindi della contrapposizione manichea alla Matrix (appunto) tra uomo e macchina. Quello narrato da Dark City è un conflitto più sottile, tra personalità imposte e personalità reali, che però sono obbligate e sfumare l’una nell’altra e a compenetrarsi. Nel momento in cui a uno degli Stranieri (Mr. Hand, interpretato da Richard O’Brien) vengono impiantati i ricordi artificiali di Murdock, l’alieno assume delle caratteristiche proprie e inconciliabili con la mente collettiva di cui fa parte. È la memoria, quindi, il corrispettivo dell’anima? Se è così, gli abitanti della città ne sono privi. Proyas cerca comunque di concludere il suo film all’insegna della speranza: un’e-
splosione luminosa, dopo un’ora e mezza di film girata tutta in notturna, dove forse la salvezza può trovarsi in una traccia flebile di affetto che resta attaccata addosso anche dopo che il ricordo del sentimento è stato spazzato via. Un’impronta lasciata da un vissuto breve e dimenticato, ma che diventa la sola cosa a cui aggrapparsi, nel momento in cui si è soli, con un mondo da ricostruire e una vita che comincia da zero. Dopo Segnali dal Futuro, Proyas è rimasto di nuovo fermo. La carriera di questo regista dalla visione così particolare e dalla fervida immaginazione procede da sempre a balzi. Come detto, il cinema è cattivo, bastardo senza cuore e infame. O forse lo è il pubblico, che all’epoca di Dark City voleva un altro Corvo, salvo poi precipitarsi in massa a farsi anestetizzare da Matrix. Strana, triste storia. <
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CULT Serie
Dispersi
NEL TUNNEL
DEL TEMPO di CUCCU’SSETTE
Alla riscoperta di Kronos, la serie anni Sessanta resa celebre dal suo psichedelico ‘stargate’ temporale.
“D
UE SCIENZIATI americani sono dispersi nelle spirali interminabili del tempo passato e futuro nel corso del primo esperimento del progetto americano più grande e segreto: il tunnel del tempo. Tony Newman e Doug Phillips corrono disperatamente verso una nuova avventura in un punto definito dei corridoi infiniti del tempo.” Kronos - Sfida al Passato (The Time Tunnel, 1966) è una serie televisiva americana ideata dal regista Irwin ‘The Master of Disaster’ Allen, noto per aver creato altri
telefilm di successo come La Terra dei Giganti, Viaggio in Fondo al Mare e Lost in Space, e per aver successivamente diretto o prodotto film di genere catastrofico, tra cui L’Avventura del Poseidon e L’Inferno di Cristallo. In Italia Kronos è stata trasmessa per la prima volta agli inizi degli anni ’80. In 30 episodi di 50 minuti ciascuno vengono narrate le disavventure di alcuni scienziati impegnati in una costosa e segretissima ricerca, il progetto Tic-Toc. Nelle profondità del sottosuolo hanno costrui-
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to una macchina che dovrebbe consentire viaggi nel tempo e nello spazio. A prima vista, la prodigiosa invenzione appare come un avveniristico tunnel controllato da enormi computer. Purtroppo il sistema è ancora in fase sperimentale e, mancando risultati eclatanti, il Governo ha intenzione di sospendere i finanziamenti. Pur di salvare il progetto, il giovane dottor Tony Newman (James Darren) decide di affrettare i tempi e testare di persona il funzionamento della macchina. Entra nel tunnel e si ritrova catapultato a bordo del Titanic, a poche ore dal tristemente famoso naufragio. Nel presente, il resto del team di ricerca segue su un grande monitor ogni sua azione, mentre lo scienziato Doug Phillips (Robert Colbert) decide di attraversare a sua volta il tunnel per andare in soccorso del collega. Per scampa-
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re al disastro imminente, i due protagonisti dovranno quindi provare a cambiare la Storia. La salvezza in realtà giunge dal presente: dalla base, il team riesce a ‘recuperarli’; le apparecchiature però sono ancora poco affidabili, i calcoli imprecisi, e così i due naufraghi del tempo finiscono per saltare da un’epoca all’altra, in attesa d’essere finalmente riportati nel XX Secolo. La serie si basa su un’idea scientificamente improbabile, raccontata però in modo accattivante. Il funzionamento del tunnel viene accennato nel corso delle puntate iniziali, talvolta imbastendo teorie assai risibili; nella sostanza, si tratta di una sorta di precursore dello Stargate, un portale aperto verso altre epoche. Le leggi che regolano gli spostamenti o la possibilità di interagire con eventi e persone
lontane nel tempo sono espedienti narrativi, al pari dei sabotaggi, dei complotti e delle innumerevoli difficoltà tecniche che minacciano il progetto. Lo spettatore naturalmente accetta le ingenuità pur di ritrovare puntualmente ogni settimana i suoi beniamini alle prese con eventi storici famosi. Il telefilm fa ampio uso delle tecniche narrative tipiche delle produzioni seriali: una breve introduzione presenta i protagonisti e riassume l’antefatto, scopriamo l’argomento della puntata, e, dopo la sigla di apertura, l’avventura prende il via. Il finale vuole sempre l’arrivo dei protagonisti in un’altra epoca (di norma nel passato), in modo da lasciarli in nuovi guai e creare nella platea le giuste aspettative per la puntata successiva. Come in gran parte dei serial coevi, ci sono stacchi destinati in origine a ospitare la pubblicità, e la struttura di ciascun episodio sfrutta uno schema solido, ben collaudato: i due scienziati quasi sempre viaggiano nel passato, incontrano personaggi noti, rischiano la vita, se la cavano, e finiscono trasportati verso nuove avventure. La ricetta è semplice, e funziona bene, anche grazie alla efficace caratterizzazione dei personaggi principali. Tony e Doug, studiosi di bell’aspetto, sono uomini tutto sommato fragili. La sofferenza del loro peregrinare nel tempo è sia fisica che psicologica: sottomessi dalle scelte del team di scienziati che controlla la macchina, la quale può strapparli a pericoli mortali ma anche a momenti di vita serena, possono solo sperare in un ritorno a casa, rinunciando a priori a ogni possibilità di ricostruirsi un’esistenza in un’altra epoca. Poco alla volta acquisisco-
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no consapevolezza della difficoltà della loro situazione, e le riflessioni sulle conseguenze delle proprie scelte diventano sempre più gravose. L’incidente che li ha intrappolati nel loro infinito viaggio rivela nei due motivazioni simili: il giovane e impulsivo Tony si avventura nel tunnel per dimostrare di aver ragione, salvare il progetto e magari passare alla Storia; analogamente, il più maturo Doug lo fa – come lascia trapelare qualche sua sporadica battuta – per assicurarsi una cattedra in qualche prestigiosa università e magari vincere il Nobel (oltreché per senso del dovere e amicizia). Sono uomini istruiti ambedue, ma la loro cultura scientifica è molto specifica e davanti alle numerose variegate difficoltà si dimostrano sostanzialmente impreparati. Della Storia conoscono solo eventi importanti, le loro nozioni su usi e costumi passati sono confuse, e loro stessi mancano sovente di apertura mentale. Troppo spesso si cacciano nei guai per comportamenti avventati, anacronistici, poco rispettosi di mentalità diverse dalla loro; al dialogo e alla diplomazia finiscono per preferire lo scontro fisico, ritrovandosi spesso prigionieri, scambiati per pazzi o torturati come spie. Mancano anche delle più elementari nozioni di primo soccorso. Prima di commuoversi alla vista dei due eroi ridotti a mal partito da avversari più forti o da eventi catastrofici, lo spettatore ha perciò occasione di riflettere su quali siano le cause vere di tanti problemi. Ad ogni modo, l’empatia di solito ha il sopravvento, anche per merito dei personaggi del ‘presente’, impegnati nelle difficili operazioni di recupero. Gli scienziati della base seguono costantemen-
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te gli eventi, e non sono semplici figure incolori inserite solo per motivare alcuni passaggi obbligati funzionali alla trama: come nel coevo Star Trek, viene dato spazio all’introspezione e a poco a poco scopriamo dettagli sul loro carattere e sul loro passato. Sebbene il telefilm mantenga caratteristiche da prodotto televisivo di intrattenimento, con sparatorie, azione e richiami continui al cinema di genere, i personaggi rielaborano gli stereotipi della cultura pulp e allo stesso tempo se ne distaccano, conquistandosi una propria fisionomia. La dottoressa Ann MacGregor (interpretata dalla bellissima Lee Ann Meriwether) in particolare resta sospesa tra passato e presente; talvolta è la consueta ragazza in pericolo, spesso mantiene il sangue freddo in situazioni disperate, in
altri casi è pronta a ribellarsi agli ordini dei superiori. Al generale Heywood Kirk (Whit Bissell) spetta l’onere di mediare tra la ferrea disciplina militare e le questioni di coscienza, trovandosi più volte a dover compiere scelte difficili. Notevole è la caratterizzazione dei personaggi incontrati da Tony e Doug, alcuni realmente vissuti e altri ricavati da miti e leggende. Tutti i ritratti sono credibili, delineati con poche battute significative: Custer megalomane e crudele, Dreyfuss onesto e utopista, Billy the Kid ambiguo e folle, Machiavelli disilluso e pronto ad adattarsi alle più improbabili situazioni, proprio come l’accorto Ulisse… La ricostruzione degli ambienti e dei costumi delle varie epoche è invece molto ingenua; ma prima di incolpare gli autori di grassa ignoranza o di asservimento alla
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moda vale la pena ricordare che Kronos è una produzione televisiva, realizzata con mezzi limitati. Irwin Allen preferì utilizzare set e costumi provenienti da film destinati al grande schermo; addirittura studiò le sceneggiature in modo da poter utilizzare sequenze scartate da film in costume. Ecco perché Tony e Doug visitano il West, l’Indocina, i castelli del Medioevo hollywoodiano, e non compaiono nel bel mezzo delle guerre giapponesi del XVII Secolo, o a Timbuctù, oppure davanti al cantiere di una cattedrale romanica. Che poi i nostri eroi capitino sempre nel bel mezzo di eventi significativi, incontrando soltanto personaggi celebri, è una scelta narrativa scontata e comprensibile. Negli anni Sessanta l’idea di insegnare la Storia attraverso spettacoli strutturati era pressoché sconosciuta: Kronos appartiene
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alla sua epoca, e il suo scopo è l’intrattenimento non la divulgazione. Ci sono addirittura incursioni nella fantascienza e nella mitologia, anche se si limitano a pochi episodi: gli alieni sono ostili, la magia funziona senza spiegazione di sorta… e gli spettatori si divertono così, senza troppe pretese. Nei confronti della Scienza, l’ingenuità e la disillusione convivono: le invenzioni sono mirabolanti, tuttavia gli studiosi sopravvalutano le proprie capacità e calcolano male i rischi. In termini di sceneggiatura, ci sono situazioni al limite della credibilità: ad esempio Tony e Doug non cambiano mai d’abito, maglie e pantaloni tornano freschi di lavanderia ad ogni episodio; i due eroi se restano feriti guariscono in tempo per il successivo spostamento, dormono pochissimo, conversano in inglese/ameri-
cano con chiunque e ovunque vadano, e le loro azioni non influiscono minimamente sugli eventi, che restano destinati a svolgersi così come noi li conosciamo. Nessun ‘effetto farfalla’ dunque, anche se nessuno spiega in modo convincente il perché. In apparente contrasto con tanta ‘necessaria’ approssimazione, si presuppone invece che il pubblico abbia qualche conoscenza degli eventi narrati, come lo scandalo Dreyfuss, l’assedio di Alamo, l’eruzione del Krakatoa, l’attacco a Pearl Harbor, il massacro di Little Big Horn, l’attentato a Lincoln, l’avvistamento della cometa di Halley… In questo senso il telefilm è popolare, ingenuo, ma non è stupido. La fotografia è assai colorata, come le immagini della pop art. L’effetto speciale vero e proprio è il tunnel, che gira come una spirale, e psichedelico pare risucchiare chiunque gli si ponga davanti – spettatori inclusi! Proprio le migliori caratteristiche che a distanza di anni hanno trasformato lo show in un oggetto di culto lo hanno condannato a suo tempo a un rapido declino. Le sceneggiature seguivano invariabilmente lo schema, ed esauriti gli eventi più noti e appariscenti occorreva ricorrere a fatti meno conosciuti, da scegliersi però in base alla disponibilità di attrezzature e set. La produzione si fermò così a 30 episodi, con tanto di finale aperto: l’ultimo tentativo di recuperare gli sfortunati scienziati li trasporta nuovamente a bordo del Titanic. The Time Tunnel ha avuto un tentativo di remake nel 2006, con la produzione di un omonimo TV movie di 54 minuti, il pilot di una nuova serie che però non venne mai realizzata. <
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Lista EPISODI Testi di RENATA BERTOLA • www.serietv.net
THE TIME TUNNEL Kronos - Sfida al Passato 1.1
RENDEZ-VOUS WITH YESTERDAY (Il primo viaggio) Il senatore Clark deve decidere se approvare o meno un nuovo finanziamento per il “Time Tunnel”, un esperimento di viaggio nel tempo molto costoso e per ora con pochi risultati. Impaziente di dimostrare l’efficacia del progetto, il dottor Tony Newman, all’insaputa dei suoi colleghi, entra nella galleria del tempo e viene catapultato nel 1912, a bordo del Titanic...
1.2
ONE WAY TO THE MOON (Solo andata per la Luna) Doug Phillips e Tony Newman si ritrovano 10 anni nel futuro, su un razzo diretto verso Marte. La loro presenza non prevista procura seri problemi in fase di decollo, causando un eccessivo consumo di carburante. L’equipaggio, ignaro di avere clandestini a bordo, decide di passare dalla Luna per fare rifornimento. Intanto le comunicazioni con la Terra vengono sabotate...
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1.3
END OF THE WORLD (La fine del mondo)
1910: stando al prof. Ainsley, la cometa di Halley, in transito vicino alla Terra, è prossima a colpirla. Materializzatisi in una miniera durante un crollo che intrappola dei minatori, Doug e Tony non riescono a convincere il custode a far intervenire la gente del vicino villaggio: per l’uomo non ha senso fare tanta fatica quando il mondo sta per essere distrutto dalla collisione cosmica.
1.4
THE DAY THE SKY FELL IN (Attacco a Pearl Harbour)
Honolulu non è il posto migliore dove arrivare il giorno precedente all’attacco a Pearl Harbor: Tony e Doug si ritrovano nel consolato giapponese alle Hawaii il 6 dicembre del 1941. Scambiati per spie ma poi fuggiti, i due cercano di avvertire dell’imminente pericolo il padre di Tony, disperso proprio durante l’attacco. Nell’occasione Tony incontra anche il se stesso bambino.
1.5
THE LAST PATROL (L’ultima pattuglia)
Tony e Doug giungono nel bel mezzo della guerra anglo-americana del 1812, e finiscono catturati dagli Inglesi. I membri dell’équipe del tunnel temporale chiedono aiuto al generale Southall, noto studioso di storia militare e pronipote del colonnello che tiene prigionieri i due scienziati. Nel frattempo Tony viene costretto a guidare un soldato inglese oltre le linee americane.
1.6
CRACK OF DOOM (La furia della catastrofe)
Tony e Doug arrivano sull’isola Rakata, dove il dottor Holland, un eminente scienziato inglese, è intento a studiare l’attività del vulcano Krakatoa. La figlia di Holland teme che siano giunti lì per defraudare il padre delle sue importanti scoperte, ma ai due scienziati preme solo che tutti lascino subito l’isola: la data è infatti il 27 agosto 1883, il giorno della celebre esplosione.
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1.7
REVENGE OF THE GODS (La vendetta degli dei) Ulisse si sta chiedendo come sbloccare l’assedio di Troia, che dura ormai da 10 anni, quando due stranieri vengono portati al suo cospetto. Gli abiti non fanno pensare a spie troiane, e Ulisse si convince di trovarsi al cospetto di due dei. Tony e Doug non fanno nulla per smentirlo, affascinati dalla possibilità di vivere la più leggendaria fra le guerre dell’antica Grecia.
1.8
MASSACRE (Massacro) Stavolta i nostri eroi si ritrovano catturati dai Sioux. Doug riesce a fuggire ma Tony è sul punto di finire bruciato vivo. Fortunatamente il capo Toro Seduto decide di graziarlo, impressionato dal suo coraggio e dalle sue parole di pace. Intanto Doug raggiunge il campo del generale Custer, che l’indomani dovrà condurre uno scontro decisivo nei pressi di Little Big Horn.
1.9
DEVIL’S ISLAND (L’isola del diavolo) Dal 1852 al 1946 la Francia utilizzò una piccola isola al largo della Guyana come colonia penale: quando Tony e Doug vi giungono, è già tristemente nota come l’Isola del Diavolo. I due vengono scambiati per evasi e condotti alla prigione, dove scoprono che i detenuti stanno organizzando la fuga del capitano Alfred Dreyfus. Tony e Doug sanno però che l’evasione è destinata a fallire...
1.10
REIGN OF TERROR (Il regno del terrore) Appena arrivato nella Francia del 1793, in pieno Regno del Terrore, Doug viene arrestato dal Comitato per la Pubblica Sicurezza e finirebbe sicuramente sulla ghigliottina se Tony non riuscisse a liberarlo. Un negoziante fedele a Maria Antonietta coinvolge poi i due in un tentativo di liberare la regina prigioniera, che porterà invece alla fuga del Delfino reale.
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1.11
SECRET WEAPON (L’arma segreta)
Tony e Doug giungono stavolta nella Russia del 1956. Seguendo le istruzioni di un messaggio proveniente dal futuro, i nostri eroi incontrano un agente segreto di nome Alexis, il quale affida loro l’incarico di indagare sul misterioso Progetto A-13, che ben presto si scoprirà essere un tunnel del tempo del tutto identico a quello che ha condotto lì i due scienziati.
1.12
THE DEATH TRAP (Trappola mortale)
La storia insegna che il presidente Lincoln venne ucciso nel 1865; Doug e Tony restano perciò stupiti quando, arrivati nel 1861, si ritrovano nel bel mezzo di un dibattito tra complottisti intenti a organizzare l’assassinio del neo eletto presidente, apparentemente in anticipo sui tempi. All’irrompere degli uomini di Pinkerton, anche i due vengono scambiati per cospiratori...
1.13
THE ALAMO (Alamo)
Nella base sotterranea dell’esperimento sul tunnel, il generale Kirk, il dottor Swain e la dottoressa Ann MacGregor hanno solo nove ore di tempo per riuscire a trasportare Doug e Tony lontano dalle coordinate spazio-tempo in cui si trovano. I due sono capitati infatti a Fort Alamo nel 1836, poco prima della battaglia decisiva che vedrà la sconfitta dei ribelli texani.
1.14
NIGHT OF THE LONG KNIVES (La notte dei lunghi coltelli)
Catapultati nel mezzo di un deserto, Tony e Doug vengono aggrediti da un gruppo di Afghani. Doug viene condotto all’accampamento del crudele Singh, dove apprende che è in preparazione un attacco contro gli Inglesi. Intanto Tony, colpito da una fucilata, creduto morto e abbandonato al suo destino, viene soccorso da un giornalista di nome Rudyard Kipling...
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1.15
INVASION (Invasione) I nostri eroi vengono catturati dalla Gestapo a Cherbourg, due giorni prima dello sbarco in Normandia. Doug viene drogato e sottoposto a lavaggio del cervello, tanto da convincersi d’essere un ufficiale delle SS di nome Heinrich Krueger. Tony invece viene lasciato fuggire e poi pedinato: l’intento dei nazisti è scoprire dove si nascondano gli uomini della Resistenza.
1.16
THE REVENGE OF ROBIN HOOD (Robin Hood) Nel 1215, Re Giovanni sta per arrestare il Conte di Huntington, che ha osato proporgli la firma della Magna Carta. Doug e Tony arrivano nel momento meno opportuno e rimangono trattenuti insieme al nobile; riescono tuttavia a scappare e a rifugiarsi poi nella foresta, dove vengono intercettati da Little John, Fra’ Tuck e gli altri uomini di Robin Hood.
1.17
KILL TWO BY TWO (Duello nella giungla) Tony e Doug giungono su un’isola sperduta nel Pacifico, verso la fine della II Guerra Mondiale. Due Giapponesi presidiano il territorio: l’anziano sergente Itsugi e il tenente Nakamura, un giovane ossessionato dall’odio per gli Americani. Costui decide di divertirsi con i due ‘nemici’, dandogli un’ora di tempo per nascondersi nella giungla prima di iniziare la sua... caccia all’uomo.
1.18
VISITORS FROM BEYOND THE STARS (Gli extraterrestri) Ritrovandosi a bordo di un’astronave, Doug e Tony si convincono d’essere approdati nel futuro, e l’apparizione di due alieni sembra confermare questa ipotesi. In realtà si trovano nel 1885, e Centauri e Taureg (questi i nomi degli extraterrestri) dichiarano l’intenzione di accaparrarsi tutte le proteine presenti sul pianeta Terra, a partire da una piccola città dell’Arizona...
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1.19
THE GHOST OF NERO (Antica vendetta)
Tony e Doug giungono presso una villa in Italia, nel 1915, in concomitanza con l’arrivo di una squadra di soldati tedeschi. Un bombardamento tramortisce i due scienziati e scoperchia un’antica tomba, liberando lo spirito dell’Imperatore Nerone. La villa è la dimora del Conte Galba, discendente di quel Servio Sulpicio Galba che fu oppositore e poi successore proprio di Nerone.
1.20
THE WALLS OF JERICHO (Le mura di Gerico)
Giunti in un accampamento fuori dalle mura della biblica Gerico, Doug e Tony vengono condotti al cospetto di Giosuè. Questi si convince che i due stranieri sono emissari del Signore e li invia all’interno della città per saggiare gli umori della popolazione. I due scienziati arrivano giusto in tempo per impedire il sacrificio umano di una ragazzina...
1.21
IDOL OF DEATH (L’idolo della morte)
Nel 1519 Tony e Doug assistono alla tortura di due indigeni da parte del conquistatore spagnolo Hernán Cortés, deciso a scoprire dove sia stata nascosta una preziosa maschera d’oro. Dapprima catturati, gli scienziati riescono a fuggire insieme a un ragazzo indio. Intanto, nel presente, il generale Kirk chiede aiuto a Castillano, un uomo che conosce bene il territorio...
1.22
BILLY THE KID (Billy the Kid)
Al loro arrivo nel 1860, Doug e Tony si ritrovano nell’ufficio dello sceriffo di Lincoln, cittadina del Nuovo Messico, giusto in tempo per assistere all’evasione di Billy the Kid. Doug spara un colpo che apparentemente uccide il pistolero, poi scappa dalla città insieme a Tony. Ma Billy the Kid non è affatto morto (la fibbia della cintura ha deviato il colpo) e ora è intenzionato a vendicarsi...
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1.23
PIRATES OF DEADMAN’S ISLAND (I pirati dell’isola del morto) Doug e Tony piombano su un vascello pirata nel bel mezzo di una battaglia navale contro un galeone spagnolo. I pirati hanno la meglio e, terminato lo scontro, il capitano Beal dà ordine di uccidere i due scienziati, non trovandoli utili come marinai né come prigionieri per cui chiedere un riscatto. I nostri eroi vengono salvati dall’intercessione di un bambino...
1.24
CHASE THROUGH TIME (Caccia attraverso il tempo) Il sabotatore Nimon, dopo aver piazzato una bomba nell’impianto, fugge attraverso il tunnel temporale e si ritrova proiettato nello stesso spazio-tempo di Doug e Tony: il Grand Canyon del 1547. Ai due scienziati tocca il compito di scovarlo e scoprire il punto preciso dove egli ha nascosto l’ordigno; ne va della vita di tutte le persone che lavorano all’interno della struttura.
1.25
THE DEATH MERCHANT (Il venditore di morte) Piombati sul campo di battaglia di Gettysburg, Doug e Tony si separano poco dopo essere scampati a un’esplosione: mentre Doug si ritira insieme a un drappello di soldati dell’Unione, Tony, perduta la memoria, segue una squadra di sudisti. Entrambi in gruppi sono alla ricerca di un certo Michaels, che si rivelerà essere Niccolò Machiavelli, anch’egli spostato nel tempo...
1.26
ATTACK OF THE BARBARIANS (L’attacco dei barbari) Nel 1287 i nostri eroi, dopo essere sfuggiti ai Mongoli, si uniscono a Marco Polo che sta conducendo in salvo la figlia di Kublai Khan, Sarit. Innamoratosi perdutamente della giovane principessa, e da lei ricambiato, Tony confida a Doug d’essere stanco di tante avventure e di volersi fermare in quel tempo per sposare Sarit e poter mettere su famiglia.
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1.27
MERLIN THE MAGICIAN (Mago Merlino)
Nel quartier generale il tempo si ferma e Mago Merlino ‘rapisce’ Doug e Tony dal tunnel per inviarli nella Cornovaglia del 544, ad aiutare Re Artù contro i Vichinghi. Durante uno scontro, Tony viene catturato insieme al giovane sovrano; Doug invece, dopo essere stato abbattuto da un colpo di spada, si risveglia in un letto, affidato alle cure della bella Ginevra...
1.28
THE KIDNAPPERS (Rapimento)
Un uomo dalla pelle color argento compare nel centro di ricerche e rapisce la dottoressa MacGregor. I colleghi riescono a scoprire il periodo di provenienza dello sconosciuto e a mandare Doug e Tony in soccorso di Ann. I due scienziati si ritrovano così in una strana struttura, dove si aggirano personaggi storici di epoche diverse con tutta l’aria di essere stati drogati.
1.29
RAIDERS FROM OUTER SPACE (Distruzione degli extraterrestri)
Tony e Doug si ritrovano nel bel mezzo della battaglia di Khartoum fra Arabi e Inglesi nel 1883. Come se la situazione non fosse già abbastanza delicata, entrano in scena anche due alieni, che catturano gli scienziati e li conducono in un covo scavato nelle montagne. Il capo degli extraterrestri è intenzionato ad acquisire informazioni sul viaggio nel tempo...
1.30
TOWN OF TERROR (La città del terrore)
Materializzatisi in una cantina zeppa di apparecchiature elettroniche, Tony e Doug sono aggrediti da un individuo che scompare dopo essere stato messo al tappeto. Saliti al pianterreno di quello che sembra un innocuo albergo, i due scienziati scoprono di trovarsi in un villaggio del Maine invaso da una razza di alieni che intende prelevare tutto l’ossigeno della Terra.
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Cult ANIME
Il robot che
DISTRUSSE
UNIVERSO
l’
di SIMONE CORÀ e JACOPO MISTÈ
Sulle orme di Baldios, un’altra serie ‘incompiuta’, rivalutata da uno spettacolare finale cinematografico.
A
NNO 2300: dopo aver rinvenuto nel sottosuolo del pianeta Solo una gigantesca astronave e un robot componibile di origini sconosciute, una spedizione archeologica terrestre subisce l’attacco di una bellicosa razza aliena, il Buff Clan. Gli aggressori sono intenzionati a riappropriarsi del robot che riconoscono come Ideon, ossia il corpo materiale della loro divinità, l’Ide. Coinvolti in questa guerra improvvisa, i terrestri iniziano una lunghissima fuga nello spazio, usando l’enigmatica astronave per spostarsi da un pianeta all’altro e le capacità dell’Ideon per difendersi dai quotidiani assalti ne-
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mici. Ma il reale potenziale del robot, che si scopre presto essere senziente, è assai maggiore – e ben più pericoloso – di quel che sembra… IL PARERE DEL MISTÈ Pur sfortunatissimi con Gundam (Kidou Senshi Gundam) – splendido e rivoluzionario titolo robotico del 1979 davvero troppo dissacratore nel suo anno di uscita e nei suoi temi per mirare al successo commerciale immediato – lo studio Sunrise e il regista Yoshiyuki Tomino credono nella portata avveniristica delle loro intuizioni e sono subito pronti (1980) a con-
cedere il bis con una nuova opera innovativa che dia un forte scossone al genere. Nasce la serie televisiva Densetsu Kyojin Ideon (noto anche come Space Runaway Ideon): altro eclatante flop, e altra chiusura affrettata da parte degli sponsor (i 43 episodi inizialmente previsti scendono a 39). Ma, in successivo clima di riabilitazione, nuovo capolavoro indimenticabile. La storia si ripete con beffarda ironia. Ideon è una serie televisiva che, se ci si basasse sul solo aspetto estetico, è effettivamente tremenda, tra quelle più visivamente datate di sempre. Il character design di Tomonori Kogawa è sgraziato e per nulla attraente, la colonna sonora funk è piatta, i colori smorti, e in particolare è il classico robottone protagonista – quello che in teoria dovrebbe attirare i bambini giapponesi come mosche sul miele – a essere fonte di orrore: un gigantesco ciclope rosso con faccia bian-
ca da marziano (comprensiva di antennine), risultante dall’agganciamento di due inguardabili furgoni con un aereo. Il rozzo colosso sa solo dare pugni e calci, non ha armi (tranne una sorta di potentissimo bazooka che appare però a serie inoltrata) ed è pilotato da Cosmo Yuki, allucinante ragazzo dalla pettinatura afro fiammeggiante. Non è difficile credere al leggendario commento (riportato da Kinejun Mook nel libro 1964-1999: Complete Works of Yoshiyuki Tomino) che Tomino fece quando vide per la prima volta il robot commissionatogli dall’azienda di giocattoli Tomy e realizzato dallo studio Submarine: “Questa è una reliquia della Sesta Civiltà [una civiltà superiore, NdC], chi altri potrebbe aver realizzato un design così terribile?” [trad. Dario ‘Kotaro’ Rotelli]. Quanto è vero che non bisogna badare alle apparenze: grazie al regista la serie acquista un’incredibile originalità e,
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con i successivi film che ne chiudono la storia, entra di diritto nel mito, divenendo anche la più nota fonte d’influenza per il film The End of Evangelion (1997). Il pessimismo imperante in cui è annegato coadiuvato dall’idea del robottone ‘bomba a orologeria’: sono questi i punti di forza che contraddistinguono Ideon, ieri come oggi, dalla quasi totalità degli altri anime di analogo genere. Per la prima volta in una serie robotica troviamo come protagonisti un folto gruppo di infami, i quali nella guerra contro il Buff Clan si lasciano trascinare da cinismo, insensibilità e razzismo mai così esplicitamente analizzati. Sono personaggi estremamente delineati e approfonditi, ognuno con una precisa identità, verosimili nei loro ragionamenti; e proprio il realismo di fondo nella loro tesa situazione li rende schiavi, tutti (eroe compreso), di istinti di sopravvivenza che fanno risaltare i loro lati meno nobili. La stessa caratterizzazione esemplare è riservata ai membri del Buff Clan. Non c’è speranza di comprensione tra le due razze perché nessuna vuole scendere a compromessi; perfino gli idealisti, che nell’amore o nell’amicizia sperano di trovare la chiave della pace, vedono presto infrante le loro illusioni, anch’essi inghiottiti nella spirale negativa invocata e perseguita dai compagni. Impressionante riflessione sull’impossibilità di risolvere le controversie senza aprirsi al minimo dialogo, Ideon è unico, nel suo genere, a presentare un così grande cast di personaggi negativi. Altro grande elemento di interesse – poi ripreso e ampliato da altri cartoni toccando i più disparati generi – è l’idea di un protagonista (in questo caso, il mecha)
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recante in sé la minaccia di annientare la realtà/l’universo al verificarsi di una particolare condizione; è ciò che il muto, enigmatico Ideon è in grado di fare se dovesse giudicare l’Uomo tanto malvagio e pericoloso da meritare di essere ‘azzerato’. L’intuizione è portentosa, usata per far risaltare ancor più la grettezza del cast di antieroi, inutilmente impegnati a frenare i loro istinti truci per impedire che il gigante ripudi loro e l’umanità intera (è invece la purezza dei bambini, estranei all’odio e alla diffidenza, a controbilanciare in positivo i sentimenti dell’entità). Bisogna rilevare che il soggetto è stato sicuramente influenzato dal manga Mars di Mitsuteru Yokoyama, serializzato tra il ’76 e il ’77 e basato su un’idea simile, ma è la prima volta che lo spunto compare in animazione in modo così maturo e approfondito. Ideon è un cartone bellissimo che, pur peccando di un comparto tecnico non proprio esemplare (con ricicli e animazioni non esaltanti), rappresenta un col-
po di genio, non solo per la trama dalle forti connotazioni sociali e filosofiche ma anche per l’essere stato la prima serie robotica ‘tradizionale’ a farsi portavoce di alcune delle innovazioni strutturali di Gundam, ponendo più attenzione alla costruzione della storia e al delineamento dei personaggi e meno agli schematismi robotici. Questi ultimi non vengono rinnegati ma significativamente – e nuovamente – dissacrati, visti nell’ottica dell’Ideon che è di fatto invulnerabile a qualsiasi attacco (anche a bombe atomiche!) e che si limita a distruggere all’infinito, in ogni puntata, semplici, banali navicelle nemiche, non affrontando mai robottoni suoi pari. L’unico limite dell’opera può essere inquadrato nella sua sceneggiatura, capace di affascinare ma anche di annoiare: da una parte strega con le variegate scenografie fantascientifiche (pianeti popolati da bizzarre flore e faune), gli elementi di nichilismo e misticismo, la fortissima drammaticità generale (che vede mo-
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rire con regolarità elementi del cast in entrambe le fazioni) e le impressionanti, apocalittiche battaglie in cui spesso e volentieri interi pianeti finiscono distrutti dalla furia di Ideon; dall’altra parte infastidisce per la sua ridondante struttura narrativa retta su uno spropositato numero di riempitivi. La storia molto raramente si concede approfondimenti sui misteri principali (cos’è l’Ideon e come si può impedirgli di distruggere tutto?), procede invece a rilento per effetto di un infinito susseguirsi di battaglie, con i nostri eroi sempre impegnati a difendersi dagli attacchi del Buff Clan e fuggire su nuovi pianeti. Fortunatamente gli episodi, salvo le prime puntate, sono di un grandioso crescendo qualitativo, ben scritti, elaborati negli scontri e fortemente retti sul carisma dei personaggi e dei loro legami; ma rimane certo il fatto che la serie possa pure annoiare chi non abbia totale dimestichezza con gli schematismi dell’epoca. Nonostante questo, Ideon è meritevole di essere visto anche oggi: il debole aspetto visivo viene presto controbilanciato dall’originalità del soggetto e dalla cupezza della storia, senza speranza e piena di drammi. DILOGIA CINEMATOGRAFICA Si giunge così ai lungometraggi conclusivi. L’enorme successo del primo film della trilogia cinematografica (1981-1982) di Gundam convince la Sunrise a riabilitare serie sfortunate contando sull’aiuto delle sale; come accennato, accade anche con Ideon, che in questo modo riesce a trovare un vero finale, costituito da un doppio adattamento filmico che lo studio co-produce insieme a Sanrio Film. Le due pel-
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licole, affidate sempre a Tomino, escono nelle sale il 10 luglio 1982. La prima, Densetsu Kyojin Ideon: Sesshoku-hen (il titolo in versione inglese è The Ideon: a Contact), è pensata per riepilogare in appena 85 minuti le prime 32 puntate della serie TV. È facilmente intuibile come l’approccio sia quello di ripresentare la storia nel modo più lineare e conciso possibile, riassumendo con sufficienza le caratterizzazioni e le relazioni interpersonali dei personaggi più importanti, eliminando quasi del tutto gli avvenimenti che li vedono protagonisti. Il risultato di fondo è comunque guardabile: la sintesi scorre via chiara e semplice, nonostante diversi personaggi diventino amebe informi e una moltitudine di fatti e avventure spariscano togliendo quella sensazione di lunga, terrificante e snervante odissea vissuta in giro per l’intero universo. Seppur breve, il film è piacevole da vedere, coerente e valido, e le diverse modifiche operate sull’intreccio originale (personaggi uccisi in modi, tempi e luo-
ghi alternativi) sono sufficienti a dare una parvenza di novità, anche a dispetto di un’aggiunta veramente esigua di animazione inedita (circa 5 minuti). A Contact non ha nulla di ciò che ha reso grande la serie madre, ma ne rappresenta una sorta di sintetica trama alternativa intesa a rinfrescare la memoria al pubblico. È in Densetsu Kyojin Ideon: Hatsudou-hen (The Ideon: Be Invoked) che l’opera trova la sua dimensione definitiva, quella di autentico classico del decennio e dell’animazione in generale, una di quelle visioni che lasciano dentro qualcosa che non se ne andrà mai. Uno stato d’animo a metà fra shock, commozione ed estasi è l’effetto che produce questo finale potentissimo, capace di mescolare con armonia pugni allo stomaco e poesia pura. Esaurita una sintesi televisiva nei primi 28 minuti (già con parecchie modifiche e animazioni nuove), Tomino prosegue narrando come ulteriori disgrazie, morti e pazzie omicide inghiottano entrambe le fazioni per traghettarle verso un’ultima,
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sanguinosa battaglia sprizzante odio. La conseguenza, già ravvisabile dal titolo, non può che essere l’Apocalisse temuta da tutti, fatta di una cattiveria senza pari (appena appena mitigata da una lieve nota speranzosa nel finale): solo nella morte l’individuo trova la pace con il ‘diverso’, negata in vita dai crudeli meccanismi sociali; forse un giorno, grazie ai poteri dell’Ideon, l’umanità avrà una occasione di riscattarsi. La potenza espressiva, narrativa e cinematografica di Be Invoked è fuori discussione: è un film duro, depressivo e al contempo adrenalinico, devastante; è la migliore conclusione che l’opera potesse trovare, capace di sfruttare al 100% le potenzialità del soggetto. Impressiona in special modo la forza evocativa delle immagini: gli ultimi 60 minuti sono realizzati da zero con un alto budget, e lo si nota chiaramente nella cura delle animazioni, nella sofisticata complessità dei mecha e nelle epiche, lunghissime e numerose battaglie, fonti di memorabili suggestioni. La regia di Tomino è all’apice della creatività, conferendo senso e caratterizzazione agli sventurati attori con pochi secondi di inquadratura, con dialoghi indovinati che donano ritrovata personalità a un cast enorme. Nella sadica carneficina finale, la morte dei personaggi non scade mai in teatralità gratuita, a ognuno di loro viene riservato il giusto spazio per soffrire e far soffrire lo spettatore, in un crescendo di pura, genuina commozione; un susseguirsi di spietata crudeltà defluente nell’inaspettata, sognante meraviglia poetica conclusiva, 15 minuti visionari che catapultano Tomino – come se ce ne fosse ancora bisogno – nell’O-
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limpo dei grandi registi. Alla fine si può solo rimanere a fissare uno schermo colmo di mari e onde simboliche, cullati da una colonna sonora orchestrale che incanta per magniloquenza sinfonica. Dopo aver battezzato con Gundam la nascita del robot ‘realistico’, Tomino e Sunrise applicano con Ideon le loro innovazioni anche nel classico robottone tipicamente ‘super’, e, complice il mega-successo commerciale dei film sul celebre mobile suit, conquistano il diritto di prendere e mantenere le redini del genere, esplorandone nuove caratteristiche in nuovi progetti, diventando a tutti gli effetti in Giappone LO studio mecha per definizione. IL PARERE DEL CORÀ Storditi dal successo planetario, che ha toccato anche l’Italia alcuni anni or sono grazie alla allora rivoluzionaria messa in onda su MTV, e offuscati da un’effettiva mancanza di informazione in proposi-
to, si tende a dimenticare che il popolare Neon Genesis Evangelion (1995) mai avrebbe visto la luce senza la creazione, oltre quindici anni prima, di questo Space Runaway Ideon. Strutturalmente agli antipodi per storia e personaggi, ma filosoficamente identici per certi temi toccati, nonché per una bizzarra simmetria episodica nella conclusione (entrambe le serie interrompono bruscamente la storia per mancanza di finanziamenti, e poi la riprendono con un film riassuntivo di circa 60 minuti e un altro, di circa 90, in cui viene narrato il vero e proprio finale, tra l’altro materialmente identico), Ideon si distacca da Evangelion perché è allo stesso tempo – come molte altre opere del guru Yoshiyuki Tomino – di forte originalità per le argomentazioni discusse e di fondamentale importanza per l’intero universo dell’animazione nipponica. Tuttavia, pur dovendo chinare il capo di fronte a una tale innovazione contenutistica, è difficile, al giorno d’oggi, riuscire ad assaporare questa serie con la giusta
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passione e spirito critico. I primi 30 episodi consistono in lunghi, estremamente ripetitivi, e anche noiosi una volta compreso il meccanismo, inseguimenti spaziali e sterili combattimenti tra mecha. In ogni puntata, il Buff Clan cerca di raggiungere l’astronave Solo e di distruggere gli umani, ma loro, guidati da Cosmo e dal ciclopico Ideon, vincono la battaglia e continuano a scappare. Nient’altro. Nessun avanzamento della semplice trama principale, né un minimo tentativo di variare la minestra riscaldata. Non è quindi difficile rendersi conto di come questa struttura episodica, fortemente ancorata all’era robotica pre-Gundam, dopo un iniziale coinvolgimento renda narcotica ogni speranza di arrivare alla parte finale e, da lì, collegarsi all’immortale, splendido lungometraggio conclusivo. A cotanta richiesta di pazienza deve anche aggiungersi una palese auto-clonazione/citazione (la nave Solo, fuggendo disperatamente dagli alieni e trasportando militari e civili, riflette la Base Bianca di Gundam) che continua a calare lo spettatore in una brutta sensazione di déjà-vu, e un’orribile fantasia robotica che ha portato, su suggerimento di una nota società di produzione di giocattoli, alla creazione, forse, del peggior mecha mai visto in animazione. Un robot che si forma per mezzo dell’unione di un aereo e due camion graficamente ignobili, pittato interamente di un colore rosso che fa sanguinare gli occhi, reso ridicolo da una testa oltremodo semplicistica e che, oltre a usare un super fucile capace di distruggere un pianeta intero, non sa fare altro che dare calci e pugni. Si conosce l’avversione di Tomino verso lo splendo-
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re grafico dei mecha su cui puntano molti registi e che porta troppo spesso a distogliere l’attenzione dalla trama generale, dai temi affrontati e dai messaggi che si vogliono esprimere, ma provare anche il minimo piacere visivo verso l’Ideon è impresa davvero vana. Space Runaway Ideon, semplicemente, è una serie forse troppo avanti per quegli anni ma che, vista con occhi attuali, appare invecchiata male e spesso indigesta. Con 25 episodi in meno avrebbe brillato – perché questo fa quando finalmente la trama ingrana, nell’ultima manciata di puntate, prima di confluire nel drammatico film conclusivo – per la splendida caratterizzazione dei personaggi e gli ambigui, sofferenti, dolorosi legami che li uniscono, attraendo e respingendo ideologie finemente contrapposte, morali avanguardisticamente utopistiche e atteggiamenti atti a ricreare, come sempre voluto da Tomino, il complesso mosaico sociale, nelle sue contraddizioni e nelle sue inadeguatezze. Stupiscono, infatti,
ora come allora, la ferrea compostezza militare di Sheryl, il sofferto ruolo di leader di Bes, il carisma incompreso di Cosmo, le continue, spesso immotivate ed estreme, proteste di Kasha, e la diffidenza espressa da Gije. Ci troviamo quindi di fronte a un’opera storica, di grande importanza per l’evoluzione degli anime, ma che nella sua parte televisiva non è stata in grado di conservare integro il suo fascino col passare degli anni; quella parte si mostra ora poco attraente, ostica e relativamente pesante e monotona. Il consiglio da fan è quello di tentare la visione integrale, e magari resistere, centellinando coraggiosamente nel tempo gli episodi, perché l’inferno emotivo che si proverà nel lungometraggio finale è autentica, sincera, devota meraviglia. Il consiglio umano, invece, è – ahimè – di concentrarsi solo sui due film, il primo dei quali, nonostante impedisca di affezionarsi ai personaggi in maniera adeguata, riassume in modo sufficiente i primi 32 episodi televisivi. <
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Sigle MANIA
Space
Runaway
IDEON traduzione di CRISTIAN GIORGI
Tema finale Be invoked
Cantata Orbis Mortem Quam pulchra est vita Deus Quam pulchra est vita Mortem Quam grandis gratia est vita Amor Amor Deus Deus messiah messiah Animus dominus Diem natalem gratulari Natalem vitalis felicito Quam pulchra est vita Quam pulchra est vita
Composizione: KOUICHI SUGIYAMA
Diem natalem gratulari
Orbis
Natalem vitalis felicito
Diem natalem gratulari Vitalis gratulari Natalem Vitalis Felicito Deus Vitas Ortus Orbis est vita atque mors Orbis est vita atque mors Orbis est vita atque mors Orbis est vita atque mors
Quam pulchra est vita Quam pulchra est vita Quam grandis est Dominus est Vitalis vis Quam grandis est Dominus est Vitalis vis Animus Mortem Vitas
Quam pulchra est vita Diem natalem gratulari Quam pulchra est Vita
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Sigla originale di apertura
Fukkatsu no Ideon Kikoeru ka kikoeru darou harukana todoroki Yami no naka kokoro yusaburu mezame hajimaru Daichi wari sosori tatsu sugata seigi no akashi ka
Interprete: ISAO TAIRA Testo: RIN IOGI Musica e arrangiamento: KOUICHI SUGIYAMA Lo senti? Lo senti, vero? Un rombo lontano! La tua anima trema nelle tenebre inizia il risveglio La sagoma che si erge frantumando la terra è la prova della giustizia?
La forza del titano leggendario spaccherà Densetsu no kyojin no chikara ginga kirisaku la Galassia. Il ruggito chiamerà un colpo di Otakebi ga denkou sekka no ichigeki o yobu Furueruna hitomi korase yo fukkatsu no toki fulmine. Non tremare, tieni gli occhi sbarrati. È l’ora della rinascita. Hito yo inochi yo hajimari o miru Persone, vita, guardate il principio Supeesu rannauei Ideon, Ideon Space Runaway Ideon, Ideon Supeesu rannauei Ideon, Ideon Space Runaway Ideon, Ideon Tatakau ka tatakaeru ka obieru Combatterai? Potrai combattere? Anima kokoro yo intimorita Semari kuru aku no chikara ni yuuki o Mostrerai il tuo coraggio alle forze del male shimese che si avvicinano? Sora ni tobu kagayaku sugata La sagoma scintillante che vola nello spazio inochi no sakebi ka è l’urlo della vita? Densetsu no kyojin no chikara ginga kirisaku La forza del titano leggendario spaccherà la Hissatsu no waza ga utsu no wa Galassia. Ciò che la tecnica mortale colpisce waga mi na no ka to Osoreruna kokoro hirake yo fukkatsu no toki è me stesso? Non temere, apri la tua anima. È l’ora della rinascita. Hito yo inochi yo chikara o miru Persone, vita, guardate il principio Supeesu rannauei Ideon, Ideon Space Runaway Ideon, Ideon Supeesu rannauei Ideon, Ideon Space Runaway Ideon, Ideon 143
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Sigla originale di chiusura
Cosmos ni Kimi Tatta hitotsu no hoshi ni suterare Owarinai tabi kimi to ayumu to Itsu kushimi futo wake atte Kizu wo nameau douke shibai Kosumosu sora wo kakenukete Inori wo ima kimi no moto he Kosumosu sora wo kakenukete Inori wo ima kimi no moto he Wakarete mitara kitto raku da yo Suriherasu hibi kimi ha iranai Omoiyari futo agetemiru Namida ga kaketa kawaita hada ni Kosumosu sora wo kakenukete Inori wo ima kimi no moto he Kosumosu sora wo kakenukete Inori wo ima kimi no moto he Shinda ato demo itsuka mitsukaru Ikitsuzuketara kimi ha kanashii Aishiai futo fureatte Omoide dake ni tojikometemiru Kosumosu sora wo kakenukete Inori wo ima kimi no moto he Kosumosu sora wo kakenukete Inori wo ima kimi no moto he
Interprete: KEIKO TODA Testo: RIN IOGI Musica e arrangiamento: KOUICHI SUGIYAMA Sono solo stata abbandonata da un pianeta Camminando con te per un viaggio eterno, condividendo involontariamente il nostro affetto, ci lecchiamo le ferite a vicenda come in una farsa. Facendomi strada nel cielo del cosmo Ti mando una preghiera (x2) Se ci sparassimo, sarebbe di sicuro comodo A te non servono giorni logoranti Ho provato involontariamente compassione per te. Le lacrime si sono asciugate sulla pelle secca Facendomi strada nel cielo del cosmo Ti mando una preghiera (x2) Anche dopo che sarò morta un giorno ti troverò Se continuerai a vivere sarai triste Amandoci involontariamente a vicenda Restiamo solo intrappolati nei nostri ricordi Facendomi strada nel cielo del cosmo Ti mando una preghiera (x2) 145
Cosplay CORNER
Con ago e filo alla
CONQUISTAdel
SOL LEVANTE di DAVIDE LONGONI
Mentre a Nagoya è in pieno svolgimento il WCS 2015, incontriamo una delle due rappresentanti dell’Italia fattesi onore nel Championship della scorsa edizione.
IL
SUO NOME d’arte è NadiaSK, al secolo Nadia Baiardi, per professione si occupa di costumi in genere, ma il ‘mondo del fantastico’ la conosce meglio per il suo hobby legato ai personaggi dei cartoni animati, dei fumetti e dei videogame: è infatti una delle migliori cosplayer del nostro Paese, e le sue partecipazioni a eventi a tema sono sempre tra le più acclamate e premiate. Ha iniziato nel 2004 e da allora non si è più fermata, collezionando più di 50 premi. È stata per ben due volte la rappresentante
italiana al World Cosplay Summit (2° posto l’anno scorso), e ha girato il mondo facendosi onore in tutti i maggiori concorsi internazionali del settore (3° posto al Cosplay World Masters 2011, 1° all’Iberanime 2012, 3° all’European Cosplay Gathering… solo per citarne alcuni). È apparsa in vari libri e riviste dedicati al cosplay ed è stata protagonista del video documentario NadiaSK realizzato da MTV USA. Abbiamo avuto il piacere di incontrarla: ecco cosa ci ha raccontato…
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PHYRRA 立 da Soulcalibur V
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CUTIE HONEY da Cutie Honey
Intervista a
NadiaSK Cominciamo con una domanda di rito. Chi è NadiaSK? Ciao a tutti, NadiaSK è una cosplayer italiana che ha iniziato a coltivare questa passione nel lontano 2004. Nella realtà la mia professione è costumista e designer, collaboro con diversi teatri e riviste italiane e straniere. Oltre al cosplay, le mie grandi passioni sono i videogiochi (possiedo tutte le console), i Lego e naturalmente i manga e i comics. Che definizione daresti di ‘cosplayer’? Il cosplayer è una persona a cui piace interpretare i propri personaggi preferiti, confezionandone abiti e accessori, che poi indossa in occasione di fiere e raduni. E che significato ha per te a livello personale? Il cosplay è un hobby che amo in tutto e per tutto. Mi piace ogni singola attività che lo riguarda, dalla fase di creazione di un costume ogni volta diverso, compresa la ricerca di materiali, a quella della passerella sul palco o della posa per set fotografici. Trovo che il cosplay sia un passatempo completo che sfoga alla mia vena creativa. E mi ha dato la possibilità di girare il mondo come ospite in diverse fiere nazionali e internazionali: a oggi ho visitato grazie al cosplay 26 Stati diversi, alcuni anche più di una volta, come il Messico. È bellissimo conoscere persone appartenenti a culture diverse dalla mia ma che amano le stesse cose.
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VEDOVA NERA
da The Avengers
Come e quando hai cominciato a occuparti di questa attività? Nel 2004 ho partecipato al mio primo contest con alcuni amici. Interpretavo Yuna da Final Fantasy X a Lucca Comics & Games, una delle fiere più grandi del mondo. Dopo il primo costume mi sono avvicinata sempre di più a questo mondo fino a farlo diventare una vera e propria passione.
SAYAKA YUMI da Mazinga Z
Quanto tempo occorre per ‘confezionare’ un personaggio, partendo dall’idea e arrivando al prodotto finito? Dipende sempre dal costume: ce ne sono alcuni che, a livello di ricerca materiale e confezionamento, richiedono pochissimo tempo. Ad esempio Haruhi Suzumiya, uno dei miei personaggi preferiti, indossa una semplice divisa scolastica che riesco a realizzare in un paio di giorni. Altri costumi invece richiedono mesi e mesi di lavorazione, sia per reperire le stoffe – su cui cerco di essere molto precisa – sia per costruire gli accessori, come armi o armature. È capitato per esempio, uno dei miei ultimi costumi, Elza da Brave Frontier, molto complesso e ricco di particolari. Una volta creato il personaggio, come ti muovi per presentarlo? A volte realizzo un costume solo per il semplice gusto di farlo, senza intenzione di portarlo a una fiera in particolare, ma solo per fare un bel set fotografico. Altre volte invece cerco la fiera più adatta per presentare al meglio il mio ‘eroe’ e impersonarlo su un palco. Per esempio, al prossimo Romics di ottobre avrei voluto tantissimo portare Vanellope da Ralph
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HARLEY QUINN
da Batman
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Spaccatutto, ma è un progetto troppo ambizioso e non riesco a ultimare il costume in tempo, quindi rimanderò a un’altra occasione. Al suo posto sto preparando la Salamandra dell’artista Sakizou, per la quale ho già studiato una performance da portare sul palco. Inoltre l’autrice è molto gentile e disponibile e mi ha aiutato a rendere al meglio il suo personaggio spiegandomi i materiali che lei aveva pensato per la sua realizzazione. Nel 2008 e nel 2014 sei stata una delle due rappresentanti italiane al WCS: di cosa si tratta per cominciare? Il World Cosplay Summit è una gara che si tiene a Nagoya, in Giappone, dove 24 nazioni di tutto il mondo, tra cui l’Italia, vengono rappresentate da una coppia selezionata di cosplayer. Oltre alla gara il WCS offre diverse attività collaterali, come le parate o gli incontri con politici e ambasciate. Vuoi raccontarci come è stata questa esperienza e cosa ha significato per te? Ho avuto il piacere di rappresentare l’Italia o l’Europa in diverse gare internazionali, come il Cosplay World Masters o lo European Cosplay Gathering, ma il WCS rimane una delle esperienze che preferisco in assoluto. Prima di tutto non è solo una gara ma è un summit, come dice il nome stesso. Ho avuto la fortuna di incontrarvi persone meravigliose da tutto il mondo e con alcune di loro ho stretto un rapporto di amicizia molto profondo che va al di là del cosplay. Inoltre il Giappone ha sempre un fascino particolare per noi cosplayer, essendo la madre patria del nostro hobby.
REI AYANAMI (versione Yamashita) da Neon Genesis Evangelion
ALICE LIDDELL
da Alice: Madness Returns
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Nel 2008 per me era prima volta, non sapevo bene cosa aspettarmi e sono rimasta entusiasta. Insieme alla mia compagna Martina Arnaldi avevamo deciso di portare Le Chevalier d’Eon, e, una volta tornata a casa, Kiriko Yumeji (l’illustratrice della versione manga) mi contattò per dirmi che il suo personaggio con me aveva preso vita. Ne sono stata felicissima. Da quel momento abbiamo stretto una profonda amicizia, tanto che ha poi voluto disegnare altri abiti del personaggio di Lia ispirandosi a me. Ho tentato altre volte la selezione per tornare al WCS, proprio perché volevo riprovare un’esperienza indimenticabile, e l’anno scorso insieme alla mia amica Gabriella ce l’ho fatta. Questa volta abbiamo interpretato due personaggi di Kaleido Star, aggiudicandoci il secondo posto e il premio come miglior performance. Recentemente invece hai preso parte al festival Kamen in Costa Rica: ce ne vuoi parlare? Sono appena tornata da San José. È stata un’altra esperienza fantastica. Le persone sono state molto calorose e affettuose nei miei confronti, e ho avuto anche la possibilità di visitare il Paese. È sempre interessante vedere come in altri Stati si viva questa passione e quella per il mondo degli anime e dei videogiochi. I tuoi personaggi si dividono in tre categorie: ‘anime & manga’, ‘movies & comics’ e ‘videogames’… Parlaci di quello che più ti è piaciuto impersonare per ognuna delle tre sezioni. Non è una domanda facile perché amo interpretare tutti i personaggi che ho re-
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HARLEY QUINN
da Batman: Arkham Asylum
alizzato. Sicuramente per la parte comics la prima risposta che mi viene in mente è Harley Quinn, la fidanzata del Joker. Ne ho fatte diverse versioni perché lo considero un personaggio adatto a me. È molto divertente da interpretare sia su set fotografico che su un palco. Come anime e manga scelgo Asuka di Neon Genesis Evangelion e Haruhi Suzumiya: entrambe mi hanno dato molte soddisfazioni per motivi diversi e perché sono due personaggi che amo moltissimo. Per quanto riguarda i videogiochi invece… ce ne sono troppi! Da Shiva di Final Fantasy X, Alice di Alice: Madness Returns, Zelda di The Legend of Zelda fino a Elza di Brave Frontier. Quale è stato il costume che ti ha dato più soddisfazioni? Sono molti. A parte Lia de Beaumont del WCS 2008, sicuramente devo citare ancora Elza, e Shao Jun di Assassin’s Creed Chronicles: China, grazie alla quale sono stata contattata rispettivamente dalla Gumi Inc. e dalla Ubisoft, e di nuovo Asuka che ho fatto direttamente per la Gainax. Ma, a parte questo, ogni costume mi dà qualcosa. A volte anche solo la soddisfazione di vederlo realizzato, sia quello più semplice che quello più complicato. E quale è stato invece il più difficile da realizzare? Quando decisi di fare Esther di Trinity Blood ho dovuto affinare di molto le mie capacità sartoriali, perché il costume era molto complesso. Cerco sempre di scegliere costumi che mi piacciono anche, se possono rappresentare una sfida a livello di realizzazione. Elza, o June May di Cloth
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Road, per esempio, hanno richiesto l’utilizzo di moltissime tecniche di lavorazione, dalla vetroresina al foam con il lattice fino ai ricami a mano. Si nota dalle tue interpretazioni una predilezione per il fantastico. Che significato ha per te questo genere? Il mondo stesso del cosplay è una fantasia generale. Mi piace molto documentarmi su leggende o leggere libri a tema fantasy. È un modo come un altro per buttarsi in un mondo alternativo.
HABAEK BRIDE
da La Sposa di Habaek
Veniamo a una domanda più generale. Come scegli i personaggi da interpretare? Cerco sempre quelli con cui sento di avere una certa affinità, per similitudine caratteriale o perché nutro un’ammirazione per loro. Non riuscirei mai a interpretare personaggi troppo deboli o apatici. In mezzo a tutti questi travestimenti, com’è nella realtà Nadia? Sono come mi vedete, solo che tutti i giorni mi vesto normalmente! Sono laureata in Economia, in comunicazione e pubblicità, poi ho continuato gli studi nella moda e nello spettacolo diventando costumista e fashion stylist. Mi piace viaggiare, sono una grande tifosa di calcio, pratico ginnastica ritmica fin da quando ero piccola e giocavo anche a baseball.
WIZARD
da Granado Espada
Tornando alle tue tre sezioni: ci dici per ognuna il titolo che più ti è piaciuto? Come anime e manga amo follemente tutte le opere di Adachi, anche se finora non ho mai interpretato un suo personaggio. Poi adoro I Cavalieri dello Zodiaco
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ASUKA SHIKINAMI LANGLEY
da Evangelion: 3.0 You Can (Not) Redo
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ALICE
da Scissors Crown
IXI
da Bizenghast
SHAO JUN
da Assassinâ&#x20AC;&#x2122;s Creed Chronicles: China
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e Detective Conan. Riguardo i comics, il mio personaggio preferito è Spider-Man, di cui leggo tutto, seguito dalle serie Suicide Squad e Teenage Ninja Turtles. Tra i miei film preferiti ci sono The Avengers e Iron Man. Come videogiochi mi piacciono tantissimo Final Fantasy VII, la saga di Zelda e Monkey Island. Ma sono tanti i titoli che prediligo e a cui gioco: se dovessi elencarli tutti, questa intervista prenderebbe 100 pagine! Per terminare… quali progetti hai per il futuro e qual è il tuo sogno lasciato nel cassetto? Prossimamente come cosplayer sarò ospite in Spagna, a Dubai e nuovamente in Colombia. Qui in Italia invece sarò al CUSplay di Pisa, mentre a Romics e Lucca Comics & Games parteciperò alle gare. Il mio desiderio è continuare a divertirmi come sto facendo adesso. Anche se mi ha portato a stringere collaborazioni importanti e a viaggiare molto, per me il cosplay rimane e rimarrà sempre un hobby. Sul piano professionale, invece, il mio sogno più grande è quello di vincere un Oscar o un Tony Award come costumista. Amo alla follia il mio lavoro a cui dedico anima e corpo, e spero di riuscire a realizzare questa aspirazione. Lo speriamo di cuore anche noi! E siamo sicuri che questa galleria di tue interpretazioni, che abbiamo avuto il piacere di presentare ai nostri lettori, sarà d’ispirazione per molti cosplayer in erba. Ti ringraziamo per questo incontro, e ti facciamo i migliori auguri per il tuo hobby e la tua professione. <
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Cult COMICS
Il supereroe che
PICCHIAVA
COMUNISTI di ORLANDO FURIOSO
In pieno periodo maccartista, la premiata ditta Kirby-Simon realizza un politicamente scorretto eppure irresistibile clone di Capitan America.
F
IGHTING AMERICAN è un supereroe creato dalla penna di Joe Simon e dalle matite di Jack Kirby nel 1954, pubblicato originariamente negli Stati Uniti da Crestwood Publications. Questo lussuoso volume della BAO ripropone per intero le sue avventure: sette albi usciti in America tra il 1954 e il 1955, uno uscito nel 1966 e due storie inedite. Come disse Joe Simon nell’introduzione da lui scritta nel 2011, solo due mesi prima di morire: “Il volume che tenete tra le mani contiene tutte le storie di Fighting American che abbiamo
prodotto […] Qui avete la collezione completa.” Il plot di base è sfacciatamente simile a quello del ben più noto Capitan America, creato nel 1941 – tredici anni prima di Fighting – dai medesimi autori: anche qui un mingherlino ma patriottico cittadino americano, di nome Nelson Flagg, accetta di sottoporsi a un esperimento condotto da scienziati del Governo, tramite il quale viene trasformato in una vera e propria macchina da combattimento. La ‘mente’, l’essenza vitale del nostro eroe
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FIGHTING AMERICAN, pagina 9, versione italiana ©BAO PUBLISHING
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FIGHTING AMERICAN
(raccolta, 1954-55/1966) di JACK KIRBY e JOE SIMON traduzione di FRANCESCO VANAGOLLI BAO Publishing, 2014 ISBN-13: 9788865432495
viene ‘inserita’ nel robustissimo, agilissimo, potenziato corpo del suo stesso fratello, Johnny Flagg, giornalista e mezzobusto televisivo noto per il suo entusiasmo nel difendere l’american way of life, ‘ucciso’ da agenti comunisti. “Non abbia paura… È semplicemente scienza, non magia nera! Vogliamo che lei abbia quel corpo! Vogliamo che lei sia suo fratello! Ciò significherà la fine dell’uomo che lei è oggi!” Sotto i panni di un miracolosamen-
te ‘risorto’, temerario e fortificato Johnny Flagg, l’America acquista quindi il suo nuovo paladino pronto a rischiare la vita per difendere i valori della democrazia e della libertà. Così cominciano le avventure di Fighting American – e del suo sodale Speedboy. Mentre per Capitan America, creato in tempo di guerra, i cattivi erano principalmente i nazisti e i Giapponesi, in quest’epoca post-bellica il nemico sono invece i ‘rossi’, i comunisti, infiltratisi ovunque e decisi a spazzare via con la violenza e l’inganno il Sogno Americano. Come nella più semplice e abusata dicotomia, i cattivi sono i mostri, sia moralmente che fisicamente: questa caratteristica del nemico mostruoso, deforme, brutto oltre ogni limite verrà mantenuta da Kirby qualche anno dopo, quando, lavorando con Stan Lee, darà vita all’era della Marvel Comics. Eroe = bello, villain = brutto: un facile, leggibilissimo dualismo che permette l’immediato riconoscimento dei Buoni e dei Cattivi. Parziali deroghe a questa regola saranno Hulk – per il quale il confine Bene/Male è sempre sfumato e ambiguo –, Bestia degli X-Men e, soprattutto,
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FIGHTING AMERICAN, pagina 25, versione italiana ©BAO PUBLISHING
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FIGHTING AMERICAN, pagina 65, versione italiana ©BAO PUBLISHING
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la Cosa dei Fantastici Quattro, la cui bruttezza, pur costituendo certamente un ostacolo nelle relazioni sociali, è anche un elemento di ricchezza psicologica e narrativa su cui poggiano storie memorabili e intense come la mitica Questo Uomo, Questo Mostro! (S. Lee, J. Kirby, J. Sinnott, su Fantastic Four n. 51 del 1966, in Italia per la prima volta su I Fantastici Quattro n. 47 del 9 Gennaio 1973). Ma, al di là di poche eccezioni, nel lavoro di Kirby, per la Marvel così come per la DC, il Bene ha sempre coinciso con la rappresentazione del Bello, e il Male è sempre stato mostruoso, ripugnante, deforme, come se le caratteristiche morali avessero superato il confine psicologico per plasmare somaticamente i corpi. Verrebbe da pensare pure il contrario, ossia che un corpo deforme non possa far altro che abbracciare il Male, magari per vendicarsi della sfortuna toccatagli (gli esempi sono numerosi: dall’Uomo Talpa al Dottor Destino… anche se per quest’ultimo la deformità è stata più una scelta, un modo ulteriore, quasi mistico, per distinguersi dal volgo, dalla massa). Comunque, senza scomoda-
re Cesare Lombroso, questa particolare ‘fisiognomica a fumetti’ non è un’invenzione del Re, bensì il proseguimento di una tradizione forse inaugurata da Dick Tracy, il personaggio creato da Chester Gould nel 1931 (e da allora pubblicato senza soluzione di continuità negli Stati Uniti): mentre il detective dall’impermeabile giallo è bello e aitante, con tanto di mascella volitiva, i villain sono invece caratterizzati da spiccate deformità che danno loro il nome. Abbiamo così Testapiatta, Facciadiprugna e tutta una serie di criminali malvagi e orribili a vedersi. A proposito di nomi, quelli presenti in Fighting American sono decisamente più spiritosi: come potrei rinunciare a leggere un’avventura in cui i cattivoni si chiamano Poison Ivan, Hotsky Trotsky, Invisible Irving o Space-Face!? Certo come nome, e anche come assurdità della storia, nessuno batte Super-Khakalovitch, il supereroe comunista (‘Hero of the People’) che possiede il superpotere più devastante: quello della puzza! La sua stirpe non fa un bagno da oltre tremila anni, e nessuno, neppure Fighting American e il suo pard Speedboy,
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ALBO #1, aprile 1954
ALBO #2, giugno 1954
ALBO #3, agosto 1954 163
ALBO #4, ottobre 1954
ALBO #5, dicembre 1954
ALBO #6, febbraio 1955 164
possono stargli vicino senza indossare un’adeguata maschera antigas! A parte il nonsense più azzardato, una delle storie più emblematiche, vero e proprio statement degli autori (o di chi commissionava loro i racconti), è la breve, impagabile Lettera dal Paradiso, lunga solo due tavole: in essa un ragazzino russo scrive una missiva a Speedboy, il giovanissimo sidekick di Fighting American. È una lettera apparentemente piena di insulti, nella quale il ragazzino, che ovviamente si chiama Vladimir (come Lenin), descrive quanto inutili e frivoli siano i ‘privilegi’ vissuti dai suoi coetanei americani e quanto invece sia solida la realtà collettiva al di là della Cortina di Ferro. La particolarità della storia, che la rende un capolavoro di umorismo (nero), è la differenza tra le parole scritte da Vladimir e la descrizione grafica che vignetta dopo vignetta viene spietatamente – e ironicamente – esposta al lettore. È certo una storia che oggi risulta faziosissima, politicamente scorretta, imperialistica ecc. ecc. Tutto giusto, ma è soprattutto un piccolo, corrosivo gioiellino umoristico, specchio di come si vedesse e vivesse la
Guerra Fredda. “Quindi vai in malora Speedboy… Tu e quel babbeo con i mutandoni che chiamano Fighting American! Vorrei dirti di più, in faccia, ma scommetto che non hai il fegato di venire al 3160 di via Falce e Martello vicino a piazza Miserlou nel villaggio di Paskutzva… (bussa due volte e chiedi di Vladimir).” Ed è ovvio che Speedboy e il ‘babbeo in mutandoni’ vadano poi a liberare Vladimir e la sua famiglia dall’oppressione comunista, trasferendoli in America e facendo loro gustare il sapore della libertà. Un breve e divertentissimo saggio di ‘psicologia inversa’, quasi commovente in quella sua fanatica integrità morale e fumettistica. Assolutamente da leggere. Un’altra caratteristica delle storie di Fighting American è il loro essere talmente eccessive, in quel rozzo manicheismo di cui sono permeate, da diventare spesso ultra-reazionarie, spacciando triti luoghi comuni come fossero Verità divine (“I vagabondi non cambiano: a loro piace essere come sono!” da Z Food, FA n. 3 dell’agosto 1954); ma è proprio quell’essere ottusamente reazionarie a renderle comicamente irresistibili: leggendole sorti-
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FIGHTING AMERICAN, pagina 63, versione italiana ©BAO PUBLISHING
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FIGHTING AMERICAN, pagina 109, versione italiana ©BAO PUBLISHING
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scono quasi l’effetto contrario, come a considerare “ma dài, Jack e Joe non potevano dire sul serio!”. O forse erano serissimi, ma sta di fatto che a un certo punto le storie di Fighting American e del suo giovane partner Speedboy cominciano a prendere una piega tra l’insensato e il fantascientifico. Le battute (anche le battutacce grevi, talvolta) si sprecano, e quasi non c’è tavola che non contenga almeno un paio di gustosissime assurdità, sia a livello di storia che puramente grafiche. Inside jokes, citazioni da altri famosi comics dell’epoca e una fantasia scatenata che miscela azione pura, ideologia e ironia – quando non addirittura caustico sarcasmo –, oltre a tutto quanto detto finora, fanno di Fighting American un fumetto imperdibile per chi è già appassionato di cose kirbyane. Gli altri invece perché dovrebbero leggere questo volume, pieno di storie datate, contenenti concezioni e ideologie lontane dalla nostra realtà? Beh… appunto perché sono storie di Simon e Kirby, piene di azione al fulmicotone e di disegni che ti saltano letteralmente addosso, con colori che più
pop non si può e un gran mestiere che dettò legge per lustri nella sceneggiatura e nella costruzione di storie senza mai buchi; storie che scivolano golosamente l’una dopo l’altra e procurano un divertimento raffinato, per intenditori. Come si suol dire: una festa per gli occhi! Rimarrà sempre una gioia perdersi negli stupendi disegni di Jack ‘The King’ Kirby, seppure talvolta un po’ ‘frettolosi’, ma non di meno epici, dinamici, efficaci, spettacolari, con inquadrature sempre nuove e ardite. La cifra stilistica di Kirby e di Simon resta riconoscibile sempre, anche nei lavori cosiddetti ‘minori’ o semplicemente meno conosciuti al di fuori degli Stati Uniti. Una menzione particolare merita la vivacissima e divertente traduzione di Francesco Vanagolli: credo non sia stato semplice riprodurre nella nostra lingua un vecchio fumetto pieno di slang, frasi idiomatiche passate di moda da decenni, scherzi verbali e filastrocche dimenticate. Francesco è riuscito a far calare chi legge nell’atmosfera dell’epoca, e questo è indice di un lavoro accurato svolto non solo da un esperto ma da un vero appassionato. <
ALBO #7, aprile 1955
ALBO #1, seconda serie, ottobre 1966
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Manga TIME
L’uomo che
SUSSURRAVA
ALLE ANIME di LEONARDO COLOMBI
Un’inquietante pratica medica sperimentata negli anni ’60 fa da spunto a questo intenso e conturbante seinen manga firmato Hideo Yamamoto.
S
USUMU NAKOSHI è un senzatetto che vive in un parco antistante un lussuoso hotel di Tokyo che lui stesso, in passato, ha frequentemente visitato. Misterioso, cinico, d’aspetto piuttosto curato nonostante le misere condizioni di vita, mostra un atteggiamento distaccato da tutto e da tutti, persino dagli altri clochard. È invece morbosamente legato alla sua utilitaria, che usa sia come rifugio che come mezzo di svago, concedendosi gite nel traffico cittadino o in periferia. Quando il veicolo gli viene sequestrato
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dalla polizia, per poterlo riscattare accetta la generosa proposta di Manabu Ito, eccentrico studente di medicina appassionato di occulto in cerca di una cavia da sottoporre a un delicato esperimento: si tratta di trapanare il cranio, praticando un foro in fronte allo scopo di risvegliare il sesto senso e poter percepire presenze sovrannaturali. Malgrado le aspettative e i test condotti, l’intervento non conferisce al paziente le capacità attese; tuttavia Susumu scopre che, se osserva le persone col solo occhio sinistro, l’aspetto
Homunculus In base agli studi condotti negli anni ’50 dal neurologo canadese Wilder Penfield, nella corteccia cerebrale è possibile distinguere aree specializzate, dedicate alla gestione motoria, associativa oppure sensoriale. Ricorrendo a stimolazione sistematica della corteccia, lo studioso ha riscontrato che in ciascun emisfero vi è una sorta di mappa adibita alla gestione delle sollecitazioni ricevute da specifiche parti esterne del corpo umano. Il numero di recettori per ciascuna area di alcune di esse gli appare stranamente mutato. Analizzando il fenomeno i due comprendono che Susumu è in grado di vedere la manifestazione fisica dell’inconscio, gli ‘homunculus’: praticamente l’essenza delle persone e la proiezione di sensi di colpa, manie, inadeguatezze e altri risvolti psicologici che condizionano il loro modo di essere e agire. La nuova facoltà indurrà il misantropo protagonista a riprendere contatto con la gente; aiutando perfetti sconosciuti ad affrontare il loro mondo interiore – per lo più con conseguenze drammatiche e non prevedibili – egli scoprirà che ciò che è ora in grado di percepire negli altri rappresenta una sorta di riflesso del proprio io. Questa
varia, per cui accade che le zone corrispondenti ad esempio a labbra, orecchie e mani risultino molto più estese rispetto a quelle adibite alla gestione di braccia o gambe. Di conseguenza, la figura che si può ricostruire appare come una creatura grottesca, dall’aspetto poco proporzionato: un omino che prende il nome di homunculus sensitivo, se ricreato a partire dalle aree sensoriali, oppure homunculus motorio, se riferito appunto alle aree motorie.
consapevolezza lo destabilizzerà emotivamente e psicologicamente, guidandolo nell’arduo percorso verso una maggiore conoscenza di sé, fino al difficile confronto con il passato da cui è fuggito. COMMENTO Quella narrata nel manga Homunculus - L’Occhio dell’Anima è senza dubbio una storia originale e intensa, priva com’è d’intermezzi comici e sequenze d’azione in grado di allentare o variare la tensione; adatta a un pubblico adulto, la trama procede per lo più grazie a dialoghi e riflessioni, proponendo spesso situazioni forti e disturbanti che potrebbero scoraggiare il lettore medio. Ma l’elevata qualità in
HOMUNCULUS #1
PANINI COMICS ISBN-13: 9788865893883
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HOMUNCULUS #2
PANINI COMICS ISBN-13: 9788865893890
HOMUNCULUS #3
PANINI COMICS ISBN-13: 9788865895719
termini di contenuti e spunti ripaga ampiamente l’impegno di lettura. La serie (15 volumi) è stata scritta e disegnata da Hideo Yamamoto tra il 2003 e il 2011, e pubblicata in Giappone sul settimanale Big Comic Spirits, edito dalla Shogakukan; mentre Panini Comics ne ha curato l’edizione italiana, uscita con cadenza aperiodica dal 2005 al 2012 e riproposta in ristampa dal 2011 a fronte del discreto interesse suscitato. Probabilmente meno conosciuto in Italia rispetto ad autori di seinen quali ad esempio Jirō Taniguchi, Naoki Urasawa e Makoto Yukimura, Yamamoto è un mangaka già noto al pubblico internazionale per opere particolari e difficili da catalogare ma comunque coraggiose e mature. Basti pensare a Nozokiya del 1992, incentrato sul voyeurismo con protagonista un erotomane, e alla successiva serie intitolata Shin Nozokiya del 1994, dove un’agenzia investigativa si occupa di portare alla luce perversioni di criminali e corrotti; due anni dopo, con Okama Hakusho, l’autore affronta invece tematiche quali l’omosessualità e il travestitismo; nel 1997 propone Enjou Kousai
Bokumetsu Undou in cui non si lesinano stupri, sadismo e violenza; ma è nel 1998 che Yamamoto realizza una delle sue opere più conosciute e controverse Ichi the Killer (titolo originale Koroshiya Ichi, adattato per il cinema nel 2001 grazie a Takashi Miike), che esaspera argomenti quali il bullismo, la violenza e il sadismo, in una storia ambientata nel mondo degli yakuza. In tempi più recenti, dopo Homunculus, Yamamoto ha collaborato con Hiroya Oku per Yume Onna, volume autoconclusivo che tratta di sogni lucidi. Considerando il tenore seinen di questi precedenti, anche Homunculus non poteva che collocarsi nella stessa categoria, rivolgendosi a un pubblico maturo e alla ricerca di una vicenda conturbante e stimolante dal punto di vista intellettuale. L’attenzione è orientata in prevalenza all’introspezione, all’analisi dell’individuo e della società ma, rispetto ad altre opere di Yamamoto, l’elemento violenza viene ridotto ai minimi termini: sono gli aspetti psicologici a venire approfonditi e sviluppati. Il tutto confezionato con un ritmo narrativo adeguato, sostenuto da discrete soluzioni stilistiche capaci di
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VOLUME #1: Susumu e Manabu dopo l’operazione | ©PANINI COMICS HOMUNCULUS © 2003 by Hideo YAMAMOTO / SHOGAKUKAN
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VOLUME #5: Susumu e Yukari in auto | ©PANINI COMICS HOMUNCULUS © 2003 by Hideo YAMAMOTO / SHOGAKUKAN
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creare tensione e coinvolgimento, giocando spesso con toni cupi per ribadire come l’interesse primario sia rivolto agli anfratti più turpi dell’animo umano, ai segreti e alle colpe che si celano dentro di noi. L’autore pungola la sensibilità e lo spirito di osservazione del lettore scrutando le persone (e la società in generale) con occhio analitico e da angolazioni coraggiose. L’homunculus sensoriale correla l’esteriorità dei corpi con l’interiorità dell’animo; l’aspetto grottesco che il protagonista scorge negli altri rappresenta la reazione del subconscio di fronte a ‘mutilazioni’ provocate dall’esterno, e sottintende il modo di etichettare e giudicare il prossimo da dettagli e atteggiamenti. Yamamoto ci porta oltre le apparenze, a guardare le sconfitte e gli aspetti poco edificanti del quotidiano. L‘impostazione si avverte già in avvio, con un protagonista che ha rinnegato la propria identità sopraffatto dal peso dei suoi trascorsi. Una condizione di distacco che risulta evidente sul piano materiale ma anche sul piano emotivo e sociale: Susumu non ha affetti o legami particolari col proprio passato, per cer-
ti versi ha cancellato la sua vita precedente. Nel corso della narrazione emergeranno comunque stralci della sua vicenda personale: era un uomo di successo, attivo nell’ambito della finanza, circondato da belle donne, ma insoddisfatto. La visione attuale che egli offre di sé è invece quella di una persona libera, non di uno sconfitto come potrebbe sembrare: è la libertà di chi ha deciso di cominciare da zero una nuova esistenza, un’idea ben rappresentata dall’immagine di lui che dorme nella propria auto raccolto in posizione fetale. La perdita del veicolo, di quel rifugio che lo rende diverso dagli altri senzatetto, non annientato come loro, è quasi identificabile con la nascita: qualcosa di traumatico per il bambino ma passaggio obbligato per iniziare a vivere. Esistenza che è anche confronto con se stessi e con il mondo, tappe di crescita che tramite l’esperimento condotto da Manabu Ito diventeranno il vero motore della storia. La trapanazione cranica, quale mezzo per aumentare le facoltà cognitive e sensoriali secondo le psichedeliche teorie sostenute da Bart Huges sul finire degli anni
HOMUNCULUS #4
PANINI COMICS ISSN: 977159228300360026
HOMUNCULUS #5
PANINI COMICS ISBN-13: 9788865897003
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HOMUNCULUS #6
PANINI COMICS ISBN-13: 9788863043501
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788865897539
’60, è l’espediente usato per rendere evidente un vuoto e per stabilire un contatto tra interno ed esterno dell’individuo. Particolare anche l’idea di invitare all’osservazione e comprensione degli altri, qualcosa che la società moderna tende a ostacolare favorendo invece dinamiche più egoistiche rivolte all’affermazione e realizzazione di sé. La modalità suggerita per la conoscenza del prossimo è quella ‘all’antica’, decisamente in controtendenza: vale a dire il contatto diretto e il dialogo, senza il tramite tecnologico offerto da social network e dispositivi di ultima generazione che costituiscono pur sempre un filtro e a volte un’alterazione nella percezione della realtà. Il manga si sviluppa quindi attraverso lunghissimi dialoghi e incontri non sempre facili, enfatizzando particolari aspetti dei personaggi che vengono tratteggiati mediante i fantasiosi homunculus, analizzando fantasmi, ossessioni, traumi ma anche rimorsi o psicosi che condizionano l’esistenza e di cui, nel frenetico mondo reale concentrato sull’apparire più che sull’essere, molto spesso non ci si avvede. Il manga di Yamamoto può essere suddiviso in macro
capitoli, ciascuno incentrato su uno specifico individuo-homunculus di cui si esplora il passato – tracciando inoltre parallelismi col passato di Susumu – fino a ottenere una visione abbastanza chiara della sua identità e del suo trascorso. Il primo homunculus con cui Susumu si cimenta è quello di uno yakuza, ed è l’occasione per trattare il tema del senso di colpa. Tappandosi l’occhio destro, quello che il clochard percepisce è una possente armatura robotica al cui interno s’intravede un bambino spaventato nell’atto di tagliarsi un dito con una falce. Lasciar riaffiorare i ricordi di un incidente causato in tenera età ai danni di un amico sarà lo sforzo emotivo – il tutto con risvolti catartici – richiesto al burbero criminale, divenuto tale proprio per negare i sensi di colpa, al pari di molti violenti che affrontano la vita con durezza per reazione a solitudini e ferite dell’animo mai curate. Al termine di questo incontro, lo stesso Susumu verrà sopraffatto dai ricordi di un grave incidente da lui causato, probabilmente uno dei motivi alla base del suo carattere cinico e distaccato. L’episodio introduce l’atteggiamento negazionista del
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VOLUME #6: Susumu all’ingresso dell’azienda in cui lavorava | ©PANINI COMICS HOMUNCULUS © 2003 by Hideo YAMAMOTO / SHOGAKUKAN
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VOLUME #7: un esempio di Homunculus | ©PANINI COMICS HOMUNCULUS © 2003 by Hideo YAMAMOTO / SHOGAKUKAN
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personaggio e la sua tendenza a mentire. Non è un eroe né ambisce a proporsi come tale agli occhi del lettore: agisce per lo più con l’intento di sbarazzarsi della visione degli homunculus, anche se ciò lo porta inevitabilmente a maturare verso coloro che aiuta un legame cui non riesce a sottrarsi. Il secondo homunculus è quello di Yukari, una liceale che agli occhi di Susumu appare costituita di sabbia, ma una sabbia i cui granelli sono in realtà minuscoli simboli e caratteri. È una ragazza capace di mutare e adattarsi, di lasciarsi modellare dall’ambiente, ma al contempo è ‘vittima’ di una madre oppressiva e degli innumerevoli stimoli con cui la società moderna bombarda e cresce le nuove generazioni. Susumu la incontrerà in auto, in una situazione molto tesa e ambigua, finendo poi per violentarla allo scopo di ‘darle la giusta forma’. Attraverso lei, il protagonista rivedrà le donne con cui è stato e rivivrà i ricordi legati alla fisicità e alla sessualità, spunto per riflettere su argomenti come la mercificazione e quel genere di possesso che riduce oggetti e persone alla funzione di status symbol.
La vicenda di Yukari suggerisce un’ulteriore analogia con Susumu: la necessità di entrambi di affermare la propria esistenza, un’urgenza dettata dal vuoto che sentono dentro e che li spinge ad azioni bizzarre o autolesioniste. I temi successivi a cui il manga si dedica sono quelli del rapporto padre-figlio e dell’identità sessuale, approfondendo la conoscenza di Manabu Ito, il cui homunculus appare composto da sola acqua quasi fosse un contenitore trasparente, ma che tuttavia nasconde al suo interno un pesce, un coloratissimo guppy. Emergerà in seguito che quel pescetto, posseduto da Manabu quand’era bambino, aveva ispirato in lui atteggiamenti ambigui portando suo padre a esercitare un controllo sempre più rigido fino a modellare il piccolo a propria immagine e somiglianza. Grazie a Susumu che lo convince a vestirsi e atteggiarsi da donna, lo studente riuscirà a fare outing e a riconquistare quell’identità sessuale che aveva finora represso. Di nuovo, partendo dai problemi affrontati dall’homunculus, Susumu troverà modo di riflettere su di sé e sul pro-
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PANINI COMICS ISSN: 977159228300380045
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788891257130
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788863467307
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788863469677
prio passato, stavolta ricordando di aver fatto ricorso in passato alla chirurgia plastica per mutare il proprio aspetto ma perdendone poi memoria per qualche misterioso inconveniente. Turbato, l’uomo prenderà la folle decisione di autotrapanarsi la fronte per ampliare il foro praticatogli da Manabu. Oltre a ricalcare quanto fatto dal già citato Bart Huges, la scena ricorda quella apparsa nel film π - Il Teorema del Delirio di Darren Aronofsky, in cui il protagonista ricorre a un espediente similare. L’episodio evidenzia come la sanità mentale di Susumu tenda a vacillare a mano a mano che cresce l’ossessione per gli homunculus, da lui ritenuti unica manifestazione di verità in un mondo teso all’apparenza esteriore e al consumismo, in cui l’inganno e la menzogna imperversano. L’ultima parte del manga è quindi focalizzata sul recupero da parte di Susumu del proprio passato, che per lo più avviene grazie al contatto con una escort, Nanako. Interessante anche in questo caso la scelta di guardare indietro più che avanti, quasi a voler fermare il tempo e spezzare il ritmo frenetico e opprimente che la società
moderna impone. Il contatto con Nanako conduce la storia al suo epilogo, in cui l’autore rafforza il legame tra fisicità e interiorità dell’individuo. Si scopre che Nanako e Susumu – il cui vero nome viene rivelato essere Satoshi – avevano avuto una relazione. Susumu però, per motivi egoistici legati all’inseguimento del successo materiale e all’attrazione esercitata su di lui dalla vuota bellezza esteriore del mondo, aveva abbandonato la compagna, e con lei il bimbo che portava in grembo, cambiando addirittura aspetto per poter cominciare una nuova vita. Yamamoto sembra quindi suggerire al lettore che il mondo d’oggi illude e corrompe nell’indicare il successo economico e sociale come unica cosa che conti, e nel porlo alla portata solo di chi rispetti precisi canoni di esteriorità. Che, intimamente, l’individuo sia vuoto, insignificante oppure orrendo come certi homunculus, alla società non importa. Il difficile processo di comprensione affrontato da Susumu e Nanako permette di svelare l’inganno, lanciando dei messaggi volti a rivalutare l’animo umano, le sue emozioni, il suo pensiero, l’esse-
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VOLUME #10: Susumu nella toilette del parco dei vagabondi | ©PANINI COMICS HOMUNCULUS © 2003 by Hideo YAMAMOTO / SHOGAKUKAN
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VOLUME #14: l’homunculus del signor Ita | ©PANINI COMICS HOMUNCULUS © 2003 by Hideo YAMAMOTO / SHOGAKUKAN
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re e non l’apparire. Ma tutto ciò che Susumu e Nanako – anch’essa sottoposta a trapanazione – riusciranno a recuperare nel loro rapporto e del loro passato si rivelerà una conquista effimera; il finale, tragico ma coerente, lascerà immaginare quel che sarà di Susumu, sereno e ormai folle con tracce di innumerevoli buchi sulla testa. È lasciata alla sensibilità del lettore l’interpretazione dei molti flashback nei quali Yamamoto ci mostra le vicissitudini dei personaggi senza inserire dialoghi o descrizioni. Le vignette sono in ogni caso molto chiare nel suggerire le storie personali ed evocare emozioni, spesso mediante scene di pianto. Questa scelta si pone in perfetta coerenza con il leitmotiv dell’opera, ovvero la comprensione di sé mediante osservazione degli altri. Lo stile di disegno, indubbiamente meno moderno rispetto a quello adottato da altri autori che ricorrono frequentemente alla computer graphic o a vignette molto dinamiche e ricche di elementi, risulta piuttosto espressivo e funzionale nel focalizzare l’attenzione del lettore sui personaggi. Coerentemente con quello che
è l’impianto narrativo, Yamamoto si concentra per lo più sulle figure umane, sulla loro anatomia e soprattutto sui volti, concedendo innumerevoli primi piani, prediligendo tonalità cupe oppure offrendo prospettive ardite per trasmettere la tensione e l’impatto di emozioni e ricordi. Il tratto è pulito, netto e preciso, molto realistico e attento alle proporzioni anatomiche. La presenza degli homunculus crea poi il pretesto per rappresentare soggetti grotteschi e stravaganti, lasciando libertà interpretativa nel riconoscere in essi fobie, atteggiamenti e manie. Si scorgono quindi donne con sette gambe, che probabilmente intrattengono sei relazioni diverse simboleggiate dalle sei vagine possedute; uomini pieni di sé che camminano sui trampoli; uomini dalle zampe di gallo ben piantate a terra e con ali rattrappite, che desidererebbero lanciarsi in qualche avventura ma temono di separarsi dalla loro routine; ragazze frenetiche e disordinate costituite di puro vento; donne senza collo che hanno subìto un tentativo di strangolamento; uomini la cui testa sembra un grande fallo e con evidenti necessità da soddisfare. Ma
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788865892046
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788865895603
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788865897287
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PANINI COMICS ISBN-13: 9788865899526
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anche creature dall’aspetto più bizzarro, per metà roccia e per metà acqua, dallo spessore infinitesimale che li fa sembrare fogli di carta, oppure dalle forme di animale, come la madre-ragno di Yukari. Un pregio indiscutibile dell’opera è la qualità dei contenuti e delle tavole, capaci di veicolare emozioni e umanità anche ai lettori non pratici di psicanalisi. Le vicende proposte potranno forse non sembrare così originali ma, nell’economia globale della storia, creando parallelismi e più livelli narrativi, conferiscono spessore a un manga che può considerarsi un piccolo capolavoro. Non troviamo tracce di epicità, nemmeno slanci fracassoni e iperbolici come spesso accade nei manga più noti al grande pubblico, ma in termini di sensibilità e qualità Homunculus merita davvero di essere letto. TRAPANAZIONE CRANICA Si tratta di una tecnica che prevede la perforazione del cranio, per lo più a scopi terapeutici. In epoche antiche era infatti convinzione che tale trattamento potesse liberare l’individuo da spiriti nocivi e disturbi quali
emicranie, o permettere il recupero in caso di lesioni alla testa consentendo l’espansione del cervello e il deflusso di liquidi. Addirittura vi sono testimonianze di trapanazione eseguita sugli animali per liberarli da alcuni parassiti, come riportato in Trepanationen im Gebiet des heutigen Rumänien (Ion Gabriel Russu e Valeriu Bologa, 1961). Si trovano riscontri di interventi di trapanazione nei reperti archeologici risalenti al Neolitico; e Paul Broca, antropologo e neurologo francese vissuto nell’800, riprodusse tale operazione sui crani di cadaveri di adulti e bambini. Vi sono riferimenti anche nella cultura greca e araba, e durante tutto il Medioevo; tracce di interventi simili, che lascerebbero supporre motivazioni rituali, si riscontrano pure nei resti di popolazioni pre-colombiane. La trapanazione cranica ha avuto le sue sperimentazioni anche in epoche più recenti, in particolare sul finire degli anni ’60 con Bart Huges e Amanda Feilding, convinti che tale pratica permettesse al cervello di ‘respirare’ e tornare a pulsare come accade nei neonati, concedendo maggiori capacità percettive. <
VOLUME #15: Manabu, al femminile, cerca di aiutare l’ormai folle Susumu | ©PANINI COMICS HOMUNCULUS © 2003 by Hideo YAMAMOTO / SHOGAKUKAN
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Art FOLIO
Respirando tutti i COLORI
DEI SOGNI di DAVIDE LONGONI
Il percorso di un giovane artista, tra suggestioni visive, surrealismo e cultura popolare messicana.
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INO A QUALCHE tempo fa – un passato per nulla remoto – fare il fotografo significava divorare rullini classificati in base alla sensibilità DIN/ASA, allestire una camera oscura, portare pazienza per lo sviluppo… E intervistare un giovane fotografo di talento dimorante all’altro capo del mondo implicava innanzi tutto riuscire a scovarlo, lavorare poi di appuntamenti per intraprendere lunghe e costose telefonate intercontinentali, e infine affidarsi al servizio postale aereo per ricevere plichi di foto da cui poter scegliere e mostrare le
giuste immagini a corredo dell’intervista. Oggi, fortunatamente, tutto questo è superato: attraverso il web, un fotografo può esporre il proprio talento di fronte a chiunque sia interessato a conoscerlo, rendendo i suoi scatti raggiungibili ovunque nel globo. Ecco come TdC ha potuto incontrare Michel Omar B., professionista dell’arte della fotografia e amante del genere fantastico. Naturalmente, dopo averne apprezzato le qualità, non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di fare quattro chiacchiere con lui e presentarlo così al pubblico italiano…
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da Espejismo
concept: MICHEL OMAR e DIEGO LOMELÍN modella: SOFÍA ESPINOSA
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Intervista a
Michel Omar Bene Michel, per cominciare… come ti descriveresti professionalmente? Sono un artista visuale e fotografo ventiquattrenne di Città del Messico. Il mio lavoro consiste principalmente nella realizzazione di ritratti e arte concettuale. Attualmente, accanto alla mia personale attività, sto seguendo insieme al fotografo Rodrigo Torres un progetto chiamato ‘Observatorio Studio’ basato su fotografia editoriale e commerciale. Nel mio Paese ho la fortuna di lavorare con aziende e riviste molto creative, e con persone di gran talento; nel 2012 ho partecipato allo show televisivo IT, prodotto da MTV Brasile, in una puntata dedicata ai più importanti esponenti di art & fashion dell’America Latina. Come hai iniziato a scattare foto? Vuoi parlarci dei tuoi primi lavori? Ho iniziato in modo molto ‘sperimentale’… All’età di tredici anni ottenni un cellulare che incorporava una camera VGA e, come puoi immaginare, iniziai a fotografare qualsiasi cosa mi si parasse davanti: il cielo, gli alberi, i miei amici e perfino me stesso. La curiosità e la voglia di imprimere in queste foto le mie sensazioni sono cresciute spontanee, e ben presto decisi di prendere una camera migliore. A quel tempo le uniche persone che potevo ritrarre erano gli amici, così ho iniziato a creare concept partendo da questo, e da un ‘luogo’ ben noto a tutti noi: i sogni. Dal nulla, queste foto cominciarono a di-
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Autoritratto
concept: MICHEL OMAR
da Espacio Revelaci贸n concept: MICHEL OMAR
da Filosof铆a Natural
concept: MICHEL OMAR
da Espacio Revelaci贸n concept: MICHEL OMAR
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da Espejismo
concept: MICHEL OMAR e DIEGO LOMELÍN modella: SOFÍA ESPINOSA
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venire delle serie, e il mio obiettivo nello scattarle era uno solo: creare! Non pensavo a pubblicazioni o mostre, e non lo faccio nemmeno ora. Per me si tratta di espressione artistica: portare qualcosa in questo mondo, da una dimensione interiore, renderlo manifesto. L’unico modo che trovai efficace per mostrare i miei lavori fu Internet, e così presi a caricare foto in una delle prime art community presenti nel web: DeviantArt. Le mie creazioni iniziarono ad attirare interesse, e uno dei primi frutti che ottenni da questa attenzione furono 5 mie fotografie in copertina di altrettanti libri dell’autore Andersen Prunty. In quel momento mi resi davvero conto che avrei potuto fare della mia passione un lavoro; decisi allora di studiare e diventare professionista, scelta che mi ha condotto qui dove sono ora.
da Filosofía Natural
concept: MICHEL OMAR
Possiamo quindi dire che la filosofia dietro le tue fotografie è rappresentata dalla pura esigenza di creare, di esteriorizzare. Sì; come dicevo in precedenza, il mio lavoro è regolato da una filosofia semplice, portare alla vita ogni idea che possa prendere forma nella mia mente: sogni, bellezza, visioni politiche, fantasie… Non mi piace concentrarmi su un unico tema; come creativo e fotografo devo essere capace di trasporre ogni idea in immagine, e per raggiungere questo scopo lavoro duramente. Dove trovi l’ispirazione per tutti i tuoi scatti? L’ispirazione giunge da ogni posto, ma la trovo principalmente nel surrealismo,
da Filosofía Natural
concept: MICHEL OMAR
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da Filosofía Natural
concept: MICHEL OMAR
da Filosofía Natural
concept: MICHEL OMAR
nella fantascienza e nella cultura pop. Amo il fantasy come tematica, penso che il mondo sia troppo pericoloso per poter sopravvivere senza di esso. Così adoro ritrarre la gente in luoghi dove non si immaginerebbe possibile trovarsi. Mi lascio anche ispirare dalla mia cultura, dai vecchi grandi artisti e fotografi del mio Paese, e dalla situazione che quest’ultimo sta attraversando, che sfortunatamente è triste. Ritengo che l’arte fotografica possa essere un’arma molto forte, uno strumento per raccontare alla gente ciò che accade. Quali sono le difficoltà che si incontrano nella scelta di un modello, di un soggetto, di una location…? Penso che la cosa più difficile sia riprodurre l’idea esattamente come ce l’hai in testa. Ma cerco di non preoccuparmene troppo, e di lasciare che le cose scorrano in modo spontaneo: ci si stupisce di dove poi riescono a portare. Quanti sessioni fotografiche devi allestire per poter ottenere il servizio perfetto? Solitamente basta una sola sessione, durante la quale scatto circa 300 foto, per trovare quella ottimale. Come scegli i tuoi modelli? Ai primissimi tempi, i miei modelli erano di solito gli amici; lo sono ancora, ma adesso lavoro anche con varie agenzie della mia città, e la preferenza sul modello dipende dal tenore del servizio, dall’ispirazione… Talvolta decido da solo, talvolta insieme al mio gruppo di lavoro.
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da Espacio Revelaci贸n
concept: MICHEL OMAR e RODRIGO TORRES modella: VANESSA MOFIT (NEW ICON MODELS) styling: ALAN ZEPEDA trucco e acconciatura: CHELA OLEA
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da Filosofía Natural
concept: MICHEL OMAR
(sopra e sotto)
da Espejismo
concept: MICHEL OMAR e DIEGO LOMELÍN modello: HUMBERTO BUSTO
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Nella tua presentazione web vengono citati vari albi, il primo dei quali è Filosofia Natural: cosa ci dici a riguardo? Filosofía Natural è stata la prima serie che ho creato: l’ho terminata all’età di sedici anni, realizzandola partendo davvero dal nulla. Ci sono voluti due anni di scatti ‘casuali’… poi improvvisamente mi sono accorto che quasi tutte quelle immagini condividevano lo stesso tema: la natura, reale o fantastica. Così decisi di organizzarle in una serie, e allestii la mia prima mostra. Passiamo a Espacio Revelación… È una serie focalizzata sulla fantascienza, ispirata da vecchi fumetti sci-fi, storie di UFO e dal biblico Libro della Rivelazione (NdR: l’Apocalisse di Giovanni); racconto anche storie su meteore e vita extraterrestre, pervase da un senso di malinconia. La serie è ancora in corso, e spero di esibirla a dicembre di quest’anno, qui a Città del Messico.
da Trueno Sobre México
concept: MICHEL OMAR e RODRIGO TORRES
Qual è il significato di Trueno Sobre México (‘tuono sopra il Messico’)? Creata in collaborazione con Rodrigo Torres, è una serie di immagini ispirata alla cultura messicana, alla lotta alla droga e alla storia del mio Paese. Abbiamo un legame davvero speciale con questo progetto, in particolare per il fatto che una delle foto si è diffusa in modo virale, tanto da divenire parte del movimento di protesta studentesca autoproclamatosi ‘Primavera Messicana’, contro l’attuale Presidente (NdR: Enrique Peña Nieto). Stiamo parlando di creare molto presto un Volume 2 di Trueno Sobre México.
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da Trueno Sobre México
concept: MICHEL OMAR e RODRIGO TORRES
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E ora ci racconti qualcosa di Espejismo (‘miraggio’)? Realizzato in collaborazione con il regista Diego Lomelín (il cui primo cortometraggio, Índigo, è stato recentemente selezionato per partecipare al Short Film Corner del Festival di Cannes) Espejismo è una serie surreale nella quale abbiamo ritratto gli attori e registi Sofía Espinosa e Humberto Busto, due incredibili talenti del cinema messicano. Lavorare con personaggi così creativi e professionali è stata un’esperienza meravigliosa. Non avessi fatto il fotografo… what if? Mi è difficile trovare una giusta risposta a questa domanda… A essere sinceri, non riesco a vedermi a mio agio con nessun’altra professione. Questo campo mi regala emozioni sorprendenti, e adoro ogni singolo minuto che ho trascorso al lavoro. Sono davvero grato del fatto che mi sia stata mostrata così presto la missione da seguire nella mia vita.
da Trueno Sobre México
concept: MICHEL OMAR e RODRIGO TORRES
da Filosofía Natural
concept: MICHEL OMAR
In alcune tue foto possiamo notare in modo evidente una certa predilezione per il fantastico e l’incredibile: qual è per te il significato di questi temi? Provengo da una famiglia di cui sono davvero orgoglioso; non è benestante e mi ha mostrato cosa significhi lavorare duro. Il consiglio migliore che ho ricevuto mi è stato regalato dai miei nonni, che ripetevano sempre come, a prescindere da ciò che si fa, è importante risultare stupefacenti. Io non creo immagini per rincorrere la fama o per vanità, lo faccio perché voglio scuotere la mente di tutti coloro che guardano le mie realizzazioni; creo perché voglio che la gente rifletta e
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da Espacio Revelación concept: MICHEL OMAR
discuta su tutto, ed è questo sentimento che mi porta a coinvolgere lo stupefacente nel mio lavoro. Da lettore e spettatore, quali opere fantastiche segui e ti sono piaciute? Al cinema ho amato 20001: Odissea nello Spazio; di recente: Ex Machina e The Zero Theorem. Romanzi: Under the Dome di Stephen King, di cui seguo pure la serie TV. Sono anche un fan di vecchie riviste e racconti sci-fi. La cultura del mio Paese è piena di elementi da poter traslare in storie di SF; uno in particolare è il celebre ‘astronauta di Palenque’, che io stesso ho voluto ricreare in una delle mie foto. Un’ultima domanda: quali sono i tuoi progetti per il futuro, e i tuoi sogni da realizzare? I progetti sono un sacco, la mia mente è in continuo movimento! Ho così tanti piani in testa, servizi fotografici e mostre… Il futuro lo immagino molto, ma cerco di non pensare troppo al mio. Rimango concentrato sul presente, dove si trovano le persone che mi hanno seguito dall’inizio, alle quali sono molto grato per aver mantenuto sempre vivo il mio lavoro. E un grazie va anche a spazi come TdC, che mi offrono l’opportunità raggiungere altra gente. Vi ringrazio davvero, ragazzi!
Links www.flickr.com/photos/michel_omar www.flickr.com/photos/observatorioestudio michelomar.tumblr.com instagram.com/michelomar twitter.com/michelomarb
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Siamo noi a ringraziarti per la disponibilità e la piacevolissima chiacchierata! Ti facciamo i migliori auguri per le tue prossime iniziative, e a tutti coloro che vorranno ammirare i tuoi lavori e conoscerti meglio forniamo in questa pagina gli indirizzi dove poterti seguire. Grazie ancora e… alla prossima occasione! <
da Trueno Sobre México
concept: MICHEL OMAR e RODRIGO TORRES
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TERRE DI
CONFINE
SEZIONE ANTOLOGICA
WWW.PLESIOEDITORE.IT
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N. 4 AGOSTO
2015
FATA MEDUSA 2010
©OLIVER WETTER
www.fantasio.info
foto: LOUIS KONSTANTINOU modella: KATKILL
IVAN ODRADEK L’
OSCURO di RICCARDO DAL FERRO
ODRADEK
illustrazione di MARCO PASIN
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i sfuggita, solo se costretti, gli intellettuali d’oggi citano una delle migliaia di pagine scritte dal genio macedone. E, quando questo accade, è come se essi volessero fuggire via per non essere catturati nella spirale di mistero e depravazione che aleggia attorno alla figura dell’Oscuro di Skopje. Ivan Odradek, com’è noto (ma non così noto, soprattutto al mondo accademico), scrisse una e una sola opera nella sua vita. Nato nel 1876, figlio di un frate benedettino rinnegato scomparso in latitanza durante la guerra civile, e di una bellissima zingara morta dandolo alla luce, egli non si allontanò mai dalle mura della sua città natale, Skopje. Scelse di non far parte del mondo, recluso nel tugurio della piccola abitazione ereditata dal padre, concedendosi soltanto – in quello che può poeticamente sembrare un tributo a quel Kant che tanto amava – una passeggiata serale lungo il Vardar, per ogni sera della sua vita, fino a che nel 1960 non morì di febbre, solitario come un Eraclito moderno (da cui il soprannome ‘L’Oscuro’). Della sua biografia, ufficialmente, c’è poco da dire. Di certo, l’elemento più interessante è rappresentato da ciò che le malelingue erano solite raccontare del pensatore, elemento che sorprendentemente sembra rivestire molta più importanza rispetto al suo immenso genio, persino in quei convegni di uomini di scienza i quali, per loro dignità, dovrebbero tralasciare le chiacchiere e attenersi ai fatti. Ma, dal momento che qui siamo a discutere di filosofia, atteniamoci ai fatti e non alle stupide dicerie del popolino. Ivan Odradek lavorò per tutta la vita a una sola opera manoscritta, intitolata ‘La Pelle Scoperchiata’. Si tratta di un saggio di filosofia e antropologia ibridate magistralmente a elementi anatomici di grande competenza. Citiamo dal testo: “Il pensiero è nervo, e il nervo attraversa le carni. Nessuno può parlare di pensiero tralasciando l’elemento fisico che compone l’essere umano. Coloro che in passato cercarono di comporre una metafisica somigliano al suonatore di flauto che ha dimenticato, nella stoltezza della senilità, di intagliare quei fori utili a modellare ad arte il suono dello strumento”. Come si può intuire, la scrittura di Odradek è critica e aggressiva. Molte volte ci troviamo di fronte ad attacchi violenti nei confronti dei suoi avversari: “Cesare Beccaria e il suo libello, Dei Delitti e delle Pene, dovrebbero essere dissotterrati e ridotti di nuovo in cenere. L’unico diritto possibile, l’unica giurisprudenza
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si basa sulla carne e, di conseguenza, l’unica condanna legittima si manifesta nel barbarico smembramento dell’imputato, nel gesto di dilaniare la sua pelle alla ricerca del seme di quel peccato commesso, cercandolo non tra gli elementi di una fraintesa ragione, bensì tra le fibre dei suoi muscoli straziati. Tortura, frusta, fuoco e sangue: solo questi sono i fondamenti di un diritto che davvero possa chiamarsi tale. L’incarceramento è stoltezza borghese, pavidità di fronte alla potenza del Male. Il boia, macchiato dal sangue della vittima, è unico giudice e sovrano del patibolo!” La grandezza di quest’opera deriva in parte dalla completezza delle trattazioni che Odradek propone, e dalla vastità delle conoscenze che ne emerge. Filosofia morale, giurisprudenza, medicina, letteratura: nella nostra ignoranza, crediamo che mai sia stata prodotta opera di tale portata. Essa tocca l’intero scibile umano in maniera così cruda e sincera da lasciare un segno indelebile sulla cultura stessa. Il Macedone non si propone di creare un sistema, come vollero Hegel e Fichte; egli volle stravolgere il concetto stesso di sistema, rovesciare i paradigmi e metter sottosopra la storia del pensiero umano. È manifesto in questo straordinario passaggio: “La filosofia, sino ad oggi, altro non è stata se non un immenso errore, non v’è stata nient’altro che pavidità e superstizione, ed esse hanno condotto alla metafisica, alle religioni, al distanziarsi dell’uomo dalle proprie carni. Noi ci proponiamo di uccidere il pensiero morto per farlo rinascere in una carne che pensa dal di dentro: non animo, non spirito, bensì muscoli, polmoni, ghiandole, bulbi, nervi, fegato, vescica, cranio. Lì, non altrove, sta la filosofia”. Il capitolo III, intitolato Plasma, è evocativamente scritto con un inchiostro rosso vivo. Le malelingue accusarono Odradek di aver utilizzato il sangue di una bambina scomparsa il 3 gennaio 1921 nei pressi dell’abitazione del filosofo, ma la polizia non trovò mai alcuna prova a suggello di tale infamia. Le pagine inchiostrate di rosso parlano del sangue come di un veicolo di pensiero straordinariamente potente, un “veleno mistico”, così come lo chiama Odradek. Spesso le parti del corpo umano rivestono ruoli affini alla magia, cosa questa che ha allontanato l’Oscuro dalle enciclopedie accademiche, che non lo vedono citato almeno da cinquant’anni. La fisicità della sua filosofia traspare in ogni pagina dell’opera, come ad esempio nel capitolo dedicato al senso visivo: Bulbo. Scrive Odradek: “Nervo è il pensiero, e si dipana attraverso la vista, prodotta da un molle cumulo di candide cellule che, prese una
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ad una altro non sarebbero che materiale organico utile solo per la cottura a fuoco lento. Nervo è la vista, perciò, e attraverso essa formiamo ciò che l’incompetente Platone definì ‘idea’, la quale altro non è se non rimembranza di cose già viste”. A pagina 764 del terzo volume manoscritto, ecco che incontriamo il disegno di un occhio in rilievo. Alcuni dicono che si tratti di un vero bulbo essiccato, schiacciato e incollato sulla pagina di pergamena, ma noi crediamo che i vasti talenti di Odradek sconfinassero anche nell’arte dell’illustrazione, arte posta a corollario del suo incalcolabile genio. E poi, come si sarebbe potuto procurare un bulbo umano, dal momento che, quando morì, i suoi erano entrambi presenti nelle rispettive orbite? Sciocchezze popolari. La pelle scoperchiata percorre la storia del pensiero attraverso le parti del corpo umano, in maniera minuziosa, guidando il lettore attraverso un sentiero che va dalle profondità del corpo fino alle sue superfici. Infatti, escludendo i primi volumi che parlano di cervello (Aracnoide, nel quale troviamo il bassorilievo di un ipotalamo perfettamente riprodotto in scala 1:1, sembra quasi vero!), di bocca (Labbra, volume la cui rilegatura sembra fissata con denti umani al posto delle normali cuciture, effetto spettacolare che denota un sorprendente senso della teatralità, per un uomo che passò la sua vita chiuso in casa) e di orecchie (Timpani), i restanti volumi partono dalle profondità del corpo, fino ad approdare alle sue superfici, tenendo sempre alta l’attenzione sulla correlazione tra il corpo e il pensiero – Nietzsche stesso, in uno dei meno celebri Frammenti Postumi, elogiò Odradek: “L’Oscuro di Skopje è riuscito a distruggere Platone molto meglio di quanto io abbia fatto con il mio Zarathustra. La sanguinaria traccia del suo pensiero è un traguardo al quale non ho mai saputo arrivare. Egli è l’unico uomo del mio tempo che io possa definire con serenità Übermensch”. Le dicerie popolari allontanarono ulteriormente il contatto umano che Odradek aveva con il resto del mondo. Fu accusato di cannibalismo, di alchimia, di tortura e rapimenti. Ma tutto questo dimostra solo l’invidia per il suo genio inarrivabile, invidia che Valéry fomentò, geloso del senso che Odradek seppe dare al concetto di pelle, senso che il Francese poteva solo sfiorare nelle sue opere. Valéry scrisse, in polemica con il Macedone: “Il mostro della filosofia si cela nella città di Skopje. Non sa pensare se non trucidando innocenti persone, smembrandole per utilizzi immorali
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e diabolici. La pelle per lui è un rivestimento organico che può essere steso su suppellettili o utilizzato per scriverci sopra, Ivan Odradek altro non è se non il diavolo”. Le puerili accuse del Francese, pubblicate sulle riviste filosofiche di tutta Europa, caddero senza risposta, l’Oscuro aveva cose ben più importanti a cui badare. La stesura dell’ultimo volume, il trentottesimo, intitolato Epidermide, rappresenta la chiusura di un sistema filosofico talmente perfetto e scientifico da lasciar a bocca aperta lo studioso più minuzioso. Odradek scrive, a pagina 1.322: “Tutto ciò che in precedenza fu umilmente ponderato, diviene senza senso se non racchiuso nell’involucro di una conclusione gloriosa. Così come una crisalide riveste di significato la trasformazione del bruco in farfalla, così la pelle, l’organo più vasto del corpo umano, membrana sottile eppur indistruttibile, così soffice e coriacea al tempo stesso, tiene assieme le altrimenti disordinate frattaglie d’un fisico umano che ivi trova il compimento e la perfezione. La pelle è condizione essenziale della magia e del pensiero, ne compie la danza divina”. Il ragionamento dell’Oscuro è filosofico e scientifico al tempo stesso. Le fandonie attribuitegli, il cannibalismo, gli omicidi, le torture, le efferatezze di cui si sarebbe macchiato per popolare di orrori l’opera, tutto questo svanisce di fronte alla grandezza del suo genio. Le dita mozzate che troviamo nel tomo Estremità di certo non sono umane, esse sono evidenti riproduzioni in gesso o in qualche altro materiale che simula perfettamente i pezzi di un uomo squartato. I seni esposti sulla rosea copertina di Mammaria, i testicoli appesi a un filo (molto simile a un’arteria essiccata) a pagina 299 di Semente, il cuore spalmato sul retro di Ventricolo, altro non sono che finzioni. E gli intellettuali spaventati da tutto questo dovrebbero vergognarsi di tralasciare una tale grandezza per dar credito alle idiozie di un popolo che ben sottostà al giogo della superstizione! Pensate, viene comunemente creduto che tenere in mano uno dei volumi di Odradek sia fatale, in quanto attorno a essi aleggerebbe inesausto e senza pace lo spirito immondo del filosofo. A tutto ciò noi non crediamo, stringiamo anzi ferocemente questi volumi, come fossero un tesoro prezioso. Ci sorprendiamo nell’adorazione di queste pagine, le cui parole sono alternate a rappresentazioni di realistiche frattaglie umane, intestini riprodotti ad opera d’arte, reni e lingue simili in tutto e per tutto alla realtà. Tutto questo ha una valenza scientifica irrinunciabile e un fascino gotico d’altri tempi!
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Odradek, questo maestro così rinnegato dai suoi discepoli, dovrebbe figurare tra i più illustri e legittimi colleghi: Schopenhauer, Nietzsche, Kant, Hegel. Non dovrebbe essere ostracizzato da una comunità sciocca di pavidi accademici da biblioteca! “La pelle rilega il mondo, il corpo e questo libro”, scrive Odradek nel paragrafo finale della sua opera, La Pelle Scoperchiata. “La pelle di uomo, che tanto ti sta a cuore e ti separa dal caos, diventa parte dell’opera, perché solo così essa può divenire perfetta”, continua l’Oscuro. Le parole sbiadiscono pian piano, ma il tratto si fa chiaro via via che continuiamo a leggere: “Un’opera di filosofia non si completa né si scrive senza la sofferenza e il sangue, amico mio, e il tuo sacrificio diventa necessario”. D’un tratto, una strana sensazione pervade la nostra incuriosita lettura. È come se… come se le parole scritte fossero udite dalle nostre incredule orecchie, piuttosto che lette dagli stanchi occhi. C’è una voce, una voce melliflua, che continua, sostituendosi prepotentemente alla lettura: «Stringi il volume, ora deve nutrirsi di te.» Il nostro ultimo pensiero, abbracciati a quell’ultimo volume dell’opera di Odradek, va alla perfezione della sua opera, nel momento stesso in cui ne comprendiamo il disegno totale. L’ultima cosa che vediamo, prima che le palpebre vengano sfilacciate da una forza soprannaturale, è la sagoma dell’Oscuro di Skopje stagliarsi a fianco della nostra vecchia scrivania, la penna che cade, il sangue che inizia a colare come un ruscello scarlatto. I suoi occhi, incastonati come diamanti nelle ciniche orbite, ci osservano mentre la vita abbandona queste carni. È un sorriso quello che ne attraversa le ombre? L’ultima cosa che udiamo è la voce di Ivan Odradek, sussurro proposto all’anticamera di quel cervello che, lusingato da questo onore, lentamente si spegne: «L’opera deve continuare a vivere, nutrendosi degli incauti avventurieri che osano avvicinarla. Hai ben compreso il tuo destino, ora sei pronto.» Il libro cade a terra, la nostra pelle, come una matassa di lana che si dipana veloce, va a cucirsi indissolubile alla copertina antica e rovinata dal tempo, rigenerandola con fresca epidermide umana. Le nostre stesse parole, in un ultimo sussulto di vita, si stagliano nitide sull’ultima pagina del volume che, immobile sul pavimento, sembra ora come nuovo. Esso attenderà con pazienza un nuovo studioso che, incauto, sarà vittima e nutrimento per quel grande gioco di conoscenza che è l’opera di Ivan Odradek. <
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WHAT WOULD JESUS DRINK?
di ©MADISON KIRKMAN www.MadisonKirkman.com
GESÙSPORT AL BAR
di MAURO ANTONIO MIGLIERUOLO
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uel tipo si faceva chiamare Gesù, senza che lo fosse (o lo era a modo suo). Era infatti un Gesù tutto speciale, un po’ perdigiorno, un po’ angelo, un po’ alieno tipo extraterrestre. Arrivava puntualmente verso le 18 e come tutti si stravaccava lungo su una sedia, lo sguardo perso nel vuoto e fumava, beveva, criticava il governo con il medesimo accanimento di tutti: strano, ma era in tutto e per tutto uguale a ogni altro avventore del Bar Sport. A differenza degli altri tuttavia era preceduto (e seguito) da un suono di cimbali e una caterva di ragazzi in tenuta arancione che gli saltellavano e ballavano intorno. Erano capaci di ballare per ore quei tizi, pur intabarrati in quelle loro lunghe tuniche pretesche, uomini e donne sempre rigorosamente vestiti di arancione. «Viva Gesù» vociava il corteo saltellante, dentro il quale tutti cercavano di sembrare al massimo felici (ce n’erano anche di quelli). E capitava spesso, stranezze della vita, che una voce ano-
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nima rispondesse infervorata: «Viva Maria!» Gesù, un gesto della mano, ohoo! Piantatela! Gli faceva capire. Ma quelli niente, fedeli quanto Lui lo era a se stesso, se ne stavano ore e ore in agguato in prossimità del Bar finché non compariva; e allora era tutto un tripudio di gioia. Gesù, un sorriso indulgente, scrollava le spalle e passava oltre. Il comportamento di quei ragazzi era l’esatto contrario degli avventori del Bar i quali, impassibili, pacati, indolenti (neppure voltavano il capo quando Gesù entrava), attendevano che si sistemasse e iniziasse a parlare. Lo stesso si capiva che erano contenti di vederlo. Lo si capiva da come assestavano il culo sulle sedie; o da come si affrettavano a vuotare il contenuto dei bicchieri, non si poteva mai sapere, nella distrazione che seguiva qualcuno poteva approfittarsene, allungare la mano e vuotare quello del prossimo, oltre che il proprio. Gesù lo stesso, non dava a vedere il piacere che provava nel trovarli tutti lì riuniti, giorno dopo giorno, sempre più numerosi, per ascoltarlo e abbracciarlo con lo sguardo (tanto numerosi che dopo qualche settimana non c’era più posto per nuovi avventori e il gestore, per tenere a bada i tanti che l’imploravano di entrare, era stato costretto ad abbattere un divisorio per allargare la sala). Sedeva al tavolino accanto all’ingresso, lasciato libero apposta per lui, si metteva comodo, accendeva una sigaretta, faceva sì con la testa al più svelto a porgergli un bicchiere di vino (sì, grazie…) e si beava del silenzio che, lui dentro, scendeva nel locale. Passava qualcosa come un quarto d’ora, o mezz’ora (sempre in assoluto silenzio) e poi iniziava a darci dentro con una delle sue solite affascinanti storie. Non faceva altro, non si occupava d’altro: bere, fumare e raccontare frottole. O quello che parecchi scettici, ghignando, definivano volentieri frottole. Raccontava cose del genere: «C’è un posto, dalle parti di Ophiuco… o si tratta della Grande nube di Magellano? Scusate, i millenni passano, invecchio, non ho più la memoria di un tempo… beh, insomma, lassù» e puntava l’indice verso l’alto «uno strano pianeta… sapete di cosa parlo, vero? Un mondo simile a quello che abitiamo noi, dove la gente però è diversa, ma molto diversa… non nasce come qui e muore in modo molto strano. Nasce, quella gente, dentro le teste di altra gente che abita un pianeta vicino; e muore per consunzione dopo qualche migliaio di anni, non appena il particolare tipo di teste che l’ha creata muore a sua volta. Strano vero?»
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Tutti trattenevano il fiato, mortalmente curiosi di capire dove Gesù sarebbe andato a parare. Perché da qualche parte, ormai lo sapevano, andava sempre a parare. Non apriva bocca senza uno scopo, Lui; senza un apologo, una metafora, un’allegoria, una morale. «Gli spazi occupati dai due pianeti si può dire siano quasi lo stesso, essendo ognuno come lo specchio dell’altro. Non materialmente, però. Perché il Primo, quello dove la gente nasce in conseguenza dei pensieri della gente del pianeta vicino, il pianeta necessario (per questo chiamato Primo), è enorme, grandissimo, non finisce mai, milioni e milioni di chilometri di terre, mari, pianure, montagne, fiumi, laghi e foreste, tante foreste. Il Secondo invece è un pianeta normale, grande pressappoco quanto quello su cui viviamo. Vi si conduce la medesima vita. Alzarsi, bofonchiare, andare al lavoro, firmare cambiali, spettegolare, pagare i conti del dentista, lavorarsi la moglie, o il marito, del vicino o della vicina, la scopatina del sabato sera, magari anche della domenica mattina, ed è tutto, l’esatto mare della merda in cui, senza protestare, entriamo giornalmente a nuotare.» Risatine. Sapevano bene quello di cui stava parlando. Della loro vita, parlava. Della loro squallida vita di strafottuti smaniosi intrigati vagabondi dell’esistenza. «Sapete, no? Come funziona con lo specchio. Da una parte c’è la persona reale, dall’altra quella ‘ideale’, cioè la raffigurazione di quella reale. Lo stesso che in un disegno o una fotografia. Ora, chi guarda una fotografia, o chi si guarda in uno specchio, sa bene da che parte sia la realtà. Anche se, mi viene il dubbio, l’altro dentro lo specchio può pensare la stessa cosa: di essere lui dalla parte giusta! E il tizio che lo imita apparentemente oltre la superficie fredda liscia niente altro che un proiezione luminosa! Invece qui ogni abitante dei due pianeti si presenta nella propria interezza, completo. Cioè indiviso. Ove si incontrassero, i due, potrebbero salutarsi, fingere di essere interessati l’uno all’altro, chiedere notizie sulle rispettive famiglie, dire sbrigativamente “sì sì tutto bene”, stringersi la mano e allontanarsi in fretta per accudire al nulla delle loro rispettive faccende. Cosa impossibile invece con una immagine speculare. C’è mai stato nella storia qualcuno che si sia incontrato con il se stesso dello specchio? Gli abbia stretto la mano? Chiesto cosa diavolo ci faceva da quelle parti e perché diamine non si era fatto più vivo? O immaginato, fuori dalle favole, di poterlo fare? Invece tra i tizi dei due pianeti questo sarebbe possibile, non fosse per il piccolo particolare che quelli del Secon-
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do – che è poi quello di origine del Primo: paradossi dell’esistenza – non vedono l’altro e perciò neppure possono organizzare spedizioni per andare a visitare l’incarnazione dei loro stessi pensieri. I Primi potrebbero, ma in verità, incazzati neri come sono, non si sognano nemmeno di farlo.» In genere, giunto a questo punto, delineato sommariamente il quadro del racconto, Gesù se ne stava zitto per un po’. Il tempo sufficiente affinché i poveretti che l’ascoltavano assorbissero bene i concetti esposti e le implicazioni che comportavano. Cosicché, quando riprendeva a parlare era sicuro di poter infliggere un’altra mazzata al comprendonio di quei solenni sbevazzoni, perdigiorno calciofili, scrocconi attaccabrighe, falliti puttanieri della malora, che si illudevano di potersela scapolare nonostante continuassero a affondare nel pantano da loro stessi creato. E continuavano imperterriti, giorno dopo giorno, anno dopo anno: continuavano a create mota e ad affondarvi, senza badare a altro che farsi venire le paturnie e consolarsi con le interminabili dispute su quale fosse la squadra di calcio migliore, se la loro, o la loro. Questo almeno finché da quelle parti era comparso lo strano tipo che avevano cominciato a chiamare e che volentieri si lasciava chiamare Gesù. «Immagino vi stiate chiedendo com’è che proceda la faccenda» riprendeva Gesù nel medesimo tono pacato e avvincente con cui aveva iniziato. «È semplice. Uno, un tizio qualsiasi del Chissà Dove del Secondo Pianeta fa un pensiero – formula, dovrei dire, ma sapete bene che mi sono proposto di parlare come mangio, per non parere che mi voglia dare arie e non incorrere in equivoci – …insomma uno fa un pensiero ed ecco che dall’altra parte, lassù cioè» segna verso l’alto con l’indice «sul Primo Pianeta, nasce una persona… Nasce, oddio… si condensa, prende corpo, appare una persona. Una persona bella e fatta, completa, più o meno adulta, a seconda del tipo di pensiero formulato… se è un pensiero adulto, ponderato, ecco l’adulto, fine, maturo, equilibrato; se il pensiero è infantile, arbitrario, capriccioso, ecco il bambino, piagnucoloso, aggressivo, insopportabile. Se invece è un pensiero mezzo scemo, mezzo scema sarà la persona che ne verrà fuori. A seconda. Donna o uomo che sia, per quanto intero, si svilupperà secondo le caratteristiche dell’impulso-idea che gli ha dato origine.» Qui Gesù, completati definitivamente i preliminari, si concedeva una nuova pausa. Una pausa per se stesso, questa volta. Per godere il silenzio totale che vagolava, ondeggiava, rimbalzava, ri-
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echeggiava, maramaldeggiava nel locale. Un silenzio bello, schietto, riepilogo del generale interesse. Un silenzio solenne, adeguato alle iperboli delle sue invenzioni (se pure invenzioni erano). Ma quel silenzio, che non era il prodotto della totale assenza di rumori (i petti continuavano a espandersi e contrarsi, i cuori battevano, il sangue circolava tumultuando; e le mosche, intrepide, insistevano nel manifestare indifferenza); quel silenzio che era pura attesa, puro desiderio di ascoltare il seguito; azzittiva ogni altra istanza che non fosse la richiesta occulta che urlava: “Continua, ti prego. Continua. Facci sapere!”. Per cui, pochi secondi più tardi (molto pochi secondi) Gesù si affrettava a ottemperare alle silenziose richieste con una semplice domanda. «E se i pensieri in questione fossero cattivi? Crudeli? Calamitosi? Corrotti? Criminali?» Quella fu la domanda della sua ultima volta. E se i pensieri fossero una chiavica di pensieri? Avanzò la domanda e si fermò, in attesa delle reazioni. Era il momento cruciale, quello. Il costante punto critico di ogni suo racconto. Il passaggio in cui iniziava a coinvolgerli. In cui li costringeva a pensare e partecipare alla narrazione. Tutti sapevano che voleva una o più risposte da parte loro. Che non avrebbe ricominciato a raccontare finché non le avesse ricevute. Per un po’ nessuno si azzardò a commentare. Ma prolungandosi l’attesa (e l’imbarazzo conseguente) un tizio lì accanto, uno alto allampanato, uno sornione, scherzoso, un mite avventore che consumava sempre e solo bevande gasate d’origine USA (e getta) e che perciò veniva chiamato ‘l’Americano’; il tizio non resse e sbottò: «Allora sono cavoli amari. Ma amari proprio, per quelli di Ophiuco.» Le due frasi diedero la stura alle altre. Per un po’ fu tutto un rincorrersi di commenti. «È allora che compare Berlusconi… il Berlusconi delle stelle! Ah! Ah! Ah!» «Esatto. Compare Berlusconi. Oppure mia suocera. Mia suocera è peggio di Berlusconi. È un vero e proprio cattivo pensiero! Il peggio.» «E Bossi? Bossi dove lo metti?» «Caspita! Anche lassù? Dio, che punizione!» «Ehi! Contano anche le fantasie sessuali?» «Acci! Non ci avevo pensato! Da quelle parti dovrebbe essere
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tutta un’orgia continua! Ci si arriva facilmente?» «Spero di sì, ciò voglia di andarci anch’io!» «Mannaggia! Dov’è che fanno i biglietti?» «Devono stare proprio allegri da quelle parti!» «Macché allegri! Con tutta la rabbia che c’è in circolazione! Vi immaginate che cosa si crea lassù? Che vita? Mafia, Politici, Pedofili, Miliardari, Preti…» «Peggio che da noi, cazzo!» «Deve nascere un figlio di puttana al microsecondo, da quelle parti. I cattivi pensieri sono la madre dei figli di puttana.» E via sghignazzando, battendo le palme aperte sul tavolo, chinando le teste uno verso l’altro e dandosi gran manate sulle spalle. Però, non appena Gesù accennò a riprendere il racconto, le bocche degli avventori si immobilizzarono all’istante. Alcune persino a metà delle parole che stavano pronunciando. «Sapete cosa sia una Nova, vero?» Non si trattava di una domanda. Di una vera domanda. Non si sarebbe azzardato, Gesù, su un argomento del genere, tanto lontano dal sapere quotidiano. Gli serviva solo da introduzione alla sommaria risposta che lui stesso si diede. «È l’esplosione di una stella che è vissuta troppo. Una stella che muore. Gli uomini muoiono e si disfano. Le stelle muoiono ed esplodono – si disfano in modo diverso. Succede qualcosa del genere con l’energia psichica. Il principio vale in tutto e dappertutto, anche a Chissà Dove. Uno accumula rabbia ed esplode. Magari non muore, però si mette in un mare di guai. Può perdere gli amici, il posto di lavoro, un amore… oppure mette in fila nuovi errori e rovina tutto quanto, qualsiasi cosa – come morire. Distrugge irrimediabilmente la propria vita. Lo stesso fate anche voi, amici. Vi distruggete con il niente dell’accumulo di insoddisfazioni, piccole nefandezze ed errori. Aprite gli occhi amici, apriteli per pietà a voi stessi. Lasciate perdere tutto, tutto quello che vi portate dietro e vi ostacola nel viaggio. Che siete facchini, voi? Siete piccoli Sisifo condannati a trascinare per il mondo case intere piene di carabattole, palazzi inzeppati con le abitudini e isolati rigurgitanti di dolori pregressi e afflizioni? Ma che vi importa di vostra suocera! di vostra moglie, figlio, amante o quello che sia; di com’è e come non è! Che vi importa della Roma, della Lazio, di D’Alema, Veltrusconi, Richard Gere o Lady Diana! Ma che siete matti? Ma chi ve lo fa fare! Non andrete lontano, se continuate nello stesso modo!»
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Gesù di nuovo si interruppe, apparentemente per tirare il respiro; in verità per dar tempo al ruminìo dei pensieri, che sentiva andare a mille, si placasse un pochettino. Ma poi che avvertì come i concetti si fossero fissati nella coscienza di ognuno, si affrettò a riprendere il discorso. «Avete citato i politici. Ma da dove credete abbiano origine quei bei tomi? Da quale oscuro buco di culo della coscienza? Lo stesso tenebroso che produce l’inflazione di creature perverse su Ophiuco. L’uguale che in Chissà Dove. Solo che voi, oltre a mandarli in giro per il Cosmo, li disseminate tra le gente. Sappiatelo, i Governi non sono altro che l’immagine deformata delle vostre stesse deformazioni interiori che condensate a vostro beneplacito e gratificazione. Ognuno si diverte come può e voi apparentemente vi divertite con il peggio del peggio.» Gesù portò l’indice della destra alla tempia e lo batte forte alcune volte. «È qui che hanno origine, ragazzi. Qui! I politici sono il concentrato dell’impreferibile che generate. Il corpo produce merda, i pensieri producono politici… o meglio: politicanti, pazzi assassini, serial-killer e i bugiardi integrali privi di scrupoli, feccia dell’umanità. Ce ne sono anche di buoni, eh, non dico di no; ma quelli hanno vita breve, come vengono scoperti – in politica e onesti pure? osceno! insopportabile! – li ammazzano o li costringono a farsi indietro. Il problema vero, sentitemi bene, è che in ognuno di noi c’è un politico-politicante, un essere triviale che ha per unico scopo la manipolazione del prossimo… Qualcuno qui può vantarsi di non aver mai cercato di far fare qualcosa a qualcun altro, contro la sua medesima effettiva volontà? si tratti di un congiunto, d’un amico e persino dell’essere amato… Nessuno è grado di farlo… Lo stesso vale per la gente di Chissà Dove, il pianeta più pazzo e sconclusionato della Galassia. Ve lo descrivo? Ve lo descrivo… dunque… immaginatevi una distesa ininterrotta di cemento, con qualche macchia di verde qua e là, tanto per dare un po’ di colore al quadro complessivo. L’aria è percossa dai tuoni emessi da strani oggetti metallici che fanno la spola tra un agglomerato di palazzi e l’altro. Gente ingrugnita nelle strade e gente ipnotizzata nelle case, fermi immobili davanti a schermi ultrapiatti giganti, sui quali si muovono figure concitate, che invitano a comprare, comprare e comprare, non esiste altro in pratica, non altro che l’esposizione continua universale delle merci disponibili e signorine seminude, merci anch’esse, che sembrano uscite tutte dalla medesima fabbri-
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ca di nasi, culi, mani e tette. In compenso hanno bagni immacolati, profumatissimi, maioliche firmate, come gli abiti; e vasche idromassaggio dentro cui le signorine di prima mostrano caviglie affusolate e gambe assolutamente ben depilate. Tutto questo sarebbe ancora sopportabile non fosse per il pullulare di Comitati Centrali, Consigli di Amministrazione, Case della Libertà di Sfruttare e Rubare, scalate fatte con i soldi degli scalati e le montagne di spazzatura, spazzatura a gogò, muri e muri di spazzatura alti metri e metri, passando sotto i quali la gente rischia costantemente di essere asfissiata e travolta. Niente male, eh? Ebbene, a quelli di Chissà Dove tutto questo non basta. Al peggio non c’è mai fine e loro intendo dimostrare il principio a furia di uno sterminato pullulare di pensieri fuori controllo… un ruminare ininterrotto di pensieri sconclusionati, pensieri folli, pensieri immondi… Sono fatti così, quelli di Chissà Dove… masochisti inveterati… drogati di apparenza in pieno delirium scemens… mica riescono a darsi una calmata! Non ce la fanno anche perché sono orgogliosi dei loro pensieri, si sono convinti di non poterne proprio fare a meno. Ritengono che il lasciarli liberi di sfrenarsi sia all’origine di ogni progresso. Lasciano perciò che vadano a mille. Anche a diecimila. Per cui, l’inevitabile: invece che padroni sono schiavi della mente, non la controllano più, neppure quel tanto che basta a guidarsi meglio nella vita. Eh! Sono intelligenti loro! Sono progrediti! Moderni! Sono riusciti a rubare migliaia di segreti al Cosmo! Lo provano tutti i congegni strabilianti con cui si rendono comoda la vita – come se bastasse la sola intelligenza per penetrare nel labirinto della Verità Oggettiva –; nonché gli altri che progettano di inventare: Navi Spaziali, Androidi, Robot, Teletrasporto, Viaggio nel Tempo ecc. In verità vi dico che quello che realmente stanno facendo è di mettere in primo piano le manchevolezze proprie agli umani, tipo rabbia, gelosia, avidità, invidia ecc., manchevolezze che rendono la vita un percorso accidentato, quasi un calvario. Vedete, senza i pensieri, che inventano ogni tipo di giustificazione per dire che sì, così è bene, in questo modo deve andare, hai proprio ragione ad arrabbiarti, tutte le ragioni di questo mondo! e mi hanno fatto questo e mi hanno fatto quell’altro… uno potrebbe ancora riuscire a condurre i propri giorni in modo decente, per quello che gli conviene e non per quello che suggeriscono paura, rancore e aggressività; ma con la mente pronta lì ad alimentare, a far riemergere, a ricordare quello che è stato e non avrebbe dovuto essere, l’impresa diventa impossibile. Invece
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di godersi le gioie dell’abbandono all’esistenza, si godono quelle della servitù imposta dai pensieri. Si mettono nei guai da soli e creano un sacco di problemi ai loro corrispettivi di Ophiuco. Ora, dai e dai, com’è inevitabile, finiscono con il mettersi nei guai con i loro vicini invisibili, quelli di Ophiuco. Ve l’immaginate il casino per quei poveretti del pianeta gigante? non certo degli stinchi di santo, ma comunque gente che cerca di darsi una regolata, di stabilire un po’ d’ordine e un minimo di convivenza civile; ricevere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, un carico destabilizzante di selvaggi schizzati e un po’ carogne? Senza contare che dopo alcuni secoli, al ritmo in cui li mandano da Chissà Dove, nonostante i miliardi e miliardi di chilometri quadrati disponibili, si verifica un sovraffollamento che non vi dico e non sanno più dove diavolo metterli questi nuovi. Stanchi di dover ospitare gli strani soggetti inviati da Chissà Dove, decidono di darsi una mossa, ovverosia una regolata, cioè di metterci una pezza. Decidono di reagire. E reagiscono, infatti. Reagiscono nel peggior modo possibile – che è anche il loro miglior modo possibile. Riuniscono i loro Capi e deliberano che è arrivato il momento di darci un taglio. Basta con la continua invasione di extraplanetari. Bisogna che Chissà Dove la finisca con tutto il pattume umano che scarica quotidianamente su di loro. Ogni giorno una guerra, una rivoluzione, l’ira di dio del rimescolamento delle carte, maschi e femmine dominanti che si fanno spazio con ogni mezzo, teste calde con tanta voglia di menar le mani, convinti che le regole vengano per ultime, o che come minimo devono essere tutte riviste. Basta! Basta! Non si fa che gridare. Ci sono tizi che dalla rabbia si fanno venire la bava alla bocca… quelli che gridano più forte sono proprio quelli arrivati molto in alto, soggetti come Porcelli, Anelli, Vacchis, Tronchetto dell’Infelicità, Derlusconi e simili. Non ne possono più dell’arroganza dei nuovi venuti, anzi del fatto stesso che ci sia una invasione continua di nuovi venuti. «“Diamogli addosso come si deve!”, propongono costoro, “una lezione che se la ricordano!”. «“Non possiamo mica cambiare il loro modo di essere!” obiettano i concittadini frutto dei pensieri più miti, miti anch’essi. «“Possiamo, eccome se possiamo. O li convinciamo a smettere o li ammazziamo tutti”. «“Non lo farete! Diventeremmo i paria dell’Universo. Nessuno vorrebbe più aver niente a che fare con noi!”. «“Stronzate. Ci baceranno in bocca, invece. Non vi rendete con-
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to che libereremmo lo spazio da una bella manica di rompicoglioni! Non sapete forse che quei tizi si riempiono la bocca dalla mattina alla sera di discorsi sulla Democrazia e le Guerre Umanitarie?”. «“Cavolo! Sarà veramente dura, allora”. «“Non tanto, perché chi mena prima mena due volte e noi siamo ben intenzionati a menare subito… E poi qual è l’alternativa? Quella di sganciare un po’ di bombe nucleari pulite per fare spazio ai nuovi arrivi? Vi piace questo?”. «I miti si convincono e il progetto dei duri va avanti. Si tratta sempre di sganciare quelle loro cazzo di bombe intelligenti, non più però sul proprio stesso territorio – per fare un bel repulisti – ma su un asteroide in avvicinamento a Chissà Dove, in modo da spostarne l’orbita e mandarglielo addosso. L’unica che ottengono le ‘colombe’ è di far precedere l’azione dall’invio di un ultimatum ai mentecatti di quello che ormai tutti chiamavano il Pianeta Maledetto. Immaginatevi lo sconquasso in Chissà Dove, non appena lo si viene a sapere. Prima lo scetticismo – il Pianeta dei Pensieri neppure riuscivano a vederlo bene! –, poi, quando i Servizi segreti confermano, il Primo Pianeta c’è, lì sono tutti incazzati, allora è lo sgomento e infine il delirio. Il Governo si affretta a promettere impossibili rifugi, le Religioni a consigliare preghiere e pentimenti – promettendo miracoli. E i poeti a chiudere bottega e partirsene per la montagna a contemplare dall’alto la Fine del Mondo. «Uno solo, tra tanti, prende veramente sul serio il contenuto dell’ultimatum. Proviamoci, propone quest’unico. Tentiamo davvero di governare e ripulire i nostri pensieri. Non tanto, un po’, farà bene anche a noi. Può essere ci salviamo! Lo prendono per pazzo, un traditore, una quinta colonna nemica che cerca di demoralizzare il paese, e a momenti l’arrestano. E poiché insiste, finiscono con l’arrestarlo veramente e dargli una buona ripassata. «Non avrebbero dovuto farlo. Un sacco di gente inizia a credergli – i martiri godevano anche lì del fascino dei martiri. Prima mille, poi diecimila, poi milioni chiedono una legge per imporre a tutti di frenare i propri pensieri. Cosa impossibile, naturalmente, dato che la gestione dei pensieri non è questione di leggi, ma d’educazione. Il Governo poi, preso com’è da tanti altri problemi, come produrre missili a testata atomica da lanciare contro Ophiuco non appena individuatane la posizione nello spazio, non li bada proprio. Ma, comunque, li lascia fare. Così che questi possono effettivamente riunirsi per provare a vigilare sui pensieri quel tanto che basta a calmare quelli di Ophiuco…»
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Qui si interruppe per l’ultima volta. Si interruppe e restò come in attesa. Nessuno si ingannò sulla sostanza di quel silenzio. Stava per arrivare la mazzata. Un minuto dopo arrivò. Sotto forma di domanda. «Cosa ne pensate voi, voi che siete scafati» chiese infatti Gesù al termine di quel minuto. «Credete ci siano riusciti?» Silenzio. «Allora?» insistette Gesù. «Non è credibile l’abbiano fatto? Bisognava salvare la buccia, no?» Silenzio. «E se fosse vostra la buccia da salvare. Pensate che ci riuscireste?» Ancora silenzio. Un silenzio molto lungo e un po’ preoccupato. «Sì, se foste voi dover mettere la cintura di castità al cervello?» Tutto taceva nel bar. Tacevano i cuori, oppressi da un quesito apparentemente semplice, nei fatti troppo sopra la loro personale esperienza. «Vi vedo perplessi… sentite, perché non facciamo una prova? Vediamo quel che sapremmo combinare noi. Non tanto, un dieci, venti minuti. Orologio alla mano. Per venti minuti non più pensieri di rancore, rabbia, vendetta, invidia, avidità, disdetta e frustrazione. Niente vittimismo, critica e giudizi sul prossimo, e neppure su se stessi. Per venti minuti pensare con calma, senza il solito turbinio, pensare noi, non noi a inseguire la cosa matta che completa il collo e ci porta in giro dove vuole lei e non dove converrebbe a noi d’andare. E soprattutto venti minuti senza l’ossessione del sesso, incorniciato dagli avvenimenti del giorno. Tipo il culo da premio Nobel della vicina che proprio sotto i nostri occhi si è chinata per raccogliere le chiavi che le erano cadute; e le strepitose tette della velina di turno. Che ne dite? Vogliamo provarci?» «Certo!» risposero in fretta – troppo in fretta – a più voci. «Perché no? Non dovrebbe risultare difficile. Venti minuti, cosa sono? Sì, sì, sì, ci stiamo!» Gesù interruppe la valanga delle approvazioni con un gesto energico del braccio. «Va bene» disse. «Vi prendo in parola…» Girò in basso il palmo della mano sinistra e lo portò in avanti; e con la destra tirò indietro il polsino per mettere in mostra l’orologio. «Venti minuti da adesso. Pronti?» Tutti annuirono.
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«Allora via, iniziamo… ma facciamolo sul serio, come se si trattasse effettivamente di salvare la pelle.» Iniziarono. Un silenzio di tipo nuovo informò il locale. Un silenzio pesante, vasto, clamoroso, che si diffuse tra i tavoli e investì persino l’immediato del marciapiedi, appena fuori dalla porta. Per un momento parve che anche le macchine s’azzittissero. Il traffico scemò, si ridusse comunque di intensità, prese a scorrere in punta di piedi, con la medesima cautela che si usa nella stanza di un ammalato. Trascorsero lenti i secondi, non molti, un dieci, quindici, venti. I clamori esterni lentamente ripresero forza. Tempo un minuto il traffico s’ispessì, tornò a rombare disinvolto. Altri tre minuti e lo stesso silenzio nel locale iniziò a essere interrotto da occasionali colpi di tosse, lo schiarirsi delle gole e il disagio dei singoli che si agitarono sulle sedie. Gesù, paziente, attese ancora. Ma passati cinque-sei minuti, senza far motto, si alzò e abbandonò il locale. Fuori c’era un tizio ad attenderlo. Uno strano tipo. Stava assiso su uno scooter di foggia mai vista, cinque ruote a palla sotto, e sopra una piattaforma circolare circondata da una ringhiera alta un buon metro e mezzo. Lo scooter si abbassò e Gesù vi salì sopra. «Niente da fare, vero?» interrogò il nuovo venuto, un tipo ancora più strano del suo scooter. Tutto bianco, sottile, efebico, con grandi ali a decorargli le spalle e un cerchio giallo dietro la testa. Teneva in mano una specie di telecomando sul quale pigiava dei tasti in continuazione. «Niente. Nemmeno ci provano. Per quanto glielo si dica che il problema sono loro, non ne vogliono sapere di cambiare. Miracolo che non mi abbiano fatto a pezzi, come le volte precedenti.» «Missione fallita, allora.» «Cazzo, sì, fallita… anzi, sbrighiamoci a allontanarci. La schermatura gravitazionale che impedisce alla luna extrasolare in avvicinamento di produrre i suoi devastanti effetti sta per essere tolta. Rischiamo brutto a indugiare da queste parti.» Infatti già sullo sfondo nero del cielo un grande disco giallastro cominciava ad apparire. Un disco minaccioso e incombente. Con il suo apparire un vento vorticoso, un vento strano, che muoveva l’aria verso l’alto, non in orizzontale, prese a spirare. Il nuovo venuto pigiò un ultimo tasto sul telecomando. Lo scooter si sollevò immantinente nell’aria. Salì leggero e silenzioso, come leggero e silenzioso era sceso. Salì e salì, finché scomparve alla vista. Niente male. Non c’era più nessuno in grado di vedere. <
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THE DARK VAN GOGH
di ©ISIS SOUSA
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2, LAMARTINE PLACE
di ANDREA CARTA
«P
iù piano.» Guardo stupito il mio compagno, inconsapevole della velocità che sto tenendo, una volta raggiunta finalmente l’autostrada. Tuttavia rallento, impercettibilmente; e poi rallento ancora, finché l’andatura non scende sui 70 orari, e gli sbuffi di fumo tornano a vagare nella macchina, disperdendosi insieme alla tensione. «Vincent, così non arriveremo certo in serata.» Ma l’uomo dai capelli rossi e dagli zigomi sporgenti non ri-
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sponde subito, la pipa in mano e lo sguardo ora perso nei campi che si stendono a Sud di Parigi; campi di un colore giallo intenso che tuttavia mal contrastano con un cielo caldo e lattiginoso. Sarà blu, il cielo della Provenza? «Vincent, non credo che potremo arrivare prima di domani pomeriggio.» «E importa?» risponde il mio compagno, nel suo fiammingo ormai ricco di inflessioni francesi. «Non ti sembra strano avere fretta, quando si ha potere sul tempo?» Sì, lo trovo strano; ma una certa inquietudine mi spinge a correre verso Arles, quasi sia io quello che desidera tornare a rivedere il Rodano con i suoi ponti e le sue barche… Ma posso davvero trovare strano qualcosa? Io, che mi trovo in macchina con un uomo diverso da tutti gli altri? Mi giro verso di lui, e ancora una volta la vista del suo orecchio, tagliato per metà, mi riporta all’interno del mio sogno…
*
Auvers, 27 Luglio 1890 Non sono poi così vicino al fiume, ma l’umidità, con questo caldo, è ugualmente insopportabile. È molto che sto seguendo Vincent, avanzando a fatica attraverso i campi di grano. Campi non certo sterminati; ma il sole, il silenzio rotto solo dall’orrendo gracchiare dei corvi, rendono tutto più difficile. Quanto manca al tramonto? Poco; poi lo vedo: più vicino, stavolta, col suo cappello di paglia, la sua bisaccia, le sue tele. Osserva una casa colonica, deserta o forse abbandonata del tutto, alla ricerca di un’inquadratura, di un tocco di luce. Ma il sole è sempre più vicino all’orizzonte. Poi entra nella casa, e sento come un brivido salirmi lungo la schiena. Dove può aver trovato la pistola? Non si è mai saputo… Non posso aspettare oltre; raccolgo tutte le mie energie, e lo chiamo a gran voce, pronto allo scontro. Potrò convincerlo? E poi, avrò la forza di usare ancora una volta il cristallo, a neanche un giorno di distanza da quando sono arrivato qui? E infine Vincent mi sente, ed esce dalla casa. Non c’è nessuno scontro, ed è un uomo sereno, in cerca solo di una luce e di un’inquadratura, quello con cui parlo.
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Auxerre è da tempo alle nostre spalle; la E15 si snoda davanti a noi, mentre tutti gli altri veicoli ci superano senza difficoltà… Vado piano, cosa che fa sembrare la strada ancora più interminabile; o forse è rallentato il tempo, in modo che io possa assaporare più a lungo la compagnia dell’uomo dai capelli rossi? Vincent comincia a chiedermi del cristallo, dei miei progetti, dei miei sforzi: ma come spiegare a un uomo del secolo precedente, per di più digiuno di nozioni scientifiche, qualcosa che neanche i nostri migliori scienziati riescono a capire? Il cristallo riposa in una tasca interna della mia giacca; piccolo, ma carico di misteriose radiazioni che solo pochissime persone riescono a percepire e a controllare, riuscendo, anche se con uno sforzo enorme, a viaggiare nel tempo e nello spazio con la sola forza della mente. Io posso farlo; ma nessuno ha veramente capito come e perché, da quando il cristallo è stato ritrovato all’interno di un meteorite, anni fa. Perché proprio io? Perché ho voluto riportare Vincent nel nostro mondo? La mia ammirazione per lui non basta, né la voglia di sapere qualcosa di più della sua fine misteriosa; e tantomeno l’idea di sperimentare il potere del cristallo o andare alla ricerca di qualche paradosso. Tutte queste cose insieme, certo. Ma un vero motivo non esiste; passando per Auvers, ieri, sono stato sulla sua tomba, e ho sentito di doverlo fare.
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Auvers, 27 Luglio 1890 Vincent fuma, adesso. È questo l’uomo che tutti considerano pazzo? L’uomo che è venuto qui solo perché un medico ha garantito al fratello di poterlo curare? Forse lo è davvero, se accetta tranquillamente quello che gli dico, il discorso che ho preparato con tanta cura… Non è forse vero che verrà un giorno in cui lui non sarà più considerato un povero demente che cerca di sbarcare il lunario, campando delle elemosine del fratello? Sarà invece considerato un genio, il più grande pittore olandese dopo Rembrandt… Ma qualcosa in quello che dico mi suona artificioso; Vincent non ha bisogno di essere convinto, inesplicabilmente; e dietro il fumo della sua pipa non sembra neanche curioso di quello che potrà aspettarlo nel mio mondo; è un uomo che ha già deciso di
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accettare il suo destino, e il suo destino sono io, adesso. Sorrido senza sapere il perché, e la mia mano si chiude sul cristallo.
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Col tramonto inizio a sentire la stanchezza: non solo sto guidando da molte ore, ma ho scoperto che andare piano può essere più faticoso che correre, come sono abituato a fare… Comunque Lione è vicina: usciamo dalla E15 allo svincolo di Villefranche, e dopo pochi chilometri ci fermiamo davanti a un albergo dall’aria tranquilla. Quello che mi stupisce, in Vincent, è la sua sicurezza: sembra a suo agio anche in un albergo moderno, dotato di ogni comfort, lui, che non solo è un estraneo nel nostro mondo, ma ha condotto, finora, un’esistenza stentata, quasi miserabile, vissuta tra prostitute, locande malfamate e locali fumosi. Gli interessa davvero questo mondo? O è il suo genio che gli permette di sentirsene così distaccato? E tuttavia, dopo che ad Auvers abbiamo parlato per tutta la sera precedente e parte della notte; dopo aver visto le rive dell’Oise, e aver girato per le strade quasi deserte di Pontoise; dopo aver bevuto e mangiato insieme… Vincent è voluto tornare ad Arles; non c’è un motivo, né una risposta, ed io sono qui, guidando l’automobile in una discesa verso sud che sembra non aver mai fine. Ceniamo; Vincent consulta il menù e approfitta della mia ospitalità ordinando una ricca cena, annaffiata da una buona dose di Beaujolais: scopro in lui anche un intenditore di vini, e la nostra conversazione prende una piega particolarmente piacevole. Poi l’incanto si rompe; nell’angolo semibuio in cui io e lui continuiamo la nostra discussione si materializzano due persone; e solo allora torna alla mia mente, come un’eco lontana, il rumore delle portiere sbattute, di un motore spento… qualcuno ci ha trovato. Non sono giornalisti, e neanche francesi. Sono due Giapponesi, vestiti con eleganza, e non privi di cortesia, visto che aspettano il mio cenno per sedersi al nostro tavolo. Vincent li guarda con aria interrogativa, mentre io sfodero un sogghigno, pregustando la scena; poco importa, in fondo, come siano riusciti a trovarci. Probabilmente ci seguono da Parigi. Il più basso dei due parla fiammingo, e parla anche a nome dell’altro; ci spiega che il suo compagno è un pezzo grosso, molto
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grosso, di una casa automobilistica giapponese, una delle più importanti al mondo, e si dilunga a descrivere l’importanza che l’arte europea ha nel suo paese, e così pure la musica e la letteratura. Quando finalmente cambia tono, fuori si è fatto buio. «Il suo ritorno in quest’epoca, Vincent, è un evento straordinario, un miracolo per l’umanità. Pensi al bene che potrà essere fatto attraverso le sue opere, all’immenso valore che acquisteranno i suoi quadri, passati e futuri!» Forse Vincent comprende, se interpreto bene lo sguardo fuggevole che mi lancia; le volute di fumo della sua pipa si fanno più intense. «Vorremmo che il suo primo quadro fosse per noi, Vincent; uno dei suoi bellissimi autoritratti. La pagheremo molto bene.» «Quanto bene?» Ma sono io a fare la domanda, troppo curioso di vedere fin dove i ricchi uomini d’affari giapponesi vogliono e possono arrivare; Vincent rimane in silenzio. «Sappiamo che tale quadro avrà grande valore. Noi vogliamo pagare un prezzo adeguato a un’opera unica, immortale.» «Ma quanto? Quanti franchi? Anzi, quanto oro? A Vincent serve una cifra che abbia valore anche per la sua epoca.» I Giapponesi discutono fra di loro; il più basso estrae una calcolatrice e senza smettere di parlare compie una sterminata serie di conti. «Quattrocento milioni di franchi. Molto oro. Sei tonnellate di oro, circa.» Vincent strabuzza gli occhi, perdendo la sua impassibilità; io sogghigno nuovamente. Neanche tantissimo, penso. «Ti avevo pur detto che eri molto famoso» mi lascio scappare. I due Giapponesi fissano Vincent, aspettando una risposta; ma dopo un po’ il pittore si alza, e senza una parola si avvia verso la nostra camera. Passandomi accanto mormora “ci devo pensare”, e sono le uniche parole che gli sentirò pronunciare al riguardo. Liquido a fatica i Giapponesi, visibilmente insoddisfatti, con numerose promesse di farmi vivo e di intercedere presso Vincent per fare avere a loro, prima di ogni altro concorrente, il suo primo quadro. Poi raggiungo Vincent di sopra. Tutti e due fatichiamo ad addormentarci. Facciamo colazione, il mattino dopo; la scena grottesca della sera precedente sembra dimenticata, cacciata via dalla luce del giorno e dalle ombre dei grandi pini sulla strada; più volte Vincent
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si alza dal tavolo, spiando lo scorcio di campagna che si stende fuori del locale. Ma poi un’altra macchina, ancora più grossa di quella dei due Giapponesi, si ferma davanti all’albergo; e altre due persone ne scendono, dirigendosi al nostro tavolo. Americani, senza dubbio; entrambi parlano fiammingo, ma il loro accento è così orribile che basta sentirli parlare perché la colazione ci vada di traverso. Tuttavia li ascoltiamo. Sono inviati di una famosa software house americana, e si stenta a credere, vedendo i loro abiti, che capiscano qualcosa di pittura; anzi, che capiscano qualcosa di qualunque argomento che non riguardi i soldi. Dopo molte scuse, uno dei due, che si qualifica come ‘il numero 3’ della sua ditta, decide di venire al sodo; è meno cerimonioso dei Giapponesi, ma non per questo meno odioso. «Vincent, sappiamo che lei ha già ricevuto delle offerte per il suo primo quadro. Delle offerte ridicole, che non tengono conto della sua fama e della sua genialità.» Mi chiedo quanto offriranno, mentre Vincent tenta di accendere la sua pipa, ormai conscio dell’impossibilità di finire la colazione. «Come si può commissionare qualcosa a un genio come lei, Vincent? Noi vogliamo solo che lei dipinga un quadro per noi, un quadro qualsiasi; fiori, sedie, ritratti, va tutto bene; purché ci sia la sua firma.» Una pausa. Vincent fissa in silenzio l’interlocutore; ma è l’altro che riprende a parlare. «Seicento milioni di franchi ci sembrano una ricompensa adeguata al suo genio.» Stavolta sono io a chinarmi verso Vincent, e a mormorare: «Nove tonnellate di oro… forse dovrei invidiarti!» Ma l’uomo dai capelli rossi non sembra immerso in qualche calcolo; le sue ciglia aggrottate tradiscono piuttosto il disagio che un uomo come lui, abituato a barattare, più che a vendere, i suoi quadri, prova a sentirsi offrire cifre simili. Liquidiamo non senza fatica, e con vaghe promesse, i due Americani, e riusciamo a riprendere il nostro viaggio verso sud. Apparentemente non siamo seguiti. Non lontano da Valence il paesaggio si addolcisce; alla nostra destra si intravedono i monti del Vivarais, e talvolta l’autostrada taglia per i boschi che fiancheggiano il Rodano. Vincent si rasse-
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rena, e ancora una volta cerco di fargli capire l’importanza che la sua pittura ha avuto nel nostro secolo; ma la cosa non sembra facile: stranamente, sembra quasi più semplice fargli accettare la realtà che lo circonda, una realtà basata su automobili e su alberghi incredibilmente confortevoli, piuttosto che la fama, anzi, la leggenda che circonda il suo nome. «Dopo le offerte di queste ultime ore» insisto, «i critici rivedranno i loro giudizi: non il più grande dopo Rembrandt, come ti avevo detto, ma il più grande in assoluto! E forse non solo in Olanda.» Vincent scuote la testa; non è convinto. Mi accaloro, ricordandogli la vertiginosa quotazione raggiunta dal suo dottor Gachet qualche anno prima: ma l’uomo dai capelli rossi resta dell’idea che ben altro valore abbiano i quadri custoditi nei musei. Come paragonare quel ritratto senza pretese, schizzato via solo perché nessun altro era disposto a farsi ritrarre da lui, ad opere studiate in ogni dettaglio, a quadri che potrebbero avere richiesto mesi di lavoro? Rimango sconcertato; dov’è finita l’identificazione tra vita e arte tipica di Vincent? Lui che non apprezzava Raffaello sembra rivalutarlo, adesso. «Fai le cose troppo facili» mi sento dire, tra gli sbuffi di fumo. «Non essere troppo modesto» gli ribatto; ma forse Vincent non ha torto, e io mi sto dimenticando dei tanti, troppi quadri che non gli piacevano… i suoi quadri, intendo; la sua modestia, la sua insoddisfazione non sono poi una novità. Ma allora, che cosa mai avrebbe potuto dipingere, se solo avesse avuto i mezzi e la tranquillità che andava cercando? Che cosa mai offrirà ai Giapponesi, o agli Americani, ora che tutto questo è possibile? La discussione continua ancora, quando usciamo dall’autostrada e ci fermiamo a pranzare in un ristorante vicino Orange. Sto studiando brevemente la cartina, in cerca della strada più breve per arrivare finalmente ad Arles, quando mi accorgo che la matita con cui sto segnando i chilometri che mancano è sparita. Guardo Vincent; l’ha presa lui, e sta disegnando su un tovagliolo di carta che non ha usato. Trattenendo il respiro, mi sporgo e lo osservo: sul tovagliolo sta prendendo forma un angolo del ristorante coi tavolini vuoti e i vasi di fiori davanti alle finestre; e quello che ad altri potrebbe sembrare uno schizzo senza valore si trasfigura ai miei occhi, di-
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ventando un momento indimenticabile della mia vita, un istante di tempo congelato da un incantesimo. Ma anche questo incantesimo si rompe; il disegno non è ancora finito che sentiamo qualcuno avvicinarsi al nostro tavolo. Sono i due Giapponesi. Li fissiamo senza una parola, senza chiederci da dove siano arrivati, né se ci abbiamo seguiti o abbiano saputo degli Americani. Lo hanno saputo, comunque; dopo un’infinità di scuse per averci interrotto, quello che parla fiammingo assume un’aria costernata e triste, e, fissando Vincent negli occhi, comincia la sua litania: «Siamo stati molto ingiusti con lei, Vincent, ieri sera. Ce ne vergogniamo molto, e vorremmo pregarla di scordare le nostre parole. Noi apprezziamo l’arte sopra ogni altra cosa, e quella di un genio come lei non ha valore, non ha prezzo: commissionarle un quadro, come se lei fosse un pittore qualsiasi, e ad un prezzo irrisorio, è una colpa troppo grave per poter essere perdonata.» Sbuffo. Ricordavo che il Giapponese era cerimonioso, ma il fastidio che provo supera ogni mia aspettativa. Gli lancio un’occhiataccia, mentre Vincent, con aria rassegnata, cerca di accendere la pipa. «Un quadro qualsiasi, il soggetto che più le piace. E raddoppiamo la nostra offerta: ottocento milioni di franchi, di cui metà nel giro di pochi giorni.» Vincent smette di armeggiare con la pipa. «Sono dodici tonnellate di oro, e le abbiamo portato un anticipo, per cercare di farci perdonare la nostra scortesia di ieri sera.» L’altro Giapponese trascina con fatica davanti alla sedia di Vincent una valigia pesantissima, e la apre con qualche cautela. Mi ritrovo a fissare esterrefatto alcune decine di lingotti d’oro. Ce ne saranno per almeno 30 chili. La pipa si piega tra le dita di Vincent. La valigia si richiude. Ma prima che qualcuno di noi possa parlare, anzi, prima che io faccia in tempo a chiedermi come abbiano fatto i due Giapponesi a trovare tanto oro nell’arco della mattinata, compaiono anche i due Americani. Ormai è evidente che ci stanno seguendo, e che si controllano fra di loro; ma comunque stiano le cose cominciano a volare parole grosse; in inglese, in giapponese, persino in francese… finché non alzo la voce a mia volta, costringendo tutti a un attimo di
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silenzio. Gli Americani si siedono al nostro tavolo, e la solita scena ricomincia. «Vincent, non si faccia ingannare da offerte da capogiro. Pensa davvero che tutti sappiano apprezzare la sua arte? Noi crediamo di avere le carte in regola: prenda pure informazioni… il suo quadro non è certo la prima opera d’arte a cui il nostro gruppo si è interessato. Tutti lo sanno! E se ancora non è convinto, pensi che possiamo offrirle un miliardo di franchi.» Vincent strabuzza gli occhi; la pipa quasi gli cade di mano. Nel breve silenzio che segue, riesce a chinarsi verso di me, e a mormorare: «Un miliardo di franchi… potrei comprare tutta Arles, con questa cifra.» Allargo le braccia. Ma poi i Giapponesi reagiscono; il più piccolo, pallido ma deciso, ribatte: «Tutte storie. Dove sono questi soldi? Noi abbiamo l’oro, Vincent» e il suo compagno scuote l’enorme valigia, «ed è tutto suo, senza impegno: si fida dell’oro o delle parole?» Gli Americani sembrano accusare il colpo; ma quasi subito una valigia compare anche nelle mani di uno di loro, mentre l’altro replica: «Se è l’oro che cerca, abbiamo un dono per lei: e non un dono qualsiasi, ma un segno tangibile di quanto il nostro gruppo apprezzi davvero l’arte, e la sua pittura in particolare.» La valigia si apre; e ci ritroviamo a guardare una tavolozza da pittore in oro massiccio, con inciso il profilo di Vincent: vi sono infilati quattro pennelli, tempestati di pietre preziose al punto da sembrare scolpiti da qualche enorme diamante. Un oggetto di un valore incredibile: non riesco a credere che gli Americani siano riusciti a farlo costruire in meno di 2 giorni! Perfino i Giapponesi sembrano impressionati, mentre io e Vincent ammiriamo il ‘dono’, più sconcertati che convinti… Ma poi, il Giapponese che parla fiammingo si china verso il pittore e, con un tono di voce insolitamente serio, replica: «L’oro non è tutto nella vita, Vincent; lei lo sa bene. La sua vita è stata un succedersi di delusioni, anche sentimentali. Ma ora è diverso, e quello che noi possiamo offrirle è più prezioso di qualsiasi oggetto d’oro.» No, non serio. Disperato, piuttosto. Tutti siamo girati verso di lui. «La figlia del nostro imperatore vuole la sua mano, Vincent; ed è solo la più nobile delle principesse che aspirano a questo onore.
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Non la deluda mostrandosi troppo avido! Le faccia vedere che per lei conta di più chi sa apprezzare realmente la sua arte.» «Bum!» Non riesco a trattenermi. Cosa può saperne, uno squallido uomo d’affari giapponese, della figlia dell’imperatore? E poi mi sembra che l’imperatore del Giappone abbia solo figli maschi. Pensare che, se fossero meno ignoranti, saprebbero che altre erano le cose che Vincent apprezzava, del Giappone, e che in fondo, per lui, le donne non erano così importanti come credono. Vincent, stravolto, guarda i due Giapponesi come se non capisse quello che stanno dicendo; ed io, deciso a mettere a nudo la loro ignoranza, mi accingo a verificare la fondatezza delle loro affermazioni, quando gli Americani si accorgono, all’improvviso, del disegno sul tovagliolo. Uno di loro vi allunga una mano sopra, e con l’altra estrae il libretto degli assegni. «Un milione di franchi!» urla senza ritegno. I Giapponesi vedono a loro volta il disegno, ed entrambi estraggono i loro libretti; il più alto cerca anche di impadronirsi del tovagliolo. «Due milioni!» replica il più basso. «Tre milioni!» urla di nuovo l’Americano; il suo collega grida a sua volta qualcosa in inglese, chiaramente incollerito. «Mine! It’s mine!»1 urla fuori di sé il primo, guardando con odio tutti gli altri. Mi rendo conto che ognuno dei quattro affaristi sta correndo per sé, ora, e non più per la sua ditta; la situazione si va facendo spiacevole. Altri clienti del ristorante si avvicinano, attirati dalla lite; Vincent fa per allontanarsi dal tavolo, mentre i Giapponesi afferrano il tovagliolo e cercano di strapparlo dalle mani dell’Americano. Volano insulti in più lingue, spintoni; un bicchiere cade a terra e si rompe. Infine il tovagliolo si lacera in più pezzi. Io e Vincent ci alziamo, mentre i quattro uomini d’affari si contendono i frammenti del tovagliolo, sotto gli sguardi esterrefatti di una ventina di persone. «Signori» dico, ormai disgustato, «spero non vi dispiacerà pagare il nostro conto in cambio del disegno di Vincent. Noi abbiamo fretta: non seguiteci più.» Ma la lotta intorno ai pezzi del tovagliolo è troppo cruenta perché ci diano veramente retta. Ce ne andiamo. 1 «Mio! È mio!»
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Siamo entrambi turbati; Vincent non fuma più, pensoso. Mi lascio Orange alle spalle, e rifletto. Una vita di stenti, di delusioni; un solo quadro venduto, e ad un prezzo irrisorio; e ora il mondo si contende le sue opere future. Questo dovrebbe, evidentemente, rendere felice l’uomo dai capelli rossi che mi siede accanto. Ma così non è. Possibile che io mi sia sbagliato? Non era questo, non era la fama, il successo, l’attenzione della gente che Vincent aveva sempre desiderato? Eppure rimane in silenzio, chiaramente turbato da quanto è accaduto; nel corso di questa ultima, assurda disputa, l’ho visto addirittura sconvolto, e più di una volta. Vincent non sembra accettare pacificamente il fatto di essere considerato un grande artista; eppure gliene ho parlato a lungo. Cerco di entrare in argomento, di farlo in modo scherzoso. «Pensa a quando dipingerai con quella tavolozza tutta d’oro: non è che ti monterai la testa?» Vincent parla senza guardarmi. «Pesa troppo. Non serve a niente.» Rimango un attimo sconcertato; poi mi rendo conto, all’improvviso, di avere sbagliato strada: nell’agitazione seguita al pranzo ho continuato verso Marsiglia, sull’autostrada, invece di deviare verso Nimes e Tarascon, come era nei miei piani. Penso di uscire a Cavallon; ma questo ci porterebbe a passare per Saint Remy, e non so se a Vincent piacerebbe rivedere il manicomio dove è rimasto un anno intero. Devo arrivare fino a Salon; e finalmente esco dall’autostrada, prendendo la statale 113. In meno di un’ora siamo ad Arles, sull’avenue Victor Hugo, e infine ci fermiamo sul Boulevard des Lices, a ridosso del centro storico. Questa è Arles: la Rue Jean Joures, Place de la Republique. Le case sono quelle di un secolo fa, e mentre camminiamo cerco di convincere Vincent che nulla è cambiato. Penso al caos di Parigi, di Lione, della vicina Marsiglia, e non posso fare a meno di pensare che forse è proprio Arles la città che meno ha risentito del trascorrere degli anni. Ma Vincent guarda le automobili tutte intorno a noi, e scuote la testa. I semafori guidano i nostri passi; e i pedoni hanno fretta. Di fronte alla cattedrale di Saint Trophime ricordo a Vincent il suo antico progetto di fondare ad Arles un grande atelier, un centro di pittura: magica idea, di cui il suo sodalizio con Gauguin
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era solo l’inizio. La sua mano si avvicina all’orecchio… il suo sguardo contempla i caffè che si affacciano su Place de la Republique, di fronte alla cattedrale. «Vedi i caffè?» mi fa. Annuisco. «Nessuno viene più a parlare, nei caffè. E le strade non sono più un luogo di ritrovo, ma solo un mezzo per spostarsi, per curare meglio i propri affari.» E improvvisamente mi rendo conto che la città, che a me sembrava inalterata attraverso gli anni, è solo un ritrovo di turisti… e di automobili. «Tutte le tonnellate di oro che mi offrono sarebbero bastate una volta; e di Arles avrei fatto un’altra Parigi. Ma oggi non troverai più pittori; solo musei e gente che guarda i nostri quadri.» Ci allontaniamo dalla folla vociante che osserva il portale romanico di Saint Trophime; qualcosa dentro di me fa male, qualcosa che non riesco ad afferrare, e che va oltre le parole di Vincent. Vincent, che è qui da soli due giorni, ma ha già compreso più di quello che io potevo insegnargli, mentre io di lui ho capito ben poco. Giriamo a destra, in Rue de la Cabale; non sono più io a mostrare la città a Vincent, ma è lui che ripercorre i luoghi portandosi dietro me. Sento che sta cercando qualcosa; ma sento anche che, qualunque cosa sia, non è alla sua portata. Ho uno sgradevole presentimento. Alla fine della strada vediamo il teatro romano, alla nostra destra; un piccolo giardino, in un angolo accanto al monumento, è affollato di gente, di bambini che giocano; e di turisti, naturalmente. Vincent ed io attraversiamo il giardino, passando da un albero all’altro; all’ombra di un grande salice, una vecchia signora in una sedia a rotelle sta riposando, il capo reclinato da un lato. Accanto a lei, su una panchina, una donna, probabilmente un’infermiera, legge in silenzio un giornale. Intanto la terribile consapevolezza di vivere in un mondo in decadenza, ormai privo di veri artisti, si fa strada dentro di me, a dispetto dei miei sforzi per negarla; invano vorrei convincere Vincent che i pittori esistono ancora; che anche lui ha guardato i quadri nei musei, ai suoi tempi, senza per questo perdere la sua creatività, anzi, imparando moltissimo. Ma poi mi accorgo di essere solo. Sono appena passato davanti
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all’infermiera, e mi giro: Vincent è fermo di fronte alla vecchia signora, e la guarda in silenzio. Lei apre gli occhi; lentamente la sua testa si solleva, il suo sguardo incontra quello dell’uomo davanti a lei; un braccio si alza fino a sfiorarne la guancia, su cui comincia a farsi vedere un po’ di barba… «Monsieur… Vincent…» Un sussurro appena percettibile, ma chiaro. L’infermiera sobbalza, guarda prima Vincent, poi me. «Vous… n’avez pas… changé.»2 La mano di Vincent va a sfiorare quella della vecchia signora; e poi i suoi occhi si riempiono di lacrime. «Mademoiselle Jeanne…» L’infermiera, confusa, mi guarda ancora, parla a bassa voce: «Monsieur! Cela faisait des mois qu’elle ne parlait pas!»3 Ma la vecchia signora non bada a noi. «Les toiles… vous ont plu?»4 Mi rendo conto che è molto più vecchia di quanto sembri; e un pensiero emerge dai miei ricordi… Vincent si china verso di lei, ed anche la sua voce è un sussurro. «Elles etaient magnifiques, mademoiselle.»5 Le sue labbra sfiorano appena i capelli di lei, bianchissimi. «Adieu.» Ho capito chi è, adesso; e anche i miei occhi si riempiono di lacrime, mentre mi chiedo inutilmente come abbia fatto Vincent a riconoscerla, dopo più di un secolo. In silenzio, ci allontaniamo; e tutto torna come prima, nel giardino. Ma non così dentro di noi; nessuno parla più, mentre i nostri passi ci portano lontano dal teatro, e poi intorno all’anfiteatro, immenso e pieno di turisti. Come ogni giorno. Sempre in silenzio, percorriamo la Rue Voltaire, poi, dopo l’omonima piazza, la Rue de la Cavalerie. Vincent cammina, lo sguardo triste e fisso in avanti. Il nostro non è il silenzio di due persone che hanno poco da dirsi; è l’abisso che separa due secoli, un abisso diventato visibile solo ora, dopo l’apparizione, nei giardini, dell’ultimo filo che li unisce… Poi raggiungiamo la Porte de la Cavalerie, e al di là la grande Place de la Liberation; passando a fatica tra la marea di automobili che vi girano intorno arriviamo oltre, in Place Lamartine. Sento il rumore di un treno, non lontano: la ferrovia è sempre
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2 «Voi…non siete… cambiato.» 3 «Signore! Erano mesi che non parlava!» 4 «Le tele… vi sono piaciute?» 5 «Erano magnifiche, signorina.»
lì… ma la casa gialla non esiste più, distrutta durante la guerra; al suo posto si alza un palazzo moderno, una mostruosità agli occhi di Vincent, che ha fatto tanto per ritrovare la casa alla quale più era affezionato, la casa in cui visse con Gauguin, per due brevi mesi… Ma è passato più di un secolo, e la casa è scomparsa, come tutte le cose di un mondo che a Vincent aveva ispirato i suoi capolavori, e oggi sa offrirgli solamente tonnellate di oro. Non c’è mai stato oro nei suoi quadri. L’uomo di un altro secolo si ferma davanti al numero 2, al suo numero 2. Le sue mani corrono lungo il muro di cemento. Poi si gira, schiena all’edificio, e mi sorride; parla di nuovo, ed io ho un sussulto nel risentire quella voce, quell’accento che non appartiene più a me, ma solo a una vecchia signora che riposa non lontano… «Ramène moi.»6 Non dico nulla; senza stupirmi del mio gesto, trovo il cristallo, e cerco di concentrarmi. Ancora una volta, Vincent tira fuori la pipa, e la carica. Senza guardarmi, parla ancora. «C’est elle, la seule chose de mon temps. Je l’ai reconnue pour ça.»7 Le sue parole sono quello che ancora mi mancava; la mia mente si fa chiara, e l’immagine dei campi di grano di Auvers torna con una forza inaspettata. Poi il cristallo si accende; ancora una volta una luce intensissima se ne sprigiona, per una piccolissima frazione di secondo, mentre lo spaziotempo intorno a Vincent viene annichilito. Sento le forze mancarmi. Barcollo, cercando di appoggiarmi a mia volta al muro davanti a me, dove non c’è più nessuno.
*
Da L’Echo Pontoisien, piccolo settimanale di Pontoise, vicino Parigi, del 7 Agosto 1890 “Auvers-sur-Oise - Domenica 27 Luglio, un certo Van Gogh, di 37 anni, olandese, pittore, di passaggio ad Auvers, si è sparato un colpo di pistola nei campi, ed essendo rimasto solo ferito è tornato nel suo alloggio dove è morto due giorni dopo.”
*
Il lampo del cristallo ha attirato gente; corrono verso di me. Mi accascio per terra, senza più forze, e senza più pensieri, e piango. < 6 «Riportami.» 7 «È lei, l'unica cosa dei miei tempi. L'ho riconosciuta per questo.»
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MINOTAUR (particolare)
di ©PIOTR SZOT piotrszot.com
LA MECCANICA
DELL’AMBARADÀN di FABIO LASTRUCCI
1.
Sospetto. Non c’era altro aggettivo che definisse meglio Marcantonio Virzo nei suoi spostamenti all’interno del palazzo. Poteva essere l’aria furtiva del ferroviere in pensione o la cupidigia con cui covava il proprio carico. Il pianerottolo della scala D lo vide arrivare di soppiatto come uno Zorro sovrappeso. Alla sua bussata convenzionale – due colpi rapidi/pausa/tre colpi rapidi – la porta della vedova Scialoja si aprì. Fu sufficiente uno sguardo. La signora fissò il contenuto delle braccia di Virzo, poi arrossì. «Benedetto uomo, vuol farsi vedere da tutti?! Entri subito.» Virzo sghignazzò affondando il doppio mento nel triplo e con agilità impensabile si tuffò nell’appartamento immacolato della vicina. Dieci minuti dopo, il ferroviere usciva dalla casa con un oggetto tra le mani. Lo teneva sotto al naso, da buon miope, per control-
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larne al meglio forma, qualità, stato di conservazione. «Ah, beh, beh… adesso voglio vedere la faccia che farà l’Alfredo…» Entrato nell’ascensore centrale, aspettò che le porte si chiudessero e che la luce di servizio fosse spenta per premere il minuscolo pulsante in cima alla sorpresina appena conquistata. Tah! Una debolissima luce si accese nel piccolo lampione-giocattolo. Funzionava. L’uomo spalancò un sorriso enorme e baciò il gadget, felice. Adesso, dopo uno scambio lungamente negoziato, poteva sostituire il suo pezzo ormai scarico della serie ‘I Lampionotti’. L’ascensore raggiunse il piano terra, infilandosi in fondo all’ex-cisterna sepolta dietro il cortile dove confluivano i due corpi di fabbrica del condominio gigantesco. Quel lungo budello incassato nelle viscere del palazzo aveva sempre messo claustrofobia agli inquilini, ma solo così, evitando le scale, Virzo avrebbe potuto sorprendere l’Alfredo nella sua guardiola. Sarebbe apparso di colpo al portiere, sventolandogli la preda sotto il naso con la cattiveria del vincitore. Era ora. Da mesi aveva riempito la casa di ovetti di cioccolata e i suoi scaffali crollavano sotto il peso dei doppioni delle sorpresine. Percorrendo il primo tratto del passaggio, quello in pendenza, Virzo era troppo occupato a organizzare una campagna di commerci per notare la chiazza di liquido scuro che si stava allungando sul pavimento verso di lui. Scivolò e perse l’equilibrio cadendo a pancia in su. Per la sorpresa il Lampionotto gli sfuggì di mano, ma gli passò subito la voglia di mettersi a cercarlo. C’era un corpo straziato poco più avanti, l’ex contenitore di tutto quel sangue. Virzo, agghiacciato, lo riconobbe. «Alfredo! Oh, sacripante, Alfredo, cosa l’è successo? Risponda!» Il corpo era ancora caldo ma sembrava poco propenso alla conversazione. Come il ferroviere si avvicinò per provare a sollevargli la testa, Alfredo ebbe un sussulto. Spalancò gli occhi con le pupille perse nel vuoto. «Calmo, stia calmo, per carità, ora chiamo aiuto, la cureranno, sa…?» fece Virzo, per niente convinto di quel che diceva. Il portiere gonfiò le gote. Tremava. Faticosamente sollevò verso il viso dell’altro la mano destra con tre dita piegate. Stava facendo le corna.
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2.
Quando alla Mercury arrivava un pacco da recapitare nel ‘Trappolone’, c’era un entusiasmo meno che freddo nel gruppetto dei pony express dell’agenzia. Il Palazzo Manfredini non era chiamato Trappolone a caso. Quei due enormi edifici di circa 260 nuclei abitativi collegati da intrecci di scale, rampe e corridoi infiniti, mettevano in fuga qualunque fattorino. A questo si aggiungeva poi la presenza di un solo ascensore, inaccessibile quanto Shangri-la, installato chissà dove stuprando la storica struttura settecentesca. Tutti eccellenti argomenti per evitarlo. Di solito, il consolidato nonnismo dei dipendenti anziani faceva sì che venisse mandato il pony più giovane e sprovveduto. Non sempre però c’era carne fresca da sacrificare e quando tutti erano occupati poteva toccare di occuparsene persino a veterani come Gino. In questi casi lui tendeva a mugugnare, poi espletate le cerimonie di rito – come mostrare il dito medio ai capi e prendere a calci il distributore del caffè – abbozzava. Volevano un lavoro ben fatto? L’avrebbero avuto. La filosofia di Gino prevedeva consegna rapida, mancia rapidissima e provocazione del massimo disturbo in mezzo alle due operazioni. In questo intento si aiutava con una buona conoscenza del palazzo e l’abitudine di portarsi dietro uno skate i cui cuscinetti riecheggiavano tra le altissime pareti dei vestiboli. L’avrebbe fatto anche questa volta, fedele alla sua linea di condotta, appena addentrato nei meandri del Palazzo Manfredini. La consegna che gli avevano appioppato era veramente squallida. Un pacchettino quadrato, piatto, forse contenente vecchi vinili, da recapitare a un tale G. Pezzullo, residente nell’ala nord del Trappolone. Non ci avrebbe rimediato granché, inoltre l’enorme portone d’ingresso era chiuso e il citofono non funzionava. Grazie all’uscita frettolosa di un’inquilina, Gino era riuscito a entrare col suo plico. In guardiola mancava il portiere. Meglio. Sarebbe potuto andare dove voleva, sempre che si fosse ricordato dove si trovasse l’ascensore. Rappando versi ad alto contenuto osceno, si mise alla sua ricerca. Superati i box auto, le cantine e una porta molto antica, solitamente serrata su seminterrati sconosciuti, ritrovò un corridoio che conosceva. Era stretto, lungo, soffocante, illuminato da qualche neon pendulo pieno di ragnatele. Bingo!
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Gino affrontò a pieni polmoni l’ultima strofa della composizione. Col pacchetto sulla testa, stava rimando un parallelismo tra il faro di Porto Empedocle e i propri attributi personali, quando si accorse del problema. «Cazzarola!» farfugliò vedendo il cadavere. L’odiato portiere stava trasformando la stretta galleria che precedeva l’ascensore in una chianca clandestina. Il ragazzo spostò piano il corpo con la punta di una scarpa. Si notavano due squarci paralleli che gli trapassavano il petto. Roba da farci passare dentro un braccio. «Cazz…» abbreviò Gino, con un pressante bisogno di vomitare. Si accorse a malapena che il passaggio di qualcosa stava frapponendosi alla fonte di luce principale. Nel girare la testa alle proprie spalle, i piercing del ragazzo tintinnarono delicatamente, colonna sonora del suo stupore. Per primo gli arrivò l’odore. Un denso aroma selvatico, fatto di muschio e paglia vecchia, carne frollata e ferro. I polmoni se ne riempirono. Di tutto il corpo in arrivo, vide per primo il petto. Era nudo e nero, o più esattamente, grigiastro. Una fitta peluria ispida lo copriva, dal perizoma lacero alle spalle. Da lì partiva un pilastro di carne e pelliccia. Il gigantesco collo di un toro culminante con una testa regolarmente cornuta. Una testa enorme. Furiosa. Dalle protuberanze bagnate di liquido rosso. Gino rimase immerso in un tempo dilatato a fissare con meraviglia il naso della creatura attraversato da un anello. Scese con lo sguardo verso la bocca semiaperta. Denti gialli, regolari, lasciavano pendere minuscole goccioline di saliva spinte in basso dall’alito caldo. Le braccia del mostro, possenti e tese, si erano sollevate verso il soffitto. Ottimo momento per urlare. Gino gridò. La creatura gridò anche lei, più forte. Entrambi gridarono, poi subito dopo lei abbassò la testona e caricò, menando con le corna un affondo da destra a sinistra. Più che la prontezza di spirito, furono le suole lisce delle Converse da basket a salvare Gino, che scivolò all’indietro e riprese l’equilibrio un passo più dietro. Mentre l’altro s’inchiodava nell’intonaco grezzo del muro, saltò disperato la carcassa di Alfredo. Il corridoio cieco lo costringeva a correre in una sola dire-
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zione. La cabina dell’ascensore. Lì probabilmente sarebbe morto, glielo diceva una voce nella mente che con freddezza contabile spiegava: “Ora ti becca, Gino. Ti sbuzza. Ti spatascia. Ti sfonda, Gino. Ti scassa.” Dietro, gli ululati del mostro segnalavano la sua posizione. Vicina. Maledettamente vicina. Arrivato in fondo al percorso, il corridoio si era allargato di poco per fare spazio all’incasso dell’ascensore. La luce andava e veniva. Gino, per istinto, si appoggiò con la schiena alla porta, una mano pressata a protezione dell’inguine e una sulla faccia. Gli riempirono il campo visivo le apparizioni di un torso potente, delle sue braccia lunghissime, della testa taurina mugghiante rovesciata all’insù. Si accorse a malapena della porta che si apriva alle spalle. Dall’ascensore, una mano paffuta lo tirò dentro. Corna di toro colpirono ferro. Rumorosamente. Seguì una spirale di buio.
3.
«È bianco… poverello… un cencio…» «Normale. Si è pure bagnato, teh, guardi i jeans!» Le facce andavano e venivano dal soffitto. Due? Tre? Difficile dirlo. Al posto loro, apparvero poi le mani e queste lo schiaffeggiavano, lo scuotevano. Incessantemente. Gino uscì dall’ovattata condizione di shock tirandosi su di scatto. Era terrorizzato. «L’hovistoSantissimaVerginediPompeiquant’éveroIddio!» «Cos’è che dice?» «Boh, io stì ragazzi non li capisco…» fece il ferroviere Virzo, con i vestiti ancora fradici di sangue. «Ce l’avrà con qualcuno. Ce l’hanno sempre con qualcuno…» Il pony express, ormai del tutto lucido, si guardò intorno. Era nell’antisala dello snodo tra le rampe B e C, semisdraiato su di una gradinata. Due signori gli stavano ai fianchi, uno grasso e inzaccherato, l’altro magro, in vestaglia, con un bocchino vuoto tra i denti. Ne afferrò uno a caso per il bavero. «È morto! Il portiere è morto! È stata quella… quella cosa! Scappiamo! Andiamo via da qui!» I due inquilini si scambiarono un’occhiata. «Ma guarda, che bell’idea. Lei ci aveva pensato, ingegnere?»
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«In effetti. Caro giovanotto, la vita è un incubo. Chi non vorrebbe scappare? Peccato che tutte le rampe di scale conducano al cortile e che probabilmente il nostro amico sarà là ad aspettarci.» «Già. Mica è scemo, quello. Grosso, sì, ma non scemo.» «Forse sarebbe il caso di avvisare un po’ di inquilini, Virzo.» «Perché, secondo lei non se ne sono già accorti? Adesso che è scappato, tra un po’ mancherà la corrente, il gas, la linea, tutto, insomma…» La flemma innaturale di quei due rincoglioniti innervosì e confuse Gino. Non era possibile che potessero parlare di un simile casino con così tanta noncuranza. Si alzò in piedi e tirò fuori il cellulare. «Cazzo, io chiamo il 113…» «Fai, fai. Tanto non prende, qui.» Era vero. Dentro quel casermone non arrivava neanche una tacca di campo. Mentre i due seduti sulle scale continuavano a discutere sul da farsi, Gino si precipitò alla porta più vicina. Schiacciò il pulsante del campanello. Non suonava. «Bussa a mano!» bofonchiò l’ingegnere. Il ragazzo massacrò la porta di colpi. Uscì una ragazza sudata che indossava una tuta di ginnastica gialla. «Che c’è?! Che sta succedendo qua?!» «Senti, scusa, c’è un’emergenza… devo fare una telefonata. Presto, siamo tutti in pericolo!» L’aria sconvolta del pony express e la presenza dei due condomini alle spalle convinsero la ragazza a farlo entrare e accompagnarlo in tinello. Lo lasciò davanti un ridondante mobile Cantù che ospitava un cordless lilla. Dopo due tentativi a vuoto Gino si voltò terrorizzato. «Non c’è linea…» «Fa un po’ vedere.» Tuta-gialla gli tolse di mano l’apparecchio, poi provò ad accendere la luce del tinello. Niente. All’ingresso intanto si era affacciata la sagoma massiccia di Virzo. «Che avevo detto io? … ehm… con permesso signorina… datosi che giù è scappato il Minotauro e che si sente un gran fracasso in avvicinamento, io vorrei suggerire di…» «Sta salendo! Porca miseria viene su! Andiamo, veloci, tutti giù per l’altra rampa!» gridò all’improvviso l’ingegnere, stavolta con un’aria più agitata.
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Per un condiviso senso pratico, tutti obbedirono senza discutere. Il cordless cadde per terra. Da una tela appesa sul divano, un vecchietto rubizzo continuava a fissare pensieroso il suo bicchiere di vino vuoto.
4.
La vedova Scialoja era rimasta priva della sua soap quotidiana nel momento in cui Englebert Frost rivelava a Malicia che, avendo scoperto un padre in comune, forse era il caso di disdire le nozze. Il televisore si era spento d’improvviso. Il frigorifero aveva mandato un tremito di agonia e si era fermato. Il fornello aveva abbandonato la cottura millenaria del ragù. Se fosse stata un tipo da bestemmia, l’anziana signora ne avrebbe tirata giù una pesante. Strabuzzò invece gli occhi dietro le lenti fumé, si contenne e alzò le mani al cielo. Il pacchetto di sigarette sul tavolino era finito. Depressa, ne andò a cercare un altro in cucina strascinando le pianelle sul pavimento tirato a cera. In quel momento si accorse anche del gas, o meglio, della sua assenza. «Ma guarda te!» commentò, meravigliata. Rimase un attimo a riflettere soffiando una boccata di fumo mentolato dopo l’altra. «Vuoi vedere che sia… no, impossibile. Andiamo a chiedere di fronte…» La finestra della sua cucina si affacciava verso lo stabile confinante. La spalancò per vedere se la dirimpettaia stesse stendendo i suoi panni. C’era. «Buongiorno signora Mazzei!» «Buongiorno! Come si va?» «Eh, così. Qui è mancata la luce. Da lei per caso c’è?» «Sì.» «E il gas?» «Sì.» «Insomma, funziona tutto regolare.» «Certo. Perché? Da voi, invece ci sono dei…» Nel parlare, la signora Mazzei fu attraversata da un dubbio. «…oddio… problemi?» Restò a bocca spalancata. La richiuse. Si guardò intorno, prudente. «Ma non potrebbe essere che sia… magari… lei mi capisce, signora…» «Eh. Sarebbe molto strano… Alfredo, il nostro portiere, è così
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scrupoloso…» «Sì. Però… se fosse così… lei forse dovrebbe…» Attutito dalla distanza, ma del tutto inequivocabile, uno sparo rimbombò all’interno del palazzo interrompendo la conversazione. La vedova Scialoja, placcò un’imprecazione che le era salita alle labbra e per la seconda volta sollevò con veemenza le mani al cielo. Un’altra detonazione seguì la precedente a distanza ravvicinata, poi tornò il silenzio. Entrambe le donne si guardarono scuotendo gravemente la testa.
5.
Un mugghiare rabbioso, bronzeo, con improvvisi picchi di frenesia isterica rimbalzava dalla tromba delle scale. Facendo sponda contro le pareti, sembrava provenire da ovunque. Esprimeva dettagliatamente lo stato d’animo della creatura che lo stava emettendo: frustrazione, rabbia, incazzatura nera. Metteva i brividi. L’ingegner Ecuba ogni tanto si affacciava da una balaustra per indovinarne l’origine, ma gli echi moltiplicati dai troppi corridoi rendevano impossibile capire. Un accaldatissimo Virzo gli si affiancò, rosso in viso e con le ascelle in piena attività effusiva. «Senta ingegnere, secondo me sta girando avanti e indietro sotto la rampa D.» «Non credo. Potrebbe essere nel cavedio che porta verso l’ala B. Da lì c’è un’acustica che fa eco per tutto il palazzo.» «È vero, là sotto può guardare le finestre e farsi sentire da tutti… E adesso? Andiamo sul terrazzo, poi scendiamo dall’altra parte?» «Sì, giriamo in tondo finché non ci viene qualche altra idea. Quello ora è furibondo, Virzo. Meglio evitare un tête-à-tête.» «Uh, sarebbe, scusi?» «Sarebbe un bel cazzo di guaio, caro mio.» Si vedevano segni del passaggio del Minotauro sulle maioliche coperte dagli stucchi in frantumi. Numerose porte erano state sfondate a testate. L’odore del gessolino e del legno messo a nudo permeavano l’aria. Come tanti indiani di città, gli inquilini procedevano cauti, ascoltando con l’orecchio per terra le vibrazioni del pavimento. Ogni tanto degli altri condomini facevano capolino dai loro appartamenti e si aggregavano alla fuga. A chiunque di loro chiedesse spiegazioni, Gino riceveva equamente sguardi perplessi e inviti ad andare a cagare. Era abbastan-
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za frustrante. Tra uno schianto e una bestemmia, un’improvvisa apparizione a distanza e una corsa disperata, il tempo aveva perso il senso del prima e del dopo. Per il ragazzo, quella condizione era come vivere in una lunghissima barzelletta senza gag finale che si trascinava senza direzione, nel nulla. La terza volta che domandò a quello corpulento perché non provasse a cercare un telefono, Virzo si spazientì. «Giovanotto, forse non ti è entrato in testa l’idea che è scappato il Minotauro. Dico, IL MI-NO-TAU-RO.» «Ah-a.» Il ferroviere si fermò ad asciugarsi il sudore col lembo della camicia penzolante dai pantaloni. Concluse con una mano sul fianco e un’altra che roteava in alto a indicare le volte a crociera del soffitto. «È lui che manda avanti tutto l’ambaradàn qui dentro! Secondo te che cacchio ci sta a fare nei sotterranei? Gioca alla lippa? Lì ci sono tutti i marchingenzi, i cosi, i trabucchi elettrodorici… insomma, lo si tiene là perché lavori. È il patto. Finché non riprenderà il suo posto non funzionerà nulla, ecco.» Una nebbia densa continuò ad aleggiare intorno alla faccia di Gino, che sotto al berrettino da baseball aveva visto espressioni più astute. «Scusi, non capisco… cosa c’entra quello…? Ci sono le centrali elettriche, le telecomunicazio…» «Sentimi bene. Quanti anni hai tu, 18, 19?» «Ne ho 22, signore.» «22 anni. Gesù!» Virzo si portò le mani sulla faccia. «22 anni! E non sai ancora una beata minchia della vita, lasciatelo dire…» SBRAM! Un tonfo proveniente dal pianerottolo superiore raggelò tutti. Cadde qualche calcinaccio. Dalle vibrazioni doveva essere crollato uno dei lampadari in ferro battuto, il Minotauro quindi era appena un piano più sopra. Questo voleva dire gambe e voleva dire anche subito. Si rituffarono tutti a scappare in una rampa secondaria. Nel rimescolamento del gruppo, la ragazza dalla tuta gialla adesso era finita dietro di Gino. Lui la lasciò avanzare e si sincronizzò affannato al suo passo. «Se qualcuno non mi dice cosa sta succedendo, mi butto giù dalle scale, giuro!» Tuta-gialla lo sbirciò dubbiosa. «Mi stai prendendo in giro?» Il ragazzo scosse la testa.
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«Incredibile. Va bene che certe cose non le insegnano a scuola, ma si sanno. È così che va… lo sanno tutti.» «Qualcuno si sarà dimenticato di dirlo anche a me.» «Mah, devi aver vissuto sulla Luna.» Data la situazione, Gino iniziava a chiederselo anche lui.
6.
«Roba da matti! Ora questo non solo scappa, ma si mette pure ad andarsene a zonzo… e nessuno protesta. Nessuno reagisce. Dove arriveremo di questo passo? Sentite come sbraita! Nessuno parla. Mi fa impazzire, mi fa.» Al terzo piano, interno 35, scala D, Nino Garruso aveva le scatole definitivamente colme. Lo ripeteva ai vicini da buoni dieci minuti in modo che nessuno avesse più dubbi in merito. Gli altri, riuniti con lui nell’appartamento del dottor De Ceresa, assentivano, s’indignavano, dicevano la loro, in buona sostanza non facevano nulla. Dopo la sorpresa e la preoccupazione per la fuga del Minotauro, si erano tutti adagiati in una polemica rassegnazione che il fatalismo tentava di accoppare definitivamente. «Io ho la macchina parcheggiata in cortile. Nuova! La sto ancora a pagare!» ribadiva Garruso. «Perché, io no? Si rilassi, via, prenda un altro po’ di caffè. Il nostro piano ha una sola scala di collegamento ai corridoi principali. Da qui non si può uscire. Per fortuna che il dottor De Ceresa è previdente e ha messo la porta blindata, quindi… aspettiamo. Zucchero?» «Macché zucchero. Io prendo la doppietta, vado giù e lo stendo. E basta, quando uno le ha piene, le ha piene!» «Sta dando i numeri? Dottore, glielo dica lei…» «Scusa, Garruso, ma ti ricordo che c’è un patto. È un contratto che va onorato. Qua se uno si mette a fare il Masaniello mette nei guai tutti gli altri condomini… guai seri!» «Non me ne importa un accidente. Bisogna reagire.» Nino Garruso guardò tutti con aria di sfida, poi aggiunse: «Vado.» Il tempo che rientrasse in casa per armare il fucile da caccia e lo rividero uscire sul pianerottolo, leggermente impallidito, ma deciso. Nessuno trovò qualcosa da dire. Garruso era uno stronzo, ma indubbiamente del tipo coriaceo. Scese silenziosamente le scale fino a sparire alla vista. «Io dico che noi moralmente siamo a posto» azzardò qualcuno. «A dissuaderlo ci abbiamo provato… ora se quello fa qualche guaio, la responsabilità…»
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«E che guaio vuole che faccia, lo sa quella bestia quanto pesa? Garruso in vita sua avrà sparato al massimo a una tàccola, vah.» «Quindi lei dice che…» «Dico, dico.» «Shh!» fece il dottor De Ceresa stringendo gli occhi. «Ascoltiamo…» aggiunse a voce bassa. Un cavernoso gioco di echi rimandava suoni provenienti dalle viscere del palazzo. Si sentiva la marcia frenetica di decine di piedi che si spostavano da est a ovest. Il crollare di un lampadario. Urla. Un ringhio prolungato e qualcosa che grattava il muro. Uno sparo. Gli occhi della signora Vendola e quelli di altri tre condomini si incrociarono. «Uh Gesù… quell’imbecille l’ha fatto.» Un vicino di Garruso alzò le spalle, scettico. Il secondo sparo seguì il precedente accompagnato da un lamento terribile e familiare. La signora fece il segno della croce. «Eh, no. Poverino…» «Poveretto un corno, se l’è cercata! E sarà pure successo un macello, come se non ci fossero abbastanza danni.» «Certo! Quando il sangue impregna il porfido dei gradini non si leva più. Faccio presente ai signori che con questo si va fuori della manutenzione ordinaria. Dovremo chiamare di nuovo la ditta esterna.» «Ci vorrà una riunione condominiale…» «E già, perché secondo voi ne basterà una?» Alla visione di oltre 200 proprietari ripetutamente riuniti nella stessa sala per prendere una decisione unitaria, tutti rabbrividirono terrorizzati. Rimase solo il silenzio e un muggito bestiale, lontano, cui nessuno dava più ascolto.
7.
A cinque ore dalla sua sortita, era una creatura stanca e indifferente quella che distruggeva vasi e strappava dai muri i corrimani di legno e ferro. Per natura non poteva fargli difetto la forza fisica, lo ammosciava invece la noia aleggiante in questo inutile correre. Si sentiva come una cavia persa dentro labirinti che nascondevano solo formaggi stantii. Il Minotauro era fatto per l’azione. Per provocare portenti. Nel caso anche per offrire carneficine, eventualità da cui non si tirava mai indietro. Approfittare dei margini di libertà insita nelle clausole del
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patto gli era sempre parso doveroso prima che possibile. Questo sentimento lo spingeva di tanto in tanto alla periferia del suo regno sotterraneo. Per sentire allontanarsi il lavoro e il pulsare delle macchine alle quali dava vita. Per poter annusare l’aria del mondo attraverso i cancelli serrati sul cortile. Ogni tanto, molto, ma molto di rado, qualche fessacchiotto non ottemperava al suo compito e lasciava socchiusa l’inferriata. Sbadataggine, senilità, meglio ancora, sciatteria. Erano occasioni da non perdere. Così era capitato anche questa volta: durante una delle sue epocali opere di manutenzione dei cardini, il portiere non aveva fatto scattare bene il lucchettone del cancello. Il Minotauro ne aveva approfittato per uscire e sbuzzarlo subito. Troppo fiacco per scappare o lottare, Alfredo si era fatto incornare al primo colpo senza dire neanche “Ba”. Fessacchiotto d’un uomo. C’era stato più gusto dopo con l’aspirante cacciatore. Un tipo davvero ridicolo, col suo metro e un barattolo di paura, tacchi compresi. Aveva fatto capolino fucile alla mano in fondo al corridoio di comunicazione col cortile. Il Minotauro era esploso in un ruggito a braccia spalancate, la gigantesca testona sulle spalle diventata un sole nero foriero di tempeste. Poi aveva caricato. L’ometto era sembrato saldato sul posto. Il primo colpo se l’era giocato per errore prima ancora di puntare l’arma. Risultato, una lesena era finita in polvere e una pioggia di intonaco aveva offuscato l’aria piovendo giù dalla campata. Impossibile prendere la mira a dovere. La creatura gli era rovinata addosso un attimo dopo il secondo colpo a vuoto. L’aveva sfondato con passione e professionalità. Due movimenti soli, trak, entrata e trak, rilascio. Senza infierire, senza sprecare gesti inutili. Tornava a pensarci quasi con nostalgia ora che, sudato, imbrattato di sangue rappreso e croste di gesso, si trascinava in giro privo di obiettivi. Sulla lucida sfera degli occhi neri rifletteva sequenze di porte serrate. Ne sfondava qualcuna, altre le colpiva solo a pedate, tanto per fare. Sentiva la mancanza di qualcosa, nulla cui il suo cervello ottuso sapesse dare un nome.
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A bocca spalancata, vocalizzava una “Ahhh” continua che il dondolio della testa rendeva vibrante. Unica soddisfazione, godeva al piacere del contatto liscio e fresco delle maioliche sotto i piedi nudi. Ombre. Luci. Ombre. Luci. L’alternarsi dei finestroni opalini affacciati su giardini interni e le pareti decorate da targhe e fregi marmorei lo ipnotizzavano. Ruminando oscuri concetti minotaurei, soffiando aria calda dalle narici dilatate, la sua attenzione si perdeva, finché un oggetto rotolante sulle piastrelle non l’attrasse. Una palla. Rossa. Alzò lo sguardo. Si rivolse alla sua destra. La porta dell’interno 42 era aperta. Ne era uscito un ragazzetto biondo dai tratti balcanici. Aveva un robot di plastica in una mano e una spada-laser nell’altra. Sulla t-shirt ostentava un simbolo di radioattività, insieme a qualche scritta in cirillico. Mostro e bambino si guardarono per un bel pezzo, prima che il Minotauro cominciasse piano ad avvicinarsi. La palla, per le vibrazioni del pavimento dondolò e riprese pigramente a girare.
8.
Anche in un edificio così aristocratico, il flusso delle comunicazioni in mancanza di mezzi migliori tornava alle origini tribali sfruttando uno strumento efficiente e sempre disponibile. La voce. Aiutati dalla risonanza delle varie cavità che attraversavano la struttura architettonica, si poteva lanciare una voce e farla sentire attraverso scale e corridoi a vari piani. Con questo tam-tam da mercato si era creato un bollettino interno che informava i vari gruppetti in fuga dei movimenti del Minotauro. Alle 14, dicevano le voci, la conta dei morti ammontava a un deceduto, il portiere, ormai comunemente ritenuto responsabile della scarsa manutenzione e controllo dei sotterranei. Un’oretta dopo era schioppato anche un rappresentante di commercio, stavolta per un più banale infarto, causato dallo stress e dalle troppe scale di corsa. Il signor Garruso, con pochi rimpianti dei suoi condomini, aveva lasciato questo mondo più o meno verso le 16 e 30, regolarmente incornato. Voci discordanti comunicavano che fosse in corso un’azione risolutiva di Polizia, subito smentite da altre che la ritenevano im-
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pegnata altrove. Secondo questa fonte, era arrivata notizia da una radiolina a pile che fosse fuggito un Minotauro negli uffici del Catasto. Abbastanza, sembra, per catalizzare le forze pubbliche cittadine. Gino non faceva più caso alle cose che sentiva dire, quasi sempre inutili, assurde, campate in aria. Una voce tra le altre, però, stava prendendo il sopravvento e si diffondeva tra la gente da rampa a rampa, da piano a piano. Il ragazzo ne afferrò dei frammenti confusi. «…tteis… sì, pare di sì. Vivaddìo!» «…in ufficio. Era con la ta…» «…in cantina. Saranno dieci minuti, un quarto d’o…» Man mano, le notizie si facevano più chiare. Arrivava gente dalla scala D, altre persone addirittura dal cortile. Il Minotauro era tornato in cantina. Questo dicevano tutti. Gino sentiva girare la testa, non poteva crederci. Saltellava tra gli inquilini e si aggrappava alle braccia tempestandoli di domande. «Ma com’è successo?» «Siamo sicuri che non c’è più?» «Com’è andata?» Gli borbottavano cose vaghe, distratti da altri pensieri, tutti già presi dal constatare i danni, dal fare i conti delle spese. Non ricevendo soddisfazione, il ragazzo si aggregò al gruppo che seguiva l’ingegner Ecuba per scendere ai piani bassi. Stando con loro, allungò le orecchie a origliare le conversazioni che si tenevano a bassa voce. «Allora possiamo stare tranquilli, via libera?» «Dice che lui è andato a giocare giù nei sotterranei del palazzo col bimbo dei De Matteis, quello adottato. Insomma… se l’è portato con sé.» «Ah. Il piccolo allora non tornerà più… porcaccia miseria…» «No, ovviamente.» «I genitori, i genitori lo sanno?» pigolò una signora dai capelli azzurrini. «No, loro sono in ufficio, lavorano anche di sabato. Il figlio era con la Tata. Era scesa per comprare le sigarette e l’ha lasciato da solo… così…» «Che dispiacere… che dispiacere…» «Beh, signora, quante storie! Tanto, prima o poi col Minotauro dobbiamo andarci tutti. È il patto!» «Sì, lo so, però… Ivan è così piccolo…»
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«Dica pure era.» «Mettiamola così, vuol dire che si è anticipato. I De Matteis si faranno una ragione… Intanto quell’accidente di cancello, Virzo, lo dobbiamo chiudere con delle ganasce decenti. Poi si parla con l’amministratore per le copie delle chiavi.» «Anticipa lei, ingegnere?» «Ma sì, chi se ne importa. Così per un bel po’ non ci saranno sorprese.» Sembrava che tutte le cose essenziali fossero state chiarite. «…giusto un’ultima cosa. E con i De Matteis che si fa, chi glielo dice del bambino?» Ci fu un generale silenzio di imbarazzo. Con un sogghigno, l’ingegnere si tolse dai denti il bocchino vuoto e disse. «Ho capito, gli si manda il solito telegramma e amen.» Sembrarono tutti molto sollevati. Gino aprì bocca per dire qualcosa. Qualunque cosa. Come tentò di parlare fu coperto dal vocione possente di Virzo che indicava in aria. «Guardate. È tornata la corrente!» Con un’attutita nota da xilofono, un fa diesis, i neon del corridoio si stavano accendendo simultaneamente.
9.
Faceva uno strano effetto tornare all’aria aperta. Il Corso su cui s’affacciava l’ingresso del Palazzo Manfredini palpitava di animazione. L’antico e maestoso portone dell’edificio era stato spalancato per far passare auto e ambulanze. Molte persone si accalcavano sui lati del marciapiede a curiosare, la strada già ristretta da fasce di auto parcheggiate s’ingorgava di veicoli che avanzavano in lenta processione. Nessuno fermò un ragazzo frastornato che usciva nel debole sole del pomeriggio. Aveva un aspetto stanco, gli abiti sporchi e maleodoranti. Sballottato dalla gente in entrata e uscita, avanzava ancora incapace di inquadrare l’accaduto. Il suo pacco era andato a ramengo, lo skate pure. La pelle però era ancora attaccata ai tatuaggi, pensava, un bilancio tutto sommato positivo. Pur avendo un’infinità di ragioni per svignarsela, si sentiva piuttosto restio ad allontanarsi. Voleva capire. Sulla soglia del baretto di fianco al palazzo, un crocchio di negozianti circondava Virzo, le gote rosse e sudate, mentre stava raccontando ad ampi gesti la sua versione. Le sigarette accese si
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sprecavano. Finite le Camel, Gino sentiva una gran voglia di fumare, si soffermava perciò a osservare quelle dita ingiallite formare spirali nell’aria. Le parole che ricorrevano nel discorso – crollo, disgrazia, improvviso – avevano un senso che penetrò nel suo cervello senza trovare una collocazione. Suonavano espressioni vaghe, reticenti. Ammiccando al ferroviere tentò di infilarsi nell’argomento. «Certo però, quel fottuto Minotauro ne ha fatti di casini…» Marcantonio Virzo lo fulminò con uno sguardo di brace. Un silenzio imbarazzato azzittì contemporaneamente tutti i presenti. Gino non se ne accorse affatto e riprese col candore di un crisantemo. «Volevo dire, è pericolosa da gestire quella bestia…» «E basta! C’è poco da scherzare, giovanotto» ruggì il fruttivendolo, un ometto secco e incartapecorito. «Abbi almeno rispetto della tragedia. Qui c’è gente che è morta…» «Che ho detto di male? Il Mino…» Non ebbe modo di finire la frase. Virzo gli diede uno scappellotto che gli inclinò il cappellino. «È un ragazzo, è giovane. Si sarà spaventato, sapete com’è. Quando succedono queste scosse improvvise si perde il controllo… i terremoti fanno paura…» «E già, quelli ondulatori-sussultori come questo…» Terremoti? «Sì, i sismi così sono un castigo di Dio.» Tutti non facevano altro che assentire e sifonare le loro sigarette. Nuvoloni di nicotina e chiacchiere su chiacchiere si susseguivano, altrettanto nebbiose e inconsistenti. Poi qualcuno propose “Volete un caffè?” e il gruppetto si buttò nel bar Nestos, lasciando Gino da solo a domandare al vento: «Quali terremoti?» Visto che non c’erano risposte, né altro di meglio da fare, il pony express borbottò un vaffanculo e assisté al coagularsi e disperdersi di condomini, curiosi, giornalisti e soccorsi. Il pregevole sederino di Tuta-gialla apparve allontanandosi con una vicina in direzione supermercato. Gino si risentì un poco, la ragazza non l’aveva neanche salutato. A ben pensarci, anche gli altri compagni di disavventura facevano lo stesso, con un atteggiamento di ostentata indifferenza. Alzando le spalle disgustato, se ne tornò a piedi verso l’agenzia. Pensieri caotici e contrastanti gli ribollivano dentro. Restan-
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do in silenzio, provò a tendere l’orecchio alle dicerie dei passanti mentre camminava. Man mano che avanzava per il Corso, si accorgeva di quanto la notizia perdesse di veridicità e dettaglio ad ogni isolato di distanza. Nel giro di quattro numeri civici la tragedia era diventata lo scoppio di una bombola del gas. Poi un caso di follia familiare, poi un incidente d’auto. Dopo aver fatto l’ultimo tentativo di contraddire questa versione con un vigile urbano, il ragazzo venne guardato con tale ostilità da non provare a rifarlo mai più. Sulla sua testa, i cavi del filobus trasportavano corrente elettrica che fluiva sopra circuiti aerei. Dietro la vetrina della rosticceria, dei fornelli crepitavano, all’estremità di tubazioni che innervavano il suolo come arterie profonde. Una giovane parlava con il suo interlocutore lontano avvinghiata alla cornetta di un telefono pubblico. Soffermandosi a riflettere su queste fonti di energia con una gravità nuova, Gino provò un senso di disagio e di sospetto crescente. Poteva quasi avvertire l’invisibile rete e il flusso che lo circondava muovendo le mille macchine della città. Metteva ansia. Tanta. Arrivato quasi di corsa davanti all’alveare che accoglieva gli uffici della Mercury, trovò un cantiere impegnato in lavori di ristrutturazioni idrauliche. Gli operai in pausa avevano lasciato aperto un tombino circondato da nastri rossi e bianchi. Non riuscì a staccarne gli occhi. Assurdamente, quella cavità gli appariva misteriosa e magnetica. Un interrogativo. Un accesso aperto verso misteri che era saggio non conoscere mai. Sentendosi coprire di sudore freddo, Gino si fiondò nella buvette al piano terra per ordinare una birra scura. Gli impiegati, l’odore familiare di caffè, i giornali sui tavoli ebbero subito su di lui un effetto rassicurante. Comprò una buona scorta di sigarette. Scambiò una chiacchiera con Lisa, la cassiera. Due bottiglie dopo andava meglio. Alla terza birra riuscì quasi a smettere di pensare alla meccanica dell’ambaradàn e al suo prezzo. Continuò a bere fino a ritrovarsi la bocca impastata e la testa che sembrava imbottita di lana-vetro. Quando un’ora dopo andò via la luce e l’edificio sembrò paralizzarsi, non si accorse nemmeno che tutti scappavano precipitandosi in strada. <
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Sei un di tale narratore nto? In o un di COME v iaci la segnat SI INVIANO t ore ua ope RACCONTI E a n c h e tu al FUMETTI PER LA r la rivis a! Partecip SEZIONE ANTOLOGICA? a ta!!! 1. GENERI Terre di Confine riceve e valuta per la pubblicazione in rivista tutte le storie contenenti elementi fantastici e/o fantascientifici; quindi, a titolo indicativo: Fantascienza, Fantasy, Fantastico in generale, ma anche Horror, Gotico, Avventura, Epica, Giallo, Thriller, Distopico, Umoristico, Mistery ecc., se caratterizzati da ben riconoscibili connotati o ambientazioni o argomenti rientranti nella definizione sopra evidenziata. Attinenti possono essere temi come il soprannaturale, il surreale, lo strano, il perturbante, la tecnologia, il mistero, la magia, la mitologia ecc. Nel caso di opere borderline, è la Redazione a valutarne di volta in volta la pertinenza. 2. OPERE AMMESSE E DIRITTI La sezione antologica propone racconti e fumetti selezionati. Non ci sono limiti di lunghezza: eventuali opere lunghe possono essere suddivise in puntate; se ritenute eccessivamente corpose per la pubblicazione in rivista, vengono comunque sottoposte all’attenzione dell’editore Plesio per altri possibili sviluppi editoriali. Riassumendo, esaminiamo con piacere e passione: a) racconti (in lingua italiana); b) fumetti autoconclusivi o a puntate, graphic novel (in lingue italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola).
Le opere possono essere sia inedite che edite, purché gli autori garantiscano il possesso dei diritti e siano pertanto in grado di autorizzare la pubblicazione a titolo gratuito. I diritti resteranno in ogni caso proprietà dei concedenti. La rivista ha finalità culturali e divulgative, nessun contributo (monetario o di qualsiasi altro genere) verrà mai chiesto all’autore da Terre di Confine per la pubblicazione. La rivista s’impegna a preservare (o migliorare, in accordo con gli autori) l’integrità artistica delle opere, e a valorizzarle in tutte le maniere compatibili con le proprie risorse tecniche ed economiche. 3. MODALITÀ DI INVIO Le opere possono essere trasmesse via e-mail a tdc.terrediconfine@gmail.com sotto forma di allegati o come link a file scaricabili dalla rete. CONTATTI Per ogni domanda o informazione, restiamo a disposizione agli indirizzi redazionali: www.terrediconfine.eu redazione@terrediconfine.eu 249
TURNABOUT INTRUDER
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Anche per questo numero abbiamo terminato. Ci auguriamo sia stata una piacevole lettura. Grazie per averci seguito! Arrivederci alla prossima uscita e... ...non dimenticare di venirci a trovare on-line!
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