# 1 Territori nella crisi
Rapporto intermedio 16-17 giugno 2014
Progetto di ricerca: Progetto di ricerca: Politecnico di Torino, École Polytecnique Fédérale Politecnico di Torino, École Polytecnique Fédérale de Lausanne Coordinato Coordinato da: da: Prof. Cristina Bianchetti (DIST, POLITO) Prof. Cristina Bianchetti (DIST,
de Lausanne
POLITO)
Referente università partner:partner: Referente università Prof. Elena Cogato Lanza (LAB-U, EPFL) Prof. Elena Cogato-Lanza (LAB-U,
EPFL)
Gruppo di ricerca: Gruppo Armando di ricerca: Alessandro (DAD, POLITO), Grazia Brunetta (DIST, POLITO), Antonio De Rossi (DAD, Alessandro Armando (DAD, POLITO), Brunetta (DIST,Dario POLITO), Giovanni C POLITO), Alessandro Fubini (DIST, POLITO), PatriziaGrazia Lombardi (DIST, POLITO), Negueruela POLITO), Antonio De Rossi (DAD, POLITO), Alessandro Fubini (DIST, POLITO), Patri del Castillo (ENAC, EPFL), Luca Ortelli (LCC, EPFL), Luca Pattaroni (LASUR, EPFL), Giacomo Pettenati POLITO), Dario Negueruela (ENAC, Ortelli Luca Pattaro (SCUDO, POLITO), Dafne Regis (SCUDO, POLITO),EPFL), Angelo Luca Sampieri (DIST, (LCC, POLITO),EPFL), Giulia Sonetti (SCUDO, POLITO), Paola Viganò (LAB-U,POLITO), EPFL), Angioletta Voghera POLITO)POLITO), Angelo Samp Giacomo Pettenati (SCUDO, Dafne Regis(DIST, (SCUDO,
Giulia Sonetti (SCUDO, POLITO), Paola Viganò (LAB-U, EPFL), Angioletta Voghera (
Hanno partecipato alla realizzazione di questo rapporto: Elisabetta M. Bello (Phd DIST, POLITO), Cristina Bianchetti (professore di Urbanistica, DIST, POLITO), Silvia Calastri (sociologo), Michele Cerruti But (laureando POLITO) , Elena Cogato Lanza (professore di Urbanistica, LAB-U, EPFL), Alessandra Conticini (architetto), Agim Enver Kërçuku (dottorando, IUAV), Eloy Llevat Soy (laureando POLITO), Dario Negueruela del Castillo (dottorando ENAC, EPFL), Luca Pattaroni (professore di Sociologia, LASUR, EPFL), Giacomo Pettenati (Phd POLITO), Dafne Regis (dottorando, SCUDO, POLITO), Elisabet Roca (architetto), Angelo Sampieri (ricercatore in Urbanistica, DIST, POLITO), Giulia Setti (Phd POLIMI), Ianira Vassallo (dottoranda, IUAV), Daniele Vazquez Pizzi (antropologo, Phd IUAV), Paola Viganò (professore di Urbanistica, LAB-U, EPFL), Angioletta Voghera (ricercatore, DIST, POLITO) progetto grafico - impaginazione: Agim Enver Kërçuku
La nostra « gita a Chiasso»
Sono passati 50 anni dal convegno di Palermo che ha avviato l’avventura (peraltro breve) del Gruppo 63: l’ultima neo-avanguardia italiana. Il manifesto di quel movimento, è stato uno scritto di Alberto Arbasino: «Gita a Chiasso»1. Scritto icastico sulla necessità di sprovincializzare la cultura italiana: «.... Bastava arrivare fino alla stanga della dogana di Ponte Chiasso, due ore di bicicletta da Milano, e pregare un qualche contrabbandiere di fare un salto alla più vicina drogheria Bernasconi e acquistare, insieme a un Toblerone e a un paio di Muratti col filtro, anche i Manoscritti economico-filosofici di Marx (1844), il Tractatus logicophilosophicus di Wittgenstein (1921) [....] Ci si sarebbero risparmiati alcune decine d’anni di penose indecisioni, [...] ». Arbasino ce l’ha con l’Italia di quegli anni (in realtà di un periodo più lungo), incapace di guardare fuori, di aprirsi “al mondo”. Oggi, nelle nostre discipline, si guarda insistentemente “al mondo”. Nei processi di formazione, sulle riviste, nelle ricerche e nelle discussioni. La nostra «gita a Chiasso» va in senso inverso: è un ritorno all’Europa nel momento in cui a occupare per interno la scena è il mondo (prevalentemente e per ovvie ragioni, quello che, prima del postcolonialismo, si diceva, terzo). Una scelta per il verso contrario che richiede una buona dose di chiarezza e un po’ di coraggio, a contrastare un conformismo non è meno monolitico di quello di metà Novecento. L’ipotesi che sostiene questo ribaltamento di prospettiva è che la metropoli europea sia in larga parte diversa da quella del resto del mondo, che sia squassata in modo specifico dalla crisi, che ponga ai nostri saperi questioni che hanno una loro specifica declinazione.
1. AA.VV., Gruppo 63. Critica e Teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Milano, Feltrinelli, 1976
INDICE 3
Un ribaltamento di valori e gerarchie Cristina Bianchetti
I.
INDAGINI ATTORNO A PATRIMONI, SUOLI PRODUTTIVI, SPAZI PUBBLICI E FORME DELL’ABITARE 7
PATRIMONI
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Bellavista, Ivrea. Cos’è patrimonio pubblico? Elisabetta M. Bello, Agim Enver Kërçuku
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Mirafiori Sud, Torino. La progettazione programmatica della mixité Ianira Vassallo
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Valle di Susa. Una controversa invenzione delle tradizioni Dafne Regis, Angioletta Voghera
47
SUOLI PRODUTTIVI
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Biella. Vivacità minori Michele Cerruti But
63
Aubervilliers. Il riarticolarsi del rapporto produzione città Giulia Setti
75
SPAZI PUBBLICI
77
Les Grottes, Genève. Un pubblico che non è per tutti Cristina Bianchetti, Elena Cogato Lanza
85
Can Battlò, Barcelona. Nuovi urbanesimi Silvia Calastri, Elisabet Roca
95
FORME DELL’ABITARE
97
Val Maira. Razionalità minimali Giacomo Pettenati
109
Brabanstadt. Colonizzazioni di territori difficili Alessandra Conticini
1.
1
II.
NORME, DIRITTI, VALORI, LE CONDIZIONI PER UNA NUOVA OPERATIVITÀ 121
Spazio pubblico. La principale infrastruttura della città moderna Cristina Bianchetti
123
City as prototype. A situationist frame for pragmatic social action. Madrid Dario Negueruela del Castillo
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La nozione di «cadre de vie», tra eredità strumentale e eredità sostanziale Elena Cogato Lanza
130
Un patrimonio “minore”. Capitale fisso sociale e ricostruzione di contesti territoriali Angioletta Voghera
131
Norma e progetto Angelo Sampieri
133
La governance sottratta al pubblico Giulia Sonetti
134
Pluralizzazione e autonomia del diritto all’abitare Cristina Bianchetti
III.
NUOVE CITTA’. CONCLUSIONI 139
The horizontal metropolis Paola Viganò
142
La metropoli europea Francesco Indovina
146
La ville créative en question Luca Pattaroni
147
La fine della città postmoderna Daniele Vazquez Pizzi
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Condivisione e città
Cristina Bianchetti, Angelo Sampieri
1.
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Un ribaltamento di valori e gerarchie
Questo dossier raccoglie i primi materiali della ricerca Territori nella Crisi, avviata nell’ottobre 2013 all’interno dell’omonimo progetto finanziato da Compagnia di San Paolo e condotto all’interno del Politecnico di Torino e dell’École Polytechnique Fédérale de Lausanne. La ricerca indaga il mutamento delle gerarchie e dei valori attribuiti all’abitare nella città europea. Lavorare sul mutamento di valori e gerarchie significa misurare la distanza con la città moderna. Una distanza resa più evidente dalla crisi economica. Questa ricerca si pone pertanto in continuità con molte delle considerazioni contenute in alcuni testi: Il Novecento è davvero finito. Considerazioni sull’urbanistica (C. Bianchetti, Donzelli, 2011); De la Différence Urbaine (E. Cogato Lanza, L. Pattaroni et alii, MētisPresses, 2013); Territori della condivisione. Una nuova città (a cura di C. Bianchetti, Quodlibet, 2014). La nostra idea è che osservare in modo sufficientemente preciso il ribaltamento di valori e gerarchie che connota la città contemporanea sia cruciale entro il quadro delle nostre discipline. Quello che ci orienta non è la tensione a costruire nuove geografie, nuove descrizioni. Né l’intenzione di ricostruire letture di dinamiche economiche o comportamenti sociali, temi in rapporto quali architetti e urbanisti sono attrezzati meno di altri studiosi. Cerchiamo più semplicemente di cogliere le implicazioni spaziali della crisi economica attraverso una lettura dello spazio non perfezionista, poco coprente, tesa a cogliere scarti, disassamenti, segnali. E orientata in senso pragmatico. Il mutamento che osserviamo non è un generale (e generico) deprezzamento indotto dalla crisi economica. Al contrario, è a volte patrimonializzazione, altre volte minorazione, altre ancora normalizzazione. La città che emerge è una città diversa. Questo è un punto cruciale della nostra riflessione. Nelle pagine seguenti proponiamo il ridisegno di una possibile mappa di problemi. Problemi che non sono affatto nuovi. Ma che si pongono in modo nuovo. Le loro soluzioni paiono a volte divergenti. Altre volte reciprocamente incompatibili. In ogni caso precludono vie collaudate. Richiedono uno sforzo per rinnovare concetti, orientamenti, strumenti.
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3
1.
4
Biella
Bellavista, Ivrea
Mirafiori Sud, Torino
Valle di Susa
Val Maira
Les Grottes, GenĂŠve
Brabanstadt, Holland
Aubervilliers, Paris
Can Battlò, Barcelona
I
I I. INDAGINI ATTORNO A PATRIMONI, SUOLI PRODUTTIVI, SPAZI PUBBLICI E FORME DELL’ABITARE I nove casi presentati nelle pagine seguenti rappresentano situazioni sulle quali sono “messi alla prova” concetti, ipotesi, problemi, politiche. Attorno ad essi si è costruita un’indagine empirica che non ha la pretesa di disegnare nuovi sfondi, produrre nuove descrizioni, neppure restituire un catalogo di casi esemplari o rappresentativi di qualche varietà definita a priori. L’intenzione è quella di cogliere il mutamento delle gerarchie e dei valori a partire dall’osservazione di quattro piani: patrimoni, suoli produttivi, spazi pubblici, nuove forme dell’abitare. La trattazione dei casi e il loro approfondimento non sono da considerarsi compiuti.
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I
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I Patrimoni
L’ambiguità è ciò che rende la nozione di patrimonio interessante, fa del suo oggetto qualcosa di allusivo e narrativo, rompe una accezione tradizionale che troppo spesso declina in nostalgia, pietas, monito moralista, dettato conservativo. Impone di chiedersi, ogni volta, cosa possa dirsi patrimonio nella città contemporanea.
1.
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I
1.
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I BELLAVISTA, IVREA COS’È PATRIMONIO PUBBLICO?
Elisabetta M. Bello, Agim Enver Kërçuku
Cosa accade alle forme di diritto, quando si offusca la narrazione che nella modernità occidentale ne ha costituito la premessa e lo sfondo? Stefano Rodotà
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I
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0 km
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viabilitĂ principale costruito superficie boscata sistema delle acque MAAM
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I Il progetto
32 ha 82 edifici 829 alloggi 4.231 vani 686 autorimesse 4.000 abitanti
1957
22 ha 70 edifici - 15 fabbricati per autorimesse esterne 633 alloggi 283 autorimesse esterne 1.777 abitanti Stato di fatto del patrimonio : in locazione
alienati
157 alloggi 144 autorimesse 10 negozi
476 alloggi 139 autorimesse
2014
Il quartiere Bellavista è stato progettato e realizzato in collaborazione tra l’INACasa e la Olivetti, nel corso degli anni 60 per rispondere ad una domanda abitativa degli operai della Olivetti, nell’area sud-ovest della città di Ivrea. La progettazione urbanistica e architettonica, affidata nel 1957 a Piccinato e Girardi, si basa su una rigida gerarchia viabilistica che perimetra il complesso e sulla quale si innestano le varie strade che conducono alle singole unità abitative. Prevede ampie aree destinate a verde e una bassa densità abitativa. Gli spazi verdi sia pubblici che privati, di pertinenza delle singole unità abitative poste a piano terra, sono in comunicazione diretta con l’area verde centrale del quartiere dove sono localizzati i servizi collettivi. L’area di 32 ha, dove è stato previsto che fossero insediati 4.000 abitanti per una città che nel 1961 registrava 23.986 residenti, è ubicata parallelamente alla strada nazionale per Torino ed è vicina ad una zona collinare e ad aree rurali o comunque poco urbanizzate. 1.
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Uno spazio grande e articolato Il quartiere, nato come una sorta di polo satellite della città, si presenta come uno spazio abitabile enorme e ben definito nelle sue parti, dove sono antiteticamente ben determinati sia gli spazi interni che esterni, quelli pubblici e privati, quelli domestici e urbani. La composizione fisica e architettonica del complesso rimanda ad un’idea di ordinamento della natura e degli insediamenti, mediante l’identificazione e la disposizione di parti formalmente e socialmente definite, tipiche del pensiero organicista di Piccinato. Lo spazio costruito è collocato lungo tutto il perimetro dell’area, mentre gli spazi aperti anche quelli verdi sono presenti ovunque, anche se la maggior concentrazione si osserva attorno al “polmone verde” centrale, dove sono ubicati anche i servizi di tipo collettivo. Il modello è quello della città giardino di Howard, caratterizzato da spazi comuni e giardini di proprietà comunale.
Uno spazio “ricco” Il quartiere ha subito nel tempo uno svuotamento in termini di numero di abitanti. Questo probabilmente può essere ricondotto a due motivi: un invecchiamento progressivo della popolazione insediata negli anni 60 e la scarsa attrattività legata alla localizzazione periferica dell’area rispetto al centro urbano. A fronte di questa situazione Bellavista necessita di azioni di riqualificazione e valorizzazione del patrimonio architettonico e degli spazi aperti. Questi ultimi costituiscono un ricco supporto. Un elemento importante che più di altri contribuisce a contraddistinguere in maniera evidente questo luogo è il ruolo che in esso assume il disegno dello spazio aperto come elemento strutturante. Declinato in un più ampio concetto di spazio abitabile, connette pieno/vuoto, interno/esterno, domestico/urbano. Attualmente si fatica a riconoscere il senso del «vivere urbano a misura d’uomo» e il senso profondo dell’abitare umano come «umanizzazione dello spazio», così come inteso da Olivetti (Ferrarotti, 2001). Bellavista è patrimonio dell’architettura e dell’urbanistica moderna. Un «monumento della modernità» (Di Biagi, 2001) che in un’ottica di patrimonializzazione richiede di essere tutelato e valorizzato. Ma questo solleva alcune importanti questioni.
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I strade carrabili 46.282 mq
vialetti 17.560 mq
edifici 41.157 mq
1.
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giardini 23.619 mq
autorimesse 15.064 mq
spazi aperti collettivi 77.979 mq
I
servizi edificato 6.978 mq spazio aperto 6.755 mq fermate t.p.l centro ricreativo giovani ‘Bellavista’ scuola elementare ‘Don Milani supermercato bar parrucchiere farmacia palestra ‘Antonicelli’ circolo ricreativo riservato ai soci del quartiere
muri edifici edifici - parti trasparenti recinti trasparenti
edifici pubblici - parti trasparenti
muri edifici pubblici
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Lo spazio abitativo nel e fuori dal quartiere. 1.
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Il patrimonio edilizio di Bellavista è in maggioranza composto da alloggi di taglio medio-grande, vi sono poi appartamenti di media grandezza, alloggi duplex e pochissimi “alloggi minimiâ€?. 1.
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Uno spazio che si sta desertificando
Attualmente la città di Ivrea registra una popolazione pari a 23.942 abitanti e nel quartiere vi sono 1.777 residenti, fra cui 180 stranieri comunitari ed extracomunitari, una discreta percentuale di ultra sessantacinquenni 31,3% e il 44,5% di ultra cinquantenni, il cui reddito medio si aggira tra i 500 e gli 800 € mensili. I 1.777 abitanti sono suddivisi in 819 nuclei familiari in maggioranza composti da uno o due componenti. Rispetto alla popolazione insediabile del progetto di Piccinato gli abitanti sono dunque poco più di un terzo. Numerosi residenti sono riusciti a riscattare le abitazioni, a partire dal 1972, così come è stato negli sviluppi del Piano Fanfani che ha largamente favorito l’accesso alla proprietà, concedendo a riscatto quasi il 70% delle abitazioni che sono state realizzate nei quattordici anni della sua attuazione. Questo coerentemente con l’idea che la proprietà individuale potesse in qualche modo contrastare l’insicurezza sociale. A Bellavista dei 633 alloggi realizzati 476 sono stati alienati. La proprietà ad oggi risulta molto frammentata, all’interno di uno stesso stabile coesistono alloggi di proprietà privata e di proprietà pubblica. Raramente nel quartiere, all’interno di uno stesso edificio, tutte le abitazioni sono state alienate. In maniera analoga lo stesso discorso può essere fatto per le autorimesse. Nel quartiere si osserva una situazione di degrado degli immobili ed una inadeguatezza degli spazi rispetto agli usi. Il taglio degli appartamenti è grande rispetto al numero di persone che ci vivono. L’assenza di ascensori negli stabili a stecca crea disagio per la popolazione anziana. Vi sono problemi di manutenzione sia degli spazi privati che di quelli collettivi (centro ricreativo, campi da gioco, scuola elementare). Con l’invecchiamento della popolazione e il degrado degli edifici diviene sempre più evidente la sconnessione tra esigenze della popolazione e spazi abitativi che progressivamente si svuotano. 1.
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I 0m
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alloggi e autorimesse alloggi e autorimesse non utilizzate
In un contesto socio-economico come quello attuale, in cui si verifica una nuova problematica dell’insicurezza civile e sociale, dovuta ad un’erosione dei sistemi di protezione della «società salariale» (Castel, 2004), la popolazione non riesce a far fronte in maniera indipendente ad alcuni eventi della vita, come ad esempio la riprogettazione e la rifunzionalizzazione degli spazi interni agli immobili. Si riaggrega re-embedding rivolgendosi ai sistemi astratti (Giddens, 1994) e a procedure alternative di progettazione e finanziamento. Negli ultimi mesi il quartiere Bellavista è stato oggetto di interventi di questo tipo. Ad esempio quelli volti al superamento delle barriere architettoniche e alla diffusione di comportamenti e pratiche di uso della casa adeguati all’invecchiamento. Interventi finanziati dal programma Housing della Compagnia di San Paolo e realizzati dall’associazione Casematte in collaborazione con Seldon Ricerche. 1.
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Uno spazio sempre più lontano 0 km
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Bellavista costruito trasporto pubblico
Essendo stato progettato come quartiere satellite, Bellavista è localizzato in un ambito territoriale marginale rispetto alla città eporediese. I collegamenti con il resto del territorio avvengono mediante l’utilizzo sia del trasporto privato (che costituisce la modalità principale), sia a mezzo del trasporto pubblico, con un autobus che percorre l’intero perimetro del quartiere e lo collega al centro città. Tuttavia nelle ultime settimane l’amministrazione comunale, assieme alla GTT, ha disposto una variazione di linee e di percorsi del trasporto pubblico locale, che penalizzano ancor più il quartiere favorendone l’ulteriore isolamento dal resto della città. 1.
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1 - Il 3 maggio 2012 la città di Ivrea è stata ufficialmente inserita nell’elenco dei siti ritenuti particolarmente significativi per il riconoscimento a patrimonio mondiale UNESCO
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Patrimonializzazione Negli ultimi anni il quartiere, considerato una stazione del MAAM (Museo a cielo aperto dell’architettura moderna di Ivrea), ha subito una lenta esclusione territoriale e sociale rispetto al centro città, anche se si riscontra un atteggiamento culturale ricco e fertile degli abitanti, provenienti da una tradizione di autogestione originatasi nella cultura della “comunità”, che si mantiene vivo e riemerge in maniera costante. Diverse sono le attività che vengono svolte dagli abitanti per il quartiere, anche attraverso l’ausilio di un’associazione denominata “bellavista viva”. Si va dall’organizzazione di eventi, che consentono la condivisione di spazi, alla sistemazione e cura di aree verdi, alla manutenzione di attrezzature poste negli spazi comuni come ad es. la riverniciatura delle panchine poste in piazza I maggio. Se da un lato si tenta di tutelare l’intero patrimonio delle architetture della città, attraverso la procedura avviata sul fronte dell’UNESCO1 e l’istituzione del MAAM; dall’altro lato il patrimonio appare gestito sine cura sia sotto il profilo architettonico degli edifici che dovrebbero essere messi a norma per l’abbattimento delle barriere architettoniche, sia sotto quello del mantenimento degli spazi aperti oggetto di attenzione da parte di privati cittadini, di associazioni o di attori appartenenti al cosiddetto terzo settore. Pur essendo di grande pregio, il problema che Bellavista pone è la riconcettualizzazione della nozione di patrimonio pubblico. Un patrimonio di pregio, ma di scarso valore economico e sociale. Questa divaricazione pone significativi problemi e rende difficile immaginare scenari futuri. Come si possono adattare edifici e gli spazi collettivi a nuove esigenze? Cosa succederà quando gli attuali residenti verranno a mancare? E’ probabile che questi immobili verranno reimmessi sul mercato in un tempo relativamente breve. A quel punto come verrà gestito il mutamento? Ossia come si potranno mettere in vendita alloggi inadeguati dal punto di vista degli usi e delle esigenze delle nuove fasce di popolazione? Quali conseguenze si verificheranno dal punto di vista economico e da quello della pianificazione della città? Ovvero quali saranno gli impatti economici a livello di costi e di bilanci? Quali gli impatti sulla pianificazione della città e del territorio? Quali relazioni si instaureranno tra i diversi attori interessati (residenti del quartiere, cittadini, istituzioni pubbliche, fondazioni e imprese private)? Chi finanzierà? Chi gestirà le operazioni? E sotto quale regia?
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I MIRAFIORI SUD, TORINO LA PROGETTAZIONE PROGRAMMATICA DELLA MIXITE’
Ianira Vassallo
Peut -on vivre agréablement avec des voisins si différents lorsqu’ils disposent d’une vue imprenable sur notre vie privée. Monique Eleb
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I Mass production
La sede storica della produzione di massa d’impronta fordista in Italia è stato il comparto industriale di Mi-rafiori. Stabilimento inaugurato nel 1939 che ha reso visibile il rapporto tra capitale e lavoro della produ-zione industriale di massa. E ha costruito una città. Il quartiere di Mirafiori Sud è parte di quella città. Localizzato a sud est di Torino, ai confini dell’area metropolitana, ha un’estensione di 1.100 ettari e definisce la propria struttura su tre differenti piani. La presenza di un consistente patrimonio di edilizia pubblica resi-denziale di grandi dimensioni, con edifici di 8-9 piani fuori terra, costruiti tra gli anni ‘60 e ‘70, che defini-scono un’immagine fortemente riconoscibile del luogo. La presenza di ampi spazi aperti ad uso collettivo, a ridisegnare una struttura dell’isolato aperta, in contrasto con il centro storico. La presenza di numerosi giardini pubblici, di due grandi parchi e delle sponde naturalistiche del torrente (Sangone) ha fatto sì che, con qualche approssimazione, questa parte di Torino fosse nominata “Città Giardino”. Infine, la presenza del comparto industriale della FIAT, che copre una superficie pari a 100 ettari (3.000.000 mc di edifici per 22.000 operai) ed è adibito in parte ad uffici (palazzina su Corso Agnelli) e per la maggior parte da capanno-ni industriali di un piano che affiancano le diverse fasi produttive per la realizzazione di automobili, motori d’aviazione e fusione di metalli. Questi tre piani (le case, i giardini, la fabbrica) sono fortemente connessi e danno forza ad una immagine precisa del quartiere che a sua volta è articolata in luoghi differenti: Mirafiori Sud (nella specifico Via Nega-ville,via Roveda,Via Plana, Strada Drosso); Cime Bianche; Borgata Mirafiori; Basse Lingotto.
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La città fabbrica Dagli anni ‘50 Torino diventa la capitale indiscussa delle grandi ondate di migrazione interna che l’espansione dell’industria automobilistica richiama soprattutto dalle regioni del Sud del paese. Nel decen-nio 1951-1961, la popolazione cittadina passa da 719.300 abitanti a 1.019.230. In poco più di un ventennio la popolazione di Mirafiori Sud da circa 3.000 abitanti arriva a circa 40.000. Per accogliere la nuova presenza operaia, la Fiat, alla fine degli anni ‘50, costruisce le prime case nella zona Basse Lingotto. Nella stessa area, nel 1966, il Comune progetta otto edifici a torre di 9 piani ciascuno per «dare una casa» a 780 nuclei familiari immigrati da varie regioni d’Italia e che in precedenza vivevano per la maggior parte in baracche e in edifici fatiscenti in altre zone della città. Il nuovo quartiere, denominato via Artom, assume immediatamente una connotazione negativa nell’immaginario collettivo: una concentrazio-ne di persone con un’alta incidenza di problematiche sociali, isolato fisicamente e separato socialmente dalle zone circostanti. Negli anni ’70, altri nuclei di case popolari, principalmente edifici a stecca disposti lungo alcuni assi viari, vengono costruiti realizzando la zona oggi denominata Mirafiori Sud, dal nome del quartiere e circoscritta da via Roveda, Via Negarville, Via Plava e Strada del Drosso. La prima fase di costruzione di questo nuovo comparto residenziale si caratterizza come un quartieri-dormitorio realizzato in una zona periferica: palazzi privi di servizi, di scuole, di strade asfaltate, di trasporti pubblici per il collegamento con il resto della città. La formazione e la crescita di Mirafiori Sud sono veloci e caotiche, l’idea della Città Giardino rappresentata nei disegni dei suoi progettisti e pubblicizzata nel quotidiano locale La Stampa stenta a realizzarsi di fronte al crescere della necessità di alloggi e tra gli abitanti è diffuso il sentimento di abbandono e di marginalità. Tra il 1975 e il 1983, con la conclusione dei progetti e la realizzazione dei servizi collettivi (possibile anche grazie all’ imponente crescita economica e demografica), l’amministrazione locale comincia a rivolgere una specifica attenzione al quartiere, realizzando spazi di aggregazione e opportunità per gli anziani (bocciofile) e per i ragazzi (campi di calcio, impianti sportivi), scuole dell’infanzia e dell’obbligo, sedi di servizi sociali e sanitari, migliori collegamenti con i trasporti pubblici all’interno dell’area. Il quartiere è nel contempo ga-rante di sicurezza e di controllo sociale. Poi la crisi del settore automobilistico. Oggi la presenza di persone anziane nella circoscrizione ha valori molto superiori alla media cittadina, con un picco nell’area di Mirafiori Sud (31% rispetto al 22% della media cittadina). Le condizioni sociali e economiche dei suoi abitanti risultano allarmanti (il reddito medio pro-capite non arriva agli 800 euro al mese). E’ evidente, inoltre, il progressivo abbandono del patrimonio im-mobiliare locale.
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La progettazione programmatica della mixité: una soluzione a quale problema? Il quartiere è da lungo tempo oggetto di politiche pubbliche. Durante la stagione urbanistica della rigenera-zione urbana l’amministrazione comunale lo ha posto entro il Progetto Periferie della Città di Torino inclu-dendo la zona Basse Lingotto tra le aree cittadine oggetto di un P.R.U. (Piano di Recupero Urbano), realiz-zando interventi di collegamento al territorio circostante (un nuovo ponte sul torrente Sangone e il poten-ziamento di alcune linee di trasporto pubblico) e realizzando il CdQ di via Artom. Oggi interventi assai diversi, pongono il problema di un ridisegno delle forme abitative e dei rapporti sociali in un contesto nel quale una comunità compatta (generata da un disegno urbano gerarchizzato e decenni di politiche di controllo sociale), diventa nel contempo oggetto e soggetto di sperimentazioni che tentano di ovviare alla marginalità utilizzando la retorica della mixité come occasione per ripensare ad un differente abitare. Il progetto AlloggiAMI, realizzato all’interno dell’area Mirafiori Sud, finanziato e realizzato dalla Fondazione di Comunità di Mirafiori propone un nuovo modello di coabitazione mettendo in contatto la popolazione anziana locale con la richiesta di alloggio da parte di studenti universitari stranieri delle due nuove facoltà del Politecnico di Torino, collocate proprio all’interno degli spazi industriali dismessi della FIAT. AlloggiAMI coinvolge non solo gli abitanti del quartiere, ma anche i commercianti, creando una rete tra le attività commerciali che vi aderiscono, in cambio di agevolazioni e sconti agli studenti. Nuovi modelli abitativi mettono insieme individui soli (spesso figure emblematiche di una fragilità sociale emergente). E cambiano dall’interno uno spazio pensato per altre popolazioni.
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I VALLE DI SUSA, PIEMONTE UNA CONTROVERSA INVENZIONE DELLE TRADIZIONI
Dafne Regis, Angioletta Voghera
Per tradizione inventata si intende un insieme di pratiche [...] dotate di una valenza rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Eric J. Hobsbawm
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La Valle di Susa è una valle alpina situata nella parte occidentale del Piemonte, ad ovest di Torino. Il territorio, di circa 110.000 ha, si sviluppa longitudinalmente per circa 70 km lungo il corso del Torrente Dora Riparia collocandosi tra i valichi alpini ad est e l’area metropolitana torinese. Fin dal Medioevo, riconosciuta come la valle di passaggio tra la Francia e l’Italia, attraverso la via Francigena e le numerose infrastrutture di cui è stata dotata nel tempo, è stata caratterizzata da intensi traffici di persone e merci e a lungo considerata una delle “porte d’Italia”. Il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale e la progressiva crescita dei flussi ne hanno sconvolto la tradizionale vita agricolo-pastorale, orientando il territorio verso nuovi processi di sviluppo, anche turistici (prevalentemente nell’Alta Valle). Questi processi si sono dimostrati nel tempo incapaci di supportare l’evoluzione territoriale, di difenderne i valori e promuoverne le risorse, innescandone il declino socio-economico, infrastrutturale e ambientale.
Dismissioni Sussiste una differenza tra l’Alta Valle, con vocazione turistica sin dal secolo scorso e in forte crescita dopo le Olimpiadi invernali del 2006 in relazione ad attività ricettive e seconde case (nel periodo 2003-2006 si è registrato un incremento dei valori immobiliari tra il 20 e il 100%; fonte FIMAA) e la Bassa Valle, oggetto di un processo di urbanizzazione e industrializzazione, oggi in crisi. Qui il territorio, da luogo vissuto e connotato da un patrimonio riconoscibile dalla comunità locale, è divenuto spazio della produzione, connesso all’area metropolitana torinese, segnato da contenitori industriali degradati e sottoutilizzati (186.460mq aree dismesse e 325.599 mq aree con elevata vetustà e condizioni di rischio degli immobili (Provincia di Torino, 2011)), e una rete di infrastrutture che, collegando i centri urbani, frammenta il territorio rurale. A partire dal 2008 il settore produttivo è in progressiva contrazione (in controtendenza rispetto all’intera Provincia di Torino caratterizzata nel suo complesso da una sostanziale tenuta): la recessione colpisce la Valle in quasi tutti i settori, con una perdita di circa 150 aziende negli ultimi cinque anni e una variazione del -1,64% di imprese registrate. In particolare, sono i settori dell’industria e delle costruzioni a registrare la maggiore inflessione con perdite rispettivamente di 46 e 107 aziende, mentre i servizi sono gli unici a registrare una lieve crescita (Fonte: elaborazione Camera di commercio su dati InfoCamere). Ad oggi si contano circa 6.000 disoccupati (circa il 7% della popolazione valliva). La riorganizzazione sociale ed economica della Valle sembra dunque dover 1.
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rispondere ad esigenze territoriali complesse: una ricentralizzazione sulle risorse locali; dinamiche insediative in controtendenza rispetto alla concentrazione urbana nelle pianure e nei fondovalle; processi di re-insediamento dei territori di mezzo (tra bassa e alta valle) che hanno provenienza e ragioni diverse (ricerca opportunità di lavoro, minor costo della vita, motivazioni etiche) e non sono supportate da strategie di sistema. Su questo sfondo, la crisi pone nuove necessità di tipo ambientale ed economico, in un quadro di relazioni forti tra aree urbane e montane di tipo “metromontano”. Nel tentativo di individuare nuove possibilità di sviluppo e reinventare comunità e reti, nascono associazioni nelle quali attori sociali e cittadini si mettono in gioco per recuperare una visione di futuro condivisa e ripensare a modelli economici sostenibili. L’associazionismo valsusino rilancia pratiche tradizionali per legittimare l’azione e la coesione della comunità. Si cercano traiettorie di sviluppo, in continuità col passato e cariche di valori e legami con il territorio. La patrimonializzazione di cui è oggetto il territorio ha l’obiettivo di accompagnare le scelte e partecipare alle trasformazioni in atto. Non è conservativa. Né, in senso stretto, “invenzione della tradizione” o “immaginazione della comunità”. Non ci si intende difendere dalle trasformazioni, ma inserirvisi. Anche se l’opposizione ai grandi progetti istituzionali, rende tutto assai più complesso.
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Conflittualità e progetti Da vent’anni la Valle di Susa è protagonista di un acceso dibattito intorno alla realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione. Una faccenda molto complicata nella quale il protagonismo rivendicato rispetto al proprio territorio si contrappone alle ragioni istituzionali che sostengono l’opera infrastrutturale come volano per il progresso, l’occupazione e la crescita. Paul Valery osservava come «all’idolo del progresso rispo[nde] l’idolo della maledizione del progresso: il che cre[a] due luoghi comuni». La critica alla retorica della crisi del progresso (e a quella opposta) è già tutta qui. Il locale come maledizione del progresso è un luogo comune. Che non si sottrae a numerosi tentativi (istituzionali e associativi) di ridefinizione. Nella direzione di una ridefinizione di scenari territoriali si muove Etinomia: associazione nata nel 2011 dal coinvolgimento di realtà imprenditoriali valsusine che intende operare come rete tra imprese, commercianti, professionisti, artigiani, agricoltori, basando la salvaguardia del territorio sull’immagine retorica umanistica di «rapporti economici sani», della centralità dell’uomo e della presa in cura di beni comuni. A riprova che anche per quel che riguarda aspetti territoriali, la crisi fa da volano a quell’umanesimo che Focault definiva tenero e qui si rifonda nei rapporti con il territorio. La rivendicazione dell’origine territoriale dell’economia locale avviene attraverso la creazione di un marchio di valle (il “Made in Valsusa”) per rafforzare la territorialità dalla globalizzazione. L’associazione opera attraverso gruppi di lavoro (agricoltura, energia, edilizia, ICT, assistenza sociale) rivolti a promuovere progetti sul territorio (spazi di coworking; organizzazione di mercatini di produttori locali; corsi teoricipratici di orticoltura biologica; supporti ad associazioni; iniziative culturali; ecc.). CanapaValleSusa è un’iniziativa riconducibile a quel terreno: è un’associazione nata pochi mesi fa (settembre 2013) dall’incontro di quattro donne valsusine che propongono un progetto costruito sulla canapa, materiale ricco di proprietà e di possibili impieghi, una risorsa per costituire una nuova filiera, in grado di trasformarla e valorizzarla con un basso impatto ambientale a livello locale, incrementando le attività del tessile, della bioedilizia, dell’energia e del settore alimentare e consentendo l’esportazione del finito e del semi-lavorato. Lo sviluppo della canapicoltura e l’attivazione della rete di conoscenze e competenze prende spunto da memorie storiche e tecniche ancora rintracciabili sul territorio, oltre che dalla disponibilità di risorse economiche e umane. Il progetto si concretizza attraverso eventi e attività agricole, didattiche, culturali e tessili. L’attività pilota coinvolge cinque aziende agricole che hanno destinato circa 5.000 mq di terreno a questa particolare coltura. Interessanti gli esiti spaziali, con modificazione del paesaggio e degli spazi della produzione. La filiera promuove il recupero di terreni incolti, sperimentando la coltivazione anche su quei terreni cosiddetti marginali che offrono ridotte possibilità di guadagno per le colture tradizionali e il recupero di parte del patrimonio industriale dismesso come siti per lo stoccaggio e la lavorazione. Iniziative come questa stano acquistando progressivamente un peso e una visibilità diversi come mostra il progetto della Fondazione Michelangelo Pistoletto sull’uso della paglia nell’edilizia. Per quanto orientate e costruite diversamente, queste attività, per alcuni aspetti arcaiche, hanno la pretesa di incrociare da vicino il nostro presente. 1.
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Sviluppo locale? Sono in molti a riflettere sul modo in cui oggi si stanno re-inventando le Alpi. Il territorio della Valle di Susa assume, sotto questo profilo una evidente rilevanza. Territorio riconoscibile sia nella visione sovralocale del corridoio europeo infrastrutturale, sia nelle strategie di sviluppo metropolitane e locali. La crisi economica e i processi di sviluppo place based orientano ad immaginare un locale nel quale siano ridisegnati (e rifunzionalizzati) lo spazio urbano, quello rurale e quello naturale. Su questo sfondo le associazioni giocano un ruolo non residuale. Il radicamento della definizione e della realizzazione di nuovi percorsi di sviluppo in contesti di esperienza ordinaria caratterizza un fare associativo che guarda a territori e paesaggi, comunità e storie locali, cercando lì un accesso privilegiato alla costruzione di nuove condizioni. La patrimonializzazione di valori, memorie, saperi e luoghi è dunque il punto di partenza e nel contempo l’esito. Ma le cose sono fin da subito rese complesse dalla presenza di un conflitto radicale che assorbe numerose risorse. Il problema che la Valle di Susa pone riguarda la riconcettualizzazione dei nessi tra le nozioni di sviluppo e di territorio in situazioni di conflitto. Fuori dalla stagione dei facili entusiasmi che permettevano di riallacciarle attraverso la nozione di locale. Una stagione nella quale il territorio era posto al centro delle politiche di sviluppo. Finendo tuttavia con l’essere la parte più opaca del discorso.
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I SUOLI PRODUTTIVI
Nel 2012, nel mondo si sono prodotti 1,55 miliardi di tonnellate d’acciaio, con una crescita dell’1,2% rispetto all’anno precedente. In Europa, la produzione si è contratta ulteriormente, con una caduta pari al 30% rispetto alle quote produttive prima della crisi. I settori labour intensive si dislocano diversamente su una playground globale. Questo obbliga a ripensare il legame tra fabbrica e città che ancora immaginiamo troppo spesso nella sua versione più facilmente leggibile, quella fordista che gli anni 50 e 60 hanno esaltato fino a renderla più duratura del suo stesso oggetto. Come la struttura del rapporto spazio produttivo città sta reagendo a questi anni di crisi?
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I BIELLA, PIEMONTE VIVACITÀ MINORI
Michele Cerruti But
Conviene sottolineare che il ruolo principale dello Stato sociale non è stato quello di realizzare la funzione redistributiva che gli si attribuisce più frequentemente. Infatti le redistribuzioni di denaro pubblico hanno intaccato assai debolmente la struttura gerarchica della società salariale. Il suo ruolo protettore è stato invece essenziale. Robert Castel
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dismissione 1.
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La Rivoluzione Industriale Italiana è partita da Biella, uno dei più importanti distretti industriali (concetto tanto interessante quanto oggetto di discussione), dalle origini finanche medievali (Maitte, 2009). È una storia di imprenditori, di famiglie, di una intera società che, percorsa da legami stretti con la Chiesa e lo Stato, costruisce l’humus di quella che diventerà la «Manchester d’Italia», secondo la famosa definizione di Cavour (De Biasio, 2008). Se l’avvio della proto-industria biellese si dà nel 1816, con l’arrivo del primo telaio meccanico dall’Olanda per opera di Pietro Sella (Pozzo, 1881), è il ‘900 il secolo in cui l’industria tessile ha plasmato non solo lo spazio ma anche la stessa struttura sociale, politica ed economica. La stretta relazione tra industria e welfare si inaugura con le grandi infrastrutture del primo Novecento: strade, ponti, ferrovie. Ma anche scuole, asili, istituti di formazione. E ancora alberghi, stazioni sciistiche, parchi, piscine, ospedali, cimiteri. Un’eccezionale vitalità che costruisce il territorio e instaura una relazione virtuosa con la società che lo abita. La crisi attraversata nel 2008 ha tuttavia generato sul territorio biellese un reale disfarsi di tutte le sue parti. Fuor di retorica, i modi dello stare a galla si intravvedono in un proliferare di sforzi frammentari e incrementali, quasi “funghi” sparsi che individuano soggetti alternativi, imprenditorialità germinali, reti secondarie.
Disfarsi Il Biellese è sempre più vecchio e abita sempre di più in città e in pianura. Le simulazioni sociali, infatti, mostrano come la prima conseguenza della crisi (i cui prodromi vanno anticipati agli anni ’80) è demografica: la popolazione biellese tende a una piramide rovesciata, con sempre più vecchi e sempre meno popolazione attiva (con conseguente diminuzione del prelievo fiscale e anche del potere d’acquisto). L’altro fenomeno è quello del «costante “abbassamento” del baricentro demografico verso la pianura, con un abbandono delle alte valli e dei territori più lontani dal capoluogo, a beneficio dei comuni più vicini all’asse Torino-Milano» (Sulis, 2011: 1). Aumentano le case sfitte, i territori abbandonati, la radicale dismissione degli spazi. La dismissione dei luoghi del lavoro o la loro drastica minorazione pare essere, anche, una delle cause dei gravi problemi di salute mentale e depressione, che portano il distretto a un numero altissimo di suicidi e tentati suicidi (Sulis, Vinai, 2012a e 2013).
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Il problema dell’abitare nel biellese oggi è legato al rapporto tra le case vuote, il cui canone di affitto è spesso irrisorio, e il numero elevato di sfratti (si tratta di un numero superiore ai 300 l’anno), insieme al bisogno, molto diffuso, della casa. «Dal confronto tra il costo dei canoni nel 2012 rispetto al 2008 emerge una sensibile diminuzione, […] indicativa della situazione di difficoltà (si abbassa il costo pur di trovare un inquilino), con un’offerta di alloggi in locazione superiore alla domanda)» (Sulis, Vinai, 2012b). Nella Provincia di Biella il Censimento 2011 ha rilevato come il 23% del totale delle abitazioni non siano occupate. Uno dei più rilevanti cambiamenti intervenuti negli ultimi anni riguarda il drastico ridimensionamento dell’industria locale, tessile e meccanica in particolare, che ha visto la chiusura di stabilimenti e la messa in mobilità e in cassa integrazione di molti lavoratori. Il saldo tra le manifatture attive è, dal 2002 al 2012 del 30% in meno. I due settori trainanti del Biellese sono da sempre quello tessile e quello edile. In entrambi i settori, però, la crisi ha compiuto disastri, sostanzialmente dimezzando, in ciascun settore, le imprese (Sulis, Vinai, 2012c). Il tasso di disoccupazione ha segnato nel Biellese un’impennata considerevole, portandosi al 9,5% nel 2013. 1.
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la smobilitiazione della strada mercato tra Biella e Carisio 1.
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Riarticolarsi Mentre si riproducono dinamiche rilevabili lungo tutto il territorio italiano (Censis, 2013), e dunque anche nel biellese sono essenzialmente le famiglie a farsi carico dei servizi che sono venuti meno, con un progressivo e costante dilapidamento dei patrimoni familiari, il welfare trova qui alcune risposte alternative, che talvolta rimettono addirittura in gioco parti di territorio che sembravano perse. Forme dell’associazionismo religioso e culturale, fondazioni, talvolta alcune industrie rispondono in maniera singolare alle necessità diffuse e alle “nuove povertà”. Si tratta di iniziative molto potenziate negli ultimi anni, a volte circoscritte e localizzate, altre volte costituenti veri e proprie reti territoriali. Il ruolo che occupano le associazioni, inoltre, quasi sempre guidate dalla Caritas diocesana, sembra farsi sempre più vitale anche per quel che riguarda il confronto politico, proprio in virtù di questa capacità riconosciuta di dare delle risposte alle minorazioni del welfare. Il costo elevato di gestione degli edifici e la fatica prolungata di trovare affittuari hanno indotto molte famiglie a donare gli immobili alla Caritas. Si tratta per ora di una quarantina di immobili, tutti siti in Biella o nelle vicinanze (ma il numero è in aumento, e sempre più si tratta di case lontane da Biella). La Caritas ha costruito, con questi immobili, una fitta rete di accoglienza di ‘secondo livello’ che fa parte di un progetto di coordinamento teso a ottimizzare e incrementare il piano-casa della città. Si tratta di un piano quinquennale, guidato dalla Caritas, che comprende il Comune, il Cissabo (Consorzio dei Servizi Socio-Assistenziali del Biellese Orientale), il Centro Servizi Volontariato, alcuni enti privati. Nel piano si prevedono progetti di sistemazione degli alloggi, inserimento di abitanti, un ‘cohousing fraterno’, l’accoglienza di rifugiati, altre strutture. L’obiettivo è triplicare i posti di accoglienza.
accoglienza di secondo livello 1.
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Il problema dell’accesso ai beni alimentari è variamente risolto, nel biellese, da una rete di associazioni guidate dalla Caritas e dalla Fondazione Pistoletto. Inizialmente mossi dall’apertura di una ‘mensa di condivisione’ dove gli utenti sono soprattutto anziani, persone sole, persone con problemi gravi di depressione, ma anche poveri, negli ultimi anni la domanda crescente ha indotto la Caritas a costruire un ‘sistema del cibo’ piuttosto articolato. Alcuni empori (situati tra Biella e Cossato, la strada-mercato che ha costruito lo sviluppo industriale degli anni ’80) distribuiscono alimenti freschi, approvvigionati da reti che legano alcuni supermercati locali e da progetti in cui si recuperano alimenti casa per casa (progetto Frà Gallino). Enogood e Tacàtì sono invece due progetti gestiti da Caritas diocesana che intendono curare la distribuzione di prodotti di cascina o di bottega casa per casa. Fondazione Pistoletto e Caritas diocesana hanno inaugurato Let Eat Bi, un piano teso a fornire spazi da coltivare ad orto (a Cossato e a Verrone) per l’autosussistenza di disoccupati. Le competenze vengono poi raffinate, sempre a Cossato, in un’azienda agricola semiprofessionale gestita da una cooperativa legata a Caritas. A questo progetto si affianca quello di una falegnameria che produce mobili a partire da pallet , a Biella, e una caffetteria, in collaborazione con l’Associazione Pacefuturo, a Pettinengo. Tutti questi progetti sono rivolti a disoccupati in grave difficoltà e affiancati da progetti di accoglienza. A Veglio, piccolo comune montano dove l’abbandono e l’invecchiamento sono dinamiche molto sentite, si tenta di fornire a titolo gratuito degli appartamenti
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(muniti di wi-fi) purchè si desideri abitare e lavorare lì. La Fondazione Pistoletto mette a disposizione, nei suoi formidabili spazi post-industriali, locali e servizi per impiantarvi piccole o grandi start-up. La Banca Sella, in forma simile, offre nella sua fondazione spazi per creare delle start-up su progetti legati all’ economia digitale e alle innovazioni sociali dal punto di vista economico. In Valle Cervo, a Miagliano, The Wool Company è un consorzio che si basa sull’idea di “utilizzare” il distretto nella sua eccellenza. Qui, con allevatori di pecore di tutta Europa, si costruiscono progetti specifici che inseriscono le lane sucide nella filiera biellese per ottenerne prodotti di qualità che restano proprietà degli allevatori. Il Consorzio è pensato per promuovere la cultura della lana e, attraverso la sua attività, si impegna in continue azioni di varia natura per rinsaldare i saperi e le relazioni del territorio in cui è posto. Su modelli ben noti in altre parti del Piemonte, nel Biellese tutte le aziende si sono occupate, a livelli diversi, di welfare. Il Centro Zegna è stato un progetto di grande impatto per il territorio di Trivero, ad opera di Ermenegildo Zegna (che, dal 1932, si occupa addirittura della riforestazione di una montagna e costruisce un centro sciistico di eccellenza). Se nel complesso edilizio, inizialmente, trovavano posto un centro per la maternità (poi ospedale), un cinema, palestre, campi da gioco, bar, una piscina coperta, oggi il Centro Zegna, ceduto quasi interamente al Comune, è quasi vuoto. L’ospedaletto è infatti in via di dismissione, la piscina è un faticoso investimento comunale e restano, quindi, un bar e un outlet Zegna (di proprietà dell’azienda). Nel Centro Zegna, oggi, una manica è gestita da una
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Cooperativa (Il cammino) e ha assunto il nome di ‘Residenza del Sole’: un progetto di co-abitazione per anziani che fa parte della fitta rete di case gestite da alcune cooperative sociali del territorio e che sono coordinate dalla Caritas Diocesana. La Fondazione Zegna, invece, promuove da anni un progetto, “All’aperto”, che ha come obiettivo il facilitare la fruizione dell’arte contemporanea e dei suoi valori. Tuttavia le azioni compiute son tutt’altro che concettuali: si tratta di importanti progetti per la popolazione, come quello del 2011 attraverso cui fu reso possibile l’accesso wi-fi a molte aree di Trivero. Al Centro Zegna, nel 2013, con l’artista Marcello Maloberti si è inaugurata la riqualificazione delle terrazze (un tempo destinate al gioco delle bocce) come spazio pubblico per la cittadinanza. La Valle Cervo è una delle culle del distretto biellese. Qui tuttavia alla dismissione si accompagna l’invecchiamento della popolazione, con un indice medio che va dai 200 ai 250. Mentre l’impresa con il più alto numero di addetti resta la Domus Laetitiae, centro di riabilitazione per disabilità gravi gestito da una cooperativa legata alla Caritas, che offre la maggior parte dei servizi alla valle, il problema resta la solitudine degli anziani. Per queste ragioni un progetto coordinato da Il filo di Arianna e Caritas intende mettere in rete operatori sanitari, parroci, bar, centri di incontro, associazioni per promuovere pratiche di “buon vicinato” tra gli anziani e migliorarne la qualità della vita venendo incontro a bisogni specifici e prevenendo i problemi dell’invecchiamento in solitudine.
Ricomporsi La questione che questi episodi mettono in campo riguarda il diverso funzionamento del territorio. A Biella la crisi agisce soprattutto in termini di difficoltà a tenere insieme un quadro strategico: la rete che collegava senza soluzione di continuità industria, luoghi della produzione, luoghi del loisir, servizi, famiglie e comunità è ora profondamente disarticolata. Si tende a osservare, piuttosto, un territorio che funziona secondo reti sovrapposte. Quella delle imprese, che tentano la sopravvivenza, talvolta grazie a un importante genio imprenditoriale e creatività, quella del soggetto pubblico, impegnato nel mantenimento dei servizi che tuttavia offre con un depotenziamento drastico che riguarda soprattutto dismissione dei presidi sanitari locali e ridimensionamento del trasporto pubblico. Una terza rete è quella dell’associazionismo religioso, guidato dalla Caritas diocesana. Forte di un importante osservatorio sociale, la Caritas costruisce progetti in cui gli attori principali sono talvolta le cooperative, talaltra i consorzi, altre volte ancora soggetti privati come la fondazione Pistoletto. E dà alcune risposte al problema della casa, dei servizi, del lavoro. Tuttavia questo funzionamento per reti che faticano a entrare in contatto produce un territorio che si muove per parti e per episodi, quasi sempre di piccola dimensione e di debole impatto. Non è morto, né in decomposizione: resta da chiarire, però, se siano sufficienti dei brani di vivacità a suscitare un cambiamento e se, di fronte a spinte esterne, essi siano in grado di sostenerne il peso. La vitalità, tuttavia, è una delle forme in cui si dà il riscatto.
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I AUBERVILLIERS, PARIS IL RIARTICOLARSI DEL RAPPORTO PRODUZIONE CITTÀ
Giulia Setti
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L’area industriale di Aubervilliers fa parte dell’agglomerazione Plaine Commune: un territorio che «après avoir été durant trente ans la plus grande zones industrielles d’Europe, se voyait en devenir la plus grande friche industrielles avec la crise des années 1970». Così un’inchiesta sociale su Espace et Sociétés nel 2006 (n. 127). Si trova nell’omonimo comune, nel quale sono insediati (su …. ettari),63.136 abitanti e 2.077 imprese. Aubervilliers è a nord di Parigi, appena oltre la cintura del boulevard Périphérique, nel dipartimento della Senna-SaintDenis. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento è stato caratterizzato da una forte espansione industriale, principalmente industrie chimiche. Da tempo è oggetto di diverse forme di abbandono e dismissione che si sono notevolmente intensificate nell’ultimo decennio.
Forme e storie di dismissione Le condizioni di degrado che si osservano percorrendo il sedime del tessuto produttivo di Aubervilliers mostrano come la dismissione abbia causato processi di corrosione puntuale di manufatti, dove frammenti di industrie, che vengono abbandonate, si spengono. Si tratta, in alcuni casi, di forme di dismissione senza ritorno per le quali è difficile ipotizzare possibili forme di riuso. L’abbandono progressivo delle grandi industrie ha costituito un territorio frammentato in cui lo spazio aperto diviene sempre più interstiziale e minuto. Nonostante i processi di dismissione e il forte declino di alcune porzioni di tessuto (declino che arriva ad interessare anche l’infrastruttura di base che innerva il territorio), si sta assistendo ad una serie di episodi di riconversione, attualmente in corso. Ad Aubervilliers e nella piana di Saint Denis il carattere industriale si è consolidato e permane al di là di possibili riusi e trasformazioni; si coglie pertanto la compresenza di tempi e storie diverse legate alla dismissione. Dismissioni e riconversioni non si danno più in modo univoco, ma si articolano per parti e segmenti disconnessi; nuove forme di produzione, di carattere ancora industriale o terziario, convivono con aree in forte degrado o con forme di riconversione più puntuali e interstiziali. Cambia la scala del fenomeno, a vuoti urbani che necessitavano di essere ridisegnati, si contrappongono vuoti interstiziali generati dall’abbandono progressivo di imponenti manufatti. Il tessuto di Aubervilliers presenta tempi diversi della dismissione che modificano lo spazio secondo gradi di consolidamento differenti: alcuni manufatti hanno subito processi di recupero e riuso anche con l’introduzione di nuove tipologie di imprenditori precedentemente estranei a questi territori, mentre, in altri casi, si assiste a fenomeni di progressiva rarefazione. Le attività industriali sono state, in 1.
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parte, sostituite da attività terziarie, legate al commercio e allo stoccaggio delle merci, o da attività di ricerca scientifica, dunque una profonda commistione di usi che prevede anche la costruzione di strutture residenziali in grado di favorire il ritorno ad una certa forma di mixité in un territorio che è stato, per decenni, di matrice monofunzionale. Nel complesso sembra di cogliere una progressiva dilatazione delle nicchie e dei segmenti di attività differenti. Processi profondamente e qualitativamente diversi dai cambiamenti indotti dalle precedenti fasi di dismissione. Per lungo tempo fare impresa voleva dire assumere una determinata propensione a potenziare capacità e strutture produttive, a ricercare assetti aziendali e spaziali configurati sull’ampliamento dimensionale. Aubervilliers ha raccontato quella storia. Era il modello della grande impresa che si configurava come riferimento anche per attività che non avrebbero avuto necessità di interiorizzarlo. La transizione attuale, bene rappresentata oggi, è destinata a rimettere in discussione il rapporto attività produttiva-spazio. Nelle distese produttive di Aubervilliers si scorgono embrionali piattaforme territoriali che allineano una varietà di soggetti di impresa che è difficile ordinare entro consuete distinzioni tra grandi e piccole presenze. La stagione della dismissione degli anni 80 non ha più nulla da insegnare a fronte del divaricarsi delle traiettorie dell’abbandono, così come di quelle dello sviluppo.
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tessuti industriali dismessi superficie: 99.779 mq
tessuti industriali ancora produttivi, ma in fase iniziale di degrado superficie: 182.767 mq
tessuti industriali in corso di riconversione in nuovi impianti produttivi (Magazzini Generali) superficie: 243.488 mq
nuove strutture produttive o terziarie superficie: 26.004 mq
progetti di riconversione di edifici produttivi in corso di realizzazione superficie: 34.198 mq
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nota: 100= 100.000 mq
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_ricostruire scenari
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sezione 1 scenario possibile di modificazione
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Sistema di vuoti interstiziali
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SCENARIO 1 | SEZIONE 1
Sistem Tempo 1 | tempo dell’abbandono Tempo 2 | tempo dell’attesa Tempo 3 | tempo della modificazione Strategia: 50% DENSIfICAZIONE 50% RAREfAZIONE
Il sistema costruito
Il sistema dei vuoti aree sensibili alla trasformazione
Ricomporre frammenti Sezione 1 RaRefazione | densificazioni _storie possibili:
1 | infrastrutturazione energetica 2 | ‘produttivo su produttivo’: insediamento di nuove forme di produzione industrile 3 | aprire la fabbrica: attività di commercio e mercato agricolo 4 | riusi temporanei: nuovi spazi pubblici per la città
stato di fatto
Il sistema cos
Il sistema dei strategia: 50% demolizione 50% conservazione
impianti per produzione enegertica
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scavo | suolo pubblico produzione energia nuove attività produttive
strutture residenziali spazi per commercio di quartiere
strategia: densificazione scenario: infrastrutturazione energetica
aree sensibili a
Tempo dell’abbandono | tempo dell’attesa | tempo della modificazione
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strategia: consolidamento | demolizione
addizioni: strutture produttive
infrastrutture energetiche costruire nuovi suoli
sistema di coperture produzione di energia
Azioni progettuali
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stratificare suoli funzioni produttive | impianti per produzione energia
Strategie | operazioni sezione 1
quota +0.00
Tempo dell’abbandono | tempo dell’attesa | tempo della modificazione strategia: consolidamento | demolizione
innesti: nuove forme di lavoro/ricerca
addizioni: strutture produttive
nuovi suoli coperture energetiche
Azioni progettuali
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Nuovi supporti Il caso di Aubervilliers è un interessante oggetto di studio proprio per le possibilità che i tessuti industriali offrono di essere riciclati e trasformati nuovamente, mantenendo, al contempo, il loro carattere industriale. Le forme di riciclo interessano sia manufatti che tessuti e prevedono di immaginare scenari di modificazione in cui gradi di rarefazione e di consolidamento si intreccino stabilendo nuove condizioni. A processi di rarefazione, necessari per eliminare strutture non più riutilizzabili, si affiancano interventi di consolidamento e densificazione che prevedono addizioni di nuove volumetrie e interventi sui singoli oggetti architettonici. Il declino e l’abbandono, che toccano questi contesti industriali, possono essere visti come una fase del ciclo di vita del manufatto, superabile attraverso processi di trasformazione e recupero delle strutture esistenti. La complessità dei processi di dismissione in corso rende necessario immaginare forme diverse di intervento sul territorio, un territorio che risulta già compromesso e inquinato. I processi di riuso devono confrontarsi con una condizione di profonda instabilità: alla dismissione di usi e luoghi, si affianca una progressiva decadenza energetica causata dal degrado delle reti di infrastrutturazione, che rendono i processi di riuso più complessi. Si guarda al manufatto come parte di un tessuto produttivo e, dunque, il suolo rappresenta un elemento decisivo nei possibili processi di riuso; la costruzione di ‘suoli attrezzati’ in grado di garantire la presenza di una rete di infrastrutture e servizi appare necessaria per favorire interventi di modificazione incisivi su tessuti degradati. Il supporto industriale, descritto dal caso di Aubervilliers, mette in evidenza come siano in corso sostituzioni interstiziali che avvengono in condizioni di instabilità e che cercano di far fronte ad un progressivo sgretolarsi del suolo stesso. I caratteri della dismissione, riconoscibili ad Aubervilliers, evidenziano lo stato di crisi di un intero territorio, dovuto alle recenti contrazioni economiche causate dalla crisi, all’abbandono di forme di industria pesante e al diverso dislocarsi dei settori labour intensive su una playground globale. Sono evidenti e radicali le differenze con i modi della dismissione negli anni 80 e 90. La questione che pone, nelle sue forme per molti aspetti estreme, concerne il riarticolarsi del rapporto tra spazio produttivo e città.
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I SPAZI PUBBLICI
Lo spazio pubblico inteso come supporto principale della città moderna cambia statuto. Per due ragioni contrapposte. Perché subisce un mutamento della vita associata in cui maggiore peso hanno le forme di interiorizzazione. E, in senso opposto, perché deflagra per esplosione sociale in tutti quegli episodi che hanno pretesa di formare nuove urbanità come a Olinda a Milano, Can Battlò a Barcelona, La Friche de la Belle de Mai a Marsiglia, les Grottes a Ginevra. Che fare di questo grande supporto della città moderna? Come uscire dall’acquietante prospettiva umanista di Jan Gehl o del New Urbanism che ha sempre meno risorse per reggersi? Come immaginare lo spazio dello stare con altri nella società contemporanea, al di fuori di contrapposizioni banali tra centro e periferia , misurandosi con l’intermittenza, la pluralità e la parzialità che lo caratterizzano.
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I LES GROTTES, GENÈVE UN PUBBLICO CHE NON E’ PER TUTTI
Cristina Bianchetti, Elena Cogato Lanza Il caso di Les Grottes è restituito in E. Cogato Lanza, L. Pattaroni, M. Piraud, B. Tirone, De la Différnce urbaine, MetisPress, Genéve, 2013. Le immagini sono tratte da quel volume. Il testo è di Cristina Bianchetti.
Le public consiste en l’ensemble de tous ceux qui sont tellement affectés par les conséquences indirectes de transactions qu’il est jugé nécessaire de veiller systématiquement à ces conséquences. John Dewey (cit in inglese)
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ent une situation centrale dans vois. Cette centralité géogran niveau très élevé d’accessibitures de la mobilité aussi bien omération (tram, bus, rEr) que tionales (train, aéroport); aux ns principaux dans le domaine Hôpital) et de la formation (UNI frastructure publique et paysaressivement établie le long des n et du rhône, aux parcs urbains et Parc des Cropettes notamx reliefs du Jura et du Salève. ottes s’est développé et consonde extension urbaine du 19e e fazyste»). Les luttes socialesiques qui ont caractérisé l’hisdès les années 1970 [II.3-4 et ffet de garantir une proportion ment, notamment de logement er, malgré la politique de créalites, visant à amener le logee. Aujourd’hui, lorsqu’on situe le s à l’échelle de l’agglomération, es grands projets d’extension en une nouvelle couronne, qui se elle des cités satellites. De fait, glomération va amener à reconensionner – ce qui constitue le ve. De la même manière que les ’aménagement des rives du lac ans le quartier des Eaux-Vives) ’un élargissement des espaces pour les dimensionner à un on de bientôt 1 million d’habis publics des Grottes et l’aire navin sont devenus le jeu d’un es d’usage extrêmes – d’aggloximité – de par leur localisation
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ATTENDUS ET INATTENDUS DE LA VILLE
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SUrFACE PErMéABLE
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173
ACCèS PArKING PorTE zoNE 30 1
GArAGE HoNDA
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GArAGE DES GroTTES
3
GArAGE BEAULIEU
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PNEU EN GroS
DE LA DIFFérENCE UrBAINE 4
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intensité sonore
de vues directes sur l’espace urbain environnant ainsi qu’au paysage sonore feutré, induisant un effet de labyrinthe qui brouille l’orientation du passant. L’emplacement périphérique des équipements publics (dans les domaines notamment de la formation, du social et de la santé: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9) produit à son tour un effet de «filtre» socio-spatial: les usagers qui résident à l’extérieur des Grottes ne sont pas invités à s’avancer dans le quartier mais au contraire à s’arrêter sur ses limites. Plus largement, la Gare, la Poste et les parkings respectifs constituent une interface entre le quartier et l’agglomération tout entière, ainsi qu’une grande barrière360 construite qui situe l’Îlot 13 (à l’extrémité est du quartier) dans la continuité directe des Grottes, tout en étant placé dans une position périphérique. 49 La présence de deux EMS fait ressortir une différence du quartier par rapport à la densité et la fréquence moyenne de cet équipement sur le territoire cantonal. Avec l’Université ouvrière (installée dans le quartier en 1994) et les différents foyers d’hébergement (dont aussi Au Cœur des Grottes, foyer pour femmes en situation de précarité), ils matérialisent et perpétuent une tradition d’accueil des populations vulnérables, cruciale dans l’identité sociale du quartier, mais non moins problématique. à cet égard, l’emplacement périphérique du local d’injection «Quai 9» (2) est exemplaire d’un compromis entre une certaine tolérance à la marginalité et la volonté explicite des habitants de défendre leur cadre de vie.
Rue de la Faucille
Rue J-J-De-Sellon
Rue des Grottes
Rue Louis-Favre
Avenue Eugène-Empeyta
Rue Jean-Robert-Chouet
Le quartier des Grottes affiche des limites physiques accusées, constituées à la fois par les infrastructures 251 de transport, le bâti, la topographie et 29 les équipements. Une véritable ceinture de transports publics – tram, bus et train – encercle et isole le quartier tout en lui assurant l’accès direct aux principaux équipements du Canton ainsi qu’à ses frontières (Versoix, Moillesulaz, Bernex). Les portes «zone 30 km/h», qui filtrent l’entrée des voitures, et les carrefours à quatre feux protègent l’intérieur du 201 quartier des nuisances des flux. Un front bâti continu, de plus haut gabarit, marque les limites est et ouest du quartier sur les rues de la Servette et du Fort Barreau. Au sud, le parking du square de Montbrillant fonctionne comme 214 dispositif de prise de distance de la Gare. Au nord, le parc de l’école des Grottes (5) marque la discontinuité face aux îlots réguliers sis au-delà de la rue J.-r. Chouet, tandis qu’à l’est le parc des Cropettes sépare les Grottes de l’extension urbaine des années 1950. Plus largement, quatre paysages distincts – l’arrière-gare, la radiale urbaine de la Servette, le parc de l’école et le parc urbain équipé – contiennent les Grottes. Tout en s’inscrivant dans la longue descente du sol de la ville du Jura vers le lac, les Grottes se particularisent par l’accélération de la pente en correspondance de la rue J.-r. Chouet, si bien qu’entre le haut et le bas du quartier il y a une dénivellation de 20 mètres. Cette pente, constitutive du paysage intérieur du quartier, se combine au tracé irrégulier des rues et du bâti, à l’absence
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Gare
2
Place de Cornavin
3
2 / LIMITES
Place de Montbrillant
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+ 403.5m
+ 395.5m
intensité sonore
Parc des Cropettes
Rue de la Faucille + 395m
ZONE 30
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Rue du Fort-Barreau
Rue des Grottes Rue de la Sibèrie
Avenue des Grottes
Rue Baudit
Rue de l'industrie
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+ 383m
ZONE 30 Rue de la Servette
ZONE 30
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Les Grottes è un quartiere della città di Ginevra, posto nelle immediate vicinanze della Gare de Cornavin. Deve la sua notorietà, al fatto di aver saputo nel tempo resistere alle pressioni del mercato e ai progetti di riqualificazione urbana dei quali è stato fatto oggetto. Una resistenza costruita a mezzo di movimenti popolari, occupazioni squatter, robuste reti associative e innumerevoli iniziative culturali. Les Grottes fa della accessibilità e dell’accoglienza (principi dei movimenti occupazione case) il suo carattere. E’ oggi un’enclave altamente contraddittoria che dichiara questa sua condizione nello spazio, non meno che nei comportamenti di chi la abita. E’ una parte di città cresciuta sul suolo pubblico che non ha nulla a che fare con le forme e i modi della cosiddetta città pubblica. E’ un luogo che si regge su un’economia inesistente, posizionandosi al centro di una città che è cuore della finanza europea. E’, a suo modo, una sorta di “finta quinta urbana”, ovvero uno spazio nel quale si svolge una rappresentazione continua, oggetto di patrimonializzazione da parte di politiche, dichiarazioni, azioni. Tutto ciò la rende un luogo diverso entro la città di Ginevra. Dove la diversità è essenzialmente varietà di segni, significati, azioni.
Cosa accade nello spazio pubblico di les Grottes? Vediamo spazi aperti, resi riconoscibili da piccoli segni che rimandano a associazioni e abitanti; aiuole ovunque di specie spontanee, molto curate; spazi aperti accuratamente recintati che sono pollai temporanei per allevare galline; una vegetazione spontanea che invade lo spazio tra le case e accoglie sedie, tavoli e ingombri personali. E soprattutto una grande densità di momenti di scambio associativi, conviviali, culturali. E’ evidente una forte e continua attenzione dello spazio pubblico, ma anche la sua occupazione, a mezzo di segni, disegni, azioni. Visto da una certa distanza, quello di Les Grottes si direbbe un autentico spazio pubblico nell’accezione tradizionale: denso, pieno di relazioni calde, capace di cogliere i ritmi della vita quotidiana. Ciò nondimeno il quartiere è inteso, nella severa città di Ginevra come anomalia, tollerata perché ritenuta in grado di esprimere aspetti culturali, di creatività, di autonomia. Espressione di una particolare atmosfera. Espressione, come si è detto, di una capacità di resistenza alla normalizzazione messa in atto da progetti, politiche e norme. Quelle azioni che potrebbero apparire l’ invenzione frivola di qualcuno, o un’insopportabile esibizione (coltivare lattuga, allevare galline nel centro della città), hanno la pretesa di opporsi a norme, protocolli, standard tutti definitivi altrove. Hanno cioè la pretesa di fare dello spazio pubblico il campo per rivendicare una diversa città. 1.
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SUrFACE PErMéABLE BâTI NoN ACCESSIBLE ACCESSIBILITé orIENTéE LIMITE FrANCHISSABLE LIMITE INFrANCHISSABLE LIMITE VéGéTALE PASSAGE CoUVErT DéNIVELLATIoN MoNTéE
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La questione che Les Grottes pone ad una riflessione sullo spazio pubblico è l’esibizione di una logica dell’entre nous, dell’entre voisin nel senso dato da Monique Eleb alla locuzione. Questa logica occupa lo spazio pubblico, lo riscrive come spazio condiviso entro piccole cerchie: cerchie delle singole associazioni, dei co-housers, di coloro che si riconoscono nella storia delle lotte urbane e delle occupazioni, delle nuove élites, dei circuiti culturali. Cerchie sovrascritte le une sulle altre e ben sedimentate. Attraverso momenti simbolici, feste, piccole celebrazioni. Attraverso quella che Boltanski riconoscerebbe come una nuova convivialità, a Les Grottes si costruisce l’ossimoro di uno spazio pubblico che non è per tutti. 1.
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I CAN BATLLO’ BARCELONA NUOVI URBANESIMI
Silvia Calastri, Elisabet Roca
Noi tutti siamo mossi da illusioni, prendiamo decisioni facendo conto su una previsione di eventi che è influenzata anche da illusioni, cioè mossa da speranze, da paure, da preferenze, da opinioni che ci derivano da un effetto di imitazione. Se poi per illusioni intendiamo l’agire guidato dal “come se”, cioè da una norma o un ideale regolativo che modella le nostre decisioni e i nostri comportamenti, allora le illusioni diventano linfa dell’azione [...]. In questo modo, le ideologie diventano formidabili forze razionali [...]. Nadia Urbinati
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Un peso sempre maggiore nella città di Barcellona hanno acquisito dal 2009 in poi i movimenti sociali urbani di quartiere - Associacions de Veïns i Veïnes de Barcelona - che, in una sorta di movimento spontaneo e diffuso, sussidiario e dialettico rispetto all’Istituzione Pubblica, rivendicano, tra l’altro, spazi pubblici abbandonati, tipicamente spazi ex industriali, per rivestirli di significati e vocazioni nuove, colmando vuoti spaziali e funzionali rispetto ad esigenze e domande a cui l’istituzione pubblica non può e non riesce a dare risposta. Can Batlló e la relativa piattaforma “Plataforma Can Batlló és pel barri” nel quartiere de La Bordeta, si configurano come caso esemplare. Qui lo spazio produttivo dismesso diviene condizione nella quale radicare azioni e legami sociali. Al venir meno del collettivo (in senso moderno), fa da riscontro una sorta di “esplosione del sociale”: espressione del continuo riaffiorare di nicchie che hanno la pretesa di rifondare la città dove non c’è, reinventare servizi, creare nuove sfere pubbliche, dialogare con l’intera città. Il problema che Can Battlò pone è legato alla metamorfosi della nozione di spazio pubblico.
Interruzioni di processi e implicazioni della crisi Can Batlló e la Magoria sono un ex-complesso industriale tessile di più di 130.000 metri quadrati risalente al 1878 ed ubicato nel quartiere de La Bordeta a Barcellona. La Bordeta è un quartiere di una superficie approssimativa di 0,6 kmq. Can Batlló e l’area contigua La Magoria ne ricoprono il 25% circa. Il quartiere ha una popolazione di 18.727 abitanti di cui un 59% tra i 24 e i 64 anni, il 22% tra 0 e i 23 anni e il 19 % superiore ai 65 anni. L’ 85,7% sono spagnoli e il 14,3% stranieri, principalmente provenienti da Ecuador, Bolivia e Marocco. Le popolazione anziana che vive sola è il 21,4%, inferiore a quello della città che è il 25,2%. Occupando una parte importante de La Bordeta, Can Batlló era percepito come una sorta di bunker al centro di un quartiere già fortemente carente di spazi verdi, aree di incontro e di servizi culturali. Nel 1976, non essendo più funzionante la fabbrica tessile, il Comune include Can Batlló nel Plà General Metropolità (PGM) come area da riconvertire in servizi e aree verdi. Nel 2006 viene ridefinito il PGM e Can Batlló, di proprietà dell’Immobiliaria Gaudir, avrebbe dovuto assicurare al quartiere un parco, servizi educativi, una biblioteca, un poliambulatorio e 1656 appartamenti dei quali 958 destinati al mercato libero, 471 di edilizia residenziale pubblica e 200 viviendas dotacionales destinate a ultra sessantacinquenni. Per dare inzio ai lavori vengono sfrattate 46 famiglie residenti nell’area e 174 piccole imprese ancora presenti nel recinto in cambio di un indennizzo e della traslazione alla Zona Franca. 1.
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Il progetto di valorizzazione immobiliare è simile ad altri. Non si realizza a causa delle implicazioni della crisi economica che provocano l’interruzione del processo. Gli abitanti del quartiere attendono per anni l’inizio dei lavori fino a quando annunciano l’occupazione per il giorno 11 giugno 2011. Il Comune, con una ordi-nanza del sindaco, vista la tensione crescente, concede l’uso gratuito di un blocco di 15.000 mq dell’area, Bloc Onze, all’autogestione dei residenti del quartiere, provvedendo alle spese per la ristrutturazione dell’edificio e alla fornitura di acqua, luce e gas. Nonostante la concessione d’uso sia temporanea, i funzionari stessi del Comune sottolineano che non è stata posta nessun data di scadenza alla concessione.
Attori A Can Batlló gli attori coinvolti su piani diversi sono numerosi: la Piattaforma, il Comune, l‘Immobiliària Gaudir, la Generalitat, il collettivo di architetti La Col che fin dalle prime fasi ha accompagnato - come architetti del quartiere - lo sviluppo del recupero del Bloc Onze, partecipando anche alla commissione dedicata alla pianificazione architettonica. La presenza di architetti a Can Batlló differenzia questa esperienza da altre simili, proprio per la razionalità e la funzionalità con 1.
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cui gli spazi sono riadattati alle esigenze del quartiere, dando una percezione di solidità del progetto nel tempo a chi li frequenta. Gli spazi piccoli e grandi vengono realizzati attraverso la co-progettazione di architetti e membri della Piattaforma e realizzati dagli stessi volontari principalmente con materiale di riciclo. E’ interessante, nell’ultima fase, l’oscillazione pendolare del processo di progettazione che vede (in particolare per la sistemazione dell’area a parco) implicati il Comune, suoi consulenti esterni e gli architetti La Col. In una evidente reciproca legittimazione costruita sulla competenza tecnica. Il Comitato della Piattaforma si è dato un’organizzazione molto articolata attraverso 16 commissioni che si occupano, attraverso un processo partecipativo, di diversi temi per lo sviluppo e il mantenimento di Can Batlló tra cui la co-progettazione degli spazi, la gestione dei conflitti, la comunicazione, l’amministrazione, la contrattazione con gli enti pubblici. Una caratteristica importante della Piattaforma è l’eterogeneità dei suoi componenti per età, vissuto personale e formazione professionale e scolastica, convinzioni politiche.
Produzione di servizi Con un progetto di gestione comunitaria e il lavoro volontario e gratuito dei membri della piattaforma sono a oggi stati realizzati al piano terra del Bloc Onze una biblioteca di 300 mq, un bar con un ampio spazio per incontri e concerti e un auditorium di 250 mq e l’11 aprile 2014, dopo due anni di lavoro, sarà inaugurato il rocodromo. Al secondo piano è in via di realizzazione un grande spazio polifunzionale di 750 mq. Sono stati realizzati anche una falegnameria e un piccolo orto collettivo, che in futuro sarà ampliato. Un’attenzione particolare è data alla progettazione architettonica e all’integrazione del Bloc Onze nel contesto del quartiere: gli spazi vengono ristrutturati e modificati seguendo le attribuzioni funzionali decise e votate dalla Piattaforma e adattate al contesto. L’intervento forse più importante, anche dal punto di vista simbolico, è l’abbattimento del muro che chiudeva il perimetro di Can Batlló: l’apertura dell’area e la creazione di un passaggio pedonale e di un piccolo parco giochi per bambini davanti alla vecchia entrata della fabbrica rendono permeabile un’area fino a due anni prima esterna al quartiere. Il progetto prevede molti altri interventi tra cui la realizzazione di orti, di un asilo, la sede di un’università popolare, il parco pubblico, un coworking. L’ultimo piano di sviluppo dell’area concertato con il Comune e l’Immobiliària Gaudir risale al 2011 e prevede una nuova definizione degli spazi destinati a uso abitativo pubblico. A luglio 2014 il Comune inizierà l’iter amministrativo che porterà alla realizzazione di due edifici (UP4 e UP8) per un totale di circa 52 appartamenti, destinati a edilizia residenziale pubblica, assegnando come prima necessità nuovi alloggi alle 46 famiglie colpite dalla demolizione dei vecchi edifici preesistenti. Un altro edificio (UP6) è stato assegnato dal Comune ad una cooperativa abitativa che ha già aperto il bando per l’assegnazione dei 27 alloggi previsti. Il blocco UP5 sarà destinato alla realizzazione di 133 abitazioni residenziali pubbliche. Per il blocco UP7 la cooperativa La Col, appoggiata dalla Piattaforma, ha proposto la realizzazione di una cooperativa abitativa sul modello del cohousing scandinavo.
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Vecchie retoriche e nuove abilità Come in molte altre situazioni analoghe, a Can Battlò si realizzano servizi in una fase di crisi di welfare. Ciò che forse ne definisce la particolarità non è tanto l’articolato e rigido impianto organizzativo (i 16 comitati), quanto il legame con un luogo di cui si enfatizzano i connotati e si esalta la memoria storica. Can Batlló nasce come espressione di un quartiere che ha precise caratteristiche socio-culturali. Non vuole essere un luogo neutro, ma espressione e luogo simbolo della identità operaia del quartiere. L’essere nel contempo radicalizzati in un luogo e in una memoria da un lato, e aperti all’intera città alla quale ci si propone, come modello replicabile dall’altro riefinisce un nodo di questioni non facile da districare. Tra vecchie retoriche e nuove abilità. 1.
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I FORME DELL’ ABITARE
Dennis Hardy e Colin Ward hanno raccontato il senso di libertà che accompagnava un abitare informale entro il paesaggio del sud-est dell’Inghilterra nella prima metà del 900. Dettato da molte ragioni, praticato da individui dotati di buon capitale culturale e duramente osteggiato dai cultori dell’intangibilità del paesaggio inglese. Un’ Arcadia for All dalle molteplici e ambigue eredità. Tornare ad abitare in montagna, colonizzare le terre dure dell’industrializzazione olandese o le frange di campagna che hanno perso capacità produttiva sono forme nelle quali si esprime la ricerca di un Arcadia contemporanea?
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I VAL MAIRA, PIEMONTE RAZIONALITA’ MINIMALI
Giacomo Pettenati Le elaborazioni grafiche e le immagini fotografiche sono di Eloy Llevat Soy
[...] scoprire la bellezza dell’ambiente soprattutto in quegli ambienti dove uomini e donne raggiungono una coscienza più completa della loro stessa identità. Ma l’identità che stiamo inseguendo [...] richiede uno scenario spazioso, meno domestico, meno dettagliato. John Brinckerhoff Jackson
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Da sempre la val Maira, come la maggior parte delle valli delle Alpi latine è terra di migrazioni. Per molto tempo migrazioni stagionali, quelle messe in pratica per sopravvivere allo chomage hivernal (Viazzo 1989), alla sovrappopolazione dei lunghi mesi invernali, che ha reso la valle famosa per i mestieri itineranti di acciugai e raccoglitori di capelli svolti da molti suoi abitanti. L’avvento della modernità ha reso le Alpi marginali per la prima volta nella storia (Salsa 2007): da un punto di vista economico, culturale, politico e demografico, trasformando l’emigrazione temporanea in permanente. È l’esodo raccontato da Nuto Revelli (1977), che ha svuotato intere vallate, desertificandole, proiettandole nella spirale della marginalità e trasformando la montagna nel mondo dei vinti. Causa di questa seconda tipologia di migrazioni è stata una crisi economica lunga, strutturale, per certi versi irreversibile, che ha reso la montagna marginale rispetto alla città, dopo secoli di sostanziale parità tra due mondi, nei quali, con l’eccezione di ristrette élite, tutti erano miserabili. In poche decine di anni (indicativamente, tra il 1931 e il 2011), l’alta val Maira, come altre alte valli piemontesi (Varaita, Po, Stura, etc) ha perso quasi l’80% dei propri abitanti, con picchi superiori al 90%, in comuni come Macra, Celle, Acceglio.
TORINO centro amministrativo della regione
BUSCA 10.058 ab
ospedale poliambulatori consultori medici
ACCEGLIO 174 ab
6km 9min
DAMIANO PRAZZO 7km 9min STROPPO 5km 6min MACRA 7,8km 10min S. MACRA 108 ab 181 ab 56 ab scuole primarie
scuole medie
458 ab
9,6km 13min
DRONERO 7.360 ab
scuole medie scuole primarie posta
CUNEO centro amministrativo della provincia
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Da territorio di espulsione a territorio di attrazione A partire dagli anni 80, una crisi ha cominciato ad investire anche la città moderna. Una crisi che prima ancora di manifestarsi drammaticamente come economica è stata culturale, di fiducia in un modello. Una sfiducia che seppur non diventando dominante, ha colpito molti cittadini, dando vita ad esperimenti più o meno sinceri e più o meno riusciti di vita alternativa, al di fuori della città, di ricerca di neo-ruralità, di “voglia di campagna” (Merlo 2006). In questo contesto si sono sviluppati i primi progetti di vita di singoli individui e nuclei familiari che hanno scelto di realizzare i propri ideali nei territori devastati (economicamente, culturalmente e soprattutto in termini di speranza nel futuro) dall’esodo montano. Questi “pionieri” sono arrivati in val Maira intorno alla metà degli anni 80, spinti da forti motivazioni etiche e ideologiche, legate anche alla riscoperta dell’identità occitana, vista come veicolo culturale di modelli altri rispetto a quelli dominanti. La montagna cuneese, territorio lasciato ai margini dai processi culturali ed economici dominanti, anche in molte valli alpine, si presenta infatti in quel periodo come uno dei pochi luoghi vicini dove poter mettere in atto un’alterità radicale nei percorsi di vita personali (Bartaletti 2004). Il fenomeno si è verificato, con caratteristiche simili, oltre che in val Maira, nella maggior parte delle altre valli cuneesi: Po, Varaita, Grana, Stura. I primi arrivati hanno aperto la strada a un nuovo popolamento, del quale sono oggi protagoniste anche altre persone, spesso giovani, spesso insediate proprio nelle realtà territoriali riterritorializzate dall’arrivo dei pionieri, che hanno posto le basi per nuovo humus sociale e culturale che funge da pull factor migratorio (Pettenati 2013).
Stroppo Stroppo è un comune dell’alta valle, duramente colpito dallo spopolamento. All’Unità d’Italia contava 1739 residenti, ridotti a 635 nel 1951 e a soli 102 nel 2013. Proprio le borgate svuotate e semi-diroccate del versante solatio di questo paese in via d’estinzione hanno costituito a partire dagli anni 80 un fattore d’attrazione. Da allora, tra le pieghe di una dinamica demografica che i numeri descrivono ancora come negativa, a causa dell’elevata età media della popolazione e del rapido ricambio di residenti, si sono ritagliati uno spazio sempre più importante nuovi abitanti, che hanno trovato a Stroppo le condizioni per realizzare i propri progetti di vita e lavorativi e che oggi costituiscono la componente principale della popolazione attiva di questo paese rinato. Quasi tutti i nuovi abitanti protagonisti del processo descritto in queste pagine possono essere definiti “portatori di progetti” (Cognard 2006). Innanzitutto progetti personali, di vita e lavorativi, che identificano nella montagna una risorsa, un milieu territoriale nel quale vederli realizzati. La progettualità individuale è inoltre inserita in quella che si potrebbe definire una progettualità territoriale, che integra le prospettive professionali e familiari dei singoli individui con progetti che mirano a valorizzare il territorio d’insediamento scelto da questi soggetti. In altre parole, all’interno dei progetti individuali viene considerata come risorsa chiave non la montagna, ma un territorio montano con caratteristiche precise (sociali, ambientali, culturali, etc.), che si realizza attraverso la condivisione di 1.
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230m
236m
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242m
128m
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fabbricati residenziali fabbricati dâ&#x20AC;&#x2122; uso religioso
fabbricati strade sentieri fiumi
Stoppo 1.
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questa visione territoriale da parte dei nuovi e dei “vecchi” abitanti. A Stroppo, come in quasi tutta l’alta valle, questa convergenza di prospettive sembra realizzata e l’intera zona può essere definita un laboratorio territoriale di successo di questo nuovo abitare nella montagna contemporanea.
Abitare. Dove e come La localizzazione dei luoghi nei quali si insediano i nuovi abitanti è frutto di una scelta ben ponderata. Ovviamente, compatibilmente con la possibilità di trovare abitazioni disponibili e a prezzi ragionevoli, non sempre semplice, oggi ancora meno di 20-30 anni fa, quando arrivarono in valle i primi “pionieri”. E una, seppure minima, dotazione di servizi sanitari, scolastici e di trasporto pubblico. Alla scala comunale, è facilmente osservabile come le borgate più interessate dall’insediamento di nuovi abitanti siano quelle che si sviluppano, a diverse altitudini, lungo la strada che percorre il versante soleggiato della valle, collegando Stroppo ad Elva: Arneodi, Paschero, Morinesio, Cucchiales, San Martino. Quasi ignorate dal fenomeno sono invece le borgate lungo la strada statale che percorre tutta la valle (Bassura, Noufresio, Pessa) o quelle più difficili da raggiungere in auto (Centenero, Caudano, Ciamino). Questa localizzazione selettiva è espressione dell’importanza dell’amenity (Moss 2006) della località d’insediamento in questo particolare processo migratorio. O di una razionalità minimale, come si sarebbe detto nella fase di indagine iniziale dei fenomeni di dispersione, quando ci si è posti il problema di capire localizzazioni che muovevano dalla città, in modo per nulla disperso e poco orientato. Anche allora, seppure in territori completamente diversi, la buona esposizione, le condizioni di realizzabilità di progetti di vita non urbani, costruivano ragioni solide, ancorché minimali. La stessa attenzione viene posta all’individuazione della casa nella quale abitare o, nel caso in cui questa fosse già di proprietà dei nuovi abitanti (spesso appartenenti a famiglie originarie di questi luoghi) alla sua ristrutturazione e adeguamento ad abitazione di uso quotidiano. La ristrutturazione dell’abitazione, spesso svolta in prima persona o con l’aiuto di amici, in alcuni casi già nuovi abitanti, è un momento di grande importanza materiale e simbolica nel percorso di trasferimento in montagna. Si tratta di case nelle quali si rinuncia ad alcune comodità delle abitazioni urbane (riscaldamento sempre efficiente, strade sempre libere dalla neve, etc.) e in alcuni casi – contrariamente a quanto si potrebbe supporre anche a spazi interni (le case delle borgate sono quasi sempre più piccole rispetto alle abitazioni suburbane o dei piccoli centri di pianura), barattate in cambio di grandi panorami, silenzio, vicinanza alla natura e vita di borgata. I nuovi abitanti delle aree montane si insediano in località abbandonate o caratterizzate da un’estrema rarefazione sociale e territoriale, creando nuovo presidio territoriale e nuovo territorio laddove quello precedente stava andando perso. E’ cruciale, da questo punto di vista, ragionare su distanze, prossimità, misure, logiche spaziali, principi riconoscibili degli usi degli spazi aperti e degli spazi costruiti, in relazione tra loro. Ovvero di ciò che fa del territorio (montano, in questo caso) uno snodo non meno complesso di usi, pratiche, norme e valori. Lo stesso fenomeno può anche essere interpretato alla luce della schematizzazione del ciclo territorializzazione-deterritorializzazione-riterritorializzazione, proposta da Raffestin (1984). Alla perdita di funzioni delle borgate rese deserte dallo 1.
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spopolamento (de-territorializzazione) si è sostituita una ri-territorializzazione, costituita dall’affermarsi di nuove funzioni e nuovi valori. In Val Maira il processo è evidente nella borgata di San Martino inferiore (1400 m.), la quale fino agli anni 50 circa era una popolosa borgata agricola, completamente desertificata dallo spopolamento, protrattosi fino alla fine degli anni 80. Negli anni 90 una coppia austriaco-tedesca decise di acquistarvi una casa, ristrutturarla ed avviarvi un’attività ricettiva e culturale. Da allora San Martino, che oggi ha attirato anche altri nuovi abitanti, è il luogo della Val Maira più conosciuto e frequentato dai turisti di lingua tedesca ed ha sostituito la propria precedente territorialità di borgata alpina rurale, venuta meno in seguito allo spopolamento, con una nuova territorialità legata al suo essere il nodo di una rete internazionale turistica e culturale. Altra borgata simbolo è quella di Morinesio (1450 m.), diversa fin dall’apparenza esteriore tanto dalle frazioni abbandonate e diroccate, quanto dalle borgate “bomboniera”, popolate solo poche settimane all’anno da proprietari di seconde case indifferenti alla montagna, se non come luogo di riposo o di sport. A Morinesio, come nella contigua Ruata Valle, si concentrano molte famiglie di nuovi abitanti, che hanno ristrutturato molte abitazioni, avviando attività economiche in loco (aziende agricole, b&b, locande, etc.) o vivendo la borgata come spazio residenziale.
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Un’urbanità facoltativa I nuovi montanari, sono protagonisti della vita di Stroppo, dal punto di vista politico, economico, sociale, culturale. Ciò che soprattutto merita di essere sottolineato è la consapevolezza che molti di loro hanno del proprio ruolo nel tracciare le sorti future di questo territorio, nell’essere attori non solo di un progetto di vita individuale, ma di un progetto territoriale, forse implicito, che racchiude altre progettualità personali e familiari. Episodio simbolo di questo atteggiamento è la scelta di fare acquisti, quando possibile, nel piccolo negozio di Stroppo, l’unico dell’intero comune, preferendo contribuire al mantenimento di un importante presidio sociale e territoriale, piuttosto che risparmiare effettuando i propri acquisti nei supermercati di fondovalle. Una conferma di questo atteggiamento proviene dalla presenza di “nuovi abitanti” nei (pochi) ruoli istituzionali del comune, dove essi costituiscono la maggior parte degli assessori e dei consiglieri comunali. Lasciare la città per vivere in montagna parrebbe significare per costoro scegliere di fare parte di una comunità. Entro forme di socialità che non riescono a mettere in pratica in città.
zone in ombra zone in ombra zone boschive zone boschive
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Ruoli politici, sociali e trasformazioni del territorio possono naturalmente determinare conflitti con gli abitanti autoctoni e con i proprietari di seconde case. Al centro dei conflitti con questi ultimi, vi è l’incompatibilità tra modi di concepire e “vivere” la montagna, come luogo di lavoro e di vita, o come scenografia del proprio tempo libero. Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la scelta di trasferirsi in montagna come antiurbana. Alla rinuncia alla città intesa in senso moderno, come definita da densità, continuità e contiguità, non si affianca infatti una rinuncia a comportamenti urbani, alla vita civile, ai servizi, ai legami sociali. La scelta non è di isolamento, bensì di maggiore partecipazione, di ricerca di un ritrovato protagonismo nella vita pubblica, di relazioni sociali non ridotte, né in quantità, né in qualità. Entro microcosmi. Si potrebbe parlare di un’urbanità facoltativa, praticata quando la si vuole (in montagna o spostandosi occasionalmente a valle) nei suoi aspetti positivi, barattando le sue caratteristiche negative con le difficoltà della montagna, scelte e per questo sopportate. «Siamo nella giusta via di mezzo –dice un’abitante intervistata– tra il selvaggio e la vita urbana, nel senso che se voglio andare al cinema posso andare al cinema, se mamma deve fare la spesa può andare a fare la spesa, però tutto questo è vicino solo quando lo desideriamo noi». Di nuovo il confronto con i territori della diffusione e della loro “mobilità allargata”, pare ineludibile. Ciò nondimeno è utile sottolineare come il ripopolamento della montagna presenti, caratteristiche molto differenti: sono assenti, non frequentati, né cercati quei luoghi simbolo dell’urbanizzazione dispersa (centri commerciali, attrezzature sportive collettive, cinema multisala, grandi infrastrutture, etc.). Inoltre i protagonisti del fenomeno descritto in queste pagine solo raramente trasferiscono al di fuori delle mura cittadine le attività lavorative che svolgevano in città, bensì scelgono nella maggior parte dei casi di lavorare in e della montagna (turismo, artigianato, agricoltura, ristorazione, allevamento), integrando attività tradizionali con forti dosi di innovazione (dalla coltivazione biologica del genepy al telelavoro). Caratteristiche che distinguono la val Maira da altri territori montani, nei quali le dinamiche demografiche positive sono espressione dell’espansione dell’area metropolitana diffusa, che risale le basse valli, ad esempio in val di Susa.
Colonizzazioni Forse non è sbagliato parlare di colonizzazione, ma sarebbe più preciso dire che siamo di fronte a due colonizzazioni in conflitto, quella delle piante pioniere, del bosco che si mangia il territorio svuotato di popolazione e quella dei nuovi abitanti (o forse meglio dire degli abitanti nuovi, qualunque sia la loro origine), che scelgono di vivere in montagna e della montagna, ri-territorializzandola e trovando in essa le risorse per i propri progetti di vita e territoriali.
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I BRABANSTADT, HOLLAND COLONIZZAZIONI DI TERRITORI DIFFICILI
Alessandra Conticini
[...] badare ai propri bisogni privati [...] significa rinunciare alle [...] illusione ed alle pretese insolenti di migliorare il mondo [...] Albert O. Hirschman
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Hellmond 1.
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In Olanda, la dismissione di parti consistenti del sistema produttivo ha determinato una inedita disponibilità di terreni. Lungo i canali delle cinque città del Brabante (Helmond, Tilburg, Eindhoven, Hertogebosch e Breda, più conosciute come B5), vaste porzioni di suolo abbandonato sono attraversate da nuovi usi e nuove esperienze abitative supportate da una formidabile rete associativa. L’associazionismo è tanto radicato e capillare da essere considerato parte della cultura nazionale; vanta mezzo secolo di esperienze e si dispiega entro campi che vanno dal collaborative housing, fino allo squat, regolato da leggi che ne monitorano e consentono la diffusione. Le reti associative, in forma di comunità più o meno coesa e organizzata, si addensano entro edifici da recuperare in città, ne costruiscono di nuovi, si allentano nell’immediata campagna in cerca di spazi incolti e terreni inospitali dove insediare orti e fattorie.
Fattorie didattiche A Helmond, lungo i tratti in cui il Willemsvaart Kanaal si allontana dal centro cittadino ed attraversa residui di campagna costretti entro tessuti industriali, si impiantano fattorie didattiche dove vivere e lavorare assieme, spartirsi beni e frutti della terra, prendere decisioni ed assumersi responsabilità comuni in nome dell’autosussistenza e della pedagogia. E’ il 2005 quando una coppia originaria della città acquista un modesto fabbricato rurale, raro se non unico superstite del processo di industrializzazione del canale ed alcuni terreni interclusi tra magazzini, industrie e piazzali logistici. L’obiettivo è fondare una vera e propria comune. Le attività che si svolgono oggi nel nuovo insediamento sono numerose: agricoltura biodinamica, permacoltura, allevamento, promozione di workshop ed eventi, come l’annuale Celebrazione della Primavera (ma poi anche dell’Estate, dell’Autunno, dell’Inverno, del Silenzio, del Sole). Feste pagane che si susseguono ad evidenziare la volontà di sensibilizzazione degli abitanti della vicina città nei confronti di alcuni temi, ma anche il carattere marcatamente imprenditoriale delle iniziative e della promozione. Durante gli workshop i bambini delle famiglie di Helmond che hanno aderito alle iniziative vengono guidati alla scoperta del mondo agricolo (semina, tosatura, preparazione della biada), educati alla costruzione di piccoli orti da portare a casa. Nel frattempo, mentre gli abitanti della comune si occupano dei bambini, i genitori trovano il loro spazio accanto al falò, dove si beve the, si parla, si stringono legami che si rinsaldano stagione dopo stagione. A fine giornata, piccoli e grandi si ritrovano all’interno della tenda cerimoniale, insieme agli abitanti della comune e a qualche passante curioso che si unisce al gruppo. Una comune che promuove teorie della decrescita ed 1.
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economie di sussistenza, coltiva la terra ed amministra attività imprenditoriali, lavora su twitter e distribuisce biglietti da visita. Una comune dai tratti vagamente hippies che, tra scheletri di carriponte e vecchi capannoni abbandonati, acquista suoli non più occupati dall’industria e li riconverte in campi coltivati da nuovi contadini di città.
Houseboats A Tilburg, entro forme non dissimili, si abitano houseboats lungo l’Hoevense Kanaaldijkeche che dal centro cittadino si protrae verso l’esterno della città attraverso insediamenti dalle geometrie rigorose e dai materiali duri. Fuori dal centro della città, in prossimità delle aree esondabili, dove la pressione del mercato immobiliare è più debole, l’abitare convive con attività industriali occupando spazi tra terra e acqua, stratificando pratiche di condivisione, entro strisce di suolo profonde pochi metri. Da un lato, case galleggianti che gettano l’ancora in prossimità di un attracco libero (solitamente dotato dall’amministrazione cittadina di numero civico e di un kit per la raccolta differenziata), dall’altro, approdi che consentono agli abitanti delle imbarcazioni l’uso collettivo dell’argine, dove si organizzano orti, si accumulano attrezzi da lavoro per la manutenzione delle barche e punti di attracco per eventuali naviganti che desiderino ormeggiare. Nonostante sia il Comune a regolarizzare l’houseboating, il punto di riferimento per gli abitanti delle houseboat è l’associazione Wateridee, anch’essa a pelo d’acqua, l’associazione si è dotata di un duplice programma: sensibilizzare la popolazione verso questo tipo di abitare e sostenere chi vi ha già aderito. Ancora una volta le attività sono rivolte a famiglie e bambini (dal corso di pittura alla scuola di vela) e sono nettamente improntate alla convivialità. Il tema della condivisione a Tilburg torna ad incrociare la rete associativa che, tra impianti industriali attivi e capannoni dismessi, promuove uno stile di vita nel quale i cittadini si trasformano in equipaggio e condividono, anche se solo temporanamente, la passione ed i disagi di un abitare a pelo d’acqua.
Nuove occupazioni A Eindhoven, l’ecologismo anarchico che segna il carattere delle nuove occupazioni riscrive una tradizione fitta di esperienze e bene strutturata. Della Sigarenfabrieken luogo storico del movimento punk della città, resta oggi uno scheletro addossato al Zuid-Willemsvaart Kanaal. Una copertura accartocciata, qualche muro diroccato e solai senza connessioni verticali. Poco distante, una cortina muraria cinge un altro luogo altrettanto denso di memoria, l’Effenaar. Il movimento punk che ha animato Eindhoven nell’ultimo ventennio del secolo scorso scompare alla fine degli anni Novanta, assieme alle prime demolizioni di fabbriche ed ai progetti di riqualificazione di aree lungo il canale. Persistono invece le occupazioni. Più regolate ed organizzate di un tempo, meno aggregate nei luoghi della dismissione. Oggi, si occupano spazi spesso piccoli, variamente 1.
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Tilburg 1.
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dislocati fuori o dentro la città: un appartamento in pieno centro come il pilone del ponte verso Geldrop. Mappe e social network disegnano la disponibilità di spazi e la varietà dell’offerta abitativa per i nuovi squatter. Non più i punk degli anni Ottanta e Novanta, ma famiglie e piccole comunità che tengono alla promozione dei propri principi morali quanto alla loro protezione entro rifugi ben protetti da barriere fisiche e simboliche.
Un Vivre ensemble Il caso olandese è paradigmatico. Lungo i canali, nei territori délaisses, nelle frange agricole e in quelle urbane si addensano episodi minuti che ricercano un diverso vivre ensemble entro una molteplicità di forme leggere: nelle forme associative, nella riscoperta di un ecologismo e di un fare artigiano più o meno accentuati, nelle forme comunitarie e un po’ autarchiche che si tengono lontane dal mercato. O che vogliono promuovere forme di consumo fuori dal mercato. Queste esperienze invitano a riflettere su una organizzazione spaziale costruita a partire da pratiche abitative informali, convergenti verso un comune orizzonte di condivisione (di disagi, vantaggi, interessi, memorie). E’ l’opposto della città diffusa della fine del Novecento, quando in Francia, Italia, Svizzera, Olanda si affermava una logica di dispersione segnata da lottizzazioni minute, case individuali su lotto, riuso parossistico del capitale fisso sociale. A quella dispersione oggi fa riscontro la ricolonizzazione dei territori abbandonati: fenomeno che ha differenti logiche, investe territori altri e, soprattutto, dichiara uno slittamento radicale dei valori attribuiti all’abitare. Si prende possesso dei luoghi spesso abbandonati da anni, residui di processi di industrializzazione interrotti. Si decide come abitarli, rovesciando l’ordine funzionale tradizionale, ricostruendo spazi condivisi. Si riproducono i principi della solidarité, convivialité; créativité, autogestion che hanno governato storie urbane degli anni Settanta e Ottanta. E li si disloca altrove. Declinando questi stessi principi in rapporto all’autosussistenza, alla decrescita, all’ecologia. Se una prerogativa essenziale della proprietà individuale nella città dispersa è abitare a proprio modo, qui c’è qualcosa che nel contempo è profondamente simile e differente. La libertà di reintegrare lo spazio abitativo «dans les sphères du désir», cme scrive Luca Pattaroni: un investimento affettivo intenso. Anche se gli episodi sono minuti, hanno la pretesa di essere innovativi, esemplari, radicali. Di affermare quello che Paolo Grossi direbbe (mutuando da Cattaneo) «un diverso modo di possedere». A volte si dichiarano radici nei movimenti conflittuali degli ultimi decenni del secolo. Che queste forme siano l’eredità di quello sfondo e di quelle lotte (una sorta di perpetuarsi de «l’esprit des squats» ), è una questione che merita di essere discussa. Quella logica che voleva essere urbana e che si appellava al droit à la ville, oggi pare fondamentalmente antiurbana e secessionista. L’ordine spaziale delle nuove colonizzazione si appella alle occupazioni anarchiche, ma ricorda per alcuni aspetti il nomadismo libertario di J.B. Jackson. E per altri, l’Arcadia for All di Colin Ward e Dennis Hardy. In ogni caso non è più l’abitare ancorato ad un tessuto urbano. Secondo i modi dei wagenburg tedeschi o dei travellers inglesi si sta fuori, si definiscono altri rapporti tra l’abitare e il territorio, si adottano strategie da pionieri. Dichiarando a gran voce l’abbandono della città e la lontananza dall’abitare moderno. 1.
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II II. NORME, DIRITTI, VALORI. LE CONDIZIONI PER UNA NUOVA OPERATIVITÀ Le situazioni che abbiamo indagato mettono alla prova concetti, ipotesi, problemi, politiche e mostrano un mutamento radicale della città contemporanea. Mutano le norme che diventano più numerose; hanno pretesa di conferire qualità, comfort, sicurezza, riduzione dei costi, razionalizzazione dei processi. Mutano i valori: l’ecologismo intransigente, il nuovo francescanesimo , l’osservanza di codici attenti a frugalità e riciclo non sono messi in discussione. Mutano i diritti che perdono il loro carattere generale e deflagrano in prerogative, poteri, immunità. Il mutare di norme, diritti, valori ridisegna un diverso quadro di operatività per indagini, progetti e politiche.
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Together, Lorenza Mazzetti, 1956 1.
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II Spazio pubblico. La principale infrastruttura della città moderna
Cristina Bianchetti
Together è un film sperimentale realizzato nel 1956 da Lorenza Mazzetti in collaborazione con Lindsey Anderson, esponente del free cinema britannico. In questo film Londra, ancora ferita dalla guerra, è per intero spazio pubblico. Uno spazio dilatato e potente del quale cogliamo bene i caratteri: la vocazione storica e moralistica, la dimensione generale, il carattere di spazio civico capace di incorporare le differenze, retto da norme, diritti, valori della città moderna. Lorenza Mazzetti non poteva aver letto il testo di Jurgen Habermas, pubblicato solo 6 anni dopo, ma nel film c’è l’idea che il libro di Habermas ha contribuito a veicolare con molta forza: lo spazio pubblico come spazio virtuoso della cittadinanza, spazio dello scambio interpersonale, della comunicazione. Lo spazio che rende visibile l’istituzione politica. In altri termini, l’infrastrutturazione principale della città moderna. Una ricerca sulla metropoli europea ai tempi della crisi non può eludere di interrogarsi sullo spazio pubblico. Affrontando una questione “classica” negli studi urbani, sulla quale si è stratificata una letteratura infinita. Ma che chiede di essere di nuovo fronteggiata. Perché lasciata alle spalle la città del 900 (e con un concetto di cittadinanza che è tornato ad occupare molta parte della riflessione della filosofia politica), è necessario trovare adeguati strumenti concettuali e operativi. Soprattutto a valle di un periodo nel quale, esaurite le risorse che hanno retto i processi di riqualificazione urbana, lo scenario appare drasticamente mutato. L’ipotesi sostenuta è che, contrariamente a quanto generalmente si afferma, si sia di fronte ad un dilatarsi dello spazio pubblico che nel contempo perde i suoi caratteri fondativi. Perde la vocazione storica e moralistica, la dimensione complessiva e generale, il carattere di spazio civico coerente capace di incorporare le differenze. Si potrebbe dire che si sia di fronte a quell’affaiblissment generale che per Alain Touraine connota i nostri anni “dopo la crisi”. Il che è vero. Ma la riarticolazione va oltre un indebolimento generale. Lo spazio pubblico deflagra, non per svuotamento, ma per esplosione sociale. Per sviluppare questa ipotesi si fa dapprima (e molto sinteticamente) riferimento a due casi trattati dalla ricerca: il caso di Les Grottes a Ginevra e quello di Can Battlò a Barcellona. I due casi pongono il problema di capire come si incrinano le gerarchie legate alla nozione di pubblico nella città contemporanea. Gerarchie che sono chiare nel moderno, laddove è il carattere istituzionale dello spazio pubblico (e la sua normatività) a sottolineare la dipendenza dell’individuo dal sociale. Per questo lo spazio pubblico del moderno è “per tutti”. Mentre a Les Grottes e Can Battlò è “per alcuni”: per i vecchi squatters, le élites culturali, quelle artistiche, i co-housers, ecc. Con il venir meno delle gerarchie del moderno cambiano anche i rapporti tra gli spazi. Si costruiscono spazi che sono pubblici in modo diverso. 1.
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Qui si tocca con mano quella pluralizzazione del pubblico di cui parlava Dewey nel 1927. La pluralizzazione dello spazio pubblico è restituita attraverso tre forme dello spazio pubblico. Quasi in modo controintuitivo, la prima forma è quella dello spazio dell’intimità. Lo stare da soli nello spazio pubblico, al di fuori dello sguardo dell’altro. Al suo centro è la nozione di distanza nelle diverse accezioni che assume. La seconda forma è il ribaltamento della prima. Allo stare nascosti si sostituisce il desiderio di comunicare il proprio mondo, costruire legami densi con chi è prossimo, esibire il proprio sé nello spazio pubblico. E’ lo spazio dell’extimité che assume forme multiple e costruisce luoghi nei quali si negozia il desiderio di esporsi con le regole della convivenza. Al suo centro è la nozione di prossimità. La terza figura è quella dello stare con altri nello spazio pubblico. Al suo centro è la nozione di densità. Prendere sul serio la pluralizzazione dello spazio pubblico e il suo deflagrare per esplosione sociale significa aprire un diverso campo di lavoro. Diverso dalla prospettiva tradizionale venata da un umanesimo tenero, attenta a che tutto funzioni, lo spazio sia flessibile, confortevole, i materiali di qualità, la ricerca estetica non banale. Tutte cose importanti, ma non sufficienti ad operare entro uno spazio pubblico che la crisi ha ridotto drasticamente. Alla luce delle considerazioni sviluppate a partire dai casi si può dire che questa tradizione (che affonda le sue radici nelle indagini sulla renovatio urbis degli anni 80) elude domande cruciali che le condizioni dello spazio pubblico pongono alle competenze progettuali. Lo scritto chiude richiamando la questione della leggibilità degli spazi del pubblico come questione sulla quale è possibile ridefinire nuove linee di lavoro.
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II City as prototype. A situationist frame for pragmatic social action. Madrid Dario Negueruela del Castillo
In southern European countries, which had seen a weaker and more incomplete construction of the welfare state model (Navarro 2010), the current crisis has installed cities in a state of stabilized urban malaise, as it is being used to redefine new power regimes in urban milieus by the instauration of a permanent state of exception. The city of Madrid has undergone an extensive programme of privatization during the last years, in which the most paradigmatic example is the selling of large packages of social housing units to real state funds controlled by Goldman Sachs, Blackstone and HIG Capital 1. On the other hand, responding to the call of discontempt, diverse social movements like mareas ciudadanas emerge punctually, in the form of both organised demonstrations and informal actions of defence of structures of public service. An example is Stop Desahucios (Stop evictions), gathering spontaneous volunteers to stop forced evictions (67.000 in 2013), sometimes with spectacular results and pacific confrontation with state forces. Such instances of commonality seem to conjugate local issues of accessibility with general principles of democracy through a particular defence of the structures of welfare state and their patrimonialisation against the public institutional order. By doing so, a new unstable and interveanable model of city as prototype comes forward and invites us to rethink future paths for the articulation of the physical and social dimensions in European cities under a different light. Against a literature that has come to identify the role of the city in the contemporary processes of social segregation and social malaise (Donzelot, Touraine, Sevilla, Brenner, Elden, Merrifield, Smith, Harvey among others), we can identify a different contemporary condition in which the expansion of public affairs has regained the level of the street with unforeseen emotional strength and apparent de-structuration. Urban public space seems no longer a stage for the mediation and representation of conflict for public life; It is rather the confirmation of a change in the model of city and its regime of urban public space. Citizens have come to deny their status as the uniformed passive and idealised public of liberal-social democracies, but regain their problematic status of a multitude that is more regulated by ignitions of emotional and moral convergence over the commonalities of space and rights. From the ashes of the welfare state into a realm of conflict in which the apparent relinquishing public realm is subject to both a new hegemonic role of private finance following at once both the retreat of the state and an increased control over space; the state has moved from its role as a promoter of public structures of well-being into the guardian on the grounds of who owns and who uses urban space. As such, public space is now subject to the re-affirmation of a historical pendular tension between state normativity and emergent popular sovereignty over a common space
1 El Diario 13.02.2013
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La linea blu separa in modo schematico quelle che potremmo chiamare la cittĂ dei ricchi e la cittĂ dei poveri, entrambe interessate, anche se in modo diverso, dalle mobilitazioni spontanee in difesa del welfare. 1.
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However, within the frame of recent and on-going diverse urban protests, we assist to the birth of new networks and political agencies that defy the institutional landscape of metropolitan and social governance. Such movements, like the so called mareas ciudadanas in the case of Madrid, have assured the transition from a reactive uprising into new informal institutions of social intervention in urban space. The above-mentioned state of exception has its corollary in the urban regime of fear that comes to cancel the essential right to public disagreement, as illustrated by the recent project of law that seeks to prohibit protests in the tourist driven fortresses of protected historical centres 2. These dynamics seem to accompany a long process of metropolitan expansion and urban fragmentation following a model that has ravaged several European cities during the last two decades. In the case of Madrid, 22 large Urban Extension Plans (PAUs) that accompany model of city boosted by real state bubble (1998-2007) and composed mainly of fragmented residential developments and large commercial surfaces, has recently been declared illegal by the Supreme Court of Justice 3. These actions are now more and more connected to other forms of occupations that blend the informality of the squat movement with the defence of the structures and services of an agonising welfare state. The search for an inclusive self- management of space in the forms of assemblies has been identified to be a clear link with the squat movement (Martinez & García 2013). Against urban fragmentation and social segregation these movements seek a reconstitution of particular and specific accessibilities that range from the collective to the individual with an implicit model of cohabitation that moves into the informal patrimonialisation of common space. Beyond dilemmas of espace public or espace communautaire, the expansion of the public does not follow anymore any Habermasian notion of public sphere in which the good civic practices constitute the construction of public order. The new movements gather paradoxically at once anonymity and extimité in its most extreme cases of collective recognition with individual cases. We pass therefore from a pragmatic situationality as a characteristic of the urbanity as a way of life, in the manner suggested by Louis Wirth (1938), to a situationist frame as criterion for pragmatic social action (Delgado 2011). Under this light, the analysis of public space ought to elude a still pervasive Durkheimian notion of space as location, calls for reconsideration of space as capacity, linking it ontologically to the notion of agency “(…) space is (…) what people do and not where they are” (Corsin Jimenez, 2003). Along these lines, new social interventions in public space revisit the culture of open city, coining a new paradigm which reunites active participation with the culture of the prototype (Corsin Jimenez 2012). Among the ruins of a depleted model of expansionism and the masquerade of failed civic equality, emerges this prototype as unstable, interveanable and hackable geography, with eruptions of collective actions that re-state temporarily an incomplete yet embodied and experienced publicity of urban space based on the moral economies of the multitude. Without centre, fixed image, nor organic core, these moments of urbanity and citinzenship seem to be key to the articulation of the incoming future of the European metropolis within the new horizon of the city as commons.
2 El Plural 28.03.2014 3 Firm sentence dating 28.12.2012. Supreme Court of Justice.
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II La nozione di cadre de vie, tra eredità strumentale e eredità sostanziale Elena Cogato Lanza
L’emergenza delle nozioni che caratterizzano in modo pervasivo le politiche urbanistiche contemporanee - densité, mixité, convivialité - si deve alla critica dell’urbanistica funzionalista mossa, per un verso, dall’ala dissidente del movimento moderno e, per l’altro, dalle lotte urbane degli anni 1970: il caso del quartiere delle Grottes a Ginevra è da questo punto di vista emblematico. Appartenente allo stesso insieme di nozioni, quella di cadre de vie è legata alla sperimentazione pratica di nuovi modes de vie e teorizzata in campo sociologico (De Certeau, Lefebvre). Il suo primo obiettivo critico è la concezione produttivistica della città e dell’abitare: il cadre de vie designa ciò che non è incluso nella sfera della produzione e/o che deve essere sottratto alle logiche efficientistiche, quantitative e funzionaliste di uso dello spazio. Il cadre de vie si riferisce innazitutto agli spazi e ai tempi dell’abitare, considerati nei loro aspetti qualitativi. Lontano dalla sua origine di nozione «di rottura», presa nel fascio di quelli che si propongono come nuovi «valori» urbani, il cadre de vie si mobilita oggi nelle politiche urbanistiche come nozione pacificata (non è più resistenza), pacificante (identifica la presupposta convergenza di intenti dell’insieme degli attori dell’urbano), e rasenta la sua burocratizzazione (verso la «ville garantie» di Marc Breviglieri). Tra la rottura e la burocratizzazione, ci sembra necessario mettere in luce le traiettorie analitiche e progettuali scaturite da tale nozione, sui modi nei quali il cadre de vie si è reso operativo, per abbozzarne un bilancio: si offre come una nozione ancora fertile, e in che modo? In particolare, come ci è utile per comprendere i nostri Territori nella crisi? Diverse traiettorie, tra di loro solo parzialmente divergenti, sembrano contraddistinguere l’eredità del cadre de vie, sia in campo progettuale che sociologico: l’una spezza le relazioni interscalari gerarchiche; l’altra disattiva l’attenzione stessa per la questione della scala spaziale per privilegiare la dimensione temporale del «ritmo». 1. La nozione di cadre de vie ha un’insopprimibile valenza pittorica: il cadre come inquadratura (cadrage), se non addirittura come cornice (cadre). Non a caso la fotografia ha portato un contributo decisivo alla visualizzazione del cadre de vie (cf. i lavori di Frédéric Pousin sul quotidiano). Se percorriamo molto velocemente il campo della teoria e del progetto urbanistico, a tale accezione del cadre de vie si riallaccia l’attenzione per «ciò che si vede, si sente e si tocca» (Secchi) fino all’urbanistica sensibile (Zardini). Questa prima traiettoria di attenzione al tangibile e di rivisitazione del concetto di confort nel senso di un suo arricchimento semantico, è anche quella che mina l’associazione tra il «quadro» e una scala dimensionale privilegiata. Riconduciamo a questo approccio una specifica modalità del progetto urbanistico, che si costruisce per bruschi salti di scala: l’elaborazione de concetto territoriale si fa in simultanea con l’abbozzo dello 1.
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spazio abitabile alla piccola scala. Tale modalità caratterizza in modo significativo i due progetti per il Grand Paris di Secchi-Viganò e di Fin Geipel: entrambi i progetti, che ci interessano per il loro carattere teorico-esplorativo, sono sintomatici di quello che riconosciamo come un «ritorno della prossimità» condotto al di fuori di qualsiasi fiducia modernista di una relazione lineare e meccanica tra le scale del progetto. I salti di «cadrage», dai 50 x 50 Km ai 3 x 3 o al 1 x 1 km, sono praticati come «carottages»: il cadre de vie si restituisce attraverso la concentrazione su frammenti, samples, inseriti entro traiettorie interscalari non convenzionali. 2. In assoluta indipendenza dall’accezione pittorica del cadre si sviluppa la tematizzazione del cadre de vie proposta dalla sociologia urbana: in modo ricorrente questa è iscritta entro l’indagine sulla mobilità, in un modo che evita a priori l’attribuzione al paesaggio dell’abitare di una qualche scala specifica. Secondo gli studi, il cadre de vie si definisce tanto in riferimento al «vicinato» quanto al tipo di urbanizzazione (città compatta, struttura centro-periferia, città dispersa, etc.) e alla considerazione di microsituazioni (il possesso di un giardino privato, ad esempio), e richiede una ricognizione sulla disponibilità di capitale non spaziale (reddito, formazione, etc., vedi ad esempio i lavori di Salvador Juan o di Vincent Kaufmann). L’attenzione è rivolta piuttosto alle dinamiche tra mobilità e arresto, tra nomadismo e appartenenza, intesa quest’ultima nel senso di «anchoring». Il cadre de vie è maggiormente legato alla rappresentazione di cicli, di temporalità, il che sembra fare eco allo slittamento dell’approccio della differenza da parte di Lefebvre da una questione di spazio ad una questione di tempo (Eléments de rythmanalyse, 1992 postumo). Cosa succede quando cerchiamo di orientarci entro i nostri casi di Territori nella crisi alla luce delle traiettorie del cadre de vie? Come continuare o no ad utilizzare tale nozione in un contesto che vede una profonda e, apparentemente, inarrestabile normalizzazione della stessa? I temi dell’interscalarità e dei ritmi saranno considerati, grazie anche alla rilettura di un vero e proprio «testo», il documentario The Power of Tens di Charles et Ray Eames, prodotto nel 1977 (dieci anni dopo il Droit à la ville e contemporaneamente alla recrudescenza delle lotte urbane), per quel che concerne l’eredità strumentale (strumento di analisi e progetto) del cadre de vie. Ci interrogheremo inoltre sulla iniziale associazione tra cadre de vie e protesta contro il paradigma produttivistico, che costituisce forse l’eredità sostanziale di questa nozione e la dimensione più rilevante in riferimento ai nostri casi studio, sintomi di un ripensamento necessario sulla produzione, l’uso e la condivisione delle risorse, oltreché di strategie di protezione di fronte all’incertezza.
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II Un patrimonio “minore”. Capitale fisso sociale e ricostruzione di contesti territoriali Angioletta Voghera
A partire da alcuni dei casi trattati dalla ricerca, questo contribuito si interroga sul modo in cui una dotazione ampia e spesso trascurata di capitale fisso sociale, possa rientrare nel gioco della trasformazione territoriale. Le infrastrutture minori nelle valli alpine, i servizi dei quartieri di edilizia sociale, i suoli e gli edifici adibiti ad attività produttive e sottoutilizzati o abbandonati sono esempi di capitale fisso sociale “sospeso” che ha esaurito il suo potenziale originario e del quale si sottolinea frequentemente (e un po’ astrattamente) la necessità di avviare qualche forma di riciclo. Meno indagati (ad eccezione forse che negli studi di Arturo Lanzani) sono gli aspetti normativi (regole, vincoli, opportunità) che permettono al progetto di misurarsi con queste forme di capitale sociale incorporato nel suolo. Ripensare un governo del territorio a partire da un patrimonio minore è l’obiettivo del saggio.
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II Norma e progetto Angelo Sampieri
I paesaggi della metropoli europea sono costretti entro un progetto di manutenzione omogeneo, retto da principi che orientano quadri normativi sempre più simili. Così, mentre si celebra la specificità dei contesti e si enfatizzano le potenzialità locali nel trasformare il territorio secondo logiche parziali, i suoi spazi (urbani, periurbani, rurali) mutano tutti allo stesso modo. Secondo regole imposte da una comune normativa, tesa a conservare il patrimonio esistente, metterlo al riparo, riadattarlo e riciclarlo. La crisi economica incide sulle forme di questo mutamento. I minori mezzi riducono le occasioni. Le trasformazioni più importanti sono puntuali, limitate nel tempo e nello spazio. Tese, in prima istanza, a recuperare o conseguire, uno standard di qualità accettabile. Ed in ragione di questo raggiungimento, regole, norme, protocolli, convenzioni e manuali di best practices acquisiscono peso crescente e si moltiplicano. Ne consegue uno spazio operativo nuovo del progetto. Meno agile, costretto entro formati che, se da un lato enfatizzano l’importanza di un tradizionale ruolo della norma (conferimento di qualità, comfort, sicurezza, riduzione di costi, razionalizzazione dei processi), dall’altro determinano esiti che sono sempre più prodotto esclusivo di un accordo, normato, tra produttori e consumatori (di spazi, materiali, oggetti, processi, servizi)1 . E’ la storia della lampadina: una per tutti, subito, ed a basso consumo energetico2 . La questione della normatizzazione è cosa seria, che non si risolve entro la critica, ripetuta e tradizionale, agli standard di mercato ed ai limiti che essi impongono a competizione, innovazione e ricerca, alla governance dei numeri dopo il governo delle leggi 3 , alla ville garantie ed agli usi limitati che essa veicola ed ordina 4 , alla cultura del protocollo ed a quella della valutazione 5 . La norma, non meno della sua critica, porta con sé un’idea di giustizia. E nella dialettica tra processi normativi e loro superamento si costruisce quel regime di verità (avrebbe detto Foucault) che legittima il progetto. Esperti specializzati, prescrizioni tecniche, organizzazioni di accreditamento, indicatori di performance, pratiche di certificazione e controllo, sono solo una parte di questo campo di legittimazione. Quella che, di questi tempi, ha maggiore risalto, gode di incredibile fortuna, ed orienta a suo modo le trasformazioni. In quale modo. Gli esiti si colgono bene in alcuni luoghi. Dove le aggettivazioni che li descrivono implicano il regime di valutazione cui sono esposti (smart, eco, sustainable). Dove vi siano oggetti di tutela (paesaggi, ambienti, servizi, infrastrutture) la cui protezione è affidata a convenzioni, protocolli e disposizioni persuasive di più difficile decostruzione e rovesciamento rispetto a
1 http://www.cencenelec.eu 2 H. M. Enzensberger, Il mostro buono di Bruxelles ovvero L’Europa sotto tutela, Einaudi, Torino 2013. 3 A. Supiot, Lo spirito di Filadelfia. Giustizia sociale e mercato totale, et al., 2011. 4 M. Breviglieri, Une bréche critique dans la «ville garantie»? Espace intercalaires et architecture d’usage, in E. Cogato Lanza, L. Pattaroni, M. Piraud, B. Tirone, Le Quartier des Grottes / Genève. De la difference urbaine, MetisPresses, Genève, 2013, pp. 213-236. 5 AA.VV., Critica della cultura della valutazione, in aut aut, n.360, 2014, pp 3-157.
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quelle normative (la cui fallacia, per lo meno, si può misurare). Ovunque le attuali condizioni di crisi incidano in modo particolarmente duro sulle possibilità di riciclare parti della città esistente al di fuori di un quadro normativo emergenziale, teso a conseguire il grado minimo di comfort e qualità. Resta poco. Cosa si sottrae all’ipertrofia normativa, all’omologazione e alla ripetizione di pratiche di manutenzione ben valutate e regolate? Forse quei luoghi che, in ragione di una loro apparente informalità, sono osservati quali icone della differenza, rifugi di usi astuti, quando poi, nell’osservanza di posture eco-friendly, mutano in eco-quartieri? In nome di cosa e perché opporsi alla regola se lo standard conviene e protegge? Quale bandiera sostiene la resistenza? E perché fare battaglia? E a cosa? Alla lampadina? Alla ripetizione? O a quel modello semplificato di città, urbanità, buon abitare, welfare and wellness che, entro un immaginario comune e ridotto, l’Europa è già? Per rispondere a questi interrogativi, centrali rispetto alle contraddizioni con le quali si confronta oggi il progetto, il contributo farà riferimento ad alcuni casi trattati dalla ricerca. Casi emblematici in relazione al regime di tutela normativo che orienta oggi le trasformazioni. Come il quartiere Bellavista a Ivrea, la cui riqualificazione osserva addirittura un doppio regime normativo: quello della qualità minima (dettata dalla scarsità di risorse) e quello della valorizzazione massima (perseguita attraverso la patrimonializzazione del quartiere). Come Mirafiori, dove la mixitè è progetto programmatico. Come Biella, distretto industriale la cui rigenerazione sembra oggi dover (inesorabilmente) perseguire logiche frammentarie e incrementali (un po’ come avviene ad Aubervilliers), non vincolate a particolari prescrizioni patrimonializzanti. Una trasformazione per molti aspetti più libera e aperta di quella di Bellavista, apparentemente il suo contrario, se non si desse entro un’analoga riduzione di risorse che qui, fuori da una robusta protezione sociale e fuori da forme di tutela di patrimoni pubblici, limita aperture e possibilità del progetto entro un’adesione alla norma che è appello essenziale.
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II La governance sottratta al pubblico Giulia Sonetti
Il ciclo di programmazione economica 2014-2020 promosso dall’agenda urbana europea chiede ai territori di costituirsi come nuovi soggetti programmatori, capaci, nella forma di reti e alleanze di città, di formulare progetti integrati. Lo studio prende in considerazione Londra, dove l’esclusione della politica dalle questioni relative alla governance di accordi per la realizzazione di grandi trasformazioni urbane è da tempo in fase conclamata. In particolare, si vuole evidenziare come i casi di rigenerazione di distretti post-industriali, come il Thames Gateway, ad esempio, hanno tratti in fondo comuni. Uno su tutti, hanno dato prova di saper governare una forte integrazione tra stakeholders pubblici e privati attraverso complesse forme di accordi e codici per la regolamentazione entro un obiettivo prioritario, raggiunto. Quello di allontanare il processo decisionale dai luoghi formali del processo politico. In altre parole, quello di far fuori la politica dalle questioni relative alla governance, velocizzando così i tempi (del mercato) attraverso l’elaborazione di un sistema normativo completamente gestito dal privato. Il conseguente presunto vantaggio, quello che rende smart una città, è che le società private implicate nelle trasformazioni sono in grado di lavorare efficacemente, mentre al pubblico resta il compito di fare rispettare norme prodotte proprio dal privato. Un compito non da poco, entro una trasformazione della governance che qualcuno definisce epocale. Una trasformazione “in cui l’arretramento dello stato a favore delle forze del mercato è attuato mediante un paradossale rafforzamento della sua azione di controllo e guida”, grazie a pratiche di valutazione divenute in ogni ambito veri strumenti di governo con relativi apparati volti a garantirne l’efficacia.
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II Pluralizzazione e autonomia del diritto all’abitare Cristina Bianchetti
Quando si torna pionieri in montagna, quando si alloggia negli appartamenti delle reti solidali di Biella; quando ci si rinchiude nell’antiurbanesimo del cohousing; quando si occupano gli spazi messi a disposizione degli squatters da Rolex si ridefiniscono forme e spazi dell’abitare che mostrano “un mondo nuovo dei diritti” nel quale questi ultimi “non scendono dall’alto, ma germogliano dall’infinito pullulare di iniziative diverse, da una molteplicità sempre cangiante di soggetti, con una spontaneità ed un vitalismo che sarebbero insofferenti di ogni collocazione in qualche schema istituzionale”. Così Rodotà in coerenza con Paolo Grossi. Osservando le forme dell’abitare che questa ricerca ricostruisce, emergono ameno tre considerazioni che vale annotare. Si tratta di diritti plurali: un insieme aperto e contraddittorio di prerogative, poteri, immunità, i quali si fondano, in modo più o meno forte, su un principio di autonomia, piuttosto che su un principio di legittimazione esterno. Così come invece era in passato, quanto il diritto all’abitare si reggeva su un un’idea di giustizia. Il primo aspetto riguarda la pluralizzazione e l’autonomia dei diritti legati all’abitare. Si tratta di diritti diversi da quelli sociali di Thomas B. Marshall, cui si deve la codificazione della categoria di diritto sociale. E’ da sottolineare che Marshall (sociologo e non giurista) è colui che ha teso a sistemare le posizioni emerse dal Welfare State. I suoi diritti sociali, sono portatori di uguaglianza sostanziale, elementi fondativi di una complessa cittadinanza sociale. Sui diritti sociali vi è, da sempre, una discussione assai articolata. Qui vorremmo semplicemente chiederci se le diverse forme dell’abitare generate dalla crisi del welfare, sono ancora espressione di ciò che Marshall intendeva. Se la distanza è (solo) legata all’affaiblissement di cui parla Tourain. Queste questioni rappresentano il secondo aspetto (che è in parte riformulazione del primo). La correlazione tra l’espressione di alcuni diritti (dichiarati e assunti come obiettivo da chi abita) e gli spazi entro i quali essi sono affermati o negati è essenziale. Lo spazio non è un supporto neutro. E’ la condizione materiale dell’attuazione o della negazione di un diritto. Il terzo elemento indaga il modo in cui la rivendicazione di un diritto è appropriazione dello spazio di cui il diritto parla. Ed è quello, dal nostro punto di vista, più importante di tutti. Lo scritto riprende e prosegue (in relazione ai casi della ricerca) le considerazioni svolte nel progetto di ricerca finanziato da SNSF che ha dato luogo al saggio Lieux e Droits contenuto nel volume cura di E. Cogato Lanza et all, De la Différence urbaine, Mētispresses, 2013. Indagando il caso di Les Grottes, che questa ricerca riprende, è parso di poter sostenere come la pluralità di diritti, privilegi, 1.
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immunità legata all’abitare si reggesse su una sorta di «autosufficienza». Senza aver più bisogno di riferirsi ad un principio esterno. Segnando così un importante scarto con il moderno. Dopo trent’anni di neo-liberismo il riconoscimento dell’abitare come diritto sociale fondamentale è divenuto, nella polverizzazione dei diritti, il riconoscimento di ciascuno ad abitare come può o come vuole. La legittimazione non è più esterna. Non riguarda più unicamente un principio di giustizia. Il ridefinirsi di un’idea del buon abitare si dà entro uno sfondo spaziale, ideologico e valoriale mutato che vede una nuova centralità conferita a valori quali l’autonomia, la spontaneità, la convivialità, l’apertura verso gli altri, la capacità di intuizioni visionarie, la sensibilità alle differenze, l’ascolto del vissuto, l’accoglimento dell’esperienza. Valori che hanno assunto importanza come principi di organizzazione della società in generale, come hanno bene evidenziato Boltanski e Chiapello. Hanno radici nelle rivendicazioni dei tardi anni Sessanta e oggi pervadono, in modo privo di qualsiasi connotazione contrastativa, il nostro presente.
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III III. NUOVE CITTA’. CONCLUSIONI In molti stanno tornando a riflettere sulla città europea nella convinzione che vi sia una sua specificità, che questa si esprima in un insieme di questioni vasto, ma non illimitato e che ciò richieda strumenti e progetti adeguati.
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III The horizontal metropolis 1 Paola Viganò
Today’s fragmentary spatial condition is the result of a process of modernization in which individuals, groups and society are once again rethinking the issue of how to live together, bringing to the surface ideas that now rest on deeply changed contexts. The radical nature of the change underway today, and the emergence of new paradigms, calls for a rethinking of the Western metropolis idea and form. Radicalism is fundamental to better understand and grasp the magnitude of this change and its potential. The concept of the horizontal metropolis, which synthesizes our understanding and interpretation of the diffuse urban condition in the Brussels region and beyond, is a radical project for a metropolis that establishes both non-hierarchical relationships between its different parts as well as osmotic relationships between built and open space, between mobility infrastructure and dwelling places. This metropolis of several million people is part of the nebula that we were accustomed to calling the North-Western Metropolitan Area. A series of mid-size cities in this area – Mechelen, Aalst, Leuven, Louvain-la Neuve, north to Antwerp and south to Charleroi – is supported by a dense and contrasting network of relationships of integration, but also of exclusion and marginalization; of territorial competition and solidarity deeply rooted in history. In the vision proposed for Brussels, the horizontal metropolis has uncertain and evolving limits, independent of administrative boundaries; it is defined on different scales. The horizontal metropolis is “a typologically differentiated and well-provisioned extensive urban condition. It is structured by three valleys and a dense and well-connected public transport network. It is organized by means of a series of urban and regional figures (historic centers, parks, forests, new central places and so forth) wich are its references.” 2 The horizontal metropolis adds value to the quality of places, putting their cooperation/competition and complementarity to the test. In the past, the natural and artificial water system and the iron system (trains, tramways) were instrumental in creating a diffuse city that has been extensively studied 3 , but which now needs to be reconsidered. The only way to understand the tradition to the balanced distribution of power among cities and villages in the Brussels and Flanders areas is to look at the long history of urban diffusion and its pas and current mechanisms of production. Only an understanding of these mechanisms of balance between local powers – and their expressions in political and social relationships – can transform an abstract model like the one proposed by the project of the Brussels Capital Region (BCR) for reinforcing the regional rail into an innovative regional construct.
1. Paola Viganò, The Horizontal Metropolis and Gloeden’s Diagrams. Two Parallel Stories, in ‘Oase’ n.89, 2013. 2. Bernardo Secchi and Paola Viganò, ‘Bruxelles et ses territories, Plan Régional de Développement Durable. Elaboration d’une vision territoriale métropolitaine à l’horizon 2040 pour Bruxelles’, first report 2010; Bernardo Secchi and Paola Viganò, ‘De horizontale metropool’, in: P. Dejemeppe and Périlleux (eds.), Brussel 2040. Drie visies voor een metropool, Hoofdstedelijk Gewest, Brussels 2012, 28-41. 3. See for example: Marcel Smets, ‘La Belgique ou la Banlieue radieuse’, in: Paysage d’Architectures, exhibition catalogue, Fondation de l’Architecture, Brussels 1987; Bruno De Meulder and Michiel Dehaene, Atlas Zuidelijk West-Viiaanderen, Year 2002, Fascikel 1, Kortrijk 2001; Bernardo Secchi, La città del XX secolo, Laterza, Bari 2005; and Bénédicte Grosjean, Urbanisation sans urbanisme, Mardaga, Brussels 2010.
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The horizontal metropolis is a place of multiple ecologies where biodiversity and agricultural production are concentrated, along with a variety of urban functions and great ethnic and social diversity. Stronger links between natural dynamics and urban forms can be sought in the horizontal metropolis. The poorest areas are located in the valleys not only in Brussels but also along the Dender and Dijle rivers together with the richest areas of Biodiversity. The Zenne valley was completely transformed by depriving the region of its most important ecological reference, knowing that in the horizontal metropolis, ecological connections between high and low ground, between slopes and plains are fundamental. The horizontal metropolis landscape is designed by topography; the roads can become cornices and the parks broad terraces. Over time topography created a topology: a series of significant places. The horizontal metropolis is not an archipelago. In particular, it is not an archipelago of open spaces that separate and specialize functions. It is an integrated area in which open and agricultural/planted fields weave patterns and relationships that have fluid boundaries. Few metropolises in Europe have this natural capital and similar relationships with such an open space pattern. Because of, or due to, their mutual infiltration and percolation, and thanks to the â&#x20AC;&#x2DC;horizontality of the metropolis, the interface between built and open space develops an important line of contact. Each resident theoretically has 3.7 m of contact between built and unbuilt areas. This length can be compared to 0.56 m in Grand Paris and 0.39 m in the Randstad. However, there are important differences within the metropolis. In Brussels, this length drops to 0.2 m and in the GEN zone (inside a square of 100 by 100 km), it jumps to 4.6 m. The perception of the environmental quality of life is linked to the proximity of green and agricultural space as well as public space. In poorer and denser areas, the degree of appreciation is very low, while higher appreciation of the environment is found in areas of low income but in conditions of urban sprawl, as in the south of the Brussels region. Our hypothesis is that the productive landscape and dispersed urban realm offer high-quality living conditions that can be valorized by the horizontal metropolis project, while the main and more difficult issue concerns the dense and degraded areas inside the city. By taking advantage of the transformation of the industrial fabric along the canal (crossing Brussels and connecting Antwerp and Charleroi, the old modernist dream of the ABC linear city), the metropolisâ&#x20AC;&#x2122;s poorest and densest part, it is possible to find porosity and regenerate both the area and the cityâ&#x20AC;&#x2122;s spatial structure. Protection from flood risk, the possible creation of urban gardens associated with a project for new school clusters as tools for strengthening social mix, improved water quality, all relate to the quality of life in the metropolis, which becomes important together with a democratic solution to the environmental crisis. The need to provide surfaces for water infiltration, for example, places the eastern part of the city in the foreground, while the presence of fertile soils to the west becomes important in relation to small-scale urban agricultural. The western loamy sand region is made up of small and very fertile valleys; here agricultural production could be combined with a new form of public space in continuity with the vast Pajottenland landscape.
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Urban and regional figures emerge within the horizontal metropolis: historic sites, cultural landscapes, places of leisure, social and natural monuments, large attractors. The horizontal metropolis is layered; and the dispersion of these figures creates a dense network of elements providing direction, specificity and difference. Spatial contrasts enrich the landscape of the horizontal metropolis. Rural areas like Pede infiltrate the urban context: the Soigne forest can be reached on foot the centre of Brussels; villages near Zaventem airport like Steenokkerzeel oppose the transformation generated by the large airport infrastructure. The different are expressions of conflict, resistance, accumulations: cultural, social and political distortions that become detached from their bases. The horizontal metropolis is full of differences; only at first sight is it homogeneous and consensual. The regional rail system is gradually evolving to create an increasingly connected mesh. This trend could be reinforced by a network. Indeed, like the cellular metropolis and the idea of the archipelago, the concept of the horizontal metropolis can be seen as a contemporary ‘possible construction of a different urban principle’. Paradoxically, the wager of the horizontal metropolis lies in the distinct possibility of its becoming a sustainable and innovative model, enjoying positive perception by its residents; in its becoming a place o great biodiversity, agricultural production, provider of eco-services, of great individual and collective comfort, in which it might become possible to create habitable places of high environmental quality. But, the horizontal metropolis could also become a place of exclusion, leaving unresolved economic, social and cultural issues in the city centers, which might become interior peripheries. However, the transformations currently underway and of the near future in the diffuse city (an aging population, the need to provide adequate and widespread services, the massive arrival of poor immigrants foreseen in the coming years – not only in Brussels), along with today’s economic and environmental crisis, demand an integrated vision, at the scale of the entire horizontal metropolis.
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III La metropoli europea 1 Francesco Indovina
La metropolizzazione del territorio in Europa è un fenomeno che riguarda tutti i paesi, proprio questa generalizzazione permette di parlare di metropoli europea, ma proprio per questo non si tratta di una fenomenologia allo stesso grado di sviluppo e di maturazione. In certe situazioni il fenomeno è consolidato, in altre è in via di consolidamento e in altre ancora si sta avviando. Situazione di contesto, inoltre, danno “forma” diversa al fenomeno, ma la sostanza appare per molti versi assimilabile. Del resto come diverse sono state le città del vecchio continente, anche se tutte funzionanti con la stessa logica, diverse saranno le metropoli europee anche se tutte rispondenti a determinate situazioni e funzionamenti secondo logiche assimilabili tra di loro. Di questo fenomeno alcuni caratteri specifici meritano di essere messi in evidenza, con l’avvertenza che maggiori specificità potranno essere messe in evidenza sulla base di comparazioni ancora non avviate. 1. Il dato fondativo, che illumina il fenomeno di una luce distintiva, è che la diffusione, che può assumere nomi diversi secondo letture disciplinari differenziate, e che in precedenza è stata anche chiamata esplosione urbana, non costituisce, come già detto, una forma di rifiuto della città ma, al contrario, la ricerca di una nuova forma urbana e di una migliore città, in grado di soddisfare meglio le attese dei singoli e delle famiglie sul piano della condizione abitativa, della situazione economica, della socialità e in sostanza della vivibilità. Che questa ricerca di una nuova e migliore città fosse più o meno consapevole, non è semplice da dirsi, e sarebbero necessarie specifiche indagini. 2. E’ possibile sostenere e argomentare con dovizia di motivazioni che la soluzione “diffusa”, detta in sintesi estrema, possa non risultare avvincente per strati consistenti o meno della popolazione. Possono essere ragioni estetiche, possono essere ragioni psicologiche, possono dipendere dal “rifiuto” della campagna, dalla preferenza del caos urbano ritenuto vitale, ecc. Non importa, tutto è accessibile. Ma qui emerge una delle valenze più positive della metropoli europea: la sua articolazione che prevede città grandi, medie e piccole, insediamenti concentrati nella campagna, insediamenti isolati, ecc. rende possibile una scelta individuale secondo proprie preferenze ma senza che questa sia un “assoluto”, si intende dire che chi preferisce vivere isolato o in piccolo centro non è escluso dal godere insieme delle opportunità della dimensione metropolitana.
1. Francesco Indovina, La metropoli europea. Una prospettiva, FrancoAngeli, Milano 2014; pp. 115-120.
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3. Si tratta di una tipologia metropolitana che è cresciuta, nei diversi casi, o appoggiandosi ad una rete estesa ed efficiente di infrastrutture di mobilità collettiva, o, viceversa, facendo forza su una infrastruttura viabilistica e fondata sulla mobilità individuale, molto più spesso è l’intreccio delle due a garantire la mobilità. E’, ovvio, infatti, che la metropoli territoriale, come è quella di cui si
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sta discutendo, ha nella mobilità la sua possibilità di realizzarsi. Non solo ma tali strutture di collegamento, contrariamente alle tradizionali aree metropolitane, non hanno natura “lineare”, ma devono avere una struttura reticolare. E’ la possibilità stessa di tale mobilità che cera la condizione di popolazione (massa critica) che rende possibile la crescita e lo sviluppo di servizi di tipo metropolitano. 4. Questi nuovi territori non sono privi di gerarchie territoriali, la possibilità di un territorio assolutamente omogeneo non è realistica, si tratta di una ipotesi buona per esercitazioni modellistiche molto semplificate. Deve tuttavia rivelarsi che le gerarchie sono molto più deboli 8° parte quelle determinate da beni posizionali); inoltre le gerarchie dipenderanno molto dai processi di organizzazione del territorio (…). Tutti gli schemi prima analizzati mettono in luce l’esistenza di centri di dimensione e consistenza diversa, ma sono sempre presenti centri medi e medio-grandi; in sostanza si ha una situazione non omogenea che varia nelle diverse situazioni 2 . Tali centri di maggior dimensione fanno parte della struttura territoriale complessiva, essi manterranno alcune delle loro caratteristiche di “prevalenza” ma il loro potere gerarchico all’interno di tale processo tende a ridursi. Ve detto che non esiste nessun principio di omogeneità tra queste diverse metropoli europee, esse appartengono tutte alla stessa famiglia ma ciascuno ha le proprie e specifiche caratteristiche (del resto è stato anche così nel passato per la città europea). 5. E’ proprio il fatto che i centri maggiori tendono a perdere (per trasferimento, frazionamento, duplicazione, ecc.) i servizi di più alto livello e i poli di governo e di eccellenza, che erano il connotato principale della grande città (e che fondava il corrispondente potere gerarchico), che da una parte riduce la gerarchizzazione del territorio e dall’altra parte fonda una struttura metropolitana (non concentrata). E’ chiaro che la costruzione e realizzazione della metropoli europea si fonda, specificatamente, sulla non concentrazione dei poli di eccellenza e dei centri di governo in un unico unto (città). Fenomeno, questo, che viene visto con preoccupazione dalle singole amministrazioni locali, queste infatti esercitano la loro attenzione sul “punto” (la città) e non sull’area estesa. Fino a quando il fenomeno non sarà osservato nella sua globalità sarà difficile vederne gli aspetti positivi. Va inoltre osservato che la diffusione proprio perché non è il rifiuto della città, non può essere neanche considerato come un processo che rifiuta le architetture (in termini generali) della città. La metropoli territoriale vive anche di edifici e di strutture che siamo soliti identificare con la città (dai palazzi, agli spazi pubblici, agli edifici significativi a quelli di culto, ecc.). Bisogna anzi dire che mentre nella prima fase di esplosione della diffusione pochissima attenzione era stata posta nella composizione architettonica delle costruzioni, con l’affermarsi del fenomeno questo aspetto viene maggiormente curato, con l’impiego anche di professionisti di grido (che non è detto garantiscano buoni esiti). Inoltre, data la ricchezza del territorio di molti dei paesi considerati, il processo di metropolizazzione può esaltare edifici sparsi individuandoli come polarità di attrazione estetica ed eventualmente di valorizzazione sociale 3. 6. Sebbene tutti i discorsi sulla flessibilità del “lavoro” e sull’autogestione dello stesso, nascondono l’inganno della marginalità e della precarietà non si può non riconoscere che la prestazione di lavoro oggi risulti molto più articolata che nel passato. Forse la struttura della metropoli territoriale risulta più adeguata a questa nuova condizione. Le cautele in questa affermazione dipendono dall’osservare
2. Nel Veneto centrale, anche se lo schema esalta la reticolarità dell’insediamento, su quel reticolo insistono città di media dimensione e di rilevante importanza come Venezia, Padova, Vicenza e Treviso. 3. Appare in un certo senso strano che I critici imputino alla diffusione la realizzazione di edifici privi di qualsiasi valenza architettonica, il che molto spesso è anche vero, mentre sempre più vistosa sembra la banalizzazione della città e delle sue architetture, anche nelle grandi città concentrate (Muñoz, 2008). Non è la diffusione che genera cattiva architettura ma è la cattiva architettura che segna la diffusione e la città concentrata.
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come nella crisi attuale le condizioni di lavoro e di non lavoro (involontario, per intenderci) siano costitutive di un passaggio epocale della nostra società. 7. Merita di esser menzionata (…) la questione della presenza di una popolazione appartenente a culture diverse. Con qualche cautela si può forse affermare che la convivenza nella metropoli territoriale potrebbe risultare meno difficile a confronto con quello che avviene nelle metropoli concentrate. 8. Lo stile di vita che si intravede tipico nella metropoli europea è di tipo “urbano”. Si intende dire che non si è in presenza di suburbi dove si “richiudono” alla fine della giornata di lavoro, magari passata lontana, individui e famiglie. In realtà quello che si coglie, in generale, è la mancanza di isolamento e il rigetto di una sorta di ghettizzazione. Da alcune inchieste (si capisce che più ampie e numerose dovranno essere queste indagini) si rileva, che le relazioni amicali seguono fili che attraversano tutto il territorio, così come pure le relazioni sentimentali. I gruppi di giovani che formano una “compagnia”, come si suole dire, non sono geograficamente determinati. Si incontrano provenienti da diverse parti del territorio, per poi prendere iniziative per la pratica dello sport o il divertimento (Doria, 2009). La metropoli europea non è fatta di suburbi o di ghetti 4 . 9. La nuova struttura territoriale dispone, proprio perché contiene più o meno ampie soluzioni di continuità, di spazi “aperti” che in parte possono risultare impiegati nella produzione agricola e in parte possono permettere l’organizzazione di parchi, di boschi, di zone attrezzate, lungo una linea che da tempo rivendica una maggiore “naturalizzazione” della città 5. Questo nuovo paesaggio è caratterizzato da una tensione della popolazione verso servizi e situazioni di vita metropolitani che sfuggono al clima oppressivo delle metropoli tradizionali denunziato da molti studiosi. Questa nuova struttura, vale la pena ripeterlo, si fa forza perché utilizza in modo nuovo la rete urbana del vecchio continente. La tendenza verso la metropoli europea, allo stato attuale e ancora per un certo periodo, sembra costituire la modalità specifica con cui i paesi europei, utilizzando anche la loro maglia urbana, si danno strutture territoriali metropolitane, cioè di dimensione tali da godere delle occasioni offerte dalla grande dimensione senza subirne, almeno in parte, gli aspetti negativi.
4. Questa affermazione può sembrare paradossale, anche perchè una delle motivazioni di fuga dalla città e di insediamento nel diffuso è la ricerca di isolamento; nella realtà quello che appare evidente è che si cerca un sistema territoriale dove l’isolamento non escluda processi di socializzazione (ci si riferisce a pratiche materiali di socializzazioni, non a forma di socializzazione basate su comunicazione a distanza). 5. Il condizionale, in questo caso, è d’obbligo, infatti la realizzazione di questo mix di funzioni ha necessità e bisogno di iniziative pubbliche, in una situazione nella quale le amministrazioni pubbliche da una parte non sono all’altezza e dall’altra parte disconoscono volutamente il fenomeno. (…)
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Si vorrebbe chiudere (…) con quella che deve essere considerata una constatazione e non una provocazione. Nel secolo scorso sono state elaborate soluzioni diverse per la città, senza volerne fare un’elencazione, per dare senso a questa affermazione si pensi alla “città giardino” di Howard, fino alla “carta di Atene” del CIAM (rielaborata dal Consiglio Europeo degli Urbanisti fino al 2003) e alla “città funzionale”. Analizzate in se stesse queste soluzioni presentavano sicuramente elementi molto utili per la qualificazione della città e per rendere migliore la vita degli abitanti. Tutte le proposte, tuttavia, avevano un forte carattere di imposizione (sarà stato il clima dell’epoca) e una forte componente di semplificazione. Gli abitanti della città non possono a forza essere rinchiusi dentro un “modello” di città; le proposte non sembravano attente, contrariamente alle specifiche affermazioni, ai processi in atto, sia sul piano economico che su quello tecnologico, sociale e culturale, ma, tuttavia, ciascuna presentava elementi positivi, magari non generalizzabili ma che potevano soddisfare ambizioni, necessità o reali trasformazioni.
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Per intenderci, un mondo intero di “città giardino” non è augurabile, come pure, mentre la divisione tra zone destinate a funzioni tra di loro incompatibili (residenza e industria, in primis) è non solo auspicabile ma necessariamente da realizzare, al contrario la troppo schematica divisione di zone funzionali tra di loro collegate ma distanti continuerebbero un impoverimento della realtà urbana. Quello che importa in questa sede, non è una critica a questi e ad altri modelli di città, ma soltanto far riflettere come l’esplosione urbana e la costruzione della metropoli europea assumono molti degli aspetti di questi modelli. Certo non si è di fronte all’applicazione pura di un modello, ma piuttosto ad una realtà che mette assieme cose diverse, facendo proprie molte indicazioni specifiche, costruendo una realtà che amalgama indicazioni e soluzioni diverse. In sostanza quella che ad alcuni sembra la negazione della città, la fine della città, si dimostra come l’occasione per mettere a frutto le indicazioni più interessanti, in un certo senso le utopie di forma urbana, elaborate nel secolo scorso (con scarso successo realizzativi). Non si tratta di una realizzazione consapevole, almeno così non sembra, ma piuttosto come il fiorire di idee, principi, modelli sotterrati nel tessuto vivo della società. Attenzione, quanto detto non vuole costituire una sorta di riconoscimento di qualità alle nuove forme di insediamento e alle nuove forme di vita (come antidoto a questo possibile veleno interpretativo, consiglio la lettura dei romanzi di Ballard), ma soltanto vuole riconoscere come nella realizzazione di questa forma organizzativa territoriale sia possibile intravedere modelli, soluzioni, suggerimenti di cui si parla da un secolo.
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III La ville créative en question 1 Luca Pattaroni
1. Luca Pattaroni, Yves Pedrazzini, Leticia Carmo, Mischa Piraud, Emmanuel Ravalet extraits du projet de recherche FNS (dépôt 2012 / recherche 2013-2016)
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Au cœur des débats contemporains sur le devenir de la ville post-industrielle, se trouve la question de l’émergence d’une ville dite « créative ». De manière très résumée, la notion de ville créative renvoie à l’idée que la promotion des arts et de la culture – y compris sous ses formes les plus alternatives et expérimentales – joue un rôle fondamental – sur les plans économique, social et territorial – dans le dynamisme d’une ville et sa compétitivité à l’échelle internationale (Landry & Bianchini, 1995 ; Florida, 2002 ; Landry, 2008). Le thème de la ville créative apparaît ainsi étroitement liée aux transformations du capitalisme et à l’émergence d’un « marketing urbain » essentiel au positionnement dans le jeu des « villes globales » (Sassen, 1991). L’une des facettes les plus visibles de cette évolution serait l’explosion d’une architecture icônique, tendant à privilégier les aspects esthétiques plutôt que les questions plus fonctionnelles et au cœur des statégies de concurrence entre les villes (tel le Musée Guggenheim de Bilbao par F. Gehry). Dans un même mouvement, la ville créative serait aussi synonyme de réhabilitation formelle du patrimoine industrielle et de promotion d’une esthétique bohème de la ville susceptible d’attirer les « classes créatives » (Florida, 2002). Cette idée de ville créative, quoi que largement débattue et souvent critiquée, mérite d’être prise au sérieux car elle joue un rôle de concept opérationnel important dans la transformation effective des politiques urbaines contemporaines. Nous partons du postulat qu’en suivant de manière critique les débats sur la ville créative et les enjeux qu’ils rassemblent, nous pourrons enquêter sur des phénomènes sociaux exemplaires et comprendre les enjeux urbains actuels. En guise de fil conducteur de notre état de la recherche, on trouve un paradoxe suggéré par les enquêtes sur la « ville créative » (Vivant, 2009 ; Pattaroni, 2011). Ce paradoxe, que nous reprenons à notre compte sous forme d’hypothèse, est celui qui veut que la reconnaissance de l’importance des enjeux culturels pour le développement urbain s’est accompagnée, en Europe et ailleurs, d’un durcissement à l’égard des lieux alternatifs de culture et, plus largement, a entraîné la disparition des espaces de vie et d’expérimentation les plus étrangers au marché. Pour dégager les enjeux de ce paradoxe, il faut se pencher sur 3 grands pôles de débats qui concernent la ville créative mais qui ne sont que rarement rassemblés dans les enquêtes sur la ville contemporaine : I. Les enjeux capitalistes de la ville créative ; II. Les enjeux culturels de la ville créative ; III. Les enjeux urbanistiques de la ville créative.
III La fine della città postmoderna e il nuovo spazio emergente né pubblico nè privato 1 Daniele Vazquez Pizzi
Il termine postmoderno attualmente non può più essere utilizzato come nei testi ormai classici sull’argomento, oggi la costellazione di senso che richiama deve fare esplicito riferimento non solo alla logica culturale del tardo capitalismo ma anche agli ordinamenti socio-spaziali che ne sono stati lo scenario. Tale scenario non è solo il prodotto di tale logica culturale ma anche ciò che, allo stesso tempo, l’ha prodotta. La nostra prima ipotesi è che vi sia una stretta corrispondenza tra la genesi, l’affermazione e il declino del postmoderno e i diversi momenti della dispersione urbana. Tale corrispondenza non va considerata una semplice correlazione per cui la dispersione urbana sarebbe pensabile esclusivamente come un contesto. Si tratta di una corrispondenza, piuttosto, per cui l’una, la logica culturale del tardo capitalismo e la sua crisi, non sarebbe più pensabile senza pensare l’altra, la dispersione urbana. In seconda battuta, è nostra ipotesi che con l’emergere di un periodo nuovo sotto tutti i punti di vista, in quanto segnato da una radicale discontinuità con il postmoderno, si possa affermare che la dispersione urbana stia raggiungendo parimenti un mutamento di statuto che sancisce la fine della città postmoderna. Alcuni studi di morfologia sociale a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo hanno dimostrato in modo convincente come le forme della riproduzione sociale siano strettamente correlate con i livelli della densità o della compattezza abitativa, come la mentalità, le rappresentazioni e immaginario di un gruppo sociale dipendano da un “substrato materiale” che è la specie di spazio che tale gruppo produce. Attraverso una periodizzazione della città postmoderna abbiamo tentato di evidenziare come a cambiamenti della densità dei territori della dispersione urbana seguissero salti qualitativi nella logica culturale del tardo capitalismo. Tale periodizzazione della città postmoderna è un’interpolazione antropologica di fatti urbani che sono stati per lungo tempo fuori dal fuoco d’interesse dell’urbanistica tradizionale, divisa in quattro fasi: l’ascesa della città postmoderna che corrisponde a una prima postmodernità; il trionfo della città postmoderna che corrisponde a una seconda postmodernità; il declino della città postmoderna che corrisponde a una terza postmodernità; infine, il periodo di esaurimento della logica culturale del tardo capitalismo che corrisponde all’inizio della crisi economico-finanziaria e all’emergere di un nuovo modo di produzione dello spazio urbano e di una città che articola spazio compatto e spazio diffuso, alta densità e bassa densità, un habitat senza limiti precisi oltre le morfologie urbane ormai tradizionali, come città compatta e città diffusa, che abbiamo definito altercittà. Alla prima postmodernità corrisponde l’emergere dell’urbanizzazione delle campagne come fenomeno socialmente rilevante e come luogo di produzione di un nuova logica culturale correlata con la presenza della vita urbana in assenza di prossimità, una vita urbana contrassegnata da una secolarizzazione delle
1. Estrato dalla tesi di dottorato, La fine della città postmoderna, ciclo XXVI, Corso di dottorando in Ubanistica, Scuola di Dottorato, Università IUAV di Venezia, 2014.
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tradizioni e del folklore delle campagne e delle piccole e medie città, una rivincita delle province che ha prodotto uno stile di vita urbano pop contrapposto a quello moderno della città compatta. Alla seconda postmodernità corrisponde il divenire-città di tali territori che densificandosi, infrastrutturandosi, valorizzando le reti familiari e i rapporti sociali ereditati dalla prima fase e i relativi sistemi di fiducia potenziano il loro ruolo produttivo, di invenzione e creazione di immaginario attraverso l’impresa a rete postfordista, diventando autosufficienti e indipendenti dai grandi centri compatti e incrementando la forza della propria logica culturale. Alla terza postmodernità corrisponde un addensamento tale dei territori della dispersione da presentare tutti i tratti caratteristici di una metropoli e una definizione precisa tale delle sue forme di vita urbane da imporsi ormai in modo crescente sui comportamenti urbani degli abitanti della città compatta. Questi ultimi acquisiscono sempre di più non solo una mentalità tipica della città diffusa ma ne riprendono, adattandolo allo spazio concentrato, lo stesso stile di vita, tuttavia nel suo momento di massima diffusione la logica culturale che corrisponde a tale stile di vita comincia a diradarsi e a lasciare spazio a nuove logiche culturali emergenti. Al periodo presente non è più possibile opporre città diffusa e città compatte, esse fanno parte di uno stesso territorio urbano articolato a diversi livelli di densità cui corrispondono diverse logiche culturali in un discontinuità con il postmoderno, a tale pluralità di logiche culturali corrispondono, inoltre, diverse risposte alla crisi dello stato sociale e del mercato. Nella nuova città emergente, l’altercittà, favorite dalla prossimità e dalle nuove contiguità prodotte dalla metropolizzazione della città diffusa, stanno affermandosi forme di cooperazione, condivisione e vivere insieme che appaiono come una rottura rispetto alla società dei consumi e all’individualismo espressi durante la postmodernità. Si tratta di forme reciprocità ancora minoritarie che alludono a uno spazio terzo, né pubblico né privato.
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III Condivisione e città 1
Cristina Bianchetti, Angelo Sampieri
[...] La condivisione non agisce secondo logiche spaziali tradizionali. Non agisce secondo una logica gerarchica e oppositiva che distingue tra centro e periferia, tra città compatta e sprawl, tra luoghi di pregio e luoghi di degrado. Né secondo una logica radiale o a corona che rimarca continuità e direzionalità, così come accadeva con i grandi complessi di edilizia residenziale novecentesca. E neppure agisce secondo una logica isotropa analoga a quella che caratterizza il pulviscolo di case unifamiliari della città diffusa. O secondo la logica elitaria, esclusiva, da club, delle gated communities. Alla gerarchia piramidale, alla linearità, o all’isotropia si sostituisce un pullulare di eccezioni. Plan-les-Ouates, Eindhoven, Milano, Berlino: la condivisione si dà nei sobborghi ricchi di una città ricca, in aree dure, compromesse e abbandonate della dismissione, su terreni agricoli che hanno perso valore o possibilità di produrlo, nelle periferie consolidate, nei luoghi simbolicamente più potenti della città europea, nei tessuti compatti di matrice ottocentesca. La condivisione va semplicemente dove c’è possibilità di andare. O meglio, dove si danno alcune condizioni: spazi poco presidiati, nascosti, residuali; usi sospesi, interrotti; luoghi temporaneamente in attesa; enclave di proprietà pubblica. Lì costruisce località, come direbbe Appadurai. Inscrive nello spazio relazioni e ricostruisce valori economici. Introduce nuove configurazioni e stabilisce regole che organizzano un diverso abitare, segnato da vegetazione spontanea o ingombri di arredi domestici esposti nello spazio collettivo. Produce scostamenti, minuti e ripetuti. Piccole variazioni di intensità. Scarti, in forza dei quali alcuni luoghi diventano più importanti di altri, poiché lì si inscrive un mutamento di valori economici e simbolici. Attraverso queste minute scosse la condivisione incrina i racconti lineari: quelli luttuosi del declino, come quelli consolatori della rigenerazione. Incrina racconti e rende inservibili le immagini della città alle quali fanno ancora riferimento la cultura progettuale e la discussione pubblica: la città multipolare, la città arcipelago, la città dispersa, quella organicista o il suo rovescio, la città balcanizzata. Immagini che non riescono ad intercettare le energie minute, insistenti e a loro modo forti della condivisione, la cui osservazione richiede un ribaltamento di prospettiva: l’abbandono di prese d’assieme e un’attenzione minuta agli sbalzi, alle fratture, ai limiti; al susseguirsi episodico di spazi densi di relazioni e scambi, e spazi laschi e rarefatti; al particolarismo di obiettivi, ruoli e identità che nella stessa città costruiscono mondi diversi e divergenti. Non c’è dubbio che la condivisione rivendichi un’appartenenza ad una città che non è più quella moderna, funzionale, con i suoi ordini definiti: capace di riflettere in modo trasparente conflitti, valori, diritti. […] La città evocata dalle forme della condivisione è l’opposto. […] Perché rifiuta l’idea di stare dentro uno spazio esito di interazioni multiple tra individui che operano entro quadri di significato unitari (confliggenti o concordi). Le tante azioni puntuali promosse da associazioni, cooperative, nuclei più o meno stabili, coesi e protetti stanno «entre
1. Cristina Bianchetti, Angelo Sampieri, Condivisione e città, Il Mulino, 2014.
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III nous», prima che nelle istituzioni, nel sociale o nella città. In altri termini, gli spazi della condivisione ci dicono che la città moderna è cosa del passato. La stessa mitografia più potente […]: il legame tra polis e democrazia sembra perdere forza. Così la nozione di pubblico che è sempre stata al suo centro e la cui crisi non è certo affare che possa imputarsi all’abitare condiviso. Ma che quest’ultimo aiuta a capire, poiché sostituisce ad un concetto levigato e potente, combinazioni equivoche tra spazio comune e spazio intimo. Incrinando quelle gerarchie che sono chiare nel moderno dove lo spazio pubblico è “per tutti”, poiché è il suo carattere istituzionalizzato (la sua normatività) a sottolineare la dipendenza dell’individuo dal sociale. Mentre qui è “per alcuni”: per gli squatters, i comitati, gli artisti, i pionieri, le élite culturali, i co-housers. Un vero e proprio ossimoro che segna uno spazio pubblico depotenziato, continuamente riproposto entro una «relazione elastica» tra individuo e gruppo. Una relazione nella quale gli individui si associano e dissociano per le ragioni più disparate, usano lo spazio in un modo in cui interesse individuale e benessere sociale si intersecano e sovrappongono. Il che ovviamente non esclude scontri e prese di distanza. […] La riconciliazione tra attenzioni individualistiche e aspirazioni universali alla giustizia e all’uguaglianza sociale è oggi auspicata da molti. Un auspicio che a volte cade nell’enfasi della polverizzazione prismatica del sociale e delle sue virtù. Più spesso e più cautamente riconosce nella moltiplicazione dei legami orizzontali forme di solidarietà, rivedibili e occasionali. Al di là dei due estremi del cinismo opportunista e dell’adesione religiosa alle nuove forme di solidarietà, resta la necessità, per l’azione pubblica, di misurarsi con la condivisione. Localmente. Elaborando accordi normativi parziali, di media portata, rivedibili in caso di necessità. Immaginando forme differenti di azione, leggere e tese a catalizzare energie, a valorizzare e guidare la realtà associativa entro una dialettica della mediazione, senza cadere nel vecchio gioco che attribuisce primazia ai comportamenti eretici ed eterodossi. Immaginando progetti che non si esauriscano nella costruzione di nuove mitografie, che non invochino genericamente capabilities e forme ideali di trasmissione di competenze, ma sappiano misurarsi con la diffidenza che la condivisione mostra nei confronti di un sapere progettuale e politico mai concepito come valore in sé. In altri termini, cercando di mettere al lavoro la forza critica della nozione di partage consapevole di misurarsi con un mutamento dai tratti equivoci e a volte paradossali.
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