# 3 Territori nella crisi Masterclass - Full paper
Progetto di ricerca: Progetto di ricerca: Politecnico di Torino, École Polytecnique Fédérale Politecnico di Torino, École Polytecnique Fédérale de Lausanne Coordinato Coordinato da: da: Prof. Cristina Bianchetti (DIST, POLITO) Prof. Cristina Bianchetti (DIST,
de Lausanne
POLITO)
Referente università partner:partner: Referente università Prof. Elena Cogato Lanza (LAB-U, EPFL) Prof. Elena Cogato-Lanza (LAB-U,
EPFL)
Gruppo di ricerca: Gruppo Armando di ricerca: Alessandro (DAD, POLITO), Grazia Brunetta (DIST, POLITO), Antonio De Rossi (DAD, Alessandro Armando (DAD, POLITO), Brunetta (DIST,Dario POLITO), Giovanni C POLITO), Alessandro Fubini (DIST, POLITO), PatriziaGrazia Lombardi (DIST, POLITO), Negueruela POLITO), Antonio De Rossi (DAD, POLITO), Alessandro Fubini (DIST, POLITO), Patri del Castillo (ENAC, EPFL), Luca Ortelli (LCC, EPFL), Luca Pattaroni (LASUR, EPFL), Giacomo Pettenati POLITO), Dario Negueruela (ENAC, Ortelli Luca Pattaro (SCUDO, POLITO), Dafne Regis (SCUDO, POLITO),EPFL), Angelo Luca Sampieri (DIST, (LCC, POLITO),EPFL), Giulia Sonetti (SCUDO, POLITO), Paola Viganò (LAB-U,POLITO), EPFL), Angioletta Voghera POLITO)POLITO), Angelo Samp Giacomo Pettenati (SCUDO, Dafne Regis(DIST, (SCUDO,
Giulia Sonetti (SCUDO, POLITO), Paola Viganò (LAB-U, EPFL), Angioletta Voghera (
progetto grafico - impaginazione: Agim Enver Kërçuku
QUESTIONI I
Mutamenti nel rapporto tra economia e territorio
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Biella. Vivacità minori Michele Cerruti But
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Sassuolo. Metamorfosi del distretto Cristiana Mattioli
40
Aubervilliers. Il riarticolarsi del rapporto produzione città Giulia Setti
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Genova. Paesaggi dell’abbandono Chiara Farinea
II
Metropoli europee
56
Athens. Scenarios for the archipelago of the Urban Decay Vasiliki Tsioutsiou
66
Antwerp. Urbanizing the metropolitan fringe: from the crisis of the old suburb to the reassembled faubourg Tom Broesi
98
La fine della città postmoderna Daniele Vazquez Pizzi
108
Helsinki. La città Intelligente sopra la città concreta Teresa Frausin
116
Ri-abitare la contemporaneità. La periferia, paradigma evidente di nuove relazioni Jacopo Gresleri
III
Un diverso statuto per lo spazio pubblico
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Les Grottes, Genève. Un pubblico che non è per tutti Elena Cogato Lanza
136
Can Battlò, Barcelona. Nuovi urbanesimi Silvia Calastri, Elisabet Roca
148
Centquatre e Place de la République, Paris. Uno spazio pubblico ordinario Patrizia Toscano
160
Madrid. City as prototype. A situationist frame for pragmatic social action Dario Negueruela del Castillo
1.
1
IV Privatizzazioni 172
Bruxelles. Spatial forms and values of use in the projects of the Community Land Trust Verena Lenna
182
Londra. La governance sottratta al pubblico Giulia Sonetti
192
Roma. La finanziarizzazione del patrimonio immobiliare Laura Martini
V
Un nuovo funzionamento del territorio
204
Scenographia: the urban spaces, fabrics and landscapes of mobility interfaces in European peripheries Antoine Vialle
218
Waste landscape: an evolving concept
Cecilia Furlan 230
Anticipating the change: visions and perspectives towards a post-car world Farzaneh Bahrami
242
London’s alternative housing Silvia Sitton
VI Patrimoni. Potenziamenti e minorazioni 258
Bellavista, Ivrea. Cos’è patrimonio pubblico? Elisabetta M. Bello, Agim Enver Kërçuku
274
Falchera. Le qualità di una città pubblica Simone Ruberto, Sara Cristina Zanforlin
290
Mirafiori Sud, Torino. La progettazione programmatica della mixité Ianira Vassallo
302
Valle di Susa. Una controversa invenzione delle tradizioni Dafne Regis
314
Val Maira. Razionalità minimali Giacomo Pettenati
1.
2
1.
3
Athens
Helsinki
Sassuolo
Roma
Biella
Bellavista, Ivrea
Falchera, Torino Mirafiori Sud, Torino
Genova
Valle di Susa
Bruxelles Les Grottes, GenĂŠve Val Maira
Antwerp
Brabanstadt, Holland
Can Battlò, Barcelona
Aubervilliers, Paris Paris
London
Madrid
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I. Mutamenti nel rapporto tra economia e territorio
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6
BIELLA, PIEMONTE VIVACITà MINORI
Michele Cerruti But
Conviene sottolineare che il ruolo principale dello Stato sociale non è stato quello di realizzare la funzione redistributiva che gli si attribuisce più frequentemente. Infatti le redistribuzioni di denaro pubblico hanno intaccato assai debolmente la struttura gerarchica della società salariale. Il suo ruolo protettore è stato invece essenziale. Robert Castel
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dismissione 1.
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La Rivoluzione Industriale Italiana è partita da Biella, uno dei più importanti distretti industriali (concetto tanto interessante quanto oggetto di discussione), dalle origini finanche medievali (Maitte, 2009). È una storia di imprenditori, di famiglie, di una intera società che, percorsa da legami stretti con la Chiesa e lo Stato, costruisce l’humus di quella che diventerà la «Manchester d’Italia», secondo la famosa definizione di Cavour (De Biasio, 2008). Se l’avvio della proto-industria biellese si dà nel 1816, con l’arrivo del primo telaio meccanico dall’Olanda per opera di Pietro Sella (Pozzo, 1881), è il ‘900 il secolo in cui l’industria tessile ha plasmato non solo lo spazio ma anche la stessa struttura sociale, politica ed economica. La stretta relazione tra industria e welfare si inaugura con le grandi infrastrutture del primo Novecento: strade, ponti, ferrovie. Ma anche scuole, asili, istituti di formazione. E ancora alberghi, stazioni sciistiche, parchi, piscine, ospedali, cimiteri. Un’eccezionale vitalità che costruisce il territorio e instaura una relazione virtuosa con la società che lo abita. La crisi attraversata nel 2008 ha tuttavia generato sul territorio biellese un reale disfarsi di tutte le sue parti. Fuor di retorica, i modi dello stare a galla si intravvedono in un proliferare di sforzi frammentari e incrementali, quasi “funghi” sparsi che individuano soggetti alternativi, imprenditorialità germinali, reti secondarie.
Disfarsi Il Biellese è sempre più vecchio e abita sempre di più in città e in pianura. Le simulazioni sociali, infatti, mostrano come la prima conseguenza della crisi (i cui prodromi vanno anticipati agli anni ’80) è demografica: la popolazione biellese tende a una piramide rovesciata, con sempre più vecchi e sempre meno popolazione attiva (con conseguente diminuzione del prelievo fiscale e anche del potere d’acquisto). L’altro fenomeno è quello del «costante “abbassamento” del baricentro demografico verso la pianura, con un abbandono delle alte valli e dei territori più lontani dal capoluogo, a beneficio dei comuni più vicini all’asse Torino-Milano» (Sulis, 2011: 1). Aumentano le case sfitte, i territori abbandonati, la radicale dismissione degli spazi. La dismissione dei luoghi del lavoro o la loro drastica minorazione pare essere, anche, una delle cause dei gravi problemi di salute mentale e depressione, che portano il distretto a un numero altissimo di suicidi e tentati suicidi (Sulis, Vinai, 2012a e 2013).
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Il problema dell’abitare nel biellese oggi è legato al rapporto tra le case vuote, il cui canone di affitto è spesso irrisorio, e il numero elevato di sfratti (si tratta di un numero superiore ai 300 l’anno), insieme al bisogno, molto diffuso, della casa. «Dal confronto tra il costo dei canoni nel 2012 rispetto al 2008 emerge una sensibile diminuzione, […] indicativa della situazione di difficoltà (si abbassa il costo pur di trovare un inquilino), con un’offerta di alloggi in locazione superiore alla domanda)» (Sulis, Vinai, 2012b). Nella Provincia di Biella il Censimento 2011 ha rilevato come il 23% del totale delle abitazioni non siano occupate. Uno dei più rilevanti cambiamenti intervenuti negli ultimi anni riguarda il drastico ridimensionamento dell’industria locale, tessile e meccanica in particolare, che ha visto la chiusura di stabilimenti e la messa in mobilità e in cassa integrazione di molti lavoratori. Il saldo tra le manifatture attive è, dal 2002 al 2012 del 30% in meno. I due settori trainanti del Biellese sono da sempre quello tessile e quello edile. In entrambi i settori, però, la crisi ha compiuto disastri, sostanzialmente dimezzando, in ciascun settore, le imprese (Sulis, Vinai, 2012c). Il tasso di disoccupazione ha segnato nel Biellese un’impennata considerevole, portandosi al 9,5% nel 2013. 1.
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la smobilitiazione della strada mercato tra Biella e Carisio 1.
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Riarticolarsi Mentre si riproducono dinamiche rilevabili lungo tutto il territorio italiano (Censis, 2013), e dunque anche nel biellese sono essenzialmente le famiglie a farsi carico dei servizi che sono venuti meno, con un progressivo e costante dilapidamento dei patrimoni familiari, il welfare trova qui alcune risposte alternative, che talvolta rimettono addirittura in gioco parti di territorio che sembravano perse. Forme dell’associazionismo religioso e culturale, fondazioni, talvolta alcune industrie rispondono in maniera singolare alle necessità diffuse e alle “nuove povertà”. Si tratta di iniziative molto potenziate negli ultimi anni, a volte circoscritte e localizzate, altre volte costituenti veri e proprie reti territoriali. Il ruolo che occupano le associazioni, inoltre, quasi sempre guidate dalla Caritas diocesana, sembra farsi sempre più vitale anche per quel che riguarda il confronto politico, proprio in virtù di questa capacità riconosciuta di dare delle risposte alle minorazioni del welfare. Il costo elevato di gestione degli edifici e la fatica prolungata di trovare affittuari hanno indotto molte famiglie a donare gli immobili alla Caritas. Si tratta per ora di una quarantina di immobili, tutti siti in Biella o nelle vicinanze (ma il numero è in aumento, e sempre più si tratta di case lontane da Biella). La Caritas ha costruito, con questi immobili, una fitta rete di accoglienza di ‘secondo livello’ che fa parte di un progetto di coordinamento teso a ottimizzare e incrementare il piano-casa della città. Si tratta di un piano quinquennale, guidato dalla Caritas, che comprende il Comune, il Cissabo (Consorzio dei Servizi Socio-Assistenziali del Biellese Orientale), il Centro Servizi Volontariato, alcuni enti privati. Nel piano si prevedono progetti di sistemazione degli alloggi, inserimento di abitanti, un ‘cohousing fraterno’, l’accoglienza di rifugiati, altre strutture. L’obiettivo è triplicare i posti di accoglienza.
accoglienza di secondo livello 1.
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Il problema dell’accesso ai beni alimentari è variamente risolto, nel biellese, da una rete di associazioni guidate dalla Caritas e dalla Fondazione Pistoletto. Inizialmente mossi dall’apertura di una ‘mensa di condivisione’ dove gli utenti sono soprattutto anziani, persone sole, persone con problemi gravi di depressione, ma anche poveri, negli ultimi anni la domanda crescente ha indotto la Caritas a costruire un ‘sistema del cibo’ piuttosto articolato. Alcuni empori (situati tra Biella e Cossato, la strada-mercato che ha costruito lo sviluppo industriale degli anni ’80) distribuiscono alimenti freschi, approvvigionati da reti che legano alcuni supermercati locali e da progetti in cui si recuperano alimenti casa per casa (progetto Frà Gallino). Enogood e Tacàtì sono invece due progetti gestiti da Caritas diocesana che intendono curare la distribuzione di prodotti di cascina o di bottega casa per casa. Fondazione Pistoletto e Caritas diocesana hanno inaugurato Let Eat Bi, un piano teso a fornire spazi da coltivare ad orto (a Cossato e a Verrone) per l’autosussistenza di disoccupati. Le competenze vengono poi raffinate, sempre a Cossato, in un’azienda agricola semiprofessionale gestita da una cooperativa legata a Caritas. A questo progetto si affianca quello di una falegnameria che produce mobili a partire da pallet , a Biella, e una caffetteria, in collaborazione con l’Associazione Pacefuturo, a Pettinengo. Tutti questi progetti sono rivolti a disoccupati in grave difficoltà e affiancati da progetti di accoglienza. A Veglio, piccolo comune montano dove l’abbandono e l’invecchiamento sono dinamiche molto sentite, si tenta di fornire a titolo gratuito degli appartamenti
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(muniti di wi-fi) purchè si desideri abitare e lavorare lì. La Fondazione Pistoletto mette a disposizione, nei suoi formidabili spazi post-industriali, locali e servizi per impiantarvi piccole o grandi start-up. La Banca Sella, in forma simile, offre nella sua fondazione spazi per creare delle start-up su progetti legati all’ economia digitale e alle innovazioni sociali dal punto di vista economico. In Valle Cervo, a Miagliano, The Wool Company è un consorzio che si basa sull’idea di “utilizzare” il distretto nella sua eccellenza. Qui, con allevatori di pecore di tutta Europa, si costruiscono progetti specifici che inseriscono le lane sucide nella filiera biellese per ottenerne prodotti di qualità che restano proprietà degli allevatori. Il Consorzio è pensato per promuovere la cultura della lana e, attraverso la sua attività, si impegna in continue azioni di varia natura per rinsaldare i saperi e le relazioni del territorio in cui è posto. Su modelli ben noti in altre parti del Piemonte, nel Biellese tutte le aziende si sono occupate, a livelli diversi, di welfare. Il Centro Zegna è stato un progetto di grande impatto per il territorio di Trivero, ad opera di Ermenegildo Zegna (che, dal 1932, si occupa addirittura della riforestazione di una montagna e costruisce un centro sciistico di eccellenza). Se nel complesso edilizio, inizialmente, trovavano posto un centro per la maternità (poi ospedale), un cinema, palestre, campi da gioco, bar, una piscina coperta, oggi il Centro Zegna, ceduto quasi interamente al Comune, è quasi vuoto. L’ospedaletto è infatti in via di dismissione, la piscina è un faticoso investimento comunale e restano, quindi, un bar e un outlet Zegna (di proprietà dell’azienda). Nel Centro Zegna, oggi, una manica è gestita da una
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Cooperativa (Il cammino) e ha assunto il nome di ‘Residenza del Sole’: un progetto di co-abitazione per anziani che fa parte della fitta rete di case gestite da alcune cooperative sociali del territorio e che sono coordinate dalla Caritas Diocesana. La Fondazione Zegna, invece, promuove da anni un progetto, “All’aperto”, che ha come obiettivo il facilitare la fruizione dell’arte contemporanea e dei suoi valori. Tuttavia le azioni compiute son tutt’altro che concettuali: si tratta di importanti progetti per la popolazione, come quello del 2011 attraverso cui fu reso possibile l’accesso wi-fi a molte aree di Trivero. Al Centro Zegna, nel 2013, con l’artista Marcello Maloberti si è inaugurata la riqualificazione delle terrazze (un tempo destinate al gioco delle bocce) come spazio pubblico per la cittadinanza. La Valle Cervo è una delle culle del distretto biellese. Qui tuttavia alla dismissione si accompagna l’invecchiamento della popolazione, con un indice medio che va dai 200 ai 250. Mentre l’impresa con il più alto numero di addetti resta la Domus Laetitiae, centro di riabilitazione per disabilità gravi gestito da una cooperativa legata alla Caritas, che offre la maggior parte dei servizi alla valle, il problema resta la solitudine degli anziani. Per queste ragioni un progetto coordinato da Il filo di Arianna e Caritas intende mettere in rete operatori sanitari, parroci, bar, centri di incontro, associazioni per promuovere pratiche di “buon vicinato” tra gli anziani e migliorarne la qualità della vita venendo incontro a bisogni specifici e prevenendo i problemi dell’invecchiamento in solitudine.
Ricomporsi La questione che questi episodi mettono in campo riguarda il diverso funzionamento del territorio. A Biella la crisi agisce soprattutto in termini di difficoltà a tenere insieme un quadro strategico: la rete che collegava senza soluzione di continuità industria, luoghi della produzione, luoghi del loisir, servizi, famiglie e comunità è ora profondamente disarticolata. Si tende a osservare, piuttosto, un territorio che funziona secondo reti sovrapposte. Quella delle imprese, che tentano la sopravvivenza, talvolta grazie a un importante genio imprenditoriale e creatività, quella del soggetto pubblico, impegnato nel mantenimento dei servizi che tuttavia offre con un depotenziamento drastico che riguarda soprattutto dismissione dei presidi sanitari locali e ridimensionamento del trasporto pubblico. Una terza rete è quella dell’associazionismo religioso, guidato dalla Caritas diocesana. Forte di un importante osservatorio sociale, la Caritas costruisce progetti in cui gli attori principali sono talvolta le cooperative, talaltra i consorzi, altre volte ancora soggetti privati come la fondazione Pistoletto. E dà alcune risposte al problema della casa, dei servizi, del lavoro. Tuttavia questo funzionamento per reti che faticano a entrare in contatto produce un territorio che si muove per parti e per episodi, quasi sempre di piccola dimensione e di debole impatto. Non è morto, né in decomposizione: resta da chiarire, però, se siano sufficienti dei brani di vivacità a suscitare un cambiamento e se, di fronte a spinte esterne, essi siano in grado di sostenerne il peso. La vitalità, tuttavia, è una delle forme in cui si dà il riscatto.
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I
i.it
distretto industriale | metamorfosi | medie imprese innovative | spazi industriali | riarticolarsi del rapporto produzione-territorio 1.
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Sassuolo Metamorfosi del distretto
Cristiana Mattioli PhD candidate POLIMI
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nuova Estense
bretella Modena
autostrada A22
nuova bretella autostradale TAV autostrada A1
ferrovia MI - BO via Emilia Reggio Emilia
Modena
pedemontana Scandiano
Sassuolo
Inquadramento territoriale | Sistema infrastrutturale In rosso, gli interventi in corso di studio o realizzazione
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Metamorfosi del distretto ceramico Nonostante il ridimensionamento della produzione (oggi quasi dimezzata rispetto ai 600 milioni di mq di piastrelle prodotti nel 2001), il distretto ceramico di Sassuolo-Scandiano ha dimostrato di essere un sistema produttivo ancora dinamico (Ricciardi, 2008), che continua a ospitare oltre l’80% della produzione italiana di piastrelle ceramiche per pavimenti e rivestimenti (Confindustria Ceramica, 2012) e che difende la sua posizione di leadership mondiale per quanto riguarda know how creativo e innovazione. Di fronte a cicliche crisi di settore, il distretto ceramico ha dimostrato di essere in grado di adattarsi ai cambiamenti del mercato attraverso successive forme di consolidamento aziendale, quali la creazione di gruppi aziendali e la loro successiva internazionalizzazione. Questi processi di metamorfosi (Bonomi, 2013; Mosconi, 2012) hanno innescato fenomeni di polarizzazione che contrappongono oggi poche imprese innovative e internazionalizzate di dimensione medio-grande1 a un tessuto eterogeneo di aziende di taglio minore (Bursi, 2008). Il consolidamento e la crescita delle imprese “guida”, la maggiore autonomia delle attività complementari, ma anche la crisi e chiusura di alcune di queste PMI, nonché la riarticolazione degli spazi della logistica innescano processi di gerarchizzazione del territorio distrettuale che sono l’esito di logiche settoriali e si manifestano in alcuni indizi di riorganizzazione fisica degli spazi produttivi, ad esempio la creazione di nuove polarità o concentrazioni funzionali. Tuttavia, poiché ogni impresa attua strategie di sviluppo individuali (Pertoldi, 2010), una pluralità di situazioni spaziali si trovano oggi a essere compresenti all’interno del distretto ceramico: le forme e i tempi della dismissione, dell’abbandono e del sottoutilizzo – accelerati della recente crisi economica – si combinano, infatti, a processi di qualificazione e ampliamento degli spazi produttivi su suolo agricolo (Lanzani, Bolocan, Zanfi, 2013). Questi fenomeni sfuggono a facili generalizzazioni; infatti, se è vero che alcuni gruppi aziendali consolidati hanno avviato progetti di riqualificazione dei propri spazi (Pavia, 2012), anche grazie alla loro maggiore disponibilità finanziaria, è anche vero che il sottoutilizzo e la dismissione non riguardano solo le PMI che, in alcuni casi, sono proprio i soggetti più attivi nel riuso di spazi “svuotati” della loro funzione produttiva. E’ attraverso le biografie di impresa, quindi, che il contributo intende indagare l’individualità e diversità delle forme di ridefinizione degli spazi industriali e del loro rapporto con il territorio.
1. Le medie imprese nascono da processi di crescita delle piccole imprese o da loro fusioni entro gruppi aziendali. Sono imprese innovative, a capo di una complessa geografia produttiva a scala mondiale (Corò, Micelli, 2006), caratterizzate spesso da forme di management avanzate che le portano a diventare “eccellenze” nel proprio settore (Grandinetti, 2010).
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L’organizzazione spaziale delle imprese del distretto ceramico: multilocalizzazione vs concentrazione La multilocalizzazione aziendale: una pluralità di stori
2. Il distretto ceramico propriamente detto comprende otto comuni: Sassuolo, Fiorano Modenese, Formigine e Maranello in provincia di Modena; Scandiano, Casalgrande, Castellarano e Rubiera in territorio reggiano. La localizzazione delle industrie ceramiche, tuttavia, riguarda anche territori limitrofi, soprattutto collinari, e si concentra anche in altri poli produttivi regionali, come Finale Emilia (MO) e alcune zone del bolognese, ravvenate e ferrarese. Inoltre, in seguito all’internazionalizzazione della produzione, numerosi gruppi aziendali dispongono anche di stabilimenti produttivi in Europa, USA e Russia, realizzati perseguendo strategie di tipo market-seeking (Markusen, 1996) volte, quindi, a presidiare i mercati più attivi e a facilitare la distribuzione interna del prodotto finito. 3. “In un’area di sua proprietà [di Filippo Marazzi, fondatore dell’azienda ceramica Marazzi] sorgevano due filari di pioppi, belli, robusti, dritti come colonne di una chiesa. Lui, nel settembre 1934, decise di tagliarli all’altezza di quattro metri da terra e di farne le travi portanti della sua ceramica. Di cosa fossero fatte le pareti, nessuno lo sa; qui ricomincia la leggenda” (Panciroli, 2004: 32). 4. In seguito all’emergere di preoccupanti forme di inquinamento ambientale, i comuni del distretto ceramico hanno promosso il trasferimento delle industrie più centrali in nuove aree industriali attrezzate, collocate nel territorio pianeggiante a nord del centro urbano. Si veda in particolare il PRG del comune di Sassuolo del 1976. 5. Al fine di beneficiare delle agevolazioni ed esenzioni fiscali previste dalle leggi per lo sviluppo delle “aree depresse” (che non riguardavano il territorio di Sassuolo), molte nuove imprese si sono localizzate in comuni limitrofi, mentre quelle esistenti vi hanno aperto proprie filiali produttive. 6. Cisa-Cerdisa è proprietaria della maggiore area dismessa del distretto ceramico (ST 325.000 mq) sulla quale il PSC dei comuni di Sassuolo e Fiorano Modenese (2007) ha concentrato la realizzazione di importanti quote residenziali e commerciali. Il sopraggiungere della crisi economica e la stagnazione del mercato immobiliare hanno, tuttavia, bloccato l’operazione.
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Percorrere il territorio del distretto oggi vuol dire imbattersi in un numero ancora elevato di imprese e marchi aziendali che si susseguono lungo le strade dei quartieri industriali. La proprietà degli spazi produttivi sembrerebbe, quindi, ancora molto frammentata. Tuttavia, la Carta 1 rivela come la maggioranza degli spazi industriali, soprattutto quelli di grandi dimensioni, appartengano a pochi grandi gruppi aziendali; le imprese ceramiche sono quindi, per la maggior parte, fabbriche multiplant che controllano diversi stabilimenti all’interno (ma anche all’esterno2) del distretto di Sassuolo. La multilocalizzazione industriale deriva da due diversi processi di crescita: il primo, anche dal punto di vista cronologico, è interno alle imprese e prevede l’ampliamento degli stabilimenti produttivi; il secondo, invece, si realizza mediante l’acquisizione di imprese già esistenti (Bursi, 2008). 1. L’espansione aziendale per via interna risponde a due principali strategie spaziali. Alcune imprese, come Marazzi e Cisa-Cerdisa, hanno aumentato la propria capacità produttiva “duplicando” lo stabilimento originario – esito di processi localizzativi spontanei3 che hanno interessato aree limitrofe al centro urbano di Sassuolo – in ambiti industriali extracomunali su spinta di politiche urbanistiche4 e industriali5. A una crescita molto simile delle due aziende – Marazzi realizza un nuovo stabilimento in un’area industriale del comune di Sassuolo e un altro nel comune di Fiorano Modenese, mentre Cisa-Cerdisa si amplia in due aree del comune di Maranello – si contrappone, oggi, il diverso utilizzo dei loro spazi: Marazzi continua, infatti, a utilizzare i suoi tre siti produttivi e la multinazionale americana che ha recentemente acquisito l’azienda ha avviato un intervento di ristrutturazione dell’impianto di Fiorano M.; Cisa-Cerdisa, confluita nel gruppo Ricchetti, invece, ha dismesso alcuni spazi industriali6, che oggi sono completamente abbandonati, e ha concentrato la produzione nello stabilimento di Maranello, limitrofo all’asse viabilistico pedemontano. Altre aziende, invece, come Casalgrande Padana, hanno dato vita ad agglomerazioni aziendali, riutilizzando e adattando stabilimenti industriali dismessi posti in prossimità del proprio impianto produttivo. Mentre nella fase espansiva gli interventi si sono limitati all’ammodernamento degli edifici esistenti e dei macchinari, oggi la sofisticazione produttiva si abbina, invece, a una rinnovata attenzione all’architettura e all’immagine aziendale. In particolare, dovendo riorganizzare i propri spazi logistici, resi accessibili dalla nuova strada pedemontana, l’azienda ha colto l’occasione per riqualificare tanto i propri spazi quanto il paesaggio stradale e il territorio con la realizzazione del monumento Ceramic Cloud, vera porta di accesso al distretto ceramico, realizzata dall’archistar giapponese Kengo Kuma. 2. La modalità di crescita delle aziende per via esterna, invece, ha portato alla formazione di grandi gruppi aziendali, esito di processi di fusione e acquisizione di impresa. Poiché le operazioni acquisitive seguono logiche di riorganizzazione aziendale e di potenziamento competitivo, la distribuzione diffusa degli stabilimenti del singolo gruppo aziendale deriva dalla localizzazione delle imprese preesistenti e richiede grandi capacità di coordinamento, non solo per quanto riguarda l’organizzazione del processo produttivo e della logistica, ma anche per
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N
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gruppi ceramici Immobili produttivi di prorpietĂ dei maggiori gruppi aziendali I gruppi ceramici |
Immobili prod
Immobili produttivi di proprietĂ dei maggiori gruppi aziendali
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riguarda l’organizzazione del processo produttivo e della logistica, ma anche per la gestione dei rapporti con diverse amministrazioni comunali (e i loro molteplici strumenti urbanistici). Con undici stabilimenti produttivi, Atlas Concorde è forse il gruppo ceramico più rappresentativo di la gestione dei rapporti con diverse amministrazioni comunali (e i loro molteplici questo fenomeno. La localizzazione concentrata di alcuni stabilimenti consente di ipotizzare strumenti urbanistici). Con undici stabilimenti produttivi, Atlas Concorde è forse che, in alcuni casi, la vicinanza dei siti produttivi abbia guidato le strategie di acquisizione. il gruppo ceramico più rappresentativo di questo fenomeno. La localizzazione Inoltre, i più recenti interventi espansione e diconsente qualificazione sembrerebbero essere concentrata di di alcuni stabilimenti di ipotizzare che, in alcuni casi, indirizzati la a consolidare e vicinanza rafforzare cluster produttivi di gruppo. deialcuni siti produttivi abbia guidato le strategie di acquisizione. Inoltre, i Nel caso di Florim la concentrazione stata guidata, invece, dallasembrerebbero razionalizzazione più recenti interventi di èespansione e di qualificazione esserelogistica del gruppo: la riorganizzazione dei depositi e laalcuni realizzazione del nuovo magazzino verticale, indirizzati a consolidare e rafforzare cluster produttivi di gruppo. che diventa anche un landmark per l’azienda, hanno dato vita a un hub multimarchio Nel caso di Florim la concentrazione è stata guidata, invece, dalla razionalizzazione concentrato, quindi più efficiente. Il contemporaneo intervento di demolizione ricostruzione ha logistica del gruppo: la riorganizzazione dei depositi e la realizzazionee del nuovo dotato l’aziendamagazzino di spazi espositivi concepiti accogliere eventi manifestazioni anche non verticale, che diventaper anche un landmark perel’azienda, hanno dato direttamente collegati all’attività dell’impresa. vita a un hub multimarchio concentrato, quindi più efficiente. Il contemporaneo intervento di demolizione e ricostruzione ha dotato l’azienda di spazi espositivi La multilocalizzazione produttiva non riguarda solo grandi gruppi ma anche aziende più concepiti per accogliere eventi e manifestazioni anche aziendali non direttamente collegati piccole e/o specializzate (second leader). E’ il caso di Gresmalt che controlla diversi stabilimenti all’attività dell’impresa. localizzati prevalentemente in aree marginali. A fronte di una concentrazione delle aziende leader, che privilegiano aree centrali, facilmente e dotate una buona visibilità, ma La multilocalizzazione produttiva nonaccessibili riguarda solo grandidigruppi aziendali ma anche più costose, numerosi spazi periferici sono diventatati, infatti, E’disponibili per le imprese anche aziende più piccole e/o specializzate (second leader). il caso di Gresmalt minori. che controlla diversi stabilimenti localizzati prevalentemente in aree marginali. A fronteildiprocesso una concentrazione delle aziende leader, anche che privilegiano aree centrali, Nello stesso modo, multilocalizzativo interessa spazi produttivi molecolari, facilmente accessibili e dotate di una alla buona visibilità, ma anche più costose, soprattutto nel caso di aziende dei settori correlati produzione ceramica. L’acquisizione da periferici diventatati, infatti, disponibili per le imprese minori. parte di System,numerosi aziendaspazi leader nella sono produzione di impianti per l’industria ceramica, di Tosilab, Nellografica, stesso modo, il processolamultilocalizzativo anche spazi produttivi di tipo specializzata nella ha consentito realizzazione diinteressa un’interessante operazione 7 molecolari, soprattutto di aziende dei settori correlati alla . produzione urbano che coinvolge un’intera stradanel delcaso quartiere artigianale di Sassuolo ceramica. L’acquisizione da parte di System, azienda leader nella produzione di impianti per l’industria ceramica, di Tosilab, specializzata nella grafica, ha consentito la realizzazione di un’interessante operazione di tipo urbano che 7. L’intervento è stato anche pubblicato sulla rivista di architettura The Plan, n. 33 (2009). coinvolge un’intera strada del quartiere artigianale di Sassuolo7.
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sede di rappresentanza del gruppo
magazzino multimarchio
recinto interno
ampliamento corpo uffici
La crescita per via esterna |
magazzino coperto impianto fotovoltaico
gallery espositiva
magazzino verticale
acquisto fabbricato parcheggio dipendenti
La ri-concentrazione industriale |
espansione deposito
Atlas Concorde e le acquisizioni lungo via Ghiarola Nuova (Fiorano M.)
Intervento di razionalizzazione logistica e di riqualificazione , Florim (Fiorano M.)
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Fenomeni di svuotamento Spazi produttivi dismessi, sfitti o in demolizione I gruppi ceramici |
Immobili produttivi di proprietĂ dei maggiori gruppi aziendali
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2.2 Altre forme (collettive) di concentrazione che riutilizzano il patrimonio industriale ma non producono nuovo paesaggio
8. Le commerciali ceramiche, comunemente dette “ceramiche senza forni”, sono attività di intermediazione originariamente nate per “smaltire” le scorte delle aziende ceramiche. Oggi queste aziende acquistano il prodotto finito o i semilavorati dalle imprese leader del distretto, che producono anche conto-terzi, o da altre piattaforme produttive nazionali ed estere, personalizzano le piastrelle affidandosi alle PMI locali di decoro e le commercializzano a marchio generico (low cost) o proprio (Martinelli, 2006). 9. In assenza di una reale domanda da parte del mercato immobiliare, la destinazione d’uso abitativa prevista per le aree ex-industriali centrali dai PRG degli anni ’90 è stata recentemente convertita in commerciale. A fronte di realizzazioni anche molto recenti, alcuni casi di demalling e sottoutilizzo di superfici commerciali segnalano, tuttavia, una saturazione anche di questa quota di mercato. 10. Nelle aree periferiche, invece, la dismissione industriale ha lasciato sul territorio numerosi “relitti” il cui isolamento e la cui vicinanza a contesti di pregio, soprattutto in ambito collinare, suggeriscono ipotesi di riuso e rifunzionalizzazione a sostegno della diversificazione dell’economia locale (ad esempio, favorendo attività turistiche o agricole).
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La riorganizzazione degli spazi produttivi non riguarda solo interventi promossi da gruppi aziendali. Lo studio attento del territorio ha, infatti, evidenziato anche fenomeni “spontanei” di concentrazione spaziale che coinvolgono diverse imprese, spesso di dimensione medio- piccola. E’ il caso, soprattutto, delle attività specializzate nel settore logistico e delle commerciali ceramiche8 che recuperano spazi dismessi o sottoutilizzati adattandoli alle loro necessità e, in almeno due casi, sembrano creare dei cluster di specializzazione in contesti caratterizzati da un’elevata accessibilità. 1. Sul confine tra i comuni di Fiorano Modenese e Sassuolo, in un’area adiacente all’arrivo della bretella che collega il distretto alla tangenziale di Modena, alcuni contenitori industriali dismessi sono stati riadattati a magazzino da parte di imprese localizzate sulla stessa via Ghiarola Nuova (es. Laminam, Mutina) o da operatori logistici. La sommatoria dei singoli depositi ha creato un hub logistico confrontabile, per dimensione, al vicino autoporto. 2. In località Sant’Antonino (RE), invece, lo svuotamento di numerose imprese ceramiche ha posto le condizioni per la creazione di una “strada mercato” lungo la quale si sono concentrate le attività che necessitano di una buona visibilità frontestrada (commerciali ceramiche, negozi, autoconcessionarie) e della vicinanza ai nuclei urbani (centri commerciali9, uffici, servizi). Il mercato immobiliare di tipo produttivo si mantiene quindi vivace, soprattutto nelle aree centrali del distretto, ben collegate ai maggiori sistemi di viabilità10; gli opifici dismessi vengono velocemente riconvertiti in magazzini e impianti produttivi ma, nella maggior parte dei casi, le riconversioni riguardano spazi industriali banali, obsoleti, a volte anche degradati e si limitano alla messa in sicurezza degli stabili e a una loro “ripulitura”. Se negli anni ’80 e ’90, infatti, le sostituzioni si accompagnavano a interventi di riqualificazione e “abbellimento” dell’azienda, spesso attraverso la realizzazione in facciata di un nuovo corpo uffici, oggi le riconversioni sono più minimali e temporanee. La volumetria degli edifici non cambia, gli usi degli spazi rimangono apparentemente inalterati, o comunque dall’esterno è difficile capire quanto e come siano cambiati; ciò che cambia è il nome dell’azienda ed eventualmente la grafica esterna degli edifici. Il continuo ricambio di aziende, oltre a evidenziare un certo dinamismo imprenditoriale, è anche sintomo della durata piuttosto breve e dell’elevato grado d’incertezza di queste esperienze, il che spiegherebbe il ricorso a interventi di rapida realizzazione e ridotto investimento finanziario. Pur impedendo un totale abbandono e degrado degli spazi industriali, queste operazioni non sono veri e propri esempi di riciclo ma più semplici “ristrutturazioni edilizie” che non esprimono, quindi, un nuovo modo di produrre e non hanno la forza di qualificare o rendere più abitabile il tessuto urbano.
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Interventi architettonici di riqualificazione realizzati lungo la nuova strada Pedemontana
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La riorganizzazione degli spazi produttivi del distretto: da forme “implicite” di autopromozione a un orientamento “consapevole”
11. Specialmente nei contesti a industrializzazione diffusa è necessario oggi identificare aree di densificazione, facilmente accessibili, verso cui orientare la maggior parte delle risorse pubbliche e private disponibili, e aree di rarefazione, da rinaturalizzare, riqualificare e rendere più vivibili per le popolazioni che abitano il territorio, nonché più attrattive per un’economia locale diversificata (Marchigiani, Torbianelli, 2012). 12. Gli episodi di qualificazione degli spazi industriali rivelano l’emergere di un nuovo rapporto fra produzione e territorio, in cui lo sviluppo economico è sempre meno collegato a forme di crescita dell’urbanizzato e banalizzazione del paesaggio. In un’economia sempre più personalizzata, infatti, le specificità del territorio di produzione sono diventate parte essenziale del bene venduto. Al territorio distrettuale, allora, è richiesto di diventare più accogliente, attraente e coerente, per poter esprimere quell’identità culturale che rende i prodotti del “Made in Italy” riconoscibili e vendibili sul mercato globale (Corò, 2012), nonché per rispondere alle richieste di maggiore abitabilità e fruibilità dei luoghi espresse dai lavoratori del terziario avanzato. 13. Con i suoi 17 km di estensione, la bretella autostradale, prevista già negli anni ’80, si localizzerebbe in un territorio ancora prevalentemente rurale, compromettendo la sponda modenese del fiume Secchia e alcune aree di particolare interesse naturalistico (riserva del Colombarone) e veicolando processi di ulteriore consumo di suolo agricolo. L’utilità di quest’opera è peraltro ormai ampiamente messa in dubbio dagli stessi imprenditori ceramici.
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Lo studio dell’evoluzione degli spazi produttivi e dei recenti interventi di riorganizzazione e qualificazione della struttura industriale del distretto ceramico ha mostrato l’emergere di forme spontanee di concentrazione e specializzazione, esito anche del riuso di manufatti dismessi, nonché di “razionalità minimali” espresse tanto dalle imprese più dinamiche quanto dalle aziende minori. Parallelamente, forme di svuotamento plurali – come plurali sono le ragioni e le cause che determinano l’abbandono degli spazi industriali – si presentano un po’ ovunque sul territorio e coinvolgono materiali diversi per tipologia, estensione e qualità (Zanfi, 2013). La ricostruzione di alcune geografie, sebbene parziali ed embrionali, può guidare oggi l’azione urbanistica che, in un periodo di risorse scarse, deve essere necessariamente selettiva11 e improntata alla valorizzazione e al recupero dell’esistente (Micelli, 2013). Questa operazione si deve basare, da un lato, sul riconoscimento degli elementi strutturanti i singoli territori; dall’altro, sull’identificazione di fenomeni di autopromozione che, a seconda della loro coerenza rispetto alla visione d’insieme, necessitano di politiche e strumenti volti a un loro riorientamento, accompagnamento o facilitazione. Nel distretto ceramico esistono alcune gerarchie “implicite”, nate dall’intreccio fra mobilitazione individuale dei privati e scelte di pianificazione delle amministrazioni locali, a partire dalle quali è possibile avanzare almeno tre proposte di intervento sul territorio. 1. Seppur limitati e poco innovativi, gli interventi di qualificazione e concentrazione aziendale lungo le maggiori arterie di traffico (strada pedemontana, SP 51 e bretella MO-Fiorano) hanno creato delle “strade vetrina” la cui accessibilità e visibilità sono sfruttate a fini comunicativi e commerciali da aziende non solo ceramiche, suggerendo interessanti interventi di integrazione fra paesaggio rurale e industriale12. Questi sistemi lineari potrebbero essere, dunque, qualificati e potenziati, ponendosi in alternativa alla realizzazione della nuova bretella autostradale Campogalliano-Sassuolo13. Viceversa, il declassamento di alcune arterie urbane ha accelerato processi di svuotamento delle aree industriali più vicine ai centri abitati o localizzate in territorio collinare, la cui sostituzione residenziale o commerciale diventa sempre più difficile. In questo caso, è opportuno intervenire in un’ottica di aumento dell’urbanità sostenendo, ad esempio, processi di riuso anche temporaneo degli spazi dismessi e incentivando la creazione di “strade abitate” ove intervenire anche con sistemi di mobilità pubblica che garantiscano un più facile accesso ai servizi già esistenti. 2. L’industria ceramica richiede oggi spazi di grandi dimensioni, facilmente accessibili e adatti a ospitare linee di produzione complete, nuovi spazi espositivi – che non sono più solo show-room ma “porte” fra industria e territorio – e centri logistici sempre più tecnologici e automatizzati. Mentre i gruppi aziendali di successo continuano ad avanzare richieste di ampliamento dei propri spazi produttivi, i fenomeni di abbandono e sottoutilizzo che interessano prevalentemente spazi obsoleti e poco efficienti non possono essere risolti dal solo mercato. In un’ottica di crescita a volume zero, quindi, è opportuno prevedere
nuovi strumenti, soprattutto fiscali e burocratici, che subordinino i necessari interventi di espansione alla presa in carico, da parte delle aziende, di aree industriali dismesse (prevalentemente all’interno dei singoli gruppi aziendali) o di interventi di qualificazione del territorio. 3. I processi spontanei di concentrazione di PMI specializzate potrebbero essere guidati e replicati incentivando la creazione di “condomini industriali” volti a favorire il riuso di spazi industriali dismessi, la riduzione dei flussi di traffico intradistrettuale14, l’efficientamento energetico e la ristrutturazione degli immobili più degradati, nonché la creazione di servizi comuni per le imprese (con conseguente riduzione dei loro costi di gestione).
Riflessioni conclusive | Come leggere oggi il riarticolarsi del rapporto produzione- territorio nei distretti industriali? Rispetto all’ipotesi iniziale, secondo la quale gli effetti della crisi economica si mostrerebbero con particolare intensità proprio nelle aree produttive (Armondi, 2012), in particolare nei distretti industriali data la loro natura monocolturale, la ricerca sul campo ha rivelato come l’attuale situazione di metamorfosi sia complessa e articolata e si accompagni a processi di riconfigurazione degli spazi produttivi plurali e contradditori. Le trasformazioni in corso sembrano aprire a una “terza via” per i distretti industriali e richiedono la formulazione di una nuova “narrazione” per questi territori, diversa da quelle eccessivamente pessimistiche o ottimistiche di molti economisti, ma anche più aggiornata (e spazialmente orientata) rispetto al lavoro di Becattini (2000) e di altri studiosi che si sono interessati al fenomeno dell’industrializzazione diffusa. In conclusione, si intende formulare, quindi, alcune riflessioni che possano essere di una qualche utilità per lo studio di altri territori distrettuali. Innanzitutto, come suggerito da Zanfi (2013), occorre oggi approcciarsi alle aree produttive (e più in generale ai tessuti dell’urbanizzazione diffusa) con uno sguardo nuovo capace di cogliere le trasformazioni che si danno sempre più spesso all’interno degli spazi del lavoro – si pensi al fenomeno del sottoutilizzo – e che riguardano anche i cambiamenti delle destinazioni d’uso di questi luoghi. Usi che restano, però, spesso interni al settore manifatturiero indagato. Non si tratta qui, soltanto, di capannoni che si trasformano in palestre, discoteche, che accolgono usi imprevisti e intermittenti (Tosi, Munarin, 2001), ma di spazi che, pur rimanendo produttivi, si adattano alle nuove esigenze dell’industria, a nuovi usi manifatturieri e commerciali che potrebbero anche non richiedere modifiche dei manufatti e che, per questo, diventano sempre più difficili da riconoscere. A tal proposito, la predisposizione di nuovi metodi d’indagine e mappatura, che consentano di ricostruire carte a scala vasta, non legate solo a specifiche microstorie, apre un’interessante linea di ricerca (per esempio, ci si chiede se sia possibile mappare il sottoutilizzo a partire dai consumi energetici o dai dati del censimento ISTAT sulle attività produttive). Lo studio dei distretti industriali impone poi un necessario approfondimento multidisciplinare del settore industriale che connota la specializzazione dell’area. Infatti, ogni produzione industriale ha esigenze specifiche che hanno ricadute peculiari sugli spazi produttivi e sul territorio nel suo complesso. Nel caso del distretto ceramico, ad esempio, non sarebbe stato possibile ricostruire le
14 Nonostante la riduzione dei volumi di prodotto finito, i flussi di traffico interni al distretto si mantengono molto elevati, sia per l’organizzazione multiplant dei gruppi ceramici e i continui scambi fra imprese ceramiche e aziende correlate, sia per il funzionamento del sistema logistico ceramico che, in risposta alla modalità di consegna “franco fabbrica” e alla frammentazione e personalizzazione degli ordini, prevede complesse operazioni di groupage, trasferimento e consolidamento della merce presso i depositi delle aziende locali di autotrasporto.
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motivazioni sottese ad alcune dismissioni, così come il formarsi di agglomerazioni, senza tenere presente la struttura multilocalizzata dei gruppi aziendali o la riorganizzazione dell’attività logistica. Se altre discipline si sono, quindi, concentrate sull’individuazione di macrofenomeni socio- economici che stanno riconfigurando i distretti industriali, all’urbanistica è richiesto, da un lato, di studiarne le ricadute spaziali, evidenziando le forme di resilienza e la disponibilità al cambiamento di ogni territorio e settore produttivo; dall’altro, di definire scenari e progetti fattibili che, proprio a partire dalle specificità del territorio, della società e del sistema produttivo locali, individuino alcune azioni prioritarie e indirizzino i processi evolutivi in corso.
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AUBERVILLIERS, PARIS IL RIARTICOLARSI DEL RAPPORTO PRODUZIONE CITTà
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L’area industriale di Aubervilliers fa parte dell’agglomerazione Plaine Commune: un territorio che «après avoir été durant trente ans la plus grande zones industrielles d’Europe, se voyait en devenir la plus grande friche industrielles avec la crise des années 1970». Così un’inchiesta sociale su Espace et Sociétés nel 2006 (n. 127). Si trova nell’omonimo comune, nel quale sono insediati (su …. ettari),63.136 abitanti e 2.077 imprese. Aubervilliers è a nord di Parigi, appena oltre la cintura del boulevard Périphérique, nel dipartimento della Senna-SaintDenis. A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento è stato caratterizzato da una forte espansione industriale, principalmente industrie chimiche. Da tempo è oggetto di diverse forme di abbandono e dismissione che si sono notevolmente intensificate nell’ultimo decennio.
Forme e storie di dismissione Le condizioni di degrado che si osservano percorrendo il sedime del tessuto produttivo di Aubervilliers mostrano come la dismissione abbia causato processi di corrosione puntuale di manufatti, dove frammenti di industrie, che vengono abbandonate, si spengono. Si tratta, in alcuni casi, di forme di dismissione senza ritorno per le quali è difficile ipotizzare possibili forme di riuso. L’abbandono progressivo delle grandi industrie ha costituito un territorio frammentato in cui lo spazio aperto diviene sempre più interstiziale e minuto. Nonostante i processi di dismissione e il forte declino di alcune porzioni di tessuto (declino che arriva ad interessare anche l’infrastruttura di base che innerva il territorio), si sta assistendo ad una serie di episodi di riconversione, attualmente in corso. Ad Aubervilliers e nella piana di Saint Denis il carattere industriale si è consolidato e permane al di là di possibili riusi e trasformazioni; si coglie pertanto la compresenza di tempi e storie diverse legate alla dismissione. Dismissioni e riconversioni non si danno più in modo univoco, ma si articolano per parti e segmenti disconnessi; nuove forme di produzione, di carattere ancora industriale o terziario, convivono con aree in forte degrado o con forme di riconversione più puntuali e interstiziali. Cambia la scala del fenomeno, a vuoti urbani che necessitavano di essere ridisegnati, si contrappongono vuoti interstiziali generati dall’abbandono progressivo di imponenti manufatti. Il tessuto di Aubervilliers presenta tempi diversi della dismissione che modificano lo spazio secondo gradi di consolidamento differenti: alcuni manufatti hanno subito processi di recupero e riuso anche con l’introduzione di nuove tipologie di imprenditori precedentemente estranei a questi territori, mentre, in altri casi, si assiste a fenomeni di progressiva rarefazione. Le attività industriali sono state, in 1.
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parte, sostituite da attività terziarie, legate al commercio e allo stoccaggio delle merci, o da attività di ricerca scientifica, dunque una profonda commistione di usi che prevede anche la costruzione di strutture residenziali in grado di favorire il ritorno ad una certa forma di mixité in un territorio che è stato, per decenni, di matrice monofunzionale. Nel complesso sembra di cogliere una progressiva dilatazione delle nicchie e dei segmenti di attività differenti. Processi profondamente e qualitativamente diversi dai cambiamenti indotti dalle precedenti fasi di dismissione. Per lungo tempo fare impresa voleva dire assumere una determinata propensione a potenziare capacità e strutture produttive, a ricercare assetti aziendali e spaziali configurati sull’ampliamento dimensionale. Aubervilliers ha raccontato quella storia. Era il modello della grande impresa che si configurava come riferimento anche per attività che non avrebbero avuto necessità di interiorizzarlo. La transizione attuale, bene rappresentata oggi, è destinata a rimettere in discussione il rapporto attività produttiva-spazio. Nelle distese produttive di Aubervilliers si scorgono embrionali piattaforme territoriali che allineano una varietà di soggetti di impresa che è difficile ordinare entro consuete distinzioni tra grandi e piccole presenze. La stagione della dismissione degli anni 80 non ha più nulla da insegnare a fronte del divaricarsi delle traiettorie dell’abbandono, così come di quelle dello sviluppo.
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tessuti industriali dismessi superficie: 99.779 mq
tessuti industriali ancora produttivi, ma in fase iniziale di degrado superficie: 182.767 mq
tessuti industriali in corso di riconversione in nuovi impianti produttivi (Magazzini Generali) superficie: 243.488 mq
nuove strutture produttive o terziarie superficie: 26.004 mq
progetti di riconversione di edifici produttivi in corso di realizzazione superficie: 34.198 mq
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_ricostruire scenari
sezione 1 scenario possibile di modificazione
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Sistema di vuoti interstiziali
SCENARIO 1 | SEZIONE 1
Sistem Tempo 1 | tempo dell’abbandono Tempo 2 | tempo dell’attesa Tempo 3 | tempo della modificazione Strategia: 50% DENSIfICAZIONE 50% RAREfAZIONE
Il sistema costruito
Il sistema dei vuoti aree sensibili alla trasformazione
Ricomporre frammenti Sezione 1 RaRefazione | densificazioni _storie possibili:
1 | infrastrutturazione energetica 2 | ‘produttivo su produttivo’: insediamento di nuove forme di produzione industrile 3 | aprire la fabbrica: attività di commercio e mercato agricolo 4 | riusi temporanei: nuovi spazi pubblici per la città
stato di fatto
Il sistema cos
Il sistema dei strategia: 50% demolizione 50% conservazione
impianti per produzione enegertica
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scavo | suolo pubblico produzione energia nuove attività produttive
strutture residenziali spazi per commercio di quartiere
strategia: densificazione scenario: infrastrutturazione energetica
aree sensibili a
Tempo dell’abbandono | tempo dell’attesa | tempo della modificazione strategia: consolidamento | demolizione
addizioni: strutture produttive
infrastrutture energetiche costruire nuovi suoli
sistema di coperture produzione di energia
Azioni progettuali
quota +0.00
stratificare suoli funzioni produttive | impianti per produzione energia
Strategie | operazioni sezione 1
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Tempo dell’abbandono | tempo dell’attesa | tempo della modificazione strategia: consolidamento | demolizione
innesti: nuove forme di lavoro/ricerca
addizioni: strutture produttive
nuovi suoli coperture energetiche
Azioni progettuali
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Nuovi supporti Il caso di Aubervilliers è un interessante oggetto di studio proprio per le possibilità che i tessuti industriali offrono di essere riciclati e trasformati nuovamente, mantenendo, al contempo, il loro carattere industriale. Le forme di riciclo interessano sia manufatti che tessuti e prevedono di immaginare scenari di modificazione in cui gradi di rarefazione e di consolidamento si intreccino stabilendo nuove condizioni. A processi di rarefazione, necessari per eliminare strutture non più riutilizzabili, si affiancano interventi di consolidamento e densificazione che prevedono addizioni di nuove volumetrie e interventi sui singoli oggetti architettonici. Il declino e l’abbandono, che toccano questi contesti industriali, possono essere visti come una fase del ciclo di vita del manufatto, superabile attraverso processi di trasformazione e recupero delle strutture esistenti. La complessità dei processi di dismissione in corso rende necessario immaginare forme diverse di intervento sul territorio, un territorio che risulta già compromesso e inquinato. I processi di riuso devono confrontarsi con una condizione di profonda instabilità: alla dismissione di usi e luoghi, si affianca una progressiva decadenza energetica causata dal degrado delle reti di infrastrutturazione, che rendono i processi di riuso più complessi. Si guarda al manufatto come parte di un tessuto produttivo e, dunque, il suolo rappresenta un elemento decisivo nei possibili processi di riuso; la costruzione di ‘suoli attrezzati’ in grado di garantire la presenza di una rete di infrastrutture e servizi appare necessaria per favorire interventi di modificazione incisivi su tessuti degradati. Il supporto industriale, descritto dal caso di Aubervilliers, mette in evidenza come siano in corso sostituzioni interstiziali che avvengono in condizioni di instabilità e che cercano di far fronte ad un progressivo sgretolarsi del suolo stesso. I caratteri della dismissione, riconoscibili ad Aubervilliers, evidenziano lo stato di crisi di un intero territorio, dovuto alle recenti contrazioni economiche causate dalla crisi, all’abbandono di forme di industria pesante e al diverso dislocarsi dei settori labour intensive su una playground globale. Sono evidenti e radicali le differenze con i modi della dismissione negli anni 80 e 90. La questione che pone, nelle sue forme per molti aspetti estreme, concerne il riarticolarsi del rapporto tra spazio produttivo e città.
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Lo sfaldamento delle grandi placche industriali apre a condizioni di instabilità i territori nei quali esse si collocano. Uno sviluppo di questi esclusivamente legato alle logiche di mercato può portare al degrado delle aree urbane adiacenti. Un interessante caso studio per l’indagine di questi fenomeni è costituito dai quartieri di Ponente della città di Genova. La forte urbanizzazione dell’area di Ponente avviene attorno alla metà dell’Ottocento, in corrispondenza con lo sviluppo dell’industria meccanica, finanziata dalle commesse dello stato per la costruzione di navi, ferrovie ed armi da guerra. Tuttavia le attività industriali entrano in una fase di inesorabile declino a partire dalla seconda metà del Novecento. All’interno di questo quadro tre condizioni, lascito dello sviluppo dell’industria meccanica definiranno la nuova traiettoria del territorio: la conformazione fisica degli edifici industriali abbandonati, l’inquinamento dei suoli e la buona accessibilità dell’area. Su queste basi ha inizio, negli anni Novanta, un processo di riutilizzo di parte degli edifici e delle aree industriali, che ha come oggetto la realizzazione di aree commerciali. All’interno del paesaggio industriale, ormai in decadenza, si viene gradualmente a inserire una geografia molecolare di attività commerciali che necessitano di una buona accessibilità e di vaste aree per lo stoccaggio delle merci, quali ad esempio negozi di automobili, di arredamento o centri commerciali. Due piani voluti dall’amministrazione comunale per il riuso di aree industriali dismesse caratterizzano definitivamente il ponente come area per lo stoccaggio e la rivendita delle merci, ossia il piano per l’area di Campi, a Cornigliano e quello per l’area di Fiumara, a Sampierdarena. Bisogna notare che per quanto concerne il piano di Fiumara, nelle prime ipotesi progettuali, vi si prevedeva lo spostamento della facoltà di ingegneria, per quanto il piano definitivamente approvato contemplasse invece esclusivamente un uso commerciale dell’area. La nuova offerta ha notevoli conseguenze sul tessuto insediativo consolidato: il tessuto commerciale delle aree urbane, non potendo far fronte alla nuova concorrenza, ha infatti perso la propria tradizionale utenza e molte attività sono state portate alla chiusura. L’indebolimento della struttura commerciale, come effetto secondario, ha comportato la diminuzione dei flussi pedonali e conseguentemente la diminuzione della sicurezza urbana: la popolazione locale, oltre a ridursi a causa della chiusura delle fabbriche, ha dunque preferito collocare la propria residenza in aree differenti. La diminuzione dei prezzi degli immobili ha portato l’area a venir occupata dagli immigrati, mentre la chiusura degli esercizi ha prodotto nuove aree vacanti di 1.
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Genova Paesaggi dell’abbandono
Chiara Farinea PhD candidate IUAV
decrescente interesse commerciale che hanno finito per attirare sul posto nuove attività dalle caratteristiche socio-economiche poco lusinghiere per un vicino residente, quali negozi a luci rosse, call center e sale da gioco, immerse in un paesaggio sempre più degradato, al quale non mancano né le prostitute né i loro protettori. Probabilmente la realizzazione della sede universitaria nella zona di Fiumara, o, in definitiva, di piani di sviluppo meno legati alle logiche di mercato, avrebbe potuto mettere in atto un percorso differente per l’area e per l’intero quartiere, caratterizzato da risultati di maggiore pregio.
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II. Metropoli europee
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ation. small-scale production, workshops and the few developing industries emerge in this side oo and toStill the areas ofvalues, intense activity ofissocial networks, renders it theofcentre of the economic activity property the centre more than ever at a stake loosing its intrinsic multinatio ty. The extended migrations of the and 20thaccessibility century enhance thearea arearenders arounditOmonia as reception space, migrants. However the centrality of the very attractive for the realf character. ith working class hotels, trading andGazi. cafesFuelled located by in-between national bus while signs The if gentrification are spaces, alreadyworkshops, apparent inbrothels areas like thethe crisis and in thethe dr aim of this presentation is to define and map the urban decay and vacant ain stations. The gate becomes the meeting point for the different types of migrants, rural, refug propertyand values, the centre more than ever at a stake loosing its intrinsic multinational to highlight its isdynamic in restructuring the of city. The dispersed archipelago of inalland th 3. The ternational contemporary migrants, the international ones, are again living and trading the character. developable spaces meets can function as rendering a networkOmonia of alternative mixed-use buildings and units th me The location here thepresentation global the local, thedecay gate ofand Europe. aim of this is to define and map the urban the vacantand in all thethe case of is to safeguard accessibility in the housing and labor market for the migrants other 4; due Nonetheless, immigrants prolong the life of the old building stock to unequal access in the and to highlight dynamic in restructuring the city. The dispersed archipelago allintrinsic those pote groups. Initsthis way the historical centre canare regain its lost urbanity andofits mu tate market, the migrants are forced to use houses that not appealing to the locals, despite the fact developable spaces can function as a network of alternative mixed-use buildings and units the aim of character. any of them can afford better houses. However, the intense presence of the migrants in the historical ce is to safeguard accessibility in the housing and labor market for the migrants and all the other disadva not simply the result of affordable but regain is predominantly based on level multidimen of accessib groups. In this way the historical housing, centre can its lost urbanity andtheitshigh intrinsic nd connectivity of the centre. The dense network of public transport nodes, makes the area a gate in character. ow of commercial goods, while the proximity to the areas of intense flows (tourists daily population, nd to the areas of intense activity of social networks, renders it the centre of the economic activity of igrants. However the centrality and accessibility of the area renders it very attractive for the real es hile signs if gentrification are already apparent in areas like Gazi. Fuelled by the crisis and the drop operty values, the centre is more than ever at a stake of loosing its intrinsic multinational and m haracter. The aim of this presentation is to define and map the urban decay and the vacant in the case of At nd to highlight its dynamic in restructuring the city. The dispersed archipelago of all those potent evelopable spaces can function as a network of alternative mixed-use buildings and units the aim of w to safeguard accessibility in the housing and labor market for the migrants and all the other disadvant oups. In this way the historical centre can regain its lost urbanity and its intrinsic multidimens haracter.
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Figure 1. Buildable Open Space in Athens (LUZ). (V. Tsioutsiou-gis Figureprojection) 1. Buildable Open
Space in Athens (LUZ). (V. Tsioutsiou-gis projection)
Figure 1. Buildable Open Space in Athens (LUZ). (V. Tsioutsiou-gis projection)
Refugees, rural and international migrants form the 3 big waves of migration that shaped Athens in the 20th centu refugees were the result of the 1922 population exchange between Greece and Turkey. The rural migrants were the massively emigrated to the big urban centres in the post WWII era, while the international migration emerged after 3 Refugees, rural and international migrants form the 3 big waves of migration that shaped Athens in the 20th century; the Asi 4 Balbo, M. (ed), 2005 , International Migrants and the Right to the city, UN-HABITAT and dP dipartimento di Pian refugees were the result of the 1922 population exchange between Greece and Turkey. The rural migrants were the population Venezia. Venice, in June massivelyUniversitĂ emigrated Iuav to thedibig urban centres the2005. post WWII era, while the international migration emerged after the 90s . 3
Balbo, M. (ed), 2005 , International Migrants and the Right to the city, UN-HABITAT and dP dipartimento di Pianificazione UniversitĂ Iuav di Venezia. Venice, June 2005. 4
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Athens Scenarios for the archipelago of the Urban Decay
Vasiliki Tsioutsiou PhD candidate IUAV
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1 the greek construction model-market mechanism where the constructor exchanges the value of the land with a portion of the building to be constructed, 2 The actual origin of the contemporary antique bazaar, is not fully known but is said to date back in the activity of the Ethiopians of the Ottoman period. 3 Refugees, rural and international migrants form the 3 big waves of migration that shaped Athens in the 20th century; the Asia-minor refugees were the result of the 1922 population exchange between Greece and Turkey. The rural migrants were the populations that massively emigrated to the big urban centres in the post WWII era, while the international migration emerged after the 90s . 4 Balbo, M. (ed), 2005 , International Migrants and the Right to the city, UN-HABITAT and dP dipartimento di Pianificazione, Università Iuav di Venezia. Venice, June 2005.
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!The decline of the historical centre of Athens is an ongoing process that lasts for at least half a century. Already by the late 80’s the central neighbourhoods have lost their attractiveness as a result of the intense and uncontrolled densification of the decades that followed the end of the WWII and the Civil war. The model of antiparochi1, managed to cover both the emerging housing needs of the rapidly urbanised greek capital and in the same time boosted what was considered the steam engine of the greek economy: construction. Urban sprawl, fuelled by the changes in the geography of mobility (subway construction, Attiki odos peripheral road, extreme rise of private mobility) played a crucial role in the redefinition of the city’s hierarchies and the rise of new economic and commercial centralities. The abandoned building stock of the centre, which is gradually depopulated, is being reused by the international migrants that arrive initially from the Balkans and the former Soviet Union in the 90’s, followed by those from Asia and Africa, in the decades to follow. The link of the historical centre to the migrants is however diachronic. The area around Omonia Square has been for more than 2000 years the gate of the city, a feature that is diachronically linked to trade, production and the presence of the poorest social groups, as well as the foreigners, the migrants and the visitors of the city. The Ancient Agora, the physical extension of the city walls, concentrated the merchants and the meticks. The space in between the gate and the ottoman bazaar concentrated all the popular, informal, polluting functions like workshops while the noble areas are located on the East side of the city, like the gypsies (blacksmiths) and the Ethiopians’ informal bazaar 2. The area in between thus is where the informal economy and the production flourished. This intrinsic characteristic of the gate prevails in the modern city as well. The introduction of new technologies, namely the railways, shifted the notion of the gate from the endpoint of the street crossing the walls to the train station. The location of the gate however hardly does change. The diachronic wall gate of the city is replaced by the gate of modernity, Thiseion train station. Still small-scale production, workshops and the few developing industries emerge in this side of the city. The extended migrations of the 20th century enhance the area around Omonia as reception space, filled with working class hotels, trading spaces, workshops, brothels and cafes located in-between national bus and train stations. The gate becomes the meeting point for the different types of migrants, rural, refugees, international3. The contemporary migrants, the international ones, are again living and trading in the very same location here the global meets the local, rendering Omonia the gate of Europe. Nonetheless, immigrants prolong the life of the old building stock4; due to unequal access in the real estate market, the migrants are forced to use houses that are not appealing to the locals, despite the fact that many of them can afford better houses. However, the intense presence of the migrants in the historical centre is
not simply the result of affordable housing, but is predominantly based on the high level of accessibility and connectivity of the centre. The dense network of public transport nodes, makes the area a gate in the flow of commercial goods, while the proximity to the areas of intense flows (tourists daily population, etc.) and to the areas of intense activity of social networks, renders it the centre of the economic activity of most migrants. However the centrality and accessibility of the area renders it very attractive for the real estate, while signs if gentrification are already apparent in areas like Gazi. Fuelled by the crisis and the dropping property values, the centre is more than ever at a stake of loosing its intrinsic multinational and mixed character. The aim of this presentation is to define and map the urban decay and the vacant in the case of Athens and to highlight its dynamic in restructuring the city. The dispersed archipelago of all those potentially developable spaces can function as a network of alternative mixed-use buildings and units the aim of which is to safeguard accessibility in the housing and labor market for the migrants and all the other disadvantaged groups. In this way the historical centre can regain its lost urbanity and its intrinsic multidimensional character.
THE POSSIBILITIES OF BUILDABLE SPACE IN METROPOLITAN SCALE The research on the capacity limits of the urbanized area of Attica under a potential population increase, highlighted the potential of the unbuilt, and, to an extend, the residual spaces, both in absorbing an extreme population growth (Athens was built on a sequence on uncontrolled population growths) but in the same time to become the structural plinth that will render the city sustainable. The following figures were based on a series of abstract hypotheses and scenarios, the aim of which was to examine all possible types of lands, listed by use, that could be used to absorb an increase in population 5 in a way that would offer an attractive alternative to a suburban expansion of Athens. The scenarios examined both the case of the recycling of compact waste lands like the port and the relevant industrial zones, the Elaionas district, the former Helleniko Airport and the case of reclaiming the dispersed mosaic of the Buildable Open Spaces (BOS) in the Larger Urban Zone of Athens (LUZ), derived from the land use map, in plot level. By using GIS, the Buildable open spaces were calculated and their capacity was tested under different development conditions like variable FSI /FAR (Floor Area Ratio ) and different potential uses (housing, production, agriculture, energy, etc) In Fig. 1 the dispersed surface of BOS in the urban area of Athens, is equal to an area of 86 sq. Km. If these spaces were to be densified with an FSI ranging between 1-3 the city could provide housing to an extra population between 690.000 and 4 million inhabitants. To a broader extend the city could double its population without having to expand further. The existing BOS within the Municipality of Athens is respectively calculated equal to 2 km2. If it was densified with an average FSI=3 this surfaces would be enough to house all the immigrants that were living in the municipality (137000 according to the 2001 census). This is calculated with a mixed dwelling unit, containing also production spaces, which indicates that this capacity dynamics are based on a mixed-use density. Nonetheless, in the main residential areas of the municipality of Athens the average FSI fluctuates from 3
5 Tsioutsiou V., 2012. Athens: a sequence of changing political paradigms, changing migrational spaces, TU Delft (Available online: http://repository.tudelft.nl/)
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ldable open spaces were calculated and their capacity was tested under different development conditions variable FSI /FAR (Floor Area Ratio ) and different potential uses (housing, production, agriculture, rgy, etc) In Fig. 1 the dispersed surface of BOS in the urban area of Athens, is equal to an area of 86 sq. Km. If 5.4, thus more approach higher FSI and a lower residential se spaces were to be densified with an FSI rangingtobetween 1-3a the cityoptimistic could provide housing(with to anaextra plinth) could provide much more space in the city. ulation between 690.000 and 4 million inhabitants. To a broader extend the city could double its The capacity of the available ulation without having to expand further. Thespaces existingwas BOS the Municipality of Athens is scenarios were dwelling is alsowithin examined under different land-use with an average FSI=3 this surfaces would be pectively calculated equal to 2 km2. If it was densified substituted with food or energy production, dispersed public spaces etc. Thus, ure facing institutional that and economic changes. ughantourbanism house all thetheimmigrants were living in the municipality (137000 according the 2001space goes beyond managing considering the capacity of the vacanttounused sus). This is calculated with a mixed dwelling unit, containing also production spaces, which indicates population growth, giving the cityresidential the capacity to of regain its lost spatial quality. this capacity dynamics are based on a mixed-use density. Nonetheless, in the main areas ACE IN METROPOLITAN SCALE thata more is being described as B.O.S. municipality of Athens the average FSI fluctuatesUrban from 3vacancy to 5.4, thus optimistic approach (with awill become the basis for the her FSI and a lower residential plinth) could provide muchfrom morethe space in the city. The capacity the A more elaborated approach transition metropolitan to the urbanof scale. zed area of Attica under a potential population ilable spaces was also examined under differentincrease, land-use scenarios were dwelling is substituted with food of the urban vacant space, namely urban decay, will be mapped, while its potential xtend, the residual spaces, both in absorbing anThus, extreme energy production, dispersed public spaces etc. considering theplinth capacity ofcould the vacant unusedthe space as the structural that transform city will be highlighted. ns beyond uncontrolled population growths) but giving in the same time managing population growth, the city the capacity to regain its lost spatial quality. city sustainable. figures were a become the basis for the transition from the Urban vacancy The that following is being described as based B.O.S.onwill mropolitan of whichtowas to examine all possible types of lands, the 5urban scale. A more elaborated approach of the urban vacant space, namely urban decay, inmapped, population a way that would offer an attractive lebe whileinits potential as the structural plinth that could transform the city will be highlighted. scenarios examined both the case of the recycling of ant industrial zones, the Elaionas district, the former spersed mosaic of the Buildable Open Spaces (BOS) in rom the land use map, in plot level. By using GIS, the acity was tested under different development conditions ferent potential uses (housing, production, agriculture,
ban area of Athens, is equal to an area of 86 sq. Km. If g between 1-3 the city could provide housing to an extra tants. To a broader extend the city could double its existing BOS within the Municipality of Athens is ensified with an average FSI=3 this surfaces would be ng in the municipality (137000 according to the 2001 nit, containing also production spaces, which indicates se density. Nonetheless, in the main residential areas of s from 3 to 5.4, thus a more optimistic approach (with a ovide much more space in the city. The capacity of the Figure 2. Buildable Open Space (BOS) (light blue), and-use scenarios were dwelling is substituted with food single storey buildings (dark blue) and metro stops hus, considering the capacity of the vacant unused space (pink) in the case study area. city the capacity to regain its lost spatial quality. . will become the basis for the transition from the .S. Figure 2.of Buildable Open Spacespace, (BOS)namely (light blue), single storey buildings (dark blue) and metro stops (pink) in the pproach the urban vacant urban decay, elinth studythat area. Figure 3. Thethe mobility network, the nodes of informal trade and the diachronic gates of the city (V. could transform city will be highlighted.
utsiou)
outsiou V., 2012. Athens: a sequence of changing political paradigms, changing migrational spaces, TU Delft (Available online: //repository.tudelft.nl/)
Figure 3. The mobility network, the nodes of informal trade and the diachronic gates of the city (V. T!sioutsiou)
ngle storey buildings (dark blue) and metro stops (pink) in the des of informal trade and the diachronic gates of the city (V.
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aradigms, changing migrational spaces, TU Delft (Available online:
FROM THE CAPACITY OF THE VACANT TO THE URBAN DECAY. !The term urban decay is used for the purposes of this study to highlight all these characteristics of the urban fabric that are the result of the social, urban and economical crisis and decline of the historical centre of Athens. On a first level, such type of spaces are all the abandoned urban structures, like deserted buildings and industries, ruins, listed buildings and empty plots. The density of these spaces lead to the formation of clusters of vacancy that contribute to the decertification of the urban scape, the interruption of the functional and visual continuity of the urban fabric and the loss of liveliness and urbanity of the area. The focal area is the 3 Χ 3 Km area around Omonia square, expanding from Thisseio to Attiki Square and from Syntagma to the fringes of Elaionas, and includes areas like Metaxourgeio, the commercial centre and Kerameikos. This area is characterised by the intense presence of migrants - especially the undocumented ones. In the same time, it is the core of the urban decay, squatting, informal economy and prostitution. Consequently, it is characterised by extended phenomena of violence and impoverishment. Mapping urban decay was consciously restricted to the quantitative and not the qualitative characteristics of the urban decay. The following three types of spaces compose the layer of decay: a. Industrial clusters-workshops: The area is de-industrialised gradually after 1984, being left with an extended network of buildings like former garages and workshops empty. b. Buildable Open Spaces (BOS) and Parkings.: Typical empty plots that emerged in the place of a demolished building, the majority of which are used as Outdoor parking lots. These types of spaces are the ones that were mapped as BOS in the metropolitan scale map of FIG c. Ruins Abandoned buildings or ruins, many of which are listed. As the cost of restoring a listed building is usually unbearable, many of them are left to collapse. The wider area has a high proportion of such buildings that form continuous clusters. Many of these buildings are squatted or reused by homeless people or undocumented migrants. !The basic methodology that was followed to locate and give a draft calculation of the aforementioned types of decayed spaces was to map using GIS (Fig 2, 4), two types of land uses (best available level possible was on the plot scale): 1) the single floor buildings (field research indicated that in the study area the vast majority of single floor buildings are industrial spaces, workshops, warehouses, ruins or old buildings) and 2) the Buildable Open Spaces. However, it is really important to note that this type of mapping is only indicative and cannot, under any circumstances, replace a field mapping of the actual situation. Moreover, we have to take into consideration that urban decay is also apparent in other types of spaces, as a lot of multi- storey buildings are abandoned. Taking into account that after the beginning of the economic crisis, there was a huge impact on the historic centre, where in some areas perhaps more than half shops have been closed, the street-level vacancy is even more extreme. Figure 2 represents thus the minimum indicative concentration of urban decay, which in reality is much more extended. The urban decay that is mapped in fig. 2 is equal to a bit less than 1 square kilometre (1 Km2), in other words it covers a minimum of 1/9 of the case study area! This is enough to highlight the potential of these places have in transforming the urban landscape. 1.
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tropolitan scale map of FIG c. Ruins Abandoned buildings or ruins, many of which are listed. As the cost of restoring a listed build ually unbearable, many of them are left to collapse. The wider area has a high proportion of such bui t form continuous clusters. Many of these buildings are squatted or reused by homeless peop documented migrants.
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Figure 4. The Urban Decay in the case study area and the project site (V. Tsioutsiou)
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!The basic methodology that was followed to locate and give a draft calculation of the aforement Figure 4. The Urban Decay in the case study area and the project site (V. Tsioutsiou)
es of decayed spaces was to map using GIS (Fig 2, 4), two types of land uses (best available ssible was on the plot scale): 1) the single floor buildings (field research indicated that in the study ar t majority of single floor buildings are industrial spaces, workshops, warehouses, ruins or old build d 2) the Buildable Open Spaces. However, it is really important to note that this type of mapping is However its very important to mention that the recent economic crisis is linked icative and cannot, under any circumstances, replace a field mapping of the actual situation. Moreov to another reading of decay, related to the collapse of the historic centre as a commercial hub. Perhaps the most predominant and visible sign of the crisis in the centre is the extended streetscape of shops and other businesses that have been closed rendering whole blocks inactive. A next step on reading decay would be to map all these inactive businesses, which is only possible through fieldwork and not through land use mapping. If this second level of re!ading the decay would be calculated, the aforementioned figures would be surprisingly bigger.
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THE ARCHIPELAGO OF URBAN DECAY AS A DISPERSED CITY FOR THE MIGRANTS. Phd Masterclass
Territories in crisis: architecture an urbanism facing the institutional and economic changes.
The majority of the migrants living in the larger urban zone of Athens, are located
6 haveinto into consideration thatarea. urban is also apparent in other types of spaces, as a lot of multi thetake city centre and the wider study Theydecay are predominately “transitional ” storey buildings aregroups abandoned. Taking countries into account that after the beginning of the economic crisis, there wa migrants or other from developing that are economically active a huge impact on the historic centre, whereisinlinked some areasproximity perhapstomore in the city centre. Their presence in the centre to their their than half shops have been closed, th ethnical and social networks mentioned above the area has always thus been the street-level vacancy is even (as more extreme. Figure 2 represents the minimum indicative concentration o diachronic reference point of migrants) as well as the economic networks where urban decay, which in reality is much more extended. The urban decay that is mapped in fig. 2 is equal to they than can develop theirkilometre own forms of archaeological words itspaces, coversspaces a minimum of 1/9 of the case study area bit less 1 square (1economy, Km2), inlikeother of flows of daily population and tourists etc. This is enough to highlight the potential of these places have in transforming the urban landscape. The growing interest of the real-estate, anticipating the collapsing land values in However its very important to mention that the recent economic crisis is linked to another reading o an area with such great potential like the centre of Athens, threatens its intrinsic decay, related tomulti-functional the collapse of the historic centre as a commercial multinational, character. Previous regeneration examples (likehub. in Perhaps the most predominant and visible of thethat crisis in the centrein is the extended streetscapeended of shops Gazi)sign indicated private initiatives regenerating neighbourhoods up and other businesses that have been closed rendering whole blocks inactive. A next step on reading decay with gentrification projects that addressed higher incomes. This paper proposes would be to map all these inactiv businesses, whichofiskeeping only the possible through and notofthrough the importance lower class plinthfieldwork as a vital component the area,land use mapping. If this second leve using thethe high potential of the of decay.the Theaforementioned proposed scenariofigures involves would a of reading decay would be layer calculated, be surprisingly bigger.
!4. THE ARCHIPELAGO OF URBAN DECAY AS A DISPERSED CITY FOR THE MIGRANTS. !The majority of the migrants living in the larger urban zone of Athens, are located in the city centre and
dispersed network of small-scale projects based on a public investment, that will safeguard the access of the weaker social groups in the area. Such a project would work symbiotically with the private initiative, both socially and economically. Besides a successful neighbourhood is that which is characterised by a high mixity 7 . if trade production and dwellings and the presence of different social 6”groups the Hafencity wider study area. They are predominately “transitional migrants or other groups from developing (Hamburg-Germany) is a bright example of an urban project realised by countries are economically centre. Their presence in the centre is linked to thei using a that variety of u!rban rules that active ensured in thethe mix city of apartments for different proximity to their ethnical and social networks (as mentioned above the area has always been the diachroni social groups in newly constructed buildings. reference of migrants) well as economic networks where they can develop their own forms o Figure 5.point Different typologies ofas projects andthe forms of intervention. (V. Tsioutsiou) The proposed project incorporates an indicative of mixed use population spaces, the and tourists etc. economy, like archaeological spaces, spacesnetwork of flows of daily 6 Transitional are the asylum seekers the final basicgrowing components of whichofwill bereal-estate, social housinganticipating (which is not common in Greece)land The interest the the collapsing values in an area grea destination of which is the rest ofwith the EU such but who are forced to stay in Greece for long spaces of trade and production and public spaces. These spaces will develop potential like the centre of Athens, threatens its intrinsic multinational, multi-functional character. Previou periods, due to the Dublin treaty, the delays on the mapped urban decay and their target users will not restrict to migrants, regeneration examples (like in Gazi) indicated that private initiatives in regenerating neighbourhoods ended in getting their asylum, etc. but will include young entrepreneurs, students or homeless. This network of 7Sassen S., 1997. Informalization in advanced up with gentrification projects that addressed higher incomes. This paper proposes the importance of keeping projects will be state- initiated and will have a very low cost. The realisation of the market economies, Geneva, ILO and Sennett the lower class plinth as a vital component of the area, using the high potential the decay. Th R., 1992, Theof Uses of layer Disorder: of Personal projects could involve the participation of the potential users, while funds could Identity and City Life, W. W. Norton & proposed scenario involves a dispersed network of small-scale projects based on a public investment, tha be raised by the respective private projects that will work symbiotically with the Company
will safeguard the access of the weaker social groups in the area. Such a project would work symbiotically with the private initiative, both socially and economically. Besides a successful neighbourhood is that which F!igure typologies of projects socia is characterised by a high mixity if trade production and dwellings and the5. Different presence of different and forms of intervention. (V. Tsioutsiou) 7 groups . Hafencity (Hamburg-Germany) is a bright example of an urban project realised by using a variety of urban rules that ensured the mix of apartments for different social groups in newly constructed buildings.
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Figure 5. Different typologies of projects and forms of intervention. (V. Tsioutsiou)
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8 Mavratzas V., 2008, ÂŤCulture and leisure cluster in the post-industrial city: the case of Metaxourgio in AthensÂť in Gospodini A, Brebbia C. A., E. Tiezzi E, 2008, The Sustainable City V, The Sustainable City V : Urban Regeneration and Sustainability (Wit Transactions on Ecology and the Environment) 9 Braungart, M & McDonough, W., 2002. Cradle to Cradle, remaking the way we make things. North Point Press, New York.
state projects. The proposal is an example of the strategy applied on a small subarea of the case study area in Kerameikos (Fig 4-7). This site is characterised by a high density of urban decay while it is amidst a very dense network of mobility nodes that bring about an intense flow of daily population. In conjunction with the emerging cultural cluster in the area of Metaxourgeio8, planning spaces that could be used as multiethnic restaurants and enterprises that could be utilised by the aforementioned social groups, could give the latter a safe access in the labour market, benefiting their quality of life and finally safeguard the lively, multinational character of the area throughout the day. !Different typologies of spaces and intervention strategies are indicated on Fig. 5. Ruins and abandoned buildings can be restored and reused, while new buildings and expansions of the existing could be utilised, as well as vertical farms. Selected empty plots can be used for urban agriculture or as green open spaces, upgrading the quality of the urban space. These spaces combined in a single yet dispersed project can achieve a high level of self-sufficiency, by using technologies of district-level synergies, producing the food and energy needed locally and reusing waste heat and water, based on the cradle to cradle9 philosophy. The users of this network can participate in the realisation of the projects, and will be able to develop their own spaces of production like workshops and other enterprises. Finally, the interiors of the urban blocks are being utilised with the development of an alternative network of inner-block public spaces and bikeways crossing them!, rendering them into spaces of social and economic interaction.
njunction with the emerging cultural cluster in the area of Metaxourgeio8, planning spaces that could be d as multiethnic restaurants and enterprises that could be utilised by the aforementioned social groups, uld give the latter a safe access in the labour market, benefiting their quality of life and finally safeguard lively, multinational character of the area throughout the day.
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Figure 6. The project site and the layout of the proposed network of interventions (V.Tsioutsiou)
!Different typologies of spaces and intervention strategies are indicated on Fig. 5. Ruins and abandoned Figure 6. The project site and the layout of the proposed network of interventions (V.Tsioutsiou)
ldings can be restored and reused, while new buildings and expansions of the existing could be utilised, as ll as vertical farms. Selected empty plots can be used for urban agriculture or as green open spaces, grading the quality of the urban space. These spaces combined in a single yet dispersed project can ieve a high level of self-sufficiency, by using technologies of district-level synergies, producing the food d energy needed locally and reusing waste heat and water, based on the cradle to cradle9 philosophy. The rs of1. this64network can participate in the realisation of the projects, and will be able to develop their own ces of production like workshops and other enterprises. Finally, the interiors of the urban blocks are being
CONCLUSION Athens, one of the most dense and fragmented capitals in Europe, can restructure and regain its spatial quality by using the dispersed network of unbuilt spaces and the network of the urban decay. Besides, the high property fragmentation sets the plot, and in some cases the block, the only manageable unit for urban intervention. The decline of the historic core of the city is a long-term process that has been accelerated by the contemporary fiscal crisis. A very large proportion of the building stock is abandoned resulting in the loss of the urbanity of the centre. The immigrants, the economic activities of which are linked to the centre, reuse these spaces. Reclaiming the archipelago of the urban decay can bring back the area’s lost spatial quality, its lost urbanity. The historic centre can reemerge as a symbiotic network of different social groups, by making use of the existing cultural infrastructures, the private initiative and -above all-an archipelago of state- initiated , accessible projects of living and working. After all, urban and social resilience is only possible thro!ugh diversity.
Phd Masterclass
Territories in crisis: architecture an urbanism facing the institutional and economic cha
Fig 7. An example of the proposed strategy, indicating the intervention in two adjacent urban blocks in the case study area, incorporating inner! block public spaces, bikeways, building Fig 7. An example of the proposed strategy, indicating the intervention in two adjacent urban blocks in th extensions etc (V. Tsioutsiou) study area, incorporating inner-block public spaces, bikeways, building extensions etc (V. Tsioutsiou)
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Offices B. P. Headquarters: building the monumenti in the faubourg. Source: City Aechives Antwerp
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Antwerp Urbanizing the metropolitan fringe: from the crisis of the old suburb to the reassembled faubourg Tom Broes, Phd candidate Ghent University
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The past 5 years within several metropolitan areas throughout Europe international design consultations were organized, inviting multidisciplinary teams to present long term perspectives for future development: Grand Paris (2008), 50.000 Logements Bordeaux (2010), Brussels 2040 (2012), Metro Moscow (2012), Labo XX Antwerp (2014), etc. These design consultations were not only producers of new concepts, they are also expressions of a changing planning culture. Introducing a discourse on Greater Urbanism, these consultations have helped in constructing the contours of a new metropolitan debate, all staging the metropolitan fringe as a pertinent field of action. The paper will focus on the Antwerp case. Here, the expected influx of 100.000 new residents requires the construction of some 45.000 new houses in the metropolitan fringe, raising the question how the anticipated process of densification can be used to renew the historical legacy of what used to be the suburbs. Areas that were first shaped within a dynamic of urban flight, are now subject to a marked process of urbanization. The old suburbs may be reassembled as the faubourg of the coming metropolis. This twentieth century belt is interpreted as a diversified urban terrain that was shaped by various and competing processes of urbanization, each accompanied by proper development strategies, each built on different kinds of (private) capital. The paper seeks to identify those urban figures that have succeeded in producing urban surplus value through the historical accumulation of private housing development. These historical constellations are facing major challenges of traffic congestion, erosion of the public domain, poor energy performance, etc. They do however hold the potential to structure the further urbanization of the metropolitan area. This paper will put focus on the emergence of the figure of the Jan Van Rijswijcklaan in the early 20th century Antwerp faubourg. Being a perfect stage for early real estate development, the avenue drained an important amount of private capital to the metropolitan fringes, enabling the city to conduct a process of firm urban (re)development.
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Private capital housing, urbanism and the city Ever since the precarious outcome of speculative construction that capitalized on the first waves of industrialization, public housing became a generally accepted matter of firm governmental intervention1. In this context, it is hardly surprising that the historical reading of the relationship between urbanism and housing (and more generally speaking the idea of housing as a cornerstone for the (re) construction of the ‘modern’ city) was predominantly built from a pertinent, but unilateral reflection on the production of public housing as a laboratory for urban design2. Apart from some recent research, the housing production of private building societies stays more often under the radar, at least within the fields of urbanism and urban development3. However, since the Interbellum a prominent scene of construction and property tycoons arose that marked the history of housing production and urbanization in Belgium. Jean- Florian Collin (Etrimo), François Amelinckx (Amelinckx N.V.) are probably some of the most evocative names that trigger the imagination. Although they all contributed substantially4 to the building of post-war Belgium, their activities remain little discussed in their entirety within the discipline of urbanism5. The paper discusses a number of key-issues that turned the Interbellum period into a fertile breeding ground for a specific model of real estate that persisted in post-war Belgium. The paper further analyses the changing roles of architects and urban designers and further dwells on the debates on the ‘architecture of the city’ that marked the different episodes in which the property tycoons were professionally active. Which part did the tycoons play in this ongoing debate; how and what did their professional associations contribute to the making of ‘city form’ in the Belgian faubourg6? Questions that appear relevant in the present-day challenge of redeveloping contemporary cities7. Through a thorough reconstruction of the case of the ‘Jan Van Rijswijcklaan’ in Antwerp, a few of these questions are provided with some first careful answers. Spread over a period of more than 40 years, the building society Amelincx N.V. was highly active on this avenue8. As such, the architecture of private housing production helped constructing a constituent ‘urban artifact’9 on the outskirts of the city of Antwerp.
Reconstruction of a manifesto for the Interbellum faubourg The architects’ perspective In 1946 the small booklet L’Appartement d’aujourd’hui by Jean Delhaye was published, documenting the rise and evolution of the bourgeois apartment in Belgium10. Before broaching the main subject, Delhaye begins with an homage to his master teacher Victor Horta for whom he had started working 12 years earlier in 1934. Later, in Germany as a prisoner of war, he started writing his book. In a letter between Delhaye’s wife and Horta11, the master of Art Nouveau expresses
1. See for instance: Guerrand , Roger-Henry & Roger Quillot (1989) Cent ans d’habitat social. Utopie réaliste, Albin Michel, for a Belgian case see: Smets, Marcel (1977) De ontwikkeling van de tuinwijkgedachte in België, een overzicht van de belgische volkswoningbouw / 1830 -1930, Pierre Mardaga 2. See for instance, Castex, Jean, Jean-Charles Depaule, et Philippe Panerai, (1977) Formes urbaines: de l’îlot a la barre, Dunod 3. On the relation between private real estate and the city: Laconte, Pierre (1978) Mutations urbaines et marchés immobiliers: le développement des immeubles de bureau à Bruxelles , UCL, Topalov, Christian (1974) Les promoteurs immobiliers: contribution à l’analyse de la production capitaliste du logement en France, Mouton, On Belgian cases involving private building societies see: Ledent, Gérald (2014) Potentiels Relationnels, l’aptitude des dispositifs physiques de l’habitat à soutenir la sociabilité. Bruxelles, le cas des immeubles élevés et isolés de logement, Académie Universitaire Louvain La Neuve, Faculté d’architecture, d’ingénierie architecturale, d’urbanisme 4. Information on amount of units built for Etrimo alone vary between 14.000 and 17.000 units, Deroy, David (2011). Monsieur Etrimo, Bruxelles: RTBF, According to Renaat Blyweert, manager of the firm Amelinckx n.v. from the mid-sixties onwards, the firm built 3200 apartment units in 1974 alone, “Quand le bâtiment va... et quand il ne va pas. Une interview de René Blijweert, directeur générale de la S.A. AMELINCKX.” (1975), Bâtiment, n° 100 5. Ledent, Gérald (2014) Potentiels Relationnels, l’aptitude des dispositifs physiques de l’habitat à soutenir la sociabilité. Bruxelles, le cas des immeubles élevés et isolés de logement, Académie Universitaire Louvain La Neuve, Faculté d’architecture, d’ingénierie architecturale, d’urbanisme 6. The French word faubourg, originally stems from Latin. The earliest form is Forsbourg, derived from Latin foris, ‘out of’, and Vulgar Latin (originally Germanic) burgum, ‘town’ or ‘fortress’. Traditionally, this name was given to an agglomeration forming around a throughway leading outwards from a city gate, and usually took the name of the same thoroughfare within the city. Faubourgs are often considered the predecessor of European suburbs, into which they evolved generally in the course of the 20th century. In this sense, they reflect a state of becoming. Since this paper explicitly envisions the cities’s 20th century belt, the term faubourg is consistently used throughout the paper. 7. The reference here is made to contemporary cities that ‘Greater’. Over the last years, attention was given to a Greater London, Greater Paris, Greater Moscou, Greater Bordeaux, Greater Brussels (BXL2040) and a Greater Antwerp (LABO XX) only to name
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his gratitude towards his apprentice and congratulates him with his publication, though saying that since his captivity a lot of things had changed. Horta carefully seems to suggest that the books content was somewhat outdated. Looking back to it now, L’appartement d’hier might have been a more convenient title for a book that clearly describes the rise of a typology that -in Belgium- was rooted in the specific context of a previous era: the Interbellum12. According to Delhaye, the Great War (1914-1918) had caused a profound shift in the state of mind of a large part of the bourgeoisie, experiencing ever more difficulties to find and afford employees to maintain their big hôtels. As a consequence, ever more citizens took collective housing and joint-ownership into consideration as a true alternative to the well-known standard of private housing. Reduced purchase prices and higher (affordable because shared) maintenance and comfort standards (e.g. new electricity grids, mains systems for water and gas-piping for collective heating) were often decisive factors that lured a growing part of an impoverished bourgeoisie into the apartment. The main task Delhaye sets himself throughout his book is to unravel the bourgeois ideals of living and to reinvent and recompose them through a new set of principles into a typical composition of floor plans for the bourgeois apartment. The graphical synthesis of these principles has remained very influential in the production of apartments for a long time13.
a few. For a general description of Greater Urbanism, see Monu # 19: Greater Urbanism (2013) nr.19 (October), for Bordeaux see: Ratouis, Olivier (Ed.) (2013). Bordeaux et ses banlieues , la construction d’une agglomération, Métis presses, for Paris see: Secchi, Bernardo & Paula Vigàno (2012). La ville poreuse, un projet pour le Grand Paris et la métropole de l’après Kyoto, Métis presses 8. In the city archives of the city of Antwerp, some 40 building permits are stored, dealing with a broad range of intervention 9. Term according to Aldo Rossi, Rossi, Aldo (1966). L’architettura della città, Marsilio editori 10. Delhaye, Jean (1946) L’appartement d’aujourd’hui, Desoeur 11. Borsi, Franco & Paolo Portoghesi (1969) Victor Horta, Edizione del tritone, preface by Jean Delhaye 12. In the context of this paper, the Interbellum represents the period from 1918 to 1939 13. Ledent, Gérald, (2014), Potentiels Relationels, l’aptitude des dispositifs physiques de l’habitat à soutenir la sociabilité. Bruxelles, le cas des immeubles élevés et isolés de logement, unpublished doctoral study, p.177 14. Delhaye, Jean, (1946) L’appartement d’aujourd’hui, Desoeur, p. 21 15. Delhaye, Jean, (1946) L’appartement d’aujourd’hui, Desoeur, p. 22
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The way he structures his research is quite strict, determining successively the specific standards of each and every separate room and function. From hall to doorway, from kitchen to office and from sleeping room to toilet cabinet; all spaces are delicately treated with the same attention and care. After discussing the dimensions, requirements and relations for and between every room, Delhaye concludes with a series of 14 exemplary floor plans. From this list we learn that bourgeois apartments were gigantic. Concerns regarding separate staff amenities and buffer spaces regulating privacy drove the average surface area up to approximately 200 square meters! Such apartments (most of them having a width up to 10 meters and some a depth up to more than 20 meters) did hardly fit the existing building blocks or available parcels. They simply required another kind of urban fabric. Ultimately, through his architectural plans, Delhaye reflects on the city. He does explicitly so when stating that “at a given moment, it had to be decided to concentrate the growing populations in our big cities, that by mere construction of individual housing would tend to sprawl indefinitely at fast pace; causing for most of the citizens considerable and costly commuting distances.”14 The faubourg offered an ideal stage for a high density residential city. Here the territory close to the city core, was not parceled out yet tailored to singular housing. It were these city fringes that according to Delhaye, should be “reserved essentially for vast residential ensembles, aerated, of trees built with spacious grands immeubles”.15 Creating such residential neighborhoods required adapted legislations regarding building envelopes. Not only the sizes of parcels and building plots, but also the advisable heights were subject of study in these new living areas. With oversized footprints, respectable heights were indispensable anyway in order to reach increased densities. It is at this point that Jean Delhaye calls his master Victor Horta to the front.
Delhaye, Jean (1946), d’aujourd’hui, Desoeur
L’apprtement
Cover
principles on floor plan composition grafical synthesis 1.
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Delhaye, Jean (1946), d’aujourd’hui, Desoeur
L’apprtement
14 typical floor plans, Jean Delhaeye
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In a small footnote16, Delhaye refers to a ‘beautiful case study on building heights’17 Horta conducted for the “Commissions Royales d’Art et d’Archéologie” in 1933, and which was reported in its bulletin of that year. Interestingly, several bulletins of the same period shed light on the heated debates regarding building heights that dominated the Interbellum period. Fascinating drawings in a study by M. Maertens clearly depict the confusion that reigned at that time18. They also show Horta was certainly not the only one who contributed to this discussion, but the argument he tried to make started from a particular point of view that distinguished him from others19. Horta looked for an argumentation beyond matters of harmony, urban composition and empirical rules on sanitary legislation which he found to be mainly concerned with the exterior of the erected buildings and mainly addressing the passer-by. In contrast, he proposed to reverse the problem, starting from the interior of the building. For Horta, the vital needs of residents and calculations regarding return on investment for the proprietors (both public and private), were among the primary factors to determine the appropriate height of buildings20. Furthermore, increased heights required increased building blocks and street widths, offering the opportunity to introduce new modes of public transport 21.This seemed even more true for the modern neighborhoods in the periphery of old cities that ought to be conceived with the contemporary ideas of that time. Victor Horta thus acknowledges notions of building economy, land value and project development as indispensable matters of concern in the process of urbanization. Further in his report, he even makes calculations to investigate the viability of a grand bazar project with a restaurant on top, that in the end should be 7 stories high22. Among other concerns it was clear that for Horta, the city only comes into being when the accounting is well-done. From these angles, the apartment building can be understood as a highly efficient typology for new residential neighborhoods in the faubourg23. This might not sound very astounding today at all, but in the case of Victor Horta it nevertheless meant a significant transition. In his introduction of L’appartement d’aujourd’hui, Delhaye portrays Horta in his early career as a lonesome architectural genious24, retreating from time to time living like monk before presenting his new chef d’oeuvres, such as his Art-Nouveau houses Autrique (1893) and Tassel (1894). Later in his memoires25, Horta would even write that for the sake of architecture, he paid for the extra cost of the House Autrique facade himself because he desperately wanted it in expensive white lime stone26. He also taught his students to tailor each and every house to the specific needs of its residents27. Points of view that are quite distant from what he stood for in 1933. Again, the Great War (1914-1918) provides us with some explanations for the shift in Horta’s state of mind. It is during his exile in America, that he was confronted with a different way of architectural practice. He describes his findings clearly in a chapter Association et Standardisation in his memoires28. Horta was impressed with the working methods of architectural firms that had specialized subdivisions (acquisition, design, engineering, accounting...) and functioned as true associations that produced high quality corporate architecture. When he describes the working methods of a Chicago-based firm with a lot of bank
16. Delhaye, Jean, (1946) L’appartement d’aujourd’hui, Desoeur, p. 22 17. Horta, Victor ‘Le problème de la réglementation de la hauteur des bâtiments’ (1933) Bulletin des commissions royales d’art et d’archéologie 18. Maertens, M. ‘Projet de réglementation de hauteur des bâtiments’(1933) Bulletin des commissions royales d’art et d’archéologie, p.83-85 19. Horta, Victor ‘Le problème de la réglementation de la hauteur des bâtiments’ (1933) Bulletin des commissions royales d’art et d’archéologie, p.86-117 20. Ibid., p. 87 & 89 21. Ibid., p. 104-108 22. Ibid., p.114-116 23. Horta clearly opposes old cities to new cities, suggesting that in the latter fewer restraints limit the appropriate height of buildings, Ibid., p.88 24. Delhaye, Jean, (1946) L’appartement d’aujourd’hui, Desoeur, p. 9-17 25. Horta, Victor and Cécile Dulière (1985) Mémoires, Ministère de la Communauté française de Belgique. Administration du patrimoine culturel 26. Ibid., p XX 27. Ibid., p XX 28. Ibid., p 134-136
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Maertens, M. (1933). Projet de réglementation de la hauteur des bâtiments In Bulletin des comissions d’art et d’archéologie
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commissions29, the reference to Louis Sullivan seems never far away. It is with the grand oeuvre of Sullivan in mind30, that one should understand the sudden openness of Horta for commercialism and a certain degree of standardization both in plan and building techniques, thus explicitly paving the way for the introduction of the apartment. “Mon esprit s’en est trouvé assoupli”, Horta writes about his long stay in America31. Ten years later, in full Interbellum period, he was working on big municipal development projects such as the grand central station in Brussels, together with Armand Blaton32, who ran one of the biggest Belgian building and development companies at that time. Quite some distance covered since his early Art-Nouveau experience. Horta’s transition must be understood as symbolic for a more general shift from Art-Nouveau to Art-Déco, which was considered to be its commercialized, more rationalized and popularized offspring33. Taken together, the writings of Delhaye on plan and those of Horta on height can be read as a blueprint for the construction of new type of high density residential city during the Interbellum period. Gigantic surface areas and heights based on a reasonable return on investment, combined with an evolution to a more commercial oriented practice would prove to be fertile conditions for the birth of new ways of property development. It must be stressed though that nor Delhaye nor Horta made way for an untamed speculative real estate market. Horta warned for what he termed ‘économies singulières’34. Freestanding towers were to be treated with caution35. Rather, housing developments had to subscribe themselves into a solid urban fabric, fully within the image of continuité urbaine along sometimes intricate street patterns36. All blind common walls in Delhaye’s plans and his attention to difficult corner solutions are clear witnesses of the intention to build a contiguous city37. It was within the outlines of this reconstructed manifesto for the Interbellum faubourg that private developers were invited to help building the city. A newborn clientele of apartment dwellers and some elbow room within as yet undefined building regulations were the ingredients of a promising investment business. Fully understanding this situation, people like Jean-Florian Collin and François Amelinckx soon began their practices as residential property tycoons.
The developers’ perspective Etrimo (Société d’Études et de Réalisations Immobilière) was founded in 193538 by Jean- Florian Collin. One year later in 193639, François Amelinckx founded the Amelinckx n.v. They became important providers of the bourgeois apartment for a brand new and wealthy clientele. Throughout history, their careers would show important parallels. In 1970, when the firm went broke for a second time, Etrimo’s shares were even bought by Amelinckx n.v.40 Although, François Amelinckx and Jean-Florian Collin had very different backgrounds41, and even if it is not clear to which extent they shared each other’s ideals, it is nevertheless remarkable how well the writings of Collin fitted the practice of Amelinckx n.v. and other real estate developers starting from the Interbellum period.
29. Ibid., p 135 30. Sullivan was in the winter of his career when Horta visited Chicago. It is noteworthy that the work of Adler & Sullivan set an example for the production of a fine arts architecture par excellence, fully within the context of commercial and corporate commissions. For an overview of Sullivans’ work, Nickel Richard, and Aaron Siskind, (2010) The Complete Architecture of Adler&Sullivan, Richard Nickel Committee 31. Ibid., p 136 32. It is noteworthy to mention that in 1968, Blaton who had worked closely with Horta, would in 1968 destroy Horta’s iconic Maison du Peuple to rebuild the site with a banal 26story-heigh building, that would later be nicknamed the ‘Blaton-tower’. Surely, Horta developed to a more commercial practice, but real estate development in post-war Belgium would evolve dramatically. History of firm of Blaton, Blaton < http://www.citblaton. be/nl/cit-blaton/historique> (May 11, 2014) 33. Schoonbroodt, Benoît, (2003), Michel Polak, de l’art nouveau à l’art déco, Commission de l’environnement de BruxellesOuest, p.7-9 34. Horta was aiming at practices such as reducing dimensions and heights of apartment units in order to increase the quantities provided. Horta, Victor ‘Le problème de la réglementation de la hauteur des bâtiments’ (1933) Bulletin des commissions royales d’art et d’archéologie, p.117 35. It is worth mentioning that Horta differentiates between towers and skyscrapers. According to Horta, towers could reach the double up to the triple of the bases’ height. On the use of skyscrapers on the contrary , Horta states that not any proprietor should have the right to build constructions of such height that are harmful for neighboring parcels. Skyscrapers could only be accepted, if special taxes were applied, regaining the loss of value caused to a neighboring parcel, Horta, Victor ‘Le problème de la réglementation de la hauteur des bâtiments’ (1933) Bulletin des commissions royales d’art et d’archéologie, p.91-92, 36. See different schemes of street patterns Horta suggests. Moreover, Horta uses the street and the building block as a point of reference. Each type of street should have well-defined rules on envelope, consistently applied. Horta, Victor ‘Le problème de la réglementation de la hauteur des bâtiments’ (1933) Bulletin des commissions royales d’art et d’archéologie, p.88-92 37. Delhaye, Jean, (1946) L’appartement d’aujourd’hui, Desoeur, appendix, note concernant les plans 38. Deroy, David, (2013) Monsieur Etrimo, RTBF documentaire 39. Information based on website ‘Onroerend Erfgoed’, Onroerend erfgoed, <https:// inventaris.onroerenderfgoed.be/dibe/ relict/212790> (March 25, 2014) 40. Information based on wibsite ‘ODIS’, ODIS
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In his book ‘L’épargne immobilière et sa function sociale’ (1938)42, Collin provides us with some thoughts that relate the development of private housing to urbanism and architecture. The book takes the English Building Societies as its point of departure. Those societies functioned as huge shared savings banks collecting sometimes up to 250.000 people in large cooperatives, empowering them to be involved in building their own living environment sometimes even including streets and public infrastructure43. From its early origins, dating back to 1781 Birmingham, Collin claims that this model grew to be very successful in Britain. In 1936 alone 286.202 houses were built by these private societies as opposed to a little 222 by public authorities44. It goes without saying that these numbers triggered the imagination of the property tycoon Collin was to become. After studying real estate practices and related legislations in Germany, Switzerland, America, Belgium, France and England, he clearly preferred this last country as a guiding model for having a very liberal policy on capital accumulation by private societies45.
<http://www.odis.be/pls/odis/opacuvw. toon_uvw?CHK=OR_40530&p_modus=O&P_ DOC_TYPE_ID=HTM&refr esh=undefined> (October 25, 2013) 41. Collin originally was an architect, Amelinckx the son of a contractor. Deroy, David, (2013) Monsieur Etrimo, RTBF documentaire, Van Hulle, Frank (2000). Binnenhuisurbanisme: over de flatgebouwen van Amelinckx. In Utopia: verzonnen steden 42. Collin, Jean-Florian (1938). L’Epargne immobilière et sa fonction sociale, Librairie générale du droit et jurisprudence 43. Collin, Jean-Florian (1938). L’Epargne immobilière et sa fonction sociale, Librairie générale du droit et jurisprudence, p.65 44. Ibid., p.72, for more information on this subject see, Bellman, Harold, (1928). The Silent Revolution, Methuen 45. Ibid., p.73 & p.260-265 46. Ibid., p.266-270 47. Ibid., p.9 48. Ibid., p.271-279 49. Term used by Liliane Verhaeghe in an article for the monthly magazine Uylenspiegel of the neighborhood MutsaardLaken where Amelinckx and Etrimo had built some slabs after EXPO58, <http:// www.heembeek- mutsaard-ingezoomd.be/ magazine/201111231031_Scannen0001. pdf> (November 17, 2013) 50. Collin suggested that departmental savings banks had to be erected counting up to 100.000 members, especially founded for urban ends, Collin, Jean-Florian (1938). L’Epargne immobilière et sa fonction sociale, Librairie générale du droit et jurisprudence, p.276 51. Collin, Jean-Florian (1938). L’Epargne immobilière et sa fonction sociale, Librairie générale du droit et jurisprudence, p.267
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In terms of spatial planning on the contrary, the ideas of Collin were far less liberal. Surely, the English model had provided big quantities, but he was not blind for the poor living conditions speculative construction had immersed thousands of people in46. In the introduction of L’épargne immobilière et sa function sociale, the very first point of action is to design a complete and rational urban plan for the whole country and its overseas colonies, with the help of “all architects, urban planners and engineers in Belgium”47. At the end of the book, Collin takes this ideas a step further. A national urban plan should be worked out, providing general and uniform rules for plot sizes and both minimum and maximum heights throughout the country. Collin as well, suggests that building heights in the city cores should be different from those in the faubourg; he seemed fully aware of the debates on heights as reported in the bulletins of the Commissions d’art et d’archéologie. Finally, he argues that each municipality had to start committees with local architects, urban planners and designers. Organizing design competitions to concretize the general national plan with actual urban projects and to provide long lasting quality control during realization were their main tasks 48. What we read is a developer’s plea for an urban framework for his building activities, almost 25 years before such legislation on urbanism came into being in Belgium. Collin wanted to develop massively, but not whatever, wherever. A thorough study of the English situation made him realize that private partners desperately needed public authorities to prevent the excrescences of a fierce speculative building business. From the beginning a sort of “commercial humanism” was Collin’s underlying motive49. As such, his ideas contain the germs of private-public-partnership in urbanism, in which also citizens would participate through cooperative building societies50. Just as architects developed an openness towards commercial architecture throughout the Interbellum, likewise real estate development seemed open for dialogue with architects and urban planners. In his book, Collin suggested that departmental building societies should develop close relationships with a network of local architects and urban designers to build “ensembles urbaines” with “conglomérats d’habitations” 51. Collin’s dream was to help realizing a “plan
Horta, Victor (1933). Le problème de la réglementation de la hauteur des bâtiments In Bulletin des comissions d’art et d’archéologie
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Collin Jean-Florian (1938). L’epargne immobilère et sa fonction sociale, Librarie De Droit et de Jurisprudence
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“ the silent revolution” of private building societie in England ( Angleterre)
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harmonique d’urbanisme unique au monde” 52. Thirty years later, in 1968 Renaat Braem held “Atrimo and Hemelinckx” jointly responsible for having built “The ugliest country in the world”53. The reference to Etrimo and Amelinckx, by then the two biggest residential real estate promoters in Belgium, could not be misunderstood54. In what follows, the successive stages that caused this remarkable shift in activity and discourse will gradually be reconstructed, starting from the very beginning. Far from being an official urban plan of any national importance, the retroactive manifesto by Delhaye and Horta as reconstructed above, seems to have provided developers like Amelinckx and Etrimo with directive guidelines. In the Interbellum period the construction of high quality art-déco housing, has produced interesting residential urban areas. Etrimo in Brussels, and Amelinckx in Antwerp at that time, were simultaneously active within the same areas and realm as a broad scene of local architects. It seemed a common understanding that architectural quality was a key-issue in the production of economic surplus-value. Deep building plots for instance, could only be valorized through architectural invention in plan, and Victor Horta even stated that a buildings’ appropriate height should also depend on its architectural quality. Etrimo nv. for instance, worked together with Brussels architects Stanislas Jasinski and Robert Schuiten55, while Amelinckx had close connections to Benoit Dumont and Marcel Segers in Antwerp56. So far so good, real estate developers and architects working together within the same realm that breathes the outlines of the Delhaye-Horta manifesto as reconstructed before. Through a reconstruction of the case of the ‘Jan Van Rijswijcklaan’ in Antwerp, the evolution of real estate development and its relations to the architectural scene will be studied more meticulously. Spread over a period of more than 40 years, the building society Amelincx n.v. was highly active on the avenue, enabling to trace the shifts in his production and its relation to the city.
Architects and Amelinckx at the Jan Van Rijswijcklaan Pre-Amelinckx: Horta & Vooruitzicht On a 1908 map, by city engineer Royers the strong figure of the Jan-VanRijswijcklaan emerges, connecting today’s Albertpark in the center with the main road to Brussels, and in doing so with the faubourg. It is the only spot on the map, where a strong new avenue literally breaches through the Spanish fortification walls57. Soon this outer territory would be overwritten by a new layer of urban culture. Building activity first started within the city walls along the first stretch of the new Avenue. Remarkably, the second building permission on the avenue was granted to Victor Horta himself58. On a large parcel, he built a bourgeois hôtel in late ArtNouveau style for doctor Modest Terwagne. Altogether, the plan and architecture are more sober than Horta’s early oeuvre59. Modest Art-Nouveau for Modest. In the same style, Antwerp architect Jules Hofman60 would later build 6 houses61 for the “Mortgage Bank Vooruitzicht” that was founded in 190562 and functioned
52. Ibid., p.273 53. Braem, Renaat (1968). Het lelijkste land ter wereld VIOE 54. In his article on the life and work of Braem, Jo Braeken adds a funny detail. The names of Etrimo and Amelincks were especially replaced with “Atrimo and Hemelinckx” on request of the publisher, fearing for juridical complications, Braeken, Jo (2010) Renaat Braem 1910-2001, leven en werk. In Braeken, Jo (et.al.) Renaat Braem 1910-2001: Architect, p.94 55. Van Loo, Anne (et.al.) (2003). Dictionnaire de l’architecture en Belgique de 1830 à nos jours, p.215 56. See website ‘onroerend erfgoed’ <https:// inventaris.onroerenderfgoed.be/dibe/ relict/212790> (January 25, 2014) 57. Royers, E. (1908). Plan der stad Antwerpen, Stad Antwerpen, city archives Antwerp, collections, files 12 # 4291 & 12 # 8853 58. City Archives, Antwerp, Building Permits, files 1909 # 913 and 1910 # 961 59. Website onroerend erfgoed, <https:// inventaris.onroerenderfgoed.be/dibe/ relict/6942> (December 14, 2013) 60. Architect Jules Hofman belonged to the most important representatives of Art Nouveau in Antwerp, website onroerend erfgoed,<https://inventaris. onroerenderfgoed.be/dibe/persoon/2805> 61. City Archives Antwerp, building permits, files 1911 # 66 & 1911 # 1810 & 1911 # 1339 & 1910 # 2305 & 1912 # 1122 62. Website Vooruitzicht,<http://www. vooruitzicht.be/nl-BE/content/wie-wezijn/35/>
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similarly to the English building societies as described by Collin, albeit on a small scale. Even before its breakthrough during the Interbellum period, the market of private capital found in the Jan Van Rijswijcklaan a promising stage for residential development.
63. See for instance plans of building permit house Terwagne by Horta, City Archives, Antwerp, Building Permits, files 1909 # 913 64. For the role of Terwagne in the history of water supply for the city see, Kesteloot, Wouter (2012). Reinheid, gezondheid en terapie, Baden en zwemmen in Antwerpen (1875-1915), Jonge historici schrijven geschiedenis n°70 65. Koolhaas, Rem (1995). Whatever happened to urbanism? In Koolhaas, Rem & Bruce mao, Small, Medium, Large, Extra Large: Office of Metropolitan Architecture, p969
The clientele at that time was clearly the upper-class bourgeoisie, who were able to buy large parcels and build astonishingly big houses. The parcel of house Terwagne for instance, is 35 m deep, built at its full length at the ground floor, arranging 7 different spaces in a row. Next to that, and more importantly, the presence of kitchens, bathrooms, toilets and subsequent water- and gas-piping systems are the foundations of an atmosphere of grand luxe63. The Jan Van Rijswijcklaan was one of the first big avenues that was constructed from its origins with a full package of utilities. No surprise that Dr.Terwagne - a notorious member of the socialist party who had always stressed the importance of fresh water, bathing and their health effects for citizens - became one of the first residents benefitting from this new standard64. After the Great War; the Jan Van Rijswijcklaan was stretched beyond the city walls, taking utilities like gas, electricity and water to peripheral urban territory. In his article “Whatever happened to Urbanism?” Rem Koolhaas claimed that urbanism should be about the “irrigation of territories with potential”65 . This can be taken rather literally in the case of the Jan Van Rijswijcklaan. The bourgeois apartment with its multiplication of stacked bathrooms and kitchens would soon efficiently benefit from these utilities.
Excerpt of Royers Map 1908 indicating trajectory of Jan Van Rijswijcklaan through fortification walls
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Breaching through the city walls
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Top architects and... François Amelinckx During the Interbellum period, quite some architects specialized in the Bourgeois Apartment. In Antwerp, among others, the firm of Alfred Portielje en Jan De Braey made some remarkable contributions to the development of the Jan Van Rijswijcklaan. These architects were firmly rooted and networked in the Antwerp context. De Braey, was city architect and engineer, and a respected member of the local council, while Portielje was collaborating on the monthly magazine of the “Royal Society of Antwerp Building Masters” that was published between 1930 and 193866. Along the Jan Van Rijswijcklaan, Portielje & De Braey constructed high standard apartment buildings that by the same token could easily have been integrated in Delhaye’s study. Their Résidence Léopold (1932) displays a “copybook” floor plan, each unit consuming up to 300m2 including amenities for staff, billiard rooms, and served by royal stairways and elevators. The building counted seven floors and was built in the tradition of Beaux-Arts. A regular ordinance of carefully detailed window bays, gave the façade an utterly urban expression, subscribing the building within the ‘conglomérat d’habitations’. Finally, it was commissioned by a real estate society: Compagnie Nationale Immobilière 67. A similar narrative can be reconstructed for the Résidence Van Rijswijck (1932), that was an Art-Déco design by Léon Stynen, and was commissioned by the society ‘Home Van Rijswijck nv’. Private capital drove the Horta-Delhaye manifesto for a contiguous residential city to realization and a new kind of developers helped building it68. Later that same year and at the outer end of the Van Rijswijcklaan, Portielje & De Braey finished an Art-Déco complex counting six stories and with a pharmacy on the ground floor level for its owner and commissioner pharmacist Raymond De Nave (1932)69. In terms of style, volume and arrangement, it was a simplified version of yet another apartment complex that was built a year earlier on the Jan Van Rijswijcklaan. It could be called “Résidence De Braey”70 (1931) for it was Jan De Braey himself who was both commissioner and architect of the building. Moving in his own building from 1937 onwards, he even became part of the target audience he was building for. These projects show that not only big societies invested in real estate along the Jan Van Rijswijcklaan. En route, also the private capital of local self-employed people such as architects and pharmacists was addressed. Pharmacist De Nave had met Portielje & De Braey in a previous project for the “Commissie voor openbare onderstand” (COO) from the city of Antwerp at the far end tip of the Jan Van Rijswijcklaan in 1928. For this municipal commission, the building was an important investment, with high-end rental apartments for upper-class citizens like De Nave who first had his pharmacy in this building. The impressive Art-Deco complex, claims a prominent position at the crossroads of the Jan Van Rijswijcklaan and the Jan De Voslei, where the main road from Brussels ends. Moreover, the terrains behind the complex were indicated as the location for the 1930 World Fair in Antwerp. Coming from Brussels, the buildings at the far end of the Jan Van Rijswijcklaan would be the true gate to the city and it’s expo. This probably explains why top architect Louis Herman De Coninck was called as 1.
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Victor Horta, house Tarwagne, 1909
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1. Victor Horta for Terwagne 2. Jules Hofman for “Mortgate Bank Vooruitzicht” Sources: City Archives Antwerp and www.onroerenderfgoed.be 1.
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66. For Jan De Braey, website onroerend erfgoed <https://inventaris. onroerenderfgoed.be/dibe/persoon/1072> (March 18, 2014), for Alfred Portielje website onroerend erfgoed <https://inventaris. onroerenderfgoed.be/dibe/persoon/4067> (March 19, 2014) 67. For Résidence Léopold by Portielje & De Braey, City Archives Anwerp, building permits, files 1932 # 41161 and 1932 # 42613 68. For Résidence Van Rijswijck by Leon Stynen, City Archives Antwerp, building permits, file 1932 # 41482 and website onroerend erfgoed <https://inventaris. onroerenderfgoed.be/dibe/relict/6957> (March 15, 2014) 69. For Résidence De Naeve by Portielje & De Braey, City Archives Antwerp, building permits, file 1932#43140 and website onroerend erfgoed < https://inventaris. onroerenderfgoed.be/dibe/relict/212789> (March 15, 2014) 70. For Residence De Braey, City Archives, building permits, file 1931#38652 and website onroerend erfgoed < https://inventaris. onroerenderfgoed.be/dibe/relict/212788> (March 18, 2014) 71. On the project by Portielje & De Braey & Louis Herman Deconinck, City Archives, building permits, files 1926#23562 and 1927#27326 and website onroerend erfgoed <https://invetaris.onroerenderfgoed.be/ dibe/relict/6962 > (March 20, 2014) 72 For first Amelinckx-complex ever, City Archives Antwerp, building permits, files 1929#32765 and 1931#39272, website onroerend erfgoed <https://inventaris. onroerenderfgoed.be/dibe/relict/212790> (November 25, 2013) 73 The files on his first building for instance document a 7-year debate with the chief of the Antwerp fire department. After a longlasting discussion on actions to improve fire prevention, the chief of the fire brigade finally approves with all measures taken in the building in 1936, 7 years after its completion. In 1937, the building catches fire and the roof structure is completely destroyed. Through history, Amelinckx files would approve to be thick files. City Archives Antwerp, building permits, file 1929#32765 74 Website Onroerend Erfgoed,<https:// inventaris.onroerenderfgoed.be/dibe/ geheel/13503> (January 20, 2014) 75 Website Onroerend Erfgoed,< https:// inventaris.onroerenderfgoed.be/dibe/ relict/6687> (March 19, 2014)
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an advisor and why the city took control of developing this important site by use of its own municipal commission (COO71). However, just across the street on an almost equally iconic site, it was the later property tycoon François Amelinckx who built his Résidence Van Rijswijck in what is believed to be his first big real estate investment. Up until then, Amelinckx had been working in his father’s contractors company. It is there that he may have met the Antwerp-based architects Jan Van Weert and Marcel Segers, who designed a seven story building that was rather traditionally inspired with modest elements of Art Deco. The floor plans show a complex organization to exploit the corner implantation to its fullest potential. Although this harms the overall harmony of the plan, still some quality of bourgeois living ideals as described by Delhaye survived. In 1931, Amelinckx would immediately build a very similar neighboring building. This first Amelinckx-complex contained next to 33 rental apartments, underground car parkings and staff amenities under the roof also 3 shops with adjoining housing facilities serving the immediate surroundings72. Archive files from the original building permits, document the turbulent start of François Amelinckx as a property developer73. Nevertheless, with his first impressive complex, he participated in an intensive period of residential development along the Van Rijswijcklaan during the Interbellum period. Together with all kinds of private capital and networked within a local scene of architects, he helped constructing a qualitative ensemble urbaine: a big avenue, with public transport and high density urban fabric of large bourgeois apartments, 6 to 7 stories high. The Horta-Delhaye manifesto applied to perfection. Most of the projects were built using new techniques such as reinforced concrete and were stylistically elaborated. The Interbellum housing production brought architectural invention and refinement to the Jan Van Rijswijcklaan. Until the stock market crash would put a temporary end to all building activities from the 1930’s onwards, leaving most of the parcels empty up until the second World War74. For architects as Portielje & De Braey, who had specialized in the bourgeois apartment, this meant the end of their collaboration. They both went their separate ways in 1934. While Alfred Portielje disappeared from the front scene, Jan De Braey’s career seemed to take a new flight. Among other interesting commissions, he got involved in building the Cinema Rex (1935)75, together with Léon Stynen, who he may have met in 1932 strolling around on the Van Rijswijcklaan, their construction sites just two minutes apart. Both of them would return to the van Rijswijcklaan after the second World War, albeit in a different role. And Amelinckx? He had understood that the remaining vacancy of plots offered him an interesting land reserve to develop later. He founded the Entreprises Amelinckx n.v. in 1936 and would definitely come back.
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Amelincks calls old servants back to the Jan Van Rijswijcklaan
76 According to search results in the database of the City Archives of Antwerp 77 Etrimo (1949) Un appartement, Des Raisons de l’achat d’un appartement, Catalogue, Etrimo 78 Etrimo for instance adds a chapter “Peuton acheter sur plan?” It is no surprise that within the context of Etrimo, the answer was convincingly yes, while for Delhaye, the idea alone was improper and indecorous. Pacing through the brochure, the very same concerns that Delhaye had described three years earlier are already stressed in Collin’s book. Basically the brochure stimulates the buying of a more comfortable life for less money. Lower land shares and thus lower prices, marble hallways, staircases and elevators, central heating, negligible maintenance etc. were all treated in a similar way in Delhaye’s book. 79 Etrimo (1949) Un appartement, Des Raisons de l’achat d’un appartement, Catalogue, Etrimo, p.3 80 Ibid., p.5 81 For realization with Marcel Segers in 1955, City archives Antwerp, building permits, file 18 # 33158 82 For realization with Jan De Braey in 1954, City archives Antwerp, building permits, file 18 # 32281 83 The Law De Taeye (1948) was a famous Belgian Law encouraging citizens to buy and build their own houses providing subsidies and tax benefits. It is noteworthy to say that the activities of firms as Etrimo and Amelinckx were not supported by the law, since a maximum surface area of the plots decided whether tax benefits could be granted. Clearly aiming for single family units, this excluded the obvious bigger parcels that Amelinckx n.v. and Etrimo used to build their apartments. Theunis, Katrien (2006). De wet De Taeye. De individuele woning als bouwsteen van de welvaartsstaat (1948) in Van Herck, Karina (et.al.) Wonen in welvaart, woningbouw en wooncultuur in Vlaanderen 1948-1973, p. 67-79
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After the second world war, it would take some time before building activity got back on track on the Jan Van Rijswijcklaan. Apart from some individual houses, almost no important buildings were constructed during the 1940’s. It is only from the early 1950’s onwards that a new wave of apartments would find an address along the avenue76. It must be said that the context in which these developments were conceived was no longer the ultimate luxurious bourgeois apartment. The apartments that were built, had strongly rationalized floor plans and less elaborated façades. Economic conditions during the reconstruction after the second World War seem to have had their influence. In 1949, three years after Delhayes’ L’appartement d’aujourd’hui had been published, Etrimo launched the catalogue ‘Les raisons de l’achat d’un appartement’77. The resemblance of the two booklets is striking. It looks as if Etrimo made a commercialized brochure out of Delhayes more analytical study78. The booklet starts with the sentence “Si vous cherchez un appartement bon marché, ne lisez pas cette brochure”79. It still aimed to echo the same luxurious living ideals of the former bourgeoisie. But the floor plans were already becoming smaller and more rationalized, facades less elaborated. Moreover, after page one, a continuous stress on affordability and ‘écomomies’ dominated the discourse. It seems as if the developer was slowly adapting his product to the rise of a new middle class. “De la classe riche, le concept de l’appartement gagne les classes Moyennes”80 the brochure says. The same blind common walls and attention to corner solutions as found in Delhaye’s examples, still suggest the same kind of urban environment and “conglomérat d’habitations” as its stage though, introducing the middle class in the urban realm of Interbellum bourgeoisie. Moreover, and maybe as a result, the somewhat anonymous architecture that got built in this period was also a product of a much more anonymous scene of architects. People like Léon Stynen or Louis Herman De Coninck, had disappeared from the residential stage along the Jan Van Rijswijcklaan and it seems so that with them a certain atmosphere had left too. In this context, with a different product for a different clientele François Amelinckx develops a few apartment buildings in the 1950s along the Jan Van Rijswijcklaan. It is remarkable that for these apartments he continued working with local architects and some old servants of the Jan Van Rijswijcklaan. One of them was Marcel Segers who was already present when Amelinckx realized his first exploit in 192881 and with whom Amelinckx. Another one was Jan De Braey who was in the late winter of his career and had turned to Amelinckx82. It is true that the new conditions produced a strongly rationalized and more banal architecture. Though, it must be said that together with these old servants, at least some basic qualities remained in the production of Amelinckx’s firm. The use of different materials and window partitions articulate for instance a certain rhythm in the buildings. The regular ordinance of the façade, albeit less elaborated, still fulfills its urban function. The contiguous city clearly remained the underlying realm. But What is maybe most important for this period, is that the production of real estate developers like François Amelinckx kept housing in the city, while the law De Taeye (1948)83 had started a diaspora all over the Belgian territory of all dwellers that could afford their private dream. Clearly, the Belgian government did not primarily invest in the city faubourg at that time. Instead, they left it to property tycoons like
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Etrimo (1949). Des raisons de lâ&#x20AC;&#x2122;achat dâ&#x20AC;&#x2122;une appartement, Etrimo Catalogue
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Amelinckx. His activities along the Van Rijswijcklaan can at least be accredited for some things up to that moment. Making a qualitative residential area available for a new middle class group, providing collective housing, increasing the efficacy of existing infrastructures like tramlines and utilities. Up to that moment Amelinckx even kept making efforts to coproduce a form of continuité urbaine. But that was soon about to change.
The Amelinckx-Architect divide: the symbolism of 1958 The year 1958 seems to have been a symbolic year for the divide between architects and real estate developers. Through the formulation of three lines of thought all of them taking 1958 as a starting point, causes for this divide and the effect it had on the respective housing production and their effects on city form will be explored. Absolute Amelinckx First of all, 1958 off course was the year that the U.E.C.L. (Union Européenne des Constructeurs de Logements, secteur privé) was founded by Jean-Florian Collin. The union defended the interests of real estate developers of different European countries84. Collin was its first president, Amelinckx among the first members. By the year of 1960, Amelinckx was president himself of the Belgian U.P.C.L (Union professionnelle des créateurs de lotissements et de logements)85. The property tycoons started to establish their own professional and international networks. In the case of Amelinckx at the Jan Van Rijswijcklaan, this evolution seems to have coincided with cutting his ties to his former local network of architects and urban planners86. Building permits were no longer submitted in collaboration with other architects as had been the case until then, but fully under the firm’s own name. The Amelinckx n.v. started working as an autonomous association, turning into a gigantic corporation employing its own architects87. Compared the 1935 brochure ‘Raisons de l’achat d’un appartement’ by Etrimo, in all info- brochures of both Etrimo and Amelinckx n.v., from the ‘60s onwards, floor plan was notoriously absent88. Ongoing economization and standardization had been pushed to their limits. This resulted in the most cost efficient and generic typology of the ‘barre’89: freestanding high-rise slabs with primary and strongly recognizable architectural forms. For this product, architectural invention (once the driver behind the rise of the bourgeois apartment) was no longer needed. Within the autonomous real estate societies, it was even considered to be counter-productive90. At the same time, all parcels along the Jan Van Rijswijcklaan were gradually built. Surely, in the ‘60s Amelinckx still did some more developments along the Avenue, but he realized that soon other territory had to be found. The Jan Van Rijswijcklaan had from the very start in the interbellum provided Amelinckx with a stage of action, where a shared imaginary (echoes of the reconstructed DelhayeHorta manifesto) had provided him with some clues on how to relate his housing production to the city. But beyond the realm of the Jan Van Rijswijcklaan, beyond the city gate he had built himself in 1928 there only lied a territory of shortage.
84. Today this Brussels based organization still exists under the name of U.E.P.C. (European Union of developers and house builders), website UEPC, < http://uepc.org/ > (November 15, 2013), See evidence of these companies in brochures, Etrimo (1963). Comment devenir propriétaire. Etrimo, catalogue d’exposition, Deroy, David, (2013) Monsieur Etrimo, RTBF documentaire, Etrimo (1963). Comment devenir propriétaire. Etrimo catalogue. 84. Today this Brussels based organization still exists under the name of U.E.P.C. (European Union of developers and house builders), website UEPC, < http://uepc.org/ > (November 15, 2013), See evidence of these companies in brochures, Etrimo (1963). Comment devenir propriétaire. Etrimo, catalogue d’exposition, Deroy, David, (2013) Monsieur Etrimo, RTBF documentaire, Etrimo (1963). Comment devenir propriétaire. Etrimo catalogue. 85. See letter from Amelinckx to Collin to conratulate him on 25 years of Etrimo, Etrimo (1963). Comment devenir propriétaire. Etrimo, catalogue d’exposition 86 Search results in the city archives of Antwerp show that at the Jan Van Rijswijcklaan, until approximately 1958 all building permits are submitted by Amelinckx n.v. in collaboration with architects like Marcel Segers or Jan De Braey. Starting from 1958, the only name under which permits are applied for is Amelinckx n.v. 87. More information on the firm of Amelinckx n.v. see, Van Hulle, Frank (2000). Binnenhuisurbanisme: over de flatgebouwen van Amelinckx. In Utopia: verzonnen steden 88. See Etrimo (1963). Comment devenir propriétaire. Etrimo catalogue, Amelinckx n.v. (196?). Bien vîvre dans votre appartement. Amelinckx n.v. catalogue 89. Off course, the appearence of the ‘barre’ is not restricted to private developers like Etrimo and Amelinckx. Also in social housing high rise and the ‘barre’ became a frequently used typology. Ledent terms this the barre as an exploit of pragmatic modernism as a descendants of heroic modernism. See, Ledent, Gérald (2014) Potentiels Relationnels, l’aptitude des dispositifs physiques de l’habitat à soutenir la sociabilité. Bruxelles, le cas des immeubles élevés et isolés de logement, Académie Universitaire Louvain La Neuve, Faculté d’architecture, d’ingénierie architecturale, d’urbanisme 85. See letter from Amelinckx to Collin to conratulate him on 25 years of Etrimo, Etrimo (1963). Comment devenir propriétaire. Etrimo, catalogue d’exposition 90. In the movie Mr.Etrimo, one of the former architects working within the firm of Etrimo stated that the whole product of the barre was completely standardized and that nothing could be changed, not even bathroom tilings. Deroy, David, (2013) Monsieur Etrimo, RTBF documentaire
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Amelinckx n.v. met Mercel Segers, 1954
Amelinckx n.v. met Smekens, 195
Amelinckx n.v. met Jan De Braey, 1954 1.
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Shortage of a shared imaginary, shortage of consistent planning policy, shortage of a broad cultural scene that was even concerned with these issues in the faubourg at that time. As a result, in a context devoid of urban culture, firms like Etrimo91 and Amelinckx92 developed their own “urban policy”. The main strategy that the Amelinckx n.v. held was to find vacant plots in the city and its “petite périphérie” that were imbued with an appealing collective memory. Former ramparts, castle domains of an impoverished bourgeoisie, plots along former world fair terrains, or renowned fragments of ‘milieu urbain’ all belonged to the possibilities. At these spots of historic importance, the firm would implement its standardized slabs, mainly capitalizing on the environment as-found; capitalizing on its imaginary that would easily sell apartments. The intention to make any contribution to a conglomérat d’habitations as Collin had described it 20 years earlier, had completely disappeared. Retreating in its own exclusive international networks93, cutting its ties to a local network, the Amelinckx n.v. stopped producing an architecture that was relative to the city. It became absolute instead, merely concerned with the inner logics of the autonomous firm. Moreover, the Amelinckx n.v. explicitly wanted to prevent building whole neighborhoods with its slabs. Building new “Grands Ensembles” was clearly no option.94 Instead finite compositions of a restricted number of slabs were built. They would pop up in and around the city95. Strongly recognizable formal entities were implemented in the urban fabric and clearly stood out. The archipelago city that was theorized some years later96, was already practiced in Antwerp, and it was built by François Amelinckx. Composed out of its standardized autonomous slabs, it could be termed the city of Absolute Amelinckx97. At the Jan Van Rijswijcklaan, it was on the very threshold of this territory of shortage that the Amelinckx n.v. began building its city, ironically facing the very first Art-Deco exploit from its Moreover, the Amelinckx n.v. explicitly wanted to prevent building whole neighborhoods with its slabs. Building new “Grands Ensembles” was clearly no option.94 Instead finite compositions of a restricted number of slabs were built. They would pop up in and around the city95. Strongly recognizable formal entities were implemented in the urban fabric and clearly stood out. The archipelago city that was theorized some years later96, was already practiced in Antwerp, and it was built by François Amelinckx. Composed out of its standardized autonomous slabs, it could be termed the city of Absolute Amelinckx97. At the Jan Van Rijswijcklaan, it was on the very threshold of this territory of shortage that the Amelinckx n.v. began building its city, ironically facing the very first Art-Deco exploit from its founder98. In a way, François Amelinckx started capitalizing on an urban environment that he had helped building himself in the first place.
Top architects prefer monuments to urban fabric Secondly, the BP-tower that was built by Léon Stynen in 1958 provokes some thoughts. As said before, Stynen would return to the Jan Van Rijswijcklaan, but it was no longer in the residential sector. Instead he built a unique corporate
91. For Etrimo it is known that it founded the ‘Groupe Urbanisme’ within its own organization. responsible for its own urban design and plans. See, Ledent, Gérald (2014) Potentiels Relationnels, l’aptitude des dispositifs physiques de l’habitat à soutenir la sociabilité. Bruxelles, le cas des immeubles élevés et isolés de logement, Académie Universitaire Louvain La Neuve, Faculté d’architecture, d’ingénierie architecturale, d’urbanisme, p.208-212 92. For the Amelinckx n.v. an interview with Renaet Blijweert provides insight in the firm’s urban policy. In the interview, Blijweert (sonin-law of François Amelinckx and by then the firm’s CEO) looks back and reflects on the practice of the firm Amelinckx n.v. “Quand le bâtiment va... et quand il ne va pas. Une interview de René Blijweert, directeur générale de la S.A. AMELINCKX.” (1975), Bâtiment, n° 100 93. In 1960, the first publication of the U.E.C.L. was published, gathering best practices from France, Holland, Germany and Belgium. Clearly, the private sector housing developers started to relate to each other’s works, U.E.C.L. (1960?) Les réalisations, le financement, les caractéristiques de la construction de logements, U.E.C.L. catalogue. 94. In the interview in Bâtiment, Blijweert refers to the Grand Ensemble of Sarcelles as an ultimate example of how the city should not be built. 95. A clear example of this strategy is the Forumpark (1963) that Amelinckx and Etrimo built together in Laken, Brussels. It is noteworthy to say that this project was built on former terrains of the Expo58. 96. Ungers, O.M. (et.al.) (2013). The city in the city : Berlin: a green archipelago / a manifesto (1977), Lars Muller publisher 97. According to the same interview with Renaat Blijweert, it must be conluded though that some of the principles Jean Delhaye stood for in 1946 remarkably resurface in Blijweerts’ reasoning. He claims for instance that arguments of efficacy of mains systems for sewage, water, gas, electricity can be used far more effectively when staying in a high density urban environment. Moreover, according to Blijweert, spreading all over the territory would in the long term only cause mobility problems that were considered too time-consuming for the ‘modern’ residents he was building for. It can be said that some of the urban principles the Amelinckx n.v. used were not that wrong at all. Most of all, the lack of architectural reflection then seems to be the main motive of objection to the firms’ activities. 98. City archives Antwerp, building permits, files 18#46546 & 18#41428 & 18#38406
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Across the 1928 Amelinckx residence, the city of ‘Absolute Amelinckx’ stands in the ‘teritory of shortage’
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headquarter for BP, applying a brand new technique for the first time in Europe, bringing architectural innovation and refinement to the Jan-Van Rijswijcklaan yet again99. That same year 1958, Stynen designed a music conservatory for the same site, that had been looking for an appropriate location for more than 80 years100. The conservatory grew successively with the accumulation of its program. Today, it is an internationally renowned cultural center. One year earlier, in 1957 Renaat Braem had already built some exposition pavilions along the Jan Van Rijswijcklaan. Harboring all kinds of events and activities, the pavilions were turned into an expo-center over time, attracting visitors from all over the country to Antwerp101. This cluster of non-residential program, that was installed in the very heart of the Jan Van Rijswijcklaan at the former fortification walls, became of monumental importance to the city. At the Jan Van Rijswijcklaan, prominent architecture was no longer attached to housing. Prominent architects no longer had any acquaintance to the practice of real estate developers. Designing rationalized apartments was not challenging enough. Architects simply had found more interesting commissions to work on. From now on, they started building monuments in the urban fabric of the faubourg. Today, this cluster of program, built by Braem & Stynen is often understood as being attached to the ring road around Antwerp. Its alignment dates back to 1958 indeed102, and it could be argued that these special buildings all anticipated its construction. This unilateral interpretation should be nuanced though. It took still 10 more years before the ring road would effectively be in use, and 20 more years before the highway connection to Brussels would be finished. In the meantime, the Jan Van Rijswijcklaan remained the most important road connecting the center of Antwerp with the capital. From the angle of mobility, it can easily be argued that this new program belonged as much to the Jan Van Rijswijcklaan as to the ringroad. Moreover, Stynen himself pleaded heavily to bring his commissions for the BP building and the conservatory to the Jan Van Rijswijcklaan103. He knew the site very well, since it was facing the “Residence Van Rijswijck” he had built 26 years earlier. He had been part of a broad scene that gradually built the residential ‘cadre bâti of the Jan Van Rijswijcklaan, and was fully aware of its status. All individual housing projects had taken together, started to form a milieu urbain with a certain aura. The Jan Van Rijswijcklaan became an attractive stage for all kinds of urban program. After The Jan Van Rijswijcklaan had served as a fitted stage for hosting the 1920 Olympics and the 1930 World Fair, in 1958 it became the fitted host of the permanent cluster of cultural urban program Stynen and Braem had built. To understand these findings better, the terminology that Rossi used in his famous book L’architettura della citta (1966) can be helpful.104 For Rossi, the city was an artifact that consisted of two opposed components: the primary element and the area, mainly consisting of housing. Briefly summarized, he stated that the primary element was the founding element of the city, around which the area subsequently grew. One could say that the primary element provides identity and collective imaginary, while the area that grows around it ‘consumes’ it in the process of urbanization.
99. Rerences to B.P. tower by Léon Stynen, Novgorodsky, L. (1963). Les nouveaux bureaux de la société B.P. Belgium à Anvers, La Technique des Travaux 39.5-6, 130-139, Puttemans, P.(1964). L’immeuble B.P. Belgium à Anvers, Architecture 64 64.56, 392-400. 100. For a history of the music conservatory see websit deSingel, <https://www.desingel. be/nl/gebouw/historiek> (March 25, 2014) 101. See website Onroerend Erfgoed <https:// inventaris.onroerenderfgoed.be/dibe/ geheel/13503> (May 02, 2014) 102. For brief history on Belgian Roads see website WegenRoutes <http://www.wegenroutes.be/doss/E17E34n.html> (May 02, 2014) 103. At first, the location of the Eiermarkt in Antwerp was envisioned. Stynen convinced BP of the fact that modern companies should now locate in the Faubourg, well connected to main transport roads. Onroerend Erfgoed <https://inventaris.onroerenderfgoed.be/ dibe/relict/6958> (May 02, 2014) 104. Aldo Rossi, Rossi, Aldo (1966). L’architettura della città, Marsilio editori 105. Strauven, Francis (2010). Juliaan Lampens. An Authentic modernism produced on flemish soil. In Campens, Angelique, Juliaan Lampens, Campens, Angelique (et.al.) ASA, p.49-57
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At the Van Rijswijcklaan, this principle was remarkably turned around. It was the area of the Van Rijswijcklaan that would become an interesting artifact to host a primary element, that actually came second. After five decades of urbanization, in 1958, the Jan Van Rijswijcklaan had become much more than a sheer deposit of private capital. It had transformed into an urban area the fame of which radiated throughout the city. The area had turned into a primary element. The Jan Van Rijswijcklaan had become an urban artifact, and real estate developers like François Amelinckx had until that moment helped building it.
Architects left Amelinckx alone in the faubourg Finally, it could be argued that the World Expo of 1958 in Brussels would have its influence on the divide between architects and developers. To dwell further on this, the person of Belgian Architect Juliaan Lampens will come to the fore. The De Taeye Law (1948) had strongly stimulated the building of private housing, providing architects with an important pool of commissions. Belgian citizens were given the maximum say in the building of their own houses, but instead of seizing this opportunity to develop new and original types of housing, they exhibited a preference for traditional dwellings, often leaving a prominent architectural scene frustrated105.
106 Interview with Juliaan Lampens, Obrist, Hans Ulrich (2010) Interview with Juliaan Lampens. In Campens, Angelique, Juliaan Lampens, Campens, Angelique (et.al.) ASA, p.11-13 107. Leafing through the Dictionnaire de l’architecture en Belgique lies bear this remarkable shift quite clearly, ever more attention to private houses dominating the architecture of dwelling. Van Loo, Anne (et. al.) (2003). Dictionnaire de l’architecture en Belgique de 1830 à nos jours 108. Surely, architects such as Claude Laurens and Jacques Cuisinier found their way to new developers like Lotimo and people like Jean Delhaye continued producing descendants of the bourgeois apartment. And we cannot forget that people like Renaat Braem were active in the public housing sector, leaving some highly remarkable pieces of city, such as the Jos Van Geellaan, the Arenawijk or his housing project for Kiel. Nevertheless, it seems as if in volume, their production remained marginal in comparison to what people like Amelinckx and Collin contributed to the building of the faubourg at that time. In Antwerp alone, the city archives contain some 600 building files on Amelinckx alone!
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Same goes for Juliaan Lampens who started his practice in 1950 and worked on a few traditionally inspired commissions. According to Lampens, his situation would definately change after the Expo 58 in Brussels. The World Fair had lifted the people’s spirits and that its pavilions had stirred the imagination of hundreds of thousands of people that the mass- event had reached. For his own oeuvre, Lampens claims, it meant a dramatic shift; ever more people willing to go along with his architectural ideas 106. After 1958 a period had come that Architecture could be lavished on small singular houses, providing an interesting clientele for the architectural scene. The attention of a prominent scene of architects that had been dealing with apartment buildings in the Interbellum period, seems to have shifted towards singular housing 107. “The majority of designers limit themselves to the quest for original designs for single-unit houses”, Ungers wrote in his book Grossformen im Wohnungsbau (1966), claiming that the excessive need of mass-housing urgently asked for architectural invention on a bigger scale. New quantities asked for a new aesthetics, he said. In Belgium however, it seems to be that this bigger scale in the private sector was mostly left to property tycoons like Amelinckx who by then had been working autonomously 108. Embracing the single-family house also caused a geographical shift. Together with a new horde of clients, the architectural scene spread all over the territory, contenting themselves with building maisonettes on lost parcels somewhere in between no longer. As such, they left the faubourg behind that predecessors like Delhaye and Horta had started to provide with imaginative urbanisms
Offices B. P. Headquarters: building the monumenti in the faubourg. Source: City Aechives Antwerp
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109. Term after Smets, Marcel (1986) La Belgique ou la banlieue radieuse. In Culot, Maurice (et.al.)Paysages d’architectures, A.A.M. p.32-35
and subsequent architectures. The faubourg was simply left to real estate development firms like Amelinckx n.v. who have mainly planned it according to their own policies afterwards. In a street adjoining the Jan Van Rijswijcklaan, the master of the Ville Radieuse himself built the maison Guiette in 1927. Le Corbusiers’ house now stands in the shadows of the city of Absolute Amelinckx, three giant slabs fully immersing it into the ‘Banlieue Radieuse’109.
Amelinckx slabs overtowering house Guyette by Le Corbusier, immersing it in la “Banlieue Radieuse”
Conclusions Transaction in the Interbellum period In post-war Belgium, the interests of architects and real estate developers gradually parted over time. The physical reality of the Van Rijswijcklaan was used to show and unravel the successive stages of this growing divide. The paper frames the year 1958 as a symbolic moment for this divide, looking for multiple and interdepending causes. In the private housing sector, architects in general had lost their interest in the commercial apartment. They turned to the freestanding house instead, leaving the city and its faubourg for suburbia. Simultaneously, the land reserve that had provided the real estate developers with an urban context (the reconstructed Horta-Delhaye manifesto) from the Interbellum period onwards, decreased rapidly. Developers were forged to broach new territory that was devoid of any urban culture or aspiration. In the private sector, there no longer seemed to be a shared practice to continue imagining the faubourg within the dynamics of a ‘culture urbaine’. It was at this exact moment that real estate developers established their own national and international networks and started working as autonomous societies that developed their own urban policies, relating their practices to each other, and no longer to a broad network of architects as had been the case at the start. From that moment onwards, architects and developers stopped consistently building the faubourg together. During the Interbellum period, however, the rise of the typology of the bourgeois apartment had caused interesting conditions for the birth of a new market-driven transactional space between architects, urban planners and private developers such as Etrimo and Amelinckx. Looking back at it now, the Interbellum period presents itself as a laboratory in which the production of private capital housing was used as primary material to build the city. The paper claims that at the Jan 1.
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Van Rijswijcklaan up to 1958, private real estate development continued to pay its contributions to the construction of an interesting piece of city. Private developers like Amelinkcs kept building within the echoes of the reconstructed DelhayeHorta manifesto that reflected the Interbellum spirit. Tracing the activities of real estate development firms such as Amelinkcs and Etrimo back to their Interbellum roots, gives a surprising insight in their efforts to contribute to a broader urban practice than they are generally accredited for. Surplus-value for the city110 In the meticulous reconstruction of the urbanization process along the Jan Van Rijswijcklaan through the lens of private capital housing, lies the start of a better understanding of the surplus-values that were created for the city over time. It must be stressed that a certain urban condition preexisted before the Jan Van Rijswijcklaan was planned. Several houses, both within and outside the city walls, had to be demolished. A 1904 map also shows the trajectory of an existing tramline, curving its way out of the city through the fortification walls111. Moreover, as touched upon before, the Jan Van Rijswijcklaan carried new utilities like water, gas and sewage systems deep into the faubourg. It could be argued that as such, hamlets such as Wilrijk and Kiel were provided with a high level of comfort at a very early stage in history. The production of bourgeois apartments may be understood as the hidden driver of this process of urbanization. The Jan Van Rijswijcklaan, providing an efficient right of way for a new tramline, building new urban fabric and reconfiguring the utilities systems, was a project of urban redevelopment, firmly restructuring what was already there. As such, it can be understood as a strategic project in the process of urbanizing the faubourg, with private housing development as its main component. The redevelopment and reconfiguration of the faubourg then could be understood as an external plus-value of the private capital housing production. Moreover, the paper argued that by 1958 the figure of the Jan Van Rijswijcklaan had turned into a primary element of, generating immaterial and external plusvalue by providing a fitted stage for all kinds of urban program, such as the 1920 Olympics, the 1930 World Fair and finally, the permanent cultural monuments Stynen and Braem would build in 1958. Far more than a sheer deposit of private capital, the “cadre bâti” of the Jan Van Rijswijcklaan had turned into an urban artifact with meta-economic value. As such the Jan Van Rijswijcklaan became an urban backbone, further structuring development in the faubourg112. Off course, these preliminary findings on external value need further research. But it is through a meticulous study of the practice of private housing providers that a deeper understanding of urbanization processes in the faubourg can be built. A broader understanding of the relation between private sector housing and urbanism could revitalize the idea of housing as the common material for building the city. In the end, a city that is built with the help of well-conceived processes of urbanization involving housing of private capital, can at times provide long lasting urban surplus-value. At the far end of the Jan Van Rijswijcklaan, De Nave’s pharmacy is still there. The building by Portielje & De Braey and LouisHerman Deconinck was turned into a service-flat complex for elderly, containing a community center. And finally, the 1928 Résidence Van Rijswijck by François Amelinckx still stands. Apart from its apartments that are still wanted, it now also harbors a bank, as shop and a dental care center.
110. For notions on external surplus-value related to urbanism, Dehaene, Michiel (2013). Gardening in the urban field, A&S Books, Rémy, Jean (1979) Préface, les usagers et les processus de retroaction dans la production de l’espace social. In Schoonbrodt, Rene Sociologie de l’habitat social, comportement des habitants et architecture des cites, p.9-22, Rémy, Jean, ‘A la recherché d’une signification économique et sociale du development urbain actuel’, Synthèses (1968) 263/264 mai/ juin, p.35-44 111. Compagnie générale des tramways d’Anverse (s.a.) (1904). Plan du réseau, City archives Antwerp, collections, file 12 # 4219 112. It provided for instance a backbone for the further development of the Tentoonstellingswijk, on the former grounds of the 1930 World Expo.
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La fine della città postmoderna e il terzo spazio emergente né pubblico né privato
Daniele Vazquez Pizzi PhD iuav
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La riemersione della reciprocità nella metropoli europea Per lungo tempo mercato e Stato, l’utopia capitalista della libera concorrenza e l’ideologia socialista della redistribuzione hanno dominato alternativamente le politiche per il benessere dei cittadini, con la fine della città postmoderna una forma alternativa alle due sta riemergendo con sempre più forza, quella della reciprocità (Polanyi, 1944). La reciprocità è una forma di scambio che si approssima più allo scambio di doni che non allo scambio economico mercantile, un sistema di obbligazioni (Mauss, 1923-1924) basato sulla simmetria, la condivisione, la cooperazione sociale. Lungi dall’essere un sistema socio-economico semplice realizzabile esclusivamente in piccole comunità, tale economia senza profitto e senza mercato si è dimostrata efficace anche su larga scala, Polanyi scrive: “Il cerchio Kula nella Melanesia occidentale, basato sul principio della reciprocità è una delle più elaborate transazioni commerciali note all’uomo. […] Noi lo descriviamo come commercio anche se non vi è alcuna implicazione di profitto, né in moneta né in natura, nessun bene viene accumulato e neanche posseduto permanentemente, i beni ricevuti vengono goduti dandoli via, non vi è contrattazione, né commercio, né baratto, né scambio e tutto il procedimento è interamente regolato dall’etichetta e dalla magia […] il risultato è uno stupendo fatto organizzativo nel campo economico” (Polanyi, 1944: 65-66). Solitamente attribuita dai conservatori a forme di vita tribale e “non civilizzate”, essa in realtà prospera e si diffonde ovunque nelle metropoli europee (Indovina, 2014). Lo stesso Polanyi che era interessato, soprattutto, a evidenziare come l’istituzione del mercato autoregolato fosse un’invenzione recente, mai vista prima, nella storia dell’umanità scrive: “Sarebbe in realtà interessante esaminare se anche la più avanzata tra le organizzazioni di mercato moderno, basata su un’esatta contabilità sarebbe in grado di affrontare un simile compito se per caso dovesse intraprenderlo” (Polanyi, 1944: 66). Il fallimento dell’economia di mercato, la relativa crisi economico-finanziaria e la dismissione del welfare sotto le pressioni di tale fallimento hanno prodotto una mobilitazione dal basso per provvedere a ciò che le istituzioni garantiscono sempre meno: benessere e appagamento di desideri e bisogni. Con tale fallimento la conquista del benessere e l’appagamento di bisogni e desideri è sempre più difficile da ottenere individualmente, la crisi ha fatto riscoprire la reciprocità come mezzo non-statale e al lato del mercato per raggiungere tali obbiettivi. La reciprocità si manifesta in modalità sperimentali e diversificate, tentativamente, attraverso azioni che possono avere successo oppure fallire. Le azioni che si dimostreranno efficaci prospereranno e si propagheranno come esempi riusciti di reciprocità. I comportamenti sociali che gli corrispondono, basati sulla condivisione, il vivere insieme, la cooperazione sociale, sono il risultato della generalizzazione della precarietà e del rischio nella vita associata. 1.
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Crisi della società dei consumi e dell’individualismo La fine della città postmoderna coincide con una crisi della società dei consumi così come l’abbiamo conosciuta e dell’individualismo come strategia di sopravvivenza. Da una parte i centri commerciali mostrano sempre più il loro lato oscuro come luoghi della sursocializzazione1, dall’altra, individui e famiglie sono sempre più poveri e costretti a una più attenta valutazione nei consumi. Mentre l’individualismo non è più un comportamento efficace per far fronte alla crisi, la conseguenza non è un abbandono dell’individuale e il recupero di una dimensione collettiva sovraindividuale, ma una sorta di doppiogioco tra responsabilità e libertà di fare ciò che si vuole, una figura ibrida divisa tra micro-attivismo e cinismo. Sloterdijk ha scritto a proposito della figura del cinico negli anni ’80, ovvero durante la fase di trionfo della città postmoderna: “Le metropoli divengono esse stesse ammassi diffusi che hanno ormai perduto l’energia necessaria a formare public characters generalmente accettati. Nel moderno clima delle città e dei media è fortemente diminuita la pressione a individualizzarsi. In tal modo il cinico moderno non rappresenta più una figura marginale. […] Il cinico moderno è un asociale integrato” (Sloterdijk, 1983: 35). Rispetto ad allora l’asociale integrato non può più limitarsi ad osservare con distacco, non gli è più garantita una posizione dalla quale poterlo fare senza rischiare l’esclusione, egli deve mobilitarsi collettivamente ma per preservare la sua dimensione individuale. Consumismo e individualismo non scompaiono dunque del tutto, ma consumo e individualità non caratterizzano più la società nel suo insieme, ovvero l’accesso al consumo e all’individuale non è più scontato, è necessario mobilitarsi insieme per accedervi singolarmente. Sia la società dei consumi sia gli agi e i comfort propri dell’individuo sono divenuti una dimensione selettiva della società che non la rappresenta più nella sua interezza. Condivisione, vivere insieme e cooperazione sociale non si presentano dunque come forme di un nuovo collettivismo, ma come mezzi per raggiungere obbiettivi ancora individuali. La crisi della società dei consumi e dell’individualismo liberale non significa fine del capitalismo e comunitarismo, piuttosto che la società non si adopera più per nascondere il fatto che si possa restare esclusi dai vantaggi del consumo e dell’individuale.
Condivisione, competizione, selezione Condivisione, vivere insieme e cooperazione sociale sono momenti che devono convivere con una vita associata che resta ferocemente competitiva e con l’idea di libertà come libertà di fare ciò che si vuole, acquisita con il postmoderno. La loro ambiguità, ambivalenza e selettività è il risultato di questo campo di forze, di questa tensione continua tra competizione e cooperazione, condivisione e selezione, vivere insieme e libertà di fare ciò che si vuole del singolo che solo misure politiche quali il reddito garantito diretto e indiretto universale potrebbero spezzare. In assenza di tali politiche la tensione tra competizione e cooperazione gioca a favore della temporaneità, dell’intermittenza, della leggerezza e della selettività delle forme di associazione basate sulla simmetria e la reciprocità. Nondimeno queste forme di associazione che il postmoderno sembrava dover spazzar via per sempre rappresentano un tentativo significativo di ripristinare un
1. Il termine “sursocializzazione” fa riferimento alla lezione del Collegio di Sociologia e in particolare a Roger Caillois. Sotto il nome apparentemente innocuo di Collegio di Sociologia si celava un piccolo gruppo di studiosi che aveva come scopo la sovversione della società attraverso il sacro, una forma di sovversione che chiamavano “sursocializzazione” (Caillois, 1979). Si trattava di una cospirazione e se si vuole di una visione del mondo che corrispondeva a una distopia ante litteram, quello che qui conta è che come accade a molte utopie che si rovesciano nel loro negativo, così il progetto di sursocializzazione originario, ovvero la creazione di comunità sovversive legate consapevolmente a un’alienante senso del sacro all’interno di una società secolarizzata, che proveniva dal basso, si ripresenta ora come il progetto stesso del biopotere che come una levatrice cerca di tirar fuori dalla società fuoriuscita dal postmoderno una nuova società basata su comunanze selettive dettate dalla paura e dal rischio. Questo tipo di potere non a caso è stato chiamato biopotere e ha a che fare chiaramente con la sacralizzazione generalizzata del nuovo uomo medio. Agamben ci ha messo da tempo in guardia su cosa significhi essere sacralizzati, divenire “homo sacer” (Agamben, 1995): essere esclusi al punto di essere uccidibili senza per questo che si sia commesso omicidio. Così il tentativo di quello che è stato identificato come paradigma securitario è di produrre una società urbana a postmoderno fallito, in cui ritornino senso della comunità e della responsabilità senza abbandonare l’illusione individualista, ma sotto il segno generalizzato del sacro, inteso qui come sistema di valori fondamentalista e perverso svuotato di ogni logica razionale che faccia coesistere la libertà raggiunta nella postmodernità in una forma del tutto apparente con la necessità della sicurezza e del controllo sociale nei luoghi pubblici della città contemporanea. Dunque, la sursocializzazione avviene dall’alto, tuttavia essa non sarebbe possibile senza la mobilitazione volontaria degli individui e la sua dinamica è squisitamente orizzontale. Nella nuova società urbana la sursocializzazione non ha alcun bisogno di telecamere fisse e agenti in borghese, con la diffusione di nuovi dispositivi mobili quali gli smartphone, come recitava una pubblicità dei videofonini qualche anno fa “l’intelligence is everywhere”, ovvero ciascuno è controllore e controllato allo stesso tempo. Si tratta ovviamente di un processo socio-spaziale che non può avere completamente successo.
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abitare condiviso, di inventare pratiche che implicano soggettività e progetto, di produrre luoghi provvisori in cui si esprime un reale desiderio di incontrarsi (ma tra simili) e di farne il supporto di una rete relazionale. Si tratta di un processo squisitamente socio-spaziale, tutto questo non sarebbe possibile senza la riscoperta della prossimità a seguito delle nuove contiguità spaziali prodotte dall’ispessimento della città dispersa e dall’articolarsi di questa in forme sempre più complesse con le città compatte. Tuttavia se non si può più sfuggire al vicinato esso non è più quello della città tradizionale che selezionava secondo le leggi di mercato e favoriva anonimato e atteggiamento blasé, ma un vicinato che sempre più si cerca possibilmente secondo affinità elettive, trasformando la società in un insieme di gruppi sociali che difendono la propria differenza conducendo vite parallele e facendo il possibile per non esporsi al contagio dell’alterità. A costo di utilizzare uno strumento malmesso e vintage come la dialettica hegeliana si potrebbe dire che il superamento della città postmoderna avviene conservandone tutti i tratti distintivi che ora però si ripresentano sussunti in ciò che li negava. Con la fine della città postmoderna in ciò che resta dello spazio pubblico borghese non vi può essere esclusione aperta, gli esclusi piuttosto vengono re-inclusi attraverso un paradosso, si applica su di loro quella che con Agamben possiamo chiamare “esclusione inclusiva” (Agamben, 1995). Per farlo occorrono “campi”, luoghi reali o relazionali simili a quelli extraterritoriali, perché al loro interno le leggi che vigono all’esterno sono come sospese, luoghi della sursocializzazione in cui re-includere gli esclusi. Il filosofo definisce “il campo” come alla base del paradigma biopolitico della contemporaneità. Approfondendo il discorso di Agamben si potrebbe opporre il “campo” alla “città”. Allora la metropoli europea potrebbe diventare potenzialmente il cantiere di un altro paradigma, quello della città franca, che ci libererebbe dalla biopolitica e da qualsiasi competizione per il biopotere, quella situazione cui Agamben accenna ma che non specifica spazialmente se non dicendo che è il “luogo dell’esempio”: “l’inclusione esclusiva” (Agamben, 1995). Noi interpretiamo questa definizione come territori della condivisione (Bianchetti, 2014) che sono inclusivi in un modo del tutto particolare: piuttosto che includere tutti coloro che bussano alle loro porte invitano e favoriscono la riproduzione virale di localizzazioni in cui si dispieghino le medesime risorse relazionali.
I soggetti dei territori della condivisione Ora, vi è un modo di vivere che corrisponde a un reale desiderio di incontrarsi, di fare progetti insieme, di condividere il tempo e lo spazio fino al vivere insieme che è parzialmente estraneo alle dinamiche di biopotere e ai processi di sursocializzazione, tuttavia il prezzo da pagare per questa parziale estraneità alla sociabilità dominante dell’epoca è l’intermittenza e la provvisorietà: la libertà di relazionarsi è anche libertà di poter lasciare in qualsiasi momento la rete relazionale nella quale ci si era insediati, senza per questo perderla o abbandonarla del tutto. Spesso chi fa l’esperienza dei territori della condivisione resta profondamente legato a coloro con cui li ha condivisi, essendo l’esperienza di un momento di felicità sfuggente ma reale. Tale esperienza dei territori della condivisione non solo è prerogativa di un 1.
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élite intellettuale e cosmopolita non tradizionale, è l’esperienza di una felicità condivisa nonostante la precarietà e i rischi dell’epoca, è il rovescio del disagio, dell’emarginazione e dell’esclusione che si tende sempre ad attribuire a chi non fa parte del ceto medio, ovvero precari e migranti, come se la loro vita fosse esclusivamente segnata dalla miseria. Se allo spazio pubblico minore (Bianchetti, 2011) vi ha contribuito soprattutto il ceto medio, alle forme di reciprocità e ai suoi spazi vi contribuiscono anche precari e migranti. Il ceto medio è stato declassato dalla crisi del neoliberismo, è sempre più precarizzato dal tradimento delle promesse di benessere e felicità del postmoderno, un ceto medio sempre più povero che ha ormai più punti di contatto e di condivisione con i marginali e gli esclusi che non con le classi dominanti, la vera élite globale. Precari e migranti sono portatori di una concezione dello spazio rovesciata rispetto a quella delle élite globali, ponendosi sul piano delle spinte centrifughe delle società piuttosto che quello delle spinte centripete tipiche delle forme di vita urbane che prosperano in luoghi antropologici e luoghi della sursocializzazione. Una concezione dello spazio che molto può informare le pratiche del ceto medio. Se la sfera pubblica non è più duratura è perché si basa sulle relazioni stringenti, paradossali ed equivoche tra spazio pubblico e spazio intimo da un lato e spazio sociale e spazio privato dall’altro. Tali relazioni socio-spaziali paradossali sono effettivamente tipiche del ceto medio. In una sfera pubblica in cui prosperano tali relazioni socio-spaziali vi è reale comunanza ma in assenza di luoghi realmente comuni. La sfera privata continua ad essere tutelata anche laddove si vive insieme, i ritmi individuali possono convergere fino al punto che la relazione metta sullo sfondo la dimensione personale, divenendo un momento di reale intersoggettività e impersonalità, ma dove devono e possono anche divergere restituendo ciascuno a se stesso. Todorov ha scritto: “The human being is made up of relationships that he has with his fellows, and at the same time, he is capable of intervening, all alone, in the world; he is double not one” (Todorov, 1995: 142). Si potrebbe dire che tra i due momenti che Barthes individua storicamente in due forme eccessive, l’eremitismo e il coenobium (laico o no) vi è un terzo momento utopico in cui vi è la coesistenza del proprio, del personale, del soggettivo e dell’altro, dell’impersonale, del condiviso: l’“idioritmo” (Barthes, 2002), definito come una sorta di “socialismo delle distanze”. Tale doppiezza, questa dialettica tra individualità e condivisione che nella borghesia si è manifestata nella classica relazione tra spazio pubblico e spazio privato dove il secondo termine dominava chiaramente, negli spazi pubblici minori del ceto medio precarizzato si manifesta attraverso l’articolazione delle combinazioni paradossali spazio pubblico/spazio intimo (dove domina il secondo termine) e spazio sociale/spazio privato (dove domina il primo termine). Qui basti dire che questi territori non sono del tutto pubblici, né del tutto privati, sociali o intimi, giacché sono combinatori. Del pubblico trattengono la presenza, del privato un certo individualismo, del sociale la convivialità, dell’intimo la soggettività, tuttavia sono convivialità e soggettività a dominarne il senso piuttosto che la presenza e l’individualismo. Fanno pensare a uno spazio del comune perché vi si produce un bene comune, ma è uno spazio spurio. Infatti tale bene comune non corrisponde alle risorse che solitamente s’indentificano con quella locuzione, tale bene comune è la stessa rete relazionale di cui si fa parte. È la stessa cooperazione sociale la risorsa che si amministra nel momento in cui si realizza e ciò è possibile non in assenza di luogo, ma trovando continuamente il modo di localizzarsi e ogniqualvolta questa risorsa così intangibile si localizza produce un territorio della condivisione. 1.
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Contrariamente al soggetto squisitamente nomade non si fa tabula rasa dell’esperienza, non si passa su uno spazio liscio come se niente fosse, qualcosa resta ed è la risorsa “spazio relazionale” che può ricostituirsi in qualsiasi momento.
Il mito della Polis e dell’articolazione dello spazio in pubblico e privato Il discorso sullo spazio pubblico e la cittadinanza è sempre stato legato al mito della Polis la cui articolazione socio-spaziale era binaria: spazio pubblico e spazio privato. Tuttavia tale articolazione è in crisi, da un lato lo spazio pubblico è mutato perdendo la sua caratteristica principale, ovvero la durevolezza e la permanenza, dall’altro lato lo spazio privato è sempre meno tutelato, la privacy fa sempre meno parte del nostro mondo, l’individualismo è sempre meno un mezzo efficace per ottenere vantaggi individuali. In questa situazione sta emergendo un’articolazione spaziale più complessa che non sembra essere riducibile a una semplice opposizione binaria e sempre meno riconducibile al modello classico della Polis, un’articolazione complessa che vedrebbe oltre al pubblico e al privato anche il comune (Lefebvre, 1973). Tale terzo spazio né pubblico né privato si produce quando le forme di reciprocità, condivisione, vivere insieme e cooperazione sociale sono alternative sia allo scambio commerciale che alla redistribuzione statale. Si tratta di uno spazio che non ha trovato ancora del tutto un riconoscimento istituzionale e che forse mai lo troverà senza depotenziarsi. Esso è una dimensione socio-spaziale prodotta dalla riscoperta della prossimità, dagli usi e il godimento diretto di beni, dalle pratiche d’invenzione dei cittadini con le quali si mettono all’opera soluzioni originali per questioni urbane che hanno una lunga storia (Secchi, 2010). Si tratta di forme di scambio e gestione che si realizzano attraverso l’associazionismo, l’autogestione e in certi casi un vero e proprio autogoverno. Tale articolazione socio-spaziale non è un fenomeno nuovo, ma senz’altro era sconosciuto alla Polis. Quello della Polis è un mito sempre meno adeguato per spiegare i fatti sociali nello spazio delle metropoli europee. Differentemente dallo spazio pubblico e dallo spazio privato espressi storicamente dalla borghesia occidentale, questo terzo spazio è il risultato di una combinazione di spazio sociale e di spazio della soggettività. Tuttavia, gli ordinamenti socio-spaziali contemporanei non sono così semplici e non si possono liquidare con la sola teoria del comune. Riconoscendo il carattere composito del terzo spazio e reintroducendo la soggettività, l’articolazione diviene più complicata che non quella ternaria solitamente riconosciuta (pubblico, privato, comune) (Lefebvre, 1971; Grossi, 1977; Negri e Hardt, 2009; Marella, 2012). La dialettica tra individualità e condivisione che nella borghesia si è manifestata nella classica relazione tra spazio pubblico e spazio privato, nei territori della condivisione si manifesta, come abbiamo visto, soprattutto attraverso l’articolazione delle combinazioni paradossali e contraddittorie “spazio pubblico/ spazio intimo” e “spazio sociale/spazio privato”. Tale articolazione mostra tutti i suoi limiti quando favorisce la tribalizzazione della vita associata. Per superare i limiti di tale spazio né pubblico né privato occorrerebbe disfarsi dell’idea molto diffusa che i sistemi di reciprocità e la gestione degli spazi del comune siano 1.
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caratterizzati esclusivamente in quanto gestione di un bene da parte di una collettività locale, che sia nelle loro prerogative non poter essere concepiti su larga scala. Occorrerebbe disfarsi anche dell’idea che tale terzo spazio implichi bassa mobilità. Senza mobilità anche le migliori forme di scambio e di gestione si trasformano facilmente in un localismo geloso ed escludente. Solitamente la gestione di un bene collettivo è associata a una comunità locale e a un habitat con dei limiti precisi. La gestione di un bene collettivo se non accompagnato da una cultura dell’accoglienza può divenire motivo di selezione ed esclusione. Un modo per evitare questo esito potrebbe essere non solo l’accoglienza dello straniero, ma proprio un’alta mobilità di ciascuno, anche di chi fa parte della comunità locale. Comunità locale potrebbe significare un gruppo sociale che non è costituito sempre dalle stesse persone e il relativo habitat non sempre “focalizzato”, ma anche disperso e multi-sited. Se le cose stessero così, se si concepisse questo terzo spazio come composito e, inoltre, non solo come esito delle scelte del ceto medio, è possibile ipotizzare che si finirebbe per spezzare l’unione tra ordinamento e localizzazione nello spazio più radicalmente di quanto non abbiano fatto le élite cosmopolite borghesi. Per il giurista e filosofo Carl Schmitt tutto ciò corrisponderebbe a un disastro, perché sarebbe il trionfo del nichilismo (Schmitt, 1950). A nostro avviso, lungi dall’essere un disastro e il trionfo del nichilismo, un’alta mobilità rafforzerebbe le forme di reciprocità e cooperazione sociale e le renderebbe meno ambivalenti. Le metropoli europee sono città che articolano in un’unica esperienza urbana spazio compatto e spazio diffuso, una tale configurazione può diventare un insieme di enclave non comunicanti e segreganti se ciascuno non ha la libertà e la possibilità andare dove vuole. Sarebbe necessario far emergere come reciprocità, condivisione e comune non possano fare a meno oggi di spezzare radicalmente l’unione di ordinamento e localizzazione se vogliono prosperare (Vazquez Pizzi, 2013). L’auspicio per il futuro è che si esca dall’attuale crisi economico-finanziaria in modo tale che nelle metropoli europee queste forme alternative di scambio, gestione e condivisione acquisiscano maggiore spazio e perdano la loro condizione di minorità attraverso un superamento dei limiti appena esaminati, condizione necessaria perché si acceda a un’epoca che sia oltre ogni competizione per il
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Helsinki La cittĂ Intelligente sopra la cittĂ concreta1
Teresa Frausin PhD candidate UNITS
1. Il testo costituisce il risultato della prima fase di ricerca per la costruzione di un caso studio su Helsinki e il ruolo delle attrezzature ad uso pubblico nei progetti di riuso urbano, a sostegno della mia tesi di dottorato.
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Helsinki e il Ravintolapäivä 17 maggio 2014, sabato mattina. A Kamppi, cuore metropolitano di Helsinki, in una insolitamente calda giornata di maggio, cammino e all’improvviso mi accorgo che attorno a me persone che apparentemente chiacchierano del più e del meno nella piazza antistante la stazione multiscambio cominciano a mettersi all’opera. Sfoderano pentoloni chiusi da enormi coperchi, aprono tavoli da birreria da decorare con tovaglie di svariati colori e da attrezzare con fornelli a gas, utensili da cucina, brocche con acqua fresca. Finlandesi, ghanesi, cinesi, coreani e brasiliani iniziano a cucinare o a scaldare vivande come se ci trovassimo all’interno di un esteso festival multiculturale. Cammino ancora, supero la piazza della stazione dei treni di Eliel Saarinen, e mi dirigo verso l’Esplanadi, il viale del passeggio che collega Mannerheimintie, la via di accesso principale alla città, alla piazza del mercato sul mare. Anche l’Esplanadi, che di solito è una brulicante seppur ordinata fascia di verde, stretta tra due corridoi carrabili, su cui si distribuiscono negozi e servizi “di lusso”, sembra oggi invece un vivace accampamento di centinaia di stand, tende, tavolate. Profumi dal mondo si alzano nell’aria e locali, turisti e avventori dalla regione iniziano a sborsare modiche somme per gustare le prelibatezze offerte. Questo è il Restaurant Day, in finlandese Ravintolapäivä, evento trimestrale, nato nel 2011 a Helsinki da un’idea di Olli Sirén, Timo Santala e Antti Tuomola, che in pochi anni si è esteso a macchia d’olio in 30 Paesi, fino a contare 400 ristoranti pop up solo a Helsinki e un massimo di 1700 ristoranti in totale2. Il concetto è quello di dare la possibilità a chiunque di aprire, solo per un giorno, un ristorante, senza badare alle regolamentazioni necessarie per aprirne uno vero. Ci si iscrive sulla corrispondente pagina Facebook dando una breve descrizione di cosa e di come si vuole cucinare per amici, parenti, vicini di casa, ma soprattutto sconosciuti. La mappa Google del sito si aggiorna così istantaneamente, fornendo agli avventori informazioni sulla localizzazione dei vari ristoranti, nel proprio appartamento, lungo le strade, nei parchi di quartiere.
2. http://www.restaurantday.org/ 3. Detta “sharing economy” oppure “collaborative consumption”, come nella definizione di Rachel Botsman (Botsman&Rogers, 2010).
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Invece di essere osteggiata da burocrati locali, questa iniziativa è stata invece accolta molto positivamente, tanto da essere premiata con il Finland Prize nel 2011 dal Ministero per l’educazione e la cultura (Nelimarkka, 2014). La motivazione è comprensibile: il Restaurant Day promuove, all’interno della cosiddetta “economia della condivisione”3, un senso di appartenenza nei confronti della propria città, di fiducia nei propri concittadini e nelle loro capacità, nonché un approccio intelligente alle tecnologie digitali e ai social network, usati in questo senso per
estendere, grazie ad un portale online, l’uso fisico e concreto della città e a facilitarne l’accessibilita.
Il Nordic Model in Finlandia Il Nordic Model in Finlandia È facile dire che la fiducia nel prossimo e nella propria città è un tratto distintivo dei popoli scandinavi. E in un certo senso è proprio così. Generalizzando, si può affermare che una spiccata attitudine all’autonomia personale –che porta spesso ad un estremo individualismo- va stranamente a braccetto con un fortissimo senso di appartenenza, di identità e di fiducia nelle istituzioni del proprio Paese e dei propri concittadini. Tale atteggiamento si traduce nel rispetto generalizzato delle istituzioni e della pubblica amministrazione, riducendo i costi necessari a mantenere delle città sane e sicure (Trägårdh, 2012) e limitando le disuguaglianze (culturali e reddituali), grazie ad una maggiore coesione sociale. Se i cittadini fanno sicuramente la loro parte, è pur vero che gli Stati scandinavi hanno dimostrato da tempo il loro costante impegno a raggiungere tali obiettivi, diventando un vero e proprio esempio per la messa in opera di un sistema politico democratico e di una gestione dell’assistenza sociale peculiare. Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia e Islanda sono i Paesi che tradizionalmente vengono indicati come terreno del Nordic welfare model. Questo sistema statale offre eque opportunità ai cittadini in termini di assistenza, fondi pensionistici, educazione obbligatoria e servizi sociali (Bell, 1973), e assume qui delle caratteristiche uniche che, anche se declinate in maniera leggermente differente tra stato e stato, accomunano tali Paesi e li eleggono a modello esemplare a livello internazionale. Esping-Andersen, classificando i meccanismi stati di assistenza e sostegno sociale nei Paesi occidentali dal secondo dopoguerra, quando il welfare state è entrato nelle agende dei governi, ha appunto riconosciuto nel welfare dei paesi scandinavi il modello “social-democratico”. Questo intende il welfare come una risposta universale ai bisogni e ai rischi sociali assicurata a tutti, indipendentemente dalla base di reddito dei singoli (Esping-Andersen, 1990), per creare la cosiddetta “good society” (Hilson, 2008). In questo quadro, la Finlandia riesce a raggiungere standard comparabili a quelli degli altri Paesi nordici solo a partire dagli anni ’60, quando una riforma dell’assistenza aumenta la spesa da un 7% negli anni ’60 ad un 22% negli anni ’80 (Hilson, 2008), allineandosi alle vicine Svezia, Danimarca e Norvegia. Tale ritardo non ha in seguito impedito alla Finlandia di raggiungere obiettivi notevoli nel sistema pensionistico, sanitario ed educativo – inutile ricordare come la scuola dell’obbligo finnica sia stata più volte riconosciuta come la migliore al mondo, con eccellenti risultati nei test PISA - (Sahlberg, 2009; Burridge, 2010; Trägårdh, 2012). Oggi, la Finlandia resiste meglio di altri Paesi europei alla crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2008. Tuttavia, la tenuta del sistema economico è messa alla prova dalla globalizzazione dei mercati, da un generale cambio dell’andamento demografico e dalla una moltiplicazione della 1.
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richiesta di nuovi servizi. Tali fattori hanno necessariamente portato ad una revisione delle modalità di garanzia del welfare, concretizzatasi recentemente in una nuova strategia4, che punta alla collaborazione intersettoriale e ad una maggior organizzazione delle competenze per incentivare l’occupazione e ottimizzare una spesa altrimenti in crescita (Ministry for Social Affairs and Health, 2010 e 2014).
La costruzione della “welfare city” È stato più volte ricordato che se il welfare è quel set di politiche pubbliche atte a garantire “l’occupazione, la salute, le abitazioni, le vacanze e i fondi pensionistici”, allora lo spazio del welfare è il luogo dove queste politiche diventano “fisiche” (Secchi, 2008). In particolare, il riferimento va a scuole, asili, luoghi per lo sport, case di cura, centri sanitari ed ospedali, spazi ricreativi e parchi di quartiere che generalmente possono essere definiti come attrezzature pubbliche. Tom Nielsen ha efficacemente detto che “the urban spaces of the welfare city were seen as necessary for realizing the democratic vision of the welfare state but played no direct role as spaces for political expression. The project was about creating a framework for the activity of free and equal people” (Nielsen, 2012). È noto come la disciplina urbanistica abbia proprio avuto origine, alla fine dell’800, dalla necessità di indagare il rapporto tra pratiche, benessere e spazio urbano (Bellaviti, 2008), per poter garantire buoni livelli di “abitabilità” (Gabellini, 2001) nei contesti urbani, e portare a città più sane fisicamente e socialmente. Fino agli anni ’60 tale ricerca si è concretizzata anche nella sperimentazione di nuove modalità di organizzazione di nuove parti di città, tra cui spicca per tenuta e diffusione il modello della “garden city” howardiana.
4 Si fa riferimento alla “Socially Sustainable Finland 2020. Strategy for social and health policy”, del Ministry for Social Affairs and Health, Helsinki 2010.
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In Scandinavia, negli anni ’50, l’idea della città giardino sembra essere particolarmente adatta per conciliare la ricerca di efficienza urbana e di equilibrio sociale con il desiderio condiviso di vivere a contatto con la natura. Il modello “dei tre magneti” permette infatti di bilanciare le pressioni della produzione urbana con la vivibilità della vita suburbana, tanto più desiderata in Paesi tradizionalmente caratterizzati da una concentrazione abitativa trascurabile. Esempi noti come Välligby a Stoccolma (1947-54, progettata tra gli altri da Sven Markelius), o Tapiola a Helsinki (1950 – disegnato da Otto I. Meurman) dimostrano la “nordicizzazione” del modello inglese. I nuclei di espansione combinano l’offerta di servizi propria della “welfare city”, organizzati spesso in un “service core” facilmente raggiungibile, a degli spazi di prossimità della residenza da usare in maniera condivisa, che lasciano entrare “la foresta in città” (Executive Committee of Finland- Japan, 1997). L’attenzione nei confronti di azioni concrete sulla fisicità della città ha ovviamente subito una trasformazione negli ultimi sessant’anni ma di certo non una diminuzione di intensità. Progetti recenti dimostrano il continuo impegno della scrittura “pubblica” della città a favore dei suoi cittadini, cercando di mantenere non solo un livello alto delle attrezzature tradizionalmente individuate ma anche un buon livello di permeabilità e raggiungibilità delle stesse attraverso il disegno dello spazio aperto di connessione.
Helsinki: dalla città concreta... Helsinki è capitale non solo politica ma anche demografica della Finlandia, dove una densità bassissima a livello nazionale (16 ab./km2, con una superficie coperta per il 75% di foreste) diventa insolitamente più alta (833 ab./km2). Questa situazione ne aumenta sicuramente l’attrattività e la competitività rispetto alle altre regioni della Finlandia, comportando però una concentrazione maggiore di criticità sociali e di gestione. Anche se fenomeni di povertà ed esclusione sociale sono meno evidenti che in altre capitali europee, va detto che la recente ondata di immigrazione e l’invecchiamento della popolazione si stanno aggiungendo a problemi preesistenti che si acuiscono soprattutto in alcune aree della capitale (si consideri ad esempio la disoccupazione legata alla dipendenza da alcool o stupefacenti) (Hiilamo, 2013)5. Il livello di povertà rilevata non viene definita come “indigenza”, ma piuttosto come una mancanza di risorse per “partecipare” (ibid., 2013) al processo democratico e di uso della città. Helsinki, rispetto alle altre capitali europee, è decisamente “giovane”. Fondata dagli svedesi solo nel 1550 alla foce del fiume Vantajoki e spostata nell’attuale posizione nel 1640, con una irrilevante popolazione di 330 abitanti, Helsinki diviene capitale del Granducato di Finlandia nel 1812 e in poco più di un secolo decuplica la sua dimensione (da 15.200 abitanti nel 1853 a 161.900 nel 1917, quando la Finlandia dichiara l’indipendenza)6. Oggi, con i suoi 1.3 milioni di abitanti, viene individuata come una delle regioni europee che sta crescendo più apidamente7, fatto che dovrà essere affrontato in maniera adeguata, per evitare ricadute negative sulla città esistente, dovute ad un’eccessiva congestione e riduzione della cosiddetta “qualità urbana”. Tra gli anni ’10 e gli anni ’60 si assiste ad un fenomeno di polarizzazione geografica e sociale, che fa sì che la città cresca radialmente a partire dall’originaria penisola sulla baia di Töölö, espandendosi verso l’esterno. Tra il 1916 e il 1918 l’architetto e urbanista Eliel Saarinen, assieme al collega Bertel Jung, elabora un piano che si concentra proprio sull’organizzazione del fenomeno di espansione, guardando non solo al cuore della città, ma allargando l’attenzione anche verso le aree esterne, che compongono la “Greater Helsinki”. Anche se il piano non sarà realizzato, questo definirà l’immagine della città per i piani successivi. In particolare, il disegno prevede un sistema multipolare di nuclei di espansione separati tra loro da green-belts e disposti lungo la linea ferroviaria. Inoltre, anche a partire da un piano precedente di Jung (1911), il piano prevede una spina verde centrale, lunga 12 km, e che tutt’ora viene considerata come attrattore verde per una moltitudine di attività ricreative. La costruzione di un solido welfare state a livello politico si riflette anche nella costruzione della città. Negli anni ’50 Otto I. Meurman realizza assieme a Heikki von Hertzen, fondatore della Asuntosäätiö, una fondazione per gli alloggi sociali, la città di Tapiola, definita dagli stessi autori la “garden city” finlandese. In questo esempio che diventerà presto famoso, lo spazio urbano viene organizzato attraverso unità di vicinato, che articolano gli spazi della residenza attorno a spazi aperti e a servizi di quartiere. Al “cuore” invece un centro servizi più complesso, diventa attrattore a scala urbana.
5 Hiilamo, Heikki, (2013), Poverty and the Welfare State in Finland, lezione tenuta durante la Helsinki. Summer School 2013 “The Welfare City”, 19.08.2013, University of Helsinki, Helsinki. 6 Dati reperiti presso il City Museum di Helsinki. 7 La regione di Helsinki è una delle regioni europee che dagli anni ’80 è cresciuta più rapidamente e si prevede che crescerà del 10% entro il 2030. Si vedano i dati forniti dal Tietokeskus di Helsinki, hel.fi/tetokeskus
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Negli anni successivi, la suburbanizzazione viene invece guidata dai principi della separazione funzionale: ad esempio, il mix funzionale all’interno degli edifici nuovi non viene incentivato, rendendo complicata la localizzazione di micro-servizi o di attività imprenditoriali8 (Hietala&Helminen&Lahtinen, 2009). Tuttavia, vengono quasi sempre assicurati nei blocchi stessi alcuni elementi non trascurabili che estendono la funzionalità di alloggi spesso minimi. In particolare, le corti interne e gli spazi aperti di pertinenza vengono dotati di elementi semplici, relativamente poco costosi, ma capaci di instaurare relazioni complesse (Mäntymäki&Liljelund, 2009) come la sauna, un garage per le biciclette e per la raccolta dei rifiuti, uno stenditoio, talvolta una sala per le feste e addirittura una vasca-piscina. Questi elementi hanno abituato i cittadini di Helsinki (ma anche di altre città finniche) alla condivisione nel quotidiano. Per una popolazione tradizionalmente poco abituata all’“urbano” e alla diversità e densità che esso comporta, questi luoghi intermedi hanno aumentato le occasioni informali di incontro e hanno contribuito a sviluppare un più ampio ventagli di possibilità di socializzazione, nonché una capacità maggiore di stare bene con naturalezza nella città, dando origine a diversi e interessanti “modi di abitare” (Hill, 2014).
... alla città intelligente Helsinki è oggi una città metropolitana che sta cambiando rapidamente, non solo grazie al lavoro “dall’alto” dell’Amministrazione comunale e regionale ma anche grazie ai cittadini stessi, che stanno dimostrando sempre più di essere “a loro agio” nella condizione urbana e anzi si fanno promotori di nuove ed interessanti iniziative, basate sullo scambio e sul reciproco sostegno (Hernberg, 2012). Si stanno intrecciando diverse modalità di lavoro sulla città, che ne cambieranno inevitabilmente il volto. In questo senso, il Dipartimento di Pianificazione Urbana sta proprio in questi mesi elaborando un nuovo strumento di coordinamento regionale, chiamato “Helsinki Vision 2050”, che legherà il Comune di Helsinki a quelli limitrofi, in modo tale da lavorare a scala vasta su strategie per un uso sostenibile ed efficiente del suolo e della mobilità, per modalità molteplici di intendere la residenza e per creare nuove opportunità di lavoro e di attrattività.
8 Secondo il regolamento della ARAVA, l’agenzia territoriale per il sostegno alla casa. 9 http://en.uuttahelsinkia.fi/ 10 Ad esempio: car sharing, “food-coop”, di un club, ristoranti bio e cafè culturali.
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Le modificazioni principali che si possono oggi rilevare sono, a mio parere, di tre tipi. La prima lavora sulla consistenza fisica “massiccia” della città: il lavoro su infrastrutture importanti come lo spostamento del porto industriale e commerciale verso est e il potenziamento dello snodo ferroviario di Pasila, concentra l’attenzione su vaste aree nella “inner city” da ripensare come nuovi quartieri residenziali di qualità (in particolare, Jätkäsaari, Kalasatama e Pasila), per un totale di 7 milioni di mq per nuove residenze, spazi commerciali e uffici9. Sviluppati grazie a finanziamenti di tipo pubblico-privato, questi nuovi quartieri sono pensati per garantire una qualità urbana molto alta (Gordon, 2009). Ad esempio, si può citare l’intervento del Low2No, progettato nel 2009 a Jätkäsaari da un consorzio che vedeva tra gli altri anche la partecipazione dei tedeschi Sauerbruch&Hutton, che potrebbe diventare uno dei modelli per il raggiungimento degli obiettivi “zero energia” della direttive Europe2020. Qui viene proposto di accostare alla residenza alcuni micro-servizi “soft” che possano favorire lo scambio e la condivisione10 da gestire con portali web e tecnologie digitali, come fossero un’evoluzione
contemporanea di quei servizi di base a cui i cittadini si erano abituati. La seconda linea di lavoro va ad agire su quelli che erano sorti come nuclei esterni della Greater Helsinki e che ora invece sono in posizione intermedia tra la inner city e le altre municipalità confinanti. In questo caso, il lavoro congiunto di diversi attori privati e pubblici assieme al terzo settore ha permesso di lavorare sugli spazi aperti e sui servizi esistenti, rinnovandoli11, e coordinandovi politiche di sostegno sociale. Il riferimento è diretto al Neighbourhood Project, attivato nel 1996 dal Comune di Helsinki, oggi alla sua quinta tranche di attività, che ora prevede l’implementazione degli interventi nell’arco 2012-2015. Il set di azioni programmate risponde al motto “Cool culture and education”, proponendo dei progetti per migliorare l’attività culturale e l’offerta educativa dei quartieri, attraverso la costruzione o il ridisegno di spazi di prossimità “within walking distance” (Santaoja&Ruotsalainen, 2013). Tanti e tali ambiti di trasformazione all’interno della città hanno permesso inoltre, come ha evidenziato Hella Hernberg, di “fare spazio” a moltissime attività che proprio nell’instabilità fisica dei luoghi e nella incertezza economica dei giorni nostri hanno trovato la giusta “ispirazione urbana” per nascere (Hernberg, 2012). E il Restaurant Day è solo uno dei tanti esempi. Il dismesso impianto di Suvilahti, che sarà prima o poi smantellato completamente, è oggi un parco industriale utilizzato come sede di vari eventi e gruppi culturali indipendenti che si alternano durante l’anno; il Turntable Garden Project ha iniziato nel 2009 a riusare una linea ferroviaria in disuso per sistemarvi un orto urbano che oggi, in attesa che Pasila venga rigenerata, ospita un caffè, una serra e uno spazio pubblico ed è diventato una vera e propria “urban farm”; oppure Talkoot è un’iniziativa per invitare i cittadini a prendersi cura per un giorno a semestre degli spazi aperti in maniera assolutamente volontaria ma creativa12.
Una relazione causale? L’“intelligenza” su solide basi Le proposte sopracitate, che sembrano innovative perché spesso promosse da cittadini giovani e con budget limitati, “intelligenti” perché fanno uso dei social network per essere gestite, sono piuttosto una lenta ma brillante evoluzione di quel sistema valoriale, basato sulla mutua fiducia e nel rispetto verso la propria città, che la Finlandia ha faticosamente conquistato attraverso il continuo lavoro sulle politiche di welfare, nonché sul processo di pianificazione e “cura” delle città. Nel 2007, allo scadere del concorso per il piano “Greater Helsinki Vision 2050”, uno dei premi – secondo ma tanto significativo da essere qui ricordato- va al gruppo coordinato dai collettivi NOW Office e Demos Helsinki. Questi ritornano al concetto dei “magneti” che avevano ispirato la pianificazione di Helsinki durante la sua fase di costruzione (dalla città-giardino alla città-foresta “nordica”) e lo esasperano, proponendo la città degli infiniti magneti. Invece dei tre poli “città”, “campagna” e “città-campagna”, la città 2.0 diventa una piattaforma dagli infiniti attrattori per la scelta individuale e per l’adattamento dei servizi alle proprie necessità, originati proprio dai cittadini che, gestiti in nuclei ridotti (10.000-25.000 abitanti), possono lavorare con la municipalitàper proporre delle modalità innovative di gestione
11 Si veda il progetto “Suburban reinassance”, http://www.esikaupunki.hel.fi/ 12 Per maggiori informazioni sulle iniziative: http://www.suvilahti.fi/; http://kaantopoyta. fi/; http://www.talkoot.fi/
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delle risorse e del territorio (Hautajärvi, 2008). Il piano, giudicato forse troppo idealistico, esprime però una relazione causale tra la costruzione della città nel passato e della metropoli oggi e racconta del passaggio lento dalla città concreta alla città intelligente. E di come Helsinki oggi possa esprimere una presa di posizione intermedia tra un approccio totalmente fisico ed uno prettamente effimero ed a-spaziale, per evitare un indurimento di una città troppo basata su una pianificazione “tradizionale” oppure il crollo di iniziative sì accattivanti, ma non sufficienti a costruire in maniera convincente la città del 2050.
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New York, Rockfeller Center. Nella cittĂ contemporanea il vuoto diventa elemento spaziale, vera materia di progettazione.
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RI-ABITARE LA CONTEMPORANEITÀ. LA PERIFERIA, PARADIGMA EVIDENTE DI NUOVE RELAZIONI
Jacopo Gresleri ricercatore Università Ferrara
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1 Nel febbraio del 1974, per la serie “Io e...” prodotta dalla RAI, venne presentato il documentario “Pasolini e... la forma della città”, in cui il poeta regista, trattando i casi di Orte e di Sabaudia (città antica e storicizza- ta la prima, di fondazione e “modernissima” la seconda), poneva l’accento sulla necessità di difendere e pre- servare anche un patrimonio artistico di urbanistica ed edilizia popolare la cui grazia estetica non si sarebbe mai più ripetuta. Egli diceva: «Voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende, che è opera, diciamo così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città, di un’infinità di uomini senza nome [...] Con chiunque tu parli, è immediatamente d’accordo con te nel dover difendere [...] un monumento, [...] ma nessuno si rende conto che quello che va difeso è proprio [...] questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare». 2 Olmo Carlo e Lepetit Bernard, E se Erodoto tornasse in Atene? Un possibile programma di storia urbana per la città moderna, in Olmo Carlo, Lepetit Bernard (a cura di), La città e le sue storie, Einaudi, Torino 1995, p. 33. 3 Morales José in Gausa Manuel et al., The Metapolis Dictionary of Advanced Architecture: City, Technology and Society in the Information Age, Actar, Barcelona 2003, p. 563. 4 Ibid., p. 563. 5 Gausa Manuel in Gausa, The Metapolis op.cit., p. 562: «No longer formalising design, but rather informalising devices. No longer civic models, but rather mongrel situations. Devices – tactical decisions – open to change and generators of actions and mixedness, capable of combining plastic joy with the incorporation of temporary installations for leisure, sport, culture, intercommunication, diversity, relationships and, ultimately, the projection of the citizen».
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Una crisi profonda sta attraversando la società di inizio millennio, innanzitutto economica ma, in parte a esso legati, anche di valori, principi, relazioni. Le fragili “certezze” del secolo scorso sono messe continuamente in discussione e pare non esserci disciplina in grado di poter proseguire i propri studi senza analizzare, e riformulare, un campo esperienziale ormai apparentemente sgombro di assiomi. Corsi e ricorsi della storia, stupisce non poco notare che a distanza di quasi un secolo dalla comparsa del Movimento moderno, si discuta con il medesimo senso di necessità di quei temi che l’architettura del primo Novecento aveva fatto propri: l’Abitare. Lo ”stordimento” accademica ha indirizzato per anni generazioni di studenti a pensare alla città in funzione di episodi eccezionali: teatri, musei, stazioni e grandi contenitori erano i soli temi di ricerca applicata, impegnando i futuri architetti in progetti irrealizzabili e lontani dalla realtà1. Oggi si “riscoprono” scritti, ricerche, temi dimenticati negli anni di un benessere che aveva indotto a spostare l’asse dell’interesse scientifico verso soggetti di maggior fascino. Oggi sorgono centri di ricerca, gruppi di studio, si istituiscono manifestazioni nazionali volte al riconoscimento e alla premiazione di progetti e interventi sugli spazi pubblici, si è tornato a parlare di case, piazze, strade, spazi collettivi. Oggi si discute ancora – finalmente – di abitare nella sua accezione più ampia, materia complessa e articolata. Fra gli argomenti di tale rinnovata ricerca disciplinare, assume un ruolo fondamentale lo spazio pubblico, ambito nel quale si manifestano con particolare evidenza gran parte degli aspetti analizzati nelle ricerche condotte sull’abitare contemporaneo. È uno spazio difficile da definire, quello pubblico attuale, su cui da tempo architetti, urbanisti e sociologi si confrontano per identificarne specificità, perimetri, pertinenze. Si fatica a dargli forma, perché una forma definita pare non averla e anzi ne assume molteplici, anche nel medesimo contesto. Si rende pertanto necessario spostare l’attenzione dall’aspetto fisico a quello funzionale, relazionale e di interpretazione dello spazio. Già nel 1995 Carlo Olmo e Bernard Lepetit si interrogavano su quali fossero le forme dello spazio suscettibili di essere impiegate in molteplici funzioni e se esistessero «usi sociali della città o di parti di essa che richiedono un forma unica e altre che si adatta- no a molteplici configurazioni spaziali»2. Emerge come nella città – specie quella storica – si sia concretizzata una materica fisicità dei luoghi le cui forme restano immutate, mentre gli attori, che nel tempo si alternano sulle stesse scene, vi hanno adattato i propri usi e con essi i propri bisogni. Uno spazio pubblico da leggere quindi nella sua fruizione più che nella sua immagine. Per questo si parla di spazio di presentazione piuttosto che di rappresentazione3, di spazio pubblico come spazio non necessariamente qualificato dalle sue forme, ma dalla sua capacità di dare beneficio alle relazioni fra i suoi fruitori4, di spazio collettivo o relazionale in termini di ibrido, informale e trasformabile5. E non va dimenticato il fondamentale contributo progettuale e di pensiero di Herman
Hertzberger che, fin dagli anni Novanta del secolo scorso, sottolinea la specificità tutta contemporanea della multifunzionalità degli spazi collettivi, la loro flessiblità e polivalenza, pluralità d’uso, indeterminatezza degli spazi di relazione inbetween6, non più limiti (limes) ma soglie (limen) fra distinte realtà. Si è dunque rinunciato alla funzionalistica biunivoca corrispondenza fra spazio e funzione sociale a favore di una soluzione più flessibile e personalizzata. È un mutamento più che comprensibile, dettato da una molteplicità di concause qui difficilmente sintetizzabili, ma che certo hanno a che fare con la perdita di rappresentatività di ruoli, luoghi e figure sociali. Lo spazio pubblico in antichità era luogo della collettività, in cui si manifestava il potere e l’immagine di una città – di quella città – in cui ci si riconosceva. Era il luogo in cui si manifestava la propria appartenenza a una comunità specifica, pur con tutte le note differenze di classe e di rango, dove le popolazioni erigevano i propri monumenti e con essi «anche i luoghi della propria socialità»7. Oggi, cambiati i valori e le basi culturali della convivenza sociale, risulta difficile riconoscersi in una determinata collettività, a stento se ne condividono esperienze trascorse e progetti futuri. Sono crollate le grandi certezze e l’individuo cerca sempre più realtà “su misura”, per sé o per una cerchia ristretta di persone che condividono i suoi stessi orientamenti. Parlare di spazio collettivo appare quanto mai difficile in un quadro così complesso e mutato. Come possiamo allora concepire lo spazio collettivo della e nella contemporaneità? Quali sono gli elementi e gli strumenti di progetto a nostra disposizione? Quali forme (intese come modalità più che come configurazione) esso può assumere? Poiché sembra azzardato dare risposte precise e univoche a queste domande, pare più appropriato osservare il fenomeno da un’altra prospettiva, spostando la questione non tanto su cosa sia lo spazio pubblico, ma piuttosto dove esso si manifesta, concentrando gli sforzi analitici su un tema particolarmente complesso e sempre attuale come quello delle periferie. Se la città storica si può leggere nella completezza delle relazioni espresse nell’ambito dei suoi spazi pubblici (strade, piazze, portici, androni ecc.), dunque “dall’esterno”, la città moderna (la “periferia”, termine a cui essa viene comunemente associata) al contrario – fedele alle norme e ai principi di derivazione razionalista – sembra prediligere una lettura “dall’interno” dello spazio dell’abitare. Nella prima forma urbana, quindi, le alterazioni nell’equilibrio delle relazioni e degli usi dello spazio collettivo appaiono stridenti, in contrasto con quanto già storicamente assimilato, perché vissuto come un corpus incapace di fare propri i mutamenti sostanziali. Nella seconda, al contrario, ogni variazione sul tema sembra non solo accettabile, ma naturale, quindi più facilmente accettata o, se non altro, accolta, interpretata, talvolta promossa. Nelle periferie, “città delle interruzioni”, nella città moderna tutt’altro che omogenea, ricca di discontinuità, spesso priva di un disegno unitario, è qui che si annidano le maggiori potenzialità urbane, qui i mutamenti di rapporto spazio-funzioni-fruitori appaiono più manifesti, più limpidi, perché qui si esprimono appieno per quello che sono: alterazioni di un equilibrio strutturato. A distanza di quasi mezzo secolo dalle esperienze di conservazione del centro storico sviluppate in diverse città d’Italia8, sempre più spesso ne vengono messi in discussio- ne i principi costituenti ogni qual volta si affronta il delicato tema degli interventi nel tessuto urbano consolidato, il nucleo antico entro le mura. Le osservazioni sollevate sottolineano come questa parte di città sia il risultato di una progressiva e “naturale” stratificazione di interventi che hanno reso l’insediamento urbano ciò che ora è, ponendosi in netta antitesi con quello che viene definito un processo di “museificazione” del costruito.
6 Hertzberger Herman, Lessons for Students in Architecture, Uitgeverij 010 Publisher, Rotterdam 1991. 7 Secchi Bernardo, Prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari 2000, p. 90. 8 Si veda a tal proposito l’ampia bibliografia sull’esperienza del Piano di Conservazione del centro storico della città di Bologna del 1973.
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Palazzo di Diocleziano. Emerge chiaramente la sovrapposizione degli interventi secondo successioni storiche che, a cominciare dall’impianto romano e dal sedime del Palazzo imperiale, hanno determinato l’odierna forma urbis.
8 Si veda a tal proposito l’ampia bibliografia sull’esperienza del Piano di Conservazione del centro storico della città di Bologna del 1973. 9 Sul significato di “valore” si veda anche Scarrocchia Sandro, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei monumenti, CLUEB, Bologna 1995. 10 La letteratura al riguardo è molto vasta. Fra le possibili letture di approfondimento si rimanda a Consonni Giancarlo, L’internità dell’esterno, Maggioli, Rimini 2009, pp. 183185.
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Si rimarca cioè il fatto che la città non è a-priori un unicum indistinto, ma il risultato di un insieme di episodi (la fondazione prima, le successive addizioni e modificazioni poi, quelle romane, medievali, rinascimentali, risorgimentali ecc.) che ne fanno un complesso e articolato sistema di brani, assemblati fra loro come i movimenti di una sinfonia, che il trascorrere del tempo ha lentamente consentito di “assimilare” riconducendo i singoli episodi a una totalità oggi inscindibile. È l’evoluzione del pensie- ro umano, inteso senza giudizi di merito ma nella sua accezione scientifico- antropologica, che ha consentito questo processo “fisiologico” dando valore9 e senso a quell’insieme di oggetti, modalità d’uso e relazioni funzionali e sociali già tante volte descritto10. È in questo senso che la concezione del centro urbano – organismo oggetto di interesse di vincolo conservativo in virtù della propria costituente eccezionalità, leggibile nel suo insieme formatosi per successive addizioni –, pare attuale e corretta. Sembra evidente il rischio che un pensiero strettamente “conservazionista” possa indurre a una consequenziale contrapposizione fra città storica e città moderna, fra centro e periferia, fra entità autonome e separate, lettura semplice, forse addirittura semplicistica, comunque ormai inadeguata a comprendere i numerosi fenomeni di profonda trasformazione sociale e urbana in atto un po’ ovunque, che legano invece indissolubilmente queste realtà. Già da tempo filosofi, politologi, economisti e sociologi sostengono che la visione dicotomica del tipo bene/male, bello/brutto, destra/sinistra ecc.
– pur riconosciuta necessaria e fondamentale per un rapido apprendimento cognitivo – è in profonda crisi, anzi, è ormai prossimo il suo superamento da parte di una interpretazione olistica della realtà molto più complessa, articolata e concettualmente più affascinante. Si registra un progressivo sconfinamento fra “territori” prima divisi e discordanti che, trasferendo il fenomeno nel nostro ambito disciplinare, rende impropria la visione di due forme di città distinte e contrapposte (storica da un lato, moderna dall’altro) o, per lo meno, parzialmente superata da una lettura della realtà che si mostra secondo molteplici e differenti manifestazioni. Attualizzare il problema significa quindi, innanzitutto, analizzare il tema in questione senza distinguere le due identità, storica e moderna, centro e periferia, indagando la città “malata” secondo le modalità della medicina non convenzionale che si basa sulla correlazione sintomatica e patologica fra i singoli organi. Alla luce di queste breve osservazioni viene da chiedersi se ha ancora senso parlare di periferia e di problema della periferia senza tenere in considerazione il rapporto intrinseco e di derivazione dalla sua generatrice – la città storica – di cui sarebbe il “prolungamento evolutivo”. Ha senso allora parlare di progettazione e riqualificazione della periferia svincolando questi interventi da una correlazione – almeno ideale – con la città intesa nella sua interezza e vastità? Nella storia dell’architettura moderna tali aspetti non sono nuovi perché, anche se in modo discontinuo, sono stati affrontati dagli architetti che hanno operato negli anni della ricostruzione. In Germania, Francia, Italia ma particolarmente in Giappone (oggetto di vastissime devastazioni urbane), il tema in questione si è configurato come un vero e proprio filone di ricerca11. Nella cultura giapponese l’estetica del vuoto ha un ruolo fondamentale nell’arte, ma anche nel modo di vivere e di pensare. A differenza di come è percepito nel mondo occidentale che lo identifica con assenza, mancanza, privazione fisica e spirituale, talvolta addirittura con accezioni negative come banale, piatto e insignificante, nella tradizione nipponica il vuoto è condizione potenziale per accadimenti di eventi e di cose. Il vuoto cioè non isola, non separa, non definisce l’assenza, ma crea continue relazioni fra i soggetti. Nella lingua giapponese questo concetto è espresso da diverse soluzioni lessicali e grammaticali: parole omofone; assenza di pronomi sostituiti da forme linguistiche che, associate alle parole, arricchiscono di informazioni le frasi; il concetto di mu, il nulla, indica l’assenza di qualcosa, ma al tempo stesso costituisce un significante che racchiude in sé infinite possibilità di significato; infine, il concetto di ma. Quest’ultima, entità priva di definizione spazio-temporale, è in sostanza una pausa, un intervallo, un’interruzione, al pari della punteggiatura nella scrittura arricchisce il significato di una frase. In architettura è un’assenza spaziale intenzionale, nel linguaggio dà significato ad altri significati, è intesa come elemento rafforzativo del contenuto del discorso12. Il ma è latore di interpretazioni e nuove semantiche, potenziale generatore di altre relazioni ed esperienze spaziali fra uomo e luoghi a esso “estranei”, capace di suggerire nuove attenzioni e letture spaziali 13. Nel nostro caso il ma diviene il tramite, il nesso che lega indissolubilmente le “due” città, facce distinte della stessa medaglia, consente di identificare e definire nuove relazioni e interpretazioni dei luoghi. Alla domanda posta in precedenza circa la necessità o meno di intervenire nelle e sulle periferie si può rispondere quindi soltanto mu, correggendo in tal modo un quesito basato su un’assunzione errata e rimandando invece alle nuove possibilità interpretative del ma.
11 Per Kenzo Tange questo è uno dei temi conduttori della sperimentazione che avvia negli anni Cinquanta con una serie di opere costantemente in bilico fra l’idea di vuoto e quella di riempimento. Cfr. gli atti del convegno a cura di Francesca Talò promosso dalla Fondazione del Monte di Bologna in Gresleri Giuliano, Gresleri Glauco, Kenzo Tange e l’utopia di Bologna, Bononia University Press, Bologna 2010. 12 Per “chiarire visivamente” il concetto si rimanda alla visione della produzione cinematografica giapponese (della quale il regista Akira Kurosawa è certamente il più celebrato artefice), caratterizzata dalla frequente adozione di lunghi piani sequenza quasi del tutto muti, in cui rumori ambientali o rarissimi dialoghi sottoli- neano il pathos della narrazione, arricchendola di significati e interpretazioni. 13 Per una interpretazione del concetto di vuoto secondo la cultura orientale rimando a Pasqualotto Giangior- gio, Estetica del vuoto. Arte e meditazione nella cultura d’oriente, Marsilio, Venezia 2006. Vale la pena ri cordare anche l’interpretazione dell’idea del vuoto come materia architettonica che dà Fernando Távora nel suo saggio Da organização do espaço, FAUP Publicaçoes, Porto 1999, parzialmente tradotto con il titolo di Organizzare lo spazio, in “Casabella”, LXV (2001), n. 693, pp. 46-49.
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14 Si vedano a tal proposito i saggi Dematteis Giuseppe, Osservare e comprendere la città, e Martinotti Guido, «Muovendoci per le terre sconfinate», entrambi in Bella fuori. Nuovi centri in città. Un metodo, un pro- getto, le realizzazioni per riqualificare le periferie, Editrice Compositori, Bologna 2013.
Dunque, nonostante tutto quello che è stato detto sull’argomento – ma (possibilità di infinite nuove relazioni fra i soggetti in questione) e mu (correggere una asserzione che è sbagliata in partenza dando a essa un significato nuovo) – non è possibile sottrarsi dal parlarne, non ci è consentito deresponsabilizzarci ignorando la necessità di ri-progettare le periferie urbane. È qui che si manifestano più chiaramente le mutazioni di uso degli spazi collettivi e di relazioni fra fruitori, le quali mettono in evidenza la necessità di analizzare le questioni legate alla legittimazione dei processi radicalmente cambiati rispetto alla più tradizionale pianificazione e progettazione. I nuovi spazi collettivi diversificano gli attori, le regole, le modalità operative, ricondotte sempre più a strategie di self-welfare. Bisogna ribadire però di avere l’accortezza di non considerare queste parti di città entità isolate da quella storica di cui sarebbero l’espansione, ma valutare il fenomeno urbano nella sua complessità di insieme costituito da aree dense, meno dense e vuoti che sulla scorta di quanto detto finora – come in un ossimoro – si presentano ben più pregne di significati di quanto si possa superficialmente loro attribuire14. Sulla scia di quanto affermato, risulta ormai improcrastinabile un’adeguata revisione linguistica capace di descrivere la mutata realtà del contesto in cui operiamo. Infatti, il termine “periferia” (dal greco periphéreia) deriva dal verbo periphérein, condurre attorno; il dizionario della lingua italiana ne riporta un significato che fa riferimento all’idea di circonferenza, perimetro, luogo esterno a un centro, mostrando una inadeguatezza espressiva rispetto alla realtà dei fatti. La periferia non è più lontana, non è più solo coronamento della città antica, ma luogo (o forse sarebbe meglio dire luoghi, secondo la visione policentrica della realtà) della nuova concentrazione delle attività inizialmente ospitate nel nucleo urbano storico: la periferia va quindi interpretata co- me centralità altra, luogo vivo come i sakariba15, e al tempo stesso frammentato e di- sperso, parte integrante del più complesso sistema territoriale urbano.
Milano, Viale Argonne. Vuoti e periferie urbane entrano a far parte dell’immaginario collettivo della città moderna. La cultura pittoricocinematografica del Novecento fornisce un’imprescindibile chiave di lettura di questi luoghi, altrimenti difficilmente comprensibili. 1.
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La periferia è quindi altro – ma tutt’uno – rispetto alla città antica, non è la sua degenerazione, ma luogo in cui le diversità dei nuovi modi di vita si concretizzano, si strutturano, prendono corpo secondo principi e modalità difformi da quelle del fondante nucleo storico, differenti realtà sociali che dovrebbero rispondere ai mutati bisogni dell’abitare contemporaneo. Ne consegue l’inevitabile genesi di nuovi paesaggi, nuove forme di abitare, nuove relazioni anche molto complesse, che la cultura del XXI secolo non è ancora riuscita ad assimilare, facendo continuamente riferimento all’irraggiungibile “icona” della città antica, ritenuta comune modello del “corretto abitare”, frutto di secolari stratificazioni fisiche e sociali. Manuel Solà Morales, che a lungo si è occupato di questo tema, sottolinea che il senso del luogo16 è oggi scomparso nelle aree in cui prevale la discontinuità dell’edificato: dove predominano i vuoti urbani si trasferisce un senso diverso dello spazio, di attesa e di “indifferenza [reciproca, N.d.A.] delle costruzioni [...] e questo protagonismo dei vuoti continui e adiacenti appare come condizione del luogo specifico”17. Leggendo fra le righe si potrebbe intravedere un’idea di vuoto non più considerato negativamente, (elemento residuale, distanza fra gli oggetti, privo di interesse, che ignora le relazioni e trascura tutto il potenziale compositivo in grado, invece, di elaborare altre forme ur bane) ma, al contrario, emerge la possibilità di una ricerca sul tema dell’abitare che consideri il vuoto quale fattore strutturante e generatore di nuove spazialità e nuove relazioni. In sintonia con il significato di ma già descritto, Solà Morales compara i vuoti ai silenzi musicali che “aiutano a comprendere le frasi sonore mediante il ritmo delle pause e la costante attesa dell’intervallo”18. La metafora musicale è impiegata anche da Bernardo Secchi che paragona la periferia al passaggio dalla musica classica alla cosiddetta dodecafonica di Schönberg e Berg, passaggio in cui “all’abbandono delle grandi forme compositive sono derivati alcuni fondamentali problemi”19, a dimostrazione della rilevanza e delle difficoltà interpretative spaziali e funzionali ad essa attribuite20.
15 Ancora Olmo ricordava che la specificità di un luogo in Giappone non è la sua collocazione rispetto alla centralità urbana, ma la sua funzione. Così il termine sakariba esprime qualcosa di difficilmente traducibile, vicino all’idea di “quartiere frequentato”, dove il prefisso sakari «indica al tempo stesso l’energia, l’abbondanza e il trascorrere del tempo. I sakariba sono concentrazioni effimere di energia urbana, dei “cen- tri storici” nomadi difficilmente concepibili per noi. [...] i sakariba non contrappongono nettamente le forme e i componenti che vi si inseriscono o vi si inscrivono, ma piuttosto inducono ad osservare individui che agi- scono e modalità di formazione di significato dei luoghi». Olmo Carlo, La città op. cit., p. 33-34. 16 Cfr. Norberg-Schulz Christian, Genius Loci, Electa, Milano 1979. 17 Si veda Solà Morales Manuel, Territori privi di modello, in Neri Raffaella (a cura di), Il centro altrove, periferie e nuove centralità nelle aree metropolitane, La Triennale di Milano/Electa, Milano 1995, pp. 254-274. 18 Ibid. 19 Cfr. Secchi Bernardo, Progettare la periferia e la città diffusa, in Macchi Cassia Cesare (a cura di), Il progetto del territorio urbano, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 194-195. 20 Preme qui riportare la posizione di Rogers nel sostenere che il fenomeno architettonico non è pura composizione di forme, ma risultato di dialettiche del progetto. Si veda Rogers Ernesto Nathan, Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958. 21 Cfr. Folli Maria Grazia, Abitare, Unicopli, Milano 2000, pp. 9-29.
La città verticale, Ludwig Hilberseimer (1924). Il XX secolo è costellato di esempi di città immaginate, di nuove realtà abitative a valenza collettiva basate su modelli ideologici e funzionalisti, strutturate in senso antigerarchico attorno a un’immagine di vuoto ordinato e progettato. 1.
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20 Preme qui riportare la posizione di Rogers nel sostenere che il fenomeno architettonico non è pura composizione di forme, ma risultato di dialettiche del progetto. Si veda Rogers Ernesto Nathan, Esperienza dell’architettura, Einaudi, Torino 1958. 21 Cfr. Folli Maria Grazia, Abitare, Unicopli, Milano 2000, pp. 9-29. 22 Consonni Giancarlo, Dalla radura alla rete, Unicopli, Milano 2000, p. 51. 23 Il piano, riassunto dal motto “igienizzare il centro e monumentalizzare la periferia”, prevedeva la realizzazione di una “città policentrica, multifunzionale e compatta” secondo un procedimento ad “agopuntura” su specifiche parti della città e la riconquista del fronte mare. Proprio questa seconda parte dell’intervento è oggi fonte di critiche per la demolizione dei quartieri operai storicamente sviluppatisi a ridosso della linea ferro- viaria, ora interrata per favorire l’accesso alla spiaggia. Per approfondimenti sul piano di Barcellona si veda Bohigas Oriol, Pasión por la ciudad, Electa / Institut de Cultura de Barcelona, Madrid 1999 e Acebillo Josep, Una nueva geografía urbana. Planoguía, in “Arquitectura viva”, 2004, n. 94-95, pp. 44-53.
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In tale contesto, la prospettiva di lavoro sulle periferie non può che essere la riconduzione del tema alla diversa realtà di nuove esigenze, a una ridefinizione dei programmi, ponendo le basi per una stagione di interventi che mettano al centro del dibattito il recupero delle nuove centralità. I luoghi periferici, infatti, sono stati storicamente laboratori di altre modalità abitative, aggregazioni sociali, studi di innovazione tipologica e funzionale, ambienti urbani di novità tecniche e sperimentazioni sociali, luoghi in cui si è cercato di dare risposte alle domande formulate da una collettività in evoluzione. È qui che si è assistito alla progressiva separazione che a partire dall’Ottocento in poi avviene tra la produzione della città e la sua funzione, è qui che si sono insediate le industrie e tutte le forme con cui si mostravano le attività della modernità: ospedali, università, scuole, caserme, ma anche nuove strade, viali, parchi urbani ecc. È sempre qui che si sono realizzati i numerosi esempi di quartieri residenziali che hanno caratterizzato in tutta Europa gli interventi urbani della prima metà del XX secolo, riconducibili a progetti e a edifici a valenza collettiva di derivazione ideologico-riformista (le Höfe viennesi, la Dom Kommuna, le Unité d’habitation, gli Immeuble Villas della Ville radieuse di Le Corbusier ecc.) o di quelle che individuano nel modello anglosassone del cottage il proprio riferimento abitativo (Garden cities, Siedlungen ecc.)21. Si potrebbe dire che la modernità, nelle strutture e nei servizi che oggi abbiamo assimilato come componente “naturale” della nostra quotidianità, sia nata e si sia articolata proprio nelle periferie, ambito di innovazione di un’abitare che va inteso nella più ampia accezione del termine. Progettare nelle periferie – progettare le periferie – significa quindi operare sugli elementi che la costituiscono per possibili e inespresse potenzialità o, al contrario, per appurate carenze. Significa rivedere le forme spaziali e abitative tradizionali a favore di nuovi modelli capaci di costituire differenti e plurime relazioni sociali e fruizioni alternative, magari superando la questione tipologica a favore di soluzioni a-tipiche che possano dare risposte a una società già profondamente modificata e in continua mutazione. Significa, inoltre, lavorare sui luoghi dell’abitare, siano essi di “rifugio o relazione”22, di intimità o incontro, ristabilendo la centralità degli spazi della socialità e da cui derivare un ordine capace di regolare la mobilità e le modalità insediative. Significa lavorare sui luoghi aperti pubblici e semipubblici, che costituiscono il collante di qualsiasi matrice urbana, lo spazio aggregante, la trasposizione nelle forme fisiche (urbs) delle diversità e dell’identità di una città (civitas). Significa, infine, definire un nuovo ed equilibrato assetto morfologico in cui pubblico e privato si relazionano proficuamente. Sempre più, negli anni a venire, il tema del recupero urbano sarà il terreno su cui confrontarsi: la riprogettazione delle periferie, la riconversione delle aree urbane dismesse, di luoghi indefiniti dalle spazialità incerte, saranno non solo un grande volano economico, ma in qualche modo anche di recupero (tanto alla micro quanto alla macroscala) di una società talvolta fortemente degradata, talvolta soltanto bisognosa di altre relazioni. Interrompere la visione duopolistica consente di immaginare nuove periferie, nuove centralità che sappiano fare tesoro e valorizzare gli insegnamenti tramandatici dai modelli abitativi delle città antiche, integrandole con gli obiettivi e gli studi sul tema dell’abitare affrontati e sviluppati dal Movimento moderno, rileggendo il tutto in un’attuale chiave critica alla luce di schemi relazionali e di fruizione spaziale in costante e rapido mutamento. Il piano di recupero di Barcellona, elaborato e diretto da Oriol Bohigas e Josep Acebillo, costituisce un esempio di modalità operativa ancora attuale23. Esso fa parte di quel gruppo di operazioni di riqualificazione urbana che Secchi – riprendendo Manfredo Tafuri – definisce di renovatio urbis, indicando con questo
termine una politica urbana che, concentrandosi su alcuni interventi nodali (pur mantenendo sempre a fuoco la visione globale) “modifichi ruolo, immagine e modalità di funzionamento di un’intera città”24, interventi innovativi non solo dell’aspetto e della operatività della città, ma anche dei processi che fanno interagire azioni e attori differenti, siano essi amministratori, promotori, cittadini o imprenditori. Nell’ambito del ma – come già detto, potenziale generatore di nuove relazioni ed esperienze spaziali – si auspica di far emergere le inespresse potenzialità di luoghi trascurati e marginali e di nuove forme di interpretazione dello spazio pubblico.
24 Secchi, Progettare la periferia op. cit., p. 195.
Bologna, S. Petronio. La seduta che si sviluppa lungo la facciata della chiesa, sul piano soprelevato del sagrato, diversifica le funzioni d’uso del crepidoma, favorendo occasioni di incontro e di socializzazione.
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III. Un diverso statuto per lo spazio pubblico
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LES GROTTES, GENèVE UN PUBBLICO CHE NON E’ PER TUTTI
Cristina Bianchetti, Elena Cogato Lanza Il caso di Les Grottes è restituito in E. Cogato Lanza, L. Pattaroni, M. Piraud, B. Tirone, De la Différnce urbaine, MetisPress, Genéve, 2013. Le immagini sono tratte da quel volume. Il testo è di Cristina Bianchetti.
Le public consiste en l’ensemble de tous ceux qui sont tellement affectés par les conséquences indirectes de transactions qu’il est jugé nécessaire de veiller systématiquement à ces conséquences. John Dewey (cit in inglese)
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PNEU EN GroS
DE LA DIFFérENCE UrBAINE 4
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intensité sonore
de vues directes sur l’espace urbain environnant ainsi qu’au paysage sonore feutré, induisant un effet de labyrinthe qui brouille l’orientation du passant. L’emplacement périphérique des équipements publics (dans les domaines notamment de la formation, du social et de la santé: 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9) produit à son tour un effet de «filtre» socio-spatial: les usagers qui résident à l’extérieur des Grottes ne sont pas invités à s’avancer dans le quartier mais au contraire à s’arrêter sur ses limites. Plus largement, la Gare, la Poste et les parkings respectifs constituent une interface entre le quartier et l’agglomération tout entière, ainsi qu’une grande barrière360 construite qui situe l’Îlot 13 (à l’extrémité est du quartier) dans la continuité directe des Grottes, tout en étant placé dans une position périphérique. 49 La présence de deux EMS fait ressortir une différence du quartier par rapport à la densité et la fréquence moyenne de cet équipement sur le territoire cantonal. Avec l’Université ouvrière (installée dans le quartier en 1994) et les différents foyers d’hébergement (dont aussi Au Cœur des Grottes, foyer pour femmes en situation de précarité), ils matérialisent et perpétuent une tradition d’accueil des populations vulnérables, cruciale dans l’identité sociale du quartier, mais non moins problématique. à cet égard, l’emplacement périphérique du local d’injection «Quai 9» (2) est exemplaire d’un compromis entre une certaine tolérance à la marginalité et la volonté explicite des habitants de défendre leur cadre de vie.
Rue de la Faucille
Rue J-J-De-Sellon
Rue des Grottes
Rue Louis-Favre
Avenue Eugène-Empeyta
Rue Jean-Robert-Chouet
Le quartier des Grottes affiche des limites physiques accusées, constituées à la fois par les infrastructures 251 de transport, le bâti, la topographie et 29 les équipements. Une véritable ceinture de transports publics – tram, bus et train – encercle et isole le quartier tout en lui assurant l’accès direct aux principaux équipements du Canton ainsi qu’à ses frontières (Versoix, Moillesulaz, Bernex). Les portes «zone 30 km/h», qui filtrent l’entrée des voitures, et les carrefours à quatre feux protègent l’intérieur du 201 quartier des nuisances des flux. Un front bâti continu, de plus haut gabarit, marque les limites est et ouest du quartier sur les rues de la Servette et du Fort Barreau. Au sud, le parking du square de Montbrillant fonctionne comme 214 dispositif de prise de distance de la Gare. Au nord, le parc de l’école des Grottes (5) marque la discontinuité face aux îlots réguliers sis au-delà de la rue J.-r. Chouet, tandis qu’à l’est le parc des Cropettes sépare les Grottes de l’extension urbaine des années 1950. Plus largement, quatre paysages distincts – l’arrière-gare, la radiale urbaine de la Servette, le parc de l’école et le parc urbain équipé – contiennent les Grottes. Tout en s’inscrivant dans la longue descente du sol de la ville du Jura vers le lac, les Grottes se particularisent par l’accélération de la pente en correspondance de la rue J.-r. Chouet, si bien qu’entre le haut et le bas du quartier il y a une dénivellation de 20 mètres. Cette pente, constitutive du paysage intérieur du quartier, se combine au tracé irrégulier des rues et du bâti, à l’absence
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Gare
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Place de Cornavin
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2 / LIMITES
Place de Montbrillant
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+ 403.5m
+ 395.5m
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Parc des Cropettes
Rue de la Faucille + 395m
ZONE 30
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Rue du Fort-Barreau
Rue des Grottes Rue de la Sibèrie
Avenue des Grottes
Rue Baudit
Rue de l'industrie
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+ 383m
ZONE 30 Rue de la Servette
ZONE 30
Les Grottes è un quartiere della città di Ginevra, posto nelle immediate vicinanze della Gare de Cornavin. Deve la sua notorietà, al fatto di aver saputo nel tempo resistere alle pressioni del mercato e ai progetti di riqualificazione urbana dei quali è stato fatto oggetto. Una resistenza costruita a mezzo di movimenti popolari, occupazioni squatter, robuste reti associative e innumerevoli iniziative culturali. Les Grottes fa della accessibilità e dell’accoglienza (principi dei movimenti occupazione case) il suo carattere. E’ oggi un’enclave altamente contraddittoria che dichiara questa sua condizione nello spazio, non meno che nei comportamenti di chi la abita. E’ una parte di città cresciuta sul suolo pubblico che non ha nulla a che fare con le forme e i modi della cosiddetta città pubblica. E’ un luogo che si regge su un’economia inesistente, posizionandosi al centro di una città che è cuore della finanza europea. E’, a suo modo, una sorta di “finta quinta urbana”, ovvero uno spazio nel quale si svolge una rappresentazione continua, oggetto di patrimonializzazione da parte di politiche, dichiarazioni, azioni. Tutto ciò la rende un luogo diverso entro la città di Ginevra. Dove la diversità è essenzialmente varietà di segni, significati, azioni.
Cosa accade nello spazio pubblico di les Grottes? Vediamo spazi aperti, resi riconoscibili da piccoli segni che rimandano a associazioni e abitanti; aiuole ovunque di specie spontanee, molto curate; spazi aperti accuratamente recintati che sono pollai temporanei per allevare galline; una vegetazione spontanea che invade lo spazio tra le case e accoglie sedie, tavoli e ingombri personali. E soprattutto una grande densità di momenti di scambio associativi, conviviali, culturali. E’ evidente una forte e continua attenzione dello spazio pubblico, ma anche la sua occupazione, a mezzo di segni, disegni, azioni. Visto da una certa distanza, quello di Les Grottes si direbbe un autentico spazio pubblico nell’accezione tradizionale: denso, pieno di relazioni calde, capace di cogliere i ritmi della vita quotidiana. Ciò nondimeno il quartiere è inteso, nella severa città di Ginevra come anomalia, tollerata perché ritenuta in grado di esprimere aspetti culturali, di creatività, di autonomia. Espressione di una particolare atmosfera. Espressione, come si è detto, di una capacità di resistenza alla normalizzazione messa in atto da progetti, politiche e norme. Quelle azioni che potrebbero apparire l’ invenzione frivola di qualcuno, o un’insopportabile esibizione (coltivare lattuga, allevare galline nel centro della città), hanno la pretesa di opporsi a norme, protocolli, standard tutti definitivi altrove. Hanno cioè la pretesa di fare dello spazio pubblico il campo per rivendicare una diversa città. 1.
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ATTENDUS ET INATTENDUS DE LA VILLE
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SUrFACE PErMéABLE BâTI NoN ACCESSIBLE ACCESSIBILITé orIENTéE LIMITE FrANCHISSABLE LIMITE INFrANCHISSABLE LIMITE VéGéTALE PASSAGE CoUVErT DéNIVELLATIoN MoNTéE
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La questione che Les Grottes pone ad una riflessione sullo spazio pubblico è l’esibizione di una logica dell’entre nous, dell’entre voisin nel senso dato da Monique Eleb alla locuzione. Questa logica occupa lo spazio pubblico, lo riscrive come spazio condiviso entro piccole cerchie: cerchie delle singole associazioni, dei co-housers, di coloro che si riconoscono nella storia delle lotte urbane e delle occupazioni, delle nuove élites, dei circuiti culturali. Cerchie sovrascritte le une sulle altre e ben sedimentate. Attraverso momenti simbolici, feste, piccole celebrazioni. Attraverso quella che Boltanski riconoscerebbe come una nuova convivialità, a Les Grottes si costruisce l’ossimoro di uno spazio pubblico che non è per tutti. 1.
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CAN BATLLO’ BARCELONA NUOVI URBANESIMI
Silvia Calastri, Elisabet Roca
Noi tutti siamo mossi da illusioni, prendiamo decisioni facendo conto su una previsione di eventi che è influenzata anche da illusioni, cioè mossa da speranze, da paure, da preferenze, da opinioni che ci derivano da un effetto di imitazione. Se poi per illusioni intendiamo l’agire guidato dal “come se”, cioè da una norma o un ideale regolativo che modella le nostre decisioni e i nostri comportamenti, allora le illusioni diventano linfa dell’azione [...]. In questo modo, le ideologie diventano formidabili forze razionali [...]. Nadia Urbinati
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Un peso sempre maggiore nella città di Barcellona hanno acquisito dal 2009 in poi i movimenti sociali urbani di quartiere - Associacions de Veïns i Veïnes de Barcelona - che, in una sorta di movimento spontaneo e diffuso, sussidiario e dialettico rispetto all’Istituzione Pubblica, rivendicano, tra l’altro, spazi pubblici abbandonati, tipicamente spazi ex industriali, per rivestirli di significati e vocazioni nuove, colmando vuoti spaziali e funzionali rispetto ad esigenze e domande a cui l’istituzione pubblica non può e non riesce a dare risposta. Can Batlló e la relativa piattaforma “Plataforma Can Batlló és pel barri” nel quartiere de La Bordeta, si configurano come caso esemplare. Qui lo spazio produttivo dismesso diviene condizione nella quale radicare azioni e legami sociali. Al venir meno del collettivo (in senso moderno), fa da riscontro una sorta di “esplosione del sociale”: espressione del continuo riaffiorare di nicchie che hanno la pretesa di rifondare la città dove non c’è, reinventare servizi, creare nuove sfere pubbliche, dialogare con l’intera città. Il problema che Can Battlò pone è legato alla metamorfosi della nozione di spazio pubblico.
Interruzioni di processi e implicazioni della crisi Can Batlló e la Magoria sono un ex-complesso industriale tessile di più di 130.000 metri quadrati risalente al 1878 ed ubicato nel quartiere de La Bordeta a Barcellona. La Bordeta è un quartiere di una superficie approssimativa di 0,6 kmq. Can Batlló e l’area contigua La Magoria ne ricoprono il 25% circa. Il quartiere ha una popolazione di 18.727 abitanti di cui un 59% tra i 24 e i 64 anni, il 22% tra 0 e i 23 anni e il 19 % superiore ai 65 anni. L’ 85,7% sono spagnoli e il 14,3% stranieri, principalmente provenienti da Ecuador, Bolivia e Marocco. Le popolazione anziana che vive sola è il 21,4%, inferiore a quello della città che è il 25,2%. Occupando una parte importante de La Bordeta, Can Batlló era percepito come una sorta di bunker al centro di un quartiere già fortemente carente di spazi verdi, aree di incontro e di servizi culturali. Nel 1976, non essendo più funzionante la fabbrica tessile, il Comune include Can Batlló nel Plà General Metropolità (PGM) come area da riconvertire in servizi e aree verdi. Nel 2006 viene ridefinito il PGM e Can Batlló, di proprietà dell’Immobiliaria Gaudir, avrebbe dovuto assicurare al quartiere un parco, servizi educativi, una biblioteca, un poliambulatorio e 1656 appartamenti dei quali 958 destinati al mercato libero, 471 di edilizia residenziale pubblica e 200 viviendas dotacionales destinate a ultra sessantacinquenni. Per dare inzio ai lavori vengono sfrattate 46 famiglie residenti nell’area e 174 piccole imprese ancora presenti nel recinto in cambio di un indennizzo e della traslazione alla Zona Franca. 1.
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Il progetto di valorizzazione immobiliare è simile ad altri. Non si realizza a causa delle implicazioni della crisi economica che provocano l’interruzione del processo. Gli abitanti del quartiere attendono per anni l’inizio dei lavori fino a quando annunciano l’occupazione per il giorno 11 giugno 2011. Il Comune, con una ordi-nanza del sindaco, vista la tensione crescente, concede l’uso gratuito di un blocco di 15.000 mq dell’area, Bloc Onze, all’autogestione dei residenti del quartiere, provvedendo alle spese per la ristrutturazione dell’edificio e alla fornitura di acqua, luce e gas. Nonostante la concessione d’uso sia temporanea, i funzionari stessi del Comune sottolineano che non è stata posta nessun data di scadenza alla concessione.
Attori A Can Batlló gli attori coinvolti su piani diversi sono numerosi: la Piattaforma, il Comune, l‘Immobiliària Gaudir, la Generalitat, il collettivo di architetti La Col che fin dalle prime fasi ha accompagnato - come architetti del quartiere - lo sviluppo del recupero del Bloc Onze, partecipando anche alla commissione dedicata alla pianificazione architettonica. La presenza di architetti a Can Batlló differenzia questa esperienza da altre simili, proprio per la razionalità e la funzionalità con 1.
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cui gli spazi sono riadattati alle esigenze del quartiere, dando una percezione di solidità del progetto nel tempo a chi li frequenta. Gli spazi piccoli e grandi vengono realizzati attraverso la co-progettazione di architetti e membri della Piattaforma e realizzati dagli stessi volontari principalmente con materiale di riciclo. E’ interessante, nell’ultima fase, l’oscillazione pendolare del processo di progettazione che vede (in particolare per la sistemazione dell’area a parco) implicati il Comune, suoi consulenti esterni e gli architetti La Col. In una evidente reciproca legittimazione costruita sulla competenza tecnica. Il Comitato della Piattaforma si è dato un’organizzazione molto articolata attraverso 16 commissioni che si occupano, attraverso un processo partecipativo, di diversi temi per lo sviluppo e il mantenimento di Can Batlló tra cui la co-progettazione degli spazi, la gestione dei conflitti, la comunicazione, l’amministrazione, la contrattazione con gli enti pubblici. Una caratteristica importante della Piattaforma è l’eterogeneità dei suoi componenti per età, vissuto personale e formazione professionale e scolastica, convinzioni politiche.
Produzione di servizi Con un progetto di gestione comunitaria e il lavoro volontario e gratuito dei membri della piattaforma sono a oggi stati realizzati al piano terra del Bloc Onze una biblioteca di 300 mq, un bar con un ampio spazio per incontri e concerti e un auditorium di 250 mq e l’11 aprile 2014, dopo due anni di lavoro, sarà inaugurato il rocodromo. Al secondo piano è in via di realizzazione un grande spazio polifunzionale di 750 mq. Sono stati realizzati anche una falegnameria e un piccolo orto collettivo, che in futuro sarà ampliato. Un’attenzione particolare è data alla progettazione architettonica e all’integrazione del Bloc Onze nel contesto del quartiere: gli spazi vengono ristrutturati e modificati seguendo le attribuzioni funzionali decise e votate dalla Piattaforma e adattate al contesto. L’intervento forse più importante, anche dal punto di vista simbolico, è l’abbattimento del muro che chiudeva il perimetro di Can Batlló: l’apertura dell’area e la creazione di un passaggio pedonale e di un piccolo parco giochi per bambini davanti alla vecchia entrata della fabbrica rendono permeabile un’area fino a due anni prima esterna al quartiere. Il progetto prevede molti altri interventi tra cui la realizzazione di orti, di un asilo, la sede di un’università popolare, il parco pubblico, un coworking. L’ultimo piano di sviluppo dell’area concertato con il Comune e l’Immobiliària Gaudir risale al 2011 e prevede una nuova definizione degli spazi destinati a uso abitativo pubblico. A luglio 2014 il Comune inizierà l’iter amministrativo che porterà alla realizzazione di due edifici (UP4 e UP8) per un totale di circa 52 appartamenti, destinati a edilizia residenziale pubblica, assegnando come prima necessità nuovi alloggi alle 46 famiglie colpite dalla demolizione dei vecchi edifici preesistenti. Un altro edificio (UP6) è stato assegnato dal Comune ad una cooperativa abitativa che ha già aperto il bando per l’assegnazione dei 27 alloggi previsti. Il blocco UP5 sarà destinato alla realizzazione di 133 abitazioni residenziali pubbliche. Per il blocco UP7 la cooperativa La Col, appoggiata dalla Piattaforma, ha proposto la realizzazione di una cooperativa abitativa sul modello del cohousing scandinavo.
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Vecchie retoriche e nuove abilità Come in molte altre situazioni analoghe, a Can Battlò si realizzano servizi in una fase di crisi di welfare. Ciò che forse ne definisce la particolarità non è tanto l’articolato e rigido impianto organizzativo (i 16 comitati), quanto il legame con un luogo di cui si enfatizzano i connotati e si esalta la memoria storica. Can Batlló nasce come espressione di un quartiere che ha precise caratteristiche socio-culturali. Non vuole essere un luogo neutro, ma espressione e luogo simbolo della identità operaia del quartiere. L’essere nel contempo radicalizzati in un luogo e in una memoria da un lato, e aperti all’intera città alla quale ci si propone, come modello replicabile dall’altro riefinisce un nodo di questioni non facile da districare. Tra vecchie retoriche e nuove abilità. 1.
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TraversĂŠe centrale, fonte WikipĂŠdia
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Centquatre e Place de la République, Paris Uno spazio pubblico ordinario
Patrizia Toscano PhD candidate Ud’A
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La condizione di crisi che, a partire dal 2008, ha segnato e continua a segnare la realtà urbana globale, ed in particolar modo quella del vecchio continente, ha evidentemente svariati volti: finanziario-economico, sociale, politico, progettuale e semantico, per citarne alcuni. Tuttavia si parla di “crisi dello spazio pubblico” e “declino della sfera pubblica” già da decenni, basti pensare alle posizioni assunte dapprima da H. Arendt, poi da R. Sennett, M. Davis e M. Sorkin – che fanno parte delle cosiddette narrative of loss - legate da un atteggiamento nostalgico verso lo spazio pubblico del passato. Parallelamente alle posizioni pessimistiche nei riguardi della possibilità di generare ancora spazi pubblici adeguati, già a partire dagli anni Novanta assistiamo all’emergere di posizioni più ottimistiche a riguardo. Margareth Crawford, ad esempio, attraverso la sua teoria dell’Everyday Urbanism, afferma l’esistenza di un nuovo dinamismo presente in città, generato dall’azione dei cittadini che, attraverso i loro gesti quotidiani, ridisegnano costantemente lo spazio urbano, adeguandolo alle loro aspettative e necessità, seppur parziali e temporanee. Il filosofo tedesco Oscar Negt suggerisce, inoltre, di leggere le espressioni del contrasto come dimostrazione di una certa vitalità urbana. Nell’espace public oppositionnel, il conflitto non viene più demonizzato, ma interpretato come chiave di lettura della realtà urbana post-moderna. Lo stato di crisi, se da un lato ha penalizzato il territorio europeo dal punto di vista economico, produttivo, dei servizi e risorse, dall’altro ha favorito l’emergere di numerose manifestazioni di trasformazione dal basso della città. Tali fenomeni, sorvolando su ogni aspetto contraddittorio legato all’attivismo urbano, alla politica e alla gestione entre nous degli spazi, mettono in campo nuove domande circa gli usi dello spazio pubblico, ma anche circa il rapporto tra autorialità del progetto e azione collettiva, questioni ormai ineludibili per la cultura architettonica. Parlare di crisi dello spazio pubblico oggi, significa affrontare lo smarrimento rispetto ad ogni sua tradizionale definizione. La prima operazione necessaria è quella che lavora per ricostruire una semantica dello spazio pubblico, la seconda quella di comprendere in che direzione debba muoversi il progetto. In primo luogo per ‘aggiornare’ il significato di spazio pubblico occorre “cogliere il mutamento di gerarchie e valori”, leggere lo spazio con uno sguardo sensibile e pragmatico allo stesso tempo, ripartire da una lettura “a bassa definizione”1 della realtà, dell’ordinario fatto di luoghi, abitanti e pratiche. È necessario diffidare delle rappresentazioni di una società aggregata, che sono spesso l’eredità di una letteratura e di un immaginario della città superato. Ripartire dall’ordinario significa riscoprire l’As Found degli Smithson, in quanto “estetica, un modo di guardare le cose per scoprire la bellezza in ciò che è ordinario e quotidiano. Per circoscrivere all’architettura: una capacità di lavorare sull’appropriazione della costruzione e sulla sua immagine”2. L’As Found come metafora, ci suggerisce una lettura e un’interpretazione della realtà volta a scoprire le sue potenzialità ignorate. Si tratta della tendenza a lavorare con ciò che si ha, a riconoscere l’esistente e seguire le sue tracce con interesse (Lichtenstein, Schregenberger, 2001).
1. Il tema della “bassa definizione” è un chiaro riferimento al concetto di Lo-fi Architecture, promosso da Luca Emanueli, Mario Lupano e Marco Navarra, definito in prima istanza come un attitudine al progetto, un modo di operare in architettura, ma non solo. Il progetto Lo-fi ha il senso del non finito, non risolto, aperto, ma dall’alta qualità concettuale, in tensione continua per trasformarsi in Hi-fi. 2. F. Garofalo, “As Found”, in M. Lupano, L. Emanueli, M. Navarra, Lo-Fi. Architecture as curatorial Practice, Marsilio, Venezia 2010, p. 128.
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Note sul Metodo La ricerca sul campo, volta alla reale comprensione degli spazi nella loro dimensione fisica e sociale, è stata condotta attraverso un duplice approccio: diretto e indiretto. Il metodo diretto fa riferimento all’idea di “Insistenza Urbana”3, nonché all’esperienza descritta da George Perec in Tentativo di esaurimento di un luogo parigino (1975). Il metodo si basta sull’insistere in un luogo, che significa restare fermi, fissi, seduti da qualche parte per lungo tempo, contrariamente al movimento che caratterizza oggi una maniera riconosciuta di conoscere la città. Fermarsi significa cambiare punto di vista e di posizione nello spazio, osservarlo e non percorrerlo. Vuol dire tornare nello stesso luogo ogni giorno, scegliere un punto in cui stare fermi ad osservare, avere una visione del tempo ciclica e non lineare. Questo metodo ci consente di imparare a conoscere i luoghi grazie al tempo ivi trascorso. Il risultato dei sopralluoghi sono appunti liberi, presi durante ogni visita, accompagnati da foto scattate nelle medesime occasioni. Si tratta di riflessioni, impressioni, constatazioni, interrogativi, che hanno lo scopo di aiutare il lettore nella comprensione della dimensione immateriale dei luoghi in questione, oltre che di quella fisica. Il metodo indiretto, invece, si appoggia da un lato alle interviste e dall’altro alla fotografia. Nel primo caso ho coinvolto l’architetto Vintent Hertenberger, collaboratore dello studio TVK e responsabile del progetto per Place de la République in tutte le sue fasi, dal concorso al cantiere, e Ricardo Basualdo, ex consulente del Comune di Parigi nonché ideatore del progetto culturale per il Centquatre. I loro racconti sono stati utili per la conoscenza delle varie fasi di ideazione e sviluppo dei progetti, delle vicende e le figure coinvolte nel processo di trasformazione dei luoghi. È stato interessante, inoltre, osservare insieme quello che questi spazi sono divenuti, conclusa la fase di realizzazione e iniziata quella di fruizione/appropriazione.
3. A. De Biase, Insistence Urbaine, in ReDOBRA n. 12/2013; 4. “From Berenice Abbott to Walker Evans to Bill Brandt to Henry Cartier-Bresson, street photography gradually took on the social and cultural features that made it a major cultural praxis of the 20th century”, in G. Baird, Publc Space. Cultural / Political Theory / Street Photography, SUN, Amsterdam 2011, p. 57.
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Mentre urbanisti e architetti hanno ignorato per decenni la città ordinaria, i fotografi4 e cineasti, a partire in particolare dagli anni Novanta, ne hanno fatto il centro delle loro ricerche, mettendo in luce una città che stava cambiando in modo drastico. Il secondo strumento scelto per la conoscenza indiretta dei luoghi in questione deriva dalle arti visive ed è appunto la street photography, non d’autore, ma quella ‘ordinaria’, prodotta dagli stessi fruitori degli spazi pubblici. Mi sono servita delle nuove tecnologie informatiche per il reperimento di immagini pubblicate dagli utenti della rete in un’applicazione per dispositivi tablet e smartphone molto diffusa, chiamata Instagram. Si tratta di un’applicazione gratuita che permette agli utenti di scattare foto, video e condividerli sui principali social network. Questa app consente di immettere speciali tag, chiamati hashtag che, inseriti come commenti alle immagini, creano delle etichette utili a rendere le foto facilmente ricercabili. Gli utenti di Istagram li hanno creati sia per Place de la République (#placerepublique, #placedelarepublique, #placedelarepublique2013, #placedelarepubliqueparis) che per il Centquatre (#centquatre). Ho consultato costantemente gli hashtag sopracitati, recuperando gli scatti pubblicati di giorno in giorno con uno stamp dal mio smartphone, in modo che siano visibili i nickname degli utenti, le immagini, gli apprezzamenti, i tag e i commenti. Questa operazione consente di ottenere informazioni sui luoghi, sul tipo di pubblico che li frequenta, sugli eventi che vi si svolgono. La cosa più interessante è conoscere, attraverso
La ricerca sul campo, volta alla reale comprensione degli spazi nella loro dimensione fisica e sociale, è stata condotta attraverso un duplice approccio: diretto e indiretto. Il metodo diretto fa riferimento all'idea di “Insistenza Urbana”3, nonché all'esperienza descritta da George Perec in Tentativo di esaurimento di un luogo parigino (1975). Il metodo si basta sull'insistere in un luogo, che significa restare fermi, fissi, seduti da qualche parte per lungo tempo, contrariamente al movimento che caratterizza oggi una maniera riconosciuta di conoscere la città. Fermarsi significa cambiare punto di vista e di posizione nello spazio, osservarlo e non percorrerlo. Vuol dire tornare nello stesso luogo ogni giorno, scegliere un punto in cui stare fermi ad osservare, avere una visione del tempo ciclica e non lineare. Questo metodo ci consente di imparare a conoscere i luoghi grazie al tempo ivi trascorso. Il risultato dei sopralluoghi sono appunti liberi, presi durante ogni visita, accompagnati da foto scattate nelle medesime occasioni. Si tratta di riflessioni, impressioni, constatazioni, interrogativi, che hanno lo scopo di aiutare il lettore nella comprensione della dimensione immateriale dei luoghi in questione, oltre che di quella fisica.
figura 1-2-3-4-5-6-7-8-9. Foto scattate durante i sopralluoghi
[ fig. 1-2-3-4-5-6-7-8-9. Foto scattate durante i sopralluoghi ]
Il metodo indiretto, invece, si appoggia da un lato alle interviste e dall'altro alla fotografia. Nel primo caso ho coinvolto l'architetto Vintent Hertenberger, collaboratore dello studio TVK e responsabile del progetto per Place de la République in tutte le sue fasi, dal concorso al cantiere, e Ricardo Basualdo, ex consulente del Comune di Parigi nonché ideatore del progetto culturale per il Centquatre. I loro racconti sono stati utili per la conoscenza delle varie fasi di ideazione e sviluppo dei progetti, delle vicende e le figure coinvolte nel processo di trasformazione dei luoghi. È stato interessante, inoltre, osservare insieme quello che questi spazi sono divenuti, conclusa la fase di realizzazione e iniziata quella di fruizione/appropriazione.
3 A. De Biase, Insistence Urbaine, in ReDOBRA n. 12/2013; 1.
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rete in un'applicazione per dispositivi tablet e smartphone molto diffusa, chiamata Instagram. Si tratta di un'applicazione gratuita che permette agli utenti di scattare foto, video e condividerli sui principali social network. Questa app consente di immettere speciali tag, chiamati hashtag che, inseriti come commenti alle immagini, creano delle etichette utili a rendere le foto facilmente ricercabili. Gli utenti di Istagram li hanno creati sia per Place de la République (#placerepublique, #placedelarepublique, #placedelarepublique2013, #placedelarepubliqueparis) che per il Centquatre (#centquatre). Ho consultato costantemente gli hashtag sopracitati, recuperando gli scatti pubblicati di giorno in giorno con uno stamp dal mio smartphone, in modo che siano visibili i nickname degli utenti, le immagini, gli apprezzamenti, i tag e i commenti. Questa operazione consente di ottenere informazioni sui luoghi, sul tipo di pubblico che li frequenta, sugli eventi che vi si svolgono. La cosa più interessante è conoscere, attraverso la fotografia, la 'rappresentazione' che gli utenti producono di quei luoghi, il loro racconto per immagini, ricercato attraverso gli occhi (oltre che il supporto digitale) del pubblico, scarichi di sovrastrutture preconcette, riferimenti teorici, e spensieratamente concentrati sul reale.
[ fig. 10-11-12-13 Instagram #centquatre; fig. 14-15-16-17 Instagram #placedelarepublique ]
Consapevole della non esaustività del metodo, ma alla ricerca dell'intersezione della vista dall'alto con quella dal basso, ho trovato in Instagram un valido supporto per descrivere, parafrasando Perec, “ciò di cui normalmente non si prende nota”. I nuovi linguaggi multimediali saranno meno scientifici, non forniranno dei dati certi e costanti, ma un quadro interessante del substrato sociale di un luogo, si. Accettare una lettura parziale, incerta e indeterminata della realtà apre il nostro sguardo di ricercatori a nuove prospettive e livelli di conoscenza della città contemporanea.
Abbott to Walker Evans to Bill Brandt to Henry Cartier-Bresson, street photography gradually took on the social ures that made it a major cultural praxis of the 20th century", in G. Baird, Publc Space. Cultural / Political Photography, SUN, Amsterdam 2011, p. 57.
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fig. 10-11-12-13. Istagram #centwuatre fig. 14-15-16-17 Istagram #placedelarepublique
la fotografia, la ‘rappresentazione’ che gli utenti producono di quei luoghi, il loro racconto per immagini, ricercato attraverso gli occhi (oltre che il supporto digitale) del pubblico, scarichi di sovrastrutture preconcette, riferimenti teorici, e spensieratamente concentrati sul reale. Consapevole della non esaustività del metodo, ma alla ricerca dell’intersezione della vista dall’alto con quella dal basso, ho trovato in Instagram un valido supporto per descrivere, parafrasando Perec, “ciò di cui normalmente non si prende nota”. I nuovi linguaggi multimediali saranno meno scientifici, non forniranno dei dati certi e costanti, ma un quadro interessante del substrato sociale di un luogo, si. Accettare una lettura parziale, incerta e indeterminata della realtà apre il nostro sguardo di ricercatori a nuove prospettive e livelli di conoscenza della città contemporanea.
Centquatre e Place de la République, Paris: Spazi Protetti e Spazi Lisci Il Centquatre nasce nel 2008 dal recupero architettonico dell’edificio che accoglieva le ex Pompe Funebri della città di Parigi (SMPF). La sua costruzione risale al 1873, venne utilizzato per il servizio funebre a partire dal 1905 e rimase attivo fino al 1998. A partire dal 2001 la municipalità di Parigi, per volere dell’allora sindaco Beltrand Delanoë, bandisce il concorso per la riqualificazione dell’edificio e la sua conversione in centro artistico della città, all’interno di un vasto programma di riqualificazione urbana. Il concorso di progettazione premia il progetto elaborato dallo studio parigino di Atelier Novembre che rispetta sostanzialmente i volumi esistenti e lascia il corridoio centrale a disposizione degli usi più svariati dei frequentatori. L’apertura al pubblico del nuovo Centquatre, che prende il nome dal civico in rue d’Aubervilliers, avviene l’11 Ottobre 2008 con un concerto gratuito che richiama ben 60.000 persone e la presentazione della mostra “Paris, dernier voyage, Histoire des Pompes funèbres (XIXe-XXe siècles)”, dedicata alla sua precedente destinazione d’uso. Oggi il Centquatre è un centro artistico comunale che si propone come spazio di programmazione e creazione, di esperienza e di innovazione, permeabile alle vibrazioni del mondo contemporaneo, luogo di vita e convivialità per artisti e pubblico. È un luogo in cui si respira creatività, condivisione, voglia di stare insieme. La sua struttura chiusa e al tempo stesso aperta lo rende un importante spazio pubblico per il quartiere della Flandre. È una sorta di galleria aperta sui due lati corti, concepita come corridoio urbano ‘protetto’ da una copertura in vetro e di collegamento per il quartiere. Aperto alle numerose pratiche artistiche e culturali odierne così come alle espressioni spontanee, questo spazio culturale è ubicato all’interno del 19° distretto di Parigi al confine con il 18°, immerso in un quartiere molto popolare, piuttosto trascurato e caratterizzato dalla presenza di edilizia sociale fatiscente. La sua presenza funge da elemento attrattore per il circondario, si propone di coinvolgere gli abitanti nelle numerose manifestazioni artistiche proposte, offrendosi come spazio ‘aperto’ e disponibile all’appropriazione, ma allo stesso tempo ‘protetto’ per le sue qualità materiche. 1.
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Il secondo caso studio è uno spazio urbano storico per Parigi, Place de la République, che, dopo notevoli trasformazioni, a partire dal diciottesimo secolo, è stato restituito in veste nuova ai cittadini il 16 giugno 2013, completamente ripensato dal giovane studio di architettura parigino TVK, vincitore del concorso bandito nell’Aprile 2009. La piazza è situata all’incrocio di tre arrondissements ed è il crocevia di ben sette boulevard che la collegano a punti nevralgici e simbolici della città tra i quali Nation, Bastille, Le Marais ed il Canal St. Martin. È da sempre un importante crocevia per la città in cui si intersecano cinque linee metropolitane, numerose linee di autobus e taxi. Il suo attuale impianto urbano è il risultato della visione haussmaniana del Secondo Impero. La sua realizzazione, e quella dei boulevard adiacenti, comportò la distruzione di numerosi teatri che si trovavano su Boulevard du Temple, sorti a partire dal ‘600 insieme a numerose attività commerciali che facevano di questo posto un luogo del loisir, in cui classi sociali diverse si mescolavano. Nel 1884 la statua di Marianne, monumento alla Repubblica e simbolo dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità, venne inaugurata e posizionata al centro della piazza, rivolta verso il cuore della città. In epoca moderna il suo impianto ha contribuivo fortemente a dare l’impressione che fosse una rotatoria per la circolazione delle automobili. Il problema del traffico e della scarsa attrattività come luogo dello stare sembra essere stata una delle questioni principali che ha spinto la municipalità di Parigi a bandire un concorso per la riqualificazione della piazza, in cui gli usi erano scarsi e la presenza umana era limitata a quelli a Parigi vengono chiamati sains papier. Si voleva dunque invertire i rapporti tra mobilità lenta e carrabile, favorendo la prima, incrementare la mixitè sociale ed introdurre nuovi usi, quotidiani e straordinari, nonché riqualificare spazialmente la piazza, ridando valore al contesto storico e simbolico del luogo. Place de la République non figura tra le mete turistiche di Parigi ma è conosciuta a livello locale e nazionale come luogo importante perché punto obbligato di passaggio per chi viene a manifestare nella capitale o semplicemente la attraversa percorrendo i grandi boulevard che vi convergono. Queste sue caratteristiche la rendono un luogo potenzialmente in grado di mettere in contatto parti diverse di città e di pubblico. Occorreva pensarla, dunque, come un nuovo spazio a disposizione dell’intera città di Parigi e non del singolo quartiere, caratteristica vincente del progetto di Agence TVK. Oggi la piazza costituisce lo spazio pubblico pedonale più ampio di Parigi (120m x 180m), e si presenta come un vasto plateau che si raccorda agli assi viari che vi confluiscono. Si ispira al concetto di semplicità in cui un vasto suolo liscio e resistente è capace di accogliere gli usi più svariati. Ed è proprio la sua semplice austerità che permette alle attività umane più svariate di riempire la piazza.
Oltre le categorie spaziali, verso uno spazio pubblico ordinario La scelta dei due casi studio è dipesa dalla loro apparente appartenenza a categorie spaziali diverse e quasi opposte, interessanti in quanto emblemi di luoghi, situazioni, caratteri differenti che convivono nella città di oggi. Si tratta 1.
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degli spazi protetti e degli spazi lisci. I primi hanno come riferimento ideologico gli spazi descritti da Peter Sloterdijk in Sfere 1, Bolle, nonché nel saggio Gusci per rifugiarsi dal mondo, e sono quelli che offrono riparo a chi avverte la sensazione di inadeguatezza e di disagio esistenziale e artistico tramite un’operazione di de-escalation spaziale o di “RiCollocamento”: ossia di riduzione della superficie di attrito con il tutto, che significa riadattarsi ad uno spazio più preciso e adeguato. Il caso del Centquatre sembrerebbe appartenere a questa categoria poiché la sua dimensione spaziale suggerisce intimità tra pochi. La vita pubblica all’interno di questo luogo è affidata al grande corridoio centrale in cui si ritrovano quotidianamente gruppi di persone accomunate dagli stessi interessi, per lo più ragazzi che si esercitano nella danza contemporanea, break dance, giocoleria. Ma si tratta anche di uno spazio che accoglie bambini e genitori o baby sitter nello spazio della Maison de Petits dedicato ai piccoli. L’idea alla base dell’iniziativa che ha condotto alla sua riqualificazione era quella di avvicinare gli abitanti del quartiere alla cultura e all’arte contemporanea, mettendo a loro totale e libera disposizione lo spazio centrale dell’edificio. Il concetto di “protezione” nel Centquatre è associato anche ad un discorso sociale. La musica, la danza, le attività proposte e le arti in genere a cui si avvicinano i ragazzi che lo frequentano, probabilmente li allontanano da altri tipi di attività, più o meno lecite, fortemente radicate in questo quartiere. Gli spazi lisci, invece, sono quelli che rendono possibile la colonizzazione da parte di quegli utenti descritti da Jean Luc Nancy in La comunità inoperosa. L’autore affronta in quest’opera il concetto di “comunità” e “bene comune”, consapevole della difficoltà di definirli in maniera univoca, suggerisce di superare una rappresentazione della comunità come essenza pre-costituita da realizzare, scardinando così ogni posizione esistenzialistica a riguardo. La comunità inoperosa di cui parla, nega l’unità e afferma la sua molteplicità e costituzione di singolarità, che stanno insieme secondo il principio della com-parizione, ossia dell’apparire insieme. Gli spazi adatti a questo modello di comunità sono quelli della Modernità, quelli lisci e neutri, disponibili alla colonizzazione da parti di categorie differenti di pubblico, per questo allineabili con il caso di Place de la République. In questo caso il modello di spazio pubblico di riferimento è quello della “prossimità”, legato alla voglia di esporsi in pubblico, negoziando lo spazio da condividere con gli altri. In realtà, facendo ricerca sul campo e cercando di capire come funzionano realmente questi luoghi nella loro dimensione sociale, oltre che spaziale, attraverso i numerosi sopralluoghi, l’osservazione dei comportamenti degli utenti, il loro modo di stare in pubblico, la loro rappresentazione dei luoghi tramite la fotografia, emerge una realtà che supera le categorie tradizionali di ‘protezione, prossimità
fig. 16-17,Place de la République, Parigi, prima e dopo l’intervento di riqualificazione urbana
loisir, in cui classi sociali diverse si mescolavano.
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e densità’. I nuovi spazi pubblici, infatti, possono contenere in sé al contempo le tre traiettorie, accoglierne solo alcune o negarle tutte, in maniera temporanea e intermittente, in relazione al tipo di pubblico e agli usi che ne fa. Nel Centquatre, ad esempio, convive la tendenza a ricercare intimità, raccogliendosi in uno spazio “protetto” all’interno di un quartiere difficile, con la voglia di prossimità, ossia di esibizione del proprio sé, di negoziazione di uno spazio limitato a disposizione, quindi di convivenza con prossimo. In Place de la République, invece, convive il desiderio di prossimità, con quello di densità, con il desiderio di socialità urbana, scambio, serendipity, ossia di stare con gli altri nello spazio pubblico. Nel momento in cui entrano in crisi le tradizionali traiettorie che definiscono il carattere degli spazi pubblici perché i comportamenti si mescolano e si sovrappongono, emerge la necessità di andare oltre tali categorie prefissate e accettare i nuovi modi di stare in pubblico per quello che sono, sorvolando momentaneamente le critiche all’individualismo che guida la nostra società. Di fatti, anche se il pubblico si compone di numerose ‘tribù’ urbane legate da un interesse specifico, che non si mescolano tra di loro, è da apprezzare il fatto che convivano in uno stesso luogo negoziando lo spazio. I processi di socializzazione e di avvicinamento tra le persone sono lenti e hanno bisogno di tempo, l’importante è mettere a disposizione uno spazio comune. Quale è, allora, l’idea di spazio pubblico più adatta alla realtà urbana e sociale odierna? La mia ricerca non intende definire un protocollo di progettazione dello spazio pubblico contemporaneo, ma vuole limitarsi suggerire degli indirizzi plausibili, sulla base dello studio dei due casi parigini che mette in evidenza gli aspetti vincenti e quelli problematici dei due progetti. È necessario, innanzitutto, evidenziare che per entrambi i casi, c’è un’azione combinata e virtuosa di un progetto che fornisce uno spazio neutro e disponibile all’appropriazione, e della gestione da parte, in entrambi i casi, della municipalità di Parigi, che alterna eventi e manifestazioni temporanee a momenti di calma che lasciano spazio all’iniziativa individuale. In secondo luogo per ambedue i casi emerge un aspetto fondamentale: il vuoto come vettore di possibilità di socializzazione, il vuoto che unisce. In Place de la République, il voluto minimalismo e l’austerità sono riusciti a colmare una mancanza con il vuoto, che è allo stesso tempo portatore di gioia e di tristezza, è un inno alla diversità, un luogo frequentato da ragazzi alla moda, migranti, poveri, clochard, turisti, in cui giovani e anziani si avvicinano. Nel Centquatre, nonostante la sua condizione di edificio concluso, è il vuoto del corridoio centrale, non a caso chiamato Le Jardin, che accoglie il pubblico che lo anima con varie attività. L’operazione vincente, in questi due casi, è stata quella di Désintensifier l’espace, ossia di indebolire lo spazio: un’azione progettuale assolutamente paradossale, oggi, davanti ad una politica che mira a riempire tempo e spazio della città, vista come uno spettacolo continuo (Augé, 1994). La sfida del progetto per lo spazio pubblico ordinario è quella di riuscire ad accogliere pratiche e usi inattesi e spontanei, giocando la carta dell’indeterminatezza, della disponibilità spaziale, dell’apertura, della mancata attribuzione di funzioni specifiche, in fine della rinuncia all’autorialità a tutti i costi. Tuttavia non bisogna dimenticare che “architetti e urbanisti sono attori importanti nello spazio pubblico, ma non sono gli unici. L’urbanistica è una faccenda di esperti, mediatori sociali e, soprattutto, cittadini comuni. Quando un urbanista progetta un potenziale spazio pubblico, egli pone alla società urbana una domanda: 1.
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accettereste di trasformare questo spazio pubblico virtuale in uno spazio pubblico reale? Il pubblico avrà l’ultima parola” (Levy, 2012).
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Madrid City as prototype. A situationist frame for pragmatic social action Dario Negueruela del Castillo PhD candidate EPFL
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In which ways does the current resonances of crisis affect current evolution of public space in European cities? When considering such question and in order to reconsider the validity of the vocabulary and the conceptual framing, letâ&#x20AC;&#x2122;s consider for an instant a specific an apparently isolated recent event. In July 2013, the municipal government of Madrid approved and signed the sale of a package of more than 3.800 social housing units to real state funds controlled by Goldman Sachs, Blackstone and HIG Capital. Compared to a total of 1.530.957 dwellings in the city of Madrid and framed in the recent schemes of privatizations, such an operation might seem minute, anecdotic, disregardable. However, if we formulate it into a question, What do hedge funds like Goldman Sachs do involved in managing municipal social housing in a society undergoing a rapid social deterioration? it might, in turn, become an operative thread, perhaps capable of unveiling the changes in the governance and property of the urban tissue and, therefore, providing us with new conceptual positioning understanding the mutation of public space among the ruins of the welfare state in this times of change. This article develops analyses the changes undergone in the nature, practice and paradigmatic position of public space in the city of Madrid and places these changes under the emergence of the prototype as a new paradigm that re-edits the culture of the open city and invites us to re-question common public life in our contemporary European cities
City of conflict and the shifting substance of public space Much has been written on the changes in the body of urbanity and, by extension, on the nature of urban public space in our European cities along the course of this crisis. Times of austerity have come to change the face of many capitals and important European urban areas and many scholars have echoed these transformations inscribing them in a long genealogy of conflicts, belonging to a more fundamental t category of the urban. After the identification of the plunder of speculative capital into cities as a new urban, Donzelot has recently come to say that la ville ne fait plus society, in a clear colophon to the catalogue contemporary unmaking of cities in Europe (2012). Such annotated commentaries of the loss of vitality and sociality of public life in cities follow analyses of the ways in which cities, as the physical realization of the urban mode of life, constantly seem to conjugate particular conditions of economic and social inequality and exacerbate 1.
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the production at once of injustice and domination, de-structuration and control. If the nature of urbanity, despite its slippery nature and its seemingly ambivalent potential, can be considered to play an in-substitutable role, the degree to which its deterioration is followed by the emergence of new ways of urban sociality is not fully identified nor accounted for in the literature, perhaps due to the shifting substance of public space . Recent urban protests are subject to comparison with the luttes urbaines of the 60s and 70s. Coinciding with Castells, we might easily consider them incapable of any fundamental change in society due to their inherent contradictions linking general claims about democracy and concrete aspects of local urban problems. Touching on a dualistic opposition of the conditions of public space and the essence of communitarian use of space by social movements and urban social aggregates (LĂ&#x2030;VY), this difficulty may be overcome by revisiting a lefebvreian notion of centrality as a particular form of spatial justice in the access to opportunities. Beyond traditional conflicts over the space of the city in the form of publicity versus communitarism, the re edition of moments of commonality seem to conjugate local issues of accessibility with general principles of democracy1 through double fold: first, a particular defence of the structures of welfare state and their patrimonialisation against the public regime of institutional order; and, second, their radical embodied exercise of spatial justice and democracy though open assemblies and direct actions. Therefore, in contrast with this literature that has come to identify the role of the city in the contemporary processes of social segregation and social malaise (DONZELOT, TOURAINE, SEVILLA, BRENNER, ELDEN, MERRIFIELD, SMITH, HARVEY among others), we can identify a parallel contemporary condition in which the expansion of public affairs has regained the level of the street with unforeseen emotional strength and apparent de-structuration. Urban public space seems no longer a stage for the mediation and representation of conflict for public life; It is rather the confirmation of a change in the model of city and its regime of urban public space. Citizens have come to deny their status as the uniformed passive and idealised public of liberal-social democracies, but regain their problematic status of a multitude that is more regulated by ignitions of emotional and moral convergence over the commonalities of space and rights.
From segregation to urban malaise In southern European countries, which have seen a weaker and more incomplete construction of the welfare state model (NAVARRO 2010), the current crisis seems to have become the standard status of our everyday reality, and behind its cover of spectacle and shock, it is being used to redefine new power regimes in urban milieus by the instauration of a permanent state of exception. Under these premises, the massive privatization of public services and structures prior considered to be strategic and requiring public intervention through the state, do not only reconfigure the physical dimension of the metropolitan territories, but
1. Both democracy and the neighborhood have been present in the claims and discourses of these social movements since the mobilizations of the 15th of May of 2011.
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also their political and social aspects. It is done so through a steady deconstruction of the notion of inclusive public space; a process that has installed some southern European cities in what we could define as a state of stabilized urban malaise, combining fragmentation and state of exception. Following the years of Madrid’s metropolitan expansion (until 2008), the implementation of an urban geography of fragmentation constitutes a veritable shattering and not just simple process of increasing segregation. It leaves behind a landscape in reorganization, both in social, economic and legal terms and in the physical realm. The rapid increase in social inequalities captured by the impressive evolution in the Gini coefficient2, tells us of a societal rupture of which the urban dimension is unfolding in unforeseeable ways. This geography of fragmentation is accompanied by the establishment of a state of exception/exemption, further denying in practice the access to the cohesive public space upon which the urbanity of capitalist western democracies seemed to be founded. The project for approving a new Law of Citizens’ Security has implemented a series of fines for particular kinds of protest increasing the pressure on civil pacific forms of protest (1.117 procedures in Madrid in year 2012). Has exacerbated the atmosphere of repression as denounced by Several international organizations like Amnesty International (2013). Following the boost in protests, both the municipal government in Madrid, as well as the central government, have tried to delimit and restrict the right to demonstrate in public space, with the establishment of zones of exemption in the city centre, claiming reasons such as protection of cultural heritage, tourism or the priority of questions of general interest such as mass mobility. Such plans are in clear contradiction to the constitution3. This is complemented by the regime of forced house evictions that is implemented by the authorities and owners of the housing stock, mostly private banks and state agencies gathering the “toxic” real estate assets of nationalised banks. The number of evictions reached 67.189 in 2013, 10%of which in Madrid, creating a social tragedy condemned by the Court of Justice of the European Union4.
2. 2,85 in 2011, leading inequality in Europe after Romania Bulgaria and Latvia. EUROSTAT 3. El plural 28.03.2014. 4. Sentence of the Court of Justice, 14th of march 2013 * 5. The regional government’s plan to privatize 7 public hospitals has been rejected as anticonstitutional by the Supreme Court of Justice after the initiative to press charges by the marea blanca in defense of the public health system. El Pais. 27.01.2014
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With the state on the retreat, social housing, public hospitals5 and schools are subject of serious conflict between private speculative capital and citizens’ and civic rights movements. From the ashes of the welfare state into a realm of conflict in which the apparent relinquishing public realm is subject to both a new hegemonic role of private finance following at once both the retreat of the state and an increased control over space; the state has moved from its role as a promoter of public structures of well-being into the guardian on the grounds of who owns and who uses urban space. As such, public space is now subject to the re-affirmation of a historical pendular tension between state normativity and emergent popular sovereignty over a common space.
Commonality in conflict, bodily reactions Responding to the call of discontempt the movement of the mareas ciudadanas emerges punctually, in the form of both organised demonstrations and informal actions of defence of structures of public service. An example is Stop Desahucios (Stop evictions), gathering spontaneous volunteers to stop house evictions, sometimes with spectacular results and open confrontation with state forces. These actions are now more and more connected to other forms of occupations that blend the informality of the squat movement with the defence of the structures and services of an agonising welfare state. Liquid, decentralised and heterogeneous, these movements question public space as an ideological embodied construction which is no longer valid, casting, through conflict and self-organization, a territorialisation over a regained sovereign space. Such territorialisation is no exempt of contradictions. The search for an inclusive self- management of space in the forms of assemblies has been identified to be a clear link with the squat movement (MARTINEZ, GARCIA 2010). Against urban fragmentation and social segregation these movements seek a reconstitution of particular and specific accessibilities that range from the collective to the individual with an implicit model of cohabitation that moves into the informal patrimonialisation of common space.
Public space unmasked; commonality otherwise and elsewhere The project of public space so celebrated by both European architects and planners as a sort of essence of the European city has capitulated to future as a fragile theme park surrounded by leaky fences militarization of urban space and the policies of control. However, this is no longer just happening in suburbia, it is affecting the core of what was meant to be place of maximum urbanity, see centrality in a lefebvrian sense, and the buffer for social difference. The shrinking field for sociality unveils the increasingly evident contradictions of a project of public space supported by a network of physical structures of public space, which projected for an audience of citizens indoctrinated in the dance of democratic equality. Such choreography is no longer valid and increasingly reveals the resurfacing of an ancient opposition between the category of public (as collective political strata of citizens, but also with its appeal to the idea of an audience of passive public, of â&#x20AC;&#x153;auditorioâ&#x20AC;?) and that of the multitude (the foul, la turba) of undifferentiated individuals that gather and act according to supposedly irrational impulses (DELGADO 2011). Such indiscipline has traditionally been deplored as primitive, as evil and even as feminine in its hysterical character (ibidem). It is in this opposition that we can better appreciate the moral economies motivating the revolts of apparently un-combinable citizens. Beyond dilemmas of espace public or espace communautaire, the expansion of the public does not follow anymore any Habermasian notion of public sphere 1.
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in which the good civic practices constitute the construction of public order and guarantee the necessary buffer capable of assuming the social differences and subsume them into pacified civility. As the new movements have gathered momentum despite the pessimistic forecasts that disregarded them as yet another inoffensive form of entertainment of the jeunesse altermondialiste, they paradoxically reunite at once the anonymity required by the multitude with a radically re-found form of extimité. The best example of such denial of the traditional schemes by which we used to measure the appropriateness of public behaviour are the most extreme cases of collective anonymous recognition with individual cases of perceived injustice, mobilising the moral economies of the crowd (THOMPSON 1971). The relevance of the Stop desahucios campaign resides in the fact that through gathering mostly anonymous volunteers to stop the evictions of particulars, it has created loose networks of aid that do not respond to strong affiliation, as in the case of the community principle, but, instead, to a notion of perceived injustice that touches a common right and mobilises a momentary reaction of volunteers responding to a variety of motivations. It thus redefines the once static geography of urban housing as a new pulsating milieu where the collective articulation of concrete resistances allows for a construction of a new imaginary.
From situationality to recursivity Such reconciliation of anonymity and extimité is at once ironically revisiting and denying the ideal of the anonymous citizen surfing a field of market choices by preference and the concept of urbanity capable rendering the crossing of mixity and a rootless modern citizen into a project of public space and public sphere. We pass therefore from a pragmatist consideration of situationality as a characteristic way of conducting urban life, in the manner suggested by Louis Wirth (1938), to a situationist frame as criterion informing pragmatic social action (DELGADO 2011). Public space, as the arena for conducting this situationality is the process of implosion due to its spectacular dimension. As a mirage of its supporting discourse, it is no longer the theatre for exposing and managing difference, but the place for exercising exclusion. The extreme rate at which the coordinated wave of urban gentrification and lifestyles production absorb urban counterculture, in special degree the phenomenon of the squat, allows us to depict that we have already moved into a new phase. Seen as trendy hubs for the very narrow new creative class, they capitalise the phenomenon of alternative culture to render it as an innovative incubator of new ready to consume lifestyles. From the notorious ‘pacification by cappuccino’ (ZUKIN 2010), now we have assimilation/neutralisation by hipsterism. The expansion of institutional capitalist urban regime has made the immediate, the fleeting, the superficial the only little space left for the alternative. Moments 1.
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of gathering are therefore spontaneous connections and locate urbanity in the politics of the situation. Such resonance is also present in the form of radical parlamentarism exercised and vindicated by these movements, which is combined and intimately linked to the liquid and magmatic nature of the outbursts of indignation and gathering. In Madrid, many open citizen’s assemblies were indeed first issued from demonstrators spontaneously deciding to stay in a given location. The network is one of the preferred figures of these social movements, constantly evoked in all sorts of discourses, where the “utopia of unanchored, uprooted individuals and without body has become tangible in a universe of instantaneities” (DELGADO 2011, 54). If it is true that an expression like “network of actors” has to a certain extent substituted other political subjects, the horizontality of such a notion like the network, however, even if willing to overcome traditional vocabularies belonging to classical ideologies, does not prevent the clear identification of collective identities and their structuring into political actions. Carl Offe points at the essentially intra-locutory rather than inter-locutory nature of these movements, which seem to have little to offer when asked by an external (ibidem). However, in the accelerated and oversimplified era of teledemocracy, negotiation at the urban level has been simplified to a caricature, as if the participation in the urban space could be equalled to the automatic respond yes or no to the next billboard. Rather, the assembly acts, intervenes and restores public life, this time with full political implications, as a dense experience capable of turning alienation into possibility. Under this light, the analysis of public space ought to elude a still pervasive Durkheimian notion of space as location, embracing instead a reconsideration of space as capacity and linking it ontologically to the notion of agency. As Corsin Jimenez puts it “(…) space is no longer ‘out there’, but a condition or facultya capacity-of social relationships. It is what people do and not where they are” (2003). Along these lines, new social interventions in public space revisit the culture of open city, coining a new paradigm which reunites active participation with the culture of the prototype (CORSIN JIMENEZ 2012).
Change of model, towards the prototype If the project of public space at once is being emptied out of and, explodes due to social contestation in an urban fragmented body, it is further accompanied by a vanishing of the model of city. In year 2012 Urban Extension Plans (PAUs) have recently been declared illegal by the Superior Court of Justice of Madrid, affecting more than 135.303 projected housing units, among which many have already started to be built or are actually inhabited. This firm sentence leaves in a fragile limbo a whole conception of city growth and expansion. And shakes the very foundation upon which urban dwellers accepted the unstoppable alienation from a machine of growth and exclusion they could not intervene nor stop. 1.
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Just as the scene of urban decay is measured by the coupling of control and fear, the vitality of public life is best signaled by the flourishing of the associative movement and the direct interventions in search of an embodied spatial justice. In particular, the actions of Stop desahucios emerge powerfully in the collective imaginary as a hinge which signals the shift into a new intervenable geography of collaboration and direct intervention. The incommensurable and often abstract entity of the city as a whole is reconciled again with the dimension of the everyday experience, and the rush of heterogeneous and non-affiliated individuals that gather to act, to respond, to debate. Public space is again reconstructed, tentatively, by the crossing of popular assemblies and the physical supports of streets and squares that provide, once more, the base for a dense liquid commonality in freedom which is the base for urbanity. Once again, as it happened with previous urban social movements issued from other urban struggles, the risk of fetishizing the local and the immediate and forgetting the structural hierarchies of capital shaping urban reality are identified by many as their potential weakness, preventing them from becoming major actors of structural change. However, in an era in which politics are played in the millisecond dimension of immediacy, these new examples of social movements appeal to affect and the emotive. Shifting the scene of urbanity from the stage to the skin, these experiences of city intervention and the emergence of new collective subjects reunite the intuitive perception of individual experience with the necessary empathy upon which to build a commonality. Such commonality is pragmatic ground for encounter and exercise of citizenship. Among the ruins of a depleted model of expansionism and the masquerade of a failed civic equality, no longer supported efectively by the state emerges this prototype as unstable, interveanable and hackable geography, with eruptions of collective actions that re-state temporarily an incomplete yet embodied publicity of urban space, based on the moral economies of the multitude. Without centre, fixed image, nor organic core, these moments of urbanity and citizenship seem to be key to the articulation of the incoming future of the European metropolis within the new horizon of the city as commons.
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IV. Privatizzazioni
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Bruxelles Spatial forms and values of use in the projects of the Community Land Trust1 Verena Lenna PhD candidate IUAV + KU LEUVEN
1 The author would like to thank Geert De Pauw, Lorella Pazienza and Thomas Dawance for the precious
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The Community Land Trust is based on a property formula which prevents speculation. Once profit is eliminated as a possible outcome, the values of use thus emerging reveal new needs and forms of living generated by the contemporary society, in tension between the crisis of the welfare and the bio-cultural changes in course. These values are accordingly manifested in the spatial organization of the projects and embedded in the way in which private, public and common property are articulated. It can be argued that the characteristics of this model, as a whole, valorize ownership and a form of no-profit capital with the main purpose of social mobility. A critical understanding of this apparent paradox should thus be addressed, particularly at the light of the current debates on the â&#x20AC;&#x153;return of the capitalâ&#x20AC;? (Piketty) and in consideration of the urgency to address the needs and aspirations of le plus grand nombre in order to activate a more just redistributive system.
The collage welfare city: recombinant patterns The current economical downturn, the citizenship forms of determination and the inefficiencies of the welfare state are currently supporting a number of practices and interpretations ownership forms that manifest the distance and the fragmented state of what is needed, what is available and the normative frames able to match them, private property being one of these. By necessity or by intellectual curiosity - space is the theatre where a sort of collage welfare city is constantly being recombined, the ready-made elements of the game being empty offices, abandoned warehouses, vacant plots. The activation and the constant networking of the citizens overwrites the inertia or the indetermination of the built space, experiments new forms of cohabitation, generates new opportunities for the emergence of the political. By choice, precarity or better, the fear of precarity, would lead to coagulate resources: long term permanence, stability, sense of community and institutional frameworks acknowledging rights and responsibilities. In between these two, for many reasons complementary, patterns producing the city, the actual model of private property is either incapable to empower the lifestyle evolutions in course, or exclusive: rights and security are only for those who can access it, which equals to fuel a state of growing polarization. 1.
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This is evident in the case of Belgium, where housing policies privilege private property at market conditions (De Decker) and instead of generating redistribution, by undermining the stability of those households that would need it most, they reinforce the distance between rich and poor. By showing new possibilities, forms of property and values of use, the experimental practices reveal and reproduce the mindsets required for their cultural legitimation first, their normative acknowledgement secondly. As part of this process of emergence , it is not enough to acknowledge the inefficiency of the old schemes. If it is true that words make reality2 discourses and vocabulary could also contribute to the performativity of the new models3, especially when they are still marginal prototypes. This is the reason why the case of the Community Land Trust of Brussels is here presented.
The Community Land Trust Brussels4 A Community Land Trust is a no profit organization with the mission to acquire and to manage the land in ownership towards the improvement of the social, economical and environmental interests of a local community5. The land and the built units are made available to realize and to provide affordable housing to low income households, both by selling or by renting them. The range of families and individual addressed corresponds to the low-middle income segment of the population identified in between the values of R.I.S and the values defined by the Fonds du Logement to access loans for home ownership6. But a fundamental difference is that the cost of a dwelling unit acquired via the Community Land Trust can be up to one third less expensive than a comparable unit sold under the market conditions. This is possible by virtue of a system which could be identified as one of the distinguishing, founding elements of the CLT: the property of land is steadily preserved as common and public7, thus avoiding any possible speculation based on the variations of the land plus value. The land on which the dwelling unit is built cannot be sold and cannot be bought. It belongs to the Trust, whose decisional power is expressed by an administrative board composed by three equal parts: the dwellings owners, the neighborhood and the public power representatives8. The decisional power of the Trust is thus the expression of private, common and public interests. Private property concerns only the built part of the dwelling unit. This hybrid property regime thus divides property into two parts: the land is common, the built unit is private. Households who decide to sell their house9 will receive an amount of money which corresponds to the initial capital increased of the 25% calculated on the real estate market plus value. The 69% of the plus value will contribute to maintain the affordability of the dwelling unit, being subtracted to its market price at the moment of the second selling.
2. JL Austin, How to Do Things with Words (Oxford: Oxford University Press, 1965). 3. concerning the inefficiency of the current models of property Nicolas Blomley suggests the validity of the performative approach. Quoting Luiza Bialasiewicz (2007), on pg.33: “Discourse, consequently, “is thus not something that subjects use in order to describe objects; it is that which constitutes both subjects and objects.” According to this approach, on pg 25 “... our representations do not simply describe a world; they may participate in enacting a world into being. The world is no less real as a consequence. But it needs to be thought of differently.” 4. or CLTB in the following pages. 5. “Un CLT est une organisation sans but lucratif destinée à acquérir et gérer du sol en propriété, dans le but d’améliorer les intérêts sociaux, économiques et environnementaux d’une communauté locale” , http:// communitylandtrust.wordpress.com/about/ en-un-peu-plus-de-mots/ 6. “A Bruxelles, les revenus des ménages candidats aux logements CLT ont été fixés dans une fourchette allant du revenu d’intégration social (R.I.S.), c’est-à-dire le revenu de remplacement minimum légal et le revenu maximum pour accéder aux crédits hypothécaires sociaux du Fonds du Logement.” http:/ 7. the region of Brussels being one of the supporting actors in financial terms and as part of the administrative board. 8. “Le CLT est géré démocratiquement et équitablement par les détenteurs des droits d’usage, des représentants des quartiers où il agit, et des représentants des pouvoirs publics” http://communitylandtrust. wordpress.com/about/en-un-peu-plus-demots/ 9. Ownership is acquired through loans that could be provided by the Fonds du Logement but also by other banks, although at less advantaging conditions. The total amount of funds provided by de Fonds du Logement would be not sufficient to support only low income families: for this reason different quota have to be balanced by making the dwelling units accessible to different levels of income, always within the mentioned range.
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The intersection of public, private and common realm is much more than an ownership frame but it characterizes and is made possible by the spatial configuration of projects designed to support sharing or the simple coexistence of users and activities; to mutate the ecology of the neighbouring blocks through the practices of the new inhabitants, thus fueling an interaction with the rest of the city. The CLT project in rue Verheyden exemplifies this transcalar and relational challenge and the implied values of use.
A CLT project in rue Verheyden: spatial forms and values of use
10 “Après deux ans de sensibilisation de nombreux acteurs, la réalisation d’une étude de faisabilité commanditée par le Secrétaire d’Etat au logement écologiste, Christos Doulkeridis, et de nombreuses discussions au niveau du Gouvernement de la Région de Bruxelles-Capitale, la création du CLT bruxellois a finalement été approuvée par ce dernier en date du 20 décembre 2012”. http://communitylandtrust.wordpress.com/ 11 One of the factors determining the choice of the site of realization of a new CLT project is the possible intersection with existing Contracts de Quartier . This on one hand will give the possibility to reduced the amount of required funding; on the other hand, the goal is also to prevent the gentrifying effects that many Contrats de Quartier have actually contributed to produce in the sites of intervention.(Van Criekingen 2006, 2012). 12 “Deux structures forment ensemble le CLT bruxellois. La Fondation d’Utilité Publique CLT Bruxelles est propriétaire des terres où les logements CLT seront construits. L’ASBL CLT Bruxelles est responsable de la gestion au quotidien du patrimoine de la fondation.” http://communitylandtrust.wordpress.com/ 13 The activity of the bowls club will have to be moved in some other available space, maybe involving the presence of another Contrat de Quartier. This would contribute to the thickening of the fabric of relations that this small block as already been able to activate within this months of temporary occupation, waiting for the starting of the renovation works. At present the building is hosting the seat of the CLT offices, rooms for single households and a couple of big meeting rooms that have hosted a variety of events, assemblies, meetings. Latent needs of the neighborhood have been thus revealed and new networks have activated the sense of place of the site. It will be crucial to be able to preserve and to transmit this rich urbanity to the forthcoming project.
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In December 201210, the Community Land Trust of Brussels asbl has been officially acknowledged by the Brussels Capital Region. In that occasion a contribution of 670,000€ was provided in order to acquire the real estate where the first project would have been realized: a three storey building previously owned by the local Parish and situated in a mainly residential neighborhood of Anderlecht, one of the most disadvantaged municipalities of the Region. The seven families which will inhabit it are quite different concerning both composition and country of provenance: from the family of Moroccan origin with four children to the single person household, born in Belgium and in a restricted mobility condition. They started to know each other and to form the community of the future inhabitants during a number of meetings and workshops organized by the CLT with the aim to design their future home: the apartments and the common spaces. The architectural and spatial requirements thus defined have been collected in a Cahier of Recommendations, on the base of which a call for projects has been launched and the more satisfying project will be selected and realized. The morphology of the building is actually quite favorable to the mise en scène of an interplay of private, common and public acts. From rue Verheyden, the main façade gives access to an internal court whose renovation project will be financed within the frame of a Contrat de Quartier11. The court is delimited by the neighbouring fences and backyards and by a bowls club regularly used by local inhabitants. The club has now become property of the CLTB Foundation12 and will be renovated to host activities such as temporary offices, meeting and holiday spaces for the neighborhood and other local community based associations13. Fueling functional and spatial continuities between a dwelling block and the rest of the neighbourhood/city is the other main objective of the CLT: for this reason spaces not devoted to housing will always be included in the interventions. In the case of Verheyden the public/common accessibility of the court will have to be carefully regulated in order to respect the inhabitants privacy and safety. The main building will be renovated and remodeled for the realization of different typologies of apartments, some large common areas for the laundry and play activities in the basement. More than filtering or serving devices, also the corridors will have to be designed as spaces of socialization. Though the limits
of the private are clearly defined, the meaning of inhabiting is completed in the realm of the shared activities, which are enjoyed beyond the practical advantages deriving from synergizing resources in times of growing precarity. It is by defining themselves in the relation with “the other” that the inhabitants actualize the sense of their citizenship. Their engagement to maintain the vibrancy of these spaces and their urban synapses, continuously stratifying discourses and rituals, is not perceived as an obligation: it is a choice. Besides these, other values “of use” are more related to the long term permanence made possible by the condition of ownership. To start with, the sense of belonging, which fuels practices and attitudes of care, not only towards the private spaces but also towards the common and the public. The security deriving from a stable housing situation and a progressive accumulation of savings contributes to the strength of the so called “strong links”, on which “weak links”14 and capacity to operate in the society depend. As said, the formula of property that intersects the private realm with the common and the public mirrors the values of use of the future inhabitants and it is coherently expressed in the spatial configuration: the relevance of space in engendering while performing these values at the same time, will never be stressed sufficiently. The spatial margins interfacing the private, the common and the public are sophisticated bodies where new habits and forms of thinking take shape, embedding norms and cultural interpretations, at the same time mediating or simply making coexist the differences. It is there that property models could continue to make sense, enacted by the practices of the citizens; or could be rewritten by the pragmatism of the everyday. The role of design is thus crucial. It is not possible to provide a detailed description in this text. But shortly, it is not an “a posteriori” exercise of consensus: from the beginning, the design procedure for a CLT project leaves to the inhabitants the responsibility to define the spatial qualities, quantities and relations, in every detail and aware of the different interests at stake15. The previously described qualities and values of use emerge in relation to a regime of property conceived to eliminate speculation and assure the permanent affordability of home ownership. A certain number of cultural evolutions and variations of property formulas will hopefully be influenced by this model, maybe starting to change the way in which private property is conceived, the rights and the values it represents16. But at present it could be argued that the ultimate purpose - which is different from the immediate aim - of the CLTB is to support social mobility, activated long before the reinvestment of the saved capital, rooted in the long term permanence and in the political17 feeling of making the city18.
No-profit capital “When families meet in order to define le Cahier des recommandations that will give shape to their houses, they sometimes involve their children, because these apartments one day will be theirs”19.
14. Donzelot 2004: 136. 15. To define the process of design as participative would be quite inaccurate, given the fact that the future inhabitants actually act as the commissioners of the building. 16 Joseph Singer quoted by Blomley: “we have created a framework for thinking about property that privileges a certain form of lifethe owner. In the conceptual space framed by the life of the owner, we are invited to live as if we were the only ones that mattered. We are invited to live as if we were alone. Yet we know that we do not live alone”. 17. Political as meant by Chantal Mouffe. 18. During the meetings, some of the inhabitants have literally declared to feel their political responsibility while designing their future homes. 19. From the interview with Lorella Pazienza, architect working at the CLTB (July 1st, 2014).
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The need to support the long term permanence and to provide a sense of rootedness and stability to the following generation is a primary objective for the families supported by the CLTB, clearly confirmed by the non speculative nature of this model of property20. In a moment in which welfare state is collapsing and precarity increases, fueling fear and insecurity, this would seem as an almost obvious choice for those families having the requirements to access to the CLT: a possibility to accumulate their savings at the same time having the rights - and duties - related to the long term, even unlimited, home ownership. The total of these families corresponds to the half of the population of Brussels21 and to a variety of individuals, of familiar situations, of incomes. In a polarized city as Brussels this should sound alarming as it is the result more of a growing impoverishment of the middle class than of an ascending status of the poorest segments of the population22.
20 Concerning the middle - income households responding to the requirements of the CLT, the present or following generation will necessarily be favored by the money saving operation. In case of selling, the current generation could chose the freemarket as part of a process of differentiation which is still deemed as relevant and part of a meritocratic, non homogeneous society. But still their capital should probably be reinvested and “frozen” in the real estate, thus not contributing to the increase of any other capital. In parallel they would make available an affordable dwelling unit for a new family. The only possibility to actually generate a monetary profit would be in the case of inheritors selling the house of their parents, which will always be the case of inheritors already owning a house, thus confirming a social advancement and not responding to the CLT requirements anymore. 21 According to the CLTB’s accessibility requirements. 22 OBSERVATOIREDE LA SANTE ET DU SOCIAL BRUXELLES, Baromètre social. Rapport bruxellois sur l’état de la pauvreté 2011 23 A very short, simplified synthesis of the complex reasoning of Marx, in Capital, Chapter 4. 24 as part of the current debate on private property and rights which would be important to reconstruct in a longer text. 25 Piketty 2014: 344. 26 Considering the very limited number of case studies and the embryonic phase of the projects, a scenario is almost an obliged construction in order to formulate some hypothesis concerning the CLTB. Nevertheless the scenario here proposed is not so unreal and could be interestingly compared with one of the most known and developed case studies of CLT, the Champlain Housing Trust in Burlington, United States, established in 1984, today counting 424 single-family houses and condominiums.
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If the capital is an amount of money accumulated and invested to generate profit23, a variation of this definition should probably be proposed in the case of the CLT, more close to the concept of savings: perhaps “no-profit capital” could be the expression able to define the bare accumulation of money, made possible by a real estate investment and protected by the volatility of the financial market system. A more certain form of gain - although not directly or not always in monetary terms - deriving from the home ownership investment in a CLT is the social mobility, as previously argued. Beyond the sheltering function, the act of inhabiting implied in a CLT process as a whole - from the starting phase of design to the continuous engagement of the inhabitants in their daily living - represents an opportunity of personal growth and social contribution which implies mobility as a predicate of life. This specification on the definition of capital is relevant when questioning the CLT form of capitalization at the light of the findings of Piketty24: Whenever the rate of return on capital is significantly and durably higher than the growth rate of the economy, it is all but inevitable that inheritance (of fortunes accumulated in the past) predominates over saving (wealth accumulated in the present)[...] Almost inevitably, this tends to give lasting, disproportionate importance to inequalities created in the past, and therefore to inheritance25. Clearly, there is a difference between a “wealth accumulated in the present” and “the fortunes accumulated in the past”, especially when different regulations intervene: the first “no-profit” capital supports social mobility, the second supports speculation. Addressing the case of CLT, a reflection should anyhow be developed in the long term, concerning its real margin of inclusion and its contribution to exclusion, to redistribution and social mobility. Imagining an optimistic scenario of a growing number of CLT projects or similar formulas - that would make any quantitative/critical appreciation meaningful26 -, it would be thus possible to imagine the coexistence of two main and parallel forms of accessibility to housing ownership, with the possibility of a migration from the former to the latter: the first out of the market, supporting the needs of the weaker households - probably around the half of the population; the second still regulated by the market. By maintaining affordability at least for a relevant
portion of the available quota of dwellings27; by engendering a fullest sense of citizenship and belonging as a frequently desired condition - though leaving space for non permanent occupations; by virtue of its no-profit capitalization, the CLT formula could effectively contribute to the mobility of a good number of lowmiddle income individuals and families. As a whole, the system installed by the CLT could actually be used proactively, as an adaptive device to adjust redistribution and to control speculation. In fact, the targeted social segment could tend towards le plus grand nombre by shifting the margins of accessibility in relation to the economical growth of a given period and the consequent augmentation or shrinking of the excluded segments: the poorest and the richest. As Piketty suggests, it would be by taxing the biggest capitals - those deriving from the accumulation of inheritances, not from savings - that the Region could hypothetically control the socio-economical polarization. Thus, also the possibilities to support the CLT would be increased, in that way operating a redistribution towards the weaker categories. The circulation of money thus reactivated could progressively start to engender a variety of economies and ecologies in the city, designed at the scale of the block and of the neighborhood, but making sense and complementing each other at an urban level. The resulting spaces would generate a multiform urbanity, based on the variety of spatial preconditions and neighbouring situations. Arena for the political in the daily renegotiations of the citizens, they would finally mirror the cultural and bio-political evolutions in course, in tension between the desire for the long term permanence and the need of flexibility; they would be less and less stigmatizing as a growing number of people and variety of conditions would be included, by need but also by choice, for the pleasure and advantages of sharing similar ways of living. Finally, concerning the poorest segment which is currently excluded both by the CLT and by the other pre- existing policies, many variations could be imagined, which are in fact currently being evaluated both by the CLT and by the Region. Formulas of temporary occupation of empty buildings and renting are among the possible options, thus addressing both the more fragile and the flexible situations28.
Work in progress Back to reality, despite the limitations of its current offer, the CLT suggests some - of many - possibilities to increase social mobility and reactivate redistributive mechanisms, despite and thanks to its specific capitalization process, embedded in a private-common property formula supported by the public. On one hand money can be accumulated to sustain the social mobility of a growing segment of the population; on the other hand the common land and the institutional engagement prevent speculation and assure the permanent availability of affordable housing for new low-middle income households. Which could sound as a paradox, but in fact could correspond to an evolution of the welfare concept
27 The Champlain Housing Trust performance report published in 2009 confirms the resilience of this formula, able to absorb the impact and stabilize the consequences of the real estate market fluctuations. In sum, during a period when the prices for marketrate homes were moving steeply upward, CHT was effective in stabilizing the prices of its own stock of resale restricted, owneroccupied housing, ensuring that the same class of people who had initially bought these homes could still afford them when they were eventually resold. Between 1988 and 2008, the Champlain Housing Trust delivered on its promise of preserving affordability, one resale after anotherâ&#x20AC;? (27). 28 A renowned case of a regularized occupation is 123, which started as a squatting initiative and has been finally absorbed in an institutional agreement reaching the duration of 7years in 2014. Another example of a mixed policy approach: recently the Fonds du Logement has asked the CLT to take care of an existing residential unit, thus reducing the costs normally sustained. The management would be entrusted to the inhabitants with the help and guiding activities organized by the CLT.
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29 The risk of a growing interest and reliance on the commons for anything they could offer, is the weakening - or de-responsabilization of the public. As the case of the CLTB shows, an institutional presence supporting these experiments would instead have the role on one hand to amplify their efforts, on the other to translate their approaches into normative devices and regulating systems, meanwhile institutionalizing the bio-cultural changes in course.
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slowly emerging from the precarious city and the needs and strengths that this has created (Negri, Brenner). Partially shifting out of the public sphere, new complex forms of welfare are taking shape into the realm of commons, actually where the welfare originally belonged29. Although the word â&#x20AC;&#x153;commonsâ&#x20AC;? has here to be meant with a contemporary connotation: still in course of experimentation and elaboration in the daily practices of the citizens, beyond the natural given commons. Temporary occupied buildings, shared work spaces, interior courts and new forms of cohabitation are constantly interpreting the welfare and the wellbeing, taking advantage of an institutional latency and the availability of spatial and relational occasions. They propose new margins of intersection for the private, the common, the public, acknowledging the importance of their distinction and questioning the implied values once that profit has been detached and stability could be as much required as flexibility. The interpretation of these margins and the actuation of the new forms of welfare require two conditions: firstly a redistributive regulation differentiating the various forms and origins of private property and capitalization; secondly, an effective dialogue between the realm of experimentation and the realm of institutionalization, to which participative organizations such as the CLTB could contribute, thus fueling the political engagement so much required for a more just society.
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Londra La governance sottratta al pubblico
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H2020 e il ruolo delle smart cities In Europa, la problematica delle smart cities si intreccia profondamente con quella dell’Agenda urbana e dell’Agenda digitale come parte integrante della strategia di ‘Horizon 2020’, in cui è alle città che viene attribuito il ruolo determinante di interconnessione fra policy e azioni. Il nuovo ciclo di programmazione economica europea 2014-2020 chiede infatti che dai territori nascano grandi progetti integrati, presentati da reti e alleanze di città, che avranno un ruolo sempre più importante a patto che lavorino come nuovi soggetti programmatori, attraverso patti e strategie in grado di rappresentare una dimensione metropolitana di interessi. La fonte dell’innovazione invocata nell’agenda ed evocata dall’attributo smart è ancora di precipua provenienza urbana: un milieu dove la presenza congiunta di attività crea un’abbondanza di scambi attuali e potenziali, dove ricerca, arte, finanza, capitale umano e capacità tecniche beneficiano della reciproca contaminazione. Se oggi questa presenza congiunta non è solo dovuta alla prossimità spaziale, ma anche alle relazioni a distanza supportate dalla tecnologia, lo sguardo alla città contemporanea, complessa ed estesa, permette la comparabilità di situazioni, e l’esportabilità di nuovi modelli di governance (Peck & Theodore, 2010) richiesti per modernizzare i servizi urbani, che per questo sono oramai affidati dalla progettazione alla realizzazione a grandi multinazionali “esperte”.
Alcune questioni di governance Nelle smart cities diventa quindi fondamentale il coordinamento fra persone, organizzazioni e regolamentazioni (palesi o nascoste, pianificate o spontanee) nell’allocazione di beni e servizi a individui, quartieri e fra i layer tecnologici ad essi sovrapposti; per governance urbana intendiamo proprio l’insieme dei processi di decision-making collettivo che conferiscano legittimità a particolari forme e distribuzioni di quelle risorse. Una prima questione urgente nelle recenti ondate dei finanziamenti per le smart cities è sicuramente quella della tracciabilità dei fondi, che diventa ineludibile quando le public-private-partnership (PPP) assurgono a principale meccanismo trainante e protagonista delle politiche e dei capitoli di spesa cittadini. Rimane ancora insondato il come i cittadini possano partecipare/controllare le 1.
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responsabilità in gioco, e quanto la densità urbana – che significa poi densità organizzativa e partecipazione teoricamente accessibile a tutti - possa facilitare una certa quota di democrazia, o la sua totale erosione. L’incremento della discrezionalità dell’ente pubblico nell’esercizio del potere di trasformazione del territorio è comunque un fenomeno che scaturisce, in parte, dall’immagine di una amministrazione ritenuta per definizione succube e ancillare degli interessi privati o comunque non pubblici. Le PPP, a partire dai primi anni novanta nel Regno Unito, sono spesso presentate come panacea per la risoluzione di conflitti nell’amministrazione urbana, relegando l’inclusione della comunità a un fattore inerziale rispetto all’obiettivo condiviso della realizzazione, nel più breve tempo possibile, di nuove strutture e interventi di rigenerazione. La necessità di modernizzare servizi urbani, sviluppare pratiche di inclusione sociale, rafforzare segmenti economici locali e proteggere risorse ambientali in tempi rapidi - ed oggi ostili - sono obiettivi tutti perfettamente condivisibili, e per questo inneggiati come priorità indiscutibili dalle società private, ma è evidente che non sono massimizzabili contemporaneamente se non al prezzo della perdita della libertà e della democrazia del sistema, e a lungo termine della sostenibilità. Attraverso complesse forme di accordi e codici per la regolamentazione, le best practices di smartness urbana hanno di fatto allontanato il processo decisionale dai luoghi formali del processo politico. In altre parole, hanno fatto fuori la politica dalle questioni relative alla governance, velocizzando così i tempi (del mercato) attraverso l’elaborazione di un sistema normativo completamente gestito dal privato. Il conseguente presunto vantaggio, quello che rende smart una città, è che le società private implicate nelle trasformazioni sono in grado di lavorare efficacemente, mentre al pubblico resta il compito di fare rispettare norme prodotte dal privato. ‘L’arretramento dello stato a favore delle forze del mercato è attuato mediante un paradossale rafforzamento della sua azione di controllo e guida, grazie a pratiche di valutazione divenute in ogni ambito veri strumenti di governo con relativi apparati volti a garantirne l’efficacia. (…) La si potrebbe anche descrivere - con i governamental studies – come una ‘governamentalizzazione’ dello stato, mediante la quale esso giunge a essere attivo e capillarmente presente come forse mai prima. Non si tratta, come è chiaro, della semplice introduzione di forme statali di controllo sempre più invasive e stringenti, ma di una trasformazione dell’intera funzione di governo in funzione di controllo: del divenire cioè la valutazione il modo stesso di essere dello stato nella sua configurazione neoliberale.’ (Pinto, 2013). La crisi, come sottolinea Habermas1 , ha ulteriormente accelerato la transizione verso questa fase. Una seconda questione riguarda il ruolo dell’ideologia nei processi di decision making urbano. La globalizzazione ha fatto sì che i cambiamenti della realtà sociale siano sovrapponibili a volte molto facilmente in nazioni lontane sia nel tempo che nello spazio. Questi agganciano la dimensione esistenziale dell’individuo, che non è più disposto a fare affidamento su servizi monolitici di welfare statale, ma desideroso di poter appartenere alla classe media, il cui benessere deve essere offerto da attori del settore privato o comunque da un settore pubblico completamente modernizzato e privatizzato. Le ideologie sono quindi potentissimi modellatori dei processi di governance perché li legittimano, o non li ostacolano. Anche le best practices, in questo senso, potrebbero costituire una copertura per giustificare ineguaglianze e alimentare la retorica in voga che applica logiche di marketing alle funzioni di governo, e che quindi influenza l’inclusione o l’esclusione di determinati gruppi sociali, valori o pratiche senza essere sottoposta al vaglio in nessuna sede di pubblico dibattito.
1. “Nella politica i cittadini hanno a disposizione l’unico strumento con cui agire collettivamente in modo intenzionale sulla storia e sulle condizioni d’esistenza della loro comunità. Per contro, i mercati sono sistemi autoregolati che coordinano in modo decentrato una indefinita quantità di singole decisioni individuali. Dal punto di vista normativo si tratta di due media potenzialmente incrementanti la libertà. Lo Stato liberal-democratico è la geniale invenzione che – mettendo efficacemente insieme questi due media – coniuga l’eguale partecipazione all’auto-trasformazione collettiva [kollektive Selbsteinwirkung] con la tutela di libertà economiche parimenti distribuite. Una delle caratteristiche della crisi attuale è proprio quella di aver distrutto questa complementarietà.”
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Londra L’esclusione della politica dalle questioni relative alla governance degli accordi e dei codici per le regolamentazioni del governo del territorio è da tempo in una fase conclamata a Londra, dove una sorta di post-politica assegna alle aziende la guida dei processi. Mentre gli edifici costruiti per le Olimpiadi aspettano vuoti la ripresa del mercato immobiliare, la costruzione di nuove case per le fasce deboli della popolazione è stata sostanzialmente affidata a progetti di social housing sviluppati da privati. L’importante patrimonio immobiliare della città si sta trasformando in un esemplare ‘laboratorio di pulizia sociale’ ordinato dea misure governative che consentono ai grandi proprietari di operare una libera gentrificazione di massa della città, sotto la garanzia di un bidding process di ‘qualità’ come quello abitualmente usato dai global providers di business services di cui si parlerà fra poco. In un Paese in cui tutto il privatizzabile è stato privatizzato (dalla rinomata ‘Royal Mail’ ai Vigili del Fuoco), sono adesso anche gli spazi pubblici oggetto di nuove acquisizioni e di rifunzionalizzazioni dall’estetica standardizzata. Le implicazioni per la ricerca accademica di questi modi di trasformazione territoriale, rese più evidenti durante le Olimpiadi ma adottate poi come abituale procedimento per le rigenerazioni urbane, fanno pensare che eventi eccezionali non costituiscano tanto un game changer in termini di politiche urbane, ma facciano parte di quell’emergenza a lungo termine che Levi-Faur (2011) nominò ‘capitalismo regolatore’, ovvero un contesto nel quale gli stati stanno spendendo sempre più ingenti porzioni del loro budget in regolamentazione. Una maggiore consapevolezza pubblica o apertura democratica in questa allocazione è sostituita dalla preoccupazione al commercialismo e alle stesure contrattuali, così che l’ignoranza su questi temi diventa una forma di delegazione del potere indiretta. La tradizionale distinzione fra interessi pubblici e privati si dissolve, e al suo posto si scorge l’ultimo prodotto del neoliberismo britannico, ovvero compromessi istituzionalizzati fatti di obiettivi e priorità propri degli interessi commerciali. Quello che con le parole di Harvey potremmo definire “neo-Thatcherismo” (Harvey, 2005) non è una vera novità in Inghilterra, dove a partire dalla prima amministrazione dei Tories, in risposta alla prolungata crisi del 1970, la relazione Ridley ideata per il governo ombra della Thatcher raccomandava una politica di rottura del settore pubblico e smembramento sindacati. La modernizzazione del welfare, dominante sia nelle amministrazioni laburiste che in quelle all’opposizione negli ultimi venti anni in Gran Bretagna, si è poi incentrata sulla creazione di ‘cittadini aspirazionali’ (Brenner, 2004) carichi di responsabilità (Sartre, 1957) e di desideri collettivi. Questo ‘esistenzialismo politico’ rappresenta un terreno chiave e sottovalutato nella più ampia ri-regolamentazione del welfare post-Keynesiano, dove le riforme sono giustificate non tanto da dibattiti cittadini ma più da concezioni filosofiche sulla natura umana, su condizioni di benessere cui aspirare dettate da una piccola nicchia di persone e da un mainstream di pratiche (Bourdieu, 2003; Raco & Flint, 2012) molto lontane dagli effettivi bisogni di ogni singola nazione (DCLG, 2006). Come sottolinea Chomsky (1991): «non in virtù di quello che si fa, o di quello che si fa per gli altri, o per la natura; piuttosto l’individualità è determinata da beni materiali posseduti e consumati: io sono quello che sono per ciò che possiedo e utilizzo». La governance degli appalti per le Olimpiadi ha fornito l’esempio di come questa ideologia crei un assetto che va oltre la privatizzazione, e significa ‘maggiore delegazione alle agenzie autonome, nuova formalizzazione 1.
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delle relazioni, nuove tecnologie di regolamentazione sia della sfera pubblica che di quella privata, e creazione di nuovi livelli di potere sia nazionale che internazionale’ (Levi-Faur, 2005). In rapporti così ibridi fra stato e aziende, la distinzione fra il fornitore di servizi e il ruolo dell’ente pubblico diventa sempre più incerta (Raco & Street, 2012). Nonostante decenni di discorsi sul buon governo e l’ampia enfasi su devolution e poteri ala comunità, la normativa regolamentare spesso comporta una sistematica erosione del potere e della legittimità di sistemi democratici. Secondo Lévi-Faur (2011), il prezzo della libertà si paga dunque nel lungo termine, nel quale la regolamentazione cresce, e cresce anche il contrattualismo ad essa associato, «basato sul tranquillo aumento di restrizioni - difficilmente riconoscibile perché nascosto dietro ardue regolamentazioni tecniche, mistificanti dottrine giuridica e burocrazie complesse». Si tratta di un sistema che permette ai colossi delle società di consulenza di modellare ambienti politici e normativi a loro immagine. I cosiddetti Big4 delle aziende di consulenza mondiali (PriceWaterhouseCoopers, Ernst & Young, KPMG e Deloitte) ora agiscono praticamente come una ‘forza di polizia privata del capitalismo’ e i loro audit come «strumenti principali attraverso i quali conoscono, e regolano, le più grandi aziende del mondo» (Shaxson, 2011). Le ultime Olimpiadi di Londra hanno fornito enormi opportunità alle le maggiori imprese private, per guadagnarne sia in termini di business intrapresi che di capitale di reputazione. Appena l’offerta di appalti fu lanciata all’inizio del 2000, reti di consulenti internazionali, avvocati e ‘esperti’ si mobilitarono con l’obiettivo di massimizzare e catturare rendimenti relativamente privi di rischi e di ritorno garantito dallo stato. Per Richard Murphy (2011) questo esemplifica una tendenza più ampia in cui le nuove élite private si presentano con caratteristiche imprenditoriali nell’ottenere ottenere diritti contrattuali nei progetti pubblici, risorse del welfare, e servizi. Tali élite mostrano una crescente riluttanza a investire in forme tradizionali di attività del settore privato, dove i rischi di insuccesso sono considerati troppo alti. Preferiscono operare invece in un ampio sistema di capitalismo normativo in cui gli Stati e grandi aziende agiscono secondo reciproci interessi, dove nuovi regolamenti sono redatti proprio dalle reti dei beneficiari privati (Raco & Gilliam, 2012). Poteri e risorse statali vengono poi utilizzati per istituzionalizzare e finanziare queste nuove disposizioni (Cutler , 2010). Il vantaggio per i governi è che queste società sono in grado di lavorare attraverso il complesso sistema normativo (che loro stessi hanno contribuito a stabilire) e, a differenza di quanto succede nel pubblico, realizzano prontamente i progetti pianificati. Spesso forniscono ‘soluzioni’ ai ‘problemi’ che essi stessi hanno definito come tali, tramite report e libri bianchi sulla necessità e urgenza di sistemi ultra tecnologici per smart city o nuovi centri commerciali (si veda, ad esempio, Deloitte, 2011; Morozov, 2013). L’intervento di aziende private in progetti urbani ha da sempre creato tensioni tra i requisiti di riservatezza commerciale ed un più ampio interesse pubblico da rispettare. Tuttavia Raco (2012a) sottolinea come ora vi sia una differenza qualitativa rispetto al passato: le imprese ora agiscono per conto dello Stato, sotto contratto. I politici hanno effettivamente consegnato la responsabilità a terzi, e cittadini o ricercatori che volessero scoprire quali pratiche organizzative sottendono la stipula di questi contratti si troverebbero davanti una serie di porte chiuse inaccessibili, visto che il processo decisionale è allontanato dai luoghi usuali della politica.
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Learnable lessons e pratiche innovative di governance per un’agenda urbana nazionale La vastità dell’ondata di privatizzazioni associata ai Giochi Olimpici è notevole, ma non è l’unico modello di governance in tempo di crisi. In questa sede la si usa per richiamare l’attenzione sulla questione più ampia di come debba essere definito il beneficio pubblico e chi lo debba difendere (Brandon & Lombardi, 2005). In ogni discussione sull’efficacia della politica ci dovrebbe essere una previa, trasparente ed esaustiva comprensione su dove siano state dirette le risorse stanziate (Raco, 2005), ovvero si dovrebbe seguire il flusso di denaro ed esserne almeno coscienti (cosa sempre più difficile, visto che, come esposto dal recente studio di Shaxson sulla tassazione globale, ‘più della metà del commercio mondiale passa, almeno sulla carta, mediante paradisi fiscali’ (Shaxson, 2011), e la maggior parte attraverso le attività degli investitori multinazionali, alcuni dei quali coinvolti nella pianificazione delle Olimpiadi). Non dovrebbe quindi sorprendere che non ci sia molta ricerca riguardo tali pratiche e la loro ripercussione sulla politica e sullo sviluppo urbano (Raco, 2013, ma si possono analizzare le condizioni che hanno portato a questo punto e quali soluzioni alternative garantiscono una trasparenza dei processi anche con l’aiuto di tecnologie informatiche avanzate e supporti interattivi da e per i cittadini (Lombardi, 2011). Per concludere questo breve excursus, ci sono cinque argomenti chiave da puntualizzare: − Pianificare una crescita urbana smart richiede un certo grado di integrazione e coordinamento tra stakeholders pubblici e privati; − Questo grado di coordinamento è spesso oggetto di complesse forme di accordi e di codici per le regolamentazioni; − Vi è un’enfasi crescente nel metter fuori la politica dalle questioni relative alla governance di questi accordi (in nome del ‘to get things done’) ; − La conseguenza è la privatizzazione della governance, l’emergere di nuovi panorami contrattuali pubblico-privati e… − … e l’internazionalizzazione di un ‘capitalismo regolatore’ di cui nessuno parla e la cui longa manus agisce come attore principale nella pianificazione di una città, assorbendone gran parte del bilancio. Questi cinque punti sono spesso ricorrenti nella prassi di una città che vuole rendersi smart (eminentemente per accedere ai finanziamenti ad essa preposti, senza averne necessariamente nemmeno ben compreso le responsabilità e le conseguenze) e che sono facilitati dalla crisi economica. Inoltre, il capitalismo dominante ad oggi è finanziario più che produttivo, e nomade piuttosto che stanziale: questo implica che le decisioni siano esternalizzate dal territorio, che, entrando in competizione per catturare investimenti, attività rappresentative, turisti, ecc., è tuttavia divenuto più vulnerabile. Il capitale fisso, dipendente dal tessuto economico locale, si deteriora, e le infrastrutture che dovrebbero supportare la nuova economia rischiano di rivelare potenzialità effimere. La governabilità di questi territori esige dunque una capacità d’innovazione politica, ma quest’ultima incontra nella cornice istituzionale un ostacolo che la scarsa rappresentatività dei partiti difficilmente è in grado di superare, ostacolo che deriva nella competizione, invece far convogliare le varie opportunità. Da una parte, se «ciò che conta è che funzioni» (what matters is what works), i nuovi ibridi pubblico-privati e la loro governance non può non includere richieste 1.
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dirette dei cittadini per lo sviluppo, l’implementazione e la regolamentazione delle opere pubbliche (Lombardi et al, 2009). Strumenti innovativi finanziari, come la microfinanza, il prestito sociale, i social impact bonds, le joint venture filantropiche e il crowdfunding (Neirotti et al, 2013) potrebbero assicurare sia una fattibilità economica che una sostenibilità sociale di progetti voluti, finanziati e manutenuti dai fruitori stessi. Se la parola smart, inflazionata dalla narrativa corrente tanto da svuotarla di significato, può essere ridefinita in termini pragmatici e applicata a una nostra agenda urbana, la si potrebbe tradurre in saggezza, quella saggezza volta a una dimensione sociale, per riprendere la cifra che Aristotele ci attribuiva in primis come esseri umani, che è propria della realtà italiana, inderogabilmente. Episodi come la rigenerazione urbana di South Bank nella stessa Londra, ad esempio, sono la prova evidente che pianificare con strumenti multidisciplinari (come la psicologia ambientale, le scienze dei sistemi complessi, i metodi di multicriteria decision making) permetta di capire e progettare rispetto alle diversità, alle identità locali e la cultura dei luoghi, producendo città di successo che durano e che attraggono capitali sociali e finanziari, che a loro volta ridonano senso di appartenenza e nuove identità a chi ci vive (Deakin et al, 2011). Come esposto nel famoso libro della Fainstein “The Just City” (Fainstein, 2010), queste non sono idee politicamente inaccettabili o finanziariamente irrealizzabili: sono alternative plausibili e solo più faticose a breve termine e non convenienti a chi governa, ma che però sembrano quanto mai urgenti per avviare un dibattito critico sugli indirizzi da dare per il futuro della smart governance nei processi di una trasformazione urbana che punti alla diversità, all’equità e alla democrazia.
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Attribuzioni Questo contributo nasce in seno a “Territories in crisis”, una ricerca collettiva condotta da un gruppo ampio di ricercatori del Politecnico di Torino e dell’École Polytechnique de Lausanne. I materiali di questa ricerca, le ipotesi, le esplorazioni e i primi risultati sono sul blog: www.territoridellacondivisione.wordpress. com. Riconoscimenti L’autore vuole riconoscere a Mike Raco l’impostazione della discussione che regge il caso di Londra e gli stimoli di riflessione ricevuti nel periodo di mobilità presso l’EPFL di Losanna previsto dal progetto di internazionalizzazione su citato.
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ROMA La finanziarizzazione del patrimonio immobiliare
Laura Martini PhD candidate POLITO
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Considerazioni sullo spazio astratto Per spazio astratto, solitamente, si considera uno spazio privo di realtà opposto allo spazio vissuto o lo spazio concreto. Obiettivo delle nostre argomentazioni è far emergere come l’astrazione di tale spazio abbia uno statuto di realtà talvolta più stringente dello spazio vissuto o dello spazio concreto, con delle ricadute nella vita quotidiana che hanno una presa sull’esistenza degli abitanti profonda, anche se spesso più enigmatica e impalpabile. Non intendiamo dire che lo spazio vissuto o lo spazio concreto siano meno reali, che le loro conseguenze, il sogno, il mito, l’affettività che colmano i luoghi non abbiano il loro spessore nei processi di trasformazione dello spazio, ma in un capovolgimento, forse perturbante, del discorso esistenzialista intendiamo restituire realtà allo spazio astratto. Se così non fosse, il sogno, il mito e l’affettività, ovvero tutto ciò che fa di un luogo uno spazio vissuto e concreto, si troverebbero disarmati e impotenti davanti ai dispositivi inesorabili dello spazio astratto. Lo spazio astratto domina lo spazio vissuto, tuttavia chi è quel nemico che costringe le pratiche a mobilitarsi esclusivamente nella tattica? Il rovesciamento di prospettiva realizzato da de Certeau è di fondamentale importanza se si pensa all’egemonia che per tanti anni hanno avuto gli studi sul potere e sulla sua microfisica (Foucault, 1976; Bourdieu, 19711975). Non si tratta di tornare indietro, ma di fare un discorso sulle pratiche che le rafforzi. Riteniamo che lavorare a comprendere cosa si occulta dietro l’astrazione dello spazio possa offrire strumenti perché le pratiche passino dalla tattica alla strategia e possano confrontarsi finalmente con il loro nemico che finora è stato percepito come da nessuna parte e ovunque allo stesso tempo. Lo spazio astratto è un insieme di dispositivi, retoriche, procedure e soprattutto gruppi sociali che programmano, prendono delle decisioni, e regolano non solo lo spazio ma, nello stesso tempo, la vita degli abitanti. Si tratta di gettare luce proprio su questo insieme di dispositivi, retoriche e gruppi sociali. Ne “La produzione dello spazio” Lefebvre scrive che “L’astrazione è considerata come un’«assenza», opposta alla «presenza» concreta degli oggetti e delle cose. Niente di più falso” (Lefebvre, 1974: 281). Inoltre, si tende a considerare lo spazio astratto come omogeneo, mentre come scrive Lefebvre: “Lo spazio astratto non è omogeneo, ma ha l’omogeneità per scopo, senso e «obiettivo». Esso la impone. In se stesso, lo spazio astratto è plurimo” (Lefebvre, 1974: 279). Nel 1989 l’antropologa urbana Amalia Signorelli, pur non citandolo, si discosta poco dalle argomentazioni di Lefebvre, trattando dell’edilizia sociale descrive lo spazio astratto come quello spazio disegnato dai progettisti in cui si palesa la loro distanza dagli abitanti in “termini di classe” e di “riferimenti culturali” (Signorelli, 1989). Distanza senza mediazioni che impone “un’acculturazione più o meno forzata” (Signorelli, 1989), poiché all’abitante è imposto di vivere in una casa in cui vi è “incorporata una cultura che non è la sua” 1.
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ed è costretto ad interiorizzare “l’ordine sociale e al tempo stesso la struttura cognitiva ed etica che ordinerà la sua vita psichica e corporea” (Signorelli, 1989: 13-14). In altri termini, appropriarsi di uno spazio culturalmente modellato significa essere forzatamente introdotti alla mentalità del gruppo sociale che ha prodotto quel modellamento. Ovviamente Signorelli sa ma non lo sottolinea mai abbastanza che nel momento dell’appropriazione e dell’uso vi è una resistenza che riproduce i modelli culturali del dominato e che lo difende parzialmente dall’acculturazione. Oggi lo spazio astratto andrebbe inteso in modo diverso da Signorelli. Quando parliamo di spazio astratto ci dovremmo riferire non tanto allo spazio disegnato, al diagramma o al lavoro di un élite di professionisti che impone i suoi modelli culturali alle classi subalterne, ma ai processi del mercato finanziario. Gaeta ha scritto: “Mediante la saldatura tra l’azione istituzionale e finanziaria, prende avvio la formazione di un mercato immobiliare a scala urbana nel quale il valore di scambio conta di più del valore d’uso, nel senso di una formazione del valore immobiliare sempre meno vincolata alla qualità soggettiva dei partecipanti allo scambio e sempre più condizionata da parametri impersonali.” (Gaeta, 2006: 11). Nel Novecento Signorelli poteva denunciare la razionalità dei progettisti che prendevano in considerazione bisogni umani elementari da soddisfare in termini di cubatura, aerazione, affacci, dotazioni e attrezzature, perché lo spazio vissuto era molto più polivalente e polisemico di quanto essi non pensassero. Tali bisogni umani elementari erano comunque dei deboli riferimenti a valori d’uso, oggi non sono tenuti in conto nemmeno tali bisogni, ciò che la finanziarizzazione del mercato immobiliare produce è la perdita dell’immobile di “ogni legame con il suo valore d’uso” diventando puro “oggetto della valorizzazione economica” (Olmo, 2010: 43).
Brevi cenni sulla finanziarizzazione del mercato immobiliare Il salto di qualità dello spazio astratto è avvenuto con il passaggio da un sistema economico fondato sul produttivo a un sistema economico fondato sul finanziario. Approdo di questo passaggio nel mondo immobiliare è stata “la crescente separazione tra coloro che utilizzano lo spazio urbano per finalità produttive e coloro che ne detengono la proprietà” (Gaeta, 2006: 97). Questo passaggio è partito dagli immobili che ospitavano le attività produttive, le quali con la globalizzazione e la delocalizzazione non necessitavano più la condizione di proprietà per garantirsi costi di produzione contenuti. In breve tempo con la separazione tra utilizzatori e proprietari nel produttivo, che nel ciclo immobiliare precedente corrispondevano agli stessi attori, si è passati da pratiche di trasformazione del territorio che privilegiavano il valore d’uso a pratiche che privilegiano ora il valore di scambio. Il valore sociale e contestuale incorporato negli immobili non ha più rilevanza a meno che non concorra all’accrescimento del loro valore finanziario (Ambrose and Colenutt, 1975: 42). È la fase tarda del capitalismo in cui si è assistito a un cambiamento radicale del mercato immobiliare. Come sostiene Degennaro vi è un’integrazione crescente tale del mercato immobiliare e del mercato finanziario che l’investimento immobiliare viene considerato alternativo o complementare a quello in prodotti finanziari (Degennaro, 2008). Detto altrimenti “un asset 1.
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immobiliare viene considerato alla stessa stregua di un asset finanziario e la rendita immobiliare viene di conseguenza assimilata, non più soltanto da un punto di vista teorico, al rendimento di un investimento finanziario a lungo termine” (Gaeta, 2006: p. 81). La finanziarizzazione è resa possibile dal coordinamento di politiche pubbliche, investimenti privati, politiche creditizie e nuovi strumenti di gestione della domanda come le cartolarizzazioni, i fondi immobiliari, le società di spin-off, i Real Estate Investment Trust. Un intreccio apparentemente complesso che ne esalta il carattere astratto ma che, di fatto, fa riferimento, a leggi, luoghi fisici di lavoro e gestione, gruppi sociali che ne programmano lo svolgimento. Tuttavia mentre le attività produttive venivano sottoposte a questa separazione tra utilizzatori e proprietari, i grandi patrimoni immobiliari residenziali veniva sottoposti a un processo inverso, venivano ovvero ceduti a “società-veicolo” per procedere alla loro alienazione e dispersione. Da una parte si divideva uso e proprietà dall’altra si incentivava l’abitare come imprescindibile dalla proprietà privata dell’abitazione, unendo uso e proprietà. Nel caso dello spazio abitativo il capitale si è incorporato sempre di più nello spazio fisico e con l’indebitamento delle famiglie è possibile sostenere che il capitale vi sia rimasto intrappolato non potendo più essere facilmente riscattabile. Gli attori del mercato immobiliare, in questo caso le agenzie di credito, possono anche pignorare l’abitazione tuttavia se il fenomeno diviene diffuso come nella crisi immobiliare americana del 2006 non solo i prezzi delle abitazioni sono destinati a cadere ma le abitazioni restano invendute. La crisi economico-finanziaria attuale è dovuta in gran parte al cedimento del sistema basato fondamentalmente sulla cartolarizzazione dei crediti sub-prime, un default delle forme di finanziarizzazione del mercato immobiliare in cui il capitale è come bloccato nello spazio che ha prodotto. Il contraccolpo è che con l’indebolimento delle politiche immobiliari pubbliche e private il processo di astrazione dello spazio giunto al suo apice perde progressivamente di opacità permettendo la riorganizzazione consapevole del suo opposto, ovvero di quegli spazi vissuti o concreti, di quei territori della condivisione in cui si sperimentano nuove forme di sociabilità che hanno ora l’opportunità di muoversi in maniera strategica oltre che tattica.
Gestione degli immobili dello Stato e adozione di modelli neoliberisti In Italia di questo radicale cambiamento lo Stato è diventato in breve tempo, e a seguito di una serie di scelte normative, uno degli attori principali. Fondamentalmente, il modello neoliberista di gestione degli immobili è stato adottato dallo Stato nell’intento di poter generare liquidità, per la riduzione dell’indebitamento delle amministrazioni, l’emersione di plusvalori e, non ultima, la riduzione della spesa corrente (De Rada, 2009: p. 55-57). Dall’inizio degli anni ’90 in Italia si sono avvicendati una serie d’interventi normativi indirizzati a facilitare questo processo. Si è partiti con decreti e leggi che autorizzavano gli enti locali all’alienazione del loro patrimonio con il fine di reinvestire il denaro in opere pubbliche (L. 430/1990) e si è proceduto a rapidamente verso la deregulation fino ad arrivare alla L. 388/2000 che ha fornito le Pubbliche Amministrazione di 1.
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dispositivi finanziari come le cartolarizzazioni e i fondi immobiliari. Nel 2001 con la L. 410/2001 di conversione del D.L. 351/2001, è stata avviata la privatizzazione e valorizzazione dei patrimoni immobiliari dello Stato attraverso la creazione di Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici (SCIP 1 e, in seguito, SCIP 2). Fino ad arrivare negli anni della crisi alla L. 244/2007 che ha introdotto lo strumento dei “Piani di Valorizzazione dei Beni Pubblici” attraverso i quali beni demaniali interessati da tali piani potevano essere declassificati e resi disponibili. Inoltre con la L. 133/2008 si approfondisce la ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare disponibile a procedure di trasformazione e alienazione: in sostanza l’obiettivo era quello di reperire liquidità con urgenza. Infine, nell’ultimo biennio, si è disciplinata la creazione di un sistema integrato di fondi immobiliari, con l’obiettivo di accrescere l’efficienza dei processi di sviluppo e di valorizzazione dei patrimoni immobiliari di proprietà degli enti territoriali, di altri enti pubblici e delle società interamente partecipate dai predetti enti (D.L. n. 98 del 2011). In anni recenti “con il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 19 marzo 2013 è stata istituita la Invimit SGR (Investimenti Immobiliari Italiani Società di Gestione del Risparmio Società Per Azioni) con l’obbiettivo di istituire fondi che partecipino a quelli immobiliari costituiti da enti territoriali, anche tramite società interamente partecipate, a cui conferire immobili oggetto di progetti di valorizzazione (“fondi di fondi”). Al fine di conseguire ulteriormente la riduzione del debito pubblico” (Camera dei Deputati, 2014, web). Parallelamente a questo processo di astrazione dello spazio, nel 1998 vengono definitivamente soppresse le trattenute per il finanziamento delle case popolari sulle buste paga (ex G.E.S.C.A.L.). Scompare dal bilancio dello Stato ogni finanziamento per l’E.R.P. (Edilizia Residenziale Pubblica), e si dà inizio all’alienazione anche di tale patrimonio, fino ad arrivare oggi al D.L. n. 47 del 2014 che ha come obbiettivo “l’accelerazione del processo di definizione delle nuove regole di alienazione degli immobili di proprietà degli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) o degli enti, comunque denominati che li hanno sostituiti, nonché degli immobili di proprietà dei comuni e degli enti pubblici anche territoriali, dall’altro a concedere contributi per l’acquisto di tali alloggi”(Camera dei Deputati, 2014). Concludendo, l’obiettivo è in sostanza, da un lato, “fare cassa” per diminuire il debito pubblico, scegliendo come strada quella della valorizzazione per rendere il bene alienabile ad un prezzo di mercato, e dall’altro portare avanti l’alienazione del patrimonio immobiliare residenziale, attuando dal 1998 in poi una svolta politica chiara nella gestione del Welfare che a nostro parere situerà lo Stato in una posizione contraddittoria ed equivoca rispetto al suo ruolo di garante della giustizia spaziale. L’alienazione del patrimonio pubblico è un processo straordinariamente adatto alle esigenze del tardo- capitalismo, ampiamente condiviso da tutti gli strati sociali poiché l’aspirazione alla proprietà della casa è vissuta come un irrinunciabile diritto. Gaeta, citando Harvey, in merito agli interventi di Hausmann a Parigi, sostiene che “Lo stato come agente di urbanizzazione capitalistica avvertì dunque un sentimento oscuro dei propri compiti e produsse esiti che andarono ben oltre le intenzioni manifestate dai protagonisti” (Gaeta, 2006: p. 56). Riteniamo che il processo di dismissione appena descritto sia andato nelle sue conseguenze ben al di là delle intenzioni dei suoi protagonisti, non solo non ha prodotto la liquidità sperata, ma ha cambiato profondamente l’antropologia dell’abitare di interi quartieri, trasformando dall’interno gli spazi vissuti o concreti.
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Roma, cartolarizzazioni e valorizzazioni: il quartiere Don Bosco e l’ex-dogana di Scalo San Lorenzo Attraverso l’istituzione delle società SCIP 1 e SCIP 2, aree consistenti di quartieri delle grandi città italiane sono state immesse sul mercato. In particolar modo SCIP 2 è stata, secondo la stessa affermazione del Ministro Tremonti, “la più grande cartolarizzazione immobiliare fatta da uno Stato Europeo” (Bonazzi, 2009). Ha riguardato 62.880 immobili di cui circa il 60% collocato nel Centro-Italia, nella maggioranza dei casi a Roma. In effetti, una parte considerevole del patrimonio immobiliare degli Enti si è consolidato a Roma a partire dal dopoguerra per dare una risposta efficace alla grande pressione demografica degli anni ‘60. Vorremmo qui brevemente descrivere cosa è accaduto a seguito della dismissione del patrimonio INPDAI (patrimonio che riguardava il 33% dei 62.880 immobili), dal 2002 INPS, nel quartiere Don Bosco a Roma. Il quartiere fa parte dell’ex Municipio X oggi Municipio VII, il Tuscolano, l’area più popolata di Roma, circa 310.000 abitanti, situata a sud-est della città. Il quartiere Don Bosco è la parte del Tuscolano delimitata a Nord dal parco e dall’aeroporto di Centocelle e dalla via Casilina, a sud dalla Tuscolana, a ovest dal quartiere Quadraro/Porta Furba e a est dagli stabilimenti di Cinecittà. Occupa 5,837 kmq, con una popolazione di 66.621 abitanti. Il quartiere nasce sotto la spinta dell’industria culturale cinematografica e intorno alla Basilica di San Giovanni Bosco, da cui prenderà il nome, inaugurata nel 1957, su progetto di Gaetano Rapisardi che curò anche l’impianto generale del quartiere. Gran parte del patrimonio INPDAI è proprio di quegli anni e rispondeva ad un bisogno urgente di alloggio della classe operaia proveniente soprattutto dal Sud d’Italia che si concentrava in baraccopoli all’ingresso di Roma. La popolazione del Quartiere Don Bosco era per lo più formata da operai, piccoli impiegati, lavoratori dello Stato e all’epoca dello SCIP 2 era formata prevalentemente da abitanti oltre i 50 anni di età. Le tipologie edilizie sono molto semplici e ripetitive, gli alloggi raramente superano gli 80 mq. Gli immobili occupano interi isolati all’interno dei quali si ripetono più blocchi di edifici connessi tra loro da locali commerciali, ai piani terra, sul perimetro dell’isolato, e da piccole ma interessanti corti e giardini all’interno. Gli immobili sono sempre non inferiori ai 7 piani fuori terra, questo fatto giustifica l’alta densità abitativa del quartiere che nel 2012 corrispondeva a 66,43 ab/ha. Buona parte del patrimonio INPDAI nel quartiere Don Bosco è stato venduto entro il 2008, anno in cui i patrimoni sono tornati dalla SCIP 2 agli Enti e le vendite sono state sospese per riorganizzarle. Da allora il quartiere ha subito delle profonde trasformazioni socio-spaziali legate principalmente al cambiamento di statuto dei suoi abitanti da affittuari a proprietari. Attraverso una serie di interviste abbiamo cercato di indagare e ricostruire i cambiamenti che sono intervenuti dopo la cartolarizzazione. A soli sei anni dall’interruzione delle vendite una consistente parte degli immobili sono stati rivenduti o riallocati, in alcuni immobili su un blocco-scale di 32 appartamenti solo 4 sono rimasti ai proprietari originari. Dunque, gran parte della popolazione originaria è stata sostituita. Gli immobili sono stati rivenduti a prezzi fino a quattro volte le quotazioni a cui erano stati acquistati o affittati a prezzi di mercato. Gli abitanti rimasti ammettono che si sono trovati “impreparati” al cambiamento di condizione e che vivono attualmente una sorta di stato di spaesamento, in cui vi è la perdita dei punti di riferimento con cui avevano vissuto, reagendo spesso creando gruppi di autodifesa come “Cinecittà Bene Comune”. Ciò è dovuto anche 1.
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al fatto che il resto della popolazione si è dispersa dissolvendo lo spazio esistenziale del quartiere. Questi immobili erano la garanzia materiale della redistribuzione della ricchezza, con affitti non speculativi che assicuravano giustizia spaziale tutelando il diritto all’abitazione. La vendita e il conseguente accesso a sistemi creditizi per l’acquisto ha messo all’opera un dispositivo per cui la proprietà della casa da un lato ha soddisfatto un’aspirazione che si sente sempre più come un diritto della persona, ma che, dall’altro, ha suggerito agli abitanti di prendere la via della speculazione. Queste aree urbane incorporavano antropologicamente la società che li abitava, quando invece si sono trasformati attraverso tali processi in quartieri di proprietari, è cambiato completamente il rapporto tra l’abitante e il proprio spazio, fino alla dissoluzione. Caso completamente diverso, è quello delle Società di valorizzazione come Fintecna Immobiliare. Fintecna Immobiliare è una società controllata al 100% dal MEF, creata dalla privatizzazione fatta negli anni ‘90 dell’IRI, passata recentemente in Cassa Depositi e Prestiti. Molti degli immobili del Portfolio Fintecna sono immobili ex-produttivi (es. manifatture tabacchi) o immobili precedentemente destinati ad uffici (Poste, Zecca dello Stato, Istituti di ricerca), e alcune aree dismesse di vario genere, e hanno una distribuzione su tutto il territorio italiano. Le politiche immobiliari di questa società riflettono esattamente i modelli tardo capitalistici, si svolgono sempre attraverso percorsi di valorizzazione rispondenti a dinamiche top-down. A seconda degli interessi dei potenziali acquirenti e concordando i termini con le amministrazioni locali, si dà luogo a possibili prefigurazioni di valorizzazione, il valore che viene attribuito al bene non è un valore che gli è proprio in quanto spazio fisico, per l’uso cui era destinato in origine o per l’uso che eventualmente l’ha ridestinato dal basso, l’investitore propone il programma di sviluppo del luogo, a seconda di ciò che può creare più plusvalore, e decide di investirvi. Non c’è nessun interesse per il contesto sociale, si procede solamente in termini di idoneità economica. In seconda battuta si chiama uno studio “brandizzato” per rendere l’investimento ancora più attraente e si produce un masterplan. I masterplan possono essere molteplici, ognuno con destinazioni diverse a seconda dell’investitore. Il caso dell’ex-dogana di San Lorenzo è esemplare. Quest’area si trova schiacciata tra il viale di Scalo San Lorenzo, i binari che arrivano alla Stazione Termini e la Tangenziale Est. Ha un solo affaccio aperto, quello su Scalo San Lorenzo, il resto è incuneato tra le infrastrutture. È composta dall’edificio della dogana storica con il fronte su Scalo San Lorenzo e una serie di annessi e capannoni sul retro. Gli edifici hanno ospitato fino al 2009 parte degli uffici della dogana. A seguito dell’apertura della nuova Stazione Tiburtina l’area produttiva compresa tra quest’ultima e la stazione Termini è interessata da una ristrutturazione, l’area dell’Ex-Dogana ha perso di importanza strategica ed è stata inserita tra gli immobili disponibili per la valorizzazione e vendita. E’ stata collocata nella joint venture “Residenziale Immobiliare 2004” di cui Fintecna deteneva il 50% e il resto era in mano a un gruppo di privati (Fingen), ed è stata interessata da numerose proposte di valorizzazione. L’area si trova nel quartiere di San Lorenzo, simbolo delle lotte di classe della città e uno dei centri nevralgici della vita studentesca e del loisir notturno. Un quartiere dove i conflitti sociali sono molto acuti, in cui i movimenti per il diritto alla casa sono molto attivi e che è caratterizzato da anni dalla mancanza di servizi. I progetti che negli anni si sono susseguiti, fino al SAP (Schema di Assetto Preliminare del 2009) pur leggendo nel territorio le cesure esistenti e i conflitti emergenti, hanno sempre perseguito 1.
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l’interesse dei possibili investitori. Dunque, se il mercato indicava che un possibile investimento su residenze per studenti era vantaggioso in un determinato periodo si produceva un masterplan in tal senso, se la dogana rivendicava in parte l’uso di quel suolo si produceva un altro tipo di masterplan con un mix funzionale terziario/residenziale, se, infine, una grande catena di supermercati riteneva quell’area interessante si proponeva un mix tra residenziale/commerciale. Al cambiamento degli interessi del mercato si cambiava anche il tipo d’intervento sul territorio. Fintecna si presenta come un gruppo Immobiliare che ha come scopo la valorizzazione per la vendita dei beni immobiliari “disponibili” dello Stato, tuttavia a forza di voler stare ad ogni costo nel mercato, adottando le politiche dei privati, con il sopravvento della crisi questi immobili sono divenuti di scarsa attrattiva, per cui nessuno al momento è disposto più a investirvi. Questa situazione ha portato Fintecna a ritrovarsi il patrimonio sospeso, aprendo spazi ancora più ampi alle pratiche dal basso. Di fatti, l’immobile è stato già simbolicamente occupato da Action, un gruppo di attivisti della casa, e il quartiere ne rivendica l’uso. A Roma nell’ultimo decennio si è disegnata una geografia delle valorizzazioni attraverso numerosi programmi su luoghi dismessi, immobili di pregio e aree ancora non costruite che restituivano in dettaglio la politica di gestione del territorio attuata dallo Stato attraverso questa società. Nonostante l’alto profilo dei professionisti chiamati a rispondere di questo tipo di programmazione i progetti sono tutti dettati da istanze di valorizzazione su modello privatistico e dunque di scarso interesse per la collettività. Tali temi vanno approfonditi senza dubbio. Ma un’indagine in depth dovrà tenere insieme i due lati dell’esperienza dello spazio, ovvero lo spazio astratto e lo spazio vissuto, perché come speriamo si sarà chiarito lo spazio astratto non risulta meno reale.
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V. Un nuovo funzionamento del territorio
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ou de l’émergence de nouvelles formes d’urbanité dont on ne maîtriserait pas encore le paradigme ? Nous postulerons ici que, si crise il y a, celle-ci porte en premier lieu sur les concepts et les valeurs que l’on associe généralement à ’environnement urbain et procède d’une difficulté, tant pour l’usager que pour e concepteur, à (se) représenter le territoire auquel il est confronté3. En tâchant d’articuler les mécanismes liés à la conception et ceux qui concourent à la récepion des espaces urbains, la présente recherche s’efforcera donc d’envisager les iens dynamiques qui peuvent s’établir entre les réalités physiques et spatiales observables sur le territoire et les représentations individuelles ou collectives qui peuvent lui être associées4.
Introduction à une ant nité, Paris : Le Seuil,
« Des passages « Des passages hors du monde » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014hors du monde » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Photographie : VIALLE (Antoine) Paris : Kaiserin, 2014 Photographie :
VIALLE (Antoine) Antoine Vialle | Territories in crisis | 3. New operating landscapes - Masterclass september 2014
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Scenographia: the urban spaces, fabrics and landscapes of mobility interfaces in European peripheries Antoine Vialle PhD candidate EPFL
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La recherche présentée ici porte sur la façon dont l’aménagement de ce que nous définirons comme les espaces d’articulation du milieu urbain a contribué à transformer en profondeur le paysage et l’organisation du territoire au cours des dernières décennies, en particulier dans le contexte de la grande périphérie urbaine en Europe. Considérant la transformation des villes à long terme comme son enjeu majeur, cette recherche a pour objectif une meilleure compréhension des causes et des conséquences des pratiques actuelles de l’aménagement urbain sur le plan formel mais aussi, dans la longue durée, en termes de méthodes et de processus.
Une crise de la périphérie urbaine ?
1 Voir entre autres BIANCHETTI (Christina), « Un ribaltamiento di valori e gerarchie » in #1Territori nella Crisi – Rapporto intermedio, Politecnico di Torino, EPFL, 2014. 2 Dans l’ouvrage qu’il consacre à la ville du XXe siècle Bernardo Secchi montre par exemple que la compréhension de celleci peut s’opérer selon différents « récits » complémentaires. SECCHI (Bernardo), La ville du vingtième siècle, Paris : Recherches, 2009. 3 Voir en particulier AUGÉ (Marc), Non-Lieux : Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris : Le Seuil, 1992. 4 Nous nous appuierons ici essentiellement sur VIALLE (Antoine), Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014, dont certains arguments seront repris textuellement.
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Bien qu’elles aient été soumises à un fort développement depuis la seconde moitié du XXe siècle, le constat selon lequel les portions les plus périphériques de l’aire métropolitaine traversent aujourd’hui une situation de crise est partagé par un bon nombre d’observateurs1. Toutefois, de par le caractère polymorphe et endémique de ce constat, il convient de s’interroger sur les différentes réalités, observables ou intangibles, que recouvre cette notion de « crise ». De quelle crise s’agit-il et quels sont ses effets? Est-elle de nature économique, écologique, fonctionnelle ou sociale?2 Relève-t-elle d’un bouleversement temporaire ou de l’émergence de nouvelles formes d’urbanité dont on ne maîtriserait pas encore le paradigme? Nous postulerons ici que, si crise il y a, celleci porte en premier lieu sur les concepts et les valeurs que l’on associe généralement à l’environnement urbain et procède d’une difficulté, tant pour l’usager que pour le concepteur, à (se) représenter le territoire auquel il est confronté3. En tâchant d’articuler les mécanismes liés à la conception et ceux qui concourent à la réception des espaces urbains, la présente recherche s’efforcera donc d’envisager les liens dynamiques qui peuvent s’établir entre les réalités physiques et spatiales observables sur le territoire et les représentations individuelles ou collectives qui peuvent lui être associées4.
(Se) représenter la limite urbaine Dans le cas de la grande périphérie, ce découplage entre un « patrimoine » de valeurs symboliques et un ensemble de nouveaux phénomènes urbains affecte notamment la vocation des espaces d’articulation à exprimer une limite urbaine. En effet, dans un contexte où les limites des aires urbaines tendent à disparaître sous leur forme unitaire, au profit de nouvelles dynamiques de croissance urbaine globalisées – liées notamment à l’accroissement de la mobilité –, on assiste au développement d’un paysage perçu comme inhospitalier5 pour celui qui le traverse et d’un tissu ségrégé par zones monofonctionnelles6. En l’occurrence, tels que nous les définissons ici et bien qu’ils soient essentiellement le produit d’une somme de contingences mécaniques et d’un jeu d’influences technocratiques, les espaces d’articulation7 conditionnent l’aspect esthétique et l’organisation spatiale des entrées de ville, aux abords desquelles ils sont omniprésents. Relevant de la voirie et des espaces verts, ces espaces ouverts jouent le rôle de limite visuelle et spatiale, tout en réglant le déplacement des corps et des véhicules automobiles. En cela, ils constituent les principaux maillons de l’armature infrastructurelle des réseaux de mobilités piétonnes et automobiles, qu’elles soient collectives ou individuelles. Par ailleurs, les espaces d’articulation organisent l’accès aux différentes entités urbaines, mais ils consomment une quantité de territoire considérable. Ils ont donc une influence primordiale sur la quasi-absence de mixité et la faible densité qui caractérisent la périphérie des villes. Ces aménagements que l’on désigne volontiers comme des espaces interstitiels ont donc en réalité une valeur problématique en tant qu’interface à plusieurs échelles. L’articulation spatiale de ces nœuds de mobilité et les phénomènes perceptifs qu’elle implique constituent le « socle » du paysage et la «trame» la plus fine du tissu urbain, et rejaillissent dès lors sur la globalité du territoire de la périphérie. En d’autres termes, au-delà de leur configuration physique, les espaces d’articulation assument également une fonction de représentation, en ce sens qu’ils expriment un principe de circulation, de même qu’une certaine organisation des programmes et des bâtiments, mais aussi parce qu’ils donnent à percevoir de façon particulière un ensemble de limites et, par extension, un horizon et un éventuel ailleurs. Les espaces d’articulation ont donc malgré tout une dimension monumentale, qu’il convient à présent de mettre à jour, bien qu’elle s’exprime aujourd’hui en négatif. Dans cette perspective, nous présenterons ici les premières conclusions d’une démarche d’observation basée sur plusieurs campagnes photographiques que nous avons menées aux confins des aires métropolitaines parisienne et romaine entre 2010 et 20138. À partir des clichés ainsi accumulés, nous avons tenté d’identifier les éléments de vocabulaire urbain en présence desquels nous sommes. Puis nous nous sommes interrogés sur les logiques visuelles, spatiales et fonctionnelles dont ils sont les produits. Que voit-on ou ne voit-on pas depuis les espaces d’articulation? Vers où peut-on, ou ne peut-on pas, se déplacer? À quelles injonctions doit-on répondre et comment nous sont-elles communiquées ? Cette approche, qui trouve son point de départ dans les mécanismes de réception à la plus petite échelle de l’espace perçu, se distingue de l’observation cartographique. Elle peut être qualifiée de scénographique en ce sens qu’elle vise à considérer notamment la profondeur visuelle des dispositifs d’interface, plutôt que le rôle qu’ils jouent dans la grande structure territoriale9.
5 Sur les rapports du corps et de l’œil de l’usager au territoire, voir entre autres l’introduction de PICON (Antoine), La Ville, territoire des cyborgs, Besançon : Les Éditions de l’Imprimeur, 1998. 6 Voir entre autre MANGIN (David), La Ville fran- chisée. Formes et structures de la ville contem- poraine, Paris : La Villette, 2004. 7 Faute d’une terminologie meilleure ou plus précise dans la littérature consacrée à l’urbanisme et à l’aménagement du territoire, nous choisis- sons d’utiliser le terme « espace d’articulation » pour designer l’ensemble des dispositifs tels que les rondspoints, bords de route, talus, terre- pleins, sites propres, aires de parking, etc., que nous définissons comme des espaces ouverts, composés non seulement de la voirie, mais également des espaces vers qui en constituent les abords, et qui jouent le rôle d’interface entre différentes voies de circulation et/ou différentes entités programmatiques. 8 Ces premières observations sont essentielle- ment fondées sur une campagne photographique menée sur les limites de l’aire métropolitaine pa- risienne, puis plus spécifiquement le plateau de Saclay, au sein du Laboratoire EnsADlab – École nationale supérieure des Arts Décoratifs, sous la direction de Ruedi Baur. Elles bénéficient, dans une moindre mesure, des éclairages d’une seconde campagne que nous avons menée sur les limites sud-ouest de l’aire métropolitaine romaine, puis plus spécifique- ment sur la zone de Mezzocamino, en tant que pensionnaire architecte de l’Académie de France à Rome – Villa Médicis. 9 Sur la double définition classique et contemporaine de la scenografia, nous nous rapportons à PANOFSKY (Erwin), La perspective comme forme symbolique et autres essais, Paris : Les Éditions de Minuit, 1976. (Édition originale du texte dans Vorträge der Bibliothek Warburg, 1924-25, Leipzig-Berlin, 1927).
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Par ailleurs, si elle tend à envisager les espaces d’articulation au-delà du seul rôle qu’ils jouent au sein d’un réseau de circulation trop souvent considéré comme une structure autonome, la recherche présentée ici10 propose également une conception décalée de la notion de paysage. L’hypothèse est alors que ce dernier ne doit pas uniquement être envisagé comme le pur produit d’une artiali- sation11 – établissant une distinction franche entre l’environnement, comme réa- lité physique, et le paysage, comme construction culturelle –, mais qu’il est également conditionné par la façon dont l’espace est aménagé. Dans la perspective d’un développement futur de la recherche, nous ferons donc état, en conclusion, d’une série de questions ayant trait à une possible modélisation scientifique de l’aménagement des espaces d’articulation à la croisée de deux champs disciplinaires distincts, en associant au sein d’une même réflexion la notion de paysage, comme territoire perçu, et celle – appartenant au champ de l’urbanisme – de tissu, comme territoire programmé. 10 Cette démarche est inspirée entre autres par les travaux de Kevin Lynch sur les mécanismes d’acquisition d’« une image » de la ville, par ceux de Denise Scott Brown et Robert Venturi sur les liens entre la perception automobile et le déve- loppement d’une architecture de signe pour le strip américain, ainsi que par ceux de Marc Des- portes, portant sur la façon dont chaque moyen de déplacement « impose [...] au voyageur des façons de faire, de sentir [qui] modèle [...] une approche originale de l’espace traversé [et] porte en soi un ′′paysage′′ ». LYNCH (Kevin), L’Image de la cité, Paris : Dunod, 1999. (Édition originale : The Image of the City, Cambridge : MIT Press, 1960). LYNCH (Kevin), APPLEYARD (Donald), MYER (John R.), The View from the Road, Cambridge : MIT Press, 1964. SCOTT BROWN (Denise), VENTURI (Robert), IZENOUR (Steven), Learning From Las Vegas : The Forgotten Symbolism of Architectural Form, Cambridge : MIT Press, 1972. STADLER (Hilar), STIERLI (Martino) (dir.), Las Vegas Studio : Images from the archives of Robert Venturi and Denise Scott Brown, Zurich : Scheidegger & Spiess, 2008. DESPORTES (Marc), Paysages en mouve- ment : Transports et perception de l’espace – XVIIIeXXe siècles, Paris : Gallimard, 2005. 11 Sur le concept d’artialisation voir ROGER (Alain), Court traité du paysage, Paris : Gallimard, 1997. 12 L’architecte Rem Koolhaas a en particulier théorisé la question de la fragmentation du lieu en ce qui concerne les situations d’hyperden- sité. Toutefois, son commentaire comporte plu- sieurs points communs avec les manifestations les moins denses de l’espace urbain (cf. VIALLE (Antoine), op. cit.) KOOLHAAS (Rem), New York Délire : Un manifeste rétroactif pour Manhattan, Marseille : Éditions Parenthèses, 2002. (Édition originale : Delirious New-York : A retroactive manifesto for Manhattan, Oxford : Oxford University Press, 1978). KOOLHAAS (Rem), Junkspace : Repenser radi- calement l’espace urbain, Lausanne : Payot, 2011. Voir en particulier « Junkspace » (Édition originale du texte : 2001).
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Discontinuités urbaines Les différentes observations que nous avons menées jusqu’ici convergent vers l’hypothèse que la question de la fragmentation du lieu et celle du raccord entre des environnements hétérogènes, comme problèmes communs à la ville dense12 et à la ville liminaire, sont les invariants de ce que serait l’espace contemporain. Or, la ville non dense a pour particularité de matérialiser la discontinuité de l’espace selon une esthétique de la dissociation, se déclinant selon différentes modalités propres aux différents dispositifs d’articulation présents sur le territoire. Par opposition à la rue traditionnelle, dont l’espace unitaire et intégratif accueillait indifféremment tous les moyens de déplacement et superposait verticalement différents programmes, l’urbanisme moderne a énoncé au cours de la première partie du XXe siècle un principe de séparation des flux de circulation. Aujourd’hui, s’ils ne sont pas systématiquement séparés géographiquement, les différents flux de circulation restent cependant dissociés les uns des autres. Selon leur degré de nuisance, on distingue des modes «doux» par rapport aux déplacements rapides; on différencie les transports collectifs et individuels. La ville contemporaine se développe alors en «sites propres», selon une formule consacrée par les politiques publiques. Chaque moyen de circulation se voit assigner une place à part, bien délimitée. Leurs différentes trajectoires suivent leur propre trace et ne se mélangent pas. Cette logique de l’aménagement des espaces urbains en périphérie des villes relève, de façon plus générale, d’une tendance à décomposer et dissocier chacun des éléments qui constitue l’environnement. Chaque information a son propre code, son propre graphisme. Chaque usage et chaque signe est matérialisé physiquement par un objet solitaire. Chaque ligne et chaque plan, même s’ils sont parallèles ou contigus, ont leur autonomie formelle. L’espace interstitiel entre ces bribes d’écriture isolées est le plus souvent occupé par une surface résiduelle. L’herbe et le bitume sont devenus les joints universels d’une expression de la dissociation. L’écriture dissociée des différents flux de circulation préserve l’intégrité des voies et des tracés dans le sens du déplacement, mais elle implique
également une forte discontinuité de l’espace dans son développement latéral. Pour l’usager, ces différents motifs urbains déclenchent une série de réflexes, mais ils ne participent pas d’un espace cohérent dans toutes les dimensions et n’appartiennent pas à une surface unitaire. Le plan et l’espace de la mobilité sont surinvestis d’objets techniques, mais ils ne façonnent pas un support partagé. De plus, au principe de la ségrégation des différents moyens de transport, la logique circulatoire moderne ajoute un certain nombre de règles établies d’abord en Grande-Bretagne, en France et aux États-Unis, dont celles de la conduite sur la file extérieure et du dépassement par l’intérieur. Permettant les croise ments obliques et la prise de file tangentielle dans un seul sens de circulation, la courbe giratoire supplante alors l’intersection perpendiculaire. Les «terre-pleins centraux», le «refuges» et autre «séparateurs de voies» deviennent ainsi l’éta lon universel de l’aménagement routier. Cependant, ces fragments de trottoir ou de pelouse placés au centre de la route se présentent comme autant d’isolats aux textures variées. L’espace de la route se réduit aux deux dimensions de ces aplats caractéristiques, plaqués sur le territoire indépendamment de toute locali sation et dont les formes quelconques n’ont d’autre signification que d’exprimer la tension de la conduite automobile. Résultant de contraintes mécaniques, cette géométrie calculée sur le papier inscrit un code sur un plan unique, sans relation avec l’environnement réel. Le conducteur et le marcheur ne parviennent pas à établir un lien cognitif entre ce qu’ils embrassent du regard et cette étrange dentelle pétrifiée13. Cet aménage ment de la voirie est relayé par un autre système de signes verticaux indiquant notamment les directions. Dès lors, l’échelle du déplacement ne coïncide pas avec la sensation du mouvement. Deux régimes d’information coexistent, sans que l’ordre sémantique du réseau ne procède d’une véritable intention physique. L’espace de l’expérience est ainsi scindé. Le plan horizontal s’affranchit des trois dimensions, comme si le sol et la profondeur visuelle vivaient leurs vies séparément. Le télescopage des dimensions horizontale et verticale de l’espace urbain, de même que la difficile rencontre avec les développements latéraux de l’environnement alentour, se fondent par ailleurs sur un traitement particulier du relief de la ville. La méthode selon laquelle on aménage aujourd’hui l’emprise des espaces viaires, ainsi que celle des différentes zones d’activité de la ville contemporaine, est en effet dénuée d’une véritable prise en compte de la topographie. Toute opération d’aménagement commence au contraire par l’action de décaper la couche superficielle du sol existant, puis de l’araser, jusqu’à créer artificiellement l’assiette la plus neutre et horizontale possible, en vue d’y asseoir sans diffi- culté le projet à venir. Privé des qualités particulières de son épiderme végétal et minéral, le terrain est ainsi rééquilibré selon l’incontournable technique du déblai- remblai, aplanissant les volumes en saillie pour combler les parties en dévers. Il semble que l’aménageur phantasme ou, du moins, présuppose l’horizontale comme une donnée acquise et ne sache que faire du relief auquel il doit malgré tout se confronter. Simplement poussée sur le côté, la terre excédentaire est alors disposée en «talus plein jalon» ou répartie en buttes plus ou moins linéaires et arrondies, cernant le contour des routes, des aires de parking et des lotissements. Intrinsè- quement liés, le volume du talus et le plan de l’aménagement ne dialoguent jamais, l’un étant l’anti-matière de l’autre. L’urbain et le relief ne sont plus intégrés. Isolat entre diverses entités urbaines, relief artificiel et horizon de substitution, le talus se présente comme le résultat d’un territoire ayant perdu ses qualités
13 Sur la disjonction des logiques de conception en plan et de la perception en trois dimensions, voir DESPORTES (Marc), op. cit.
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les moins denses de l’espace urbain (cf. VIALLE (Antoine), op. cit.) KOOLHAAS (Rem), New York Délire : Un manifeste rétroactif pour Manhattan, Marseille : Éditions Parenthèses, 2002. (Édition originale : Delirious New-York : A retroactive manifesto for Manhattan, Oxford : Oxford University Press, 1978). KOOLHAAS (Rem), Junkspace : Repenser radicalement l’espace urbain, Lausanne : Payot, 2011. Voir en particulier « Junkspace » (Édition originale du texte : 2001).
également une forte discontinuité de l’espace dans son développement latéral. Pour l’usager, ces différents motifs urbains déclenchent une série de réflexes, mais ils ne participent pas d’un espace cohérent dans toutes les dimensions et n’appartiennent pas à une surface unitaire. Le plan et l’espace de la mobilité sont surinvestis d’objets techniques, mais ils ne façonnent pas un support partagé.
« Sites propres » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
« Marelle » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014 « Marelle » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
De plus, au principe de la ségrégation des différents moyens de transport, la ogique circulatoire moderne ajoute un certain nombre de règles établies d’abord en Grande-Bretagne, en France et aux États-Unis, dont celles de la conduite sur la file extérieure et du dépassement par l’intérieur. Permettant les croisements obliques et la prise de file tangentielle dans un seul sens de circulation, la courbe giratoire supplante alors l’intersection perpendiculaire. Les « terre-pleins
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« Sites propres » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
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topographiques et son identité géographique. Le talus façonne ainsi un paysage de césure, atténuant toute confrontation directe entre différentes entités du territoire. S’il est la conséquence formelle d’une ville dessinée à plat, le talus est donc aussi le corollaire de la programmation d’un sol dont chaque fonction est dissociée des autres. En effet, la spécialisation de la voirie et le partiel abandon de la mitoyenneté ont abouti, notamment pour des motifs hygiénistes, à un découplage progressif de la voirie et du bâti. Par ailleurs, la doctrine architecturale et urbanistique dominant la première moitié du XXe siècle a envisagé une séparation des activités humaines selon un principe de zonage par emprises fonctionnelles distinctes, assignant à chaque portion du territoire une affectation particulière. Réduit à une simple gestion de l’occupation des sols, ce principe du zonage correspond aujourd’hui à une segmentation de l’espace urbain en différentes « zones d’activités» plus ou moins enclavées: zones industrielles, lotissements résidentiels, centres commerciaux, pôles de recherche, parcs d’affaires ou pépinières d’entre- prises, s’intercalent entre les nœuds intermodaux et autres emprises infrastructurelles. Combinée à l’indépendance réciproque des bâtiments et du système de circulation, l’autonomie des différentes entités fonctionnelles définit des espaces de vie isolés sur le plan viaire, auxquels on accède généralement par un parking, lui-même relié à une route importante ou directement branché sur l’autoroute. Ici, toute relation spatiale ou visuelle à la structure géographique du site est définitivement perdue. Toutefois, le jeu de causes et de conséquences observé dans le cas des aménagements directement confrontés à l’horizon est toujours à l’œuvre. L’amnésie du relief et la prolifération formelle d’objets dissociés produisent un décor synthétique. De même que l’espace vert s’affirme comme référence à toute forme d’urbanisation récente, le jardin, reproduction d’une nature idéalisée, tient lieu de modèle à la domestication du territoire. Dans un environ- nement uniquement conçu en plan, sans maîtrise de la volumétrie, les massifs en plates-bandes, couvertes de gazon ou agrémentées de quelques plantes et arbustes, représentent pourtant ce qui reste de l’infini. Elles constituent la seule ouverture visuelle et matérialisent, en quelque sorte, un horizon au pied du mur.
Un horizon dont on ne sait que faire En somme, la tendance actuelle consistant à dissocier chaque élément de l’aménagement du territoire – zones programmatiques, flux de circulation, registres d’information, mais aussi édifice et voirie, relief et assiette du projet – génère une juxtaposition d’établissements humains et de tracés qui mettent à mal la cohérence formelle et culturelle de la ville contemporaine. Elle ouvre une multitude de brèches dans le cube perspectif, intégrant traditionnellement les trois dimensions du sol et des plans verticaux dans un dessin unitaire. Ce bouleversement des repères spatiaux et visuels pose cependant les fondements du nouveau paradigme symbolique au sein duquel s’élabore le rapport de la ville à ses limites. 1.
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14 Pour une analyse historique et formelle du rond-point, voir ALONZO (Éric), Du Rond-point au giratoire, Marseille : Éditions Parenthèses et Lyon : Éditions du Certu, 2005. 15 Nous nous référons notamment à l’expression des limites urbaines dans le dispositif du panorama peint au XIXe siècle, telle qu’elle est décrite et analysée par COMMENT (Bernard), Le XIXe Siècle des Panoramas, Paris : Société Nouvelle Adam Biro, 1993.
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En l’occurrence, le système du giratoire permet de mieux comprendre la façon dont réapparaît à différentes échelles le motif d’une limite urbaine ayant disparu dans sa forme unitaire. Ce dispositif est simultanément un point de mire et un carrefour, à travers lequel les automobilistes orientent leurs déplacements en faisant abstraction du cadre. Il permet aux usagers de garder un cap en tournant autour d’un manège automobile, mais il coupe tout lien avec leur environnement. L’espace et la forme de la route fonctionnent ainsi comme un environnement en soi, affranchi du contexte14. Il semble cependant qu’un autre projet se dessine à travers cette ronde ininterrompue. Cette pièce bien régulière et bien délimitée joue le rôle de borne visuelle, mais elle correspond également à la nécessité d’arrêter le regard, de masquer ce qu’il y a derrière. Elle se substitue à l’horizon, trop ouvert et trop vaste, que l’on ne parvient plus à maîtriser. Un horizon dont on ne sait que faire dans la ville contemporaine. À cette ligne horizontale que l’on ne sait plus lire, le rond-point superpose un premier plan d’ornement végétal, développant des motifs abstraits ou figurant l’image archétypale d’un éden synthétique. Correspondant à la superposition visuelle de deux paysages, l’un artificiel et l’autre préexistant au développement de la ville, cette nouvelle expérience du déplacement trahit ainsi l’objet inavoué de la scène : l’avènement d’une ville fragile qui se confronte de façon paradoxale, parfois brutale, à la « réalité » du territoire agricole. Bien qu’ils ne soient pas à proprement parler figuratifs, les différents dispositifs propres aux espaces d’articulation invitent alors à s’interroger sur le sens de cet impensé qu’est l’horizon agricole, comme contre-forme de l’urbain, et sur le rapport de substitution qu’entretient avec lui le vert des aménagements urbains. En effet, il semble que ce sont autant les limites de la nature que celles de la ville que l’on cherche à redéfinir à travers l’aménagement du rond-point. À l’époque moderne, le panorama convoque la nature pour dompter la ville, opposant une ceinture agricole à l’expansion incontrôlable de la métropole15. À l’aire postindustrielle, le monde agricole n’est plus perçu comme un paysage pittoresque, dont on posséderait une vision « cultivée ». L’urbain ne sait plus aller à la rencontre de ce territoire qui perdure comme une réalité intangible. À la frange d’une ville diffuse et discontinue, l’horizon représente à nouveau une menace de dissolution. Son étendue visuelle n’est plus perçue comme une limite rassurante, mais comme une fuite en avant. C’est alors que, selon un double paradoxe, une autre nature, cette fois artificielle et maîtrisée, vient s’interposer devant la première, afin de faire circuler l’automobiliste et de discipliner son regard. Dans un environnement urbain qui se désagrège, le traditionnel antagonisme entre ville et campagne est supplanté par une opposition entre un paysage synthétique et un environnement naturel. À travers cette façon de mettre du vert devant le vert, l’urbain ne se confronte pas à ce qui serait le sauvage, mais se tourne au contraire vers le souvenir factice d’une nature primitive, dont le pouvoir de fascination s’efforce de contenir un contexte qui lui échappe.
d’autre signification que d’exprimer aujourd’hui l’emprise des espaces d’activité de la ville contemporaine, ecompte géométrie calculée sur le papier de la topographie. Toute tion avec réel. Le ntraire parl’environnement l’action de décaper la sraser, à établir un lien entre ce jusqu’à créercognitif artificiellement 13 dentelle pétrifiée . Cet aménageble, en vue d’y asseoir sans diffième dede signes verticaux végétal indiquant ulières son épiderme et du déplacement ne coïncide pas ncontournable technique du déblaimes d’information coexistent, sans our combler les parties en dévers. véritable intention physique. ud’une moins, présuppose l’horizontale «du L’isolant vert » in Saclay-Panorama : il doit plan s’affranchit des trois fairehorizontal relief auquel malgré Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014 visuelle vivaient leurs vies séparéxcédentaire est alors disposée en es etouverticale de l’espace urbain, de moins linéaires et arrondies, oppements de l’environnerking et deslatéraux lotissements. Intrinsèparticulier du relief dejala eraitement l’aménagement ne dialoguent aujourd’hui des intégrés. espaces in et le reliefl’emprise ne sont plus d’activité de la ville tificiel et horizon decontemporaine, substitution, le compte la topographie. oire ayantde perdu ses qualités Toute topontraire par l’action de paysage décaper de la alus façonne ainsi un raser, jusqu’à créer artificiellement ntre différentes entités du territoire. ble, enà vue asseoir sansaussi diffisinée plat, d’y le talus est donc « Refuge » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, : est Kaiserin,dissociée 2014 végétal ulières defonction son Paris épiderme et chaque des ncontournable technique du déblaiour combler les parties en dévers. partiel abandon de la mitoyenneté u moins, présuppose l’horizontale nistes, à un découplage progressif faire du reliefet auquel il doit malgré architecturale urbanistique domisagé une séparation des activités excédentaire est alors disposée en emprises fonctionnelles distinctes, s affectation ou moins linéaires et arrondies, particulière. Réduit à rking et desdu lotissements. Intrinsèce principe zonage correspond erbain l’aménagement ne «dialoguent jaen différentes zones d’actiin et le relief ne sont plus intégrés. strielles, lotissements résidentiels, « Acquarium » in Saclay-Panorama : tificiel et horizon substitution, le cs d’affaires ouParispépinières d’entrePaysages superposés, :de Kaiserin, 2014 oire ayant perdu ses qualités topodaux et autres emprises infrastruc-
arbustes, représentent pourtant ce qui reste de l’infini. Elles constituent la seule ouverture visuelle et matérialisent, en quelque sorte, un horizon au pied du mur.
13 Sur la disjonction des logiques de conception en plan et de la perception en trois dimensions, voir DESPORTES (Marc), op. cit.
« Refuge » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
« L’isolant vert » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
Un horizon dont on ne sait que faire En somme, la tendance actuelle consistant à dissocier chaque élément de l’aménagement du territoire – zones programmatiques, flux de circulation, registres d’information, mais aussi édifice et voirie, relief et assiette du projet – génère une juxtaposition d’établissements humains et de tracés qui mettent à mal la cohérence formelle et culturelle de la ville contemporaine. Elle ouvre une multitude de brèches dans le cube perspectif, intégrant traditionnellement les trois dimensions du sol et des plans verticaux dans un dessin unitaire. Ce bouleversement des repères spatiaux et visuels pose cependant les fondements du nouveau paradigme symbolique au sein duquel s’élabore le rapport de la ville à ses limites. En l’occurrence, le système du giratoire permet de mieux comprendre la façon dont réapparaît à différentes échelles le motif d’une limite urbaine ayant disparu dans sa forme unitaire. Ce dispositif est simultanément un point de mire et un carrefour, à travers lequel les automobilistes orientent leurs déplacements en faisant abstraction du cadre. Il permet aux usagers de garder un cap en tournant autour d’un manège automobile, mais il coupe tout lien avec leur environnement. L’espace et la forme de la route fonctionnent ainsi comme un environnement en soi, affranchi du contexte14. Il semble cependant qu’un autre projet se dessine à travers cette ronde ininterrompue. Cette pièce bien régulière et bien délimitée joue le rôle de borne visuelle, mais elle correspond également à la nécessité d’arrêter le regard, de masquer ce qu’il y a derrière. Elle se substitue à l’horizon, trop ouvert et trop vaste, que l’on ne parvient plus à maîtriser. Un horizon dont on ne sait que faire dans la ville contemporaine. À cette ligne horizontale que l’on ne sait plus lire, le rond-point superpose un premier plan d’ornement végétal, développant des motifs abstraits ou figurant l’image archétypale d’un éden synthétique. Correspondant à la superposition visuelle de deux paysages, l’un artificiel et l’autre préexistant au développement de la ville, cette nouvelle expérience du déplacement trahit ainsi l’objet inavoué de la scène : l’avènement d’une ville fragile qui se confronte de façon paradoxale, parfois brutale, à la « réalité » du territoire agricole. Bien qu’ils ne soient pas à proprement parler figuratifs, les différents
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Dans un environnement urbain qui se désagrège, le traditionnel antagonisme entre ville et campagne est supplanté par une opposition entre un paysage synhétique et un environnement naturel. À travers cette façon de mettre du vert devant le vert, l’urbain ne se confronte pas à ce qui serait le sauvage, mais se ourne au contraire vers le souvenir factice d’une nature primitive, dont le pouvoir de fascination s’efforce de contenir un contexte qui lui échappe.
« Double nature » in Saclay-Panorama : Pay sages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
« Rond-point » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014 « Rond-point » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
Comment comprendre et modéliser l’existant… En somme, le traitement du sol en deux dimensions, accentuant l’ouverture du hamp visuel et la prolifération des plans d’ornement végétal, marque l’absence – mais pourrait peut-être également donner l’indice – d’un nouveau support à a communauté urbaine. Dès lors, à ce stade initial de la recherche, une série de questions se fait jour quant à l’émergence d’une ville intermittente, intrinsèquement marquée par la discontinuité sémantique, spatiale, programmatique de espace urbain. Dans un premier temps, la compréhension de la crise que l’on associe acuellement au paysage de la périphérie urbaine pourra s’établir à travers trois ouches d’analyse successives, portant respectivement sur le vocabulaire formel des aménagements, sur ses motivations normatives ou dogmatiques, ainsi que ur l’influence des facteurs extérieurs. L’analyse formelle trouve son point de départ dans l’approche globale et non élective propre à la photographie, puis dans la décomposition élémentaire et la prise en compte de l’épaisseur du sol que permet le dessin en plan et en coupe. Toutefois, cette étape documentaire devra être complétée par la mise en lumière des préconceptions qui motivent l’action des aménageurs et qui, jusqu’à présent, estent uniquement véhiculées par une « littérature grise ». En constituant une
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Comment comprendre et modéliser l’existant. En somme, le traitement du sol en deux dimensions, accentuant l’ouverture du champ visuel et la prolifération des plans d’ornement végétal, marque l’absence – mais pourrait peut-être également donner l’indice – d’un nouveau support à la communauté urbaine. Dès lors, à ce stade initial de la recherche, une série de questions se fait jour quant à l’émergence d’une ville intermittente, intrinsèquement marquée par la discontinuité sémantique, spatiale, programmatique de l’espace urbain. Dans un premier temps, la compréhension de la crise que l’on associe actuellement au paysage de la périphérie urbaine pourra s’établir à travers trois couches d’analyse successives, portant respectivement sur le vocabulaire formel des aménagements, sur ses motivations normatives ou dogmatiques, ainsi que sur l’influence des facteurs extérieurs. L’analyse formelle trouve son point de départ dans l’approche globale et non sélective propre à la photographie, puis dans la décomposition élémentaire et la prise en compte de l’épaisseur du sol que permet le dessin en plan et en coupe. Toutefois, cette étape documentaire devra être complétée par la mise en lumière des préconceptions qui motivent l’action des aménageurs et qui, jusqu’à présent, restent uniquement véhiculées par une «littérature grise». En constituant une bibliographie critique, il conviendra alors d’analyser le paysage qu’ont dessiné depuis plusieurs décennies les rapports et manuels destinés aux services tech- niques et bureaux d’étude en ingénierie. Le recours à l’entretien et à l’archive permettra également de considérer les doctrines explicites qui ont dicté l’aménagement des espaces d’articulation en fonction des préoccupations liées à la mobilité (recherche de la fluidité, puis de la sécurité, augmentation puis contrôle de la vitesse) et puis d’isoler celles, sans doute plus implicites, qui ont influé sur le rapport au contexte naturel et construit. On pourra alors considérer par exemple la valeur foncière et symbolique accordée au sol de la périphérie, par rapport au coût de sa transformation par l’infrastructure. Par ailleurs, afin d’assurer la transférabilité des résultats obtenus à travers l’analyse des formes et des motivations, il sera nécessaire de comparer les différents facteurs susceptibles de caractériser, ou non, chaque opération d’aménagement étudiées. Pour affiner l’hypothèse selon laquelle on assisterait à l’usage d’un même vocabulaire générique quelles que soient les situations, nous pourrons examiner le rôle joué par les différents critères temporels, géographiques, spatiaux et structurels. S’il est probable que l’évolution des tendances formelles et des techniques selon la période d’intervention, de même que les variations en terme de culture urbaine, de climat, de géologie ou de cadre juridique et économique selon la situation géographique, déterminent la conception du projet, qu’en estil du phasage et des acteurs publics ou privés des procédures d’aménagement? De même, l’organisation spatiale et programmatique des zones aménagées, leur échelle, leur position dans la grande structure urbaine ou leur degré d’accessibilité aux autres entités construites, naturelles ou infrastructurelles du territoire ontils une influence sur le dessin des espaces d’articulation ?
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pour quel devenir? Ces différentes analyses permettrons dans un second temps contribuer à la formulation d’une alternative quant à la façon dont sont aujourd’hui conçus les espaces d’articulation. Il s’agira alors d’évaluer les potentiels de densification et de diversification des espaces d’articulation, afin d’envisager leur devenir en tenant compte de l’héritage dont ils sont le produit. Sur quel consensus fonder cette évolution? Quel degré de discontinuité et d’ouverture sommes-nous prêts à accepter pour nos espaces urbains? Peut-on imaginer que ces interfaces ne soient pas uniquement dédiées à la circulation, mais puissent accueillir d’autres usages et d’autres programmes, sans pour autant revenir artificiellement au strict alignement de la voirie et du bâti ? Par ailleurs, bien que leur mise œuvre ait été coûteuse et relativement lente, les aménagements consacrant l’hégémonie de la circulation automobile commencent à être considérés comme obsolètes, tandis que les attentes d’un développement durable à long terme sont croissantes. Dans un contexte où les marges de manœuvre économiques et foncières sont de plus en plus limitées, il sera tôt ou tard nécessaire, si ce n’est de valoriser, du moins de transformer ce patrimoine infrastructurel. Or, les théories de l’obsolescence et du renouvellement formulées jusqu’ici ont essentiellement traité des centres urbains dits «constitués». Quels sont, dès lors, les paramètres de durabilité des aménagements de la périphérie urbaine? Il semble que le rôle joué par le parcellaire et l’enveloppe des masses bâties en tant qu’éléments de permanence soit ici à relativiser, au profit de l’équilibre entre pleins et vides, des logiques de distribution spatiale induites par les dispositifs d’interface, ou encore de la relation que les corps infrastructurels entretiennent avec le sol de référence – facteurs ayant tout trois une influence sur la mutabilité des territoires. Enfin, l’aménagement des espaces d’articulation correspond aujourd’hui à une pratique normative. Plutôt qu’à travers une série d’interventions ponctuelles, ramenant l’aménagement du territoire à une collection d’objets savants et remarquables, on peut donc supposer que c’est en intervenant sur les procédures et les méthodes liées à la fabrication courante des interfaces urbaines que l’on par- viendra à mettre en œuvre une transformation et une amélioration effective de l’environnement à la périphérie des villes. De quelle manière peuton infléchir la norme ? Quel ordre d’implication des différents acteurs, quels processus de prise de décision et quels objectifs fixer pour l’aménagement des espaces verts et de la voirie, en vue d’une souhaitable réintégration des pratiques courantes au sein d’une culture partagée de l’urbanisme ?
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ux services techien et à l’archive ont dicté l’amépations liées à la tion puis contrôle ui ont influé sur le érer par exemple e, par rapport au
btenus à travers omparer les difféération d’aménasisterait à l’usage tions, nous pour, géographiques, dances formelles les variations en ridique et éconon du projet, qu’en ures d’aménagees zones aménane ou leur degré astructurelles du lation ?
« Les dunes » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
« Les dunes » in Saclay-Panorama : Paysages superposés, Paris : Kaiserin, 2014
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mapped. Observing this productive territory (30x30km), shifting scales, helped to comprehend
the problem of waste, what normally would not see, because of the scale, or wouldn’t consider
because it seems “invisible”. ( Corò2013)
They were initially associated with the industrial spaces of production, within this dispersed and
fine configuration, but if we consider the rural history of this territory the underused agricultural
fields and their related infrastructures, such as dirty roads, also play a crucial role in the definition
of Venetian wasted landscape.
The emerging figure shows a fragmented “fallow” territory or a stand by landscape. ( FIG ½ )
Figure 1 Cartographic exercise: Waste geography in the Veneto region. From a field observation the research classify waste unused spaces from underused spaces. Elaboration: Cecilia Furlan Figure 1 Cartographic exercise: Waste geography in the Veneto region. From a field observation the research classify waste unused spaces from underused spaces. Elaboration: Cecilia Furlan
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Waste landscape: an evolving concept
Cecilia Furlan PhD canditate IUAV - KU Leuven
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ince the late 1950, the slow process of de-industrialization has deeply transformed Europe’s societies and the European landscape. In different forms it has effected mostly of the European regions. The shifts from industrial production to a postfordist regime and the globalization of the economy have generated important land use changes, leaving underused and derelict sites in enormous towns and regions. The growth of the service sector and the subsequent downsizing of companies have further contributed it produced an important legacy of vacant industrial sites across the continent. In most of the European territories the “diffuse” consequences of the economical/ urban crises become clearly visible. Different forms of waste landscapes, or as Berger defined drosscape1, start to emerge (2006). They result out of two primary processes: a rapid horizontal urbanization2, and leftover land and detritus after production processes came to an end (Berger2006, Lynch1990). Given the generalized condition of abandonment, a crucial question lays in the characterization and definition of wasted spaces (wasteland, drosscape...). Nowadays, the mass-disposal of spaces requires a critical re-evaluation of the overlooked relationship between industry, waste, and urbanism; and a detail survey (Belanger 2006). In the first part the paper focus on the hypothesis that wasteland is a process, shifting meaning across time, according with the priority of European/western society. Through the reading of the territories and its historical representation wasteland could be interpreted as a “values” indicator (Gidwani 2012). By tracing the dialectic between urban value and wasted spaces the question “Waste to whom?” is strongly arising. Reflecting upon this hypothesis, in the second part the study will reflect on the current spatial meaning of wasteland and its complex configuration. The observations of two different wasted landscapes trough a spatial survey of the Walloon coal region (BE) and the diffuse Veneto central area (IT) will help the paper to address this issue.
1. Alan Berger, in Drosscape, proposed a new concept “to describe a design pedagogy that emphasizes the productive integration and reuse of waste landscapes throughout the urban world. . . with the term drosscape implies that dross, or waste, is scaped, or resurfaced, and reprogrammed by human intensions.” 2. Urban sprawl 3. The second law of thermodynamics states that the entropy an isolated system never decreases, because isolated systems always evolve toward thermodynamic equilibrium: a state with maximum entropy.
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Introduction Any transformation inevitably generates leftovers. According to the entropy theory and the second law of thermodynamics any complex system can only function by the release of products and lower energies in the environment3. Entropy will always increase just in an open system. The urban territory, as the totality of physical elements, follows the same laws of the natural system.
Therefore considering the space, as closed system, it is possible to affirm that there is no growth without waste, whether it occurs in a natural element or in a physical urban space. In this optics wasted space is the natural result of the urban process: a rapid horizontal urbanization and economical, industrial and cultural shifts (Berger 2006, Lynch1990). It could be seen as an indicator of the healthy urban growth. With this observation we are not assume that the crisis, whether economical, financial or cultural, is producing waste; but in hardship moment, the need to “re-appropriate”, or re-cycle, the leftovers of previous generation strongly arises (Corò 2013). The way in which any society thinks about wasteland and its possible re-use is a very ambiguous concept. It shifts trough time and space according with the different necessity and society significance. M Gidwani (2012) affirms that through a reading of the territories and its historical representation the wasteland perception could be interpreted as an indicator of society “value”. The ideas, beliefs and assumptions associated with the concept of wasteland might have deep historical roots, and the continue to influence our attitudes and opinions. It is frequently consider as disorder elements, or elements out of place, it could be consider an historical or technical artefact “ which slips easily between concept, matter, experience and metaphor” (Gidwani 2012, Campking and Cox 2007). It represents everything that we are not able to understand, that is outside of mental and rational order. Today, what is a wasted space or wasteland seems to be quite an evident notion. It is often associated with the “post-Fordist” idea of production model, but the genealogy of wasted space has a much longer tradition. By tracing the dialectic between urban value and wasted space the texts highlights the importance of understanding the perspective in which we are observing the wasteland problem. Waste to whom is the question to promote this first part of the reflection. Therefore in the second part of the study will reflect on the contemporary wasted landscape configuration, investigating two European regions between Italy and Belgium.
Wasteland “Wasteland is a place, but even more it is a category”. (Di Palma 2014). Wasted space definition lies not by what it is or what it has but by what it lacks. The emptiness is the core characteristic, but contemporary it is giving a sense of malleability and its potential for abstraction (Di Palma 2014). Within this perspective there is a long tradition of historical studies revealing the role of wasted space in the urbanization process. The first traces entered in ancient official document within the “The Great Charter of Forest” of Magna Carta4 (1225). It was defined as“Ravaged, injured uninhabited or wild In legal use, a piece of land not in any individual’s occupation but lying in common”(Linebaugh 2009). Influencing the western perception, since that time, wasteland was associated with not arable land5, characterized by wild vegetation and trees. In most of the
4 The manuscript drawn up in England between the 1215 an 1225, it has been considered the fundamental documents of political and legal rights that sustain western/ Christian society. 5, On the one hand the shortage of arable land led to asserts (arable clearings made by grubbing up the trees) in wastes and woodlands
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6. The Napoleonic Cadastre and applies to all urban and rural properties (built or not). The literal information is strictly linked to the geographical one. A plot is defined as an entity linked to an owner and to a fiscal division, following the Napoleonic concept. Basically, the cadastre has a fiscal function evaluating to an informative function and having, additionally, a certain probative function. It was the first document that unifies the different local system in one European common cadastre. 7. source; http://www.etymologieoccitane. fr/2011/06/herm-erm/ 8. source Unknown author, from “Istruzioni generali della congregazione del censo” Biblioteca Pontificia 1823
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European landscape descriptions, it appeared with in three principal incarnations: swamp, mountains and forest. It was a category that included a variety of ecologies unified mainly by their wildness, by their resistance to domestication, by the absence of conventional signs of urbanization (Di Palma 2014). The value of space was associated with the productivity of the land. The unproductivity of wasteland was not a fixed assumption. Since the thirteen century it was possible playing on the dual connotation of waste. At the same time it was consider as something useless and something that was not properly used. During the medieval time, in government documents or in popular pamphlets, wasteland was often defined as commons. J. M. Neeson (1993, p.158-159) in her research of common spaces affirmed: “The fuel, food and materials taken from common waste helped to make commoners of those without land, commonright cottages, or pasture rights. Waste gave them a variety of useful products, and the raw materials to make more. It also gave them the means of exchange with other commoners and so made them part of the network of exchange from which mutuality grew. More than this, common waste supported the economies of landed and cottage commoners too. It was often the terrain of women and children. And for everyone the common meant more than income.” Waste fields were an irrational economical sources and food supplies external from the land market and logics, a common space. It provided food, fuel and raw material. During the XVII century similar concept were transposed in most of the western countries and also in their colonies. For instance, the term Jungle was developed by the British settlers in order to refer to Indian Forest. Jungle is a Hindi word in origin meaning waste or forest. Among the forest people of western India the “jangli” is associated with a discourse of wildness as well as with a particular ecosystem. Duty and tidiness became the discriminant agents to define waste space from the more valuable one. Wasted space meaning was transfer and re interpreted through history. In the Napoleonic and Austrian cadastre6 (XIX century), wasteland became one of the spatial category. It was carefully defined and mapped, as sterile area, sandy site, or woodland with wild vegetation and stones not adapted to plantations. Specifically it was called in the French document as “Herm: Désigne un terrain inculte ou aride, friche et land vain”7; while in the Italian document it was denominate as “Zerbo: Terreno incolto o boschivo, che non è sterile ma produce qualche posco di erba o piante.8 Even if wasted spaces were considered as excess matter and material, which is unruly and improper, the character of these lands were very far from the ongoing interpretation. The perception of swamp and wild field as wasteland continued through the first world war, the dust bawl and great depression. The big reclamation campaigns of the Italian marched lands, promoted during the 1923, 1924 and 1926, are still memorable. Only during the 1970s of the last century, especially with Ramsar international convention9, there has been an enormous increase in the science and public desire about the richness and the value of wetlands. In the recent history during the late nineteen-eighties and early nineteen-nineties the consequences of the post-fordist economy became evident. The shift of the investment location caused a break with the past. Thereby the legacy of unproductive spaces and contaminated sites became the modern form of wastes spaces. In those years the European promoted and published report10 in which for the first time emerged an urgent urban necessities: the reclamation and the recycle of the former industrial sites.
“The many tracts of abandoned land, disused industrial sites, railway sidings, docks and military facilities in urban areas offer valuable opportunities for redevelopment, saving existing recreational and open space within the city and its outskirts from encroachment by development. Many cities have already accepted this priority in their planning strategies.” (Green paper of the urban environment 1990) In the same period, Ignasi De Sola Morales (1995) started to formulate a new interpretation about wasted space. He observed the topic from a photographic perspective, revealing the fascinating and mysterious nature of the derelict space and he translated it with the term: “Terrain Vague”. In one expression the Spanish architect was able to describe the idea of the territory as a portion of land in its potentially exploitable state and the sense of vagueness, untidiness, uncertainty of the waste space without give it a negative connotation, with out superimposing a new architecture. In one-decade, brownfields, interstitial spaces, urban peripheries, vacant lands became the object of urban design investigations, which explored the development of potential of these sites in order to revitalize the cities. Alan Berger (2006) observed the American landscape and post-industrial sites from a different perspective. Reconsidering the theory of Lerup on Stim and Dross and analysing the big unused landscape of the American territory (mining and excavation sites, shopping mole) he developed a new term Drosscape: “In which this term implies that dross or waste is scoped or resurfaced and reprogrammed by human intention. Drosscape is the result of new condition in which vast, waste and wasteful are modelled with new programs”. (Berger 2006) Defining it through three main categories that include a variety of spaces: -Waste spaces or landscape of obsolescence: referring to spaces designed to accommodate consumer‘s wastes, such as landfills, water treatment, waste management area. -Wasted spaces or landscape of contamination: considering the abandoned sites with a degree of contamination. -Wasteful spaces including the entire field with a transitory nature, especially the underused elements. In Berger perspective wasteland already embody possible future condition. The previous assumptions helped the research to understand the importance of the perspective in which we are observing the waste problem. It possible to affirm that these expressions for wasted space emerged during a period of economical and cultural change, in which it was clear a necessity to find an answer to address the problem. Are we in the same moment of change? If the concept of wasted space is ambiguous and nomadic idea, what is the contemporary urban form of wasted space in the European territories in crises? How is it possible to define it? Exploring two different territories, embodying the consequences of different crises, the second part of the paper has the goal to inquiry the contemporary idea of wasted space. A mapping exercise and a landscape urbanism approach helped to evaluate them more than a collection of surfaces with undefined negative connotation.
9. The Convention on Wetlands of International Importance especially as Waterfowl Habitat (Ramsar, 1971) has been instrumental in world wide action at the governmental level for conservation and wise use of wetlands. 10. In the 1990 European community established a research group of urbanists and architects, in which Bernardo Secchi, Marcel Smets, Hilde Heynen and others urban experts attended, in order to understand the current urban problems. Their reflection were published in the “Green Paper of the Urban Enviroment”.
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Re defining the diffuse wasted landscape The two case studies here proposed are considering different territories of dispersions: the Veneto diffused territory, focusing in particular on the region included between the Padua, Treviso and Venice; and the Walloon industrial backbone, concentrating on the area between the centres of Mons and Namur. Two paradigmatic cases of different crises, which specific spatial legacies First Investigation: the Veneto region a “fallow territory” The actual Italian crisis is not just the result of the global recession of 2008, but it has deeper roots in the industrial process of renovation started during the end of the 1990s (Corò 2013). The consequence is the modification of the economical structure of the Veneto territory, not only from a productive point of view but also from a spatial perspective. If we observed this phenomenon through the numbers of the economical and financial situation, they show us a dramatic scenario of recession. In which the manufacturing production has paid the major consequences. Between the 2007 and 2014, the thousand of enterprises closed, with the 7,6% unemployed rate. The spatial effects are multiple and not always clearly visible as in other European regions, therefore a new dimension of abandoned and underused properties quietly starts to appear. It is assumed different forms: partial use of the plot, unfinished and degraded structures and new empty warehouses waiting to be selling or rent it. Defining the dimension of this heterogeneous phenomenon and the landscape character is not a simple object. Through a physical survey and a landscape urbanism approach the diffused wasted spaces has been analysed, deconstruct and mapped. Observing this productive territory (30x30km), shifting scales, helped to comprehend the problem of waste, what normally would not see, because of the scale, or wouldn’t consider because it seems “invisible”. ( Corò2013) They were initially associated with the industrial spaces of production, within this dispersed and fine configuration, but if we consider the rural history of this territory the underused agricultural fields and their related infrastructures, such as dirty roads, also play a crucial role in the definition of Venetian wasted landscape. The emerging figure shows a fragmented “fallow” territory or a stand by landscape. ( FIG 1⁄2 ) The research classifies them in three main categories11: - marginal/administrative wasted space refers to the governmental status of the land. Administrative marginal sites include, for example, buffer zones along the infrastructures or inside of the industrial areas -structural wasted space determines by a discrepancy between the morphology of the sites and the program that they host. A typical example is the fracture between different systems, usually associated with an impressive visual impact, such as railway lines or other abandon infrastructure. - functional wasted space may ensue from abandonment (de-programming) or underutilization (under-programming) of previous economical cycles. They might be the temporary results of delayed land development or employment. The classification and the de-constructive mapping exercise shows how different grades of abandon clearly emerge. In the case of the Veneto region, it is 1.
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11 the research is referring to the Beatrice, DE CARLI, “Between permanence and change; Decoding and reframing residuality in a case of Milan”; Milan PhD Thesis 2011:71.
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fundamental to distinguish what is underused from what today it is completely unused, or in process of decay. For underused space the research considers built and not built surface not fully potentially exploited, with a lower poor quality; like warehouse utilized just in part as storage area; former house uninhabited, but still in good condition; empty parking lot. Even in a decay context the underused category show at the same a resilience in its use and more in general in the diffuse territory, but at the same it is a first trace of wasting process. While the study refers as unused space the rejected lands not usable without a proper “reclamation”, temporarily obsoleted or abandoned or derelict sites. What Lanzani, Merlini and Zanfi (2013) described as “Unrecyclable”, highlighting the idea that not everything should be reused, not always, or not at the same time and in a conventional way. In agriculture discipline the ancient crop rotation practice establishes a cycle of different types of crops to be cultivated. An agricultural field will be used, then rested and gradually re-used. In this optic wasted spaces could be consider as spaces “in rest”, and not defined according with their lack of use.
Second investigation: From le pays noir to le pays vert With this second example the study investigated the Walloon region, in particular the industrial territory included between the centre of Mons and Namur12. Beside a classification process, similar to the previous one, with this case study the research would like to highlight the becoming process of “unrecyclable” wasted spaces, after fifty year of crises, and if we have to consider them still as waste. Until the 1980, pushed by economical dynamism, the Walloon region experienced a metamorphosis: still dominated in 1856 by agriculture (339,356 workers, or 44% of total employment, contrasting to 310,360 industrial workers, 39% of the total); by 1910, industrial employment in Wallonia had doubled to 664,060 units and represented 53% of total employment compared to the residual 13% remaining in agriculture (Reid, Musyck 2010). Because of its morphological configuration, the presence of the river infrastructure, its geological conformation characterized by three coal veins, the Walloon dorsal was the perfect set for the coal mine industry, metal and textile industry. (Fig 3)
12 Located in the souther part of Belgium, with in an area of 16,844 km2, or 55% of the total area of Belgium.
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The exhausted natural resources, the technological production development, the hard competition from the eastern countries destabilised this region since the period between the two world wars. The Oil crisis and big recession of the late 1970s and beginning of the 1980s gave the inal blow to the thriving region. Since that moment the great Walloon industrial machine has been cast into social and economic wilderness for decades. Eyesore remains of the industrial past together with overwhelming large scale infrastructures have placed their mark on the region and contribute to the general opinion about this territory. Today the Walloon dorsal could be defined from various perspective, an urban continuum, and a coal territory a sequence of valleys, an infrastructural threefold system or a reef of industries. It is a hybrid landscape in which assembled from attributes resulting from natural and cultural history. (Nolf, 2004) Mapping the wasted spaces, through a direct observation of the territory, shows an archipelago of elements, that it is possible classify as “points, lines and surfaces” going beyond the conventional definition of brownfields. Terrils, former railway line, abandoned industrial platforms; vacant factories are apparently randomly spread along the Walloon axes. They are the legacy of a strong economical past that end his cycle
highlighting the idea that not everything should be reused, not always, or not at the same time
and in and a conventional way.development. A (de)-constructive mapping helped to recent infrastructural
classify them according with their materiality, dimension, shape and process of In agriculture discipline the ancient crop rotation practice establishes a cycle of different types of
production. (fig 4 ) After fifty year of decline another system influenced a new for waste crops to be cultivated. An agricultural field will becycle used, thenspaces. rested and gradually re-used. In this The infiltration of different forms of vegetation slowly occupied the abandoned optic wasted couldaround be consider as spaces “in rest”, lands, greyspaces coal hills spread the valley were naturally converted intoand greennot defined according with their prominences. With 35,000 known different species repopulate this territory. In lack ofthe use. Walloon territory wasted space became biological wealth land with more 70 mammals, dozens of fish, a couple of amphibians and nearly 400 birds different; but 20,000 species of insects a hundred butterflies, dragonflies 60 and forty Second investigation: From paysofnoir to leplants, pays including vert orchids and ladybugs; and yet nearly 1500lespecies flowering carnivorous plants, and some 7,500 fungi, mosses and lichens.13 (fig5) This new ecological layer, overlapped with the drosscape one, shifts the perception With this second example the form study investigated Walloon region, in particular the industrial of polluted space into a different of public space and itthe allows a new form of appropriation from the inhabitants. As Ian Mc Harg did in his work, 12 the territory included between the centre of Mons and Namur. Beside a classification process, research overlaid maps of diverse natural and social factor to better understand of natural social argumentwould was: like to highlight the becoming similarthe to interaction the previous one,and with thisphenomenon. case studyMcHarg’s the research “Let us accept the proposition that nature is process, that it is interacting, that process of “unrecyclable” wasted spaces, after fiftyforyear of use crises, it responds to laws, representing values and opportunities human with and if we have to consider them certain limitations and even prohibitions” “any place can only be understood still as through waste.its physical evolution” (McHarg, 1967: 7; 105). Beside the biological value, the infiltration of the natural vegetation aids in stabilizing the soil surface from the erosion and control the subsidence phenomenon (Strock 1998). From the standpoint of preventing the acid mine Until the 1980, pushed by economical dynamism, the Walloon region experienced a drainage (AMD) and hard metal penetration, the new green layer is reducing the metamorphosis: stilland dominated in oxygen 1856 infiltrating by agriculture (339,356soil. workers, or 44% of total amount of water the atmospheric in the underground This re-vegetation process to is a 310,360 factor that affect both surfaces a ground dynamics, employment, contrasting industrial workers, 39% of the total); by 1910, industrial even if it is not able to erase the pollution problems, that still afflict these spaces in the Walloon They had can bedoubled consider still contaminated employment in region. Wallonia toabandoned, 664,060derelict, units and represented 53% of total employment and un productive from an anthropological perspective, but at the same time the compared to the remaining intoagriculture Musyck 2010). Because of its ecological valueresidual impose to13% urbanist and planners re think about(Reid, the meaning 13 Data source: Walloon region website of waste.
morphological configuration, the presence of the river infrastructure, its geological conformation
characterized by three coal veins, the Walloon dorsal was the perfect set for the coal mine Figure 3 Reconstruction of the mining
industry, metal and textile industry. (Fig 3) concession 1906-1946 Sources: Walloon region, elaboration of Cecilia Furlan
Figure 3 Reconstruction of the mining concession 1906-1946 Sources: Walloon region, elaboration of Cecilia Furlan
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Conclusion The actual economical crisis, or crises more in general could be seen as conclusion of one cycle and/or the beginning of the new one. In a moment of economical shift wasted space could be seen as an unpleasant legacy or as an opportunity. The conclusion from this first part of the research is twofold: Wasted space is an ambiguous concept, and its definition lies in the perspective through which we are observing the problem. The Walloon territory offered a paradigmatic example in which through a re-vegetation process a new cycle began appointed the wasted space. It opens new questions regarding recycle and reuse concept. Secondly, through a descriptive methodology and mapping exercises, it becomes evident how vast and sometimes invisible is the wasted landscape. The visualization process does not imply an utilitarian reuse process or an extensive one. In the case of the Veneto region, working at the territorial scale could help to understand the territorial scale of the issue. Therefore urbanism should learn how to deal with this condition of change, finding new way to study and to develop the urban territories. In a provocative text, “From object to field”, Stan Allen affirmed that the actual challenge of work with contemporary urban territory -“products of a complex order emerging during the time”- requires new urban design “methodologies to model program and space”, facing the challenging uncertainty of the urban dynamics. Figure 5 Infiltration of the green system. Sources: a direct observation of the territory, survey, aerial view.... elaboration of Cecilia Furlan
Figure 5 Infiltration of the green system. Sources: a direct observation of the territory, survey, aerial view…. elaboration of Cecilia 1. 228 Furlan
of production. (fig 4 )
Figure 4 The heterogeneous collection of drosscape . Sources: a direct observation of the territory, survey, aerial view…. elaboration Figure 4 The heterogeneous collection of Reference of Cecilia Furlan drosscape . Sources: a direct observation of the territory, survey, aerial view....
Allen,Sten, (1997) “From Object to Field”, Architectural Design 67/5-6. After Geometry elaboration of Cecilia Furlan After 24-31. fifty year of decline another system influenced a new cycle for waste spaces. The infiltration Berger, A. (2006), Drosscape: Wasting Land Urban America, Princeton Architectural Press, Newforms York. Bélanger, P. (2007). Landscapes of disassembly. Topos, 60(October), of different of vegetation slowly occupied the abandoned lands, grey coal hills spread 83-91. Brady, K. B., Smith, M. W., & Schueck, J. (1998). Coal mine drainage prediction around valley werein naturally greenProtection, prominences. With 35,000 known different andthe pollution prevention Pennsylvania.converted Department of into Environmental Pennsylvania. species territory. In the Walloon wasted space became biological wealth Corò,repopulate G 2013 “ Scenarithis e territori per un nuovo sviluppo del Nord territory est” in Bertagna, A., Gastaldi, F., & Marini, S. (2013). L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e land nuovi withluoghi more 70 mammals, dozens of Defish, couple of amphibians and nearly 400 birds del progetto, Quodlibet Edizioni, Macerata. Carli, a B, (2011)“Between permanence and change; Decoding and reframing residuality in a case of Milan”; Milan different; but 20,000 species of insects a hundred butterflies, dragonflies 60 and forty ladybugs; PhD Thesis De Meulder, (2008) “Old Dispersions Scenes for the Production of Public Space. and yet nearlyB. 1500 species of and flowering plants, including orchids and carnivorous plants, and The Constructive Margins of Secondarity”, in Architectural Design, 78/1, Cities of De Sola Morales,I, (1995) “Terrain13Vague”, someDispersal: 7,500 28-3. fungi, mosses and lichens. (fig5)Cambridge MA: Anyplace, MIT Press, 118-123 Di Palma, V. (2014). Wasteland: A History. Yale University Press. Gidwani, V. (2012) Waste/Value1. The Wiley-Blackwell Companion to Economic Geography, 275- 288. LARUP,L (2000) “After the city” Cambridge, MIT Press Lanzani, A, (2012) “L’urbanizzazione diffusa dopo la stagione della crescita”, in Letture di Paesaggi, Milano, Guerini Lanzani, A; Merlini C, Zanfi, F, (2013), “Irriciclabile. 13 dello spazio DataFenomenologia source: Walloon regionabbandonato website e prospettive per il progetto urbanistico oltre il paradigma del riuso”, Atti del convegno XVI Conferenza Nazionale della Società Italiana degli Urbanisti, Urbanistica per una diversa crescita. Aporie dello sviluppo, uscita dalla crisi e progetto del territorio contemporaneo, Napoli Lynch,K. (1990) “Wasting Away”, edited by Michael Southworth, Sierra Club Books, San Francisco McHarg, I. L. (1967), “An Ecological Method for Landscape Architecture,” Landscape Architecture 57 (January): 105-7. Mostafavi, M., and Najle, C., eds. (2003), Landscape Urbanism, London: Architectural Association. Munarin, S.; Tosi, M.C.(2004), Tracce di città. Esplorazioni di un territorio abitato: l’area veneta, FrancoAngeli,Milano Nolf, C, (2004) “The Coalscape of le Centre, hinge of the Waloon (post) industrial axis, EMU Master Thesis, KULeuven University, Leuven. Reid, A., & Musyck, B. (2000). Industrial policy in Wallonia: A rupture with the past?. European Planning Studies, 8(2), 183-200. Soderstrom, O. (2000). Des images pour agir: Le visuel en urbanisme. Lausanne: Payot Lausanne Nadir. Secchi, B. (1992). “Urbanistica Descrittiva”, in Casabella, 56(588), 22–23. Spirn A. W. (2012). “ Ecological urbanism: a framework for the design of resilient cities” ( on line source) Van Dyck, B.; Verhetsel,A.(2007) “Angus and Trefil Arbed”, 43rd ISOCARP Congress 1.
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new neighbo The transform
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Simila ture of the Ja core of possi reconfigurati FPG+TER, Conversion of Boulevard ties into area Peripherique FPG+TER, Conversion of Boulevard Peripherique
dedicated to center and th 1.
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Anticipating the change: visions and perspectives towards a post-car world
Farzaneh Bahrami PhD candidate EPFL
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Several indicators, such as modal shares in mobility practices, reduc- tion in car ownership and increasing lack of interest in obtaining driving licenses, (Thompson 2012, Weissmann 2012, Danesi 2014) may suggest that the century of car dominance - at least in developed countries - is already behind us. Pedestrianization and banishing the car from city centers is be- coming a common trend in many cities. Different measures of discouraging car-use such as congestion charges and parking pricing policies are being applied. Cities that were once transformed to accommodate automobiles are now going through an inversion, a process of retransformation to get rid of them. The demise of the automobile is expected in the context of ecologi- cal consciousness, as well as economic and energetic constraints. While the increasing price of oil may have been a substantive factor in pushing the trend to reduce cars (Newman Kenworthy 2011), other structural factors around the culture of urbanism were as important. Car-reduction meas- ures and road diet policies accompanied by the extraordinary revival of public transport - themselves derived from economic, ecological as well as social concerns - were fundamental in providing lifestyle options and a transition from the car towards alternative models of mobility. Mass automotive mobility during the twentieth century generated diverse visions for ‘cities of the future,’ envisioning dense urban centers with well-ordered high rise building blocks which dismissed the street as the social territory of the city to leave room for free circulation of the motor-car (Le Corbusier 1930), or visions related to decentralization, disap- pearance of the city center, community without propinquity (Wright 1930, Webber 1964, Venturi 1972) where equally the ‘downtown’ as the place dominated by pedestrian activities and public space was assumed to be a nostalgic reminiscence of the past. Thus if the emergence of the car had such radical spatial and social consequences, what would be the implica- tions of its gradual disappearance? What are the perspectives for future cities in the period of “the great inversion” (Siegel 2012)? To what extent are urban experts accounting for the limited but visible transition from car-dominated systems towards alternative models of mobility in which individual-motorized mobility is not central; what models of urbanity are imagined to support such a transformation?
1. http://www.ateliergrandparis.fr 2. Nouveaux Paysages construits du Grand Paris, FGP (u) Urbanistes et Agence TER Paysagistes, Archibooks 3. http://www.fibercity2050.net/ eng/ fibercityENG.html
1.
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We attempt to address these questions by looking into a series of ur- ban projects at different scales and within different contexts – new planned cities, dense urban areas or territories of dispersion – whose visions involve a significant shift from the current car system. Looking into the tools, strategies and different measures of car reduction, despite heterogeneity of approaches within different contexts, we attempt to extract common themes. The projects vary from urban visions for
future development of metropolitan regions like that of Paris and Tokyo, imagining the metropolis and their suburbs in - the next few decades, to more research based pro- jects that seek to reveal the potentials for change at a regional scale, as in Veneto. We have also looked into cities like Hamburg and Brussels with a more directly ecological agenda in their future visions for mobility. Finally a new development in Saudi Arabia that clearly breaks from traditional car- oriented planning and reach for new technologies to create the future city. In considering these cities, the themes of density, public space and continu- ity emerge as central to each.
Density, Dispersion, Car dependence Low-density urbanity is often associated with car mobility and ur- ban sprawl is generally considered as a consequence of car ownership and the freedom it provided. The compact city, in contrast, is proposed to be the solution to move from automobile dependence (Newman Kenworthy 2011) and in general as the â&#x20AC;&#x153;the best means to reconcile economic, social and environmental sustainability issues in a rapidly urbanizing world.â&#x20AC;? (LĂŠvy, 2010) Is the densification of urban centers the destiny of cities moving towards a more energetically sustainable future, and the only viable way to move from car mobility? Is it possible to keep different lifestyle options, from dense urban areas to peri-urban, and still imagine an alternative sys- tem of mobility? In the framework of the Grand Paris1 project, an initiative launched by the French government in 2007, several proposals consider a significant reduction in carmobility. The project FGP+TER2, for example, transforms entirely the Boulevard Peripherique (the ring road around Paris dividing the city from its periphery) and turns it into a monumental landscape of a cir- cular park with 35.000 to 50.000 housing units, liberating it from its daily car commuters. The inversion of the 35 kilometers of Peripherique into a new neighborhood transforms the borderline into a continuous territory. The transformation of a principal vehicular access with 270.000 vehicles per day calls for a radical change of attitudes towards the private car and leans on previous Parisien and international experiences like pedestrianiza- tion of the expressway on the left bank in Paris, or the transformation of Cheonggyecheon highway in Seoul, into riverside public space. Similarly the University of Tokyo has developed a vision for the fu- ture of the Japanese megalopolis in which environmental issues are at the core of possible futures for the city. The Tokyo Fibercity 20503 proposes a reconfiguration of the suburbs, by conversion of the most remote proper- ties into areas predominantly defined by vegetation and open green space dedicated to recreational activities, encouraging the densification of the center and the concentration of residential areas within walking distance of train lines. Reconfiguring urbanity in this way, mobility systems are also expected to evolve - the Metropolitan Highway system 1.
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is expected to soon become redundant and thus converted to a linear urban park. If Tokyo’s city planning in the 60s was based on the development of transport infra- structure and mobility, and was developed in a context of strong economic and industrial growth, Fibercity foresees a decrease in the population - in Japan in general and in Tokyo - and seeks to adapt to the spatial implica- tions of this shrinkage. While the aforementioned projects explicitly promote densifica- tion, there are also others that propose scenarios for alternative mobility within the context of low-density urbanity. Among proposals for Grand Paris, LIN architects specifically address issue of mobility in the peripheries. (Geipel, 2009) Focused on ecology, they introduce large green intensities which should appear as “advanced key issues of the post-Kyoto Metropo- lis” giving a place to natural landscapes. They acknowledge the virtues of low-density urbanity around central cores, the “light city,” as a nourishing layer for the metropolitan area, allowing it to breathe. The project proposes to maintain the lower density territory as an area of natural permeability. There is an emphasis on simplified accessibility in the “light city,” conceiv- ing together new forms of mobility and public space. To achieve simpli- fied accessibility and at the same time to break away from dependency on personal vehicles in low-density areas, they propose a combined system of intensified public transport coupled with measures for soft mobility and active
Omnipresent small sales areas and multi-service spaces, typical in Micromobility network completing rapid transit connections. Asian agglomorations
Micromobility network completing 1. 234
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work of public transport through a network of small stations located near train stations, the service of rental electric car, a motor scooter or a bicycle, depending on the distance, can cover missing segments and guarantee a certain autonomy to various poles. This system enhances the emergence of new local centers in the form of convenience stores and publicly or privately owned services.” (Geipel, 2009: 51)
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1.
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Public Space Seeking alternatives to the car and going towards low-carbon mobil- ity is not merely a matter of energy concerns - it is rather an opportunity to reclaim public space as well as social equity. (Fabian, 2012) Public space is the corporeal, social space of the city and its main figure is the pedestrian. The “pausability” inherent to pedestrian movement (Demerath Levinger 2003) and the fleeting interactions it enables characterizes public space. On the other hand, its antagonist is the private car - the “hard shell private bub- ble that allows its passengers to encounter the city at the same time avoid- ing it.” (Lofland, 1998) However, it is not only the speed of car travel or its robust shell limiting the opportunities for social interactions that lowers the intensity of public space or threatens its existence; as already mentioned the motor car has been held responsible for “lowering the level of urban- ity by contributing to a system of inhabiting that affects both density and diversity, the two major components of urbanity.” (Lévy 2011) The car’s dominance was formerly questioned by advocates of pub- lic space, rather than through interests in ecological urban design or other urban planning concerns. Already in the 60s a universal longing for the qualities of traditional urban space led to a critique of the proliferation of fast roads, and thus the car’s colonization of everyday life. Lewis Mum- ford’s The Highway and the City (1959) and Lefebvre’s Le droit à la ville (1968) are early examples of this dissent. Echoing the views of Debord - the Situationist theses on traffic - Lefebvre argues that the construction of highways through cities and the enlargement of existing streets to meet the needs of increased motor traffic has resulted in the disintegration of city life and the disappearance of its communal forms, such as public parks, marketplaces, etc. Lefebvre described this as triumph of “geometric space” over “lived space.” (Inglis, 2004) Similarly, in her influential book of 1961, The Death and Life of Great American Cities, Jane Jacobs devoted a relatively large part of her research to a careful analysis of the city, its parks, its streets, and sidewalks - in other words, an analysis of its public space. Jacobs’ book was instrumental in turning public opinion against Robert Moses’ modernist plans for New York, and led specifically to the rejection of his expressway in 1964 by the city government. Such early initiatives led to a trend clearly detectable in contemporary urban policies which propose a “return of the criterion of proximity” (Cogato Lanza, 2012) and reinforce the shiftprovoking trends towards a new urbanity freed from car dominance. Many cities have shift- ed their priorities towards people-centered urban spaces. The notion of a liveable city and public space as an indispensable component of a demo- cratic society has become central to contemporary urban discourses and constitute a common line between urban projects. Throughout the studied projects, diversity is consistently acknowledged both in spatial and social terms as a prerequisite to lively urban public spaces, and as an essential aspect of sustainable design. Strong de-zoning is proposed in contexts in- heriting functional urbanism, and mixed land-use proposals are provided for new cities. But since diversity is reduced in lower density areas, it also affects the intensity of public space. Lyn Lofland argues that it was not until the invention of cities that public realm comes into existence. (1998) She distinguishes between spaces of “communalities 1.
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and acquaintances,” like that of villages and small towns with very low level of diversity - parochial realm, as opposed to the public realm - the “street” - in big, dense cities. In territories of dispersion, in the peculiar mix of rurality and urbanity of Veneto, the reference can be neither the public realm, as in Times Square, nor the parochial realm, as in village community space. Rather, a new concept of public space emerges as spaces of flow along transport networks, canals and trails, and around punctual densities of public transport hubs and multimodal interfaces.
Continuous Connectivity To compete with the private car and the freedom of movement it provides, a fluid and consistent continuity for new alternative systems is required. Continuity and smooth transitions, especially in multimodal trips, recurs as a common theme within different projects. The city of Hamburg4 for example, as a part of its plan for 2035 to adapt the climate change and to make the city entirely car-independent (though not carfree), foresees an ambitious plan to connect pedestrian and cycling lanes, in what is expected to become an extensive green network through which the entire city center is to be linked with its outskirts. The Grünes Netz (Green Web) plan envisages “eliminating the need for automo- biles,” by capitalizing on existing green areas, parks, community gardens and cemeteries, and completing the web by adding new ones. Within two decades it will have over 17.000 acres of green spaces, making up 40% of the city’s area. Thus an ecological continuity will ensure accessibility and a smooth network across the urban area. A similar strategy is undertaken in Fibercity Tokyo2050. The project is defined around the concept of fiber, which can be understood as an organizing thread. “In terms of city form the fiber is a linear space; the extensive transportation system, the com- munication network that supports and connects the city. Fibers are spaces with velocity with persistent ubiquity as a form, one that can be found in both the contemporary and the traditional cities of Japan relying on the same model of the linear city that differs from the atomic model of Western cities.” Further, a green web strategy connects the whole territory through green corridors by , among other interventions, converting portions of ex- isting roadways and expressways. Some projects go beyond surface continuity of roads and the spatial configuration of transport nodes and take emerging information technol- ogy as a great potential for the future of planning. Brussels’ Regional Public Service of Mobility, for example, has launched Mobil2040, an multidisci-plinary initiative that looks at mobility from the viewpoint of transport means and new technologies, focusing on new shared public spaces, citizen participation and new lifestyles. Incorporating new transport means, elec- tric cars, driverless cars, urban cable cars, etc. the project lays its empha- sis on information technology and its omnipresence in order to increase connectivity and improve user experience while optimizing the different public transport networks on a metropolitan scale. The constant exchange of information between
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Fibercity 2050, Green Web Strategy
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Fibercity 2050, Green Web Strategy
5. http://www.mobil2040.irisnet. be/en/root.html
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Mobil2040, Data and Information, supporting urban policies and 1.
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Anticipating Change These projects illustrate how similar objectives are addressed with various ambitions: from hypothetical scenarios envisioning a completely car-free future, to city plans for reducing car mobility for climate change adaptation, to projects focused on social and ecological equity. The com- mon thread relating each is establishing urban fabric and regional mobility networks that enable a transition from car world.
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Londonâ&#x20AC;&#x2122;s alternative housing
Silvia Sitton PhD candidate UNIMORE
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La casa a Londra, poco importa se in affitto o di proprietà, è un ambito in cui si registrano una crescente disuguaglianza ed esclusione; la scarsità dal lato dell’offerta e i valori immobiliari elevatissimi delle zone centrali hanno enfatizzato la separazione tra “chi ha” e “chi non ha”. Le case nella capitale inglese sono infatti le più care di tutto il resto del Regno Unito (e anche tra le più care del mondo), con un prezzo medio di 345.186 sterline a fronte di una media nazionale di 175.826 sterline. Inoltre, con 36.000 nuovi nuclei familiari previsti ogni anno e 24.500 nuove abitazioni, ci sia aspetta una carenza nell’offerta abitativa di 559.000 abitazioni nel 2022. Oltre a questo, le case di Londra sono le più affollate del Paese e preoccupa la crescita del 50% dell’indice di affollamento che si è registrata tra il 2000 e il 20101, a conferma che è sempre più difficile riuscire a comprarsi una casa propria (Whitehead and Travers 2012) . L’aumento dei prezzi di vendita e di quelli di affitto hanno reso l’abitare un problema molto diffuso, in un periodo in cui la crisi politica ed economica ha lasciato più spazio alla sperimentazione di pratiche abitative e di modelli alternativi che mettono in discussione il significato tradizionale di proprietà privata. Forme di abitare alternativo come ad esempio cohousing, occupazioni di edifici vuoti (squatting o contratti di property guardian), residenze temporanee low cost, formule di acquisto in sharing, sfumano il confine tra quello che è “personale” e quello che è “comune”, così come normalmente si pensa quando si parla di casa, e mettono in piedi logiche alternative che sembrano facilitare la diffusione di pratiche di condivisione nella vita quotidiana.
Impianto della ricerca
1. I dati sulla situazione abitativa di Londra sono disponibili nel report Housing London. A mid-rise solution, promosso da Princes’s Foundation e pubblicato nel 2014. 2. Il lavoro è partito a inizio del 2014, a seguito di una proposta di ricerca sull’abitare alternativo a Londra che ho presentato alla London School of Economics nell’ambito di un approfondimento sul tema in vista della conferenza annuale della Royal Geographical Society.
1.
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L’interesse per nuovi modelli abitativi, esperienze di condivisione, persone e storie sono i driver che hanno orientato la ricerca2. L’obiettivo è indagare la relazione tra pratiche di condivisione e forme di abitare in una città globalizzata come Londra e in un contesto di crisi economica, analizzando modelli abitativi eccentrici (squats, houseboats) e nuove formule con cui affrontare l’emergenza abitativa (property guardian shemes, shared-ownership houses). Partendo dalle interviste fatte ad alcuni italiani che vivono a Londra, scelti come rappresentativi di diversi modelli di abitare, la ricerca descrive, con uno stile narrativo ed un approccio visivo, la situazione abitativa londinese da diversi punti di osservazione, di persone che non hanno legami l’un l’altra e che hanno storie diverse, a partire dalle loro condizioni sociali e lavorative.
Con le informazioni soggettive raccolte è stata realizzata una rappresentazione grafica che colloca geograficamente le storie. La mappa, arricchita con fotografie e descrizioni narrative, è disponibile su una piattaforma online (www.doorothy. it), in modo da poter essere incrementata con altre storie. La ricerca non vuole raccontare “la Storia” dell’abitare a Londra, ma solamente alcune storie di abitare, raccontate da italiani che vivono a Londra, che costituiscono una tra le tante possibili storie che si potrebbero raccontare: nel lavoro di ricerca infatti ho raccolto delle microstorie , tutte territorialmente molto localizzate, che non consentono di trarre conclusioni quantitative sui modelli alternativi di abitare più diffusi a Londra, ma piuttosto forniscono informazioni particolari con le quali arricchire il quadro conoscitivo sul tema. Si tratta di una lettura dell’abitare che potrebbe essere definita “raso terra”, in cui ciascuno degli intervistati vive e documenta, partendo dal racconto della sua casa, un dettaglio di vita londinese, che diventa un’estensione della sua vita privata, della sua esperienza di “interni”. Gli studiosi di fenomeni sociali usano spesso metodi di ricerca quantitativi, più raramente strumenti di analisi qualitativa e solo incidentalmente optano per una metodologia più narrativa. Quando ho scelto lo storytelling come minimo comune denominatore della ricerca, ho pensato che raccontare storie fosse il modo migliore per mettere insieme valori, bisogni ed esperienze intorno ad un tema chiave come quello dell’abitare; inoltre, avvicinandomi ad un ambito profondamente indagato da esperti di diverse discipline, ho ritenuto che usare strumenti ascrivibili tra le “self-documentation probes” fosse una scelta migliore per documentare e visualizzare le informazioni raccolte piuttosto che propendere per rappresentazioni più tradizionali. Infine ho pensato che lo storytelling potesse diventare uno strumento efficace per parlare con i policy makers, e anche solo per questo che valesse la pena approfondirlo. Le domande principali che hanno orientato la ricerca sono tre: - Che cosa si intende per “alternativo” quando si parla di abitare? - Come stanno evolvendo i modelli di abitare e quali sono le implicazioni sul concetto di proprietà privata? Esistono forme di abitare che più di altre sono in grado di facilitare e promuovere esperienze di condivisione?
Metodologia Per provare a rispondere alle domande della ricerca e per cercare di capire qualcosa sulle implicazioni della condivisione sui modelli abitativi, ho scelto il punto di vista particolare degli italiani che vivono là e un approccio etnografico sperimentale. Concentrarmi sugli italiani mi ha permesso di circoscrivere l’immenso tema dell’abitare a Londra in confini più limitati (e a me noti); inoltre ho pensato che alcuni risultati della ricerca sull’abitare alternativo a Londra potessero essere utilmente usati come benchmark da utilizzare in occasione di nuove ricerche 1.
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m sull’abitare alternativo in Italia. L’etnografia applicata ha molti legami con la tecnica del raccogliere storie, al fine di rappresentare la complessità e le connessioni profonde che ci sono tra fenomeni sociali. Possiamo definire etnografia applicata una metodologia “speciale” costruita sulle persone e modificabile durante tutto il processo di ricerca, una metodologia che si applica a contesti reali e combina diversi strumenti di ricerca, che ha finalità più esplorative che valutative ed è indirizzata a far emergere il punto di vista delle singole persone (Mattelmaki 2006), partendo dalla ricomposizione di frammenti minuti di esperienze private, personali e individuali. Tra gli strumenti di ricerca utilizzati nell’etnografia applicata, in questa ricerca si sono utilizzati strumenti cosiddetti di auto documentazione. Ricorrendo alla letteratura e a diversi esperimenti condotti con questi metodi di indagine (Mattelmaki 2005) si possono identificare tre caratteristiche che descrivono gli strumenti utilizzati in questa ricerca sull’abitare alternativo a Londra. La prima riguarda il ruolo attivo dei partecipanti, documentato dalla partecipazione in prima persona alla ricerca (rispondendo a domande aperte, compilando questionari, disegnando mappe) e dall’auto produzione di materiale di indagine (esperimenti fotografici e diari digitali). La seconda caratteristica comune è che tutti i materiali hanno a che fare con il contesto personale delle persone (housing) e con le loro abitudini quotidiane (living). Infine i materiali raccolti hanno tutti un carattere esplorativo, ossia indagano nuove opportunità piuttosto che proporre soluzioni. Nella ricerca sono stati utilizzati insieme più strumenti di indagine: interviste individuali (realizzate via Skype), un questionario strutturato, forme di diario via e-mail e esperimenti fotografici, molto utili per coinvolgere le persone e farle partecipare attivamente alla ricerca. Caricare i dati raccolti su una piattaforma multimediale (www.doorothy.it) è sembrato un buon modo per rappresentare la complessità del lavoro, condividere le informazioni e sviluppare ulteriormente la partecipazione individuale. Quando ho iniziato questo lavoro non conoscevo quali fossero i modelli di abitare alternativo più comuni a Londra e nemmeno avevo dati sul mercato immobiliare e sulle condizioni abitative delle famiglie inglesi. Questa situazione di “non conoscenza” si è rivelata funzionale per sperimentare l’efficacia degli strumenti di auto documentazione che avevo scelto: ho provato infatti a ricostruire un quadro dell’abitare a Londra chiedendo direttamente agli intervistati di raccontarmi con parole e immagini la loro esperienza abitativa, provando ad entrare nelle loro case, a indagare le loro preferenze, le loro abitudini e le loro percezioni relativamente al contesto urbano in cui vivevano, tutto al fine di cercare di comprendere le implicazioni della collaborazione e della condivisione sulle esperienze di abitare. In cinque mesi ho contattato una novantina di italiani che abitano a Londra (manager e studenti, artigiani e uomini d’affari, ristoratori e architetti, casalinghe e insegnanti, artisti e commessi, mamme e papà, occupati e disoccupati, ..), ne ho intervistati in profondità venti (tramite colloqui via Skype e la somministrazione di un questionario) e di undici di questi ho raccolto anche il materiale fotografico completo. Per “scovare” gli italiani da intervistare ho usato un approccio relazionale, chiedendo inizialmente alle persone che conoscevo che vivevano a Londra di diffondere il progetto tra loro conoscenti italiani, in una sorta di passaparola progressivo che mi ha permesso di individuare casi interessanti in merito ai modelli abitativi praticati e all’approccio alla condivisione. La forma di auto documentazione prescelta per questa ricerca è stata l’esperimento fotografico: ad ogni intervistato ho chiesto di partecipare attivamente, utilizzando 1.
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collaborazione e della condivisione sulle esperienze di abitare. metodi di indagine (Mattelmaki 2005) si possono identificare tre caratteristiche che descrivono gli strumenti In cinque mesi ho contattato una novantina di italiani che abitano a Londra (manager e studenti, artigiani e utilizzati in questa ricerca sull'abitare alternativo a Londra. La prima riguarda il ruolo attivo dei partecipanti, uomini d'affari, ristoratori e architetti, casalinghe e insegnanti, artisti e commessi, mamme e papà, occupati documentato dalla partecipazione in prima venti persona allacolloqui ricercavia(rispondendo a domande aperte, e disoccupati, ..), ne ho intervistati in profondità (tramite Skype e la somministrazione di un
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soluzioni. abitativi praticati e all'approccio alla condivisione. Figura 1. Un esempio di esperimento fotografico: il ritornoricerca a casaèdal lavoro ripetuto dalfotografico: lunedì al venerdì La forma di auto documentazione prescelta per questa stata l'esperimento ad ogni intervistato ho chiesto di partecipare attivamente, utilizzando la fotografia come strumento di ricerca, ed in particolare ho raccolto materiale fotografico su tre ambiti:
•
il modello di abitare, che significa la tipologia di casa, l'ambiente domestico, la famiglia o comunque le persone insieme alle quali si vive;
•
la vita quotidiana, documentata dal diario fotografico di una settimana tipo, nel quale ogni intervistato
ha scattato ogni giorno, per sette giorni, diverse foto ad orari stabiliti il momento Figura (indicativamente 1. Un esempio di esperimento fotografico:individuali il ritorno a casa(realizzate dal lavoro Nella ricerca sono stati utilizzati insieme più strumenti di indagine: interviste via della colazione, l'uscita di casa, l'ambiente di lavoro, il ritorno a casa,ripetuto la cena e il aldopo dal lunedì venerdicena); Skype), un questionario strutturato, forme di diario via e-mail e esperimenti fotografici, molto utili per • il vicinato, mappato in base agli spostamenti più frequenti, ai posti con cui ciascuno ha un legame coinvolgere le persone e farle partecipare attivamente alla ricerca. Caricare i dati raccolti su una piattaforma particolare, al paesaggio urbano e umano vissuto dagli intervistati. multimediale (www.doorothy.it) è sembrato un buon modo per rappresentare la complessità del lavoro,
condividere le informazioni e sviluppare ulteriormente la partecipazione individuale. Figura 2. Un esempio di esperimento fotografico: il momento della colazione ripetuto dal lunedì alla Quando ho iniziato questo lavoro non conoscevo quali fossero i modelli di abitare alternativo più comuni a domenica Londra e nemmeno avevo dati sul mercato immobiliare e sulle condizioni abitative delle famiglie inglesi.
Questa situazione di “non conoscenza” si è rivelata funzionale per sperimentare l'efficacia degli strumenti di
auto documentazione che avevo scelto: ho provato infatti a ricostruire un quadro dell'abitare a Londra
chiedendo direttamente agli intervistati di raccontarmi con parole e immagini la loro esperienza abitativa,
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Attraverso le interviste qualitative e le domande del questionario,
Figura 2. Un esempio di esperimento il momento colazione hofotografico: indagato comedella ogni persona ripetuto dal lunedì alla domenica
rappresentava l'abitare a Londra e cosa intendeva per “alternative housing”. Inoltre ho approfondito le modalità di sharing praticate da ciascuno, cercando di far emergere i fattori che facilitavano la condivisione e quelli che invece la ostacolavano, per provare a verificare se ci fosse un qualche legame tra modi di abitare e pratiche di condivisione. All'inizio del lavoro ho stabilito quattro vincoli che ho mantenuto fino alla fine: il primo di utilizzare gli strumenti di auto documentazione come principale metodologia di analisi, il secondo di intervistare solo 1. 247 italiani, il terzo di non intervistare persone che avessero rapporti stretti tra di loro e il quarto di non andare
la fotografia come strumento di ricerca, ed in particolare ho raccolto materiale fotografico su tre ambiti: - il modello di abitare, che significa la tipologia di casa, l’ambiente domestico, la famiglia o comunque le persone insieme alle quali si vive; - la vita quotidiana, documentata dal diario fotografico di una settimana tipo, nel quale ogni intervistato ha scattato ogni giorno, per sette giorni, diverse foto ad orari stabiliti (indicativamente il momento della colazione, l’uscita di casa, l’ambiente di lavoro, il ritorno a casa, la cena e il dopo cena); - il vicinato, mappato in base agli spostamenti più frequenti, ai posti con cui ciascuno ha un legame particolare, al paesaggio urbano e umano vissuto dagli intervistati. Attraverso le interviste qualitative e le domande del questionario, ho indagato come ogni persona rappresentava l’abitare a Londra e cosa intendeva per “alternative housing”. Inoltre ho approfondito le modalità di sharing praticate da ciascuno, cercando di far emergere i fattori che facilitavano la condivisione e quelli che invece la ostacolavano, per provare a verificare se ci fosse un qualche legame tra modi di abitare e pratiche di condivisione. All’inizio del lavoro ho stabilito quattro vincoli che ho mantenuto fino alla fine: il primo di utilizzare gli strumenti di auto documentazione come principale metodologia di analisi, il secondo di intervistare solo italiani, il terzo di non intervistare persone che avessero rapporti stretti tra di loro e il quarto di non andare mai a Londra durante la ricerca, per non inquinare con uno sguardo diretto il lavoro di auto documentazione. Ho poi usato tutti i frammenti raccolti per ricostruire delle storie individuali di abitare e fornire una rappresentazione di “pezzi” minuti di abitare, cercando ancora una volta di utilizzare lo sharing come fil rouge con cui tenere insieme le storie individuali. Se da un lato l’approccio etnografico, coniugato con il mix di strumenti di indagine, si è rivelato molto adatto a rappresentare le sfumature di un fenomeno complesso come l’abitare, dall’altro raccogliere le informazioni in maniera multidimensionale (interviste, questionario, esperimento fotografico, diari digitali) è stato piuttosto oneroso in termini di tempo, sia per i partecipanti che per me che coordinavo i vari momenti. Questo ha dato luogo a due effetti che non erano stati preventivati nella fase di progettazione del lavoro: innanzitutto, considerando che ogni partecipante ha dedicato una media di sette ore alla ricerca, molte persone, dopo il primo contatto, hanno preferito non partecipare proprio perché l’impegno preventivato era troppo elevato rispetto al tempo che loro avevano a disposizione; questo ha comportato una “selezione naturale” verso l’alto dei partecipanti, escludendo in partenza i lavoratori a tempo pieno più precari e fragili. D’’altra parte proprio l’impegno richiesto e la quotidianità dei contatti ha fatto sì che con le persone che hanno completato integralmente il lavoro si sia instaurato un rapporto profondo di scambio di conoscenze e che molte di queste continuano a inviare spunti sui temi analizzati anche se la ricerca si è conclusa.
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Risultati Nonostante la ricerca fosse di tipo esplorativo e il campione di intervistati assolutamente qualitativo, possono essere sintetizzate alcune tendenze in merito a tre aspetti approfonditi con le interviste: che cosa si intende per “alternativo” quando si parla di abitare, come stanno evolvendo i modelli di abitare e quali sono le implicazioni sul concetto di proprietà privata e infine come i diversi modelli di abitare influenzano le pratiche di condivisione. Prima di esaminarle in dettaglio viene fornito un profilo sintetico delle persone intervistate e delle tipologie abitative incontrate: - E., analista finanziario, a Londra da 13 anni, dopo aver vissuto in almeno sette shared houses, quando mette su famiglia compra un appartamento in un palazzo signorile in una zona di pregio dove solo di condominio spende £600 al mese; -G., assistente in una galleria d’arte, a Londra da 4 anni, vive nell’houseboat di un’amica a cui paga un affitto mensile e circa una volta al mese cambia indirizzo; - G., disoccupata, a Londra da 5 anni, vive nella council house del suo compagno che ha conosciuto quando faceva il property guardian di un vecchio stabile vittoriano abbandonato; - P., designer, a Londra da 2 anni, vive in una casa singola del West End dove paga £2500 al mese di affitto, in parte compresi nel contratto di lavoro della moglie; - S., arrivata a Londra 2 anni fa per studiare, fa la commessa e vive in uno squat a sud del Tamigi; in un anno e mezzo ha cambiato tre squat diversi, abitando negli uffici di una azienda ora fallita, in un negozio di computer chiuso da tempo ed ora in una chiesa sconsacrata; - T., artigiano, 8 anni fa si è trasferito a Londra per avvicinarsi al mercato particolare di cui si occupa; vive nella casa della sua compagna, la quale, per pagare il mutuo, subaffitta una stanza; ha l’ufficio in una warehouse che condivide con altri artigiani; - V., operatrice culturale, ha comprato 5 anni fa due appartamenti a Londra come investimento, si è trasferita stabilmente da un anno nel più piccolo e vive con i soldi dell’affitto dell’altro; - R., insegnante, a Londra da 17 anni, vive con la famiglia in una villetta a schiera in una social street in una zona popolare alla periferia sud della città - M., commessa, a Londra da 15 anni, dopo aver cambiato moltissime case e aver vissuto diversi periodi anche in ostello, ora vive insieme ad altre due persone in una ex council house in periferia dove spende due terzi del suo stipendio per l’affitto; - F., insegnante part-time, a Londra da 3 anni, si mantiene grazie ad un appartamento che sua madre ha comprato nella zona olimpica e che lei affitta con Airbnb; - M., sviluppatore web, a Londra da 6 anni, ha comprato una casa in shared ownership: oggi paga il mutuo per il 30% che possiede e sul resto un affitto agevolato.
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Che cosa si intende per “alternativo” quando si parla di abitare
3. I pochi che hanno comprato un appartamento a Londra come investimento, all’opposto, sottolineano come avere una casa da affittare sia una vera “miniera d’oro” in una città come Londra. 4. l prezzo medio di una casa a Londra era a marzo del 2011 di £343,000 rispetto alla media inglese di £213,000 (Gleeson, 2011) 5. Arrivato a £173 a settimana, il prezzo medio di affitto a Londra è del 36% più alto che la media nazionale, mentre se ci si riferisce all’affitto a canoni sociali la differenza scende al 17%. (Gleeson, 2011) 6 Nel Regno Unito esistono molte imprese che selezionano guardiani che dovranno occuparsi per conto dei proprietari di locali commerciali o abitazioni vuote. Spesso i guardiani sono key workers o studenti lavoratori che cercano soluzioni abitative economiche e uno stile di vita flessibile.
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L’esplorazione dell’universo alternativo è solitamente viziato da due questioni: la prima è che si è generalmente portati a catalogare come alternativo tutto quello che appare misterioso e che non si conosce; la seconda, ancora più pericolosa, è che con la parola “alternativo” ci si riferisce troppo spesso a qualcosa di antagonista rispetto a quello a cui si è abituati: sulla base di questi assunti si potrebbe facilmente mettere in relazione l’abitare alternativo con forme di abitare chiuse e impenetrabili, arrivando fino a ritenerle ostili e preoccupanti. Anche dalle risposte raccolte con i questionari e con le interviste emerge questa frattura di significato, tra chi è fuori dall’abitare alternativo e chi dentro, tra chi lo conosce e chi non lo conosce. Vi è invece unanimità nel sottolineare la differenza sostanziale tra la casa a Londra e in Italia: mentre in Italia la casa è qualcosa di stabile, sia in senso fisico che psicologico, e viene associata comunemente a sentimenti di sicurezza e tranquillità, a Londra gli italiani generalmente3 la vedono come un problema, un impegno che occupa l’esistenza in maniera negativa e che alimenta lo stress invece che diminuirlo. Come viene evidenziato nella Figura 3, la casa a Londra è innanzitutto un problema economico, nel senso che i prezzi delle case sono così alti4 che pochi possono permettersi di comprarne una e d’altra parte anche gli affitti sono molto cari5. Da ciò dipende da un lato il senso di precarietà e temporaneità che viene associato all’abitare, dall’altro la diffusione delle shared houses, ossia abitazioni che vengono condivise da più persone o più nuclei familiari, non per ragioni ideali ma semplicemente per risparmiare. Un altro tema ricorrente dai questionari raccolti è la scarsità di case rispetto alla popolazione, che costringe sempre più persone a spostarsi ai margini della città, dove è più facile trovare una sistemazione e dove i prezzi sono più bassi. Fatta questa premessa, la Figura 4 sintetizza cosa viene percepito come alternativo nel mercato immobiliare londinese. In diverse espressioni ritorna il tema dello sharing: si può condividere la casa con altri per abbassare i costi di affitto (o di mutuo nei casi in cui il proprietario subaffitta una stanza per pagare le rate), ma si può anche condividere con altri anche la proprietà stessa della casa, come nelle formule di shared ownership, che consentono di acquistare inizialmente solo una percentuale della proprietà della casa e pagare sul resto un affitto agevolato al proprietario. A Londra, dove i prezzi delle case sono tra i più alti del mondo, viene poi percepito come alternativo l’housing sociale, promosso da politiche pubbliche. Il problema principale di questa tipologia è la scarsità di offerta, che dipende dalla massiccia vendita di case popolari senza che al loro posto ne venissero costruite di nuove, fenomeno che ha portato a circa cinque milioni di persone in lista d’attesa per un alloggio sociale. Nella definizione di alternativo rientrano anche le esperienze residuali e non ufficiali di squatting, che nel Regno Unito hanno una loro legittimazione quando riattivano spazi abbandonati e che si sono evolute anche in forme più strutturate incarnate dalla figura del property guardian6. Un altro modello molto citato dagli intervistati è quello dell’houseboat, percepito anch’esso come radicalmente alternativo in particolare in relazione a due aspetti: il primo è che consente di vivere spendendo poco in zone centrali molto richieste, dove i valori immobiliari dell’abitare tradizionale sono altissimi; il secondo aspetto è che, per affrontare meglio le diverse difficoltà tipiche della vita in barca, incentiva la creazione di comunità solide, armoniose e durature (i barcaioli), esperienza a Londra piuttosto
Politecnico di Torino - PhD Masterclass 3-5 settembre 2014 Territori nella crisi. Il riattrezzarsi di architettura e urbanistica a fronte del mutare delle logiche economiche e istituzionali
Figura 3. Le parole più frequenti nei questionari per definire l'housing a Londra
Figura 3. Le parole più frequenti nei questionari per definire l’housing a Londra
Fatta questa premessa, la Figura 4 sintetizza cosa viene percepito come alternativo nel mercato
immobiliare londinese. In diverse espressioni ritorna il tema dello sharing: si può condividere la casa co
altri per abbassare i costi di affitto (o di mutuo nei casi in cui il proprietario subaffitta una stanza per pagar
le rate), ma si può anche condividere con altri anche la proprietà stessa della casa, come nelle formule d
shared ownership, che consentono di acquistare inizialmente solo una percentuale della proprietà della
casa e pagare sul resto un affitto agevolato al proprietario. A Londra, dove i prezzi delle case sono tra i più alti del mondo, viene poi percepito come alternativo l'housing sociale, promosso da politiche pubbliche.
problema principale di questa tipologia è la scarsità di offerta, che dipende dalla massiccia vendita di case
popolari senza che al loro posto ne venissero costruite di nuove, fenomeno che ha portato a circa cinque milioni di persone in lista d'attesa per un alloggio sociale.
Nella definizione di alternativo rientrano anche le esperienze residuali e non ufficiali di squatting, che ne
Regno Unito hanno una loro legittimazione quando riattivano spazi abbandonati e che si sono evolute 6
anche in forme più strutturate incarnate dalla figura del property guardian . inusuale da ritrovare in contesti abitativi tradizionali. Un della altro modello molto ecitato dagli intervistati Dagli esempi emerge come a fronte spontaneità temporaneità delleè quello dell'houseboat, percepito anch'esso com radicalmente alternativo particolare inne relazione esperienze più rappresentative di abitare alternativo (squat,inhouseboat), stiano a due aspetti: il primo è che consente di vivere spendendo poco in zone centrali molto richieste, emergendo altre (property guardian scheme, sharing ownership), inserite in undove i valori immobiliari dell'abitare tradizionale sono contesto più istituzionale, che cercano di imbrigliare l’informalità delle primemeglio le diverse difficoltà tipiche della vita in barca altissimi; il secondo aspetto è che, per affrontare esperienze dentro modelli meno radicali nei quali riattivare i meccanismi di e durature (i barcaioli), esperienza a Londra piuttost incentiva la creazione di comunità solide, armoniose condivisione e community building normalmente associati all’abitare alternativo, inusuale da ritrovare in contesti abitativi tradizionali. con il fine ultimo di sviluppare forme di abitare affordable, con cui trattenere in città quelle fasce di popolazione mobile e giovane che alimentano la vitalità e attrattività di Londra e che adesso non trovano una risposta sostenibile alla loro domanda abitativa. 6 Nel Regno Unito esistono molte imprese che selezionano guardiani che dovranno occuparsi per conto dei proprietari di loca
commerciali o abitazioni vuote. Spesso i guardiani sono key workers o studenti lavoratori che cercano soluzioni abitativ economiche e uno stile di vita flessibile.
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Come stanno evolvendo i modelli di abitare e quali sono le implicazioni sul concetto di proprietà privata
7. Ci sono due sistemi principali per possedere una proprietà nel Regno Unito: diritto di proprietà fondiaria assoluta (detto freehold) e diritto di proprietà in concessione (detto leasehold). La maggior parte degli appartamenti in Inghilterra sono proprietà in leasehold in quanto la maggioranza della terra appartiene alla Corona Inglese o alla Chiesa Inglese. Chi acquista una proprietà in leasehold non possiede la terra su cui la casa è costruita ma solo il diritto di vivere nella proprietà per un periodo di tempo determinato. Generalmente più è lungo il contratto di leasehold, che va dai 99 ai 999 anni e comunque si rinnova facilmente, più costosa sarà la proprietà.
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Nei casi analizzati c’è chi ha comprato la casa per andarci a vivere e chi per investimento, chi la possiede “leasehold” e chi “freehold”7, chi ha optato per una formula di shared ownership e chi deve subaffittare una stanza della casa che ha comprato per pagarsi il mutuo. E poi c’è chi non compra ma vive in affitto, solo con la famiglia o insieme ad altri, c’è chi fa il property guardian ufficialmente e chi sceglie la strada dello squatting, chi vive in barca e chi in una council house. Tutti gli intervistati comunque hanno alle spalle una storia abitativa molto vivace, con una media di tre traslochi all’anno nei primi tre anni di permanenza a Londra. Dal quadro che ho ricostruito analizzando diversi modelli di abitare, emerge la divaricazione del concetto di proprietà, che si sostanzia nello sviluppo di diversi modi di possedere. È come se fosse in atto un processo di ri-significazione del concetto di proprietà, influenzato dalle pratiche di sharing che in qualche modo sembrano opacizzare il concetto tradizionale di proprietà, rendendo condiviso un diritto che invece nasce come privato ed esclusivo. La proprietà assume in questo contesto diverse sfumature di significato che possono essere così catalogate: - a proprietà “in costruzione” della shared ownership: in questa formula la condivisione è un modo per agevolare l’accesso alla casa da parte di quelle persone che non avrebbero le risorse economiche per acquistare la proprietà interamente: le housing associations che mettono in vendita le case con questa modalità in sostanza anticipano l’investimento, che si ripagano nel tempo incassando le quote di affitto, e permettono all’acquirente di dilazionare nel tempo l’acquisto della casa; - a proprietà “mobile” dell’houseboat: nelle case barca la proprietà perde le sue radici e diventa un concetto mobile, come la barca, che deve spostarsi ogni due settimane: il proprietario paga una licenza annuale al Comune e questo gli permette di ormeggiare la barca in un territorio, ma non di fermarsi stabilmente. Questo particolare modello abitativo mette in discussione anche altre dotazioni normalmente abbinate al concetto di proprietà: vivere in barca infatti significa non avere allacciamenti e doversi rifornire di acqua, luce e gas secondo modalità non convenzionali; - la proprietà “precaria” dello squat: occupare un posto abbandonato è un’operazione oscura, che si fa di notte, perché il buio è il colore del proibito. Ma poi, una volta entrati, squattare a Londra viene legittimato dal tribunale, che lo vede come un presidio su spazi altrimenti “under control”. Vivere in uno squat stimola la condivisione in una società super individualizzata, combatte l’alienazione da grande città visto che a casa non sei mai solo, ti permette di godere di spazi grandi e ariosi quando invece si vive sempre più spesso in micro cellule abitative e risolve radicalmente il problema del costo degli affitti. Rimane comunque una forma precaria di abitare, visto che l’assenza di un contratto formale implica che il proprietario, in caso di bisogno, possa richiedere di sgomberare il posto molto rapidamente. La proprietà è in questo caso “condizionata” dalle decisioni del legittimo proprietario ma allo stesso modo è anche una proprietà “accresciuta”, che travalica i confini degli interessi privati per sposare modelli di vita orientati alla sostenibilità e al benessere generale; - la proprietà “di vicinato” delle social street: la social street è un’etichetta piuttosto nuova appiccicata ad un’esperienza antica, tipica della famiglia allargata contadina dell’Ottocento, in cui, attraverso la condivisione di oggetti e lo scambio
Territori nella crisi. Il riattrezzarsi di architettura e urbanistica a fronte del mutare delle logiche economiche e istituzionali
Figura 4. Le parole più frequenti nei questionari per definire l'alternative housing a Londra
Figura 4. Le parole più frequenti nei questionari per definire l’alternative housing a Londra
di saperi, si socializza tra vicini di casa per darsi unaemerge mano come l’unoacon l’altro. Questa e temporaneità delle esperienze più rappresentative Dagli esempi fronte della spontaneità pratica che in tempi moderni è facilitata dai social network i vicini ne di stiano casa emergendo altre (property guardian scheme, sharing di abitare alternativo (squat,che houseboat), usano per mandarsi messaggi con cuiownership), scambiarsi i vestiti, chiedere in prestito inserite in un contesto più istituzionale, che cercano di imbrigliare l'informalità delle prime attrezzi, recuperare una determinata esperienze ricetta o dentro farsi aiutare ad imbiancare, si modelli meno radicali nei quali riattivare i meccanismi di condivisione e community sviluppa grazie alla frequentazione reale, che ha il suo apice nell’organizzazione building normalmente associati all'abitare alternativo, con il fine ultimo di sviluppare forme di abitare di feste di strada e in pranzi collettivi: conoscersi di persona aiuta a rafforzare la affordable, con cui trattenere in città quelle fasce di popolazione mobile e giovane che alimentano la vitalità fiducia nell’altro, incentiva la collaborazione e sensibilizza a prendersi cura del e attrattività di Londra e che adesso non trovano una risposta sostenibile alla loro domanda abitativa. posto in cui si vive e di cui tutti si sentono un po’ proprietari.
Come stanno evolvendo i modelli di abitare e quali sono le implicazioni sul concetto di proprietà privata
Nei casi analizzati c'è chi ha comprato la casa per andarci a vivere e chi per investimento, chi la possiede
“leasehold” e chi “freehold”7, chi ha optato per una formula di shared ownership e chi deve subaffittare una
stanza della casa che ha comprato per pagarsi il mutuo. E poi c'è chi non compra ma vive in affitto, solo con
famiglia o insieme ad altri, c'èesperienze chi fa il property guardian ufficialmente e chi sceglie la strada dello Come diversi modelli di abitarelapossono influenzare squatting, chi vive in barca e chi in una council house. Tutti gli intervistati comunque hanno alle spalle una di condivisione
storia abitativa molto vivace, con una media di tre traslochi all'anno nei primi tre anni di permanenza a
7 Ci sono due sistemi principali per possedere una proprietà nel Regno Unito: diritto di proprietà fondiaria assoluta (detto freehold)
diritto diversi di proprietàdi in concessione (detto leasehold). La maggior Non è semplice stabilire se e come modelli abitare possono avere un parte degli appartamenti in Inghilterra sono proprietà in leasehold i quanto la maggioranza della terra appartiene alla Corona Inglese o alla Chiesa Inglese. Chi acquista una proprietà in leasehold no possiede la terra su cui la casa è costruita ma solo ilun diritto di vivere nella proprietà per un periodo di tempo determinato impatto sulla condivisione, anche perché la condivisione agisce “secondo Generalmente più è lungo il contratto di leasehold, che va dai 99 ai 999 anni e comunque si rinnova facilmente, più costosa sarà l pullulare di eccezioni” che mettono fuori gioco le logiche spaziali tradizionali proprietà. (Bianchetti, 2014) e invitano ad un’analisi di queste eccezioni fatta per 8 avvicinamento progressivo e osservazioni minute. Sicuramente però quando si parla di condivisione si presuppone l’esistenza di rapporti tra persone, rapporti che ancora oggi, nonostante la crescita del mondo virtuale, si sostanziano in risorse collettive e progetti condivisi mediati da uno spazio fisico (Savoldi, 2002). La casa diventa in questo contesto un facilitatore di relazioni, scambi e supporti sociali, sia a livello familiare che in maniera più diffusa quando si tratta di esperienze di abitare collettivo (id22, 2012). L’abitare in questo quadro si configura come forma principe dello stare assieme e la condivisione si concretizza in forme leggere e temporanee, in aggregazioni locali spontanee, nella costruzione di spazi delimitati esterni alla residenza privata ma in un qualche modo protetti nei quali ritrovarsi (Sampieri, 2011).
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Partendo da queste considerazioni, la ricerca evidenzia come il contesto abitativo sia un luogo ideale nel quale sviluppare forme di sharing, in particolare in quei casi in cui nell’esperienza abitativa si mescolano spazi comuni e spazi privati. La casa come “facilitatore” di forme di condivisione ha una sua giustificazione particolare in una città come Londra, dove le grandi dimensioni della città e all’opposto quelle mediamente molto piccole delle abitazioni obbligano gli abitanti a costruirsi una socialità vicina, che minimizza gli spostamenti, costruita intorno a luoghi comuni, inseriti nel contesto in cui si vive (quando ci sono spazi comuni condominiali come un giardino in cui portare i bambini a giocare) o comunque il più possibile vicino a dove si abita. Che si tratti della strada su cui si affacciano le case, dell’area giochi per i bambini, del negozietto pakistano di alimentari o della fermata dell’autobus, tali spazi diventano vere appendici della casa, estensioni in cui coltivare relazioni, come si evince dalle mappe degli spostamenti degli intervistati, caratterizzate da una ripetitività sicuramente più tipica delle dinamiche di un villaggio rispetto a quello che ci si aspetterebbe in una grande città altamente connessa. È però dalle forme di abitare più collettive che si ricavano maggiori informazioni rispetto al tema della condivisione. Le shared houses, la forma di abitare più diffusa tra gli italiani nel loro primo periodo a Londra, possono essere catalogate tra i modelli di condivisione cosiddetta “forzata”, in quanto dettata più da motivazioni di ordine economico che da ideali comuni. Dalle interviste emerge come l’esperienza di abitare in una shared house venga considerata “iniziatica” dai ragazzi più giovani, che la vedono come un modo efficace per imparare ad arrangiarsi e allo stesso tempo a prendere decisioni in maniera collettiva. Successivamente la shared house assume i contorni di in una scelta ricercata, alla quale non si rinuncia, almeno fino a quando non si costruisce una famiglia propria, per le dinamiche relazionali e di aiuto reciproco che si instaurano tra coinquilini. E a questo punto la condivisione si trasforma da forzata a “consapevole”. Una relazione forte tra contesto abitativo e pratiche di sharing si riscontra nella comunità solidale dei barcaioli, che aggregano in maniera solida chi vive in una houseboat intorno a necessità pratiche (la legna per scaldare la barca in inverno, l’acqua per lavarsi, la ricerca di un pezzo di ricambio per il motore) e a occasioni più conviviali, come l’abitudine a mangiare insieme degli abitanti di più barche vicine o a organizzare feste lungo il canale. In questo esempio la ricerca di un modello abitativo non convenzionale coniugata con le difficoltà comuni del vivere in barca, sembrano essere le molle che spingono naturalmente i barcaioli verso pratiche di condivisione. Sempre in rottura con l’abitare individuale tipico delle città ma comunque pienamente inserita nel territorio urbano è anche l’esperienza degli squatter londinesi, che parte proprio dalla volontà di riappropriarsi di spazi della città non utilizzati, da abitare insieme secondo logiche altre rispetto a quelle di mercato. Nella riconversione in squat di ex fabbriche, chiese o locali commerciali si privilegiano prima gli spazi comuni, valorizzando le caratteristiche fisiche e architettoniche di questi luoghi e poi si costruiscono le camere in cui dormire, l’unico presidio di spazio privato che rimane. La spinta ideale di vivere in un modo diverso accomuna queste esperienze, che si differenziano tra loro soprattutto per il grado di attivismo e di apertura intorno ai quali si costruisce il gruppo di abitanti. Vivere in uno squat, dove la condivisione di spazi, attrezzature, ma anche di ideali e decisioni quotidiane è esasperata, non è facile e non è raro che dopo un primo periodo di entusiasmo si cerchi una sistemazione diversa, a conferma del fatto che la condivisione non è per tutti e non è per sempre.
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Bibliografia
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VI. Patrimoni. Potenziamenti e minorazioni
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BELLAVISTA, IVREA COS’è PATRIMONIO PUBBLICO?
Elisabetta M. Bello, Agim Enver Kërçuku
Cosa accade alle forme di diritto, quando si offusca la narrazione che nella modernità occidentale ne ha costituito la premessa e lo sfondo? Stefano Rodotà
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viabilitĂ principale costruito superficie boscata sistema delle acque MAAM
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Il progetto
32 ha 82 edifici 829 alloggi 4.231 vani 686 autorimesse 4.000 abitanti
1957
22 ha 70 edifici - 15 fabbricati per autorimesse esterne 633 alloggi 283 autorimesse esterne 1.777 abitanti Stato di fatto del patrimonio : in locazione
alienati
157 alloggi 144 autorimesse 10 negozi
476 alloggi 139 autorimesse
2014
Il quartiere Bellavista è stato progettato e realizzato in collaborazione tra l’INACasa e la Olivetti, nel corso degli anni 60 per rispondere ad una domanda abitativa degli operai della Olivetti, nell’area sud-ovest della città di Ivrea. La progettazione urbanistica e architettonica, affidata nel 1957 a Piccinato e Girardi, si basa su una rigida gerarchia viabilistica che perimetra il complesso e sulla quale si innestano le varie strade che conducono alle singole unità abitative. Prevede ampie aree destinate a verde e una bassa densità abitativa. Gli spazi verdi sia pubblici che privati, di pertinenza delle singole unità abitative poste a piano terra, sono in comunicazione diretta con l’area verde centrale del quartiere dove sono localizzati i servizi collettivi. L’area di 32 ha, dove è stato previsto che fossero insediati 4.000 abitanti per una città che nel 1961 registrava 23.986 residenti, è ubicata parallelamente alla strada nazionale per Torino ed è vicina ad una zona collinare e ad aree rurali o comunque poco urbanizzate. 1.
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Uno spazio grande e articolato Il quartiere, nato come una sorta di polo satellite della città, si presenta come uno spazio abitabile enorme e ben definito nelle sue parti, dove sono antiteticamente ben determinati sia gli spazi interni che esterni, quelli pubblici e privati, quelli domestici e urbani. La composizione fisica e architettonica del complesso rimanda ad un’idea di ordinamento della natura e degli insediamenti, mediante l’identificazione e la disposizione di parti formalmente e socialmente definite, tipiche del pensiero organicista di Piccinato. Lo spazio costruito è collocato lungo tutto il perimetro dell’area, mentre gli spazi aperti anche quelli verdi sono presenti ovunque, anche se la maggior concentrazione si osserva attorno al “polmone verde” centrale, dove sono ubicati anche i servizi di tipo collettivo. Il modello è quello della città giardino di Howard, caratterizzato da spazi comuni e giardini di proprietà comunale.
Uno spazio “ricco” Il quartiere ha subito nel tempo uno svuotamento in termini di numero di abitanti. Questo probabilmente può essere ricondotto a due motivi: un invecchiamento progressivo della popolazione insediata negli anni 60 e la scarsa attrattività legata alla localizzazione periferica dell’area rispetto al centro urbano. A fronte di questa situazione Bellavista necessita di azioni di riqualificazione e valorizzazione del patrimonio architettonico e degli spazi aperti. Questi ultimi costituiscono un ricco supporto. Un elemento importante che più di altri contribuisce a contraddistinguere in maniera evidente questo luogo è il ruolo che in esso assume il disegno dello spazio aperto come elemento strutturante. Declinato in un più ampio concetto di spazio abitabile, connette pieno/vuoto, interno/esterno, domestico/urbano. Nonostante la ricchezza di spazi, attualmente si fatica a riconoscere il senso del «vivere urbano a misura d’uomo» e il senso profondo dell’abitare umano come «umanizzazione dello spazio», così come inteso da Olivetti (Ferrarotti, 2001). Bellavista è patrimonio dell’architettura e dell’urbanistica moderna. Un «monumento della modernità» (Di Biagi, 2001) che in un’ottica di patrimonializzazione richiede di essere tutelato e valorizzato. Ma questo solleva alcune importanti questioni.
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strade carrabili 46.282 mq
vialetti 17.560 mq
edifici 41.157 mq
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giardini 23.619 mq
autorimesse 15.064 mq
spazi aperti collettivi 77.979 mq
servizi edificato 6.978 mq spazio aperto 6.755 mq fermate t.p.l centro ricreativo giovani ‘Bellavista’ scuola elementare ‘Don Milani supermercato bar parrucchiere farmacia palestra ‘Antonicelli’ circolo ricreativo riservato ai soci del quartiere
muri edifici edifici - parti trasparenti recinti trasparenti
edifici pubblici - parti trasparenti
muri edifici pubblici
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Lo spazio abitativo nel e fuori dal quartiere. 1.
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Il patrimonio edilizio di Bellavista è in maggioranza composto da alloggi di taglio medio-grande, vi sono poi appartamenti di media grandezza, alloggi duplex e pochissimi â&#x20AC;&#x153;alloggi minimiâ&#x20AC;?. 1.
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Uno spazio che si sta desertificando
Oggi la città di Ivrea registra una popolazione pari a 23.942 abitanti e nel quartiere vi sono 1.777 residenti, fra cui 180 stranieri comunitari ed extracomunitari, una discreta percentuale di ultra sessantacinquenni 31,3% e il 44,5% di ultra cinquantenni, il cui reddito medio si aggira tra i 500 e gli 800 € mensili. I 1.777 abitanti sono suddivisi in 819 nuclei familiari in maggioranza composti da uno o due componenti. Rispetto alla popolazione insediabile del progetto di Piccinato gli abitanti sono dunque poco più di un terzo. Numerosi residenti sono riusciti a riscattare le abitazioni, a partire dal 1972, così come è stato negli sviluppi del Piano Fanfani che ha largamente favorito l’accesso alla proprietà, concedendo a riscatto quasi il 70% delle abitazioni che sono state realizzate nei quattordici anni della sua attuazione. Questo coerentemente con l’idea che la proprietà individuale potesse in qualche modo contrastare l’insicurezza sociale. A Bellavista dei 633 alloggi realizzati 476 sono stati alienati. La proprietà ad oggi risulta molto frammentata, all’interno di uno stesso stabile coesistono alloggi di proprietà privata e di proprietà pubblica. Raramente nel quartiere, all’interno di uno stesso edificio, tutte le abitazioni sono state alienate. In maniera analoga lo stesso discorso può essere fatto per le autorimesse. Nel quartiere si osserva una situazione di degrado degli immobili ed una inadeguatezza degli spazi rispetto agli usi. Il taglio degli appartamenti è grande rispetto al numero di persone che ci vivono. L’assenza di ascensori negli stabili a stecca crea disagio per la popolazione anziana. Vi sono problemi di manutenzione sia degli spazi privati che di quelli collettivi (centro ricreativo, campi da gioco, scuola elementare). Con l’invecchiamento della popolazione e il degrado degli edifici diviene sempre più evidente la sconnessione tra esigenze della popolazione e spazi abitativi che progressivamente si svuotano. 1.
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alloggi e autorimesse alloggi e autorimesse non utilizzate
In un contesto socio-economico come quello attuale, in cui si verifica una nuova problematica dell’insicurezza civile e sociale, dovuta ad un’erosione dei sistemi di protezione della «società salariale» (Castel, 2004), la popolazione non riesce a far fronte in maniera indipendente ad alcuni eventi della vita, come ad esempio la riprogettazione e la rifunzionalizzazione degli spazi interni agli immobili. Si riaggrega re-embedding rivolgendosi ai sistemi astratti (Giddens, 1994) e a procedure alternative di progettazione e finanziamento. Negli ultimi mesi il quartiere Bellavista è stato oggetto di interventi di questo tipo. Ad esempio quelli volti al superamento delle barriere architettoniche e alla diffusione di comportamenti e pratiche di uso della casa adeguati all’invecchiamento. Interventi finanziati dal programma Housing della Compagnia di San Paolo e realizzati dall’associazione Casematte in collaborazione con Seldon Ricerche. 1.
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Uno spazio sempre più lontano 0 km
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Bellavista costruito trasporto pubblico
Essendo stato progettato come quartiere satellite, Bellavista è localizzato in un ambito territoriale marginale rispetto alla città eporediese. I collegamenti con il resto del territorio avvengono mediante l’utilizzo sia del trasporto privato (che costituisce la modalità principale), sia a mezzo del trasporto pubblico, con un autobus che percorre l’intero perimetro del quartiere e lo collega al centro città. Tuttavia negli ultimi mesi l’amministrazione comunale, assieme alla GTT, ha disposto una variazione di linee e di percorsi del trasporto pubblico locale, che penalizzano ancor più il quartiere favorendone l’ulteriore isolamento dal resto della città. 1.
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Patrimonializzazione
1 - Il 3 maggio 2012 la città di Ivrea è stata ufficialmente inserita nell’elenco dei siti ritenuti particolarmente significativi per il riconoscimento a patrimonio mondiale UNESCO 2 - Il 3 maggio 2012 la città di Ivrea è stata ufficialmente inserita nell’elenco dei siti ritenuti particolarmente significativi per il riconoscimento a patrimonio mondiale UNESCO.
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Negli ultimi anni il quartiere, considerato una stazione del MAAM1 , ha subito una lenta esclusione territoriale e sociale rispetto al centro città, anche se si riscontra un atteggiamento culturale ricco e fertile degli abitanti, provenienti da una tradizione di autogestione originatasi nella cultura della “comunità”, che si mantiene vivo e riemerge in maniera costante. Diverse sono le attività che vengono svolte dagli abitanti per il quartiere, anche attraverso l’ausilio di un’associazione denominata “bellavista viva”. Si va dall’organizzazione di eventi, che consentono la condivisione di spazi, alla sistemazione e cura di aree verdi, alla manutenzione di attrezzature poste negli spazi comuni come ad esempio la riverniciatura delle panchine poste in piazza I maggio. A Bellavista se da un lato si tenta di tutelare l’intero patrimonio delle architetture della città, attraverso la procedura avviata sul fronte dell’UNESCO2 e l’istituzione del MAAM; dall’altro lato il patrimonio appare gestito sine cura sia sotto il profilo architettonico degli edifici che dovrebbero essere messi a norma per l’abbattimento delle barriere architettoniche, sia sotto quello del mantenimento degli spazi aperti oggetto di attenzione da parte di privati cittadini, di associazioni o di attori appartenenti al cosiddetto terzo settore. Pur essendo di grande pregio, il problema che Bellavista pone è la riconcettualizzazione della nozione di patrimonio pubblico. L’edilizia pubblica ha contribuito a costruire la città del Novecento ed è stata «il più straordinario laboratorio di vita urbana, tipologica, morfologica e sociale» (Olmo 2010, p.37), dove la sovrapposizione tra morfologie sociali e spaziali aveva assunto una forma programmatica il cui intento era non solo la protezione sociale in risposta ad un diritto, ma anche una risposta offerta in forma materiale più simile a quella che altre popolazioni, meno disagiate, trovavano nel mercato. L’incongruenza tra spazi e popolazioni è attualmente palesata dalla scarsità di risorse, interazioni e dalla diminuzione degli individui. Gli spazi realizzati per rispondere ad un diritto, oggi rimangono sospesi. Bellavista risulta una pallida cartolina del moderno (Bianchetti 2014). E di conseguenza «conservare edifici, che furono progettati per una durata limitata nel tempo, per rispondere ad una domanda immediata di una popolazione che si voleva elevare di cultura e reddito appare davvero complessa» (Olmo 2010, p.14) Il quartiere Bellavista ha un patrimonio di pregio, ma di scarso valore economico e sociale. Questa divaricazione pone significativi problemi e rende difficile immaginare scenari futuri. Come si possono adattare edifici e gli spazi collettivi a nuove esigenze? Cosa succederà quando gli attuali residenti verranno a mancare? E’ probabile che questi immobili verranno reimmessi sul mercato in un tempo relativamente breve. A quel punto come verrà gestito il mutamento? Ossia come si potranno mettere in vendita alloggi inadeguati dal punto di vista degli usi e delle esigenze delle nuove fasce di popolazione? Quali conseguenze si verificheranno dal punto di vista economico e da quello della pianificazione della città? Ovvero quali saranno gli impatti economici a livello di costi e di bilanci? Quali gli impatti sulla pianificazione della città e del territorio? Quali relazioni si instaureranno tra i diversi attori interessati (residenti del quartiere, cittadini, istituzioni pubbliche, fondazioni e imprese private)? Chi finanzierà? Chi gestirà le operazioni? E sotto quale regia? Quale sarà il ruolo del settore pubblico? Dal momento che la crisi economica sta ridefinendo e delegittimando il ruolo del pubblico.
Riferimenti bibliografici
Bianchetti C., Una nuova complessità, Dattiloscritto del 29 giugno 2014. Castel R., L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004. Di Biagi P., La ‹‹città pubblica›› e l’INA-Casa, in P. Di Biagi (a cura di, 2001), La grande ricostruzione. Il Piano INA-Casa e l’Italia degli anni ’50, Donzelli Editore, Roma 2001. Ferrarotti F., Considerazioni su Adriano Olivetti urbanista, in Olmo C. (a cura di), “Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica”, Edizioni di Comunità 2001. Giddens A., Le conseguenze della modernità. Fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Il Mulino, Bologna 1994. Olmo C., Architettura e Novecento. Diritti, conflitti, valori, Donzelli Editore, Roma 2010.
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Falchera Le qualità di una città pubblica
Simone Ruberto, Sara Cristina Zanforlin
“Un nucleo, un quartiere, un’unità autonoma sono qualcosa di più, o meglio molto di più, della semplice somma dei singolo addendi: essi sono unità sociali, nelle quali la vita individuale, di famiglia e associata si può svolgere con minori costrizioni, minor peso, più libertà e più ricchezza che non nell’indistinto agglomerato urbano. Ma per raggiungere questo risultato, di elevare cioè ad un ordine superiore la semplice commassazione degli edifici in una sola località, occorrono chiare direttive, precisa volontà ed intenzione, occorrono piani urbanistici che non siano un semplice tracciato geometrico, ma il risultato dello sviluppo coerente di un pensiero sociale. Gli esempi delle città-giardino inglesi, delle greenbelts americane, dei quartieri svedesi sono concrete dimostrazioni che queste nuove unità sociali non sono pura utopia.” G. Astengo, Nuovi quartieri in Italia, in Urbanistica, n° 7, 1951
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Lo spazio dell’abitare
Lo spazio dell’abitare
Lo spazio della mobilità
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veicolare
veicolare
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Lo spazio aperto
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STRADE STECCHE E CORTI
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La Nuova Unità Residenziale Falchera nasce nell’ipotesi che sia possibile rendere “la vita individuale, di famiglia e associata” più confortevole. Segnata da “minori costrizioni, minor peso, più libertà e più ricchezza che non nell’indistinto agglomerato urbano”. E’ una distanza dalla città che si vuole segnare. O meglio, di alcune implicazioni della vita urbana. Poiché i soggetti cui si rivolge sono fondamentalmente urbani: “gli ingegnosi operai specializzati” di cui parla Astengo. Per raggiungere tale obiettivo vengono messi in atto alcune strategie spaziali che vorremmo richiamare brevemente in questa parte conclusiva, senza che l’ordine nel quale le presentiamo, segni una qualche priorità. Ogni aspetto dell’impianto urbano, degli spazi aperti e di quelli costruiti viene progettato meticolosamente. Uno dei primi esiti del nostro esercizio di decostruzione del progetto attiene a questo punto: non si tratta solo di ribadire l’accuratezza del progetto (requisito di qualsiasi buon progetto), ma di osservare il legame forte ed esplicito che intercorre tra dispositivi spaziali che si implicano reciprocamente. Il progetto di Falchera non lascia nulla di indeterminato, di lasco, di passibile di interpretazione. E’ definito in modo ossessivo, negli spazi individuali, in quelli collettivi e nelle loro relazioni reciproche. L’esercizio decostruttivo evidenzia le regole. La percentuale di osservanza. L’eccezione che le conferma. Si potrebbe dire che questa ossessiva definizione sia segno dei tempi nei quali il progetto è stato costruito (molto più che delle indicazioni fornite da INA-Casa). Ma vale comunque la pena ribadirne l’importanza. L’accuratezza (soprattutto quando ossessiva, quasi maniacale) è generalmente associata alla rigidità: questa è una delle più comuni critiche al progetto urbanistico degli anni Cinquanta e Sessanta. Il nostro esercizio permette di discutere questo punto (qui, possiamo individuare un secondo esito). Falchera ha sopportato egregiamente molte trasformazioni (come ovvio che fosse). Oggi appare uno spazio morbido, malleabile, ricco di ambienti da reinventare, disponibile ad essere attraversato da azioni e reazioni. Ma questa disponibilità al plasmarsi nelle pratiche quotidiane, non ha fatto e non fa perdere irrimediabilmente i connotati del disegno spaziale. Potremmo arrivare a dire che l’utilizzo, l’osare di qualcuno, rivela il potenziale del disegno di Astengo. Il fatto che la diffusione dei parcheggi e delle auto non abbia colonizzato e stravolto questi luoghi, come spesso è capitato altrove, è un esempio del loro valore. La “storia delle trasformazioni” di questo spazio trova in questa fedeltà all’impronta originale, un aspetto di grande interesse.
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Tutela dello spazio domestico e di uno spazio aperto, continuo ed attraversabile
Tutela dello spazio domestico e di u continuo
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Tutela di uno spazio aperto, continuo ed attraversabile
Tutela di uno spazio aperto, continuo ed attraversabile
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L’idealtipo astenghiano
L’idealtipo astenghiano
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“Una classe lavoratrice evoluta, formata da ingegnosi operai specializzati, che associano ad una cultura tecnica una certa solidità e serietà di vita, che è quasi borghese, che disdegnano di coltivare l’orto, non amano troppo comarare e sono irriducibilmente gelosi del loro appartamento.” “La casa è come su un bordo di un mare. Questo respiro e questa quiete si associano ad una continua varietà di spazi tutto individuali [..].” “La vita associata è concentrata unicamente in alcuni “fuochi” a edilizia addensata e articolata in moodo da ricomporre in questa zone, ed in queste soltanto, una vita cittadinadi un certo movimento ed interesse.” “Lo spazio limitato delle due piazzette dovrebbe agevolare l’incontro e la fusione dei vari gruppi sociali.”
DENTRO I RECINTILa questione della combinazione: un ridisegno implicito del suolo
scala
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Un terzo esito concerne l’aver messo a fuoco il legame tra forma costruita, usi e modalità di convivenza. Si è detto della figura sociale che Astengo aveva come riferimento: operaio quasi borghese. Una figura solida e seria. Gelosa del proprio privato. Che disdegna coltivare l’orto o chiacchierare tra vicini. Qui si coglie l’eco di un processo di industrializzazione che è inteso in termini emancipativi: è una società che progredisce quasi antropologicamente. Astengo non immagina la brutalità dei processi di trasferimento in massa di lavoratori che segneranno Torino più che ogni altra città del nostro paese, da lì a qualche anno. E genereranno sfruttamento, contrapposizioni e conflitti. E’ molto interessante che egli disegni questa sorta di “idealtipo” (che è un ossimoro: l’operaio quasi borghese) nel suo spazio. Uno spazio che suggerisce solo, timidamente, forme di convivenza. Non le impone. Potremmo dire che mantiene lo stesso riserbo del soggetto cui è destinata. In questo suggerire senza imporre si situa uno degli aspetti più interessanti del progetto di Astengo. 1.
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Arch. Gino Beker/ Gian Franco Fasana
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Blocco 22 Prof. Mario Passanti capogruppo/ Paolo Perona
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Arch. Ettore Sotsass
Falchera (come gli altri quartieri INA-Casa) è la cristallizzazione spaziale di una politica di protezione sociale, intesa come garanzia di diritti. In primo luogo, del diritto per tutti ad un’abitazione decorosa. Potremmo dire che questi quartieri hanno rappresentato il supporto più importante della città moderna. Ma le loro traiettorie sono state assai diverse. Ancora una volta, un confronto può essere utile. Questa volta con il quartiere Bellavista di Luigi Piccinato. Progettato nel 1956 ad Ivrea. Anche in quel caso, un quartiere esterno la città, ben progettato, con un disegno chiaro nelle relazioni tra spazi individuali e collettivi. Con ambizioni alte. Nonostante la patrimonializzazione del MAAM e dell’Unesco Bellavista si appresta a divenire una pallida cartolina di quell’idea di protezione sociale. E’ sempre più vuoto (un terzo degli abitanti previsti al tempo del progetto, a fronte di una popolazione urbana rimasta pressoché immutata). E’ sempre più vecchio. E’ sempre più difficile viverci. A Falchera questo non è successo. 1.
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Quarto e ultimo esito del nostro studio è mettere in evidenza che Falchera funziona. Probabilmente in modo diverso da quanto immaginasse Astengo: con una popolazione che può dirsi di ceto medio, né più povera, né più anziana, né meno istruita di quella della città (cioè in media con i valori urbani). Falchera non corre il rischio della desertificazione che incombe su Bellavista. Ha anche recuperato la distanza che originariamente la separava dalla città. Volendo esprimere questo carattere in modo radicale e un po’ polemico, diciamo che Falchera non necessita di un progetto di riqualificazione. Se originariamente la distanza dalla città e l’autosufficienza erano intese come occasioni per creare qualcosa di nuovo (almeno sul piano morfologico, come ribadiva con una vena di cinismo Astengo), ora il problema dell’integrazione nell’urbano acquista un diverso significato ed è demandato principalmente agli aspetti infrastrutturali e al loro potenziamento. Mentre il centro civico (con il suo originario significato di luogo “socialmente inclusivo”) è depotenziato per le ragioni che è facile immaginare. In un momento di scarse risorse pubbliche, oltre che private, Falchera si configura oggi come un luogo che mantiene una qualità di vita con caratteri di eccezionalità nel contesto torinese. L’intento di Astengo di creare un progetto esemplare, capace di mostrare le qualità della pianificazione, rimane ancor oggi valido, pur essendo mutato in quasi ogni aspetto. A partire da quelli sociali.
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MIRAFIORI SUD, TORINO LA PROGETTAZIONE PROGRAMMATICA DELLA MIXITE’
Ianira Vassallo
Peut -on vivre agréablement avec des voisins si différents lorsqu’ils disposent d’une vue imprenable sur notre vie privée. Monique Eleb
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Mass production
La sede storica della produzione di massa d’impronta fordista in Italia è stato il comparto industriale di Mirafiori. Stabilimento inaugurato nel 1939 che ha reso visibile il rapporto tra capitale e lavoro della produzione industriale di massa. E ha costruito una città. Il quartiere di Mirafiori Sud è parte di quella città. Localizzato a sud est di Torino, ai confini dell’area metropolitana, ha un’estensione di 1.100 ettari e definisce la propria struttura su tre differenti piani. La presenza di un consistente patrimonio di edilizia pubblica residenziale di grandi dimensioni, con edifici di 8-9 piani fuori terra, costruiti tra gli anni ‘60 e ‘70, che definiscono un’immagine fortemente riconoscibile del luogo. La presenza di ampi spazi aperti ad uso collettivo, a ridisegnare una struttura dell’isolato aperta, in contrasto con il centro storico. La presenza di numerosi giardini pubblici, di due grandi parchi e delle sponde naturalistiche del torrente (Sangone) ha fatto sì che, con qualche approssimazione, questa parte di Torino fosse nominata “Città Giardino”. Infine, la presenza del comparto industriale della FIAT, che copre una superficie pari a 100 ettari (3.000.000 mc di edifici per 22.000 operai) ed è adibito in parte ad uffici (palazzina su Corso Agnelli) e per la maggior parte da capannoni industriali di un piano che affiancano le diverse fasi produttive per la realizzazione di automobili, motori d’aviazione e fusione di metalli. Questi tre piani (le case, i giardini, la fabbrica) sono fortemente connessi e danno forza ad una immagine precisa del quartiere che a sua volta è articolata in luoghi differenti: Mirafiori Sud (nella specifico Via Nega-ville,via Roveda,Via Plana, Strada Drosso); Cime Bianche; Borgata Mirafiori; Basse Lingotto.
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La città fabbrica Dagli anni ‘50 Torino diventa la capitale indiscussa delle grandi ondate di migrazione interna che l’espansione dell’industria automobilistica richiama soprattutto dalle regioni del Sud del paese. Nel decennio 1951-1961, la popolazione cittadina passa da 719.300 abitanti a 1.019.230. In poco più di un ventennio la popolazione di Mirafiori Sud da circa 3.000 abitanti arriva a circa 40.000. Per accogliere la nuova presenza operaia, la Fiat, alla fine degli anni ‘50, costruisce le prime case nella zona Basse Lingotto. Nella stessa area, nel 1966, il Comune progetta otto edifici a torre di 9 piani ciascuno per «dare una casa» a 780 nuclei familiari immigrati da varie regioni d’Italia e che in precedenza vivevano per la maggior parte in baracche e in edifici fatiscenti in altre zone della città. Il nuovo quartiere, denominato via Artom, assume immediatamente una connotazione negativa nell’immaginario collettivo: una concentrazione di persone con un’alta incidenza di problematiche sociali, isolato fisicamente e separato socialmente dalle zone circostanti. Negli anni ’70, altri nuclei di case popolari, principalmente edifici a stecca disposti lungo alcuni assi viari, vengono costruiti realizzando la zona oggi denominata Mirafiori Sud, dal nome del quartiere e circoscritta da via Roveda, Via Negarville, Via Plava e Strada del Drosso. La prima fase di costruzione di questo nuovo comparto residenziale si caratterizza come un quartieri-dormitorio realizzato in una zona periferica: palazzi privi di servizi, di scuole, di strade asfaltate, di trasporti pubblici per il collegamento con il resto della città. La formazione e la crescita di Mirafiori Sud sono veloci e caotiche, l’idea della Città Giardino rappresentata nei disegni dei suoi progettisti e pubblicizzata nel quotidiano locale La Stampa stenta a realizzarsi di fronte al crescere della necessità di alloggi e tra gli abitanti è diffuso il sentimento di abbandono e di marginalità. Tra il 1975 e il 1983, con la conclusione dei progetti e la realizzazione dei servizi collettivi (possibile anche grazie all’ imponente crescita economica e demografica), l’amministrazione locale comincia a rivolgere una specifica attenzione al quartiere, realizzando spazi di aggregazione e opportunità per gli anziani (bocciofile) e per i ragazzi (campi di calcio, impianti sportivi), scuole dell’infanzia e dell’obbligo, sedi di servizi sociali e sanitari, migliori collegamenti con i trasporti pubblici all’interno dell’area. Il quartiere è nel contempo garante di sicurezza e di controllo sociale. Poi la crisi del settore automobilistico. Oggi la presenza di persone anziane nella circoscrizione ha valori molto superiori alla media cittadina, con un picco nell’area di Mirafiori Sud (31% rispetto al 22% della media cittadina). Le condizioni sociali e economiche dei suoi abitanti risultano allarmanti (il reddito medio pro-capite non arriva agli 800 euro al mese). E’ evidente, inoltre, il progressivo abbandono del patrimonio im-mobiliare locale.
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La progettazione programmatica della mixité: una soluzione a quale problema? Il quartiere è da lungo tempo oggetto di politiche pubbliche. Durante la stagione urbanistica della rigenerazione urbana l’amministrazione comunale lo ha posto entro il Progetto Periferie della Città di Torino includendo la zona Basse Lingotto tra le aree cittadine oggetto di un P.R.U. (Piano di Recupero Urbano), realiz-zando interventi di collegamento al territorio circostante (un nuovo ponte sul torrente Sangone e il poten-ziamento di alcune linee di trasporto pubblico) e realizzando il CdQ di via Artom. Oggi interventi assai diversi, pongono il problema di un ridisegno delle forme abitative e dei rapporti sociali in un contesto nel quale una comunità compatta (generata da un disegno urbano gerarchizzato e decenni di politiche di controllo sociale), diventa nel contempo oggetto e soggetto di sperimentazioni che tentano di ovviare alla marginalità utilizzando la retorica della mixité come occasione per ripensare ad un differente abitare. Il progetto AlloggiAMI, realizzato all’interno dell’area Mirafiori Sud, finanziato e realizzato dalla Fondazione di Comunità di Mirafiori propone un nuovo modello di coabitazione mettendo in contatto la popolazione anziana locale con la richiesta di alloggio da parte di studenti universitari stranieri delle due nuove facoltà del Politecnico di Torino, collocate proprio all’interno degli spazi industriali dismessi della FIAT. AlloggiAMI coinvolge non solo gli abitanti del quartiere, ma anche i commercianti, creando una rete tra le attività commerciali che vi aderiscono, in cambio di agevolazioni e sconti agli studenti. Nuovi modelli abitativi mettono insieme individui soli (spesso figure emblematiche di una fragilità sociale emergente). E cambiano dall’interno uno spazio pensato per altre popolazioni.
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VALLE DI SUSA, PIEMONTE UNA CONTROVERSA INVENZIONE DELLE TRADIZIONI
Dafne Regis, Angioletta Voghera
Per tradizione inventata si intende un insieme di pratiche [...] dotate di una valenza rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Eric J. Hobsbawm
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La Valle di Susa è una valle alpina situata nella parte occidentale del Piemonte, ad ovest di Torino. Il territorio, di circa 110.000 ha, si sviluppa longitudinalmente per circa 70 km lungo il corso del Torrente Dora Riparia collocandosi tra i valichi alpini ad est e l’area metropolitana torinese. Fin dal Medioevo, riconosciuta come la valle di passaggio tra la Francia e l’Italia, attraverso la via Francigena e le numerose infrastrutture di cui è stata dotata nel tempo, è stata caratterizzata da intensi traffici di persone e merci e a lungo considerata una delle “porte d’Italia”. Il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale e la progressiva crescita dei flussi ne hanno sconvolto la tradizionale vita agricolo-pastorale, orientando il territorio verso nuovi processi di sviluppo, anche turistici (prevalentemente nell’Alta Valle). Questi processi si sono dimostrati nel tempo incapaci di supportare l’evoluzione territoriale, di difenderne i valori e promuoverne le risorse, innescandone il declino socio-economico, infrastrutturale e ambientale.
Dismissioni Sussiste una differenza tra l’Alta Valle, con vocazione turistica sin dal secolo scorso e in forte crescita dopo le Olimpiadi invernali del 2006 in relazione ad attività ricettive e seconde case (nel periodo 2003-2006 si è registrato un incremento dei valori immobiliari tra il 20 e il 100%; fonte FIMAA) e la Bassa Valle, oggetto di un processo di urbanizzazione e industrializzazione, oggi in crisi. Qui il territorio, da luogo vissuto e connotato da un patrimonio riconoscibile dalla comunità locale, è divenuto spazio della produzione, connesso all’area metropolitana torinese, segnato da contenitori industriali degradati e sottoutilizzati (186.460mq aree dismesse e 325.599 mq aree con elevata vetustà e condizioni di rischio degli immobili (Provincia di Torino, 2011)), e una rete di infrastrutture che, collegando i centri urbani, frammenta il territorio rurale. A partire dal 2008 il settore produttivo è in progressiva contrazione (in controtendenza rispetto all’intera Provincia di Torino caratterizzata nel suo complesso da una sostanziale tenuta): la recessione colpisce la Valle in quasi tutti i settori, con una perdita di circa 150 aziende negli ultimi cinque anni e una variazione del -1,64% di imprese registrate. In particolare, sono i settori dell’industria e delle costruzioni a registrare la maggiore inflessione con perdite rispettivamente di 46 e 107 aziende, mentre i servizi sono gli unici a registrare una lieve crescita (Fonte: elaborazione Camera di commercio su dati InfoCamere). Ad oggi si contano circa 6.000 disoccupati (circa il 7% della popolazione valliva). La riorganizzazione sociale ed economica della Valle sembra dunque dover 1.
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rispondere ad esigenze territoriali complesse: una ricentralizzazione sulle risorse locali; dinamiche insediative in controtendenza rispetto alla concentrazione urbana nelle pianure e nei fondovalle; processi di re-insediamento dei territori di mezzo (tra bassa e alta valle) che hanno provenienza e ragioni diverse (ricerca opportunità di lavoro, minor costo della vita, motivazioni etiche) e non sono supportate da strategie di sistema. Su questo sfondo, la crisi pone nuove necessità di tipo ambientale ed economico, in un quadro di relazioni forti tra aree urbane e montane di tipo “metromontano”. Nel tentativo di individuare nuove possibilità di sviluppo e reinventare comunità e reti, nascono associazioni nelle quali attori sociali e cittadini si mettono in gioco per recuperare una visione di futuro condivisa e ripensare a modelli economici sostenibili. L’associazionismo valsusino rilancia pratiche tradizionali per legittimare l’azione e la coesione della comunità. Si cercano traiettorie di sviluppo, in continuità col passato e cariche di valori e legami con il territorio. La patrimonializzazione di cui è oggetto il territorio ha l’obiettivo di accompagnare le scelte e partecipare alle trasformazioni in atto. Non è conservativa. Né, in senso stretto, “invenzione della tradizione” o “immaginazione della comunità”. Non ci si intende difendere dalle trasformazioni, ma inserirvisi. Anche se l’opposizione ai grandi progetti istituzionali, rende tutto assai più complesso.
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Conflittualità e progetti Da vent’anni la Valle di Susa è protagonista di un acceso dibattito intorno alla realizzazione della nuova linea ferroviaria Torino-Lione. Una faccenda molto complicata nella quale il protagonismo rivendicato rispetto al proprio territorio si contrappone alle ragioni istituzionali che sostengono l’opera infrastrutturale come volano per il progresso, l’occupazione e la crescita. Paul Valery osservava come «all’idolo del progresso rispo[nde] l’idolo della maledizione del progresso: il che cre[a] due luoghi comuni». La critica alla retorica della crisi del progresso (e a quella opposta) è già tutta qui. Il locale come maledizione del progresso è un luogo comune. Che non si sottrae a numerosi tentativi (istituzionali e associativi) di ridefinizione. Nella direzione di una ridefinizione di scenari territoriali si muove Etinomia: associazione nata nel 2011 dal coinvolgimento di realtà imprenditoriali valsusine che intende operare come rete tra imprese, commercianti, professionisti, artigiani, agricoltori, basando la salvaguardia del territorio sull’immagine retorica umanistica di «rapporti economici sani», della centralità dell’uomo e della presa in cura di beni comuni. A riprova che anche per quel che riguarda aspetti territoriali, la crisi fa da volano a quell’umanesimo che Focault definiva tenero e qui si rifonda nei rapporti con il territorio. La rivendicazione dell’origine territoriale dell’economia locale avviene attraverso la creazione di un marchio di valle (il “Made in Valsusa”) per rafforzare la territorialità dalla globalizzazione. L’associazione opera attraverso gruppi di lavoro (agricoltura, energia, edilizia, ICT, assistenza sociale) rivolti a promuovere progetti sul territorio (spazi di coworking; organizzazione di mercatini di produttori locali; corsi teoricipratici di orticoltura biologica; supporti ad associazioni; iniziative culturali; ecc.). CanapaValleSusa è un’iniziativa riconducibile a quel terreno: è un’associazione nata pochi mesi fa (settembre 2013) dall’incontro di quattro donne valsusine che propongono un progetto costruito sulla canapa, materiale ricco di proprietà e di possibili impieghi, una risorsa per costituire una nuova filiera, in grado di trasformarla e valorizzarla con un basso impatto ambientale a livello locale, incrementando le attività del tessile, della bioedilizia, dell’energia e del settore alimentare e consentendo l’esportazione del finito e del semi-lavorato. Lo sviluppo della canapicoltura e l’attivazione della rete di conoscenze e competenze prende spunto da memorie storiche e tecniche ancora rintracciabili sul territorio, oltre che dalla disponibilità di risorse economiche e umane. Il progetto si concretizza attraverso eventi e attività agricole, didattiche, culturali e tessili. L’attività pilota coinvolge cinque aziende agricole che hanno destinato circa 5.000 mq di terreno a questa particolare coltura. Interessanti gli esiti spaziali, con modificazione del paesaggio e degli spazi della produzione. La filiera promuove il recupero di terreni incolti, sperimentando la coltivazione anche su quei terreni cosiddetti marginali che offrono ridotte possibilità di guadagno per le colture tradizionali e il recupero di parte del patrimonio industriale dismesso come siti per lo stoccaggio e la lavorazione. Iniziative come questa stano acquistando progressivamente un peso e una visibilità diversi come mostra il progetto della Fondazione Michelangelo Pistoletto sull’uso della paglia nell’edilizia. Per quanto orientate e costruite diversamente, queste attività, per alcuni aspetti arcaiche, hanno la pretesa di incrociare da vicino il nostro presente. 1.
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Sviluppo locale? Sono in molti a riflettere sul modo in cui oggi si stanno re-inventando le Alpi. Il territorio della Valle di Susa assume, sotto questo profilo una evidente rilevanza. Territorio riconoscibile sia nella visione sovralocale del corridoio europeo infrastrutturale, sia nelle strategie di sviluppo metropolitane e locali. La crisi economica e i processi di sviluppo place based orientano ad immaginare un locale nel quale siano ridisegnati (e rifunzionalizzati) lo spazio urbano, quello rurale e quello naturale. Su questo sfondo le associazioni giocano un ruolo non residuale. Il radicamento della definizione e della realizzazione di nuovi percorsi di sviluppo in contesti di esperienza ordinaria caratterizza un fare associativo che guarda a territori e paesaggi, comunità e storie locali, cercando lì un accesso privilegiato alla costruzione di nuove condizioni. La patrimonializzazione di valori, memorie, saperi e luoghi è dunque il punto di partenza e nel contempo l’esito. Ma le cose sono fin da subito rese complesse dalla presenza di un conflitto radicale che assorbe numerose risorse. Il problema che la Valle di Susa pone riguarda la riconcettualizzazione dei nessi tra le nozioni di sviluppo e di territorio in situazioni di conflitto. Fuori dalla stagione dei facili entusiasmi che permettevano di riallacciarle attraverso la nozione di locale. Una stagione nella quale il territorio era posto al centro delle politiche di sviluppo. Finendo tuttavia con l’essere la parte più opaca del discorso.
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VAL MAIRA, PIEMONTE RAZIONALITA’ MINIMALI
Giacomo Pettenati Le elaborazioni grafiche e le immagini fotografiche sono di Eloy Llevat Soy
[...] scoprire la bellezza dell’ambiente soprattutto in quegli ambienti dove uomini e donne raggiungono una coscienza più completa della loro stessa identità. Ma l’identità che stiamo inseguendo [...] richiede uno scenario spazioso, meno domestico, meno dettagliato. John Brinckerhoff Jackson
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Da sempre la val Maira, come la maggior parte delle valli delle Alpi latine è terra di migrazioni. Per molto tempo migrazioni stagionali, quelle messe in pratica per sopravvivere allo chomage hivernal (Viazzo 1989), alla sovrappopolazione dei lunghi mesi invernali, che ha reso la valle famosa per i mestieri itineranti di acciugai e raccoglitori di capelli svolti da molti suoi abitanti. L’avvento della modernità ha reso le Alpi marginali per la prima volta nella storia (Salsa 2007): da un punto di vista economico, culturale, politico e demografico, trasformando l’emigrazione temporanea in permanente. È l’esodo raccontato da Nuto Revelli (1977), che ha svuotato intere vallate, desertificandole, proiettandole nella spirale della marginalità e trasformando la montagna nel mondo dei vinti. Causa di questa seconda tipologia di migrazioni è stata una crisi economica lunga, strutturale, per certi versi irreversibile, che ha reso la montagna marginale rispetto alla città, dopo secoli di sostanziale parità tra due mondi, nei quali, con l’eccezione di ristrette élite, tutti erano miserabili. In poche decine di anni (indicativamente, tra il 1931 e il 2011), l’alta val Maira, come altre alte valli piemontesi (Varaita, Po, Stura, etc) ha perso quasi l’80% dei propri abitanti, con picchi superiori al 90%, in comuni come Macra, Celle, Acceglio.
TORINO centro amministrativo della regione
BUSCA 10.058 ab
ospedale poliambulatori consultori medici
ACCEGLIO 174 ab
6km 9min
DAMIANO PRAZZO 7km 9min STROPPO 5km 6min MACRA 7,8km 10min S. MACRA 108 ab 181 ab 56 ab scuole primarie
scuole medie
458 ab
9,6km 13min
DRONERO 7.360 ab
scuole medie scuole primarie posta
CUNEO centro amministrativo della provincia
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Da territorio di espulsione a territorio di attrazione A partire dagli anni 80, una crisi ha cominciato ad investire anche la città moderna. Una crisi che prima ancora di manifestarsi drammaticamente come economica è stata culturale, di fiducia in un modello. Una sfiducia che seppur non diventando dominante, ha colpito molti cittadini, dando vita ad esperimenti più o meno sinceri e più o meno riusciti di vita alternativa, al di fuori della città, di ricerca di neo-ruralità, di “voglia di campagna” (Merlo 2006). In questo contesto si sono sviluppati i primi progetti di vita di singoli individui e nuclei familiari che hanno scelto di realizzare i propri ideali nei territori devastati (economicamente, culturalmente e soprattutto in termini di speranza nel futuro) dall’esodo montano. Questi “pionieri” sono arrivati in val Maira intorno alla metà degli anni 80, spinti da forti motivazioni etiche e ideologiche, legate anche alla riscoperta dell’identità occitana, vista come veicolo culturale di modelli altri rispetto a quelli dominanti. La montagna cuneese, territorio lasciato ai margini dai processi culturali ed economici dominanti, anche in molte valli alpine, si presenta infatti in quel periodo come uno dei pochi luoghi vicini dove poter mettere in atto un’alterità radicale nei percorsi di vita personali (Bartaletti 2004). Il fenomeno si è verificato, con caratteristiche simili, oltre che in val Maira, nella maggior parte delle altre valli cuneesi: Po, Varaita, Grana, Stura. I primi arrivati hanno aperto la strada a un nuovo popolamento, del quale sono oggi protagoniste anche altre persone, spesso giovani, spesso insediate proprio nelle realtà territoriali riterritorializzate dall’arrivo dei pionieri, che hanno posto le basi per nuovo humus sociale e culturale che funge da pull factor migratorio (Pettenati 2013).
Stroppo Stroppo è un comune dell’alta valle, duramente colpito dallo spopolamento. All’Unità d’Italia contava 1739 residenti, ridotti a 635 nel 1951 e a soli 102 nel 2013. Proprio le borgate svuotate e semi-diroccate del versante solatio di questo paese in via d’estinzione hanno costituito a partire dagli anni 80 un fattore d’attrazione. Da allora, tra le pieghe di una dinamica demografica che i numeri descrivono ancora come negativa, a causa dell’elevata età media della popolazione e del rapido ricambio di residenti, si sono ritagliati uno spazio sempre più importante nuovi abitanti, che hanno trovato a Stroppo le condizioni per realizzare i propri progetti di vita e lavorativi e che oggi costituiscono la componente principale della popolazione attiva di questo paese rinato. Quasi tutti i nuovi abitanti protagonisti del processo descritto in queste pagine possono essere definiti “portatori di progetti” (Cognard 2006). Innanzitutto progetti personali, di vita e lavorativi, che identificano nella montagna una risorsa, un milieu territoriale nel quale vederli realizzati. La progettualità individuale è inoltre inserita in quella che si potrebbe definire una progettualità territoriale, che integra le prospettive professionali e familiari dei singoli individui con progetti che mirano a valorizzare il territorio d’insediamento scelto da questi soggetti. In altre parole, all’interno dei progetti individuali viene considerata come risorsa chiave non la montagna, ma un territorio montano con caratteristiche precise (sociali, ambientali, culturali, etc.), che si realizza attraverso la condivisione di 1.
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fabbricati residenziali fabbricati dâ&#x20AC;&#x2122; uso religioso
fabbricati strade sentieri fiumi
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questa visione territoriale da parte dei nuovi e dei “vecchi” abitanti. A Stroppo, come in quasi tutta l’alta valle, questa convergenza di prospettive sembra realizzata e l’intera zona può essere definita un laboratorio territoriale di successo di questo nuovo abitare nella montagna contemporanea.
Abitare. Dove e come La localizzazione dei luoghi nei quali si insediano i nuovi abitanti è frutto di una scelta ben ponderata. Ovviamente, compatibilmente con la possibilità di trovare abitazioni disponibili e a prezzi ragionevoli, non sempre semplice, oggi ancora meno di 20-30 anni fa, quando arrivarono in valle i primi “pionieri”. E una, seppure minima, dotazione di servizi sanitari, scolastici e di trasporto pubblico. Alla scala comunale, è facilmente osservabile come le borgate più interessate dall’insediamento di nuovi abitanti siano quelle che si sviluppano, a diverse altitudini, lungo la strada che percorre il versante soleggiato della valle, collegando Stroppo ad Elva: Arneodi, Paschero, Morinesio, Cucchiales, San Martino. Quasi ignorate dal fenomeno sono invece le borgate lungo la strada statale che percorre tutta la valle (Bassura, Noufresio, Pessa) o quelle più difficili da raggiungere in auto (Centenero, Caudano, Ciamino). Questa localizzazione selettiva è espressione dell’importanza dell’amenity (Moss 2006) della località d’insediamento in questo particolare processo migratorio. O di una razionalità minimale, come si sarebbe detto nella fase di indagine iniziale dei fenomeni di dispersione, quando ci si è posti il problema di capire localizzazioni che muovevano dalla città, in modo per nulla disperso e poco orientato. Anche allora, seppure in territori completamente diversi, la buona esposizione, le condizioni di realizzabilità di progetti di vita non urbani, costruivano ragioni solide, ancorché minimali. La stessa attenzione viene posta all’individuazione della casa nella quale abitare o, nel caso in cui questa fosse già di proprietà dei nuovi abitanti (spesso appartenenti a famiglie originarie di questi luoghi) alla sua ristrutturazione e adeguamento ad abitazione di uso quotidiano. La ristrutturazione dell’abitazione, spesso svolta in prima persona o con l’aiuto di amici, in alcuni casi già nuovi abitanti, è un momento di grande importanza materiale e simbolica nel percorso di trasferimento in montagna. Si tratta di case nelle quali si rinuncia ad alcune comodità delle abitazioni urbane (riscaldamento sempre efficiente, strade sempre libere dalla neve, etc.) e in alcuni casi – contrariamente a quanto si potrebbe supporre anche a spazi interni (le case delle borgate sono quasi sempre più piccole rispetto alle abitazioni suburbane o dei piccoli centri di pianura), barattate in cambio di grandi panorami, silenzio, vicinanza alla natura e vita di borgata. I nuovi abitanti delle aree montane si insediano in località abbandonate o caratterizzate da un’estrema rarefazione sociale e territoriale, creando nuovo presidio territoriale e nuovo territorio laddove quello precedente stava andando perso. E’ cruciale, da questo punto di vista, ragionare su distanze, prossimità, misure, logiche spaziali, principi riconoscibili degli usi degli spazi aperti e degli spazi costruiti, in relazione tra loro. Ovvero di ciò che fa del territorio (montano, in questo caso) uno snodo non meno complesso di usi, pratiche, norme e valori. Lo stesso fenomeno può anche essere interpretato alla luce della schematizzazione del ciclo territorializzazione-deterritorializzazione-riterritorializzazione, proposta da Raffestin (1984). Alla perdita di funzioni delle borgate rese deserte dallo 1.
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spopolamento (de-territorializzazione) si è sostituita una ri-territorializzazione, costituita dall’affermarsi di nuove funzioni e nuovi valori. In Val Maira il processo è evidente nella borgata di San Martino inferiore (1400 m.), la quale fino agli anni 50 circa era una popolosa borgata agricola, completamente desertificata dallo spopolamento, protrattosi fino alla fine degli anni 80. Negli anni 90 una coppia austriaco-tedesca decise di acquistarvi una casa, ristrutturarla ed avviarvi un’attività ricettiva e culturale. Da allora San Martino, che oggi ha attirato anche altri nuovi abitanti, è il luogo della Val Maira più conosciuto e frequentato dai turisti di lingua tedesca ed ha sostituito la propria precedente territorialità di borgata alpina rurale, venuta meno in seguito allo spopolamento, con una nuova territorialità legata al suo essere il nodo di una rete internazionale turistica e culturale. Altra borgata simbolo è quella di Morinesio (1450 m.), diversa fin dall’apparenza esteriore tanto dalle frazioni abbandonate e diroccate, quanto dalle borgate “bomboniera”, popolate solo poche settimane all’anno da proprietari di seconde case indifferenti alla montagna, se non come luogo di riposo o di sport. A Morinesio, come nella contigua Ruata Valle, si concentrano molte famiglie di nuovi abitanti, che hanno ristrutturato molte abitazioni, avviando attività economiche in loco (aziende agricole, b&b, locande, etc.) o vivendo la borgata come spazio residenziale.
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Un’urbanità facoltativa I nuovi montanari, sono protagonisti della vita di Stroppo, dal punto di vista politico, economico, sociale, culturale. Ciò che soprattutto merita di essere sottolineato è la consapevolezza che molti di loro hanno del proprio ruolo nel tracciare le sorti future di questo territorio, nell’essere attori non solo di un progetto di vita individuale, ma di un progetto territoriale, forse implicito, che racchiude altre progettualità personali e familiari. Episodio simbolo di questo atteggiamento è la scelta di fare acquisti, quando possibile, nel piccolo negozio di Stroppo, l’unico dell’intero comune, preferendo contribuire al mantenimento di un importante presidio sociale e territoriale, piuttosto che risparmiare effettuando i propri acquisti nei supermercati di fondovalle. Una conferma di questo atteggiamento proviene dalla presenza di “nuovi abitanti” nei (pochi) ruoli istituzionali del comune, dove essi costituiscono la maggior parte degli assessori e dei consiglieri comunali. Lasciare la città per vivere in montagna parrebbe significare per costoro scegliere di fare parte di una comunità. Entro forme di socialità che non riescono a mettere in pratica in città.
zone in ombra zone in ombra zone boschive zone boschive
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Ruoli politici, sociali e trasformazioni del territorio possono naturalmente determinare conflitti con gli abitanti autoctoni e con i proprietari di seconde case. Al centro dei conflitti con questi ultimi, vi è l’incompatibilità tra modi di concepire e “vivere” la montagna, come luogo di lavoro e di vita, o come scenografia del proprio tempo libero. Sarebbe tuttavia riduttivo considerare la scelta di trasferirsi in montagna come antiurbana. Alla rinuncia alla città intesa in senso moderno, come definita da densità, continuità e contiguità, non si affianca infatti una rinuncia a comportamenti urbani, alla vita civile, ai servizi, ai legami sociali. La scelta non è di isolamento, bensì di maggiore partecipazione, di ricerca di un ritrovato protagonismo nella vita pubblica, di relazioni sociali non ridotte, né in quantità, né in qualità. Entro microcosmi. Si potrebbe parlare di un’urbanità facoltativa, praticata quando la si vuole (in montagna o spostandosi occasionalmente a valle) nei suoi aspetti positivi, barattando le sue caratteristiche negative con le difficoltà della montagna, scelte e per questo sopportate. «Siamo nella giusta via di mezzo –dice un’abitante intervistata– tra il selvaggio e la vita urbana, nel senso che se voglio andare al cinema posso andare al cinema, se mamma deve fare la spesa può andare a fare la spesa, però tutto questo è vicino solo quando lo desideriamo noi». Di nuovo il confronto con i territori della diffusione e della loro “mobilità allargata”, pare ineludibile. Ciò nondimeno è utile sottolineare come il ripopolamento della montagna presenti, caratteristiche molto differenti: sono assenti, non frequentati, né cercati quei luoghi simbolo dell’urbanizzazione dispersa (centri commerciali, attrezzature sportive collettive, cinema multisala, grandi infrastrutture, etc.). Inoltre i protagonisti del fenomeno descritto in queste pagine solo raramente trasferiscono al di fuori delle mura cittadine le attività lavorative che svolgevano in città, bensì scelgono nella maggior parte dei casi di lavorare in e della montagna (turismo, artigianato, agricoltura, ristorazione, allevamento), integrando attività tradizionali con forti dosi di innovazione (dalla coltivazione biologica del genepy al telelavoro). Caratteristiche che distinguono la val Maira da altri territori montani, nei quali le dinamiche demografiche positive sono espressione dell’espansione dell’area metropolitana diffusa, che risale le basse valli, ad esempio in val di Susa.
Colonizzazioni Forse non è sbagliato parlare di colonizzazione, ma sarebbe più preciso dire che siamo di fronte a due colonizzazioni in conflitto, quella delle piante pioniere, del bosco che si mangia il territorio svuotato di popolazione e quella dei nuovi abitanti (o forse meglio dire degli abitanti nuovi, qualunque sia la loro origine), che scelgono di vivere in montagna e della montagna, ri-territorializzandola e trovando in essa le risorse per i propri progetti di vita e territoriali.
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Masterclass 3-6 settembre 2014 Mercoledì 3 settembre 2014 10.00-10.30 Aula Magna
Saluti d’apertura
11.00-12.30 Aula Magna
Dopo la Golden Age. Il lungo percorso della crisi
14.30-15.30 Aula Magna
Presentazione della ricerca Territori nella crisi
15.30-17.30
Questioni
Aula 201
Mutamenti nel rapporto tra economia e territorio
Enrico Macii, Vice Rettore per la Ricerca e il Trasferimento Tecnologico, Politecnico di Torino Luca Ortelli, Vice Direttore del Programme doctoral Architecture et Sciences de la ville (EDAR), Ecole doctorale de l’EPFL Losanna (EDOC-EPFL) Patrizia Lombardi, Direttore del Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio (DIST), Politecnico di Torino Conversazione tra Arnaldo Bagnasco e Antonio Calafati Cristina Bianchetti, Elena Cogato Lanza
Antonio Calafati, Alex Fubini, Bernardo Secchi discutono: Biella. Vivacità minori, Michele Cerruti But Sassuolo. Metamorfosi del distretto, Cristiana Mattiolo Aubervilliers. Il riarticolarsi del rapporto produzione città, Giulia Setti Genova. Paesaggi dell’abbandono, Chiara Farinea Aula 202
Metropoli europee
Luca Ortelli, Paola Viganò, Emanuel Giannotti, Stefano Munarin discutono: Athens. Scenarios for the archipelago of the Urban Decay, Vasiliki Tsioutsiou Antwerp. Urbanizing the metropolitan fringe, Tom Broes La fine della città postmoderna, Daniele Vazquez Pizzi Helsinki. La città Intelligente sopra la città concreta, Teresa Frausin 17.30-18.30 Aula Magna
Pionieri. Fotografie di Laura Cantarella
Conversazione tra Laura Cantarella e Anna Detheridge
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9.00-11.00
Questioni
Aula 201
Un diverso statuto per lo spazio pubblico
Alessandro Armando, Cristina Bianchetti, Jacopo Gresleri, discutono: Can Battlò, Barcelona. Nuovi urbanesimi, Silvia Calastri, Elizabet Roca Centquatre e Place de la République, Paris. Uno spazio pubblico ordinario, Patrizia Toscano Madrid. City as prototype. A situationist frame for pragmatic social action, Dario Negueruela
Aula 202
Privatizzazioni
11.30-13.00 Aula Magna
Il ridefinirsi di professioni e competenze nella crisi
14.30-16.30
Questioni
Aula 201
Grazia Brunetta, Francesca Governa, Luca Pattaroni, Angelo Sampieri discutono: Bruxelles. Spaces and values of use in the projects of the Community Land Trust, Verena Lenna Londra. La governance sottratta al pubblico, Giulia Sonetti Roma. La finanziarizzazione del patrimonio immobiliare, Laura Martini Conversazione tra Carlo Olmo e Bernardo Secchi
Un nuovo funzionamento del territorio
Claudia Cassatella, Elena Cogato Lanza, Pierre Alain Croset, Lorenzo Fabian discutono: Scenographia: fabrics and landscapes of mobility in European peripheries, Antoine Vialle Waste landscape: an evolving concept. Cecilia Furlan Anticipating the change: visions and perspectives towards a post-car world, Farzaneh Bahrami London’s alternative housing, Silvia Sitton Aula 202
Patrimoni. Potenziamenti e minorazioni
17.00-19.00 Aula Magna
Discussione
Antonio De Rossi, Edoardo Piccoli, Angioletta Voghera, Maria Chiara Tosi discutono: , Bellavista, Ivrea. Cos’è patrimonio pubblico? Elisabetta M. Bello, Agim Enver Kërçuku Mirafiori Sud, Torino. La progettazione programmatica della mixité, Ianira Vassallo Valle di Susa. Una controversa invenzione delle tradizioni, Dafne Regis Val Maira. Razionalità minimali, Giacomo Pettenati
Venerdì 5 settembre 2014 9.00-11.30 Aula Magna
Presentazione delle ricerche in corso presso le Scuole di Dottorato EDAR, IUAV, SCUDO coordina Paola Viganò
17.00 Aula Magna
Presentazione dei volumi:
Cristina Bianchetti, Territori della condivisione, Quodlibet, 2014 Elena Cogato Lanza e Luca Pattaroni, De la différence urbaine, MētisPresses, 2013
Sabato 6 settembre 2014 9.00-11.30 Aula Magna
Presentazione delle ricerche in corso presso le Scuole di Dottorato EDAR, IUAV, SCUDO coordina Paola Viganò
17.00 Aula Magna
Presentazione dei volumi:
Lorenzo Fabian, New Urban Question. Ricerche sulla città contemporanea 2009-2014, Aracne, 2014 Matthew Skjonsberg, The narrative, numero monografico della rivista Topos
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