Francesca La Carruba for Shared Territories

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Torino e i luoghi degli esclusi L’abitare come condizione di inclusione sociale

Exclusion in Turin Dwelling as social inclusion condition



Torino e i luoghi degli esclusi L’abitare come condizione di inclusione sociale POLITECNICO DI TORINO Tesi di Laurea Magistrale in Architettura Costruzione CittĂ

Relatore Prof.ssa Cristina Bianchetti Candidato Francesca La Carrubba

Luglio 2016



Indice Abstract

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Introduzione

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Lo stato sociale

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Torino

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Esplorare i luoghi della povertà

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I luoghi dell’emarginazione e del rifiuto

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Le politiche sociali La classificazione ETHOS I serivizi di contrasto alla grave emarginazione

Immagini La città fordista La città della rigenerazione La città del welfare

Luoghi pubblici e homeless Il diritto all’abitazione nella Costituzione italiana Il fenomeno homelessness a Torino L’approccio Staircase L’approccio Housing first

Il campo rom e le politiche della sicurezza L’invenzione del campo “nomadi” Il Dado di Settimo Torinese (TO)

Conclusioni

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Fonti

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Ringraziamenti

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Abstract “Poverty, feminine noun, singular. Errata corrige. Poverty, feminine noun, plural.” The 2015 Caritas Report about poverty in Italy starts like this. In recent years a dramatic increase of Italian and foreign workers has been measured, who have used up any type of social safety net, including the family network. That is totaly new for Italy. The State, forced by the European spending review, cuts the social services and delegates to the family, which, at the mercy of the crisis and unsupported, is no longer able to support the weakest links within it. Who thought that modern economic growth and the spread of knowledge could change the deep structures of the capital and inequality must think again. Today we are witnessing the growth of social inequality, the deepening of the gap between rich and poor, and the city becomes the place where these inequalities emerge and are represented. It is the “new urban question” identified by Secchi, who also denounces the responsibility of urbanism in the growing worse of inequalities themselves. My thesis focuses on the case of Turin, where there is an increase of people in need. The poor, the excluded people increase. A situation arising from the condition of structural weakness that has progressively invested Turin and its area, from the crisis of that society clearly centered on the industry to the economic crisis that since 2008 has affected tourism and high tech industry, on which Turin had relied. They talk of “new poor people”, plagued by feelings of failure and shame towards their children and denial of the future, exasperated because the situation in five years has not improved, despite the positive picture of recovery painted by the media. The poor, the excluded people return more than ever to be seen in the city. What are, then, the places of poverty and inequality? What are the places of exclusion?

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ABSTRACT 8


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“Povertà, sostantivo femminile, singolare. Errata corrige. Povertà, sostantivo femminile, plurale”. Inizia così il Rapporto 2015 della Caritas sulla Povertà. In questi ultimi anni è stato registrato un incredibile aumento di lavoratori italiani e stranieri che hanno esaurito qualsiasi tipo di ammortizzatore sociale, inclusa le rete familiare. Una novità in Italia. Lo Stato, costretto dalla spending review europea, taglia i servizi sociali e delega alla famiglia, che, in balia della crisi e priva di supporto, non riesce più a sostenere gli anelli più deboli che la compongono. Chi pensava che la moderna crescita economica e la diffusione del sapere potessero modificare le strutture profonde del capitale e dell’ineguaglianza si deve ricredere. Si assiste oggi alla crescita delle disuguaglianze sociali, all’approfondirsi della distanza tra ricchi e poveri, e la città diventa il luogo dove queste disuguaglianze emergono e si rappresentano. È la “nuova questione urbana” individuata da Secchi, che denuncia anche le responsabilità dell’urbanistica nell’aggravarsi delle disuguaglianze stesse. Il lavoro di tesi si concentra sul caso di Torino, dove si registra un aumento delle persone in difficoltà. Aumentano i poveri, gli esclusi. Una situazione che deriva dalla condizione di debolezza strutturale che ha progressivamente investito il territorio torinese, dalla crisi della società fordista che aveva determinato l’espansione della città, a quella successiva del 2008 che ha colpito turismo e settore high tech, su cui la città immaginava di ridisegnarsi. Si parla di “nuovi poveri”, afflitti da un sentimento di fallimento, di vergogna nei confronti dei propri figli e di negazione del futuro, esasperati perché la situazione in cinque anni non è migliorata, nonostante il quadro positivo di ripresa dipinto dai media. I poveri, gli esclusi, tornano oggi più che mai ad essere visibili in città. Quali sono, quindi, i luoghi della povertà e delle disuguaglianze? Quali sono i luoghi dell’esclusione?



Introduzione

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Tagliare e restringere le libertà degli esclusi (visti come un peso) non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero: al contrario, sottrae a molti altri la possibilità di sentirsi liberi. La strada dei tagli al welfare può condurre ovunque tranne che a una società di individui liberi: anzi, per le esigenze della libertà, è come imboccare un vicolo cieco. Si dimentica cioè che la libertà di chi è libero richiede, per così dire, la libertà di tutti poiché la libertà è una relazione sociale. Zygmund Bauman L’urbanistica moderna si è costruita sulla questione della povertà. Le pessime condizioni igieniche portate dall’addensamento e dall’estensione dei quartieri operai edificati dalla rivoluzione industriale, il problema dell’allontanamento e smaltimento di rifiuti e liquami, il traffico industriale, i fumi tossici delle fabbriche hanno indotto l’urbanistica, cresciuta all’ombra del potere assoluto, ad abbandonare quella posizione di cieco distacco dai conflitti sociali che fino ad allora l’aveva caratterizzata. Il disagio provocato dalla sempre maggiore concentrazione di persone povere nelle città e le proteste crescenti hanno caricato l’urbanistica del XIX secolo del significato sociale che ancora oggi le appartiene: tentare di estendere i benefici del progresso a tutti gli strati sociali della popolazione. La storia della città, il luogo per eccellenza della vita sociale, verso cui convergono nello stesso tempo ricchezza e povertà, con tutti i problemi e i conflitti che questa vicinanza comporta, è diventata storia della società che si trasforma e storia dell’urbanistica, investita della responsabilità di trovare risposte concrete ad insicurezze civili e sociali. Risposte che nel tempo hanno spaziato dalle alternative utopistiche di Howard alla città esistente, ai modelli funzionalisti, che della città sopraffatta dallo sviluppo industriale tentavano invece di correggere i difetti. I programmi di edilizia sociale e le norme sulla dotazione minima obbligatoria di


INTRODUZIONE

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servizi e spazi pubblici, che hanno trasformato il volto delle metropoli, sono stati il tentativo concreto di migliorare la qualità della vita degli abitanti delle città. L’urbanistica moderna è nata con l’obiettivo di risanare il degrado associato alla povertà urbana. Oggi, al contrario, intrappolata all’interno della sua rete di tecnicismi, l’urbanistica sembra aver perso la carica utopica delle origini e dimenticato la finalità sociale che la contraddistingueva. I programmi di rigenerazione urbana e le trasformazioni della città contemporanea vengono condotti principalmente sulla base di motivazioni economiche e le risorse pubbliche vengono spese in operazioni di valorizzazione immobiliare, che calpestano gli obiettivi di riforma sociale che ispiravano l’urbanistica degli inizi. Riportare al centro del dibattito il tema della povertà urbana e della questione abitativa è l’obiettivo del mio percorso di ricerca. Argomenti di estrema attualità e di grande interesse per gli studi sociologici, che, seppur tra incertezze e ambiguità, sono di recente tornati nell’agenda politica nazionale, mentre sembra mancare da parte della letteratura urbanistica italiana contemporanea un’adeguata sensibilità in materia. Il concetto di povertà è facile ed immediato eppure così ampio e controverso. Nel tempo e nello spazio la sua definizione, e misurazione, è continuamente cambiata. La crescita moderna e la diffusione delle conoscenze non sono riuscite a modificare le strutture profonde del capitale e delle disuguaglianze1. L’ottimismo dei Trente glorieuses, che tra l’inizio degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta aveva innescato una travolgente dinamica economica, occupazionale ed urbanistica, permettendo di raggiungere ritmi di crescita del 4-5% annuo, ha lasciato il posto alla società dell’incertezza2, che vive le conseguenze portate dalla cultura postmoderna e dalla globalizzazione. Il lavoro di tesi si concentra 1 2

Piketty T., Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014 Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999


sulle povertà visibili, quelle estreme dei senza tetto e delle persone che vivono relegate ai margini delle città, i cosiddetti “nomadi”. Povertà facilmente rintracciabili a livello spaziale, punta visibile di un problema ben più ampio e diffuso. Data la complessità e vastità del tema, non vengono considerate le povertà delle persone che fuggono da una guerra o quelle legate ai fenomeni di immigrazione, o ancora le povertà invisibili dei “nuovi poveri”. La città di riferimento è Torino, metropoli forte di una lunga tradizione di welfare, capace di rispondere alle urgenze anche in periodi di grande crisi e risorse limitate, un ecosistema favorevole alla sperimentazione di nuovi modelli di innovazione sociale. Dagli spazi della homelessness ai campi rom vengono presentati alcuni progetti pilota, che dimostrano come pianificazione e politiche sociali possano lavorare insieme per offrire alle persone che vivono in situazione di povertà ed esclusione sociale l’opportunità di migliorare la propria condizione. La ricerca non propone un lavoro immediatamente progettuale. Essa opera, piuttosto, ai confini e sulle condizioni del progetto, con l’intento di riportare l’attenzione su un tema dimenticato, che è invece fondamento dell’urbanistica. L’obiettivo non è proporre una soluzione, più o meno interessante, evocativa e poetica, ma aprire un dibattito, mobilitando conoscenze diverse. L’urbanistica deve tornare ad ispirarsi ai principi di utilità e giustizia sociale e riposizionarsi nel contesto delle politiche sociali quale strumento fondamentale delle politiche pubbliche nazionali. Bisogna tornare a credere che la pianificazione possa contribuire a migliorare in modo significativo ambiente e servizi e a ridurre l’esclusione sociale, anche se, certamente, la questione dipende in modo sostanziale dalle scelte politiche ed economiche e dagli orientamenti perseguiti a livello locale, nazionale e sovranazionale. Troppo a lungo sono stati sottovalutati il peso e il ruolo che i processi di impoverimento hanno assunto nella nuova questione abitativa che caratterizza da alcuni decenni le società industrializzate. L’idea degli anni del boom economico che il problema fosse di tipo quantitativo, di facile soluzione e che il divario tra ricchezza e povertà sarebbe stato colmato dall’immancabile ulteriore sviluppo ha cominciato a vacillare tra gli anni Settanta e Ottanta. La povertà, anche abita-

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INTRODUZIONE

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tiva, si è palesata nelle sue forme più estreme, in primis nella scomoda presenza degli homeless in tutte le grandi città dei paesi sviluppati. Una nuova questione urbana3 ed abitativa legata ai profondi cambiamenti che hanno segnato le politiche degli ultimi decenni e all’ampio processo di trasformazione della società a livello demografico, delle strutture famigliari e dei sistemi socio-assistenziali. Da una parte si è assistito al progressivo sottrarsi dello Stato alle responsabilità dell’intervento diretto in favore del decentramento, alla crescente incapacità delle politiche pubbliche di rispondere ai bisogni e alle richieste di aiuti, alla privatizzazione dell’edilizia sociale. Dall’altra, la tipologia della domanda abitativa è cambiata, i percorsi di impoverimento si sono fatti più complessi ed articolati e si sono moltiplicati con la crisi del 2008, il divario tra i nuovi bisogni e i crescenti costi abitativi legati all’andamento dei mercati è aumentato e il rischio abitativo ha trovolto nuovi segmenti di popolazione. Una povertà abitativa che si manifesta a diversi livelli. Dalle situazioni di non-casa4, che includono le persone prive di sistemazione o che vivono in contesti abitativi così precari da non poter essere definiti tali - i senza dimora, gli immigrati privi di abitazione, gli zingari dei campi nomadi -, alle situazioni di rischio abitativo, che travolgono nuove categorie di persone in precedenza non propriamente classificabili tra i soggetti a basso reddito. La scelta è stata quella di concentrare il lavoro di tesi sulle componenti più gravi e marginali dell’esclusione abitativa, in quanto maggiormente significative per comprendere le novità della questione. Le forme estreme della povertà abitativa obbligano diverse discipline ad uscire dai loro confini tradizionali, intrecciando le proprie azioni: politiche urbanistiche ed abitative, politiche del lavoro, politiche socio-assistenziali. Il problema abitativo in molti casi non può essere separato da un sostegno assistenziale né essere ridotto ad un problema meramente economico di accesso all’abitazione. Allo stesso modo vanno ricondotte alla questione Secchi B., La città dei ricchi e la città dei poveri, Editori Laterza, Roma-Bari, 2013. Tosi A., Povertà e domanda sociale di casa: la nuova questione abitativa e le categorie delle politiche, in “Case difficili”, La rivista delle politiche sociali n. 3, 2006. 3 4


abitativa problematiche di esclusione mai seriamente affrontate dalle politiche nazionali, in primo luogo quelle legate ai campi nomadi e al fenomeno della homelessness. Il ritardo con cui le politiche nazionali hanno cominciato a prendere atto del problema costituisce oggi uno dei fattori principali dell’inasprimento della questione. Molto dipende anche dalla storia delle politiche abitative condotte in Italia: la priorità data all’accesso alla casa in proprietà, inteso come soluzione generale ai problemi abitativi, accompagnata da programmi di edilizia sociale inadeguati, il governo modesto del mercato, il crescente ritiro dello Stato dall’intervento diretto e l’incertezza che ha accompagnato il decentramento delle responsabilità. L’edilizia pubblica è in declino, le risorse per la casa scarseggiano e si risente pesantemente della riduzione dell’offerta di case in affitto e in affitto sociale5. Le discipline urbanistiche non possono modificare i meccanismi politici, economici e sociali, ma possono lavorare per offrire condizioni di vita migliori, anche alle componenti più svantaggiate della popolazione. Esse devono porsi come strumento dell’ascolto, capace di smontare le false certezze, ridefinendo in qualsiasi momento i termini del dibattito e rimettendo tutto in discussione. Non basta più la città bella, sana, comoda ed economica6. Serve una città giusta7, ispirata alla convivenza, che cresca sulla base dei principi di solidarietà, eguaglianza e rispetto.

Tosi A., Povertà e domanda sociale di casa: la nuova questione abitativa e le categorie delle politiche, in “Case difficili”, La rivista delle politiche sociali n. 3, 2006. 6 Piccinato L., La progettazione urbanistica. La città come organismo, Ed. Marsilio, Venezia, 1946. 7 Fainstein S., The Just City, Cornell University Press, Ithaca (USA), 2011; Ischia U., La città giusta: idee di piano e atteggiamenti etici, Donzelli, Roma, 2012; Soja E. W., Seeking Spatial Justice, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2010. 5

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Lo stato sociale



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Le politiche sociali I modelli di welfare consolidatisi in Europa nella seconda metà del Novecento sono oggi in crisi. Pesa l’urgenza di protezione sociale indotta dalle trasformazioni del mercato del lavoro e della società, nell’assetto demografico e nelle strutture familiari, oltre che la sempre più crescente presenza in Europa di migranti. La tecnologizzazione delle economie e la forte competizione dei paesi con manodopera a basso costo hanno radicalmente trasformato il mercato del lavoro, escludendone i lavoratori meno qualificati. La crescente disoccupazione ha causato l’aumento della spesa sociale e, nello stesso tempo, la riduzione della base contributiva, che finanzia in larga misura gli strumenti e i sistemi di assistenza. Il crescente invecchiamento della popolazione sta ulteriormente mettendo a dura prova il welfare in quasi tutti i paesi europei, con aumenti imprevisti della spesa previdenziale e sanitaria. Si aggiungono infine le scelte di policy adottate a livello sovranazionale e la pressione dell’Europa al raggiungimento di determinati obiettivi, quali il risanamento dei bilanci, che mal si conciliano con l’idea della coesione sociale al centro del progetto sociale europeo. Il contesto di crisi che stiamo vivendo sta d’altra parte favorendo la nascita di numerose sperimentazioni in ambito sociale, di strumenti inediti spesso non legati a specifiche riforme, che fanno intravedere la possibilità di nuovi indirizzi di politiche sociali. L’Unione Europea ha assunto un’importanza crescente nella gestione del coordinamento fra i livelli sovranazionale, nazionale e locale delle nuove politiche sociali, agendo come filtro fra le pressioni internazionali ed i sistemi nazionali.


LO STATO SOCIALE

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L’Europa interagisce con diverse organizzazioni a livello globale, adottando le soluzioni ritenute più consone per rispondere alle trasformazioni della società globalizzata. Nel modello di sviluppo prescelto le politiche sociali hanno lo stesso peso delle politiche economiche e di quelle del lavoro. L’Unione Europea da anni esercita una certa pressione sui paesi membri, sempre nel rispetto delle specificità nazionali e regionali, perchè si muovano in direzione dell’armonizzazione delle politiche sociali, al fine di dare vita ad un modello sociale che possa definirsi europeo. La Commissione europea ha sottolineato più volte la necessità che i paesi membri si adoperino per indirizzare l’evoluzione dei sistemi assistenziali verso gli obiettivi generali delle politiche economiche e sociali indicati a livello comunitario. Il principio di sussidiarietà, verticale e orizzontale, e gli approcci integrati si pongono oggi alla base del sistema multilivello di governo che dalla firma del trattato di Maastricht ha cambiato gli assetti istituzionali delle politiche sociali. Gli attori nazionali si sono impegnati a sorvegliarsi reciprocamente, coordinandosi nello spazio europeo, ma assegnando nello stesso tempo massima centralità al livello locale. Il monopolio statale e pubblico, alla base del welfare dell’Europa occidentale del secolo scorso, ha ceduto il passo ad un rimescolarsi dei rapporti fra attori pubblici e privati, portando all’affermazione del cosiddetto welfare mix, sulla cui indiscussa efficacia insiste il discorso pubblico degli ultimi anni. La leva finanziaria di cui dispone l’Europa è considerevole. I programmi europei che finanziano interventi in ambito sociale o simile - lotta all’esclusione sociale, lavoro, sviluppo locale, riqualificazione urbana - sono in grado di esercitare una pressione notevole sui paesi membri, indirizzandone le scelte. Le nuove iniziative promuovono forme integrate di governo e di azione multidimensionale, superando le strategie di azione tradizionali, di stampo settoriale e categoriale, che risultano oggi inadeguate. Attraverso meccanismi di premialità, procedure di monitoraggio e valutazione, viene incentivata l’adozione di logiche orientate al risultato, capaci di fissare obiettivi chiari e di attrarre risorse. L’attenzione si


sposta sulla dimensione temporale e sulla responsabilizzazione riguardo ai costi di gestione. Tuttavia, seppur non esclusivo, il livello nazionale resta cruciale nel filtrare ed orientare le strategie di indirizzo europee. Uno dei punti chiave dell’Europa sociale si fonda sul passaggio da politiche passive a politiche attive, che non considerano l’inclusione come risarcimento di uno svantaggio sociale, da superare attraverso sostegni al reddito, ma come partecipazione attiva alla vita della comunità, principalmente attraverso il lavoro. In quest’ottica la spesa sociale diventa un investimento per produrre inclusione, che coinvolge il singolo nell’acquisizione di nuove competenze e abilità, e, allo stesso tempo, che valorizza il potenziale di coesione sociale del contesto locale. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Art. 3 della Costituzione Italiana Il carattere sociale dello Stato italiano è sancito dai principi fondamentali della costituzione, a cui sono ispirate numerose norme volte a garantire a tutti i cittadini un sistema di assistenza sociale che assicuri un livello minimo di benessere in svariati campi - malattia, infortunio, invalidità, disoccupazione, matrimonio, nascite e vecchiaia. Dal 2001, con la riforma del Titolo V della Costituzione, le politiche sociali rientrano nella competenza residuale delle Regioni, deputate quindi alla regolamentazione e programmazione dei servizi anche in materia di povertà estrema. La determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, che devono essere garanti-

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LO STATO SOCIALE

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ti su tutto il territorio nazionale, è rimasta di competenza dello Stato. Tuttavia, in assenza di coperture finanziarie specifiche, al dettato costituzionale non ha fatto seguito alcuna definizione dei livelli di prestazione minimi in materia di politiche sociali, e a livello regionale gli interventi sono risultati piuttosto disomogenei, limitati nel tempo e nelle risorse. Il sistema socio-assistenziale italiano presenta quindi un problema di fondo. La molteplicitĂ delle istituzioni di riferimento e dei soggetti, che in vario modo rispondono alle richieste di servizi, crea una notevole frammentazione degli interventi e un continuo rallentamento nel funzionamento del sistema. Questo aspetto si somma ad un approccio politico e culturale che si attiva esclusivamente quando si verifica l’emergenza, e tende a considerare maggiormente efficace una risposta quantitativamente ampia (si pensi ad esempio al bisogno immediato di posti letto aggiuntivi in un dormitorio durante l’emergenza freddo in inverno) piuttosto che una risposta qualitativa, in grado di infrastrutturare nel tempo il territorio con risorse che progressivamente eviteranno la saturazione delle strutture di aiuto.


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1 Composizione percentuale della spesa per protezione sociale per causa di rischio nel 2011 (elaborazione su dati Eurostat 2015). Nel 2011 la spesa sociale complessiva italiana a tutela dei rischi di vecchiaia e superstiti (pensioni da lavoro e di reversibilitĂ ) ha raggiunto il 61,3%, valore che supera quello medio dellaUE-15 (45,4%).


ITA

LIA

LO STATO SOCIALE

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2 Spesa protezione sociale in SPA per abitante nel 2012 (elaborazione su dati Eurostat 2015).


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3 Spesa protezione sociale in % del PIL (elaborazione su dati Eurostat 2014). Tra il 1995 e il 2011 il rapporto fra la spesa per protezione sociale e il PIL in Italia è stato costantemente inferiore alla media dell’Unione europea a 15. Dall’avvio della crisi la spesa sociale presenta un trend crescente in tutti i paesi europei. L’effetto combinato del maggior utilizzo degli ammortizzatori sociali e della caduta del PIL ha determinato una crescita più sostenuta della spesa sociale, agendo sul rapporto spesa/PIL a causa della contemporanea crescita del numeratore e caduta del denominatore.

4 Fondi nazionali per le politiche sociali (Rapporto Caritas 2015).


La classificazione ETHOS

Nel 2005 la Federazione Europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora ha sviluppato la classificazione ETHOS - European Typology of Homelessness and Housing Exclusion, una classificazione europea sull'esclusione abitativa e la condizione di persona senza dimora, in grado di offrire una definizione chiara, misurabile ed omogenea di homelessness, che può essere aggiornata annualmente dai paesi dell'Unione per dare conto dell'evoluzione del fenomeno. La classificazione si basa sull’oggettiva disponibilità, o meno, di un'abitazione e sulla tipologia di abitazione. L'abitare diventa condizione necessaria e imprescindibile per l’inclusione sociale. La classificazione ETHOS tiene conto di tutte le situazioni di disagio economico e sociale che comportano un disagio abitativo. Rientrano quindi nella classificazione anche popolazioni rom, sinti e caminanti, comunità spesso emarginate e discriminate anche in relazione alla condizione abitativa. Esistono situazioni di homelessness nascoste, che richiedono una risposta sociale altrettanto organizzata.

CLASSIFICAZIONE ETHOS

SENZA TETTO

CATEGORIE OPERATIVE

SENZA CASA

LO STATO SOCIALE

26

SITUAZIONE ABITATIVA

1

Persone che vivono in strada o in sistemazioni di fortuna

1.1

Strada o sistemazione di fortuna

2

Persone che ricorrono a dormitori o strutture di accoglienza notturna

2.1

Dormitori o strutture di accoglienza notturna

3

Ospiti in strutture per persone senza dimora

3.1

Centri di accoglienza per persone senza dimora Alloggi temporanei Alloggi temporanei con servizio di assistenza

3.2 3.3


CATEGORIE OPERATIVE Ospiti in dormitori e centri di accoglienza per donne

4.1

Dormitori o centri di accoglienza per donne

5

Ospiti in strutture per immigrati, richiedenti asilo, rifugiati

5.1

Alloggi temporanei/centri di accoglienza Alloggi per lavoratori immigrati

Persone in attesa di essere dimesse da istituzioni

6.1 6.2

5.2

6.3 7

8

Persone che ricevono interventi di sostegno di lunga durata in quanto senza dimora

7.1

Persone che vivono in sistemazioni non garantite

8.1

Persone che vivono a rischio di perdita dell’alloggio

9.1 9.2

Sotto sfratto esecutivo Sotto ingiunzione di ripresa di possesso da parte della società di credito

7.2

8.2 8.3

Strutture residenziali assistite per persone senza dimora anziane Alloggi o sistemazioni transitorie con accompagnamento sociale (per persone precedentemente senza dimora

Coabitazione temporanea con famiglia o amici Mancanza di un contratto d’affitto Occupazione illegale di alloggio o edificio o terreno

Persone che vivono in strada o in sistemazioni di fortuna

10.1

Strada o sistemazione di fortuna

11

Persone che vivono in strutture temporanee non rispondenti agli standard abitativi comuni

11.1 11.2

Roulotte Edifici non rispondenti alle norme edilizie Strutture temporanee

12

Persone che vivono in alloggi impropri

12.1

Occupazione di un luogo dichiarato inadatto per uso abitativo

13

Persone che vivono in situazioni di estremo affollamento

13.1

Più aloto del tasso nazionale di sovraffollamento

11.3

SISTEMAZIONI INADEGUATE

10

SISTEMAZIONI INSICURE

9

Istituzioni penali (carceri) Comunità terapeutiche, ospedali e istituti di cura Istituti, case famiglia e comunità per minori

SENZA CASA

4

6

27

SITUAZIONE ABITATIVA


LO STATO SOCIALE

28

I servizi di contrasto alla grave emarginazione

I servizi presenti a livello nazionale possono avere natura di servizio istituzionale, formale o informale, a seconda che siano erogati da un ente pubblico, da associazioni o cooperative sociali, o da privati in forma spontanea ma socialmente riconosciuta. Tutti questi servizi possono essere così definiti1:

Servizi di supporto in risposta ai bisogni primari: 1. distribuzione viveri

strutture che distribuiscono gratuitamente il sostegno alimentare sotto forma di pacco viveri e non sotto forma di pasto da consumare sul posto

2. distribuzione indumenti

strutture che distribuiscono gratuitamente vestiario e calzature

3. distribuzione farmaci

strutture che distribuiscono gratuitamente farmaci (con o senza ricetta)

4. docce e igiene personale

strutture che permettono gratuitamente di usufruire dei servizi per la cura e l’igiene della persona

5. mense

strutture che gratuitamente distribuiscono pasti da consumarsi nel luogo di erogazione dove l’accesso è sottoposto normalmente a vincoli

6. unità di strada

unità mobili che svolgono attività di ricerca e contatto con le persone che necessitano di aiuto laddove esse dimorano (in genere in strada)

7. contributi economici una tantum

forma di supporto monetario a carattere sporadico e funzionale a specifiche occasioni

Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta 1


Servizi di accoglienza notturna: 8. dormitori di emergenza

strutture per l’accoglienza notturna allestite solitamente in alcuni periodi dell’anno, quasi sempre a causa delle condizioni meteorologiche

9. dormitori

strutture gestite con continuità nel corso dell’anno che prevedono solo l’accoglienza degli ospiti durante le ore notturne

10. comunità semiresidenziali

strutture dove si alternano attività di ospitalità notturna e attività diurne senza soluzione di continuità

11. comunità residenziali

strutture nelle quali è garantita la possibilità di alloggiare continuativamente presso i locali, anche durante le ore diurne e d ove è garantito anche il supporto sociale ed educativo

12. alloggi protetti

strutture nelle quali l’accesso esterno è limitato. Spesso vi è la presenza di operatori sociali, in maniera continuativa o saltuaria

13. alloggi autogestiti

strutture di accoglienza nelle quali le persone hanno ampia autonomia nella gestione dello spazio abitativo (terza accoglienza)

Servizi di accoglienza diurna: 14. centri diurni

strutture di accoglienza e socializzazione nelle quali si possono passare le ore diurne ricevendo anche altri servizi

15. comunità residenziali

comunità aperte tutto il giorno che prevedono attività specifiche per i propri ospiti anche in orario diurno

16. circoli ricreativi

strutture diurne in cui si svolgono attività di socializzazione e animazione, aperte o meno al resto della popolazione

17. laboratori

strutture diurne ove si svolgono attività occupazionali significative o lavorative a carattere formativo o di socializzazione

29


LO STATO SOCIALE

30

Servizi di segretariato sociale: 18. servizi informativi e di orientamento

sportelli dedicati specificamente o comunque abilitati all’informazione e all’orientamento delle persone senza dimora rispetto alle risorse e ai servizi del territorio

19. residenza anagrafica fittizia

uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio e che sono riconosciuti dalle anagrafi pubbliche ai fini dell’iscrizione all’anagrafe fittizia comunale

20. domiciliazione postale

uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio e ricevere posta

21. espletamento pratiche

uffici atti al segretariato sociale specifico per le per- sone senza dimora

22. accompagnamento ai servizi del territorio

uffici di informazione e orientamento che si fanno carico di una prima lettura dei bisogni della persona senza dimora e del suo invio accompagnato ai servizi competenti per la presa in carico

Servizi di presa in carico e accompagnamento: 23. progettazione personalizzata

uffici specializzati nell’ascolto delle persone senza dimora al fine di instaurare una relazione progettuale di aiuto mediante la presa in carico da parte di un operatore adeguatamente preparato e a ciò istituzionalmente demandato

24. counselling psicologico

uffici con servizi professionali di sostegno psico-sociale alle persone senza dimora mediante tecniche di counselling

25. counselling educativo

uffici con servizi professionali di presa in carico educativa delle persone senza dimora mediante tecniche di counselling

26. sostegno educativo

uffici con possibilità di presa in carico ed accompagnamento personalizzato da parte di educatori professionali

27. sostegno psicologico

uffici con possibilità di offrire sostegno psicoterapeutico alle persone senza dimora


28. sostegno economico strutturato

uffici con possibilità di offrire sostegno economico continuativo alle persone senza dimora sulla base di un progetto strutturato di inclusione sociale

29. inserimento lavorativo

uffici con possibilità di offrire alle persone senza dimora inserite in un percorso di inclusione sociale opportunità di formazione lavoro, di lavoro temporaneo o di inserimento lavorativo stabile

30. ambulatori infermieristici/ medici

servizi sanitari dedicati in modo specifico alla cura delle persone senza dimora, in modo integrativo rispetto al servizio sanitario regionale

31. custodia e somministrazione terapie

struttura presidiata da operatori sociali per la custodia e l’accompagnamento delle persone senza dimora nell’assunzione di terapie mediche

32. tutela legale

uffici con possibilità di offrire tutela legale alle persone senza dimora per il tramite di professionisti a ciò abilitatiti

31



Torino



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Immagini Esistono delle immagini, delle idee di città, attraverso cui Torino si è raccontata nel tempo. Rappresentazioni sintetiche che rivelano le intenzionalità e le modalità di visione di una città, che, dall’inizio degli anni Ottanta del Novecento, è stata costretta a mettersi continuamente in discussione. Immagini che si prefiggono di mostrare qualcosa dell’oggetto rappresentato, ma che, in quanto proiezioni, rivelano invece qualcosa del soggetto che le presenta. Esistono dei momenti particolari, vere e proprie faglie nell’andamento delle trasformazioni urbane, in cui nuove immagini vengono a sostituirsi a quelle precedenti, introducendo nuovi valori o reinterpretandone di passati. Le immagini della città, così intese, hanno rivestito e rivestono un ruolo fondamentale nell’orientare e definire i processi di trasformazione e costruzione della città fisica e della sua società. Le celebrazioni dei cento anni dall’Unità d’Italia nel 1961, la dismissione del Lingotto nel 1982, i mondiali di calcio nel 1990, i XX Giochi olimpici invernali nel 2006. Punti di passaggio o di rottura, attraverso i quali Torino narra la propria trasformazione. Queste immagini alludono ad eventi e spesso costituiscono riferimento a più o meno brillanti strategie di marketing urbano, che prendono il sopravvento su una realtà attraversata da piani molteplici. Rapide rappresentazioni della città, che hanno la pretesa di raccontare la complessità di relazioni tra economia, società e territorio. Ecco che allora si promuove un’idea di città costruita sulla base di immagini, che, per quanto affascinanti, costituiscono soltanto una rappresentazione frammentaria del reale.


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5 Stabilimento FIAT Lingotto, Torino.


La città fordista La prima immagine attraverso cui la Torino della Repubblica si racconta è quella totalizzante della città fordista. Alla fine degli anni Sessanta i dipendenti dell’industria costituivano quasi la metà della popolazione attiva metropolitana. Torino si sviluppa come città a servizio della produzione, plasmata ad immagine di una società a economia centrata sull’industria dell’auto e sulla meccanica. Il sistema produttivo basato sulla grande concentrazione industriale e su una rigida divisione del lavoro, orientato alla produzione di beni di massa, ha comportato da un lato lo sviluppo di notevoli capacità di progettazione e organizzazione, dall’altro il diffondersi di un elevato tasso di mansioni dequalificate, creando con gli anni una società del tutto particolare, fortemente strutturata in classi sociali, che ha segnato in modo determinante la vita della città. Le immagini che la cultura tecnica, di cui Torino vive, produce nel secondo dopoguerra sono nitide: la città fabbrica organizzata attorno ai tempi della produzione, la città polarizzata caratterizzata da un assetto gerarchico e da una forte compartimentazione sociale, la città dell’espansione quantitativa, dove regnano la cultura del lavoro e i miti del progresso. Il Palazzo a vela e il Palazzo del Lavoro, la monorotaia e la funivia dell’Expo 1961 sono le forme di autorappresentazione con cui Torino celebra i propri successi industriali in pieno boom economico. Un modello, quello fordista, che per quasi tutto il Novecento viene visto come solido ed immutabile.

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6 Area Esposizione “Italia 61”.


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7 Cantiere Palazzo del Lavoro.


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L’immagine di una città che si espande con e grazie alla fabbrica, dove produzione e consumo di massa hanno come orizzonte di riferimento la crescita ineluttabile, considerata naturale e mitizzata. Torino è la città che cresce in funzione delle esigenze della fabbrica. Nel 1971 la popolazione cittadina raggiunge 1.167.968 di abitanti. La forma urbana subordinata all’imperativo economico: le strutture fisiche e sociali della città sono piegate sotto lo sforzo imposto dall’industria dell’auto1. La città a servizio del capitale. Una società così fortemente strutturata in classi sociali, tuttavia, non poteva non favorire anche la nascita di politiche sociali ed urbane, volte a contenere il conflitto tra l’interesse collettivo e le pulsioni dell’iniziativa privata. Gli anni Settanta sono quelli in cui l’obiettivo è la pianificazione globale del territorio, che non si limita più al solo governo della forma urbana, ma ricerca anche le valenze sociali in essa implicite, grazie ai nuovi risultati raggiunti dalle leggi nazionali 167/62 sull’edilizia residenziale pubblica e 765/67 sui servirzi. All’inizio degli anni Ottanta la fabbrica smette di espandersi. Le attese di crescita vengono smentite. Con la crisi della “fabbrica dei centomila” si rende necessaria una coraggiosa opera di trasformazione del lavoro dell’industria e dei paradigmi ad essa connessi. È l’inizio del decentramento produttivo che coinvolge i comuni della cintura. La fabbrica si trasforma e con essa il concetto di spazio urbano. La dismissione del Lingotto è l’evento simbolico che chiude questa fase della vita di Torino. All’immagine di una città che insegue lo sviluppo industriale se ne sostituiscono altre.

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Radicioni R., Introduzione al Dossier Torino in “Spazio e Società” n. 42, 1988


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8 Il cosiddetto “autunno caldo”, 1969.


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9 Marcia dei Quarantamila, 1980.


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10 Il Lingotto dopo la rifunzionalizzazione.


La città della rigenerazione Il blocco degli stabilimenti Fiat nel 1980 e la marcia dei quadri contrari all’occupazione sono le immagini che segnano il punto di rottura con il modello della città fordista che Torino aveva incarnato per decenni, il punto di arrivo di una crisi apertasi con il grande ciclo di lotte sociali alla fine degli anni Sessanta. È dall’annuncio della dismissione del Lingotto nel 1982, simbolo della tradizione industriale torinese, che inizia la trasformazione di Torino. La sola ristrutturazione industriale non è più sufficiente. È necessario ideare nuovi modelli di sviluppo, capaci di dare vita ad una nuova società locale, nuove accattivanti idee di città che permettano di superare il binomio capitale-lavoro della città fabbrica, nuove immagini a cui associare un possibile futuro. Le vocazioni inedite che Torino scopre, legate allo sviluppo del terziario, alla produzione tecnologicamente avanzata e ad una rinnovata società della conoscenza, diventano condizione necessaria per la propria sopravvivenza. In questo contesto la riconversione del Lingotto, che fino all’inizio degli anni 2000 farà da sfondo a questo periodo di grandi trasformazioni, assume un valore epocale, cerniera simbolica tra la fine del fordismo e l’inizio della rigenerazione post-industriale. Poco differenziata economicamente, con una struttura sociale troppo rigida e segnata dall’industrializzazione di massa, Torino ha saputo indirizzare le proprie risorse verso nuovi traguardi, avviando un difficile processo di deindustrializzazione. La grande industria è diventata organizzativamente più elastica e decentrata. Nuove reti di imprese si sono insediate nell’area. Con il passare degli anni è nata una nuova cultura economica che ha trasformato radicalmente la società locale e i suoi spazi. La consistenza di alcune categorie e classi sociali è diminuita ed è aumentata quella di altre. L’immagine di MITO proposta nel 1982, che offre a Torino una posizione non più marginale nella rete delle città europee, è indice della volontà di aprire la metropoli verso nuovi orizzonti. L’idea di capitale tecnologica è necessariamente legata a capacità economiche, di ricerca e di

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formazione, di realizzazione di infrastrutture e qualità della vita. Si punta sulla valorizzazione dell’esistente, attraverso anche un incremento dell’offerta culturale. Nel 1984 apre il Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, che anticipa quella vocazione culturale e turistica della città, che saprà combinare la necessità di valorizzazione del patrimonio barocco e ottocentesco torinese con il bisogno di nuove strutture museali. Controurbanizzazione e ricentralizzazione sono i due fenomeni che guidano la Torino della rigenerazione urbana, così come tante altre metropoli europee. I temi del riuso delle aree industriali e del ritorno al centro fanno da sfondo al nuovo piano regolatore Gregotti-Cagnardi, approvato nel 1995, che con le sue “tre centralità” assiali, attorno a cui si condensano le aree strategiche e quelle industriali dismesse, propone le immagini della nuova Torino post-industriale: la Spina centrale, corso Marche e l’asse delle amenities lungo le sponde del Po. È in questa fase che prende il via il radicale processo di trasformazione che porta Torino alla ridefinizione della propria identità. All’immagine compatta ed univoca della one company town si sovrappongono i frammenti di una città non più riconducibile ad un’unica identità, che diventano occasioni puntuali di trasformazione del tessuto urbano. Una città fatta di parti e di valori differenti, in cui si distinguono le porzioni di territorio che sono elementi strategici e quelle che invece non sono rilevanti ai fini della trasformazione. Si rende necessario selezionare luoghi ed edifici che permettano la chiara identificazione del nuovo carattere della città, in un tessuto urbano che decenni di attività industriale hanno ingrigito e omologato. Non più le fabbriche e i quartieri operai di via Artom, strada delle Cacce, Vallette e Falchera, ma le vie e le piazze del centro. Le piazze non sono più quelle del conflitto sociale degli ultimi anni Sessanta, ma quelle riarredate e pedonalizzate. Piazza Carignano, Piazza Carlo Alberto, Piazza Castello e Piazza Vittorio che, insieme al restauro del volto barocco e ottocentesco di Torino, danno avvio all’opera di riqualificazione del tessuto urbano centrale della città. L’obiettivo è portare la metropoli torinese a competere a livello


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11 Aree della Spina centrale interessate dalla trasformazione.


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internazionale, attirando nuovo capitale economico e sociale, nuove aziende e nuovi mercati culturali, per i quali la qualità dello spazio urbano, il comfort e i servizi sono di fondamentale importanza. L’immagine fisica stessa degli spazi della città assume un ruolo chiave nel definire le priorità delle nuove politiche amministrative. L’immagine del centro non è più definita dai confini storici dello spazio urbano, ma dall’adesione a determinati modelli che rappresentano quell’identità. È centro tutto ciò che può essere definito e identificato con l’immagine del centro. Il successo della trasformazione dell’antico quadrilatero romano è un caso emblematico. L’innovativa sinergia pubblico-privato, che ha favorito il progressivo acquisto degli isolati degradati e l’introduzione di attività artigianali creative e attività ristorative, ha trasformato le strette vie del centro storico nella cornice della nuova socialità urbana. A definire i confini dell’immagine del Quadrilatero sono elementi fisici, come corso Regina, che paradossalmente divide i giovani della buona borghesia torinese dagli immigrati di colore che vivono all’altezza di Porta Palazzo, ed elementi simbolici, stereotipati e facilmente identificabili, legati alle caratteristiche dei restauri, degli arredi urbani e dell’allestimento dei locali. All’inizio degli anni Novanta è la qualità stessa dello spazio urbano ad acquistare valore. Tra Stato, Regione, enti locali, fondi comunitari e fondazioni, in dieci anni i finanziamenti complessivi erogati per i beni culturali dell’area metropolitana raggiungono una cifra stimabile intorno al miliardo di euro2. Il centro si offre al nuovo consumo di spazio urbano. La vocazione turistico-culturale appare ora concretamente perseguibile e si fa di tutto per valorizzare e incrementare l’offerta culturale della metropoli. Si è definita la nuova immagine di Torino come città d’arte. Si recuperano all’uso pubblico le residenze sabaude, si aprono nuovi teatri e musei, come il Museo del Cinema che nel 2000 inaugura la nuova sede della Mole Antonelliana, e compaiono le prime installazioni urbane di successo come De Rossi A., Durbiano G., Torino 1980-2011. La trasformazione e le sue immagini, Umberto Allemandi & C., Torino, 2006 2


“Luci d’artista”. In dieci anni il numero dei visitatori nei musei è più che triplicato. Questa fase di profonda metamorfosi che ha cambiato il volto di Torino nell’arco di 25 anni, si chiude con le olimpiadi invernali del 2006, una trasformazione culturalmente dinamica che ha modificato i tratti strutturali della metropoli novecentesca, e in cui nuovi e coraggiosi immaginari e idee di città hanno rivestito un ruolo centrale. In poco più di vent’anni Torino ha completato la straordinaria trasformazione della sua identità e avviato la riqualificazione della propria struttura urbana con l’adozione del Piano Regolatore Generale del 1995, accompagnata dal successo dei primi due cicli della pianificazione strategica. Da one company town a città “plurale”, specchio di una società della conoscenza che esalta ricerca, innovazione, formazione e cultura.

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12 Arco passerella Lingotto e villagio atleti, 2005.


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13 Montaggio della passerella di attraversamento del parco Dora, 2009.


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La città del welfare La crisi economica globale del 2008, la firma del Patto di Stabilità dell’Unione Europea e l’avvio delle misure di austerità hanno avuto un forte impatto sulla trasformazione dell’area torinese, rallentando il processo di cambiamento in atto. La particolare situazione della finanza pubblica italiana, caratterizzata dal rapporto debito/PIL più alto d’Europa e da una pressione fiscale mediamente superiore agli altri paesi dell’Unione, ha portato ad un drastico taglio della spesa pubblica, alla riduzione dei finanziamenti pubblici nazionali e regionali, e a stretti vincoli di spesa e limiti finanziari a livello locale. Nell’area metropolitana di Torino il tutto si è sommato all’indebitamento dovuto ai precedenti cicli d’investimenti in infrastrutture e riqualificazione, e ha comportato ulteriori misure di austerità e di rientro finanziario. Il 2014, tuttavia, ha restituito i primi segnali positivi di ripresa delle esportazioni e dei consumi, che confermano le potenzialità del sistema produttivo torinese e del Piemonte. Torino torna ad investire sul proprio futuro di Metropoli 2025, e tra le sue tante immagini lancia quella di città dell’inclusione sociale, pronta a riscoprire la sua identità di comunità solidale. Lo sviluppo e l’inclusione sociale assumono un ruolo centrale nella realizzazione dei propositi del terzo Piano Strategico della città presentato nel 2015, divenendo temi trasversali agli obiettivi e alle azioni proposte. Il settore no profit, nelle sue varie articolazioni, cooperative, imprese sociali, associazioni di volontariato e fondazioni, ha a Torino una lunga e solida tradizione. La realtà cittadina, infatti, è da sempre stata caratterizzata da un forte radicamento di soggetti ed iniziative, che in questi ultimi anni hanno evitato che la crisi economica degenerasse in crisi sociale. Le nuove povertà, che hanno interessato per la prima volta anche il ceto medio, si sono sì trovate di fronte a minori risorse pubbliche, ma hanno potuto contare su un sistema di welfare pubblico e privato ben consolidato. Nell’intero territorio metropolitano di Torino l’incidenza di vo-


lontari in associazioni assistenziali, rispetto al totale dei residenti, è tra le più alte d’Italia. Torino, quindi, come città solidale, consapevole che la propria attrattività dipenda anche dal benessere dei suoi cittadini. L’immagine è quella di una società locale unita, che si occupa attivamente delle fasce più
deboli, una comunità per cui la coesione sociale è un valore di primaria importanza. Secondo il nuovo piano strategico l’inclusione sociale sarà garantita dalla valorizzazione dell’economia locale e del lavoro. Un sistema economico di valore che punti su innovazione e sperimentazione, che garantisca occupazione e reddito, e di conseguenza inclusione sociale per la maggior parte della popolazione, perchè una base economica debole non può rispondere in modo propositivo ai problemi e alle domande sociali derivanti dalla disoccupazione, dalla mancanza di risorse per gli investimenti pubblici e privati nel welfare, nelle infrastrutture, nell’educazione e nella cultura. Diffondere la qualità urbana in tutta la città, selezionare
e riprogettare le aree residenziali e gli spazi pubblici sono gli elementi chiave per promuovere lo sviluppo economico necessario. La Torino contemporanea ha dato vita a contesti urbani ed edilizi molto spesso eterogenei tra loro, stratificando nuovi usi, modelli residenziali, commerciali ed infrastrutturali, accogliendo nuove comunità. Torino ha bisogno di ripensare se stessa in un’ottica policentrica e diffusa, puntando al riequilibrio qualitativo tra il centro e le parti più marginali dell’area metropolitana. Deve investire sulla qualità dei suoi spazi pubblici perché siano più vivibili e funzionali, e perché risultino strategici nella rigenerazione delle aree urbane periferiche e suburbane. L’approccio da seguire è quello del placemaking, volto a ricucire il tessuto urbano, dando forma a spazi contemporanei capaci di accogliere un mix di funzioni, e a promuovere e incoraggiare l’innovazione sociale. Terreno che Torino ha già esplorato con alcune esperienze riconosciute a livello europeo, come il Progetto Speciale Periferie e le Case del Quartiere. L’emergenza abitativa, aggravata dai limiti che la crisi delle finanze pubbliche ha imposto alla manutenzione del patrimonio esistente e alla realizzazione di nuova

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edilizia residenziale pubblica, insieme all’aumento della domanda da parte delle fasce più deboli, deve essere affrontata attraverso modelli innovativi, superando la concezione attuale dei quartieri di edilizia popolare, revisionando le modalità di assegnazione, promuovendo nuove forme di contratto che contribuiscano a ridurre i costi per entrambe la parti, sfruttando l’ampio patrimonio privato non utilizzato. È ormai chiara la crisi del modello di welfare europeo novecentesco, che in Italia si è sviluppato tra incertezza di risorse e politiche diverse - del lavoro, abitative, sociali, educative, sanitarie e assistenziali - difficilmente coordinate a livello nazionale e locale. La disoccupazione e la precarietà, l’indebitamento delle famiglie, l’impoverimento del ceto medio e l’aumento dell’incidenza della popolazione anziana hanno messo in crisi un modello di welfare che era stato concepito in un contesto del tutto diverso, caratterizzato da un forte sviluppo economico, maggiore stabilità sociale ed occupazionale, e una popolazione mediamente più giovane. A Torino, i due assunti del mercato del lavoro, legato all’industria fordista, e della famiglia come ammortizzatore sociale sono venuti a mancare. Il welfare tradizionale non riesce più a rispondere alle nuove domande sociali legate all’invecchiamento della popolazione, all’aumento dei disoccupati, degli emarginati, della popolazione povera o a rischio povertà. L’immagine della Torino 2025 è quella di una città in cui l’intera società si fa carico del benessere dei cittadini. Forte della lunga tradizione del suo sistema di welfare, capace di rispondere alle urgenze anche in periodi di grande crisi e risorse limitate, Torino offre un ecosistema favorevole alla sperimentazione di nuovi modelli di innovazione sociale e imprenditorialità sociale. Welfare mix, secondo welfare, welfare aziendale, community welfare sono i nuovi modelli di intervento da investigare e sperimentare. La città dovrà sostenere le numerose attività che attori pubblici e no profit stanno già sviluppando, portandole ad un maggiore grado di diffusione e capacità di impatto, con il fine ultimo di trasformare i progetti più qualificati in iniziative di sistema.


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Un welfare innovativo, modello di sviluppo inclusivo e sostenibile, è capace di aumentare l’attrattività del territorio per gli investimenti d’impresa. Si parla di Torino come di un terrirorio fertile per un’economia civile, capace di promuovere la corresponsabilizzazione dei cittadini per il benessere della collettività e qualsiasi forma di sussidiarietà sociale. Aiutando chi ha bisogno, si producono trasversalmente occupazione e
reddito, contribuendo in maniera
sostanziale al benessere della comunità. Condivisione di risorse, coinvolgimento del mondo profit, responsabilità e compresenza attiva di attori pubblici e privati, sono gli elementi necessari per il rinnovamento del welfare in questa direzione. La valorizzazione del territorio da parte delle imprese contribuisce alla valorizzazione dell’impresa stessa, così come la valorizzazione dell’impresa da parte dell’ente pubblico è essenziale per la valorizzazione del territorio. È questa dunque l’immagine di una città resiliente, dinamica e flessibile, attraente e competitiva, capace di reinventarsi, che guarda al territorio ed ai suoi attori economici come elementi essenziali per creare un sistema in grado di offrire più opportunità e sostenere anche le fasce sociali più deboli.


1950-1960 BOOM ECONOMICO

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1962 legge n. 167, Disposizioni per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare 1965 nasce la Onlus Gruppo Abele, fondata a Torino da Don Luigi Ciotti

1961 - Italia ‘61 celebrazioni per i cent’anni dell’unità d’Italia, tra le opere simbolo realizzate il Palazzo a vela e il Palazzo del Lavoro

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1969 - “autunno caldo” lotte sindacali operaie e tensioni sociali 1971 nasce la Caritas Italiana la popolazione di Torino raggiunge 1.167.968 di abitanti 1979 vengono riconosciute le aree di sosta l’antico quadrilatero romano di Torino del “Sangone” e di Via Lega, ospitano diviene oggetto di un piano di risanaSinti Piemontesi mento

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1982- chiusura FIAT Lingotto seguito dalla chiusura delle Officine Savigliano (Savigliano SNOS), le Ferriere Piemontesi (divenute Teksid) e la Michelin

1980 - marcia dei Quarantamila inizio della frattura fra i cosiddetti “colletti bianchi” e “colletti blu”

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1983 Renzo Piano si aggiudica l’incarico per 1984 la riqualificazione del Lingotto nascono le aree di sosta autorizzate e attrezzate dal Comune di Torino 1984 apre il Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli (TO) 1988 nasce l’area di sosta autorizzata in Strada dell’Arrivore 1990 la costruzione del nuovo Stadio impone il trasferimento degli zingari che vivevano in strada Druento, nasce l’area di sosta autorizzata in Strada dell’Aeroporto

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1990 - mondiali di calcio viene realizzato il nuovo Stadio delle Alpi a Torino con una capienza di 67.411 posti

1996 si avvia il processo di riqualificazione iniziano i lavori lungo la Spina entrale di Porta Palazzo e San Salvario, i due quartieri nel centro di Torino accomunati da un ricco tessuto multiculturale 1999 pedonalizzazione di piazza Castello 1999 la legge n. 482, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, esclude i rom dalle minoranze ammesse a tutela, per via della mancanza di radicamento sul territorio 2000 in quello che sarà il campo rom di Lungo Stura Lazio arrivano i primi rom rumeni in fuga dalla Romania 2003 si conclude il processo di riqualificazione del Lingotto

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2004 l’area dell’Arrivore viene destinata a verde nel progetto di un grande parco fluviale

2006 - Giochi olimpici invernali impulso di rinascita della città, grandi opere di riqualificazione,viene inaugurata la linea metropolitana

il campo nomadi dell’Arrivore viene sostituito da quello in Via Germagnano

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proseguono i lavori lungo la Spina 2009 viene inaugurato il nuovo Parco dell’Arrivore, nell’ambito del grande progetto Torino Città d’Acque 2009 viene inaugurato il Dado di Settimo Torinese 2010 la Legge Regionale n. 3 disciplina le norme in materia di edilizia sociale, nascono le ATC

2011 viene inaugurato il nuovo Juventus Stadium costruito su parte delle strutture del vecchio Stadio delle Alpi

2007-2008 CRISI ECONOMICA

2008 il Governo dichiara lo stato di emer- lo Stadio delle Alpi viene demolito genza in relazione agli insediamenti delle comunità nomadi in Campania, Lazio, Lombardia, Veneto e Piemonte


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2011 festeggiamenti per i 150 anni dall’Unità d’Italia

2013 inizia lo sgombero del campo rom in Lungo Stura Lazio

11 2013 inaugurazione nuova stazione Porta Susa

2014 scompare la FIAT, nasce la FCA

2015 viene inaugurato il grattacielo Intesa San Paolo

2015 il campo rom di Lungo Stura Lazio viene sgomberato totalmente 2016 il Consiglio dei Ministri approva un disegno di legge in materia di contrasto alla povertà

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Esplorare i luoghi della povertĂ



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Luoghi pubblici e homeless Articolo 1 - Finalità 1. Il Regolamento di Polizia Urbana disciplina, in conformità ai principi generali dell’ordinamento giuridico ed in armonia con le norme speciali e con le finalità dello Statuto della Città, comportamenti ed attività comunque influenti sulla vita della comunità cittadina al fine di salvaguardare la convivenza civile, la sicurezza dei cittadini e la più ampia fruibilità dei beni comuni e di tutelare la qualità della vita e dell’ambiente. Articolo 3 - Definizioni 1. Ai fini della disciplina regolamentare è considerato bene comune in generale lo spazio urbano tutto, ed in particolare: a) il suolo di dominio pubblico, ovvero di dominio privato ma gravato da servitù di uso pubblico costituita nei modi e nei termini di legge, nonché le vie private aperte al pubblico passaggio e le aree di proprietà privata non recintate in conformità al Regolamento Edilizio; b) i parchi ed i giardini pubblici e il verde pubblico in genere; c) le acque interne; d) i monumenti e le fontane monumentali; e) le facciate degli edifici e ogni altro manufatto la cui stabilità ed il cui decoro debbano essere salvaguardati; f) gli impianti e le strutture di uso comune, collocati sui beni comuni indicati nelle lettere precedenti. 2. Per fruizione di beni comuni si intende il libero e generalizzato uso dei medesimi da parte di tutti i cittadini, senza limitazioni o preclusioni, nel rispetto delle


ESPLORARE I LUOGHI DELLA POVERTÀ

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norme di cui al Regolamento. La fruizione dei beni comuni non necessita di preventive concessioni o autorizzazioni [...]. Articolo 7 - Comportamenti vietati 1. A salvaguardia della sicurezza e del decoro della Città è vietato: [...] i) compiere presso fontane pubbliche o comunque sul suolo pubblico operazioni di lavaggio; [...] m) sedersi o sdraiarsi per terra nelle strade, nelle piazze, sui marciapiedi, sotto i portici, recando intralcio e disturbo, ovvero ostruendo le soglie degli ingressi; [...] q) compiere, in luogo pubblico o in vista del pubblico, atti o esporre cose contrari alla nettezza o al pubblico decoro, o che possano recare molestia, disguido, raccapriccio o incomodo alle persone, o in ogni modo essere causa di pericoli od inconvenienti, nonchè soddisfare alle esigenze corporali fuori dai luoghi a ciò destinati. [...] Regolamento di Polizia Urbana - Città di Torino

Negli ultimi anni si sono diffuse in molte delle città italiane strategie politiche urbane che stanno mutando il rapporto tra le persone senza dimora e lo spazio pubblico urbano, attraverso forme più o meno esplicite di controllo che, in generale, si traducono in un’esclusione spaziale dei senzatetto. L’espressione persona senza dimora va distinta da quella di persona senza fissa dimora che, per questioni esclusivamente burocratico-amministrative, viene utilizzata in riferimento a nomadi, giostrai e commercianti ambulanti che, pur non dichiarando un domicilio abituale, non necessariamente vivono una condizione di deprivazione materiale come i senzatetto.


Le persone senza dimora hanno alle spalle un contesto patrimoniale e relazionale estremamente vulnerabile, che può essere compromesso con facilità da eventi estremi come un licenziamento, uno sfratto, un litigio, che fanno della vita in strada l’unica irriducibile alternativa. Definiti spesso con il termine dispregiativo barbone, associato ad immagini di scarsa pulizia e scarsa morale, vengono etichettati da molti come persone che non hanno voglia o sono incapaci di lavorare e di avere relazioni sociali, gente pericolosa, alcolizzata, tossica o malata mentale. L’homeless, dal canto suo, accetta di interpretare questo ruolo all’interno della società, indossando l’etichetta che essa stessa gli attribuisce e descrivendosi esattamente come la società che lo esclude lo dipinge, nell’inconsapevolezza di collocarsi nel contesto urbano come elemento di denuncia di un sistema sbagliato nelle sue fondamenta, un sistema che è solo apparente, non finalizzato all’uomo, ma al profitto. I senza dimora sono persone in stato di povertà materiale ed immateriale, portatrici di un disagio complesso, che non investe soltanto la sfera dei bisogni primari, ma l’intera sfera delle necessità della persona, anche sotto il profilo relazionale, emotivo ed affettivo. Essi hanno in comune la mancanza di uno spazio privato in cui collocarsi. Ecco che allora lo spazio pubblico diventa essenziale nella loro vita quotidiana, lo “spazio pubblico” che per definizione non appartiene a nessun gruppo sociale in particolare, che è progettato per lasciar circolare le persone, e i cui confini cambiano velocemente. Vivendo interamente in questo spazio, i senzatetto lo negano completamente, lo invadono e ne rompono le regole, trasformandolo nel loro spazio privato. La complementarietà tradizionale tra spazio privato e spazio pubblico, che funziona correttamente per il domiciliato, fallisce nel caso delle persone senza dimora, che non hanno altra alternativa che essere e vivere la loro vita in pubblico. Lo spazio pubblico diventa quindi una casa, un luogo dove trovare riparo e le risorse per la sopravvivenza, un luogo in cui le persone senza dimora tendono a stabilirsi, il luogo dove vita privata e pubblica non possono essere separate.

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ESPLORARE I LUOGHI DELLA POVERTÀ

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La giornata dei senzatetto è scandita dalla necessità di soddisfare bisogni primari, quali mangiare, dormire e lavarsi. Essi si spostano per la città alla ricerca di mense, dormitori, bagni pubblici. Si tratta di un universo mobile per definizione, ma statico allo stesso tempo, poichè il raggio di azione di queste persone è piuttosto ristretto e ripetitivo. L’homeless sceglie delle dimore piuttosto fisse e costanti intorno alle quali esercitare la propria capacità di fare territorio, senza spaziare più di tanto nel paesaggio urbano. Vivere in strada è difficile, soprattutto in inverno quando si cerca un riparo dal freddo e si attende con ansia l’apertura di mense e dormitori. La certezza di avere una sistemazione è la preoccupazione principale. La notte in strada è un’esperienza difficile soprattutto quando manca una rete di conoscenze cui fare riferimento e ci si ritrova soli, in balia di aggressioni e violenze. Stazioni ferroviarie, biblioteche, centri commerciali, corsie degli ospedali diventano i luoghi privilegiati dove rifugiarsi per ingannare l’attesa, luoghi dove è più facile confondersi tra la folla, facendo sempre attenzione a non rendersi riconoscibili e troppo visibili agli occhi del cittadino comune. Salvo momenti in cui si frequenta il gruppo dei pari o si partecipa ad attività e laboratori organizzati dai servizi, la vita del senza dimora trascorre in solitudine alla continua ricerca di un modo per far passare il tempo. Le zone centrali tornano ad essere la meta principale delle persone che vivono in strada, a Torino così come in molte altre città italiane. L’elevata fruizione dell’area facilita la ricerca delle risorse necessarie per la sopravvivenza e allo stesso tempo assicura l’anonimato ed un basso controllo sociale. Gli assi centrali porticati offrono una soluzione ideale per chi è alla ricerca di un posto sicuro dove dormire, attraenti perché offrono la possibilità di trasformare gli angoli in letti temporanei, garantendo non solo protezione dalle intemperie, ma anche un certo senso di privacy. È così che le persone senza dimora segnano il territorio e le pile di scatole di cartone diventano i segni visibili di una povertà estrema che è ancora una presenza costante nelle nostre città. I senzatetto trascorrono le loro giornate vicino agli ingressi delle chiese dove possono chiedere denaro, girano tra i mercati ortofrutticoli o nelle vicinanze dei bidoni della spazzatura per trova-


re qualcosa da mangiare, entrano nei negozi o nei bar per passare del tempo al riparo dal freddo, e i posti a sedere dell’area della stazione ferroviaria diventano un rifugio temporaneo per dormire in relativa sicurezza. La possibilità di creare questa mappa di luoghi designati all’interno del contesto urbano dipende, però, dalle attitudini e dalla tolleranza dei residenti delle aree interessate dal fenomeno. Se nei primi decenni del dopoguerra la povertà era accettata come parte integrante del panorama urbano, oggi non è più così. Negli ultimi anni si sta rilevando nelle città occidentali, pur con notevoli differenze tra i contesti americani ed europei, una tendenza comune al controllo crescente dello spazio pubblico urbano con conseguente esclusione spaziale e restringimento del “diritto alla città” delle persone senza dimora. Gentrification, privatizzazione, sorveglianza pervasiva, progettazione urbana di esclusione possono essere considerati esempi di questa tendenza. Negli ultimi anni anche l’Italia ha visto il sorgere di strategie politiche urbane dirette ad escludere, regolare o punire il comportamento di chi dorme per strada, politiche di controllo degli spazi pubblici che, al fine di tutelare la qualità della vita, il decoro e la sicurezza di una parte della società, tendono ad escluderne spazialmente un’altra. In letteratura, tuttavia, sono ancora pochi i contributi che si concentrano sul rapporto specifico tra senzatetto e spazio pubblico nella “città rassicurante” europea, tema centrale e urgente nel contesto attuale del controllo progressivo degli spazi pubblici urbani. Le ordinanze di “rimozione dalla vista” dei poveri emesse da molte amministrazioni e persino il divieto di accattonaggio sul sagrato delle chiese sono indicatori di come l’atteggiamento nei confronti della povertà sia cambiato negli anni e si tenti di definire un codice di comportamento per i poveri, che vengono visti come un fattore di disturbo e di lesione del decoro. La loro vista genera reazioni di fastidio. I senza dimora dovrebbero rimanere invisibili, frequentare esclusivamente gli spazi a loro destinati, come le mense, i luoghi di distribuzione del cibo e del vestiario, i dormitori, le sale di attesa dei servizi sociali, e non disturbare il cittadino comune con la loro presenza. Gli homeless causano disordine, rompo-

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no le regole della dignità, la privacy e la distanza sociale, ovvero non rispettano le regole dello spazio pubblico. Negli ultimi decenni il panorama urbano ha subito grandi cambiamenti. Si considerino, ad esempio, i processi di gentrification e la sempre più frequente privatizzazione dello spazio pubblico, ben visibile nei dehors di molti locali che oggi invadono piazze, strade, portici e parchi, sottraendo terreno pubblico urbano a chi non ha potere di acquisto, o ancora, negli spazi di mobilità, come le stazioni ferroviarie, trasformate in veri e propri centri commerciali. I nuovi progetti hanno l’obiettivo di vendere il centro città come immagine positiva, affascinante ed innovativa della città, in grado di attrarre nuovi business, servizi e consumatori. La riscoperta delle potenzialità dei quartieri centrali, in termini di profitti, porta a notevoli cambiamenti in quanto ad immagine, sicurezza, design e politiche, indicando gli apparentemente legittimi utenti ed usi dello spazio pubblico. Il centro diventa il simbolo dell’identità della città e non può che essere caratterizzato da bellezza e sicurezza. Se, da un lato, le strategie di rinnovamento urbano hanno certamente aspetti positivi, come quelli ambientali, legati alle aree pedonali, o quelli economici, che rappresentano l’occasione per il rilancio della città, dall’altra parte, le stesse strategie comportano l’aggravarsi delle disuguaglianze socio-economiche e l’esclusione dei gruppi sociali più deboli. Rilanciare l’immagine del centro urbano significa eliminare tutto ciò che non è conforme all’immagine promossa: lo spazio pubblico rinnovato deve essere ripulito. Il centro della città viene rimodellato per rispondere agli interessi delle attività economiche e delle classi benestanti, attraverso una fusione tra progettazione esclusivista e politiche punitive. La disciplina dello spazio pubblico diventa una strategia fondamentale e la città, da spazio di integrazione sociale e culturale, si trasforma in città dell’esclusione. La trasformazione del centro urbano costituisce un considerevole cambiamento per quanto riguarda i senzatetto, considerando l’importanza che le aree centrali hanno nella loro vita quotidiana. Lo spazio pubblico si trasforma in uno spazio di


fruizione e di consumo al quale tutti sono potenzialmente in grado di accedere, ma dove invece si verificano nuove forme di esclusione. In questi spazi rinnovati gli interessi, gli stili di vita, i valori e le norme dei city users e dei residenti si scontrano con quelli dei senza dimora, per i quali lo spazio pubblico è inevitabilmente anche spazio privato. Per far fronte a questi conflitti, sempre più città stanno adottando misure di controllo che influiscono sulla vita quotidiana di chi vive per strada, in termini di spazi ed azioni disponibili, ma a cui gli homeless devono necessariamente adattarsi. Tali strategie, forti della paura dell’altro e del diverso, trasformano la morfologia fisica degli spazi pubblici e definiscono chi può utilizzarli e come. I sentimenti di disagio e la diffidenza nei confronti dell’ambiente, associati alla visibilità di persone indesiderate ed attività, quali il dormire e il bere per strada, l’accattonaggio, il lavarsi nelle fontane o altre forme di comportamento improprio rendono l’ambiente urbano pubblico sgradevole e pericoloso. La domanda di sicurezza cresce e gli interessi economici giocano un ruolo essenziale nella pianificazione e nel governo del paesaggio urbano, legittimando la nascita di misure architettoniche e politiche per il controllo dello spazio pubblico e dei suoi utenti. Si impone una visione ordinata di spazio pubblico, dove non c’è posto per i gruppi emarginati, la cui presenza compromette il miglioramento dell’immagine della città. Il rilancio delle zone centrali è influenzato dalla necessità di promozione e pubblicità, e la necessità di sicurezza diventa essenziale. Telecamere, recinzioni, particolari dispositivi di arredo urbano diventano elementi comuni del panorama odierno. L’obiettivo primario è quello di purificare fisicamente il paesaggio urbano, al fine di rassicurare cittadini e commercianti. L’espressione “arredo urbano” indica oggetti e dispositivi installati nel paesaggio urbano, come panchine, lampioni, semafori, segnali stradali, barriere di sicurezza, colonne spartitraffico, servizi igienici pubblici, fontane, cassonetti. Negli ultimi anni anche nelle città italiane si è assistito ad una progressiva trasformazione, o rimozione, di alcuni di questi elementi. Oltre agli strumenti più tradizionali,

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diretti ed espliciti, legati all’esecuzione e messa in atto della legislazione, le strategie di controllo comprendono infatti nuovi dispositivi, caratterizzati, si potrebbe dire, quasi dal concetto di “banalità”, perché passano prevalentemente inosservati ai cittadini o tendono a sembrare accettabili. L’arredo urbano è il nuovo strumento utilizzato per escludere gli indesiderabili dall’utilizzo dello spazio pubblico e la sua presenza, o assenza, è indice di come il problema venga affrontato dalle autorità civili. Basti pensare, ad esempio, alla progressiva rimozione dei servizi igienici pubblici. Gli unici servizi disponibili diventano quelli dei bar e dei locali, accessibili ai consumatori, e quindi non ai poveri e ai senza dimora, oppure i servizi igienici a pagamento. Il deterrente architettonico che, tuttavia, si sta diffondendo un po’ ovunque nelle città italiane risulta essere quello della cosiddetta panchina “anti-barbone”. I nuovi modelli che appaiono negli spazi pubblici italiani sono divisi da guide o barre che rendono impossibile sdraiarsi, offrono una superficie minima per sedersi e risultano spesso scomodi. I braccioli risultano anche un modo per garantire l’isolamento tra le persone, evitando contatti fisici indesiderati. Si può dire che la politica locale contro le insicurezze della cittadinanza sia esplicitata dalla politica delle panchine. La loro ridefinizione diventa una sorta di indicatore degli sforzi fatti dall’amministrazione per rispondere alle richieste di una maggiore sicurezza. La battaglia contro l’uso improprio delle panchine assume due forme: o vengono rimosse del tutto o sono accuratamente disegnate per impedirne utilizzi indesiderati. Inserite in uno spazio pubblico che deve essere vissuto come luogo di transito e di passaggio, le panchine vengono progettate come supporti temporanei, ispirati a principi di ordine e di decoro. Esse diventano un simbolo della lotta tra due tipologie di attori della vita della città e dei suoi spazi pubblici. Si tratta di un tipo di architettura del controllo, il cui scopo è quello di proteggere la popolazione da comportamenti indesiderati di persone indesiderate. In particolare, i nuovi elementi di arredo sono progettati in modo da costringere


l’utente a conformarsi al loro uso legittimo. Le Amministrazioni locali giustificano tali strategie politiche sulla base delle crescenti lamentele e della “domanda di sicurezza” di cittadini, residenti e commercianti, provocate dall’occupazione impropria dello spazio pubblico. Le ordinanze mirano a ridurre le fonti di questa insicurezza e, in questo senso, la rimozione di una panchina o il suo ridisegno significa dare una risposta concreta a queste richieste, allontanando i poveri, i senzatetto e gli immigrati. Tuttavia, è importante sottolineare che i nuovi progetti, in particolare i sedili singoli che sostituiscono le panchine tradizionali, non impediscono soltanto l’utilizzo dell’elemento di arredo come posto letto, ma stravolgono l’intera natura della panchina come luogo di scambio, interazione sociale e relax. In questo senso, non soltanto escludono gli indesiderati, ma privano anche tutti gli abitanti della città e i suoi visitatori del diritto di passeggiare e riposare. Ormai nelle stazioni ferroviarie è quasi impossibile trovare un posto a sedere, nelle piazze e lungo le vie principali gli unici posti dove fermarsi per riposare rimangono quelli dei tavolini dei bar e dei locali. Altre volte, a restringere lo spazio “praticabile” sono azioni considerate virtuose e ritenute in grado di innescare nuove urbanità, come quelle del gardening, in una competizione per l’uso del suolo “disurbanizzante”1. Un vero paradosso. Queste trasformazioni urbane, e le loro ragioni, spesso passano completamente inosservate agli occhi del cittadino comune, del turista o del visitatore di periferia che invadono il centro della città. Le misure di purificazione dello spazio pubblico, che impongono l’uso corretto dei suoi elementi, giocano un ruolo fondamentale nella ridefinizione dello spazio pubblico stesso. Si tratta di stabilire chi può utilizzarlo, come deve essere utilizzato e quale comportamento è accettabile o meno. Il risultato è che, attraverso sottili cambiamenti di politica urbana, orientati a scoraggiare le persone indesiderate e dissuaderle dall’utilizzo dello spazio pubblico, la città risulta sempre meno accessibile a precise categorie di persone. Tosi A., prefazione a Cottino P., La città imprevista. Il dissenso nell’uso dello spazio urbano, Elèuthera, Milano, 2003 1

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Il problema delle persone senza dimora non è certo di facile soluzione. Se da una parte le Amministrazioni offrono importanti e diversificate forme di aiuto nei confronti dei senzatetto, dall’altra si vedono costrette a rispondere alle domande della parte più ampia della cittadinanza di rimozione dalla vista negli spazi pubblici degli individui sociali indesiderati, in nome degli interessi economici, del decoro e della qualità della vita. I senzatetto diventano un fastidio, quando sono visibili al cittadino comune, al consumatore, all’elettore. Questa politica di controllo è presentata dai suoi sostenitori e accettata dai cittadini come giusta e necessaria. Tuttavia, essa non danneggia soltanto le persone senza dimora, ma anche, indirettamente, tutti gli altri cittadini, fomentando un senso di paura che contribuisce alla creazione di una visione falsificata della città e alla ridefinizione dello spazio pubblico urbano, che dovrebbe essere invece uno spazio di celebrazione delle differenze e dell’eterogeneità della città. Non potendo eliminare il problema, esso viene allontanato dalla vista e reso invisibile. La maggior parte delle persone domiciliate rimane inconsapevole di questi piccoli cambiamenti che, tuttavia, hanno un forte impatto sul circuito di sopravvivenza delle persone senza dimora, il cui unico mondo e ambiente di sostegno, il cui spazio pubblico e allo stesso tempo privato viene ridotto. Il fenomeno homelessness a Torino Secondo l’indagine pubblicata nel dicembre 2015 sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema, realizzata da Istat in convenzione con Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Federazione italiana degli organismi per le Persone Senza Dimora (fio.PSD) e Caritas Italiana, le persone senza dimora intercettate nel Comune di Torino sono 1.729, persone che nei mesi di novembre e dicembre 2014 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna. Il 3,4% del totale nazionale, percentuale contenuta se si confrontano i dati con quelli di città del nord come Milano o di dimensioni più contenute come


Firenze che supera Torino in termini di presenze registrate nei servizi. La crisi economica che ha interessato il nostro Paese ha generato nuove forme di vulnerabilità nei confronti di persone e famiglie che fino a pochi anni fa erano integrate nel tessuto sociale. Imprenditori di piccole e medie imprese, lavoratori e liberi professionisti che hanno vissuto progressivamente la perdita della propria occupazione, della famiglia, della casa, delle relazioni solidali. L’emergenza colpisce tutta l’Italia. Le persone senza dimora sono salite da 47.000 nel 2011 a 50.700 nel 2015. La percentuale di chi è senza casa da oltre quattro anni è aumentata dal 27,4% al 41,1%, e se nel 2011 il 28,5% restava senza casa per meno di tre mesi, oggi, quella percentuale è scesa al 17,4%. Bisogna comunque tenere conto che la natura campionaria delle indagini Istat è in grado di osservare soltanto una parte delle persone interessate dal fenomeno homelessness. La stima, infatti, esclude i minori, le popolazioni rom che vivino nei campi presenti nelle città, le persone che abitano in condizione di sovraffollamento o in alloggi occupati, e tutte le persone, ospiti di amici o parenti, che non hanno una propria dimora. La percentuale dei senza tetto presenti in Italia è diventata oggi statisticamente rilevante. Il 5 novembre 2015 Governo, Regioni, Province Autonome e Autonomie locali hanno sottoscritto le Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia, frutto del gruppo di lavoro coordinato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione Generale per l’Inclusione e le Politiche Sociali, che si è avvalso della collaborazione della Segreteria Tecnica della fio.PSD. Il punto centrale della questione è lo sviluppo di interventi organici e strutturati in grado di assicurare prestazioni uniformi a livello nazionale, monitorando le sperimentazioni, in modo da preservare gli interventi che si rivelano più efficaci. Il 28 Gennaio 2016 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega recante norme relative al contrasto alla povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali. Per la prima volta un Governo si accinge a varare in Italia un piano nazionale di lotta alla povertà.

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Il diritto all’abitazione nella Costituzione italiana

Nella Costituzionale italiana il diritto all’abitazione non è tutelato in modo specifico, anche se in alcuni articoli emergono riferimenti a valori riconducibili al diritto alla casa, intesa come elemento essenziale di garanzia di tutti gli altri diritti fondamentali dell’individuo. L’assenza, infatti, di uno spazio abitativo adeguato alle esigenze della persona, o del nucleo famigliare, costituisce un grave freno all’attuazione dei principi di uguaglianza e di dignità della persona, valori fondamentali nel nostro Paese. La Corte Costituzionale si è espressa più volte sul tema, definendo il diritto all’abitazione come un diritto sociale fondamentale, riconducibile all’articolo 2 della Costituzione. “Indubbiamente doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione”. Corte cost. sent. n. 49 del 1987 “Il diritto all’abitazione rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione” “creare le condizioni minime di uno Stato sociale, concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso”. Corte cost. sent. n. 217 del 1988 “Il diritto a una abitazione dignitosa rientra, innegabilmente, fra i diritti


fondamentali della persona”.

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Corte cost. sent. n. 119 del 1999 In riferimento, quindi, anche alle disposizioni internazionali, il diritto all’abitazione è un diritto sociale ed un diritto umano inviolabile. La collettività ha il dovere di impedire che alcuni individui vengano privati di questo diritto, dovere che da un lato connota la forma costituzionale di Stato sociale, e dall’altro colloca il diritto all’abitazione tra i diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo. “La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”. Corte di Cass. sent. n. 26972 del 2008


Anno di introduzione di misure nazionali contro la povertà nell’UE-15 Anno di introduzioneANNI di misure nazionali contro la povertà nell’UE-15 INTRODUZIONE ‘40-’50 INTRODUZIONE ANNI ‘60-’70 INTRODUZIONE ANNI ‘40-’50 INTRODUZIONE ANNI ‘80-’90 Anno di introduzioneANNI di misure nazionali contro la povertà nell’UE-15 INTRODUZIONE ‘60-’70 NON ANCORA INTRODOTTA INTRODUZIONE ANNI ‘80-’90 INTRODUZIONE ANNI ‘40-’50 NON ANCORA INTRODOTTA INTRODUZIONE ANNI ‘60-’70 INTRODUZIONE ANNI ‘80-’90

SPAGNA

REGNO UNITO

FRANCIA

GERMANIA

SVEZIA

1995 1995

1948 1948

1988 1988

1961 1961

1956 1956

1948

1988

1961

1956

NON ANCORA INTRODOTTA

1995

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14 Anno di introduzione di una misura nazionale contro la povertà nell’UE-15 (Rapporto Caritas 2015 sulle politiche contro la povertà in Italia). Il 28 Gennaio 2016 il Consiglio dei Ministri italiano ha approvato un disegno di legge delega recante Norme relative al contrasto alla povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali.


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15 Numero di persone in povertĂ assoluta in Italia (Rapporto Caritas 2015 sulle politiche contro la povertĂ in Italia).


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16 Persone senza dimora in Italia nel 2011 e 2014 (Istat 2012 e 2015).


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17 Città dove si è registrato un aumento del numero di PSD dal 2011 al 2014 (Istat 2015).


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18 Numero di persone senza dimora e numero di servizi nel 2011 e nel 2014 (Istat 2015).


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19 Torino: distribuzione rete servizi di prima accoglienza.


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A Torino, città dove il fenomeno homelessness ha assunto una consistenza significativa, le Unità di strada, grazie ad un buon livello organizzativo e di coordinamento, hanno potuto portare avanti un’indagine integrativa, con l’obiettivo di intercettare anche le persone senza dimora che non si rivolgono ai servizi. Lo studio ha dimostrato che la rete dei servizi di risposta ai bisogni primari e di accoglienza notturna è ben fornita. Le strutture sono passate da 63 nel 2011 a 73 nel 2014, con un incremento del 15,9%. L’81,9% delle persone ascoltate ha pranzato in mensa e il 71,5% ha dormito in dormitorio almeno una volta. Rispetto all’indagine Istat, sono state individuate ulteriori 63 persone, una percentuale del 3,5%, che fa salire il numero delle persone senza dimora che vivono a Torino a 1.792. Le persone intercettate dalle Unità di Strada sono per la maggior parte italiane, dormono più spesso in strada, in luoghi all’aperto o stazioni, raramente lavorano e presentano spesso problemi di dipendenza da alcool. In Piemonte come nelle altre regioni italiane, l’aumento della povertà estrema è segnato dalla difficoltà di stanziare risorse aggiuntive per l’attuazione di adeguate misure di contrasto. Il Fondo Sostegno alla Locazione costituisce la forma di sussidio attualmente più utilizzata dalla Regione Piemonte in materia di politiche abitative, un contributo ad integrazione del canone per rispondere alla domanda di casa. Nel 2015 si sono svolti in Piemonte alcuni incontri finalizzati alla stesura del Patto per il sociale 2015-2017, con l’intenzione di attivare una serie di misure di indirizzo - sostegno alimentare, inserimento lavorativo, sviluppo dell’abitare sociale, crescita culturale - e di criteri per valutare le situazioni di disagio al fine di prevenire la caduta dei soggetti in povertà assoluta. Il diritto alla casa viene quindi assunto come obiettivo imprescindibile. La dimora rappresenta un luogo stabile, un rifugio privato ed intimo, dove la persona può esprimersi liberamente in totale sicurezza. Un diritto che viene spesso negato alle persone senza dimora, e non solo. Da alcuni anni Torino si sta interrogando sull’efficacia delle politiche di contrasto alla grave emarginazione adulta. La difficoltà principale consiste nel superare


la contingenza dei problemi legati alla gestione quotidiana dei servizi in favore di una visione più a lungo termine. Nell’ambito del gruppo di lavoro nazionale promosso dal Ministero Lavoro Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Torino ha presentato un contributo critico sul cosiddetto modello “a gradini”, realizzato dal Comitato di Coordinamento Tecnico del Piemonte (CCT), composto dagli aderenti locali della Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora (fio.PSD). La riflessione ha portato nel 2015 all’avvio a Torino di alcune sperimentazioni di housing first, tra cui i progetti Abi.TO e Res.TO. L’approccio Staircase Lo Staircase approach è nato negli Stati Uniti alla fine degli anni Cinquanta per il reinserimento accompagnato dei pazienti psichiatrici nella società in forme di abitazione differenziate fino al raggiungimento dell’indipendenza. Rispetto alla homelessness, il modello “a gradini” prevede un sistema di servizi che accompagnano le persone senza dimora al recupero della propria autonomia, attraverso una successione preordinata di interventi, che vanno dalla prima accoglienza alla ricerca e mantenimento di un lavoro al reinserimento in un’abitazione privata, a patto che l’adulto sia ritenuto pronto a sostenere la propria esistenza in totale autonomia. L’approccio è guidato dall’idea che le persone in condizione di marginalità estrema possano riacquisire abilità e capacità sociali. Il sostegno degli operatori sociali diminuisce al crescere dell’autonomia. Il modello funziona se l’impianto dei servizi rifugge l’ottica dell’approccio emergenziale e propone un sistema sviluppato su livelli differenti, una rete integrata e coordinata di opportunità, promosse ed assicurate dall’ente pubblico e dagli enti del terzo settore, in modo da articolare una risposta che sia il più possibile flessibile e personalizzata in base ai bisogni della persona senza dimora. In questo quadro le persone senza dimora diventano attori sociali del fenomeno, in grado di attivare proprie strategie di azione, e non più vittime. Se il sistema di servizi si esaurisce nei classici dormitori o nelle case di ospitalità notturna quali luoghi di rifugio temporanei, non si può parlare di approccio a gradini.

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In Italia il modello si è diffuso con gradi di sviluppo disomogenei a seconda della cultura locale e della presenza e articolazione di servizi, istituzioni caritative e di volontariato. Il limite del modello è la definizione preventiva dei requisiti di accesso ad ogni livello, sulla base del recupero delle capacità ritenute necessarie per condurre una vita autonoma. Il suo funzionamento, inoltre, dipende dalla disponibilità di strutture e servizi nei diversi stadi rispetto alla quantità di persone bisognose presenti sul territorio. L’accesso ai “gradini” appare spesso difficile per la persona senza dimora, che vede in molti casi svanire la possibilità di uscire da questa condizione. L’utilizzo dei servizi di prima accoglienza dovrebbe essere minimo e limitato nel tempo. Si registrano invece quote crescenti di persone che utilizzano i servizi di bassa soglia per anni, rimanendo bloccati all’interno del circuito assistenziale. Le recenti ondate migratorie, la crisi economica e il restringimento delle possibilità finanziarie del welfare hanno acuito il problema. Nuove fasce di popolazione vivono la perdita del bene primario casa. I requisiti di accesso ai bandi di Edilizia Residenziale Pubblica vengono innalzati. Aumentano le persone costrette a vivere in strada. La base del modello a gradini si allarga. Cresce il numero di utenti nei dormitori e nei servizi di bassa soglia che non possiedono i requisiti di accesso ai percorsi abitativi finalizzati all’inclusione sociale. I tempi di permanenza nelle strutture intermedie si allungano per limiti e vincoli burocratici. L’approccio Housing first L’Ufficio Pio della Compagnia Intesa San Paolo aveva attivato nel 2007 un progetto che si proponeva di sostenere le persone nelle fasi conclusive del loro reinserimento sociale, l’accesso ad una casa popolare. Gli interventi consistevano in aiuti economici per l’acquisto di mobilio e beni essenziali, spese sanitarie, corsi preparatori o tirocini volti all’inserimento lavorativo. Nel 2015 il progetto è stato rivisto con l’obiettivo di offrire strumenti più flessibili, che non vadano ad incidere esclusivamente nelle fasi conclusive dal percorso riabilitativo. La nuova sperimentazione cerca di sostenere il rapido ritorno all’autonomia, avendo ben


presente i tempi di attesa nei servizi a bassa soglia per passare agli stadi successivi del percorso. Se, infatti, la situazione delle persone giunte in strada spesso non presenta un’elevata criticità in ingresso, essa rischia di cronicizzarsi con il passare del tempo, accelerando il percorso di esclusione e l’irreversibilità della condizione di homelessness. Gli interventi consistono nell’erogazione di un reddito minimo per un massimo di due anni cui si affiancano incentivi alla formazione e tirocini lavorativi. Sono pensati per persone in strada da meno di tre mesi e senza particolari problemi psichici o di dipendenza. Esistono, infatti, altre forme di intervento multidimensionali, simili per morfologia ai servizi dello staircase approach ma differenti nella logica. Il percorso che ogni persona compie all’interno delle diverse strutture non è stabilito a priori da un piano riabilitativo standardizzato, che in un’ottica incrementale e progressiva porta alla conquista di un’abitazione indipendente, ma adattato alle necessità specifiche della singola persona. A questa tipologia appartiene il cosiddetto approccio housing first, che considera la casa come diritto umano di base e punto di partenza per la riconquista dell’inclusione sociale. L’approccio si è recentemente diffuso in Europa sulla scia delle sperimentazioni avviate negli Stati Uniti a seguito del successo del progetto Pathways to housing, lanciato a New York nel 1992 dallo psicologo di comunità Sam Tsemberis. Il modello housing first ha un protocollo scientifico validato a livello internazionale, ed è oggetto di sperimentazione e monitoraggio a livello europeo ed internazionale. Tsemberis ha studiato progetti che coinvolgono i pazienti come parte attiva nel percorso di reintegrazione sociale. L’inserimento in alloggio è il primo passo del percorso. Gli utenti sono coinvolti nella scelta dell’abitazione, partecipano alla sua gestione economica e al suo mantenimento. La possibilità di disporre sin da subito di uno spazio-rifugio privato permette di percorrere la strada della riabilitazione con la certezza di poter migliorare la propria condizione sociale.

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Staircase approach


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Interventi di prevenzione. Costituiscono la base dello staircase approach: interventi di sostegno al reddito a favore delle persone e dei nuclei in condizione di fragilità economica, sociale e sanitaria; interventi di assistenza domiciliare; interventi di sostegno all’affitto.

Bagni pubblici, mense, ambulatori. Servizi di prima accoglienza diurna ad accesso immediato, strutturati per rispondere ai bisogni primari e ai servizi di tutela socio-sanitaria. Costituiscono l’occasione per connettere le persone in difficoltà alla rete dei servizi istituzionali e del terzo settore.

Case di ospitalità notturna, dormitori. Servizi di accoglienza notturna di bassa soglia con tempi di ospitalità limitati, strutturati non solo per rispondere ai bisogni primari ma anche per offrire spazi di accoglienza e di ascolto.

Residenze collettive. Servizi residenziali di secondo livello, strutture intermedie collettive che garantiscono la presenza costante di educatori, operatori sociali, medici e psicologi, per periodi prolungati di ospitalità. Vengono predisposti percorsi progettuali personalizzati.

Alloggi di autonomia. Abitazioni di piccole dimensioni, in coabitazione con un numero limitato di persone. La presenza del personale educativo e sociale è saltuaria.

Alloggi indipendenti. Abitazioni di edilizia residenziale pubblica, social housing, alloggi gestiti da realtà del terzo settore, ma anche alloggi di mercato privato. Eventuali supporti di sostegno del reddito o alla vita indipendente.

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Housing first approach


La casa come diritto umano di base.

Libertà di scelta della persona.

Appartamenti indipendenti e sparsi in diverse zone della città.

Compartecipazione all’affitto (30% del proprio reddito).

Presa in carico da parte di un’equipe multidisciplinare.

Riduzione del danno.

Servizi socialie sanitari integrati.

Recovery approach (recupero del benessere).

Visite regolari. Attenzione privilegiata alle persone senza dimora croniche, con problemi di salute mentale e sperimentazione su target differenti (famiglie e migranti).

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Il modello è stato esportato in tutto il mondo, riadattato alle realtà locali e al fenomeno homelessness. La casa e la stabilità abitativa sono il primo passo. L’accesso ad una abitazione stabile, sicura e confortevole favorisce un circolo virtuoso che porta le persone senza dimora che hanno vissuto a lungo una situazione di grave disagio a migliorare le proprie condizioni di vita. Nel contempo, un’equipe multidisciplinare guida la persona in percorsi di integrazione sociale, di riconquista dell’autonomia e del benessere, per tutto il tempo necessario. La ricerca di appartamenti liberi, sparsi sul territorio e dislocati in varie parti della città (scattered site housing), possibilmente vicino a spazi e luoghi di vita collettivi, ed un dialogo attivo con i proprietari, il vicinato e il quartiere diventano fondamentali per creare contesti di vita dinamici. Le agenzie sociali per l’affitto provvedono a reperire le possibili abitazioni e fungono da garanti per le persone inserite nel programma. Sebbene il modello housing first non rappresenti la soluzione a tutte le forme di homelessness, i dati emersi da numerosi studi sono incoraggianti. L’80% delle persone riesce a mantenere la casa a due anni dall’inserimento del programma. Diminuisce l’uso di droga o alcol, diminuiscono le spese per medicinali e cure mediche. Le opportunità che la casa offre come luogo di cura del sé incide positivamente sul benessere psico-fisico della persona, favorendo il senso di appartenenza alla comunità e la riconquista dell’auto-stima. Molte ricerche, inoltre, focalizzano sulla riduzione dei costi di gestione per l’amministrazione pubblica e per il contribuente rispetto allo staircase approach. Il modello housing first non necessita di un’offerta abitativa dedicata, le persone che entrano nel programma compartecipano al pagamento dell’affitto, si riduce l’utilizzo dei posti letto nei dormitori, si riducono gli ingressi in pronto soccorso con un risparmio del 50% dei costi per l’amministrazione e la sanità pubblica2.

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http://www.housingfirstitalia.org


A partire dal 2006 in Europa cinque città hanno abbracciato per prime il modello housing first sviluppando una serie di iniziative pilota - Discus Housing First ad Amsterdam, ACT a Copenaghen, Turning Point Scotland a Glasgow, Casas Primeiro a Lisbona, Pilisi Forest Project a Budapest. Nel marzo 2014 a Torino è nato il Network Housing First Italia, che conta oggi una cinquantina di membri tra Comuni, Caritas, Onlus e Cooperative sociali, in 10 regioni - Piemonte, Veneto, Lombardia, Sicilia, Calabria, Emilia Romagna, Trentino Alto Adige, Toscana, Liguria, Friuli Venezia Giulia. I progetti avviati sono 35. Mancando in Italia un finanziamento nazionale ed un reddito minimo di cittadinanza, le risorse stanziate variano da progetto a progetto - fondi comunali, 8 per 1000 della Chiesa Cattolica, donazioni, fondi propri dell’ente. Le persone inserite in appartamenti autonomi sono circa 200. Il 40% dei casi è composta da adulti con gravi disagi economici e abitativi, il 14% da ex-detenuti, il 20% sono persone senza dimora con problemi di abuso o dipendenza, il 10% persone senza dimora con disturbi mentali. Gli appartamenti sono circa 90, il 50% individuato nel mercato privato, il 30% appartenente al patrimonio ecclesiale, il 10% proviene da beni confiscati alla mafia e il 10% da patrimonio pubblico. Fio.PSD si occupa di seguire gli sviluppi dei progetti con azioni di monitoraggio, assistenza e valutazione. In linea con i risultati delle esperienze internazionali di housing first, in Italia fino ad ora si è registrato un 80% di stabilità e permanenza in appartamento. Su un campione di 58 persone, 8 persone sono uscite dai programmi per raggiunta autonomia a Torino, Cosenza, Padova, Agrigento e Caltanissetta3. Nel marzo 2015 sono stati avviati a Torino i progetti Abi.TO e Res.TO nell’ambito delle sperimentazioni portate avanti dal gruppo di lavoro italiano Housing First e coordinate da fio.PSD, che si propongono di offrire soluzioni alternative al dormitorio, attraverso un approccio nuovo ai servizi per i senza dimora, che fino ad oggi erano legati a gare d’appalto pubbliche o all’intervento di singole associazioni di volontariato. Si è creata, invece, una rete di cooperative - Progetto Tenda,

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http://www.housingfirstitalia.org

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Terra Mia, Aeris e Stranaidea - che, superando la logica competitiva del bando di gara, compartecipano economicamente al progetto, insieme alla Caritas Diocesana di Torino, che ha messo a disposizione le proprie risorse e i propri operatori, al Comune di Torino, attraverso i sussidi, gli aiuti economici all’inserimento in alloggio e gli operatori del Servizio Adulti in Difficoltà dei servizi sociali già esistenti. Il tutto integrato dal contributo dell’Ufficio Pio di Compagnia San Paolo a supporto dei percorsi delle persone inserite nella sperimentazione, in un’ottica di co-progettazione e welfare mix. Nella fase attuale del progetto sono state coinvolte quattro persone adulte senza dimora, che vivono oggi in quattro diversi appartamenti individuati in zone differenti di Torino, che offrono loro una solida base da cui partire per strutturare progetti di vita sociale ed autonoma, supportati finché necessario dagli operatori, sfruttando le risorse messe a disposizione dal territorio. La sperimentazione, opportunamente verificata anche in riferimento alla sua sostenibilità, potrà diventare modello di riferimento per futuri inserimenti in tutta la città.


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20 Collocazione abitazioni individuate nell’ambito del progetto Res.TO.


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21 Attori coinvolti nei progetti Abi.TO e Res.TO.


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22 Mappa attori coinvolti nei progetti Abi.TO e Res.TO.



I luoghi dell’emarginazione e del rifiuto



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Il campo rom e le politiche della sicurezza I campi non sono costruiti per durare. In ogni caso non si tratta di edificare o fondare. Un campo, anche se immenso, non deve penetrare la memoria di un luogo, è lì senza esservi realmente, la sua furtività è dovuta al fatto che è solo appoggiato sulla terra, come una tenda che da un giorno all’altro può essere tolta. Olivier Razac L’esclusione da un luogo consono in cui abitare comporta, per chi la subisce, la perdita della capacità di mantenere se stesso nel confronto pubblico con la società. Riduce la capacità di agire seguendo e interpretando regole tacite e condivise perchè conduce a una spersonalizzazione e a un’umiliazione dell’individuo stesso. Tommaso Vitale Il 21 Maggio 2008 il Governo Italiano ha dichiarato lo “stato di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi nel territorio delle Regioni Campania, Lazio e Lombardia”, prorogato ed esteso nel 2009 anche alle regioni Veneto e Piemonte, e i Prefetti dei capoluoghi regionali sono stati nominati “Commissari Delegati per la realizzazione di tutti gli interventi necessari al superamento dello stato di emergenza”. Un decreto emanato sull’onda di una crescente richiesta di “sicurezza”, che dimostra come lo Stato si ponga nei confronti delle popolazioni rom, cittadini senza diritti di cittadinanza e quindi senza città, optando per un approccio emergenziale piuttosto che per un piano strutturale e di lungo periodo. Nonostante costituiscano la minoranza più numerosa d’Europa e l’UE possieda


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23 Sgombero campo rom in Lungo Stura Lazio, 2016.


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Popolazione rom stimata nell’UE-28 e percentuale sulla popolazione nazionale

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> 7,0% 0,5% < x < 1,0%

1,90%

1,55%

200.000

175.000

1.850.000 8,63%

0,25% 150.000

0,62% 400.000

0,13%

0,36% 225.000

105.000

1,63%

0,1% < x < 0,5% < 0,1%

750.000

I LUOGHI DELL’EMARGINAZIONE E DEL RIFIUTO

1,0% < x < 2,0%

fonte: Consiglio d’Europa http://www.coe.int/it/web/portal/roma

24 Popolazione rom nell’UE-28 e percentuale sulla popolazione nazionale (Consiglio d’Europa).


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25 Popolazione rom in Italia (Rapporto annuale 2015 Associazione 21 luglio Onlus). La mancanza di una raccolta di dati disaggregati su base etnica impedisce di disporre di numeri certi sulla presenza di rom e sinti in Italia. Le stime parlano di circa 180.000 persone, lo 0,25% della popolazione totale del nostro Paese. Circa 35.000 rom vivono in emergenza abitativa e, tra loro, quasi 20.000 vivono in insediamenti voluti, progettati e gestiti dalle istituzioni stesse.


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26 Regioni che registrano un maggior numero di campi rom (Rapporto annuale 2015 Associazione 21 luglio Onlus). L’86% delle famiglie che vivono nei campi nomadi risiede in Campania, Lazio, Toscana, Lombardia e Piemonte. Nel 2000 l’Italia è stata definita il “Paese dei campi”, l’unico paese europeo che gestiva un sistema abitativo parallelo riservato ai soli rom.


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27 Sentimenti anti-rom registrati in 7 paesi dell’Unione Europea (Rapporto annuale 2015 Associazione 21 luglio Onlus).


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28 Discorsi d’odio registrati in Italia nei confronti dei rom (Rapporto annuale 2015 Associazione 21 luglio Onlus).


uno dei quadri legislativi in materia più avanzati al mondo, lo stato di protezione delle popolazioni rom è ancora molto debole. Varie organizzazioni internazionali hanno sottolineato più volte il fatto che questa popolazione sia tra i gruppi etnici più colpiti dalla povertà, dalla discriminazione nei settori occupazionale, educativo, sanitario e amministrativo, e incontri numerosi ostacoli nel godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Da sempre le popolazioni rom hanno provocato grande clamore nei luoghi dove hanno sostato e dove col tempo si sono stanziate. I giornali oscillano tra pietismo, complici anche le organizzazioni di volontari il cui operato genera nell’opinione pubblica l’immagine di uno zingaro povero e misero che giustifica la loro esistenza e il loro lavoro, e un misto di rifiuto e disprezzo nei confronti di una massa indistinta di individui da evitare. Ci sono leggi nazionali e regionali, circolari del ministero degli interni e della polizia, piani regolatori, prassi amministrative di assessorati, uffici stranieri e nomadi, provveditoriati, uffici d’igiene, ci sono volontari, associazioni pro-zingari e comitati anti-zingari. In tutti i casi si tratta di ambiti e sistemi normativi in cui i rom non hanno voce. Negli anni si sono sovrapposte e mescolate ondate migratorie di popolazioni rom provenienti da diverse realtà e con alle spalle storie differenti. In Italia si è sentito a lungo parlare di “rom della ex-Jugoslavia”. Una definizione piuttosto approssimativa. Molti hanno lasciato i Balcani negli anni Sessanta, perciò negli anni Novanta già i trentenni erano nati in Italia, non parlavano più serbo-croato, ma italiano e romané. Con lo scoppio del conflitto nella ex-Jugoslavia, i profughi zingari provenienti in particolare dalla Bosnia hanno trovato rifugio da parenti e amici rom, stanziati in Italia già da anni, per sfuggire alla guerra e alla mancanza di prospettive economiche. Oggi i gruppi rom di nuova immigrazione provengono per la maggior parte da paesi dell’Est come la Romania, il Kosovo e la Macedonia. Dai Rapporti degli anni Novanta di varie organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani emerge che in particolare in Romania, dopo la caduta del regime comunista, si sono verificati gravi episodi di violenza e discrimina-

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zione nei confronti della minoranza rom, tali da costringere molte famiglie ad abbandonare le proprie case e cercare rifugio altrove. Negli anni successivi le violenze sono diminuite, ma non sono mai cessate, complice anche la mancanza di volontà delle autorità rumene nell’impedirle e nel punirle. Oggi molte di queste famiglie vivono nelle città italiane in condizioni di estrema povertà e precarietà abitativa. Spesso, essendo cittadini stranieri, non hanno il permesso di soggiorno e di conseguenza non possono essere assunti per lavorare. L’orizzonte temporale su cui costruiscono la propria vita è quello della necessità e dell’emergenza quotidiana. Le principali, se non uniche, attività che possono esercitare per sopravvivere sono l’accattonaggio e il piccolo furto. Vivono alla giornata pensando al luogo dove potersi rifugiare in caso di sgombero e ai pochi beni personali da raccogliere. La mancanza di spazi abitativi da personalizzare e rendere familiari porta molte di queste persone a ridurre le proprie aspettative e perdere capacità importanti per la vita pubblica. La teoria del nomadismo e un insieme di altre raffigurazioni basate su stereotipi e pregiudizi, che trasformano delle condizioni di vita in modi di vivere, sono sempre più utilizzate come forma di legittimazione culturale della loro segregazione e marginalizzazione. Nell’ordinamento giuridico italiano i rom e i sinti non sono riconosciuti come minoranza storico-linguistica. La legge 482/1999, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, li ha esclusi dalle minoranze ammesse a tutela, per via della mancanza di radicamento sul territorio, riservandosi di proporre una legge ad hoc che tenesse conto dello loro specificità. Così, se da una parte l’invisibilità abitativa e la marginalità di azione nello spazio pubblico consentono a queste persone di sopravvivere fino allo sgombero successivo, dall’altra la continua condizione di isolamento e l’assenza di legami ispirano, in molti casi, più rassegnazione e apatia che voglia di riscatto. Nessuno sceglie di vivere di stenti e di miserie se non è costretto. In mancanza di una chiara strategia nazionale, la questione “rom” è stata ovun-


que delegata alle sole amministrazioni comunali, e quindi agli assessorati alle politiche sociali affiancati dai vari uffici stranieri e nomadi. Una questione che non a caso non è mai stata demandata all’assessorato all’urbanistica, perché del resto i campi non figurano nemmeno nelle carte e possono essere spostati con facilità dai sindaci in base alle richieste dei propri elettori, andando magari ad ingrandire un campo già esistente per non perdere voti in altri quartieri. È difficile capire quando sono arrivati gli zingari a Torino, quanti erano e come vivevano nel passato, dove abitavano e che lavoro facevano. È difficile capire chi sono adesso. In Italia i rom e i sinti vengono chiamati “nomadi” sebbene la stragrande maggioranza di loro non lo sia. Si crede che i rom, e gli zingari in generale, siano abituati a vivere nella miseria per tradizione o costume e che scelgano di vivere in tal modo. Negli anni Sessanta gli zingari sostavano con le loro roulotte all’estremità nord della città di Torino, in Piazza Sofia, corso Taranto e Lungo Stura Lazio e all’estremità ovest in corso Cincinnato o in altre strade del quartiere operaio delle Vallette. Posteggi non autorizzati, lontani dal centro della grande metropoli industriale, luoghi di sosta spontanei da cui nasceranno i primi campi nomadi riconosciuti. Nel 1984, infatti, anche la giunta comunale di Torino, così come tante altre giunte italiane, in risposta all’arrivo massiccio di rom dai Balcani, ha deciso la realizzazione di aree-sosta attrezzate, dando indicazioni aggiuntive sui problemi più urgenti da affrontare, quali l’assistenza sociale per le famiglie e la scolarizzazione dei minori. In quanto atto istituzionale, la delibera ha costretto anche i successivi governi cittadini a considerare la presenza degli zingari. Si è iniziato così a razionalizzare e definire gli spazi a loro destinati, quattro “aree-sosta attrezzate per nomadi”, tutte autorizzate ed edificate su terreni comunali: il “Sangone” di Corso Unione Sovietica e “Le Rose” di via Lega, rispettivamente a Sud e a Nord della città, destinate ai sinti, e le aree attrezzate in strada dell’Aeroporto e strada dell’Arrivore, a Ovest e a Nord di Torino, destinate ai rom. L’area di sosta “Sangone” in corso Unione Sovietica è la prima area attrezzata realizzata a Torino sulla sponda dell’omonimo torrente, prevista per 250 persone e

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riconosciuta nel 1979. A parte qualche intervento compiuto dall’amministrazione nel corso degli anni, gli zingari hanno sempre contribuito alla sua manutenzione e conservazione. Il campo di via Lega, autorizzato nel 1979, è stato attrezzato ovvero dotato di acqua, energia elettrica e servizi igienici - negli anni Novanta, a causa delle pressioni e delle proteste degli abitanti della zona contro la precarietà igienico-sanitaria del luogo. Anche in quest’area sono ospitati soltanto Sinti Piemontesi, cittadini italiani.
La densità delle popolazioni rom, invece, con il passare degli anni, ha superato i limiti di capienza dei due campi di sosta a loro destinati, rendendone difficile la conservazione e manutenzione. L’area in Strada dell’Aeroporto è stata allestita nel 1990, quando la costruzione del nuovo stadio delle Alpi in occasione dei mondiali di calcio ha imposto il trasferimento degli zingari che vivevano in strada Druento. Il campo è asfaltato, dotato di acqua ed energia elettrica a carico degli utenti, e di un blocco di servizi igienici. Ospita Rom Korahkané, Rom Kanjarija e qualche famiglia, a volte mista, di Romuni, Arlija e Rom Gadjikané. L’area-sosta in Strada dell’Arrivore è stata realizzata nel 1988. Il campo era dotato di acqua, energia elettrica e servizi igienici. Ospitava quasi esclusivamente Rom Korahkané provenienti dalla Bosnia e dalla Croazia. Intorno al 2004 è stata sostituita dall’area realizzata in via Germagnano, progettata con le caratteristiche di un villaggio residenziale. Nonostante le associazioni e gli zingari avessero chiesto ripetutamente per anni un confronto con le istituzioni per ipotizzare forme di collaborazione e autogestione nella realizzazione di una nuova area attrezzata vivibile, si è arrivati soltanto all’ultimo ad identificare un altro luogo di sosta sulla base delle necessità imposte dalla destinazione dell’Arrivore ad area verde nel progetto di un grande parco fluviale. Ai campi nomadi autorizzati si sono aggiunti alcuni insediamenti spontanei, che hanno acquistato via via un carattere di stanzialità, come per esempio quelli dei gruppi Rom romeni, o che conservano un carattere di semplice attraversamento della città o di soste limitate legate ad attività religiose o economiche. Secondo le rilevazioni comunali, le tribù nomadi che attraversano regolarmente Torino sono quelle dei Rom Kalderaša spagnoli e francesi, dei Rom Doresti, dei Rom


Harvati di origine croata, dei Rom Lovara di origine polacca, dei Manouš francesi e spagnoli, dei Camminanti Siciliani e dei Rom Kalderaš Romeni, di recente immigrazione, i più poveri, che appaiono in questi ultimi anni i più numerosi. In mancanza di un regolare censimento, i Rom sono stati stimati in circa 6-700 persone staziate in maniera permanente negli insediamenti spontanei, per lo più Rom Romeni, e in un migliaio di itineranti. All’inizio degli anni 2000, l’immensa discarica delle Basse di Stura ha offerto un luogo invisibile per gli accampamenti dei primi rom rumeni, in fuga dalla Romania per la riaffiorata ostilità della popolazione locale nei confronti della minoranza etnica, dopo la caduta del regime che li aveva sedentarizzati con la concessione di una casa e di un lavoro. Questa terra di nessuno, in Barriera di Milano nella circoscrizione più grande di Torino, si è poi trasformata nel campo rom di Lungo Stura Lazio, sgomberato totalmente proprio in questo periodo, tristemente noto per il degrado, l’abbandono e la mancanza delle urbanizzazioni primarie, oltre ai problemi di ordine pubblico ad esso legati. Per i suoi abitanti il campo rappresentava un luogo sicuro, nascosto tra la vegetazione, al riparo dagli sguardi ostili della popolazione locale. Una baraccopoli che si estendeva per 850 metri sulla sponda del fiume Stura, i cui abitanti vivevano essenzialmente di un’economia informale di sussistenza, elemosina, spelatura di cavi di rame e rivendita al Balon di oggetti trovati in quella che si può definire una discarica a cielo aperto. L’area, affiacata dai vecchi quartieri operai di quando il tessuto industriale torinese era ancora forte, è il risultato di decenni di considerazione marginale da parte delle autorità. Una Torino che non ha mai potuto godere delle stesse prospettive di riqualificazione del centro città, dove si incrociano le fasce più deboli della popolazione, campi nomadi, droga, discariche e prostituzione, un’area degradata a livello sociale e ambientale. L’apertura di campi nomadi attrazzati ha dato a lungo l’impressione che riguardo alla questione degli zingari si stesse facendo qualcosa, dopo anni di indifferenza. I campi sono la risposta alle richieste e alle pressioni dei volontari e delle

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parrocchie, dei centri sociali autogestiti e delle associazioni culturali, dei gruppi politici, dell’Opera Nomadi, dell’Associazione Italiana Zingari Oggi, dell’Arci. Spazi riconosciuti dal punto di vista normativo, con precisi regolamenti per l’accesso, la sosta e la residenza, che impediscono la dispersione dei rom, concentrandoli in un unico luogo. Il “campo” è uno spazio libero, contenuto entro limiti concretamente o idealmente determinati. Se accompagnato da parole come “nomadi” o “profughi” richiama alla mente condizioni precarie e di provvisorietà, miseria, collocazione ai margini, segregazione e pratiche di controllo. Un “campo” può essere un terreno sterile che si presta ad usi disparati e provvisori in attesa di una destinazione specifica, può essere uno spazio scoperto circoscritto per un uso determinato, uno spazio di passaggio a pagamento dove si sosta per un certo periodo, oppure un accampamento temporaneo, uno spazio dove vengono radunate delle persone per qualche tempo per motivi di guerra o altre calamità, oppure per motivi politici o di lavoro forzato. Il modo in cui sono stati allestiti i campi “autorizzati” su iniziativa dei comuni trasmettono un senso di emergenza, come in seguito ad una catastrofe naturale, alluvione o terremoto. A partire dagli anni Novanta nelle città italiane sono stati chiusi progressivamente tutti i piccoli spazi liberi usati come campi abusivi, mentre venivano aperti pochi grandi campi autorizzati nelle periferie delle città, dotati di servizi e spesso controllati dall’esterno, spazi che evidenziano con chiarezza il fatto che gli zingari siano un popolo da allontanare e da cui allontanarsi. Le autorità procedono alla ricerca di spazi disponibili per i nuovi campi tra le proteste e le rivolte degli abitanti, andando per esclusione. Per chi riesce ad accedervi c’è acqua potabile, corrente elettrica, possibilità di stare al caldo d’inverno e finisce l’incubo degli sgomberi. Grazie ai campi, molti ricevono il permesso di soggiorno e la carta d’identità. La fase dell’emergenza è superata e l’attenzione delle amministrazioni e delle associazioni di volontariato si focalizza su lavoro salariato per gli adulti e scolarizzazione per i minori.


Riflettendo sulle localizzazioni dei campi nomadi si possono desumere facilmente i parametri adottati per la scelta del luogo. Si vedono baraccopoli ai confini tra campagna e periferia, in aree incerte di conurbazione, tra i binari e le strade a scorrimento veloce, lungo gli argini dei fiumi, nelle aree industriali dismesse, spazi in cui appare difficile anche solo pensare ad un processo di formazione di un insediamento. Sembra quasi che si voglia osteggiare e scoraggiare la presenza dei rom sul territorio. Si tratta di un’unica soluzione residenziale per una varietà di minoranze che vengono genericamente classificate sotto la categoria “nomadi”, attribuendo loro una connotazione etnica che separa nettamente questi gruppi dal resto della popolazione. I campi nomadi sono un intervento di welfare abitativo che riserva però un trattamento amministrativo differente per quanto riguarda gli standard urbanistici e di edilizia residenziale. Abitare in roulotte, container e baracche fatiscenti non viene considerato causa e, allo stesso tempo, conseguenza della povertà dei rom e dei sinti, ma viene quasi naturalizzato come effetto di una presunta “cultura nomade”, che al lavoro e all’abitare non attribuisce alcun valore. È vero, alcune comunità praticano una mobilità stagionale legata ad attività di spettacolo itinerante, ma nella grande maggioranza dei casi si tratta di comunità stanziali, la cui mobilità è dovuta ai provvedimenti di allontanamento. Per gli zingari l’unica ricchezza era lo spazio, ma le trasformazioni industriali hanno sconvolto e modificato inesorabilemente il territorio metropolitano. Geografia e paesaggio sono cambiati ovunque profondamente e per i rom è diventato sempre più difficile trovare aree in cui sostare. Oggi non si parla più di piccoli insediamenti a cui le città facevano poco caso, percepiti quasi come un elemento del paesaggio suburbano. Dal momento in cui si è iniziato a parlare di “campi nomadi”, lo spazio per i rom si è ristretto sempre di più. Con la chiusura progressiva dei piccoli spazi destinati alla sosta, si sono formati grandi agglomerati, insediamenti perennemente temporanei, in continua crescita, ed è questa concentrazione di individui e di famiglie a spaventare e richiamare l’attenzione. Luoghi malsani, roulotte, tende di nylon, baracche di cartone e compensato invase

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da topi, terreni fangosi, senza acqua potabile e servizi, immondizie, malattie, freddo, incendi. L’unico elemento che permette di distinguere un campo nomadi autorizzato da uno abusivo è il binomio ordine-disordine. La disposizione delle roulotte in un’area di sosta spontanea riflette il mutare dei rapporti di vicinanza delle famiglie. I campi attrezzati, invece, si fondano su file fisse e parallele, una forma più ordinata, che risponde a delle regole precise. Regole che gli insediamenti abusivi dei rom di nuova immigrazione non soddisfano. Per questo diventano ciclicamente l’oggetto di un altro strumento di azione pubblica usato dalle amministrazioni, lo sgombero. Uno strumento che permette di ottenere un facile consenso, ma che ha conseguenze molto dure sulle persone che lo subiscono, in termini psicologici, di perdita di effetti personali, interruzione dei rapporti di vicinato e, nel caso dei bambini, della continuità scolastica. L’oggetto dello sgombero viene chiamato “campo”, come gli spazi predisposti legalmente dai comuni, e l’associazione tra le baraccopoli e le aree di sosta attrezzate è presto fatta: una stessa modalità di abitare, non importa se riconosciuta per legge o abusiva, ma propria della cultura zingara. I campi attrezzati sono il riflesso di una concezione esterna del modo in cui dovrebbero vivere i “nomadi”, a cui essi, tuttavia, cercano di conformarsi. Imprigionati oramai all’interno della struttura sedentaria dei grandi centri urbani, diventa fondamentale per loro assicurarsi un posto in uno dei pochissimi campi sosta messi a disposizione, per intravedere la possibilità di vivere senza più paura di essere cacciati. Le istituzioni internazionali hanno più volte denunciato la segregazione dei campi nomadi, realizzati generalmente su ex discariche, su ritagli di terreno ai lati delle ferrovie, lungo tangenziali e grandi arterie di traffico, su aree dove il valore fondiario è minimo e sulle quali insistono di solito anche altri elementi di degrado urbano, che acuiscono l’insofferenza delle popolazioni locali nei confronti di queste comunità. I campi nomadi sono un caso estremo di segregazione, dove si producono le dinamiche sociali del ghetto. Ghetti spesso sovraffollati, in cui gruppi tra loro estranei vengono costretti a vivere insieme, dove scoppiano risse e in cui non esiste privacy, e dove il meccanismo di concentrazione spaziale del


disagio e degli svantaggi sociali alimenta ulteriormente il processo di segregazione di questa urbanistica del disprezzo1. L’invenzione del campo “nomadi” Il campo nomadi è un’invenzione degli anni Ottanta, un habitat estraneo alla storia dei rom, e che, anzi, ne sconvolge un elemento fondamentale della cultura, basata invece su flessibilità di strutture e relazioni. Il campo, inoltre, essendo terreno comunale, non può essere pensato come spazio abitativo proprio dei rom, che sono soltanto ospiti temporanei e in quanto tali devono rispettare determinate regole onde evitare il degrado dello spazio loro concesso. Questi ghetti istituzionalizzati sono beni immobiliari, rari e costosi. Non se ne possono realizzare molti. Coloro che riescono ad accedervi acquistano una sorta di posizione privilegiata da difendere, che aumenta ulteriormente le tensioni interne al gruppo e rende necessario un maggiore controllo esterno. Una strategia insediativa fondata esclusivamente sui campi nomadi per così dire ufficiali era destinata inevitabilmente a fallire. La necessità di trovare un’alternativa a quella che con il tempo è diventata l’unica forma di azione pubblica nei confronti di questi gruppi e che, nonostante tutto, continua ad accrescere i problemi nei rapporti fra i rom e la popolazione locale, e all’interno della comunità stessa dei nomadi, è ormai chiara. I campi hanno conseguenze negative sulla vita sociale, istituzionale e amministrativa della città. L’allarme sociale e l’ostilità di chi abita nei paraggi crescono in maniera proporzionale alla grandezza del campo, che aumenta il pregiudizio nei confronti dei propri ospiti, complici spesso i media, ed esaspera le dinamiche conflittuali. È ormai chiaro che forzare i gruppi gitani entro l’unica tipologia abitativa del Marcetti C., Solimano N., “Allontanate le vostre tende, avvicinate i vostri cuori”, in Brunello P. (a cura di), L’urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana, Manifestolibri, Roma, 1

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campo nomadi ha grandi conseguenze non soltanto sulla qualità della vita delle persone che vi risiedono, ma anche sui rapporti fra questi gruppi e il resto della cittadinanza. Negli ultimi anni in tutta Italia si stanno diffondendo politiche locali che tentano di superare il concetto di campo nomadi, testimoniando la varietà di misure di inserimento abitativo che possono essere adottate. Ultimamente i rom stessi hanno iniziato ad organizzare cortei, manifestare ed occupare edifici. Una novità. Soltanto nel Novembre 2015 l’ex-caserma “La Marmora” è stata occupata da un’ottantina di rom allontanati dai campi abusivi torinesi, che chiedono condizioni di vita migliori lontani dalle discariche, documenti in regola e di poter vivere senza la paura continua dell’arrivo della polizia. È possibile costruire progetti pensati per e con i rom, ma anche con gli abitanti dei quartieri dove andranno ad inserirsi, che possano migliorare la qualità della vita di tutte le persone coinvolte. Si iniziano a riconoscere i gruppi rom e sinti come interlocutori con cui poter dialogare per realizzare progetti abitativi sostenibili dal punto di vista economico e il più possibile condivisi. Uno degli ultimi progetti attivati dalla Città di Torino è quello de’ “La città possibile – Iniziative a favore della popolazione ROM”, gestito da un Raggruppamento Temporaneo d’Imprese, quali la Cooperativa Animazione Valdocco, l’Associazione Italiana Zingari Oggi, la Croce Rossa Italiana, il Comitato Provinciale di Torino, la Cooperativa Sociale Stranaidea, la Cooperativa Sociale Liberitutti e l’Associazione Terra Del Fuoco, incaricate per conto della Città di Torino. Un progetto finanziato con fondi del Ministero degli Interni, che ha avuto inizio nel Dicembre 2013. Lo scopo era quello di realizzare percorsi efficaci di integrazione per circa 1300 persone di etnia ROM scelte, sulla base di requisiti amministrativi, sociali e di sicurezza pubblica, tra quelle che abitavano nelle aree sosta autorizzate e non autorizzate della Città di Torino. Per la maggior parte di queste persone sono stati previsti interventi mirati all’inclusione sociale ed abitativa a Torino, o in altre città della Regione Piemonte, e in Romania, con attività di accompagnamento ai rimpatri volontari in collaborazione con associazioni operanti in Romania. Le famiglie individuate hanno firmato un Patto di Emersione, impegnandosi ad evi-


tare qualsiasi comportamento illegale, mandare i figli a scuola, partecipare ad alcune attività specifiche (corsi, inserimenti lavorativi, attività per la regolarizzazione amministrativa) e contribuire alle spese del servizio. Come da copione, il progetto è al centro dell’attenzione dei media in questi giorni più che altro perchè il gruppo di associazioni vincitrici della gara è finito sotto inchiesta per aver utilizzato, per l’allocazione temporanea dei nuclei familiari in uscita dai campi nomadi, immobili sprovvisti dei requisiti di abitabilità. Il Dado di Settimo Torinese (TO) Altro progetto interessante è quello inaugurato il 23 Marzo 2009 a Settimo Torinese: il “Dado”, struttura residenziale di 675 metri quadrati, una delle più interessanti pratiche di autorecupero in un condominio misto di Rom, rifugiati politici e giovani volontari, realizzato a costi assolutamente contenuti (238 €/mq) con un risparmio del 30% rispetto ad un cantiere tradizionale. Il progetto è stato realizzato da Architettura delle Convivenze, in collaborazione con Gruppo Abele, Croce Rossa Italiana e Ufficio Pastorale Migranti, grazie al sostegno economico della Compagnia Intesa San Paolo, che ha finanziato l’intervento, al Comune di Settimo Torinese, che ha ceduto in convenzione l’edificio, e all’assessorato al Lavoro e alle Politiche sociali della Provincia di Torino, che ha attivato le borse-lavoro per i rom impegnati nelle opere di ristrutturazione. Architettura delle Convivenze è uno studio di progettazione interdisciplinare, che riunisce professionisti provenienti da diverse discipline - architettura, urbanistica, ingegneria, sociologia, psichiatria, mediazione sociale, arte - per affrontare il tema dell’abitare nella sua complessità, coinvolgendo le diverse competenze durante l’intero sviluppo del progetto, dallo studio preliminare alla sua realizzazione. È una cooperativa sociale che promuove politiche e strategie per consentire l’accesso all’abitazione e favorire l’inclusione sociale delle fasce più deboli della popolazione. La forza del progetto è quella di essere stato pensato in modo specifico e a partire dalle complesse esigenze dei suoi futuri abitanti,

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29 Attori coinvolti nei progetti La città possibile e Il Dado.


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30 Mappa attori coinvolti nei progetti La cittĂ possibile e Il Dado.


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31 Il Dado, Settimo Torinese (TO).


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senza imposizioni esterne di un modello abitativo stabilito a priori, disegnato magari per un utente non conosciuto, i cui bisogni sono interpretati secondo standard tipicizzati o frutto di stereotipie culturali. Il progetto è stato sviluppato attraverso il coinvolgimento diretto di tutti i soggetti interessati, fruitori, istituzioni e attori presenti sul territorio, come per esempio i residenti del quartiere, in una serie di incontri, sopralluoghi e interviste. In questo modo il progetto è realmente condiviso e può essere orientato e caratterizzato. Coinvolgere gli enti pubblici è stato fondamentale per ridurre i costi dell’intervento, così come il coinvolgimento di sponsor e fondazioni private per l’accesso a forniture a basso costo. L’ulteriore risparmio è ovviamente dovuto alla partecipazione dei futuri abitanti al processo costruttivo, e l’invito a partecipare ai lavori rivolto anche alle associazioni locali, alle scuole, ai vicini di casa. Il Dado è il primo progetto di autorecupero legato alla comunità rom romena. Il progetto prevede l’inserimento abitativo di otto famiglie rom e tre famiglie italiane, che possono restare nella struttura per tre anni, durante i quali hanno modo di iniziare e completare il proprio percorso di inserimento sociale e sviluppo della propria autonomia. Nel frattempo, attraverso un attento lavoro di mappatura delle comunità rom presenti in Piemonte, vengono individuate nuove famiglie che andranno a sostituirsi a quelle attualmente presenti. L’autorecupero e l’autocostruzione possono aiutare ad affrontare la questione “rom” in un’ottica di nuovo welfare, agendo come una sorta di riscatto sociale per i soggetti svantaggiati e rispondendo al forte bisogno di integrazione. Un progetto architettonico destinato ai rom deve essere anche e soprattutto un progetto sociale. È importante riuscire a costruire anche la rete di relazioni tra la struttura residenziale e il territorio, evitando così di realizzare insediamenti avulsi dal contesto e non ben compresi dalla comunità locale. È proprio l’instaurarsi di un intreccio di relazioni sul territorio che arriva a poco a poco a favorire l’autonomia della persona, ed è a quel punto che l’inclusione abitativa diventa anche inclusione sociale. L’edificio era già stato destinato nel 2003 alle politiche per il disagio abitativo, e la cittadinanza aveva preso ad identificare questa struttura


come luogo di isolamento e degrado, aspetto da tenere in grande considerazione. È per questo motivo che si è scelto di non destinare l’edificio esclusivamente a famiglie rom, onde evitare la realizzazione di una struttura ghettizzante. Si è puntato invece su una trasformazione della struttura che permettesse di instaurare una relazione nuova e positiva con il territorio circostante. Oltre agli alloggi, è stata organizzata una foresteria per studenti e lavoratori, provenienti da tutta Europa, che partecipano ad un progetto di contrasto alla criminalità organizzata. La terrazza dell’edificio, accessibile sia dall’esterno che da tutti gli alloggi, è diventata una sorta di piazza dedicata all’incontro tra i diversi abitanti, uno spazio comune che accoglie eventi culturali promossi dalla casa stessa o da altre realtà del territorio. Infine, l’installazione di Paolo Ferrari ha permesso di aggiungere una nota artistico-scientifica alla riqualificazione dell’edificio, coniugando il lato urbanistico e abitativo con l’elemento culturale ed estetico. Il Dado di Torino sembra aprire una nuova strada capace di superare la logica monoculturale del campo rom. Si crea una sorta di condominio multiculturale, aperto a chi si trova in condizioni abitative precarie, ai Rom, ai migranti, agli studenti fuorisede, ma anche verso l’esterno, verso i residenti del quartiere e verso chi volesse collaborare a costruire nuovi pezzi di città e non più ghetti. Progetti come quello del Dado fanno ancora parte di un universo di soluzioni abitative alternative ai campi, nate dalla volontà di pochi di dare una risposta concreta ed immediata alla questione dei rom. Il problema è che sono soluzioni che non fanno parte di un piano coordinato a livello nazionale e rischiano di rimanere fini a se stesse, senza incidere di molto sulla risoluzione al problema. Certamente la questione ha complesse implicazioni sociali e politiche. Tuttavia, questi primi progetti dimostrano che qualcosa inizia a muoversi e sono assolutamente necessari nella lotta contro la discriminazione e il pregiudizio nei confronti delle minoranze zingare. Gli insediamenti di queste comunità, falsati dall’immagine che ci siamo costruiti della loro identità, non sono mai stati luoghi di progetto. Rom e sinti, invece, de-

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vono essere trattati come tutti i cittadini, con diritti e doveri, dando loro l’opportunità di scegliere i sistemi abitativi più adatti alle proprie esigenze, nel rispetto certamente della legalità. Le famiglie nomadi devono poter sostare in aree attrezzate aperte a tutti, italiani e stranieri, che favoriscano l’incontro e lo scambio tra chi usufruisce dei servizi messi a disposizione, e non negli attuali campi nomadi, luoghi di controllo e discriminazione, espressione di marginalizzazione e rifiuto. Le famiglie che desiderano risiedere in modo permanente in città devono avere la possibilità di accedere ad un’abitazione. Il ventaglio a disposizione delle amministrazioni è notevole: percorsi di inserimento nell’Edilizia Residenziale Pubblica, di sostegno all’affitto privato, di legalizzazione e recupero dei campi informali, di microaree per gruppi familiari allargati, esperienze di autorecupero e di autocostruzione assistita su terreni edificabili, casali abbandonati, fabbriche dismesse, immobili sequestrati alla criminalità organizzata. Ad oggi, le politiche locali per i rom e i sinti sono ancora avvolte in una sorta di fatalismo diffuso. Trovare soluzioni alternative ai campi nomadi sembra impossibile. Molte proposte civili e ragionevoli vengono bocciate per timore delle reazioni dei residenti, senza pensare che la gestione e manutenzione dei campi, gli sgomberi periodici che coinvolgono le forze dell’ordine, la Polizia locale, gli operatori delle aziende sanitarie, costano molto di più rispetto ad altre politiche abitative, e soprattutto sono spese a fondo perduto, non investimenti. L’obiettivo è quello di aprire nuove strade per abitare con i Rom, superando la tipologia del campo nomadi insieme a loro. Occorre trovare progetti condivisi. Per le comunità zingare è fondamentale iniziare ad acquisire maggior peso politico a livello internazionale, nazionale e locale. La formazione culturale e quella professionale, oltre alla presa di coscienza della propria identità storico-culturale, aiuteranno queste comunità ad organizzarsi tra loro in modo costruttivo, in associazioni completamente autonome. La città di oggi, rappresentazione e articolazione della complessità sociale, non può esimersi dal ricomprendere al suo interno anche le differenze zingare relegate ancora ai confini della società. Oggi viviamo in un’epoca di grandi migrazioni,


in particolare di comunità in fuga dalla guerra e dalla povertà. I temi dell’incontro tra culture, della conoscenza e della convivenza diventano determinanti nell’amministrazione di una metropoli. Le richieste di diritti e i problemi di inserimento non possono più essere demandati alla sola sfera della carità e dell’assistenza. Occorrono politiche sociali e abitative efficaci che evitino la formazione di aree etnicamente connotate, separate da barriere religiose e culturali rintracciabili a livello spaziale, e di quartieri elitari isolati, chiusi nel loro sterile localismo. La nuova generazione urbana, al contrario, può godere di maggiori opportunità dovute proprio all’incontro di genti e culture differenti, la cui presenza può essere un’occasione per ripensare la città, i suoi modelli abitativi e le sue modalità di trasformazione, aprendo la strada ad una politica urbana più coraggiosa che superi il “ghetto” come unica rappresentazione spaziale delle differenze culturali.

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32 Via Germagnano, Strada dell’Aeroporto: Tavola di Piano.


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33 Via Germagnano, Strada dell’Aeroporto.


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34 Via Germagnano, Strada dell’Aeroporto.


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35 Via Germagnano, Strada dell’Aeroporto.


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36 Lungo Stura Lazio: Tavola di Piano.


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37 Lungo Stura Lazio.


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38 Lungo Stura Lazio.


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2003

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39 Lungo Stura Lazio.



Conclusioni L’urbanistica moderna si è costruita sulla questione della povertà. Dai primi report britannici, che denunciavano le condizioni della classe operaia nelle città della rivoluzione industriale, ai piani di risanamento degli slum e alle prime leggi sui requisiti minimi degli alloggi in affitto; dalle indagini sulla situazione sanitaria di Parigi all’apertura dei grands boulevards haussmaniani del Secondo Impero; dalla Garden City di Howard ai Siedlungen di Berlino, Francoforte, Colonia ed Amburgo; dall’istituzione degli Iacp1 italiani ai piani dell’Ina-Casa (1949-1963) e ai quartieri 167. Da una parte la città borghese, quella dei negozi eleganti e dei palazzi di rappresentanza, dall’altra la città operaia, quella dei quartieri malsani e priva di servizi. Due città lontane che l’urbanistica, forte della sua natura utopica, ha cercato di avvicinare ponendosi come obiettivo primario il risanamento del degrado associato alla povertà urbana. Una società completamente libera dalla povertà è pura utopia. Anche nei sistemi sociali più avanzati, caratterizzati da un diffuso livello di benessere, non sono del tutto assenti fenomeni e situazioni di povertà2. Deprivazione materiale che muta e si evolve nel tempo. Oggi l’Eurostat la definisce secondo i seguenti indicatori: non riuscire a sostenere spese impreviste; avere arretrati nei pagamenti di mutuo, affitto, bollette e altri debiti; non potersi permettere una settimana di ferie in un anno lontano da casa; un pasto proteico almeno ogni due giorni, il riscaldemento adeguato dell’abitazione; l’acquisto di una lavatrice; l’acquisto di una televisione a colori; il possesso di un telefono; il possesso di un’automobile. I cittadini europei che hanno difficoltà a soddisfare almeno quattro di queste forme di

Istituti Autonomi per le Case Popolari, istituiti in Italia nel 1903 con lo scopo di promuovere, realizzare e gestire l’edilizia pubblica. 2 Caritas, Povertà plurali. Rapporto 2015 sulla povertà e l’esclusione sociale. 1

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bisogno sono dichiarati in situazione di grave deprivazione materiale. Nel 2007 negli Stati Uniti è iniziata una grande recessione, che si è trasformata presto in crisi finanziaria ed economica mondiale. In particolare, i paesi occidentali dell’eurozona hanno visto crolli vertiginosi del PIL, l’allargamento del debito e la crisi delle finanze pubbliche. In Italia, prima della crisi la povertà assoluta era concentrata in modo significativo nelle regioni meridionali e riguardava una parte di popolazione con caratteristiche stabili e ben definite: persone anziane e famiglie con almeno tre figli ed entrambi i genitori esclusi dal mercato del lavoro, che nel 2007 rappresentavano circa il 3,1% della popolazione. Con la crisi finanziaria e le politiche derivate dalla spending review si sono aggravate le condizioni di chi già viveva in situazione di deprivazione materiale e nuove categorie sociali si sono ritrovate al di sotto della soglia di povertà. Il numero di persone in povertà assoluta è più che raddoppiato, passando da 1,8 a 4,1 milioni tra il 2007 e il 2014, colpendo in maniera molto pesante anche il Nord e il Centro. Le politiche di contrasto alla povertà non sono state capaci di adattarsi alle trasformazioni quantitative e qualitative del fenomeno. Anzi, gli anni della crisi sono stati anche gli anni dei tagli ai Fondi nazionali per le politiche sociali, che, nonostante il tentativo di risanamento degli anni successivi al 2012, hanno lasciato le risorse attuali a meno della metà del loro valore nel 20083. I temi della povertà e dell’esclusione sociale tornano oggi ad essere rilevanti, coinvolgendo nuove categorie di persone. Nel 2005 la Federazione Europea delle organizzazioni che lavorano con persone senza dimora ha sviluppato la classificazione ETHOS - European Typology of Homelessness and Housing Exclusion, una classificazione europea sull’esclusione abitativa e la condizione di persona senza dimora, che ha però esteso il concetto proprio di homelessness. La classificazione, infatti, si basa sull’oggettiva disponibilità, o meno, di un’abitazione e sulla tipologia dell’abitazione stessa. L’abitare diventa condizione necessaria e imprescindibile per l’inclusione sociale. Nella classificazione rientrano tutte le situa-

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Caritas, Dopo la crisi, costruire il welfare. Rapporto 2015. Le politiche contro la povertà in Italia.


zioni di disagio economico e sociale che comportano un disagio abitativo, quindi anche quelle di popolazioni rom, sinti e caminanti, comunità spesso emarginate e discriminate anche in relazione alla condizione abitativa. Nel modello di welfare italiano le reti familiari hanno storicamente rivestito un ruolo centrale. L’intervento statale è sempre stato visto come ultima soluzione, a cui ricorrere soltanto nel caso in cui il cittadino non disponga di adeguate risorse economiche e relazionali proprie. Il ruolo delle politiche pubbliche in materia di protezione sociale è stato sempre molto debole e fino ad oggi è mancata una misura nazionale di contrasto alla povertà, capace di garantire condizioni di vita dignitose alle persone in condizioni di povertà assoluta. Il quadro delle misure esistenti risulta estremamente frammentario, competenze nazionali, regionali e locali si sovrappongono in modo disarticolato. L’offerta dei servizi, i criteri con cui vengono individuati i beneficiari e la gestione degli interventi cambiano a livello regionale, e comunale. L’importanza di attori non pubblici, il Terzo Settore sociale, è cresciuta, e benché il noto welfare mix sia un fenomeno europeo, in Italia cooperative sociali, organizzazioni di volontariato e imprese sociali sono andate sempre di più a sostituirsi al servizio pubblico esistente. I Comuni, a cui dal 1998 sono affidate le funzioni ed i compiti amministrativi relativi ai servizi sociali, si vedono costretti a sviluppare strategie diverse per fronteggiare la difficile situazione, ridefininendo la propria struttura, e funzione, e cercando forme alternative di finanziamento. Tra tutti i Comuni italiani, Torino presenta delle peculiarità che l’hanno sempre contraddistinta, a livello urbano e sociale, e che ne fanno oggi un terreno fertile alla sperimentazione. Dal piano regolatore di Rigotti del 1959, ideato per adeguare la struttura urbana della capitale sabauda alle esigenze delle industrie fulcro della società dell’epoca, alla proposta di piano del 1980 che intendeva rispondere ai fabbisogni sociali (servizi sociali di qualità, riduzione del costo delle abitazioni, elevamento delle condizioni di vita delle periferie, redistribuzione dei grandi servizi, potenziamento del trasporto pubblico) di una popolazione che

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aveva raggiunto oltre un milione di abitanti. Dal nuovo piano regolatore della Gregotti Associati, che ha festeggiato nel 2015 i vent’anni dall’approvazione, che testimonia le visioni strategiche dei singoli e dei gruppi che hanno diretto la politica urbana della metropoli in una realtà ormai guidata dal mercato e dalla competizione, ai Programmi Urbani Complessi (PUC), promossi per migliorare la qualità della vita in aree urbane critiche in un’ottica trasversale, superando i limiti attuativi dello stesso PRG. Attiva anche dal punto di vista sociale, l’Amministrazione torinese collabora oggi con oltre 700 soggetti del terzo settore tra cooperative, associazioni di promozione sociale, fondazioni, associazioni di volontariato. Ha una rete ben distribuita di centri di accoglienza notturna, mense, bagni pubblici e ambulatori. Il sistema di welfare di Torino esprime livelli di offerta superiori alle medie nazionali [...] una delle poche città d’Italia che, nonostante la situazione di particolare criticità e le minori risorse di cui oggi dispongono gli enti locali, non solo ha difeso e mantenuto il sostegno e l’assistenza a adulti, famiglie e bambini in difficoltà, anziani e persone disabili, ma ha rafforzato un robusto sistema integrato fondato sulla sussidiarietà circolare tra sistema pubblico, mondo economico e società civile, in grado di offrire ogni anno oltre 500 tipologie di risposte sociali e sociosanitarie”4. Un fenomeno, quello della povertà, troppo a lungo sottovalutato in termini di risposte istituzionali nazionali, che si stanno attivando soltanto in questi ultimi tempi, almeno per quanto riguarda il fenomeno dei senza dimora. La Caritas, uno dei maggiori soggetti che possono contribuire a stimolare la sensibilità politica al tema, a seguito della soppressione della Commissione di indagine sull’esclusione sociale per via della spending review, ha pubblicato nel 2015 la prima indagine dedicata esclusivamente alla valutazione delle politiche di contrasto alla povertà in Italia. Il 5 novembre 2015 Governo, Regioni, Province Autonome e Autonomie locali hanno sottoscritto le Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Lorenzo Bandera, Fassino: ora puntiamo a un vero sistema integrato per rafforzare il welfare della città, 15 Giugno 2016, intervista disponibile all’indirizzo www.secondowelfare.it, consultato il 22 Giugno 2016 4


Grave Emarginazione Adulta in Italia, frutto del gruppo di lavoro coordinato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Direzione Generale per l’Inclusione e le Politiche Sociali, che si è avvalso della collaborazione della Segreteria Tecnica della fio.PSD. La volontà è quella di promuovere e sostenere la diffusione a livello nazionale di politiche abitative innovative in grado di riconoscere alle persone senza dimora il diritto alla casa. La Legge di Stabilità 2016, infine, ha dato il via alla definizione di una misura nazionale e strutturale di contrasto alla povertà, iscrivendo stabilmente, e per la prima volta, i finanziamenti destinati a questo settore fra gli interventi di finanza pubblica. Il 28 Gennaio 2016 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge delega riguardante le norme relative al contrasto alla povertà e al riordino del sistema degli interventi e dei servizi sociali. In questo contesto, Torino ha aderito a diverse sperimentazioni, in primis i progetti Abi.TO e Res.TO. La particolarità della sperimentazione italiana di housing first è che si distribuisce sull’intero territorio nazionale. I singoli progetti sono quindi statisticamente poco rilevanti se si guarda alle singole città, ma assumono una certa importanza su scala nazionale. Il nuovo approccio può diventare significativo a livello urbano se si ragiona sulla distribuzione delle abitazioni scelte. La logica dell’housing first vuole che siano i beneficiari stessi ad indicare il luogo e scegliere l’abitazione. Luoghi spesso coerenti con il percorso che hanno fatto, luoghi per loro significativi, dove hanno magari una rete già consolidata di relazioni, ma che possono non corrispondere ai luoghi classici della fragilità. Torino dispone di un parco abitativo di una certa rilevanza, tuttavia, la sperimentazione aveva scadenze rigide, la difficoltà di reperire appartamenti in tempi brevi ha impedito di trovare una sistemazione in luoghi particolarmente significativi per i soggetti coinvolti, non sempre è stato possibile andare incontro alle loro richieste, molto è dipeso dalla disponibilità di abitazioni del mercato privato e dalla disponibilità dei proprietari ad affittare a persone senza dimora. I risultati della valutazione delle sperimentazioni saranno pubblicati a fine 2016. Guardando ai risvolti positivi già ottenuti a livello internazionale, sarebbe auspicabile che la sperimentazione housing first crescesse anche nel nostro paese. Tuttavia, non essendoci in Italia il reddito di cittadinanza, ad oggi è difficile pensare che

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questo nuovo approccio possa avere lo stesso successo che ha ottenuto in altri contesti internazionali. Si potrebbe immaginare, però, di declinare il modello in modo specifico per il caso italiano. Serve sicuramente un’ulteriore maturazione a livello culturale e politico, che non consideri l’accesso alla casa un’esclusiva delle famiglie e che sia capace di investire sì sui servizi di prima accoglienza, ma parallelamente anche su nuove forme e tipologie di servizio. Grande incertezza emerge invece riguardo alla questione dei campi rom. Il 19 Ottobre 2015 a Torino è stato definitivamente sgomberato il campo nomadi abusivo di Lungo Stura Lazio. Lo sgombero, inizato nel 2013, è stato accompagnato dal progetto “La Città Possibile”, che ha coinvolto 633 persone, di cui 255 assistite nel rimpatrio in Romania, 378 in Italia. Di queste ultime, 71 persone hanno rifiutato o interrotto il patto di emersione, mentre i restanti 79 nuclei familiari sono stati ricollocati secondo diverse soluzioni abitative: 22 in abitazioni ordinarie, 17 in housing temporaneo, 9 in situazioni abitative di accompagnamento all’autonomia, 31 in contesti abitativi sostenibili. Alcune soluzioni sono state ripensate per mancanza di disponibilità a fronte della conoscenza dell’utenza o per via dell’opposizione degli abitanti della zona. C’è chi si domanda se sia stato un vero intervento di inclusione sociale e a quale futuro andranno incontro i percorsi di integrazione avviati. Molti rom si sono semplicemente spostati nel campo abusivo di via Germagnano5. La politica amministrativa dei “campi nomadi” si è trasformata negli anni in presupposto e causa di esclusione spaziale e sociale, a Torino come in altre grandi aree metropolitane quali Roma, Milano e Napoli, dove popolazioni rom e sinte vivono accanto ad altre marginalità. Le risposte istituzionali, di natura emergenziale, non sono in grado di produrre effetti sul lungo periodo, e risultano dispendiose e inefficaci anche a livello di coesione sociale. Le politiche sull’inclusione invece devono configurarsi come una scommessa. L’integrazione sociale ed economica dei rom richiede un cambiamento di mentalità, a livello di popolazione maggioritaria, a livello istituzionale e mediatico, a

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Comunicato stampa disponibile all’indirizzo www.comune.torino.it, consultato il 24 Giugno 2016.


livello dei membri delle comunità rom, che iniziano a rappresentare in Italia una significativa porzione di popolazione in età scolastica e quindi possibile futura forza lavoro. Le politiche locali, insieme a quelle nazionali, devono affrontare il problema dell’integrazione dei rom in modo chiaro con misure dirette, esplicite e specifiche, individuando innanzitutto un ampio ventaglio di soluzioni abitative che coivolgano anche altri Comuni, e siano distribuite il più possibile in modo da evitare qualsiasi segregazionismo spaziale e urbano. Il processo di uscita dal campo, di ricollocamento e integrazione dev’essere guidato da criteri sociali e non etnici, anche se le esperienze di successo rappresentano ancora una realtà non sistematica e difficile da sostenere a livello politico ed economico. La percezione di Torino da parte degli investitori immobiliari negli ultimi anni è indubbiamente cresciuta. Bisogna chiedersi, invece, se sia aumentata anche la percezione dei cittadini in termini di qualità urbana, di quantità e qualità dei servizi offerti. Il modello urbanistico di Torino si è forse nutrito troppo del mito della crescita irrefrenabile, lasciandosi affascinare da progetti fuori scala, a livello quantitativo ed economico. Occorre una rivisitazione delle politiche urbane al fine di introdurre programmi di governo capaci di affrontare ad una scala più controllabile le nuove tematiche poste dall’ambiente costruito. Bisogna tornare ad aprire delle questioni fondamentali per le politiche urbane nello sviluppo di progetti contro la vulnerabilità sociale a sostegno del diritto alla casa e alla sicurezza, nel binomio tra politiche aggregate e pulviscolari, nella ricerca di luoghi che possano rappresentare una risorsa per le politiche di contrasto alla povertà. Se l’urbanistica ha ancora un qualche ruolo nella società contemporanea, se attraverso il progetto urbano si costruisce un orizzonte di riferimento in grado di orientare le scelte e i processi che sfuggono al controllo pubblico, allora questa diciplina deve tornare ad occuparsi di povertà, affrontando i temi della marginalità spaziale e dell’esclusione sociale nelle nuove forme in cui si manifestano. La tesi ha ragionato sulla commistione incerta tra politiche urbanistiche e povertà, presentando temi e questioni attuali che accendono il dibattito politico e sociale di questi tempi e che non possono lasciare indifferente quello urbanistico.

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Ringraziamenti Un ringraziamento particolare alla Prof.ssa Cristina Bianchetti, che per me rappresenta l’ideale di docente universitario, competente, appassionato del suo lavoro e disponibile nei confronti degli studenti. Grazie al suo aiuto, sempre attento e puntuale, e ai suoi preziosi suggerimenti, lavorare alla tesi è stato semplice e stimolante. Grazie al Prof. Cristian Campagnaro per la disponibilitĂ e per le informazioni fornite riguardo ai progetti di Housing first e a tutte le persone che a vario titolo mi hanno aiutata con consigli e indicazioni. Grazie ai miei genitori, a mia sorella e a tutti gli amici con cui ho condiviso questi anni di studio.

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