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oltre la crisi biella



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tesi di laurea magistrale in Architettura, Costruzione, Città Politecnico di Torino a.a. 2013-2014 candidato: Michele Cerruti But relatore: Cristina Bianchetti Professore ordinario di Urbanistica Politecnico di Torino

correlatore: Luca Ortelli

Responsable du Laboratoire de Construction et Conservation (LCC) Vice-Directeur du Programme doctoral Architecture et Sciences de la ville (EDAR) Directeur de l’Institut d’architecture et de la ville (IA) École Polytechnique Fédérale de Lausanne


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indice Abstract

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Territori nella crisi La ricerca Una nuova complessità (Cristina Bianchetti) Questo lavoro | This work Il caso Biella Rappresentazioni Vicende Forme dell’abitare

12 13 14 18 20 21 24 34

Prima parte

1 Quattro Sezioni territoriali Valle Cervo: invecchiamento e virgulti Biella-Cossato: frantumazioni e riallacciamenti Strada Trossi: nuove centralità e abbandono Vallemosso: il fiume disabitato

48 54 74 92 110

Seconda parte

1 Flessibilità complessa Dalla crisi alla complessità Un’uscita moderna. Palinsesto e patrimonio Un’uscita intellettuale. Il progetto è conoscenza Flessibilità orizzontale. Un modello concettuale 2 Progettare la complessità Valle Cervo: cluster e progetto di territorio Biella-Cossato: strada-mercato e progetto di paesaggio Strada Trossi: centralità e progetto urbano Vallemosso: vuoti e condizioni del progetto 3 In luogo di conclusione

130 133 135 137 138 144 148 162

Bibliografia Crediti Ringraziamenti

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Introduzione

Letture

Scritture

174 188 202

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Abstract Oltre la crisi | Biella (Beyond crisis |Biella) focuses on crisis implications on space and planning. The case study is the Wool Industrial District of Biella, which is best known for its high quality wool production as well as it is the cradle of Italian Industrial Revolution. Biella is also actually the cell of the Economic Model based on Industrial Districts which was the most relevant development model in ‘80s and ‘90s in Italy. These are the reasons why Biella could be the chance of studying contemporary Italian situation. The working hypothesis is that crisis would have changed the relations between society, economy and territory, which used to constitute a real paradigm since a decade ago. We suppose that this change is visible and could be described from the point of view of space, which is the one pertaining architecture and urbanism. Adopting an ab-ductive/pragmatist approach we describe Biella looking for change symptoms and we suppose that the most relevant transformation of space lies in a radical new territorial complexity (actors, relations, hierarchies, overlapping, dynamics). Hereafter we reflect on planning and design practice as it is supposed to be the main architects tool for coping with issues and we hypothesize flexibility as answer to complexity since flexibility is defined as enabling the future. The Hippodamus horizontality grid seems to grant flexibility more in terms of metaphor than of morphology and we try to adopt it as a guide for planning dealing with the main Biella issues. The ambition is not yet a full plan but a metanarrative survey which reflects on planning horizontal territories. Conclusions focus on further steps and open issues, mainly regarding three fields: (1) epistemology, (2) semiotics, (3) planning. (1) Because of the changed background conditions and inadequacy of the past one, architecture and urbanism require a renewed reflection on their specific research method, boundaries, goals and tools. (2) Contemporary world seems to face a kind of “new urban middle age” where surplus of culture, buildings, inequality, rust, dross, ruins… constitute a new reality whom we are not able anymore to give meaning to. This not significant world demands to be deeply studied in its implication on Aesthetics and Planning. (3) Nowadays trends radically change the meaning of “well-being” regarding living, privacy, public space. Planning is supposed to take it into consideration exploring new paradigms as well as dealing with the emerging role of social effervescences. The Introduction is about the main representations of Biella, an historical survey, a sociological analysis of contemporary way of living, a description of trends. Letture (Readings) describes Biella through four territorial sections. Each of them is presented through a geographical description, an analysis of crisis implications, an interpretation of the main issues. Tools of the inquiry are: photography, mapping, data collecting, drawing, writing. First part ends sharping the concept of “crisis” and focusing on a relevant issue: which is the new kind of territorial complexity? Scritture (Writings) describes Biella from the planning point of view. If crisis generates a more complex and dense territory, planning theory needs to get deepened. The “Horizontal city” metaphor is frequently given as the answer to XX Century main issues. We re-discuss here this metaphor through the four sections for proving its relevance, failure, re-tooling.

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“mah.. io mi domando, perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?” - Pier Paolo Pasolini, Decameron

There wasn’t any limit, no boundary at all, to the future. And it would be so a man wouldn’t have room to store his happiness. - John Steinbeck, East of Eden

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introduzione

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Territori nella crisi La ricerca

la crisi che ha coinvolto parte del mondo occidentale incide fortemente sui territori europei; il cambiamento è radicale.

le topografie disegnate poco meno di un decennio fa vacillano, la letteratura stessa non è più attuale.

La tesi nasce in seno a Territories in crisis, da cui prende le mosse e che rappresenta non solo lo sfondo ma il vero riferimento intellettuale del dibattito che viene qui posto. Territories in crisis è il titolo della ricerca guidata da Cristina Bianchetti sul riattrezzarsi di architettura e urbanistica a fronte del mutare delle logiche economiche, sociali e istituzionali e che si sviluppa attraverso una collaborazione tra Politecnico di Torino e Ecole Polytechnique Fédérale de Lausanne: “la crisi che ha coinvolto parte del mondo occidentale incide fortemente sui territori europei; il cambiamento è radicale, alcuni sostengono, di intensità pari a quello del boom economico. Le forme nelle quali questo cambiamento territoriale si palesa sono nette. L’esperienza della crescita non può essere più considerata scontata nei paesi a sviluppo maturo, né in forma compatta, né in forma dispersa. Si sta indebolendo rapidamente l’infrastruttura territoriale fatta di nuclei urbani, piattaforme produttive e reti che è la principale risorsa europea e costruisce la differenza con i paesi in rapido sviluppo. Cambia la dotazione di capitale fisso sociale incorporato nel territorio. Sono in atto processi di dismissione estrema, sostituzione di vecchie attrezzature del welfare, emergenza di economie minute e puntuali, riorganizzazioni sociali attorno a forme e culture dell’abitare inedite. Le topografie disegnate poco meno di un decennio fa vacillano, la letteratura stessa che durante gli ultimi dieci anni le ha supportate sembra riferirsi a sfondi sociali, economici e culturali non più attuali”. La ricerca si è svolta a partire dal Novembre 2013 promossa dalla Compagnia San Paolo e si compone di un percorso lungo un anno attraversato da momenti seminariali, workshop, ricerche bibliografiche, ricerche su casi studio, masterclass. I risultati e gli avanzamenti sono per ora raccolti nel blog Territori della Condivisione. http://territoridellacondivisione.wordpress.com/category/i-research/territories-in-crisis/

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Una nuova complessità* Cristina Bianchetti

Siamo soliti ritenere di poter condividere alcuni concetti perché funzionano come concetti interpretativi. Ovvero perché condividiamo in larga massima, un giudizio sulle pratiche sociali e le esperienze in cui essi figurano. La difficoltà di una riflessione sulla città europea contemporanea può essere ricondotta alla rottura dei nessi tra concetti ed esperienze. Una rottura che implica la necessità di tornare ad osservare non solo alcuni luoghi, ma anche alcune nozioni, interrogandosi su come esse si cristallizzano in più situazioni, in più momenti, mobilitando attori diversi. Come prendono forma entro alcune situazioni. Assumendo cioè che la loro ridefinizione sia un problema pratico. Ci è sembrato importante tornare ad osservare l’Europa, nella convinzione che ci sia oggi una più evidente specificità della città europea; che questa si esprima in un sistema di questioni vasto, ma non illimitato; che richieda nozioni, strumenti e progetti adeguati. Abbiamo pertanto proceduto osservando situazioni territoriali specifiche con gli strumenti delle nostre discipline. Ne abbiamo osservate dapprima undici. Poi altre tredici. Senza la pretesa di disegnare nuovi sfondi, produrre descrizioni esaustive, costruire cataloghi di casi esemplari. Sono situazioni ordinarie di territori urbani, montani, agricoli, in uso o che faticano ad essere ancora utilizzati entro i più consueti paradigmi economici. Individuati perché ad un primo sguardo parevano svelare qualche aspetto di interesse attorno al mutare di norme, diritti, valori. Osservata entro questo punto di vista (pragmatico e non perfezionista), la città europea ci appare essenzialmente un caleidoscopio mutevole. Uno sfondo altamente complesso. Si potrebbe obiettare che la città è, per definizione, un caleidoscopio mutevole e che in passato vi sono stati altri momenti in cui è parsa uno sfondo altamente complesso. E’ tuttavia nel medio periodo che la complessità appare con un’evidenza eccezionale. In altri termini, oggi appare molto chiaro il salto radicale e definitivo con le forme dell’urbanizzazione e dell’abitare degli ultimi decenni del Novecento. E’ dunque entro questa prospettiva (degli ultimi venti, trenta anni) che dobbiamo porci, se vogliamo argomentare la nuova complessità e provare a guardare in avanti. Un dibattito attorno ad un’Agenda urbana deve, a nostro giudizio, partire da questa complessità: dalla rottura tra concetti ed esperienze. Detto in altri termini, la città europea squassata dalla crisi appare oggi più complessa che negli sche-

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la difficoltà di una riflessione sulla città europea contemporanea può essere ricondotta alla rottura dei nessi tra concetti ed esperienze.

la città europea ci appare essenzialmente un caleidoscopio mutevole.

* estratto dell’intervento presentato al convegno “Un Agenda Urbana per l’Italia”, Gran Sasso Science Institute, L’Aquila, 28/29 maggio 2014


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mi descrittivi, interpretativi, concettuali e operativi, messi a punto negli anni Novanta. Questo scarto pone un problema importante per la comprensione e la progettazione di adeguate politiche. Il rischio, evidente, è usare armi spuntate. La sfida dunque è tornare su nozioni che per la loro densità risultano quasi intrattabili. Ma che nondimeno hanno costruito, declinandosi e intrecciandosi in vari modi, il campo del progetto e delle politiche urbane. Indichiamo di seguito qualche spunto all’interno di questo percorso. Si tratta di schegge di un ragionamento sostenuto dalle situazioni indagate, cui è demandato il compito di rendere evidenti le forme, anche contraddittorie, di quella che abbiamo chiamato una nuova complessità della città europea. (...)

Questioni di progetto e di politiche

la crisi nelle sue diverse forme non segna i territori univocamente di un segno meno.

La non univocità della nozione di patrimonio; i nuovi meccanismi di protezione sociale; il mutamento di statuto dello spazio pubblico; le forme di colonizzazione legate all’abitare; il ridefinirsi di valori economici, simbolici, relazionali che si separano dai beni e dallo spazio (vero incipit di molte delle storie della crisi di questi anni) costruiscono la nuova complessità della città europea. Non si afferma nulla di originale sostenendo che si tratta di questioni cruciali per il progetto urbanistico e per politiche che vogliano costruirsi su un’interpretazione non riduttiva delle modalità di sviluppo e organizzazione della città e del territorio, superando quella distanza tra concetti ed esperienze di cui abbiamo detto. Nella ricerca Territori nella crisi abbiamo tentativamente e nei limiti strutturali del lavoro, messo alla prova concetti, ipotesi, problemi pubblici, politiche. Senza partire da una definizione a priori di cosa fosse patrimonio, suolo produttivo, spazio pubblico, spazio del welfare. Ma vedendo come queste nozioni si ridefiniscono (implicitamente e “per pezzi”) nelle singole situazioni che abbiamo indagato. Non abbiamo ovviamente esiti chiusi su un tema di tale ampiezza e articolazione. Ma possiamo dire che comunque si volga l’attenzione, è evidente una densità (di forme, di norme, di usi e di poteri) che lo spazio ha mantenuto e accentuato sotto il convergere di crisi di diversa natura, negli stessi anni. Le situazioni che abbiamo indagato ci permettono di avanzare un’ipotesi quasi banale, ma che ci pare non sempre tenuta in dovuto conto: la crisi nelle sue diverse forme, non segna i territori univocamente di un segno meno. Il più delle volte depotenzia legami, economie, interazioni, ma qualche volta contribuisce ad attivare meccanismi di presa in cura,

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costruisce grumi di potenzialità, rimescola aspetti cui si attribuisce valore, ridefinisce conflitti. Cambia le carte e i giochi. Nessuna cinica esaltazione delle difficoltà, come è stato fatto troppo spesso lungo il Novecento, entro le nostre discipline. Ma uno sguardo attento all’ispessirsi del territorio a seguito di crisi che hanno manifestazioni e origini differenti (mutamento dei rapporti tra capitale e lavoro; cadute tendenziali del saggio di profitto; restrizione dei meccanismi di redistribuzione del prodotto; irrigidirsi del rapporto tra economia e risorse; invecchiamento della popolazione; crescita di diseguaglianze; crisi democratica, quelle richiamate più frequentemente). Manifestazioni e origini differenti che, in questa fase, sembrano sommare la propria forza. La metafora della desertificazione, dell’abbandono, dello svuotamento racconta solo parte della storia, come ci è parso evidente avvicinandoci alla più grande friche d’Europa, ad Aubervilliers a nord di Parigi, o ricostruendo storie minute, individuali, di luoghi e persone nei distretti italiani di Biella o di Sassuolo. Utilizziamo questa idea della densità che si ispessisce sotto i colpi delle crisi (in modo forse non del tutto intuitivo), per indicare il moltiplicarsi di prerogative, diritti, immunità che segue la perdita del carattere universale dei sistemi di protezione. Il moltiplicarsi di norme, codici, protocolli che definisce l’abitare contemporaneo. L’articolazione conflittuale dei valori che segnano spazi pubblici e privati. A valle di questo ispessimento appare con più chiarezza una nuova complessità. E la definitiva lontananza dalla città del Novecento. Il diverso spessore cambia il progetto. La densità si rappresentano in modo preciso nello spazio. Meglio, attraverso lo spazio. Prerogative, diritti, immunità, valori, codici, protocolli, norme costruiscono un territorio diverso. Rimescolano aspetti che riguardano distanze, prossimità, impermeabilità, porosità, accessibilità, nuove continuità o il loro spezzarsi. Riproponendo tutti i temi che concernono la flessibilità o la gerarchia. L’intimité e l’extimité. Un’intera stagione del progetto sta esplorando questi nuovi caratteri spaziali. Procedendo con descrizioni «foglia per foglia», direbbe Henri Gheon; con la costruzione di mappe cui sono demandate indagini che vogliono innanzitutto rendere discutibili nuovi problemi; con esplorazioni di soluzioni possibili o della forza operativa (non solo concettuale), di vecchie e nuove figure retoriche. E’ una stagione del progetto interessante della quale sarebbe molto utile ricostruire nuove letture critiche (anche per mettere alla prova l’impressione che vengano utilizzati strumenti e linguaggi di un sapere tecnico transitato, forse un po’ troppo in fretta, dagli anni Novanta).

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Utilizziamo questa idea della densità che si ispessisce sotto i colpi delle crisi per indicare il moltiplicarsi di diritti, che segue la perdita del carattere universale dei sistemi di protezione. Il moltiplicarsi di norme, che definisce l’abitare contemporaneo. L’articolazione conflittuale dei valori che segnano spazi pubblici e privati.


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a valle di questo ispessimento appare con più chiarezza una nuova complessità.

la definitiva lontananza dalla città del Novecento.

Il diverso spessore cambia le politiche. La densità della nozione di spazio è ciò che le politiche urbane hanno spesso sottovalutato. Almeno le politiche sulla programmazione complessa. Giocando con le parole, potremmo dire che raramente queste ultime si sono confrontate con la complessità, almeno nel modo in cui è qui intesa. Accontentandosi di evocare corto-circuiti un po’ astratti tra questioni importanti: lotta alla povertà, riduzione delle diseguaglianze, mixité, integrazione, solidarietà. Buoni principi per tutti o quasi, gli usi. Con poca attenzione ad alcuni errori che ormai sono sotto gli occhi di tutti: l’insistenza sulla crescita edilizia delle politiche urbane (in particolare nel nostro paese) e le sue ripercussioni sul territorio; il legame con il gettito tributario locale, sorta di ricatto per le amministrazioni; la scarsa attenzione ai supporti (infrastrutturali, ma non solo). Una riflessione sul modo in cui si ripresentano diritti, norme, valori nella città contemporanea forse può aiutare uno strumento pragmatico quale è un’Agenda urbana, ad operare le necessarie selezioni per la costruzione di strategie, meccanismi o politiche spaziali che abbiano l’ambizione di far corrispondere forme d’azione e obiettivi emancipativi. Certo non è semplice: le connotazioni programmatiche e normative proprie di un’agenda e la sostanza interpretativa (assai più opaca e frammentaria) di molte indagini territoriali non stanno esattamene sullo stesso piano. Non si riversano le une nelle altre meccanicamente (come pretendono di fare i dettati prescrittivi che indicano ciò che l’Agenda deve comprendere). Né si implicano di necessità. Richiedono un fitto tessuto di mediazioni linguistiche, concetti quasi allegorici, brogliacci che sappiano fare i conti con un’idea di territorio come snodo problematico di forme, usi, poteri. Con residui di indecifrabilità e opacità. Certo non è semplice, ma potrebbe eventualmente aiutare a far fronte al rischio che l’Agenda frani in un serbatoio indifferenziato, capace di contenere tutto: quadro di riferimento per le politiche urbane che, volendo essere organico, estensivo e comprensivo, finisce con rincorrere modelli più o meno aggiornati che fanno dello spazio un bene astratto, ne consumano velocemente le dimensioni simboliche, giuridiche, normative. L’utilità di un lavoro interpretativo è dunque da ribadire, entro un’accezione non riduttiva di quelle che Ota de Leonardis (2009) chiama «le basi informative» delle politiche che non sono dati, ma giudizi su cosa è pertinente e cosa no, cosa è rilevante (per chi) e cosa lo è meno, quali descrizioni paiono consunte, quali, semplicemente sbagliate.

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Questo lavoro Oggetto di questa ricerca sono le implicazioni spaziali della crisi nel distretto di Biella e gli indizi che esse offrono alla pratica progettuale. L’ipotesi di partenza è che la crisi abbia generato qui un diverso funzionamento spaziale, mettendo in gioco le variabili società, economia, territorio e costruendo un diverso paradigma.

le implicazioni spaziali della crisi nel distretto di Biella e gli indizi che esse offrono alla pratica progettuale

L’Introduzione vuole restituire Biella attraverso le molte rappresentazioni di cui è stata oggetto nel tempo, un breve quadro delle vicende storiche, un’analisi di stampo sociale sulle forme dell’abitare contemporaneo. Letture descrive Biella attraverso quattro sezioni territoriali. Ciascuna è raccontata attraverso una descrizione del territorio, un’osservazione delle implicazioni che la crisi ha generato, una lettura delle questioni che pone. Si utilizzano analisi fotografiche, mappe, raccolte di dati, disegni, schizzi, testi. La prima parte si conclude con la messa a fuoco del concetto di “crisi” e la proposizione della questione più rilevante. Scritture racconta Biella dal punto di vista del progetto. Se la crisi ha generato un territorio più denso è necessario riflettere sulla teoria del progetto che quella nuova complessità richiede. La metafora della “città orizzontale”, presente in tutto il Novecento e nella contemporaneità e identificata spesso come “risposta”, viene ridiscussa nel caso di Biella, attraverso le sue quattro sezioni, per comprenderne la portata, il fallimento, la ricostruzione. Entrambe le parti assumono il progetto come forma della conoscenza presentandone la doppia valenza descrittiva e assertiva. Se da un lato il progetto è conoscenza perchè svela il territorio, dall’altro lato esso è conoscenza perchè mette in luce i modi di una possibile condizione futura, lavora sulle abrasioni, fratture, vivacità, effervescenze rendendole palesi e trasformandole in materiali di progetto.

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Biella

Athens

Helsinki

Sassuolo

Roma

Bellavista, Ivrea

Mirafiori Sud, Torino

Genova

Valle di Susa

Bruxelles Les Grottes, GenĂŠve Val Maira

Antwerp

Brabanstadt, Holland

Can Battlò, Barcelona

Aubervilliers, Paris

London

Madrid

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Il caso Biella Rappresentazioni

tutto è partito da Biella

Qualche eroe da ricordare c’è dappertutto. Anche senza riempirsi la casa di statuette dei Mani, è piuttosto chiaro che la Rivoluzione Industriale Italiana abbia i suoi eroi a Biella e che, a Biella, il più grande eroe sia Pietro Sella. Una specie di intellettuale-operaio, quasi filosofo e avvezzo al viaggio, che nel 1816 contrabbanda due manciate di macchine tessili dal Belgio e cambia il modo di far la lana e di far l’industria. Il resto è tutto un rincorrersi di famiglie, di imprenditori, di statisti, di operai, di commercianti, di meccanici, di preti. Quel che conta è che tutto è partito da Biella, da più parti raccontata come uno dei più importanti distretti industriali italiani. C’è da dire che, in tempo di crisi, i distretti industriali sono un argomento fuorviante, anacronistico e ingenuo. Non si sbaglia poi molto se si dice che questa “rappresentazione”1 – quella del distretto, appunto – è stata in Italia una vera rivoluzione: non solo nella comprensione dello spazio ma anche nell’attuazione di politiche.2 Ciò detto, dismessa la 1 È tutto sommato recente il dibattito sulla rappresentazione. Si sono affermate, soprattutto in parte del mondo anglosassone, alcune riflessioni in termini di “teorie non rappresentative” (THRIFT 2008), tese a superare le statiche visioni ereditate da precedenti interpretazioni degli stessi fatti e impegnate in una drastica rivoluzione dell’osservazione. L’oggetto diventano le pratiche, gli affetti, il quotidiano. La Non-representational Theory, tuttavia, non ostante l’innegabile fascino che conserva, ci pare ancora acerba nel suo mostrarsi come “strumento dell’indagine”. Abbiamo maturato un certo pragmatismo, nella ricerca, sicché la conoscenza si dà per l’azione prima d’ogni altra cosa (DEWEY 1949). Ciò detto, non verranno annichilite le osservazioni di pratiche e di quotidiano, ma ci pare più convincente, anche per le affermazioni che seguiranno, costringerle entro un quadro più ampio, guida per il progetto, ove convivano rappresentazioni e interpretazioni. Secondo il riferimento a un più attraversato studio, “percorsi” e “mappe” non sono disgiunti (DE CERTEAU 1990: 179ss.): si ritiene peraltro che il dibattito impostato dalla Non-representational Theory provenga proprio da questi studi e se ne possa ivi riconoscere una paternità. 2 L’evoluzione del pensiero sui distretti industriali come cellula minima dell’economia italiana nasce grazie agli importanti studi di Giacomo Becattini (BECATTINI 1987). Quell’originaria scuola cresce secondo direzioni non sempre consonanti ma che, certamente, convergono nell’affermare la relazione stretta tra economia e territorio. Se da una parte vi sono le aperture internazionali (BECATTINI et al, a cura di, 2009, RULLANI 2006), infatti, dall’altra vi sono le letture dei microcosmi italiani fatte da Aldo Bonomi (BONOMI 1997 e 2013). E, ancora, la loro traduzione in politiche (BARCA 2010, TRIGILIA 2005). L’evoluzione di questo pensiero comprende anche abbondanti studi che tentano di applicare questo modello a contesti non italiani (CROUCH, LE GALES, TRIGILIA, VOELZKOW 2001) e, ancora, a studi che confrontano la dizione “distretto industriale” con una ricca terminologia che, a livello internazionale, vede il nesso tra economia e territorio come la chiave del racconto geografico (MOULAERT, SEKIA 2003).

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presunzione disincantata di chi si dilettasse amabilmente a tirar fuori letture inedite di fenomeni stratificati, siamo scomodamente intenti a indagare un oggetto con alle spalle una mastodontica e ineludibile storia degli effetti.3 Inutile dire, dunque, che parlare di “distretti” non è da scemi. Giacché “la soggettività è solo uno specchio frammentario” (GADAMER 1983: 325), più che elargire facili (?!?) narrazioni autoincensanti, siam più candidamente adagiati sulla convinzione per cui sia possibile “introdurre un’istanza critica qualsiasi in una coscienza di appartenenza espressamente definita dal rifiuto della distanziazione (…) solo nella misura in cui la coscienza storica non si limita a ripudiare la distanza, bensì si sforza di appropriarsene” (RICOEUR 1977: 50). La peculiarità del concetto di distretto è l’interdipendenza tra economia, territorio e società (BECATTINI 1987). Questo pensiero introduce un vero paradigma in cui ciascun elemento (economia, società, territorio) ha implicazioni virtuose nei confronti degli altri. Si enuncia un meccanismo di funzionamento spaziale attraverso cui è stata raccontata la storia economica italiana a partire dagli anni ’80 (BECATTINI 1998).4 È proprio questa lunga tradizione di studi che individua Biella come uno dei più antichi distretti industriali italiani. Ecco perché non possiamo tralasciare di parlarne pure in termini di distretto.5 Riteniamo tuttavia fuorviante occuparsi della questione in termini teorici. Da architetto e urbanista, non sembra sensato discuterne il valore interpretativo e neppure proporre teorie alternative. Son competen-

3 Rispetto all’espressione ‘coscienza della storia degli effetti’ (Wirkungsgeschichtiches Bewunsstsein), Gadamer dice: “intendo anzitutto esprimere che non possiamo sottrarci al divenire storico e distanziarci da esso affinché il passato risulti per noi un oggetto (…) Ci troviamo sempre immersi nella storia (…) La nostra coscienza è determinata da un divenire storico reale: ad essa manca così la libertà di porsi di fronte al passato. Intendo però anche dire che si tratta sempre di prendere nuovamente coscienza dell’azione che si esercita su di noi, in maniera che, quando esperimentiamo il passato, questi ci costringa a farci carico dell’azione, ad assumere in qualche modo la sua verità” (GADAMER 1973). 4 Il bel lavoro di Cristiana Mattioli riflette sul concetto di “distretto produttivo” nei termini di “trasmigrazione concettuale”. A partire dalla concettualizzazione italiana per cui il “distretto” è “multidisciplinare ed empirico” (BECATTINI 2000), passando per il “cluster” di PORTER (1989), fino alle nuove concettualizzazioni di “post-distretto” (CARBONI 2012), di “meta-distretto” (BONOMI, ABRUZZESE 2004), di “dis-largo” (MARINI, 2012), Mattioli studia la storia non delle interpretazioni del fenomeno ma della metamorfosi di quello stesso fenomeno, in Italia e non solo, con le implicazioni che riguardano l’Urbanistica. 5 È pur vero, tuttavia, che lo stesso concetto gadameriano di fusione degli orizzonti (Horizontverschmelzung) ammette la massima distanza tra le interpretazioni. Il gioco tra il vicino e il lontano, tra l’appartenenza e la distanziazione si fa più ricco laddove due coscienze s’intersechino nella lontananza (GADAMER 1983). Per queste ragioni non vogliamo schierarci a favore o contro la nozione di distretto industriale. Ne riconosciamo però la qualità in quanto interpretazione del reale e osserviamo come la crisi abbia fatto deragliare o ricompreso in altra forma quella stessa nozione.

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la peculiarità del concetto di distretto è l’interdipendenza tra economia, territorio e società


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ze d’altri, ed è bene che più ingenuamente ci si occupi di Biella e vi si riconosca, al più, il saldo legame tra società, economia e territorio che l’ha costruita. Osservandola dal punto di vista del territorio6, unico campo in cui ci si può muovere senza troppo disagio.

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Sulla nozione di “territorio” la genealogia delle interpretazioni e la storia degli effetti è altrettanto complicata. Quando si parla di “territorio” si intende qui una nozione densa che comprende lo spazio, prima di tutto, i processi che vi avvengono, le pratiche che lo formano. Il “soggetto vivente ad alta complessità” (MAGNAGHI 2000) che è esito de un processo specifico di strutturazione dello spazio fisico. Senza immergersi nella letteratura territorialista, troppo spesso viziata da localismi di matrice biologico-organicista (dacché il territorio è qualcosa che “vive” e che “muore” e di cui si può – addirittura – riconoscere un’ “anima” - HILLMAN 2004) riteniamo pur vero quel che afferma Edward Casey rispetto al concetto di “luogo”, in questo caso e in questi termini assimilabile: non ci è dato di riferirci allo spazio senza dover anche avere a che fare con il “luogo” (“place”). Non tanto per ragioni simboliche o etimologiche, quanto piuttosto per la stratificazione di pratiche e significazioni di matrice architettonica, nomadica, psichica, istituzionale e finanche sessuale (CASEY 1997). Il territorio, potremmo dire, ci interessa essenzialmente per il suo valore semiotico.

Biella non è tuttavia solo un distretto (o un distretto in crisi). Le restituzioni che si fanno di questo territorio rtimandano anche ad altri mondi. Vi è una Biella “della fede”, costruita su una trama importante di santuari che fin dall’alto medioevo (per Oropa si parla di culti pagani precedenti quelli cristiani, addirittura) avrebbero strutturato il territorio. Oropa, Graglia e San Giovanni di Andorno sono i santuari più rilevanti, ma il sistema “della fede” è ben più ampio e costellato di santuari di piccola dimensione, ex conventi, monasteri dismessi o attivi e di grande importanza anche internazionale, come quello della comunità di Bose. C’è chi ha persino costruito studi e ricerche sull’influenza che il modo della fede (e dell’omiletica) avrebbe avuto sulla costruzione della “cultura del distretto” (BESSONE 1985). Il biellese è, ancora, proposto come territorio dello sport. Per via della strabordante natura, della straordinaria biodiversità (vi sono quattro riserve naturali, ad esempio), per i panorami si è costruita una tradizione piuttosto lunga di promozione di questo territorio come luogo adatto a un gran numero di sport, soprattutto di quelli legati alla natura (mountain bike, arrampicata, pesca, sci, equitazione, ciclismo, trekking, golf...). Su questa rappresentazione ormai piuttosto tradizionale si costruisce un importante immaginario collettivo che vorrebbe promuovere, nel biellese, un turismo di eccellenza. Una terza interpretazione del territorio è quella della cultura locale. Nel biellese vi furono nel tempo numerose e importanti scuole di scalpellini, di scultori del legno e minusieri, di tessitori... Una folta rete di ecomusei, di castelli, di borghi medievali (il più noto è il Ricetto di Candelo) costituisce solo un aspetto di questo tentativo di recupero della cultura tradizionale locale, spesso tesa a significare una pretesa “operosità” e “intraprendenza imprenditoriale” quasi antropologica della gente biellese. Nello studio che facciamo di questo territorio tenteremo di non assumere queste rappresentazioni come univoche, chiavi di lettura reali. Ma neppure le denigreremo. Biella è, in effetti, anche la storia delle interpretazioni che se ne è fatta: non occuparsene significa dimenticarsene.

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Vicende Biella è descritta qui nella successione di alcune vicende. A volte capita che i tempi di una storia si succedano intersecandosi, sovrapponendosi, sopravanzandosi. È evidentemente una questione di periodizzazione, da sempre prerogativa della ricerca storica (argomento così pericoloso, quello della periodizzazione, che la sua trattazione in questo luogo sarebbe non solo inappropriata ma persino fuorviante e presuntuosa). È peraltro evidente come non sia semplice costruire periodi e che questo abbia a che fare con l’interpretazione stessa del fatto storico.7 Poiché questo lavoro non ha ambizioni di critica storica (se non per quanto è in grado di fornirne una restituzione il più possibile fedele alle fonti che impiega), il racconto temporale si avvierà seguendo la letteratura su Biella. È la stessa letteratura che, appunto, formalizza l’evoluzione del distretto in una successione di quattro tempi, ben poco sovrapposti8.

7 “Pensare la storia è certamente periodizzarla” (CROCE, 1989). Per quanto riguarda la costruzione di periodizzazioni, non ostante si possa tracciare una genealogia del tema a partire perlomeno da Tucidide (ma scordarsi di trattare della periodizzazione in alcuni testi biblici quali i Profeti Anteriori o Genesi ed Esodo sarebbe un’anomalia), indichiamo qui solo due riferimenti autorevoli, cui rimandiamo. Nell’Apologia della Storia (BLOCH 1993) affascina, oltre l’impegno profuso da Bloch sul tema della periodizzazione, nel quarto capitolo, l’espressione del tempo reale secondo i suoi due attributi: un “continuum” ma anche un “continuo cambiamento”, dalla cui antitesi deriverebbero “i grandi problemi della ricerca storica”. Carlo Olmo dedica alcune lucide e consapevoli riflessioni sul tema della periodizzazione in Architettura e Novecento: “Cosa sia architettura oc cosa si consideri come architettura si ripropone allora come il solo, possibile incipit da cui provare a costruire periodizzazioni, rotture, attori. L’esplosione del concetto di periodo storico (...) propone (...) un ripensamento radicale del proprio status, persino del proprio linguaggio. Periodi che vivono, per la storiografia architettonica, di convenzioni sempre più deboli e meno condivise. (...) Così è per rottura, che è per la storiografia architettonica una tematizzazione legata a un’unica congiountura: l’idea di modernità tedesca, russa, francese. (...) E’ solo se si identifica l’oggetto del proprio studio con quella concezione di rottura che questa periodizzazione può essere interessante, se si accetta cioè di spiegare tutto unicamente avvicinando vicende culturali e accettando ‘un’idea astorica, estetica e ubiquitaria della forma architettonica’ (Oechslin). Ma così facendo si rinunzia proprio all’idea di complessità che, ancor più lungo il Novecento, vede intrecciarsi nella genesi dello spazio e nell’ordinarsi delle pratiche, immaginari, diritti e valori, azioni individuali e dimensioni di massa della produzione e del mercato. D’altronde, questa tematizzazione della rottura - costruita sul tempo prima ancora che sui contenuti - non è che un esempio, forse il più strutturante, nel formarsi di una storiografia che ha fatto dell’azione individuale e del rifiuto della storicità dei suoi strumenti di lavoro i propri fondamenti: nascondendo gli attori e i giochi che strutturano il racconto di un’opera o di uno spazio, urbano e non” (OLMO 2010: XIX-XX). 8 Dal punto di vista squisitamente progettuale, tuttavia, mi pare di poter affermare che la periodizzazione offra due opportunità antitetiche di interpretazione. Lo snodo interpretativo è dato dal limite puntuale che scandisce due tempi successivi: si tratta del proclama di una fine o dell’annuncio di un radicale cambiamento? Il tema, peraltro, è già ben chiaro in Bloch, quando dice: “si diano due periodi successivi, ritagliati nell’ininterrotto succedersi delle età; in quale misura - prevalendo o no, sulla dissimiglianza nata dalla durata, il legame che il flusso di questa durata medesima stabilisce fra loro - si dovrà ritenere la conoscenza di quello più antico come necessaria o come superflua per l’intelligenza di quello più recente?” (BLOCH 1993: xxx).

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oltre la crisi | biella Su questo spartiacque si fonda la più vera condizione per il progetto. Se la scansione si intende nel senso dell’epilogo, il progetto dovrà essere avanguardistico, sovversivo, ribaltatore di valori e di principi, forse persino di tecniche. Se la scansione è invece intravvista nel senso del cambiamento, anche radicale, il progetto prenderà le mosse proprio dalle condizioni che sono cambiate (SECCHI 1984 e 2011), riconoscendone le opportunità e le sfide. Non si tratterà di un progetto tramandato, che reitera pratiche e valori e incornicia diritti. Piuttosto di un progetto che scava la contemporaneità con un’interpretazione pragmatica della metamorfosi di diritti, valori, norme. La chiave è chiaramente progettuale. È il progetto che decide da quale parte volgersi e in quale senso interpretare le condizioni e il territorio che pensa. Ci pare che questa opzione più di altre inquadri la pratica del progetto quale specifico strumento di produzione della conoscenza. Il progettare, in tutti i gradi della sua variabilità e in tutte le parti di cui si può comporre, mostra su questo punto essenziale la sua più viscerale disponibilità all’interpretazione del reale: descrivendo il futuro si narra la metamorfosi spazio-temporale di un luogo. Paola Viganò esplora il tema del progetto come produttore di conoscenza in “Territori dell’Urbanistica” (VIGANÒ 2010). Yannis Tsiomis scrive per “L’Indice” una recensione di buona lucidità: “il sottotitolo racchiude tutta la difficoltà dell’impresa: Il progetto come produttore di conoscenza. Ciò che l’autrice si propone è di esaminare i territori lasciati in eredità dalla storia delle città del XIX e XX secolo: spazi di conflitto tra città strutturata e periferie devastate; tra centri storici abbandonati o diventati disneylands abbellite a uso dei turisti; tra spazi agricoli e spazi urbanizzati diffusi e così via. Ma per esplorarli da architetto è necessario conoscerli attraverso multipli accessi e discipline. Non si tratta solo di un problema epistemologico, ma di questioni di ideologia, di visione e di progetto. Nelle tre parti del libro (Territori concettuali, Territori della descrizione, Territori del futuro), Paola Viganò esplora gli strumenti del progetto come “forma specifica di interrogazione della realtà” nell’attuale universo economico e culturale che caratterizza la civiltà urbana contemporanea, e nel quale – in modo non inesorabile, scrive, ottimista, Paola Viganò – il ruolo dell’architetto diviene marginale. E, tuttavia, la conoscenza per il progetto e la conoscenza attraverso il progetto sono le due posture che soltanto l’architetto può assumere come non dissociabili. La descrizione, la conoscenza e la concettualizzazione si pongono come i tre termini dell’esperienza teorica di questo libro; si manifesta così il doppio statuto dell’architettura: la sua autonomia (in quanto lavoro con “i suoi elementi costitutivi interni”) e la sua eteronomia (Viganò non utilizza questo termine, ma poco importa), in relazione con il mondo esterno: “il design, da un lato e le scienze, umane e dure, dall’altro”. Intendendo il design come espressione ideogrammatica (espressione di idee e di segni propri dell’architetto) per scrivere lo spazio” (TSIOMIS 2011). Quel che tuttavia Paola Viganò non considera, ma che a noi sembra rilevante, soprattutto in questa contingenza temporale, è il rilievo che il progetto può avere, come produttore di conoscenza, nel riconoscimento stesso della periodizzazione storica e nella sua interpretazione.

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1850-1950

La lunga tradizione di studi su Biella individua delle origini antiche per questo distretto, finanche medievali (MAITTE 2009). È una storia di imprenditori, di famiglie, di una intera società che, percorsa da legami stretti con la Chiesa e lo Stato, costruisce l’humus di quella che diventerà la «Manchester d’Italia», secondo la famosa definizione di Cavour (DE BIASIO 2008). Pare che a Biella sia lo stesso territorio ad aver fornito le caratteristiche necessarie per favorire filatura e tessitura (MAGGIONI 2008): si parla di acqua, essenzialmente, “corsi d’acqua particolarmente dolce, in grado di lavare i velli delle pecore con una quantità relativamente bassa di detergente oltre che di tingere filati, fiocchi e tessuti; l’acqua, inoltre, è stata per secoli fondamentale anche per produrre l’energia necessaria al funzionamento dei macchinari utilizzati in ciascuna fase produttiva” (ivi: 22). La storiografia segna l’avvio della proto-industria biellese nel 1816, con l’arrivo del primo telaio meccanico dall’Olanda per opera di Pietro Sella (POZZO 1881). “La fase di maggiore espansione industriale si può datare intorno al 1860: in quegli anni, in seguito alla prima forma di organizzazione sindacale dei tessitori, vedono la luce le ‘proto-organizzazioni imprenditoriali’ come la ‘Società di fabbricanti in pannilana in Biella’, la ‘Società dei fabbricanti dei panni lana della Valle del Torrente Strona’, l’’Associazione dell’Industria Laniera Italiana’, quest’ultima già a carattere nazionale” (MAGGIONI 2008: 22). Il primo stabilimento è a Valle Mosso (ed è da Mosso che provengono i Sella, così come è da quella valle e dalle montagne che la sovrastano che un Sella, nel 1854, identifica una particolare specie di coleottero, il Carabus Olympiae – NEGRO, TOMASINELLI 2009, a dimostrazione di come questa classe imprenditoriale, se può dedicarsi all’entomologia, è davvero un élite9). In pochi anni Pietro Sella, tuttavia, costruisce un secondo stabilimento, alla base della Valle Cervo, vicino a Biella, dando inizio al vero e proprio dirompere dell’industria biellese. Nello stesso tempo forma i primi meccanici tessili (PRESA 2008), che gli permettono di prendersi cura dei suoi macchinari anche quando potenti incendi li distruggono con forza: è l’inizio dell’industria meccano-tessile, anch’essa di grande importanza proprio a Biella. È singolare come questa prima generazione di “vecchia aristocrazia laniera” si rivolga poi presto alla banca e a «speculazioni terriere e commerciali» (CASTRONOVO 1964), lasciando invece il passo a una nuova generazione di imprenditori che colonizzano i torrenti principali e che, già a inizio Novecento, si occupano di una infrastrutturazione

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massiccia del territorio, permettendo la fondazione di nuovi nuclei produttivi lungo le strade anziché lungo i corsi d’acqua (PRESA 2008). Si inaugura una stretta relazione tra industria e welfare, con le grandi infrastrutture costruite dagli industriali nel primo Novecento. Strade, ponti, ferrovie. Ma anche scuole, asili, istituti di formazione. E ancora alberghi, stazioni sciistiche, parchi, piscine, ospedali, cimiteri. Un’eccezionale vitalità che, pervasiva, costruisce il territorio e instaura una relazione virtuosa con la società che lo abita. Il Biellese è costruito in cent’anni da una specifica classe imprenditoriale di incredibile effervescenza e lungimiranza. È quella stessa classe che si occuperà non solo di Biella ma dell’Italia intera. Dai Sella a Biella, dai Rossi a Schio, dai Mazzoni a Prato nasce l’industria e nasce l’Italia . Le condizioni del cambiamento del territorio sono poste in maniera irreversibile da questi imprenditori capaci di imparare e di innovare.

Stabilimenti filatura

anni

N° fusi

1849

11.240

1860-64

66.820

66

1886-90

106.320

1894-95

345.550

N° telai meccanici

stabilimenti

operai

79

5.329

164

94

6.500

105

2.590

143

7.278

149

6.507

444

30.625

Consistenza del Sistema Laniero Biellese 1860-1895 Fonte: CASTRONOVO 1964

9 Il concetto di élite è qui presuntuoso e azzardato e una buona sociologia vi dedicherebbe attenzioni precipue di ben altro spessore delle nostre. In molti luoghi tuttavia si propone “l’élite” come la “classe” che avrebbe costruito il territorio. Ci si riferisce qui non solo ai tecnici, i progettisti che a tutti gli effetti hanno progettato l’Italia del secondo dopoguerra (i quali, giovani architetti nel ’45, devono aver studiato proprio durante la guerra: non potevano che essere parte di un’ élite). Il riferimento, anzi, va soprattutto alla classe degli imprenditori – delle grandi famiglie – che sono state, in questo territorio e in altri, la vera guida del cambiamento e dello sviluppo del territorio. C’è chi sostiene (ma l’ipotesi a nostro modo di vedere è perlomeno da verificare) che una delle crisi che attraversa il biellese e non solo il biellese sia la “ritirata del capitalismo” (così si è espresso Bernardo Secchi in alcune considerazioni a margine della ricerca Territories in Crisis nel corso del Seminario Intermedio di Lausanne), fenomeno che avrebbe un tempo molto lungo. La stessa famiglia Sella, come si leggerà, abbandona molto presto la tradizione imprenditoriale per volgersi più dichiaratamente verso speculazioni di altro genere.

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1950-1980

Le cose, a Biella, vanno bene fino agli anni ’80. Certo, gli anni ’60, con la prima crisi del modello a ciclo completo e l’alluvione del 1968 sono state un vero spartiacque per l’economia locale, tuttavia senza grosse fatiche si può ammettere che la svolta reale si abbia dagli anni ’80: “negli anni ’70 il distretto entra in una fase di crescita, grazie all’introduzione di nuove tecnologie. Si assiste inoltre a una scomposizione dei processi di produzione, fino ad allora concentrati, anche grazie all’uso del lead-time e della flessibilità della capacità produttiva nella lavorazione. Con la divisione delle fasi labour-intensive (roccatura, ritorcitura, filatura) dai lanifici si ottiene la nascita di nuove imprese terziste: inizia qui la fase di de-verticalizzazione delle imprese distrettuali, proseguita fino alla metà degli anni ’80. In quegli anni il massimo sviluppo economico dà vita a forme di concentrazione parziale dovute a fenomeni quali acquisizioni, partecipazioni finanziarie e altri accordi di tipo informale. Le aziende tendono ad accentrare il potere e regolarizzare la produzione attraverso l’accentramento della produzione. Negli anni seguenti, anche le imprese più piccole si organizzano attraverso forme di cooperazione orizzontale tra PMI” (MAGGIONI 2008).

1980-2000

“Se prendiamo in considerazione il numero delle imprese biellesi operanti nel settore tessile-abbigliamento, possiamo ancora leggere una crescita dal 1971 al 1981 (da 2.325 a 3.928 imprese) e un calo progressivo dal 1981 in poi (1.801 imprese nel 1991, 1.320 nel 2001 e oggi meno di mille). Per gli addetti, il calo è stato invece costante già a partire dal 1971 (41.543 nel 1971, 36.811 nel 1981, 27.953 nel 1991, 23.821 nel 2001). Nonostante Biella nel 1997 abbia ottenuto il riconoscimento di ‘distretto industriale’ (…) dai numeri traspare una lenta e progressiva metamorfosi” (PRESA 2008). “Importante fu anche il supporto, negli ultimi decenni del ’900, del clima di collaborazione tra i vari attori del distretto. Gli imprenditori, dopo le varie ristrutturazioni e riorganizzazioni, confermano la fiducia nel tessile biellese; le organizzazioni sindacali agevolano con politiche flessibili la ristrutturazione assistita, i comuni e la provincia cercano di elaborare una politica urbanistica coerente con gli obiettivi delle aziende e dello sviluppo aziendale e sociale. (…) A partire dagli anni ’90 si comincia invece ad assistere a processi inversi (e sempre contestuali) di concentrazione e diversificazione della produzione, tuttora in atto. La crescita dimensionale di alcune aziende, la creazione di alleanze

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orizzontali e verticali, le sempre più numerose fusioni e acquisizioni hanno portato alla creazione o all’allargamento di gruppi industriali che oggi comprendono tutte le fasi del processo produttivo. Come mostra la tabella 2, tra il 1991 e il 2001 il calo del numero di addetti è un fenomeno che ha caratterizzato l’intero settore manifatturiero del distretto, a causa di un processo ritardato di terziarizzazione dell’economia provinciale. Tuttavia, la dinamica che si evidenzia nella filiera del tessile-abbigliamento è del tutto particolare: mentre la contrazione della manodopera nel settore è di poco superiore alla media del manifatturiero del distretto (rispettivamente -14,8% e -12,2%), la scomparsa di unità locali è di gran lunga maggiore (rispettivamente -28,1% e -13,3%)” (MAGGIONI 2008). È in questa fase che inizia la delocalizzazione. Si può leggere in tanti modi, una delocalizzazione, certamente il più comune è il punto di vista economico globale (PERULLI 2014). Tuttavia questa riflessione si accompagna a una considerazione più generale che mette al centro quella stessa classe imprenditoriale – l’élite che aveva costruito il territorio. Pare, osservando, che a un certo punto non ben chiarito l’élite abbia, semplicemente, battuto in ritirata dal biellese (il riferimento è ad alcune considerazioni di Bernardo Secchi, che andrebbero verificate, fatte durante il seminario intermedio di Territories in Crisis a Lausanne). La delocalizzazione non è certo una ritirata, tuttavia. Si tratta di un allargamento e di un potenziamento. La vicenda di Zegna è, da questo punto di vista, un caso esemplare che mostra le dinamiche che innesca, proprio in questa fase, questa generazione di imprenditori. Se Ermenegildo Zegna ha le sue origini nel 1910, anno in cui viene fondata l’azienda F.lli Zegna, la vera crescita si ha dopo il 1941 (quando Ermenegildo e Mario Zegna si separano perché il primo si dedica a filati pettinati mentre il secondo a filati cardati). L’ultimo atto di portata territoriale compiuto da Ermenegildo Zegna è l’impegno per la montagna, dove fa costruire un’importante stazione sciistica, si preoccupa di far piantare oltre 500mila pini e di sistemare le strade. Quando Ermenegildo Zegna muore, la stima che Trivero gli riserva è sovrabbondante. Alla richiesta del paese di costruire una statua la famiglia Zegna risponde con un atto ancora di valenza sociale: l’istituzione di borse di studio. Sono i figli Angelo e Aldo a cominciare la delocalizzazione, fenomeno che solo parzialmente è possibile spiegare con le dinamiche globali. Nel ’67 Zegna acquisisce una fabbrica che si occupa di confezioni, nel Novarese. Negli anni ’70 si va in Svizzera. Poi Parma (gli accessori), Padova (il taglio), e ancora il Messico, l’Egitto, la Turchia. La sede del lanificio a Trivero, oggi,

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rappresenta ormai il solo 5% dell’intero mondo economico di Zegna. Il giudizio, in questa vicenda, è tutt’altro che opportuno. È in ogni caso innegabile come questo venir meno dell’élite significhi per il Biellese un chiaro ridimensionamento dell’impegno per il rinnovamento urbano e territoriale. Nondimeno è in questi anni che Biella diventa una provincia ed è in questi anni che l’infrastrutturazione locale si irrobustisce, con la costruzione e il potenziamento di strade come la Biella-Cossato e di progetti di connessioni più importanti, che legano Biella all’autostrada. Progetti ancora non realizzati. Di questa minorazione dell’infrastruttura si soffrirà sempre, a Biella, e si potrebbe affermare (ma bisognerebbe sostenere la riflessione con robuste ricerche storiche) che questa infrastrutturazione debole, incostante, faticosa sia una delle cause della ritirata da Biella. La connessione si guadagna a fatica, eppure non sempre è sufficiente un presumibile orgoglio identitario o un qualche lasco senso civico per obbligare gl’imprenditori a continuare a investire su Biella quando le condizioni non erano affatto favorevoli.

Addetti e unità locali per settore nel distretto di Biella Addetti per settore e classe dimensionale nel distretto di Biella Fonte: Maggioni 2008

Valori % anni 1991-2001 addetti Cod.

Unità locali

artigiani

Non artigiani

Totale addetti

artigiani

Non artigiani

Totale unità

17.1

Preparazione e filatura di fibre tessili

-15,4

-13,5

-13,8

-33,5

-22,3

-28,7

17.2

Tessitura di materie tessili

-11,5

-7,6

-7,8

-32,0

-28,3

-29,9

17.3

Finissaggio dei tessili

-20,0

-12,1

-13,4

-39,4

4,9

-19,9

17.4

Confez. articoli in tessuto

-28,8

-3,9

-14,2

-20,0

70,0

10,0

17.5

Altre industrie tessili

4,9

26,4

22,7

13,6

70,8

43,5

17.6

Fabbricazione di maglierie

-10,5

-23,0

-19,4

-34,5

-35,0

-34,7

17.7

Fabbricazione di articoli maglieria

-62,5

-56,0

-58,4

-53,7

-31,7

-48,1

18.2

Confez. di articoli di vestiario e accessori in tessuto

30,4

22,4

-7,5

-38,1

-10,0

-32,4

Totale settori core

-25,4

-12,4

-14,8

-37,5

-16,5

-28,1

Totale manufatturiero del distretto

-11,9

-12,3

-12,2

-11,6

-16,5

-13,3

Totale manufatturiero della provincia

-11,7

-10,3

-10,6

-8,9

-20,7

-13,1

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Valori % anni 1991-2001 Classe di addetti Cod.

1-9

10-49

50-249

250 e oltre

Totale

17.1

Preparazione e filatura di fibre tessili

-26,4

-27,1

-11,6

36,3

-13,8

17.2

Tessitura di materie tessili

-68,5

-30,5

-4,7

7,1

-13,1

17.3

Finissaggio dei tessili

-23,5

1,3

-22,5

-13,4

17.4

Confez. articoli in tessuto

-15,2

156,7

-100,0

-14,2

17.5

Altre industrie tessili

54,3

-4,8

55,5

22,7

17.6

Fabbricazione di maglierie

-19,6

-31,1

1,6

-19,4

17.7

Fabbricazione di articoli maglieria

-46,6

-51,9

44,6

-100,0

-58,4

18.2

Confez. di articoli di vestiario e accessori in tessuto

-35,9

1,9

-77,9

-7,5

Totale settori core

-35,3

-23,1

-11,0

6,4

-16,2

29.54.1

Costruzione e installazione di macchine tessili

-26,4

-27,1

-11,6

36,3

-13,8

51.16

Intermediari del commercio di prodotti tessili

-68,5

-30,5

-4,7

7,1

-13,1

51.41

Commercio all’ingrosso di prodotti tessili

-23,5

1,3

-22,5

-13,4

51.42

Commercio all’ingrosso di capi di abbigliamento

-15,2

156,7

-100,0

-14,2

51.63

Commercio all’ingrosso di macchine per l’industria tessile

54,3

-4,8

55,5

22,7

Totale settori core

-30,5

-23,8

-12,2

6,4

-15,5

Totale manufatturiero del distretto

-16,3

-18,5

-4,4

-9,8

-12,3

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2000-2015

La crisi vera, a Biella, arriva nel 2001: “dopo un triennio ancora florido (1998-2000), a partire dal 2001 l’intensità della crisi si è accentuata con conseguenze preoccupanti per le imprese distrettuali” (BELLINI 2008). Si tratta di un cambiamento radicale, che fa passare il biellese dalle 3.000 alle 1.000 imprese e da 30.000 a 15.000 addetti in quindici anni. Le cause sarebbero “le medesime che hanno colpito l’intero settore tessile italiano – riconducibili principalmente alla crescente aggressività dei competitor dei Paesi emergenti, alla domanda stagnante nei mercati europei e alla penalizzazione causata dal cambio euro-dollaro –“, tuttavia “il distretto piemontese sembra avere sofferto più di altri l’arresto economico” (BELLINI 2008). Se la costruzione del territorio del capitalismo molecolare (BONOMI 1997) presenta forme e spazi tanto articolati quanto diffusi che hanno plasmato l’Italia degli ultimi trent’anni, l’impatto della crisi su questi stessi territori e spazi non può che definirsi come ugualmente spalmato e viscerale, tanto più se si considera che la crisi di cui si parla è tutt’altro che solo finanziaria ma riguarda tanto l’economia reale quanto le dinamiche della produzione e le grammatiche dello stato sociale. La crisi non ha sminuzzato i distretti, come è successo altrove (si pensi alla rust belt americana, per esempio, dove peraltro varrebbe la pena di studiare alcuni importanti esempi di ripensamento territoriale ed economico). Tuttavia la crisi ha minorato, disarticolato, smembrato e accentuato processi già in atto. Si sostiene (RULLANI 2010) che con la crisi si sia marcato un passaggio essenziale: dai distretti alle reti. L’ipotesi è tutta da verificare, tuttavia pare evidente come siano cambiati i modi in cui si relazionano tra loro società, economia, territorio. Modi della produzione (si parla di un capitalismo “riflessivo”), modi di abitare e vivere insieme (riemerge un certo modo di vivere “comune”), modi di fare il territorio (teso a una “condivisione riflessiva” e “circolarità dei processi”) (ibidem).

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2000 1999

2001 2000

2002 2001

2003 2002

2004 2003

2005 2004

2006 2005

2007 2006

totale periodo

-3,4

-3,1

-3,2

3,9

-4,1

-4,8

-5,0

-3,3

-27,0

-4,0

-3,5

-4,9

-3,4

-5,9

-4,6

-4,2

-26,8

-0,9

0,9

-0,9

-4,3

-13,5

-5,2

-3,3

-4,5

-28,2

di cui: artigiane

-1,4

1,4

-4,1

-18,3

-3,4

1,8

0,0

-23,0

Manufatturiero provinciale

-2,2

-1,1

-1,3

-1,2

-1,8

-1,9

-2,7

-3,5

-14,7

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

Nuove iscritte

2,0

2,6

1,6

2,0

2,8

2,6

1,6

2,1

1,8

Cessate

4,9

4,1

3,9

4,8

8,1

8,9

6,7

7,2

15,5

Nuove iscritte

6,8

8,6

5,1

5,2

8,1

8,3

6,6

9,1

11,9

Cessate

9,4

8,6

7,7

10,3

9,9

9,4

12,1

10,2

20,2

Nuove iscritte

4,2

4,3

3,6

3,8

4,4

4,5

4,2

4,0

3,3

Cessate

4,5

5,3

4,6

5,1

6,5

6,9

6,0

6,9

10,8

Industrie tessili di cui: artigiane Confezione articoli

Variazione dello stock di imprese della provincia di Biella Fonte: Maggioni 2008

Industrie tessili

Confezione articoli di vestiario

Manufatturiero provinciale

Natalità e mortalità del totale delle imprese della provincia di Biella Fonte: Maggioni 2008

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Forme dell’abitare10 Profilo demografico

Biella è un territorio complesso, “piccolo, bello e ricco, ma dalle prospettive incerte (…) un gioiello ambientale in perfetto equilibrio tra pianura, collina e montagna. Delle sue cinque valli, una soltanto risulta relativamente popolata, ovvero la Valle Strona di Mosso, dov’è ancor oggi evidente la presenza ‘storica’ dell’industria tessile laniera. Su tutto il territorio convivono peraltro manifatture attive e stabilimenti abbandonati, mentre i comuni negli anni sono cresciuti spesso in modo disordinato, quali paesi-dormitorio per i lavoratori, privi di un centro o di una piazza di riferimento” (SULIS 2011). La situazione demografica attuale è preoccupante più di altri distretti simili o delle medie regionali o nazionali: ben lungi dal mostrarsi nella tradizionale “piramide” sociale siamo piuttosto di fronte a un “fungo” decisamente non rassicurante. Questo significa non solo che c'è uno spostamento verso fasce anziane, ma che non c'è immigrazione o che l'immigrazione non è sufficiente a colmare i vuoti. Le popolazione biellese sarà sempre più vecchia, tendendo a una forma quasi di piramide rovesciata. L’altro fenomeno, parallelo, è quello del «costante “abbassamento” del baricentro demo-

10 Questo capitolo fa riferimento in particolare alla ricerca condotta dal progetto “OsservaBiella”: «Caritas diocesana di Biella, Centro servizi volontariato di Biella e Tavolo Povertà hanno voluto dare vita a uno strumento di lettura del territorio per meglio stimolare e contribuire ad organizzare le risposte ai bisogni espressi dai cittadini. Il progetto poggia su due pilastri: da un lato l'analisi dei bisogni e dall'altro quella delle risorse del territorio. Le aree di bisogno indagate e che costituiscono l'ossatura dell'area "osservazione" sono un'introduzione "demografica", "lavoro e reddito", "casa", "salute" e "relazioni sociali". Elementi che, se mancanti , a parere di chi propone questo progetto, determinano una condizione di povertà.Una parte importante riveste inoltre anche la "storia di povertà", un racconto vero di persone in difficoltà incontrate dai volontari biellesi, che consente al fruitore dello strumento dell'osservatorio di calarsi nella concretezza delle condizioni di disagio che attraversano oggi il Biellese. Legato alla "storia" vi é quindi un approfondimento tematico periodico che avviene attraverso la realizzazione di uno specifico Focus, una ricerca puntuale per affrontare in modo più organico e contestualizzare il tipo di povertà in questione». Due sociologi in particolare, Emilio Sulis e Manuela Vinai, si occupano del costante lavoro di raccolta, analisi di dati, interpretazione e restituzione: è un lavoro preziosissimo che viene citato spesso (in virtù dell'alta qualità scientifica e dello statuto "open source" che lo caratterizza) anche da istituzioni come la Camera di Commercio, il CNA, le stesse amministrazioni locali. La scoperta di questo lavoro da parte di Angelo Sampieri è ciò che ci ha spinti a trattare Biella come caso-studio e ad approfondire le implicazioni della crisi in questo distretto. Ci è parso, inizialmente, che un attento studio sociologico ci permettesse di osservare meglio cosa stesse succedendo e fornisse a noi l'opportunità di guardare la relazione società-economia-territorio anche attraverso un altro punto di vista.

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grafico verso la pianura, con un abbandono delle alte valli e dei territori più lontani dal capoluogo, a beneficio dei comuni più vicini all’asse Torino-Milano» (ibidem). È evidente che il peso del sistema di assistenza sociale dovrà essere molto più importante, soprattutto per quanto riguarda gli anziani, e che, con meno giovani e meno popolazione in età da lavoro, il prelievo fiscale sarà in decisa diminuzione ma, diminuirà, anche, il potere d’acquisto totale della popolazione. Possiamo facilmente immaginare un aumento costante di case sfitte, di territori abbandonati, di radicale dismissione degli spazi. La dismissione dei luoghi del lavoro o la loro drastica minorazione ha causato anche un ingente problema sociale: territori pensati senza progetto o senza reali attenzioni alla costruzione di spazi per la socialità si trovano oggi quasi privi di luoghi per la relazione e l’incontro. Si riconosce (SULIS, VINAI 2012a) questa come una delle cause dell’emergere di problemi gravi di salute mentale e di depressione, che portano il distretto a un numero altissimo di suicidi e tentati suicidi (ibidem).

Piramide sociale anno 2010 I segmenti neri indicano l'immigrazione Fonte: Sulis 2011

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1971

1981

1991

2001

2011

Totale

205.422

202.135

191.291

186.960

182.192

2003

2004

2005

2006

188.412

188.197

187.619

186.938

2007 2008 187.491 187.314

2009

2010

2011

186.698

185.768

182.192

210.000 205.000 200.000 195.000 190.000

Totale della popolazione nel biellese secondo i censimenti ISTAT

185.000 180.000 175.000 170.000

1971

1981

1991

2001

Popolazione nel biellese tra il 2003 e il 2011

2011

1971

1981

1991

2001

2011

0-9

25882

20581

13960

14549

13996

10-24

37994

39289

34000

24136

22501

25-44

56312

53433

53205

54274

45215

45-64

52844

52319

52469

51021

53006

65+

32390

36513

37657

42980

47474

60000 50000 40000

0-9 10-24

30000

25-44 45-64

20000

65+

10000 0

36

1971

1981

1991

2001

2011

Popolazione nei censimenti per fasce di etĂ


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Indice di vecchiaia 2003 2011 Fonte: Sulis 2013

2000

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

nati

1440

1494

1406

1466

1470

1446

1453

1397

1320

1283

morti

2472

2421

2315

2378

2374

2297

2347

2444

2254

2283

saldo

-1032

-927

-909

-912

-904

-851

-894

-1047

-934

-1000

saldo

2011

morti

2010

nati

2009

La diminuzione delle nascite . Il numero di nati nel Biellese nel corso del 2011 ĂŠ sceso, per la prima volta, sotto le 1300 3000 unitĂ , sempre nettamente inferiore al numero di decessi, per un saldo naturale che risulta quindi sempre negativo di circa un migliaio di unitĂ .

2008 2007

saldo

2006

morti

2005

nati

2004 2003 2002 -2000

-1000

0

1000

2000

3000 37


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1991

1996

2001

2006

2011

età media della popolazione in provincia di Biella

43

44

45

46

47

età media maschi

40

42

43

42

45

età media femmine

45

46

47

48

49

1991

1992

1993

1994

1995

1996 1997

1998

1999

2000

2001

166

172

178,2

183,2

187,9

192,3 194,5

195,9

196,7

196,8

197,9

2002

2003

2004

2005

2006

2007 2008

2009

2010

2011

2012

198,3

199,4

201,2

204,6

207,1

206,9 209,8

211,7

213,9

219,9

250

L'età media della popolazione nel 1991 era di 43 anni ed é aumentata ogni cinque anni di un'unità, di anno in anno, per giungere all'età media di 47 anni nel 2011. Come noto, si riscontra una maggiore longevità femminile, evidente anche nel dato sull'età media della popolazione suddivisa per genere: la popolazione maschile ha un'età media di 45 anni e quella femminile di 49. Il progressivo “invecchiamento” della popolazione é dovuto anche al calo delle altre fasce di età della popolazione, sebbene la fascia più bassa (0-14 anni) sia rimasta pressoché costante negli ultimi quindici anni.

200

150

100

50

0

La composizione percentuale mostra chiaramente come sia aumentata l'incidenza della componente più anziana, mentre diminuisce la quota di persone giovane-adulta.

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FASCE DI ETA'

2002

2012

VARIAZ %

over 65

42978

47279

+10

65-74

23122

22791

-1,4

74-84

14306

17472

+22,1

85-94

5179

6483

+25,2

>95

371

533

+43,7

Esaminando i cambiamenti delle fasce di età, si nota come sia aumentata soprattutto la componente più anziana. Nell'ultimo decennio, la popolazione 75-84 anni é aumentata del 22%, quella tra 85 e 94 anni del 25% e gli ultra 95enni sono quasi raddoppiati (+44%) Fonte: Sulis Vinai 2013


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Profilo insediativo

Nell Biellese l’affitto è un fenomeno in aumento ed è piuttosto chiaro come sia questa la forma dell’abitare a maggior rischio, sia per i costi di gestione che per le condizioni delle abitazioni, spesso piuttosto trascurate. La descrizione dell’edilizia pubblica, invece, insieme al problema di gestione dell’edificio e di sempre minore capacità di affrontare le spese, ci porta a dire che, a scala provinciale, si ripropongono le stesse criticità nazionali. In tutta la provincia di Biella gli alloggi dell’ATC si collocano a Biella, Cossato e Valle di Mosso e Strona, lasciando scoperta la fascia del Biellese meridionale (quella, peraltro, a più alta densità di giovani). Dell’edilizia pubblica, va detto che “vi sono numerosi alloggi liberi, in particolare nelle zone scomode ai servizi, per i quali si devono sostenere notevoli spese di gestione poiché sono di grandi dimensioni. Le dimensioni degli alloggi sono superiori alle reali necessità della maggior parte dei nuclei che attualmente richiedono un alloggio ERP. Le spese relative agli alloggi di dimensioni elevate sono difficilmente sostenibili da famiglie che hanno i requisiti economici tali da poter beneficiare di un’assegnazione di alloggio ERP. In alcuni comuni gli alloggi rimangono liberi perché non ci sono persone disponibili ad accettare alloggi ‘scomodi’ – tendenza alla "pianurizzazione" [sic] –, la gente preferisce i comuni che hanno più servizi o che comunque sono più facilmente accessibili” (SULIS, VINAI 2012b). L’altro problema dell’abitare nel biellese oggi è legato al rapporto tra le case vuote, il cui canone di affitto è spesso irrisorio, e il numero elevato di sfratti (si tratta di un numero superiore ai 300 l’anno), insieme al bisogno, molto diffuso, della casa. “Dal confronto tra il costo dei canoni nel 2012 rispetto al 2008 emerge una sensibile diminuzione (...). Tale diminuzione del costo degli affitti appare indicativo della situazione di difficoltà (si abbassa il costo pur di trovare un inquilino), con una offerta di alloggi in locazione superiore alla domanda)” (SULIS, VINAI, 2012c). Le case vuote sono sempre di più e sempre più difficili da gestire: “Un elemento che contribuisce alla tensione esistente nell’ambito del disagio abitativo è il fenomeno, diffuso anche nel Biellese, di case di proprietà tenute volutamente sfitte. (…) Tale atteggiamento trova diverse motivazioni e di fatto rende più acuto il disagio di chi cerca casa, diminuendo allo stesso tempo il numero di possibili abitazioni disponibili e con esse la possibilità di costi minori di affitto. (…) Nella Provincia di Biella il Censimento 2001 ha rilevato ben 16.260 abitazioni non occupate, pari a circa il 17% del totale [i dati del Censimento 2011 segnano una crescita fino al 23%]” (ibidem).

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il tessuto insediativo: case e fabbriche

Affitto su totale (anno 2011) Fonte: Sulis 2013

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Case ATC Fonte: Sulis 2013

Case di riposo Fonte: Sulis 2013

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Profilo lavorativo

“Uno dei più rilevanti cambiamenti intervenuti negli ultimi anni riguarda il drastico ridimensionamento dell’industria locale, tessile e meccanica in particolare, che ha visto la chiusura di stabilimenti e la messa in mobilità e in cassa integrazione di molti lavoratori. Il saldo tra le manifatture attive […] è passato dalle 2.938 del 2002 alle 2.101 del 2012 [il 30% in meno]” (SULIS, VINAI 2012d). I due settori trainanti del Biellese sono da sempre quello tessile e quello edile. In entrambi i settori, però, la crisi ha compiuto disastri, sostanzialmente dimezzando, in ciascun settore, le imprese. Il tasso di disoccupazione ha segnato nel Biellese un’impennata considerevole, portandosi al 8,9% nel 2012. Analizzando il numero di disoccupati iscritti al Centro per l’Impiego di Biella, che supera le 20mila unità nel 2012 (erano 8.048 nel 2009) si nota un aumento rilevante dal 2009 al 2012, in tutte le fasce di età: “sono 20.233 (17.406 nel 2011) le persone iscritte al Centro per l’Impiego alla fine del 2012, con un aumento del 16,2% rispetto al 2011 (da sottolineare che l’aumento tra il 2011 e il 2010 era stato dell’8,4%)” (ibidem).

Cessazioni delle attività dal 2008 al 2013 per ogni comune

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tasso di disoccupazione anni 2005-2012 Fonte: Economia Biellese 2012

andamento delle imprese anni 2002-2012 Fonte: Economia Biellese 2012

andamento delle imprese artigiane 2000-2012 Fonte: Economia Biellese 2012

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variazione tendenziale della produzione Fonte: Economia Biellese 2012

import-export totale 1999-2012 Fonte: Economia Biellese 2012

export di tessuti-filatiabbigliamento 2001-2012 Fonte: Economia Biellese 2012

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Il tessuto insediativo: le fabbriche

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letture | 1

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1 Quattro sezioni territoriali

“In sostanza quella sua lettura lo portò siffattamente all’entusiasmo da non distinguere più la notte dal dì, il dì dalla notte; di guisa che pel soverchio leggere e per il poco dormire gli s’indebolì il cervello, e addio buon giudizio. In fine perduto affatto il giudizio, si ridusse al più strano divisamento che siasi giammai dato al mondo. Gli parve conveniente e necessario per l’esaltamento del proprio onore e pel servigio della sua repubblica di farsi cavaliere errante, e con armi proprie e cavallo scorrere tutto il mondo cercando avventure, ed occupandosi negli esercizii tutti dei quali aveva fatto lettura. Fatti questi apparecchi, non volle differire più oltre a dar esecuzione al suo divisamento, affrettandolo a ciò la persuasione che il suo indugio lasciasse un gran male nel mondo. Senza dunque far parola a persona di quanto aveva divisato, e senza essere veduto da alcuno, una mattina del primo giorno (che fu uno dei più ardenti) del mese di luglio, armato di tutte le sue armi salì sopra Ronzinante, si adattò la sua malcomposta celata, imbracciò la targa, prese la lancia, e per la segreta porta di una corticella uscì alla campagna, ebro di gioia al vedere con quanta facilità aveva dato principio al suo nobile desiderio.” - Miguel de Cervantes, (2012) [1605], Don Chisciotte della Mancia, Bompiani, Milano 48


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Guardiamo Biella attraverso quattro punti di osservazione, di scala e dimensione diversa. Tuttavia significativi: di periodizzazioni (sempre incerte) e di fenomeni. Sono quattro punti che mostrano tutto il Biellese: non perché si abbia la presunzione di formulare un grand récit, non è più tempo, ma perché ciascuna delle quattro sezioni territoriali scelte è significativa per le questioni che pone ed esplicita i problemi e le opportunità dell’intero territorio. La prima è una vallata, la Valle Cervo. Perché è qui che il tumultuoso sovrabbondante reticolo idrografico ha generato il “primo” distretto. I telai si son portati anzi tutto a Vallemosso. Ma di lì a poco fu il torrente Cervo, a esser colonizzato dall’industria, e non lo Strona. La seconda è una strada, quella che conduce da Biella a Cossato. Qui si è fatto il distretto degli anni ’70, ’80 e ‘90. Una strada che è una città e che fu parte di quel territorio che cambia che altrove è stato sviscerato radicalmente (BOERI, LANZANI, MARINI 1993). Il terzo è un’altra strada, quella compresa tra Biella e Carisio. È la vera “strada-mercato” di fine secolo, da dove è partito il colosso Aiazzone ma dove, anche, si è costruito uno stillicidio di capannoni, fabbrichette e centri commerciali. Il quarto è un nucleo, Vallemosso. È qui che è nata la Rivoluzione Industriale Italiana. Ed è qui, su quello straordinario tratto del torrente Strona, che una crisi dalle facce e dalle periodizzazioni molteplici ha inferto ferite durissime e ha smembrato, frastagliato, dismesso.

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0

10 km

423.7

361.4

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1

4

2

3

Le quattro sezioni territoriali nel Biellese. In nero il sistema delle fabbriche della lana

1 Valle Cervo 2 Biella-Cossato 3 Strada Trossi 4 Vallemosso

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Valle Cervo: invecchiamento e virgulti Il territorio La Valle Cervo è la più lunga valle del comprensorio Biellese. Qui si è dato, come detto, lo sviluppo industriale delle origini, con alcune eccellenze importanti legate al mondo della lana quali il Lanificio Sella o il Lanificio Cerruti, ma anche aziende come il Cappellificio Cervo. La divisione in alta e bassa valle non è puramente convenzionale: a fronte di una bassa valle più ampia, che ha visto un largo sviluppo industriale ma che, anche, è caratterizzata da una natura più facilmente addomesticabile (le tracce di una agricoltura Montana sono riccamente presenti ancora oggi e alcuni esempi come la produzione del liquore Ratafià mostrano che la coltivazione era non solo un’attività secondaria ma una vera fonte di sostentamento), l’alta valle è invece più propriamente montana, molto stretta in alcuni punti, con una vegetazione più tipica delle alte quote, con eccellenze produttive della pietra e con attività più legate al turismo d’élite. Dal punto di vista insediativo, la Bassa Valle è ambivalente nelle due sponde, così, partendo da Biella, s’incontrano sulla sponda sinistra del torrente Cervo i paesi di Andorno e Sagliano Micca, mentre sulla sponda destra Tollegno e Miagliano. Nell’alta valle invece è la sponda sinistra ad avere una prevalenza forte, per cui si incontrano Quittengo, Campiglia, Rosazza, Piedicavallo. A destra, solamente San Paolo Cervo. I borghi e le frazioni sui versanti sono soprattutto concentrati nel versante esposto a sud, per cui abbiamo paesi come Tavigliano ma anche frazioni quasi irraggiungibili come Oriomosso o Rialmosso. Questo versante del resto è parzialmente compreso nel parco dell’Oasi Zegna, poiché la strada Panoramica Zegna inizia proprio a Campiglia, si inerpica fino a Bielmonte e scende a Trivero. Intorno ad Andorno, il paese di gran lunga più importante, il declivio è piuttosto dolce, tanto che insieme ai numerosi sentieri e strade presenti si incontrano leggeri terrazzamenti, in larga maggioranza destinati chiaramente all’agricoltura. Non sono solo memorie, tuttavia: qua e là si possono trovare piccole aziende agricole minori a conduzione familiare: non si tratta quasi mai di attività che costituiscono l’economia di chi le gestisce, più spesso riguardano le tradizioni da tramandare, le memorie delle famiglie, le passioni personali. L’industria

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laniera ha qui i suoi reperti di maggiore interesse. Gli edifici più importanti si trovano a valle, vicino a Biella, tuttavia tutto il torrente Cervo è corredato da una collezione di fabbriche sorte a fine ‘800, la gran parte dismesse. A Miagliano vi è una delle più antiche fabbriche biellesi, il Cotonificio Poma, con a fianco il più antico villaggio operaio d’Italia. Gli ultimi stabilimenti si incontrano a Sagliano. Fino a qui i paesi si sono sviluppati intorno ai campanili, tuttavia oltre ai nuclei storici vi è un certo sviluppo urbano del ‘900 che ne ha ingrandito l’estensione con forme dell’abitare tipiche della seconda parte del secolo scorso che abbandonano in parte le tipologie edilizie e abitative di questo territorio. Il passaggio dalla bassa all’alta valle è segnato da un restringimento della valle stessa. A Quittengo e Campiglia l’economia maggiore è stata quella dello scavo della pietra (VALZ BLIN 1994). Graniti duri che si attestano al di sotto della linea del Canavese che separa due faglie (DEZZUTO 1999), alcuni chilometri più in alto, e presso cui si sono costruite miniere di argento che generarono le economie e le migrazioni di cui parlavo poc’anzi. Borghi e paesi dell’alta valle sono generalmente più chiusi, con uno sviluppo che si è dato ampio e ricco nell’ottocento e limitatissimo nel secolo scorso. La vocazione turistica infatti ne ha segnato da molto tempo la genealogia. Piedicavallo è l’ultimo paese della valle, un magnifico borgo da cui partono le vie più importanti della montagna e che è sempre stato meta élitaria di vacanze. La stessa Regina Margherita fece costruire qui un teatro, recuperato di recente. Rosazza è totalmente pensato come borgo neogotico. L’avventura del magnate creativo Federico Rosazza introduce nella valle torri in rovina, case altre e strette, merletti, decorazioni medievali (BESSONE, TRIVERO 2001). Tra Campiglia e Rosazza comincia la strada (VALZ BLIN 1997) che collega i maggiori santuari biellesi (san Giovanni, Oropa, Graglia). I borghi e le frazioni che stanno nelle coste sono magnifici esempi di architettura rurale biellese. Piuttosto preservati, in virtù forse di una non semplice accessibilità: Oriomosso e Rialmosso sono straordinari nella loro capacità di raccontare la cultura costruttiva locale, mostrando la casa biellese (il grande loggiato pluripiano, l’abile uso di pietra, legno, mattoni crudi...) in alcuni esempi di rara bellezza (VALZ BLIN 1990). E preservando la qualità originaria di molti degli spazi comuni, mantenendo materiali, distanze, cura. Sono frazioni abitate solo stagionalmente, eppure di grande bellezza. Il resto della valle è boschivo (faggi e castagni, essenzialmente). L’acqua resta l’elemento di connessione di tutta la valle: dai laghi montani, colonizzati da rifugi, ai centri abitati, alle condotte e all’energia su cui si è costruita l’intera rete industriale di ‘800 e ‘900.

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Valle Cervo. sistema delle acque e delle valli minori. Sezioni.

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Piedicavallo

Rosazza

Sagliano Micca. Lo storico Cappellificio Cervo, ultima fabbrica della valle, salendo.

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La crisi La crisi del 2008 non è certamente stata l’evento unico da cui si sia dipanato il generale deperimento del territorio. Semmai si tratta di un processo più lungo, non facilmente controllabile, le cui radici potremmo forse ipotizzare nel cambiamento che il distretto attua quando si passa da una strutturazione delle fabbriche lungo i corsi d’acqua a una colonizzazione delle strade. Anche il turismo mostra nel tempo un flesso considerevole, secondo fenomenologie del tutto analoghe a quelle di simili località turistiche minori, soppiantate da altri luoghi e altre destinazioni. Gli assi di sviluppo della valle sono terminati ormai da anni (o decenni) e si assiste, perlopiù, a uno straordinario processo di riacquisizione dello spazio da parte della natura, strabordante. Dal punto di vista industriale si nota come le fabbriche che hanno chiuso non siano poi molte, dopo il 2008. Chi è fallito o si è trasferito o delocalizzato l’ha fatto molto tempo prima, sicché quello che resta è di qualità ed è strutturato, non facilmente scalfibile. Alcune eccellenze (ad esempio quella che si occupa della produzione del liquore locale) hanno invece saputo potenziare la produzione. Si tratta tuttavia di aziende piccole, che non risolvono l’intero problema del lavoro. I problemi della Valle Cervo sono piuttosto altri: sociali, prima di tutto. L’invecchiamento della valle è il fenomeno che salta presto all’occhio. Un fenomeno complesso e articolato, non facilmente semplificabile con l’annotazione del bilancio tra i nati e i morti. L’indice di vecchiaia ci mostra una situazione piuttosto stabile da molti anni, peraltro, per cui nella bassa valle le persone sopra ai 65 anni, rispetto ai ragazzi fino ai 14 anni, sono il doppio, e il triplo nell’alta valle. Quasi la totalità degli anziani, inoltre, vive da sola. L’immigrazione, che spesso bilancia squilibri demografici, è sostanzialmente inesistente. La questione non è solo demografica: si tratta veramente di aspetti legati al welfare. Da questo punto di vista lo stato non è più in grado, come altrove del resto, di supplire per intero ai bisogni complessi degli anziani. Gli spazi in cui si abita sono spazi quasi sempre montani, come detto. Che non consentono un’accessibilità completa: non si riesce più ad arrivare ovunque, non è più facile raggiungere gli stessi luoghi che si raggiungevano un tempo. Le scale, gli acciottolati, i sentieri: sono gli stessi materiali a costituire un problema di accessibilità. E, ancora, le distanze spesso consistenti dai luoghi dell’assistenza sanitaria, dai negozi, dalle banche e dagli uffici. È evidentemente un problema di mobilità. Dall’altra parte, i giovani sono pochissimi ed è chiaro come per essi sia inevitabile spostarsi, sia per cercare lavoro sia, prima, per frequentare le scuole dell’obbligo.

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0-14

15-29

30-64

65-74

75+

Totale

1.151

1.254

4.733

1.115

1.181

9.434

95

98

400

114

133

840

0-14

15-29

30-64

65-74

75+

12

13

50

12

13

11,3

11,7

47,6

13,6

15,8

2003

2004

2005

2006

2007

2010

Bassa Valle Cervo

194

196

200

202

199

204

Alta Valle Cervo

322

318

328

279

260

280

1911

1971

2011

4.777

1.463

832

Bassa Valle Cervo Alta Valle Cervo

Bassa Valle Cervo Alta Valle Cervo

abitanti

Bassa VC

1.906

5.034

Abitazioni occupate da residenti

496

4.159

Incidenza case non occupate

74%

17%

ab. civili residenziali (â‚Ź/mq)

Indice di vecchiaia. I = abitanti>65 anni / abitanti<14 anni (fonte: osservabiella)

Patrimonio immobiliare. Anno 2010 (fonte: osservabiella)

Piedicavallo

Quittengo

Biella

370-450

340-500

1.150-1.700

Alta VC

Bassa VC

Valle Cervo

Persone sole

255

1.325

1.580

Totale

832

9.482

10.314

Incidenza

31%

14%

15%

60

Abitanti, per etĂ e zona. Percentuali. Anno 2012 (fonte: osservabiella)

Dinamiche migratorie (fonte: osservabiella)

Alta VC Abitazioni esistenti

Abitanti, per etĂ e zona. Anno 2012 (fonte: osservabiella)

Quotazioni immobiliari. Anno 2010. (fonte: osservabiella)

Persone sole. Anno 2010. (fonte: osservabiella)


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Anche in questo caso è complesso, per lo stato, mantenere un servizio di trasporto pubblico efficiente quando gli utenti sono pochi. La situazione demografica e sociale ha un’influenza netta anche sul patrimonio insediativo. Le case sono moltissime, dislocate nei luoghi più vari (non sono tutte concentrate nei paesi) e, in gran parte, vuote. Il 75% delle abitazioni dell’alta valle non è occupato da residenti, il che significa che, salvo alcuni brevi periodi in cui turisti stagionali tornano ad occuparsi dei paesi, per la più parte del tempo dell’anno l’alta valle è deserta, mal collegata, complessa nella sua gestione. Sono gli abitanti a prendersi cura degli spazi (anche pubblici), sicché nei periodi in cui i paesi sono poco abitati, e abitati quasi solamente da anziani, lo spazio pubblico risente fortemente di mancanza di cura. Queste condizioni, come pare peraltro ovvio, influiscono fortemente sul valore del patrimonio immobiliare, portando a prezzi risibili le case anche di qualità altissima dell’alta e media valle. Gli spazi vuoti, inoltre sono molteplici. Fin dallo sbocco della valle nella pianura, nei pressi di Biella, la sequenza delle fabbriche vuote è lunga e caratterizzata da spazi di altissima qualità architettonica e quasi sempre dismessi. Sono a tutti gli effetti degli eccellenti contenitori: non a caso, qua e là, i progetti di riutilizzo di quegli spazi sono articolati, non banali, spesso di grande slancio. La natura rigogliosa della valle si impadronisce molto spesso di spazi, di strade, sentieri, case, fabbriche. Per quanto il riappropriarsi della natura sia spesso affascinante, qua e là celebrato, con una lunga storia anche letteraria e artistica, qui più spesso l’attenzione si muove ai problemi di natura ambientale che si è costretti ad affrontare, con la sovrabbondanza della naturalità. Anche qui lo stato non sempre è in grado di attivare opere di contenimento della natura, di banale manutenzione stradale, di gestione delle acque e delle rive del torrente. Le reattività della società che abita questi luoghi sono puntuali, limitate, eppure di grande impatto culturale e sociale allo stesso tempo. La valle si apre con due rilevantissimi progetti culturali che colonizzano due tra le più antiche fabbriche del torrente Cervo e che sono diventate luogo chiave della produzione culturale biellese. Si tratta in particolare di due fondazioni, la Fondazione Pistoletto e la Fondazione Sella. Insieme alla radicale rigenerazione di questi luoghi, le due fondazioni sono riuscite a costruire intorno a sé delle vere e proprie polarità di interesse ben più che provinciale (per la Fondazione Pistoletto si tratta di una rilevanza quantomeno internazionale). La prima è rilevante perché l’azione compiuta da Michelan-

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i borghi della valle. abitati solo da anziani, immersi nei boschi, irraggiungibili

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Sezioni, dismissioni, rifunzionalizzazioni.

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gelo Pistoletto decide che una fabbrica può diventare un luogo di produzione artistica e di mostra dell’arte. Un vero centro culturale. La sua posizione, nota, peraltro, prevede che l’arte possa incidere sulla società. Anzi, che l’arte, in virtù della sua posizione e del suo grado di stima e peso sociale, possa essere condotta per affrontare le maggiori questioni cui il mondo si affaccia oggi (PISTOLETTO 2010). Questo pone la Fondazione Pistoletto come un evidente polo di produzione culturale di rilevanza tutt’altro che locale. La Fondazione Sella, invece, è situata nella più antica fabbrica biellese, il lanificio Maurizio Sella, e ha una missione completamente differente: giacché la famiglia Sella ha da sempre rivestito un ruolo di prim’ordine nella costruzione del Biellese (ma anche dell’Italia), e lo ha fatto attraverso uomini e donne di grande rilievo, nell’aprire la fondazione (1980), l’obiettivo primario da raggiungere fu quello di rendere disponibile un vasto archivio di memoria “di persone, istituzioni, aziende”. Un grande archivio, insomma, a celebrare, come strumento di studio, la memoria. All’archivio si accompagna un grande impegno espositivo, un’attenzione precipua all’architettura contemporanea (attraverso il premio Federico Maggia), progetti per i giovani, per il lavoro e per la ricerca. Entrambe le fondazioni, inoltre, mettono a disposizione, nei loro formidabili spazi post-industriali, locali e servizi per impiantarvi piccole o grandi start-up legate al mondo della cultura, dell’arte, dell’economia digitale e delle innovazioni sociali dal punto di vista economico. Nella media valle, tra Andorno e Sagliano Micca, ha sede la Domus Laetitiae, ad oggi l’impresa con il più alto numero di addetti dell’intera valle. Questo imponente edificio ottocentesco è stato da tempo destinato all’assistenza e alla riabilitazione di pazienti con gravi disabilità ed è gestito da una cooperativa (con lo stesso nome dell’istituzione), che è legata alla Caritas diocesana, ed è costituita da forme del lavoro che vanno dall’assunzione a tempo indeterminato o a progetto fino a forme più fluide ma costanti di impegno e volontariato. Nel tempo, con il venir meno della presenza sanitaria pubblica sul territorio della valle, il centro si assume la responsabilità dell’assistenza anche per gli abitanti del luogo. Il centro è, ad oggi, il più importante fornitore di servizi sanitari (ma anche di aggregazione sociale) alla valle. Si costruisce, intorno ad esso, una fittissima rete di relazioni che si occupa della cura degli anziani, della mobilità di persone in difficoltà o sole da o verso Biella e altrove, di visite mediche, di attività di svago. Al problema della solitudine degli anziani si risponde con progetti puntuali ed efficaci. La cooperativa Il filo di Arianna e Caritas stanno tentando di connettere i “luoghi e le per-

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Biella The Wool Company, ex cotonificio Poma, Miagliano

Domus Laetitiae, Sagliano Micca

Fondazione Pistoletto, Biella

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sone della frequentazione degli anziani”: operatori sanitari, parroci, bar, centri di incontro, associazioni. L’obiettivo è promuovere pratiche di “buon vicinato” tra gli anziani e migliorarne la qualità della vita venendo incontro a bisogni specifici e prevenendo i problemi dell’invecchiamento in solitudine. Attraverso una rete completamente privata gli anziani vengono osservati e assistiti informalmente. A fronte di grandi solitudini e di assenze di servizi, questo progetto prova a riconoscere i bisogni e a prevenirli. Lo stesso trasporto pubblico degli anziani verso Biella è gestito in larga parte da piccole associazioni. Gli stessi comuni (Tavigliano, ad esempio), hanno costruito dei progetti di trasporto degli anziani attraverso forme di volontariato. Nel mezzo della valle, dove sorse uno dei primi villaggi operai italiani, a Miagliano, The Wool Company è un consorzio che si basa sull’idea di “utilizzare” il distretto nella sua eccellenza. Nell’ex cotonificio Poma, infatti, vengono raccolte le lane sucide di allevatori di pecore di tutta Europa e cercati uno ad uno. Con essi si costruiscono progetti specifici che inseriscono le lane sucide nella filiera biellese per ottenerne prodotti di qualità. Non è ancora curata la distribuzione dei prodotti nei mercati internazionali: i prodotti finiti restano proprietà degli allevatori che ne diventano anche i primi promotori. All’attività di produzione (si tratta soprattutto di un lavoro da terzisti, la “fabbrica” è in verità un grande magazzino di lane e in un ufficio in cui vengono progettati i capi e le lavorazioni) si affiancano spazi “per la cultura della lana” in cui tutti i giorni vi sono mostre (come “The Wool of Europe”),e dove ogni settimana ci sono eventi (teatro, musica, sport, cinema...) tutti sul tema della lana e del recupero della cultura materiale. The Wool Box è la terza attività presente qui che si occupa di promozione degli artigiani della lana ma anche di organizzare corsi, vendere prodotti ecc. Il Consorzio è pensato per promuovere la cultura della lana e, attraverso la sua attività, si impegna in continue azioni di varia natura per rinsaldare i saperi e le relazioni del territorio in cui è posto. Un’ultima reattività della valle è data da un diffondersi piuttosto ampio di pratiche agricole. Alcuni giovani, come capita frequentemente anche altrove, hanno deciso di tornare ad abitare vecchie cascine, di rimettersi a coltivare terrazzamenti, campi, di tornare ad allevare animali. Si impostano attività di agriturismo, spesso molto radicali e anche molto frequentate, che tuttavia sembrano risposte solitarie ai problemi del lavoro legati alla crisi e che, inoltre, sono una risposta anche alla gestione del suolo e alla sua manutenzione e cura.

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Questioni La questione che questo territorio pone (e che la crisi ha messo ancora più in luce) è come immaginare un futuro a fronte dell’impressionante invecchiamento della popolazione e del progressivo abbandono di borghi e di imprese. Sono numerose le case di riposo, esempio, a un territorio su misura dell’anziano, in cui si torni ad abitare la montagna per la altissima qualità di vita ma dove le condizioni sono favorevoli dal punto di vista sanitario come da quello della sicurezza e dell’abitare quotidiano. Il welfare cui siamo abituati ha prodotto, su questo punto, un sistema assistenziale basato su strutture locali e su case di riposo, moltiplicatesi esponenzialmente negli ultimi decenni (strada che non sembra affatto feconda, peraltro). Quale sia il valore delle start-up, delle fondazioni, delle forme minori del welfare non è semplice da definire. Resta tuttavia evidente come le vivacità che si pongono in questo territorio, e che emergono in forma piuttosto spontanea e disarticolata, rivestono un peso non secondario nel fornire risposte alle nuove forme dell’abitare e alle esigenze della società. La disarticolazione e la minorità, a dire il vero, sono aspetti che possono essere considerati secondarî: è piuttosto la capacità di essere attrattive delle iniziative in atto, ciò che pesa. Se queste riusciranno (come riescono già) ad attrarre persone, interessi, attenzioni e azioni, si potrà immaginare che tutto questo costruisca condizioni per un’azione/attenzione più ampi sul territorio. Esse rappresentano, in ogni caso, un deciso indebolimento delle basi universalistiche (Bianchetti 2014): le protezioni sono localizzate, assumo forme volontaristiche e individuali che spesso non possono comprendere tutti ma sono costrette a rivolgersi solo a una parte della popolazione. Il progetto del territorio parte da questi riferimenti. Ci pare, nella nostra lettura di questo territorio, che la Valle Cervo metta in evidenza una tripla crisi, con specifiche conseguenze sul piano del progetto. (1) La drammatica crisi demografica, legata ad abbandono e invecchiamento, domanda un ripensamento necessario dei modi della cura (di persone come di luoghi) e alla costruzione di un territorio su misura dell'anziano (un distretto per gli anziani?). (2) La crisi del welfare e le sue forme minori e non universalistiche richiedono un progetto di collage, un gioco combinatorio da bricoleur che mette insieme azioni molto differenti, alcune istituzionali, altre di effervescenze e vivacità. (3) La crisi del welfare è anche crisi dell'intero: il piano tradi-

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Schemi di ripensamento della valle Cervo come valle per gli anziani: Connessioni minime alla scala del quartiere Dispositivi di accesso orizzontale e verticale


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zionale non può più occuparsi dell'intero ma deve disegnare una città che funziona per parti, frammentata, dove ogni parte funziona completamente eppure non è integrata in un unicum. Connessioni e frange non possono più essere il centro di un progetto territoriale e sono le forme minori della "presa in cura" a tenere insieme la città attraverso le forme della “presa in cura”: la ritirata del pubblico segna qui un vero mutamento della relazione tra effervescenze e piano. La natura, onnipresente, rientra ancora nel campo di ciò di cui il piano non è in grado di occuparsi se non in termini di limitazione dei rischi ambientali o idrogeologici. La penuria economica impone un vero e proprio distacco dal progetto di territorio anni '90: non è più pensabile un piano di valorizzazione pervasiva, ingenti risorse a custodia della memoria di un territorio. Si richiede una più ardua riformulazione delle competenze e delle relazioni tra attori pubblici, privati ed effervescenze sociali.

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Il teatro Regina Margherita . Piedicavallo. Riaperto da un’associazione pubblica e sostenuto da iniziative private.

Piedicavallo. Con l’ultimo paese della valle si apre un’importante rete di sentieri e attrezzaturte pubbliche costruite e mantenute dall’associazionismo.

Regione Balma. La produzione di pietra è ancora attiva.

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Mario. Smistamento delle lane sucide.

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Biella-Cossato: frantumazioni e riallacciamenti Il territorio Si potrebbe affermare che tutto ciò che avviene tra Biella e Cossato, e dunque l’impressionante proliferare di fabbriche, attività commerciali, edilizia lungo e intorno a una strada, dipenda in verità da un fiume. Non perchè il Cervo abbia condotto lo sviluppo di questo territorio, ci si è qui anzi decisamente smarcati dal modello dell’industria legato ai corsi d’acqua. Piuttosto perchè il primo sviluppo industriale di quest’area si è dato in virtù di canalizzazioni, condotte, ficche e altri dispositivi che, sostanzialmente, cercavano di portare la potenza del torrente molto più in là di dove il Cervo si adagiava nella piana biellese per potervi insediare industrie di straordinaria bellezza e di grande rilievo. Il Canale Mosca, che è forse l’opera più nota e più interessante, è ad esempio un canale in muratura che fin dal 1869 produce forza motrice a servizio del lanificio omonimo, nel territorio di Vigliano. E che ancora oggi alimenta tre turbine per la produzione di energia. Il Cervo ha dunque generato un primo proliferare di industrie. Tuttavia è evidente come il maggior sviluppo si è dato non su queste “vie alternative” del torrente, ma su una strada. Di strade tra Biella e Cossato ve ne sono però tre. La prima, quella su cui si è costruito il tracciato storico dell’industria pedemontana biellese, è la SP 300. Intorno a questa strada sono fioriti i comuni più popolosi del territorio (Biella, Cossato, Vigliano Biellese). Accanto allo straordinario sviluppo edilizio e industriale guidato dalla strada (su cui molto si è scritto, sia riguardo a Biella sia rispetto ad altri territori simili, italiani e non) c’è la costruzione di un’altra strada, la SS 142, a doppia corsia, con spartitraffico centrale e una manciata di svincoli. Se la prima strada ha generato una diffusa crescita dello spazio urbano (almeno fino agli anni ’80), la seconda ha indotto uno stillicidio di capannoni, fabbrichette e piccoli centri commerciali tra gli anni ’80 e 2000. A questi tracciati si aggiunge quello della ferrovia, che fino agli anni ’60 collegava, da Cossato, anche Vallemosso. La terza strada, oggi quasi dimenticata, è l’antichissima strada medievale che correva lungo i lembi della collina e lungo i floridi vigneti e campi (moltissimi ancora presenti o rinnovati). Questa strada è oggi caratterizzata da insediamen-

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ti di grande interesse che mostrano le loro origini talvolta tardo-medievali, con elementi tipici dell’architettura rurale biellese, ma anche caratteri di borghi importanti, come quello legato al castello di Valdengo o di Cerreto Castello. Questa strada è oggi caratterizzata anche da una successione (quasi invisibile e assolutamente non riconosciuta) di vecchi pozzi, a dire come qui, il legame tra strada, acqua e insediamento sia da sempre stato essenziale. Vi è ancora una via, lungo questo percorso, ed è quella del torrente Chebbia, a metà tra la strada medievale e quella (la prima che ho citato) dello sviluppo otto-novecentesco. Con l’acqua di questo torrente si ha un rapporto particolare: a volte bistrattata, quasi inesistente, coperta, altre volte custodita, con argini importanti, altre ancora valorizzata, con piccoli percorsi a cavallo del torrente, altre ancora semplicemente non considerata. Il territorio su cui corrono queste strade e che è attraversato da questi due torrenti maggiori (il Cervo e il Chebbia) è un territorio complesso, soprattutto dal punto di vista della biodiversità. A nord è cinto dalle colline delle prealpi biellesi, costellate di castelli (quello degli Avogadro, a Valdengo ma anche il novecentesco Brich di Zumaglia), di ville anche molto importanti (come Montecavallo oppure la Malpenga, ottocentesca villa teatro di meravigliose feste mondane e altre più recenti ma non meno sfarzose), agriturismi, aziende agricole e vitivinicole inserite in boschi (castagni, soprattutto) e campi. Ai piedi della collina e fino alla strada vecchia vi

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1 km


oltre la crisi | biella - Chiavazza, complesso residenziale - Vigliano, il Canale Mosca - La collina dal castello di Valdengo

“Chi non conosce le baraggie, non può dire di sapere cos’è il Piemonte. (...) Oggi la baraggia era stupenda. Nel sole invernale, sullo scenario violetto e bianco delle Alpi, le baraggie erano immensi boschi fitti di querce, ed erano alternamente, campi sterminati di altissime erbacce filamentose, tutte di un compatto, caldo, vivo, splendente giallo zabajone, su cui tornavano a spiccare, qua e là, i rossi ruggine di alcune querce isolate. I medesimi colori di certi altopiani del Kenia”. Mario Soldati (1969), Vino al Vino, Mondadori: Milano

sono i paesi: generalmente aggregati al loro interno, sono dei nuclei di dimensione diversa, tenuti insieme dalla strada, con pochi edifici alti: si tratta soprattutto di case unifamiliari alternate a edifici molto antichi e mischiate a capannoni di misura molto diversa. Ciascun paese tuttavia mantiene una forte identità. La strada ha collegato e tenuto insieme una collana di attività produttive cui spesso si sono vincolati dei rami importanti e nuove zone industriali. Tuttavia se è vero che dalla collina si scende quasi senza soluzione di continuità fino alla nuova SS, importanti aree coltivate, prati, distese di naturalità dividono e connettono allo stesso tempo (sono molti i sentieri trasversali) Chiavazza, Vigliano, Valdengo, Castelletto Cervo, Quaregna, Cossato). Dalla Statale ai lembi della collina a sud vi è il torrente Cervo: il fiume scorre piuttosto liberamente: gli insediamenti si sono tenuti a debita distanza, sicché una pianura di campi coltivati, di distese di prati e boschi di rara bellezza compongono questo paesaggio: non è un caso che qui si siano trasferite alcune aziende anche importanti per cercare condizioni di maggiore qualità ambientale. A Sud il territorio è cinto dallo straordiario altipiano della Riserva Naturale della Baraggia. Si tratta di un esempio unico di prateria italiana con una rilevante storia geologica e archeologica, paragonato spesso alla savana, che da Biella (o da Candelo, meglio, con lo splendido ricetto medievale) si estende fino a Cossato nella sua forma più pura ma che, in verità, fa parte del grande comprensorio delle baragge (che forse deriva da “brughiere”) che attraversa molto del nordest del Piemonte.

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Dalla collina tra Chiavazza e Vigliano. La commistione tra aziende agricole, piccoli allevamenti, boschi, campi, la strada “abitata” e “produttiva” e, in fondo, il Baraggione racconta un paesaggio complesso.

La strada tra Biella e Cossato nei pressi dello svincolo con la SS 300, verso Vigliano.

Baragge biellesi, foto di Manuele Cecconello

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La crisi La crisi, qui, è stata meno dura che altrove. E’ certamente vero che il dilagante e progressivo svuotamento è stata una cifra importante di questo territorio. Così come era diffusa la nascita di nuove fabbriche e imprese, allo stesso modo è diffusa la loro cessazione. Tuttavia se si osserva in una mappa la dismissione delle attività produttive non si ha l’impressione di un deterioramento generalizzato quanto, piuttosto, di un venir meno “diffuso”: qua e là, non estensivo (ben diversa la situazione della Strada Trossi, ad esempio). Le fabbriche che costellavano la SS 300 hanno perlopiù tenuto. Il fenomeno interessante, lungo questa strada, è che le cessazioni sono generalmente prossime: se qualcuno cede, è molto facile che anche il vicino ceda. Non è certo una regola, tuttavia si può esservare una certa ricorrenza non trascurabile di questo caso. Questo avviene soprattutto all’inizio, tra Biella-Chiavazza e lo svincolo per la SS 300, e tra Valdengo e Vigliano, nelll’estesa zona industriale costruita nella seconda metà degli anni ‘90 che corre parallela alla strada. Qui si può osservare come chi ha tenuto è stato chi ha saputo innovarsi o proporre soluzioni diversificate: resta l’eccellenza, scompare la mediocrità. Anche questa non è certo una regola, tuttavia è piuttosto frequente e lo stesso presidente della Camera di Commercio di Biella afferma la stessa cosa. La dismissione è più preoccupante lungo la strada che attraversa i comuni. Qui molte fabbriche avevano sedi importanti, edifici anche di spessore architettonico, e questi spazi avevano con la strada un rapporto di interdipendenza che aveva costituito un vero sviluppo. Forse per via della sopraavanzata della SS 300, forse per un più dichiarato “desiderio di urbanità”, forse per la crisi stessa, gran parte di queste imprese non ci sono più. C’è chi si è spostato (verso la SS 300 oppure, in controtendenza, ai piedi della collina prospicente), c’è chi ha chiuso. Soprattutto nel tratto tra Valdengo e Cossato sono moltissimi i capannoni di industrie importanti con le serrande abbassate, l’erba alta, i parcheggi deserti. Dal punto di vista commerciale i maggiori danni non riguardano i piccoli esercizi posti lungo la strada (che invece tengono) quanto piusstosto i centri commerciali. Surclassati dai nuovi centri posti all’imbocco della Strada Trossi, questi hanno notevolmente ridotto gli incassi e la frequentazione. Nessuno ha chiuso, insomma, ma le cose sono cambiate. Dal punto di vista abitativo le condizioni non sono cambiate poi molto, invece: questa resta la zona più popolata del biellese ed è ancora questa la zona con il più alto reddito pro-capite. Certamente è il territorio stesso a favorirlo: la strada costeggia una lunga zona collinare pedemontana e, tuttavia,

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2007

2008

2009

2010

2011

Candelo

12.790 12.728

12.620

12.793 13.480

Vigliano

13.914 13.806

13.642

13.658 14.379

Valdengo

15.661 15.161

14.503

15.136 15.542

Cerreto C.

12.975 12.139

12.197

12.433 12.912

Quaregna

13.634 13.979

13.735

14.316 14.744

Cossato

13.958 13.887

13.200

13.604 13.939

Biella

15.164 15.209

14.925

15.096 15.838

Provincia

13.643 13.667

13.386

13.580 14.085

Reddito medio / ab, in euro (fonte: istat)

2007

2008

2009

2010

2011

Candelo

8.041

8.058

8.058

7.923

7.946

Vigliano

8.482

8.415

8.343

8.186

8.072

Valdengo

2.560

2.547

2.518

2.511

2.502

Cerreto C.

656

639

640

628

635

Quaregna

1.431

1.414

1.399

1.384

1.384

Cossato

15.050

14.980

15.010

14.794

14.854

Biella

45.842

45.845

45.589

43.747

43.675

187.314 186.698 185.868 181.868

181.426

Provincia

Bilancio demografico (fonte: istat)

2008

2013 di cui artigianali

variaz % di cui artigianali

Candelo

43

28

26

15

-17 -40

Vigliano

86

30

64

21

-22 -26

Valdengo

40

17

37

16

-3 -8

Cerreto C.

18

5

14

3

Quaregna

26

8

19

6

-7 -27

Cossato

106

59

82

44

-24 -23

Biella

245

59

196

48

-49 -20

Bilancio demografico delle imprese, settore tessile (fonte: Camera di Commercio di Biella)

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-4 -22


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è estremamente ben connessa con i centri maggiori e, anche, con le autostrade. Per via di una tradizione che ha centinaia di anni, la collina è abitata da castelli e ville di grande pregio e quelli che erano i villaggi tardo-medievali addossati ai borghi si sono nel tempo trasformati in sedimenti di insediamenti di villette e case a schiera. Il tardo Ottocento vi ha contribuito in larga scala, con la costruzione di importanti villaggi operai di alta qualità, ma il Novecento ha ovviamente diffuso questa forma dell’abitare in modo estensivo. La qualità urbana ed edilizia (termine peraltro arduo, cfr. pag. 135 ss.) pare alta ovunque, nelle villette come nei condomini: abitare qui resta piacevole. Ciononostante non è così ovunque: a Cossato la crisi ha cambiato radicalmente il volto della città. Non sono solo le indutrie a essere venute meno, ad aver chiuso. E’ impressionante, peraltro, notare il numero dei capannoni in vendita (certamente la costruzione di alcune strade a scorrimento veloce, che hanno eliminato Cossato dai percorsi principali, sono state elemento di rilievo in questa storia di dismissioni). L’abbandono, però, si vede qui in forma peculiare nel settore del commercio e in quello abitativo. Intere vie hanno le serrande abbassate, e sembra talvolta che quasi a catena si sia riprodotta una sequenza di chiusura delle attività: alcune vie hanno tutti i negozi chiusi da un lato e tutti i negozi aperti dall’altro. E’ difficile dare spiegazioni semplicistiche, tuttavia questo fenomeno è perlomeno singolare. Nelle vie del centro, inoltre, non è raro imbattersi in grandi complessi e condomini di nuova costruzione totalmente disabitati: gran parte di essi sfoggiano nugoli di cartelli di vendita e affitto. Anche a Cossato, in ogni caso, il segno meno della crisi si vede solo in punti localizzati. Nei dintorni del centro, sulle colline, le forme dell’abitare individuale-familiare (villette, case a schiera...) ha un certo sviluppo e mantiene una certa rilevanza. C’è da riconoscere che, nonostante le dismissioni, l’impressione generale è che qui, appunto, la crisi si sia fatta sentire meno.

Le forme di reattività del territorio sono peraltro molteplici. Giacché i problemi legati alle nuove povertà, alla ricerca della casa e alle difficoltà di recuperare generi di prima necessità sono in aumento (nonostante lo standard di vita sia generalmente piuttosto alto), la Caritas diocesana ha provveduto alla costruzione di una rete piuttosto articolata del “sistema del cibo”. Alcuni empori distribuiscono alimenti freschi, approvvigionati da reti che legano alcuni supermercati locali e da progetti in cui si recuperano alimenti casa

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Vigliano. La Pettinatura Italiana. Glorioso esempio di fabbrica di qualitĂ , orami dismessa.

Vigliano. Capannone dismesso in una nuova zona industriale

fabbriche e capannoni dismessi 0

80

1 km


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Cossato. Nuove costruzioni quasi completamente vuote e invendute

La Biella-Cossato all’ingresso di Cossato. Molti capannoni qui sono in vendita

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per casa (progetto Frà Gallino). Enogood e Tacàtì sono invece due progetti gestiti parzialmente da Caritas che intendono curare la distribuzione di prodotti di cascina o di bottega casa per casa: si tratta di una rete a piccola scala che mette in collegamento piccolissimi produttori, come quelli delle cascine, con gli abitanti del territorio. E che usa la rete web come primo mezzo per la vendita, che permette, ad oggi, di gestire la distribuzione dei cibi non solo nel biellese ma anche più in là, ad est, fino alla periferia di Milano. D’altra parte l’agricoltura è qui piuttosto diffusa e, proprio nella zona a sud di Cossato, verso la confluenza tra Cervo, Strona e Ostola, sorgono alcune aziende agricole importanti, una delle quali ha ricevuto una forte spinta di sviluppo proprio da alcuni progetti di formazione e lavoro promossi dalla Caritas. Allo stesso tempo è ancora su questa strada che si trovano alcune tra le imprese più innovative del Biellese. Due esempi: un’azienda che si occupava di vendita per posta è riuscita in questi anni a ripensarsi come azienda leader dell’e-commerce, stipulando alcuni accordi internazionali e aumentando così di moltissimo la sua produzione e il suo rilievo. Un’altra azienda, che si occupava di tessuti per il ciclismo, ha saputo innovare radicalmente il suo modo di produrre e si è aperta a mercati internazionali di grande importanza per via di un approccio di altissima tecnologizzazione del-

vivacità ed effervescenze 0

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1 km


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la produzione e per la scelta di produrre tessuti innovativi cui soggiace profonda ricerca. Con esse, altre aziende hanno innovato il modo di produrre o lo stesso prodotto: “non ce l’ha fatta chi non ha saputo innovare e rinnovarsi” sostiene il presidente della Camera di Commercio. Rispetto alla prima azienda (bonprix) quel che ci sembra più interessante rilevare è, però, non tanto l’indiscusso successo in termini di produzione e vendita, derivante sia da capacità di gestione sia da abilità precipue dei dipendenti, quanto la forma di welfare aziendale cui non si è più abituati, perlomeno nel biellese. Il rapporto Censis del 2013, a dire il vero, sottolineava con veemenza come le aziende che in Italia sono riuscite a superare la crisi sono spesso gestite da donne e/o hanno spesso una struttura di welfare aziendale piuttosto forte (CENSIS 2013), tuttavia osservare imprese che fanno del welfare un vero punto di forza è nel biellese un fenomeno che, se non altro, rimanda ad altri tempi e ad altre logiche, quando gli imprenditori costruivano prima di tutto una coscienza di appartenenza alla fabbrica attraverso la costruzione di un vero e proprio stato sociale finanziato però dall’azienda. Il progetto della sede di bonprix a Valdengo è piuttosto ambizioso: i servizi che l’azienda fornisce nascono proprio dal fatto che i dipendenti siano perlopiù donne e quindi, a detta dell’Ufficio Relazioni col Pubblico, più naturalmente in gra-

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Vigliano. Vigneti di Montecavallo

Valdengo. La sede di Bonprix

Cossato.

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do di riconoscere i bisogni di chi lavora. Si passa, dunque, da forme di “workfare” (banca delle ore, forme flessibili del lavoro e il telelavoro) ad altre di tipo “mother friendly” (campus estivi per i figli, servizi di pediatria, maternità più lunghe...) fino a servizi “money saving” che convenzionano dentisti e medici oppure gommisti ecc., a servizi per il risparmio del tempo (pane e spesa in azienda; banca, patronato, commercialista in azienda; lavanderia e stireria facilitata; estetista, pagamento di bollette, consulenze legali in azienda...) a specifiche attività di formazione per la cura della salute. Il sistema di welfare aziendale che si propone è evidentemente molto diverso da quello che offrivano gli imprenditori biellesi a inizio Novecento ai propri dipendenti. Tuttavia le ragioni sono simili: in qualche modo, si potrebbe dire, la resistenza alla crisi si attua anche attraverso forme di cura del lavoratore che, facilitato dalla stessa azienda in molte delle operazioni e impellenze della quotidianità, si trova in un ambiente di lavoro più familiare, di qualità più alta. Se questo genere di vivacità sono legate al mondo delle imprese e alla capacità di re-inventarsi e innovarsi, tutt’altra cosa è invece il sempre più diffuso tentativo di riavvicinamento alla natura: sono parecchi gli agriturismi che negli ultimi dieci anni hanno costellato questo territorio. Non è un’operazione banale: come si diceva, la larga vallata in cui scorre il Cervo, fino alla confluenza con lo Strona e poi con l’Ossola, è caratterizzata da una impressionante biodiversità (si passa dalla Baraggia alla piana dei campi coltivati ai vigneti alle colline boscose pedemontane). Questa ricchezza, spesso non considerata, riemerge in questi anni come possibilità di riscatto. Si riconosce un valore a questi paesaggi, si investe in agricoltura, a scala spesso piccola, di autosussistenza, com’è quella propria degli agriturismi. Con essi, anche la trama dei sentieri o dei castelli è rinvigorita. Il Brich di Zumaglia e il parco che lo circonda, ad esempio, è interamente gestito da un’associazione teatrale sostanzialmente volontaria che, oltre a organizzare spettacoli di un certo interesse, si occupa anche della manutenzione ordinaria e straordinaria. I vigneti di queste colline, che un tempo erano floridi ma furono in gran parte abbandonati, vengono ora ripresi e curati con attenzione: oltre al Cajanto, che è il vino biellese più noto dopo il Lessona, c’è il Montecavallo (un Coste della Sesia) e altri vini minori. Non è un caso se anche la famiglia Sella, che si è sempre occupata anche di vino, recentemente ha dato alcune spinte decisive a questa faccia della propria storia passata e contemporanea.

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Questioni Un grande progetto stradale, quello del “peduncolo pedemontano biellese”, il cui completamento è previsto intorno al 2020, intenderà collegare l’autostrada A4 con la A26 passando da Santhià, Verrone, Masserano, Ghemme. L’ipotesi è che questo progetto consenta un radicale miglioramento della mobilità. È un progetto antico almeno di quarant’anni, inizialmente legato alla Pedemontana Lombarda, procrastrinato da stalli politici e altre ragioni. La connessione imprecisa e confusa può forse essere una delle cause delle forme di delocalizzazione operate negli anni; è tuttavia singolare, oggi, accorgersi dalle interviste alle aziende che "con il peduncolo le cose potrebbero andare meglio, ma non cambierebbe molto". L'inerzia infinita di un progetto non si dà senza lasciare traccia: a progetto non ancora realizzato, nel territorio si leggono attese, risposte, azioni concrete, localizzazioni, fraintendimenti. Ciò che ha costruito questo territorio nel tempo, come detto, è un'infrastruttura. Non è banale affermare che l'infrastrutturazione è la conditio per lo sviluppo. Eppure la strada tra Biella e Cossato mostra un'anomalia di questo assunto: qui l’infrastruttura tiene insieme crescita e abbandono. La strada mercato ammette invece variazioni, differenze anche sostanziali e compresenti: i luoghi del lavoro, i luoghi dell’abbandono, i luoghi dell’abitare, quelli dello svago, quelli di innovazione produttiva. Si tratta di un territorio sempre più eterogeneo, dove l’abitare, l’abbandono e la produzione convivono in forme del tutto anisotrope. La strada-mercato sta subendo una metamorfosi inversa, nella direzione di una strada urbana: mescolanza funzionale e spaziale, dove le regole sono dettate non solo dalla convivenza ma anche dalla molteplicità radicale. La mixité, qui, si potrebbe dire, è tutt’altro che vana ideologia progettuale: il venir meno sparso di alcune fabbriche, il crescere di un desiderio di urbanità, gli slanci degli agriturismi, lo spostarsi verso la piana di importanti aziende come Bonprix, l’emergere di piccole o medie reti di fermento culturale/associativo trasforma questa strada in un territorio composito, il cui progetto non può che tenerne conto. La strada Biella-Cossato pare essere segnata da due fondamentali aspetti: l'ammissione di una eterogenità pervasiva e la tendenza al "desiderio di urbanità e buon-vivere" (BUTLER 2014). Tutt'altro che strada-mercato, insomma. Concepire la Biella-Cossato come un territorio complesso, costruito sulla mixité, su alcune emergenze, sulle relazioni a piccola scala e sui confini è immaginare un futuro che non crede più nell'univocità della relazione tra infrastruttura e

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sviluppo: non nega la sua storia e il suo peso ma ne dichiara l'indipendenza. Sarebbe, tuttavia, la più lucida dichiarazione della fine di un modello, quello della strada-mercato, su cui si sono osservate parti importanti di città, scritti testi di grande rilievo, formati architetti e urbanisti oggi di grande fama.

mixité: una pratica “elementare”?

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Vigneti in Baraggia

Vigliano. Case tipiche biellesi. Si riconoscono i grandi loggiati e la struttura in legno

Tra Chiavazza e Vigliano. Vivaio

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La Biella-Cossato vista dalla Baraggia. Sullo sfondo le prealpi biellesi e il Monte Barone

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Strada Trossi: nuove centralità e abbandono Il territorio La strada 230 tiene insieme Biella e Vercelli. C’è dietro la storia di secoli, di scambi, commerci, anche di lotte. Il tratto che va da Biella a Verrone per comodità è detto “strada Trossi” perché un piccolo tratto è dedicato al grande pilota-gentiluomo biellese che contribuì, tra le altre cose, al progetto della MP5 Paperino, quando la Piaggio si era trasferita a Biella per paura della guerra (nella oggi ex Pettinatura Italiana, a Vigliano). Questo tratto di strada, nonostante la sua lunga storia, vede uno sviluppo impressionante negli ultimi decenni del XX secolo. La strada Trossi diventa, in quegli anni, una vera strada commerciale. La strada era stata inaugurata molti decenni prima, quasi in risposta alle preoccupazioni di imprenditori e pianificatori: "manchiamo di strade adatte ai nostri traffici, molte località sono completamente staccate da altri centri con grave pregiudizio dell’unità stessa; (...) alcune zone turistiche attendono ancora di essere scoperte e valorizzate, alcuni borghi progressivamente si spopolano perché dimenticati dalle comunicazioni tutte" (TROMPETTO 1947). Se viene costruita e ampliata per essere un accesso rapido a Biella venendo dall’autostrada, si trasforma molto velocemente in una strada mercato con una gran quantità di capannoni, outlet, negozi e anche fabbriche e piccole industrie che quasi da parassiti si vincolano alla strada sconvolgendo radicalmente la sua vocazione di “connessione veloce”. Mano a mano che la strada si riempiva di attività, il tempo che separava Biella e l’autostrada aumentava, costringendo il territorio a pensare ad alternative di grande impegno economico. La Trossi è incredibile e, se vogliamo, è uno dei lasciti di Aiazzone. Lo straordinario imprenditore fatto da sè, su cui circolano leggende, aneddoti, mitografie, aveva in effetti iniziato dal centro di Biella la sua avventura (a dire il vero lui era di Tollegno, bassa Valle Cervo) alla fine degli anni '70. Nell' '81 il primo grande stabilimento, proprio all'inizio della Trossi. In cinque anni costruisce un impero (e un caso almeno nazionale di imprenditoria legata ai mass media, fondata su slogan tipo "Provare per credere" e su innovativi modelli di sponsorizzazione). Quel che più interessa qui però, è che Aiazzone inaugura a Biella l'alternativa alla lana. Dopo quel primo stabilimento ne apre un altro, sulla Trossi, la Città del Mobile. Straordinario assemblamento

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di capannoni (si tratta di oltre 15mila mq) che, oggi, sono scheletri prefabbricati di grande fascino post-commerciale. "Esci dall'autostrada a Carisio, un mare di cartelli ti porterà fino a Biella" (altro slogan televisivo di Aiazzone) è la più chiara descrizione di questa strada. Tolto il tratto finale, quello tra Massazza e Carisio, quasi interamente dedicato all'agricoltura (qui si sono girate alcune delle riprese dell'incredibile "Riso amaro" di De Santis, nel '49), il resto è una sfilata di capannoni, ormai ben più visibili dei cartelli. Salvo pochi di essi (ad esempio una delle sedi di Ermenegildo Zegna, Modesto Bertotto e la Pettinatura di Verrone) qui non si fa lana, si vende. I paesi restano sullo sfondo. Da sud a nord, dopo Massazza, si incontrano Benna e Verrone, il primo con un'importante storia rinascimentale, il secondo più rilevante nel tardo medioevo. Entrambi, oggi, sono paesi con un'altissima qualità di vita (i fenomeni di "pianurizzazione" cui si fa riferimento a pag. 38 riguardano soprattutto queste zone) e un'età media molto più bassa di altre zone simili. A Benna, soprattutto, la cultura agricola è ancora molto presente. Salendo non si incontra nulla. O, meglio, solamente capannoni, oggi quasi sempre vuoti, come quello della Coca Cola. Gli altri paesi sono defilati, e a volte hanno storie importanti come Candelo. Superato il bivio per Candelo, dove passa anche la ferrovia, la Trossi si avvicina a Biella e si moltiplicano gli spazi del commercio, senza soluzione di continuità e con una grande varietà merceologica. Gaglianico e Ponderano, due altri paesi, sono più a ovest. Il Centro Commerciale "Gli Orsi" apre a fine ottobre 2008. La crisi, quella dai tempi lunghi, era iniziata da un pezzo, ma l'ultima, la più dura, quella che avrebbe stravolto il mondo, era solo una manciata di notizie sui giornali. Da quel momento, in ogni caso, la Trossi cambia radiclamente: gli Orsi portano il commercio fuori dal centro città, cambiano le pratiche, le convenzioni. La costruzione di una vera e propria seconda centralità. Agli Orsi si attacca lo sviluppo di molti nuovi capannoni, almeno fino a Candelo, e il Biella Forum, figlio delle imprese sportive della squadra di Basket locale. La tangenziale aiuta la mobilità, è un buon progetto. Un altro punto fondamentale è la costruzione del nuovo ospedale, poche centinaia di metri a ovest. I lavori, in questo caso, sono iniziati in piena crisi e il trasloco è partito solo nel 2014. La competizione col centro è dichiarata (non sempre voluta) e, oggi, assume forme variegate. Quel che qui è incredibile, però, è che la Trossi afferma un radicale cambiamento dell'economia biellese e un ripensamento della costruzione del territorio. Svincolata dalla lana, la Trossi è una strada di eventi. Che non ha retto.

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Strada Trossi

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Strada Trossi Capannoni dismessi in attesa di rinnovamento

Strada Trossi. Lo stabilimento abbandonato della Coca-Cola

Strada Trossi. La cittĂ del mobile

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La crisi I fenomeni di questo ultimo decennio legati alla strada Trossi sono due: lo svuotamento e le due nuova centralità. La costruzione del centro commerciale "Gli Orsi" alle porte di Biella è un’operazione che altrove si è fatta in altri momenti storici e su cui si è costruito lo sviluppo dei centri urbani. A Biella è avvenuto tra il 2008 e il 2009. Un’area di oltre 250mila mq in cui un enorme centro commerciale di 45mila mq e un palazzetto dello sport hanno sostanzialmente e dichiaratamente spostato il centro del commercio dal centro storico alla porta sud della città. Al centro commerciale si aggiunge un’ottima sistemazione della viabilità, che permette di attraversare Biella senza attraversare il centro, e il progetto del nuovo ospedale, nelle vicinanze. Per quanti dibattiti politici (o partitici) si facciano intorno a quest’operazione è innegabile che, in quanto nuova centralità, essa mostri tutte le opportunità di un rilancio in senso positivo di questa parte di periferia e tutti i rischi di voler trasferire il centro altrove. La crisi, a dire il vero, ha inferto parecchi colpi anche qui, poichè agli Orsi oltre 5mila mq di spazi commerciali sono in vendita (ZAVAGLI S., "La Trossi è diventata il cimitero degli outlet" in La Stampa. Biella, 06/04/2014). La competizione tra centro storico e centro commerciale, tuttavia, è tema spinoso e non risolto dalla crisi, che ha invece indebolito entrambe le parti. Non intendiamo peraltro trattarlo qui. E' in ogni caso piuttosto evidente come l'espansione di Biella sia stata progettata fin dagli anni '90 secondo logiche simili, ossia la costruzione di poli attrattivi. Se a sud troviamo infatti l'enorme centro commerciale, il palazzetto del basket e l'ospedale, a ovest è Città Studi, ovvero uno dei poli di cultura industriale più importanti d'Italia che comprende un'università, un centro di ricerca e consulenza, agenzie, centro congressi e biblioteca specializzata (si tratta di oltre 100.000 mq). Qui un buon progetto di Gae Aulenti ha accresciuto il peso di Biella nel quadro internazionale per via di alcuni corsi di eccellenza, modalità di getione, temi di ricerca. Questi spazi sono stati innegabilmente la speranza di crescita della città. Pur mantenendo il loro ruolo di riferimento imprescindibile (per la cultura, per il commercio, per lo sport, per la sanità) non hanno avuto, almeno per ora, l'influenza che forse si desiderava sull'espansione. La crescita della città, anzi, è ferma da molti anni e l'allineamento di certune politiche a fenomeni di "shrinkage" o di "smart city" non fanno certo leva sull'espansione edilizia (nonostante il progetto delle "torri" di via Lamarmora, ad esempio, ormai un po' datato) quanto, piuttosto, sul miglioramento di qualità urbana, connessione, facilità di accesso ecc. (temi tutti

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Benna

Verrone

Candelo

Ponderano

2007 2014 2007 2014 2007 2014 2007 2014 A Agricoltura, silvicoltura pesca

18

15

15

14

B Estrazione di minerali da cave e miniere

28

24

1 1

C Attivita' manifatturiere

39

25

52

D Fornitura di energia elettrica, gas, vapore ..

33 1

E Fornitura di acqua; reti fognarie, ...

1

F Costruzioni

47 41 104 76

66

1

47 1

1

1

9

12

16

14

131 116

73

76

21

29

49

49

149 139

73

65

H Trasporto e magazzinaggio

2

2

5

7

14 9

6

7

I Attivita' dei servizi di alloggio e rist.

4

3

5

7

23 35

6

13

J Servizi di informazione e comunicazione

2

K Attivita' finanziarie e assicurative

9

G Commercio all'ingrosso e al dettaglio;

L Attivita' immobiliari

3 2

3

7

M Attivita' professionali, scientifiche... N Noleggio, agenzie di viaggio, servizi...

1

O Altri servizi pubblici,sociali e personali

20

6

2 1

10 9

6

9

10

43 30

55

33

7

6

5

3

13

8

3

P Istruzione

2 1

Q Sanita' e assistenza sociale

1

R Attivita' artistiche, sportive, ....

1

S Altre attivita' di servizi

4

X Imprese non classificate

4

30 30

17

16

7

31 29

5

6

115

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185

159

335

318

variaz % di cui artigianali

24

9

16

6

-8 -33

BIELLA

245

59

196

48

-49 -20

43

28

26

15

-17 -40

MASSAZZA

9

3

6

2

-3 -33

PONDERANO

23

9

17

5

SANDIGLIANO

49

21

47

19

-2 -4

VERRONE

34

8

21

1

-13 -38

Bilancio demografico delle imprese, settore tessile (fonte: Camera di Commercio di Biella)

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3

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BENNA CANDELO

3

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2013 di cui artigianali

2

5

Tipologie di imprese (fonte: Camera di Commercio di Biella)

2008

2 5

-6 -26

587 544


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spinosi ma che come è noto costituiscono ambito di grande speculazione, almeno intellettuale, nei dibattiti sulle città contemporanee europee). Il secondo fenomeno, come detto, è quello dello svuotamento radicale. La crisi del 2008 ha sostanzialmente generato, in questa strada, la chiusura quasi totale di tutti gli stabilimenti produttivi presenti. Ma anche della gran parte di edifici per uffici e delle attività commerciali. Si tratta di oltre 50mila mq di spazi vuoti (ZAVAGLI S., ibidem). Il 10% dello stesso centro commerciale "gli Orsi" è vuoto. Quella strada che era colonizzata da outlet e capannoni è ora una collezione di spazi enormi deserti. "Sempre più spogli, arrugginiti, scrostati, sono i capannoni dello shopping lungo la strada Trossi. Dal sogno di «outlet city», a una coda impersonale di colossi diventati tutti uguali. Privati di un’identità. Con un futuro incerto. Chissà se li salverà il trasloco a Sud dell’ospedale. Intanto tra insegne strappate ed erbacce che crescono nei parcheggi, il quadro è di una città col trascorrere dei mesi sempre più in via di desertificazione: almeno quindici immobili sbarrati, circa 44 mila metri quadrati di aree commerciali vuote, un valore per via della crisi difficilmente stimabile ma ipotizzabile minimo sui 20 milioni di euro. (...) Numeri percepibili a occhio nudo, passando con l’auto in una savana fatta di cartelli rossi, gialli, verde con impresse le solite ricorrenti parole «Vendesi» o «Affittasi». «È desolante - dice il sindaco Andrea Quaregna, di Gaglianico -. O meglio: è sempre peggio». Già, considerato l’intensificarsi della progressione: stanno sbaraccando in queste ore due concessionarie auto, un mobilificio, per non parlare degli elettrodomestici trasferiti altrove" (ibidem). Verrone sembra aver perso il 55% degli spazi commerciali e produttivi, Gaglianico il 40%. "Il quadro a tinte più fosche riguarda l’area ex Mosca: 6.500 metri quadrati con un progetto di restyling già disegnato, ma una trattativa con una grossa catena di articoli sportivi saltata un anno fa. Dall’altro lato della strada, a due passi da Gli Orsi, altri 5 mila metri che su internet vengono messi in vendita a oltre 4 milioni di euro" (ibidem). Con le dismissioni e i problemi di disoccupazione crescono anche i problemi legati alla casa, alle prime necessità e alle nuove povertà emergenti (cfr. infra, Introduzione). Nonostante il carisma delle amministrazioni comunali, spesso impegnate in grandi progetti entusiastici, il clima non è favorevole e la crisi, oltre a essere economica e spaziale, è percepita spesso anche come psicologica.

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oltre la crisi | biella a sinistra: “Workers in a shed of the Monteleone Group. The Monteleone Group buy textile machines from the factory that are cloosing, upgrade the machines and re-sell tem to indian and chinese custumers since there is always less italian custumers. Monteleone own several shed full of textile machines that are waiting for a potential custumers.Monteleone, who started this job in the 1946, claims that the textile industry is finished and that Biella should find an other source of income� foto di Tommaso Rada

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IMPRESE CESSATE (2008-2014)

imprese cessate lungo la strada Trossi

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Biella rete dell’accoglienza Caritas

Il problema psicologico-mentale e quello delle nuove povertà è affrontato a Biella soprattutto da alcune organizzazioni e associazioni legate alla Caritas diocesana. Sull'abitare, ad esempio, si è disegnato un serio progetto di accoglienza: il costo elevato di gestione degli edifici e la fatica prolungata di trovare affittuari hanno indotto molte famiglie a donare gli immobili alla Caritas. Si tratta per ora di una quarantina di immobili, tutti siti in Biella o nelle vicinanze (ma il numero è in aumento, e sempre più si tratta di case lontane da Biella). La Caritas ha costruito, con questi immobili, una fitta rete di accoglienza di ‘secondo livello’ che fa parte di un progetto di coordinamento teso a ottimizzare e incrementare il piano-casa della città. Si tratta di un piano quinquennale, guidato dalla Caritas, che comprende il Comune, il Cissabo (Consorzio dei Servizi Socio-Assistenziali del Biellese Orientale), il Centro Servizi Volontariato, alcuni enti privati. Nel piano si prevedono progetti di sistemazione degli alloggi, inserimento di abitanti, un ‘cohousing fraterno’, l’accoglienza di rifugiati, altre strutture. L’obiettivo è triplicare i posti di accoglienza. Anche rispetto al tema dell’accesso ai beni alimentari vi sono risposte dal basso che vengono da una rete di associazioni guidate dalla Caritas e dalla Fondazione Pistoletto. Inizialmente mossi dall’apertura di una ‘mensa di condivisione’ (a Biella) dove gli utenti sono soprattutto anziani, persone sole, persone con problemi gravi di depressione, ma anche poveri, negli ultimi anni la domanda crescente ha indotto la Caritas a costruire un ‘sistema del cibo’ piuttosto articolato. Lo stesso modello presente sulla Biella-Cossato è presente anche qui, specialmente in alcuni punti come il centro città, Gaglianico, Verrone. Nelle vicinanze di Verrone, poi, sono stati attivati piccoli progetti di reinserimento lavorativo in micro-aziende agricole. Alcune di queste persone, che qui apprendono i rudimenti dell'agricoltura biologica, sono poi inserite in un'azienda più grande nelle vicinanze di Cossato. La centralità degli Orsi, per quanto osteggiata, riesce tuttavia a mantenere una certa stabilità: non è un caso che, dell'intero percorso della strada Trossi, la sezione che va da Biella fino allo svincolo per Candelo, quella in cui si trova il centro commerciale, insomma, funzioni meglio della seconda parte. Qui, addirittura, nonostante alcune importanti dismissioni, ha aperto qualcosa di nuovo, attraverso ristrutturazioni o nuove costruzioni. Sarebbe da verificare se questo fenomeno dipenda realmente dalla presenza degli Orsi oppure no, tuttavia è innegabile che questa parte della strada funzioni radicalmente meglio. Dal punto di vista produttivo, alcune aziende tengono bene. Si tratta, ad esempio, del Monteleone Group, che raggrup-

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Il nuovo ospedale

il centro commerciale “gli Orsi� foto di Fabrizio Lava

Biella. La sede della mensa, di alcune cooperative, del centro multiculturale

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pa tre aziende nel territorio di Benna. L'azienda, tuttavia, è singolare: si occupa infatti di "new and second hand textile machine and accessories". L'azienda si occupa cioè di accquistare macchinari da fabbriche che chiudono o che cambiano i propri strumenti di lavoro, sistemarle o migliorarle e rivenderle ad altri clienti, soprattutto indiani o cinesi (cfr. la fotografia di Tommaso Rada a pag. 96). Le amministrazioni comunali, dal canto loro, sono qui particolarmente attive in forme di reattività che potremmo talvolta definire "di prossimità": non è raro, ad esempio, che si provino ad attuare accordi con le imprese attive per garantire una percentuale di posti di lavoro per i residenti nel comune a prezzo di investimenti urbanistici anche importanti che permettano l'espansione delle aziende (cfr. < http://www. comune.verrone.bi.it/news/2014/08/07/possibilita_di_impiego_espansione_occupazionale_mapfre_spa.html>) . L'associazionismo, qui, è peraltro una matrice molto rilevante per quello che concerne lo sviluppo e la cura del territorio. L'età media molto bassa e una forte tradizione agricola spingono infatti le persone a riunirsi in molteplici associazioni (spesso fin troppo campaniliste) e a organizzare reti lunghissime di eventi culturali, feste, dinamismi che cambiano molto la "qualità urbana" di questi luoghi e, contemporaneamente, si occupano di problemi locali come il trasporto degli anziani o la cura dei malati, offrono servizi legati al loisir come sport, formazione alla salute, post-scuola ecc. Si delinea, insomma, un panorama piuttosto variegato di offerte e dinamicità: a fronte di una incredibile dismissione e abbandono è la stessa struttura di associazionismi e iniziative private a ricostruire spazi, tempi, pratiche del vivere insieme.

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Questioni La Trossi ha una storia complessa, tuttavia pare che i progetti della sua valorizzazione passino non attraverso la risignificazione della strada, non rituilizzando o ripensando i vuoti ma attraverso la fondazione delle nuove centralità. Le centralità sono evidentemente una grande sfida. Si ha la possibilità di affrontarle, e costruirci il vero e proprio sviluppo del territorio che attraversano, oppure non occuparsene, con l’esito implicito (neanche tanto) di generare un’autoproduzione di dinamiche spesso conflittuali (come quelle già presenti tra centro storico e centro commerciale). Le centralità che sono argomento di progetto, nel biellese, sono di tre tipi. Il primo è commerciale e di servizi, il secondo è sanitario, il terzo è legato all'istruzione e alla ricerca. Se è vero che l'Università (la terza nuova centralità) è piuttosto separata perchè posta a ovest della città e in qualche modo alquanto indipendente, l'ospedale e il centro commerciale sono invece fortemente connessi e annunciano un funzionamento del territorio molto diverso:non più determinato dalla strada, insomma. La questione, però, riguarda il progetto urbano: come riescono ancora a funzionare, qui e ora, le nuove centralità? Se il nuovo luogo centrale è luogo cui si attribuisce un valore, e per via di quel valore è possibile attirare densità, investimenti, crescita, la situazione attuale non sembra però confermare la tendenza: il valore aggiunto non sembra così decisivo e la crescita attesa tarda ad arrivare. Che succede, invece, se le centralità non riescono ad essere luogo trainante? Si tratta forse, allora, di raccontare il futuro di una città a scala minore, dove le cose funzionano molto bene e la qualità di vita è molto alta ma dove non vi è crescita dal punto vista dell'espansione. In ciascuno dei due casi, il tema del progetto è la strada. Congiungimento di punti oppure luogo dell'incontro e della connessione di vivacità, capace di dettare nuovi valori? La Trossi doveva essere il collegamento all'autostrada e si è trasformata in ibrido: una strada ad alto scorrimento che impedisce la vita urbana a piedi o in bicicletta e che non è neppure adatta al collegamento veloce. Dal peso, dall'evoluzione e dalle scelte delle nuove centralità dipende, sostanzialmente, il progetto della strada: si può recuperare la connessione orizzontale e costruire una strada "di eventi urbani". O si può decidere che la Trossi torni ad essere la vera strada veloce dell'accesso a Biella.

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Schemi di ripensamento della strada Trossi 1. case e capannoni 2. una strada veloce: sovrappassi 3. una strada veloce: sottopassi 4. una strada di eventi urbani

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Pianura al fondo della strada Trossi Foto di Manuele Cecconello

Biella. CittĂ Studi. Il sogno di una universitĂ biellese di eccellenza. Foto di Fabrizio Lava

Strada Trossi. Capannoni in vendita e erba alta

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La cittĂ del mobile

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Vallemosso il fiume disabitato Il territorio Vallemosso è stata la culla dell’industria italiana. Qui Pietro Sella ha introdotto i primi telai meccanici, qui si è costruita un’importante tradizione di tessile laniero ad altissima qualità. L’eccellenza di questo spazio deriva dall’acqua del torrente Strona, pare, più adatta di molte altre per gestire alcuni processi di lavatura della lana. Il fiume è il cuore della valle da secoli. Lo è stato nel ‘700 e ‘800, quando era usato, prima ancora che per la lana, per produrre energia, lo diventa in maniera prorompente a fine ‘800 e nel primo ‘900, quando si costruisce persino una diga di grande rilievo per l’industria, dilagante in modo impressionante. Quando il 3 novembre del ’68 il presidente Saragat pianse a Vallemosso la catastrofe dell’alluvione aveva davanti agli occhi il disastro di uno dei centri più industrializzati del paese. Vallemosso era la fabbrica. In quei giorni si persero 130 industrie, 350 laboratori artigianali, 400 attività commerciali. Se è vero che Vallemosso si riprende, e conserva per decenni un ruolo di assoluto primo piano nel distretto biellese, è vero anche che oggi si torna a respirare un’aria di morte. A Vallemosso si arriva da due strade. La prima, quella vecchia, è quella che parte a Cossato e segue tutto il corso del torrente Strona. Era lo stesso tracciato della ferrovia, la strada dell'evoluzione delle fabbriche. Da Cossato a Vallemosso, salvo poche interruzioni dettate dalla forma della valle, le fabbriche si susseguono senza soluzione di continuità. Oltre Vallemosso proseguono ancora, fino quasi alla base della diga di Ponte Vittorio. Questo tratto di strada che da Vallemosso giunge sino alla diga fa parte di un grande progetto, la "Strada della lana", che fin dal 1996 tenta di valorizzare i tracciati storici e la forza che l'industria laniera qui ha avuto (VACHINO 2008, TRISCIUOGLIO 2008). Gli edifici sono impressionanti, alcuni di rara bellezza. L'architettura industriale dell' '800 trova qui forme magnifiche e risultati ragguardevoli che conducono l'architettura rurale verso stravolgimenti tecnologici e innovazioni costruttive che anticipano certi modelli "a scheletro" che saranno tipici del calcestruzzo armato e che giungeranno solo molto più tardi (BONARDI, NATOLI 2005; CERRUTI BUT 2005). Anche gli esempi novecenteschi sono notevoli. Qua e là s'incontrano edifici di un razionalismo coerente, diretto, radicale eppu-

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re mai eccessivo, con un uso sapiente dei rivestimenti, della pietra, dei "fondamentali" dell'architettura. O con edifici come la fabbrica Zegna-Baruffa, ormai praticamente vuota, dove il ripensamento di forme tradizionali dela fabbrica della lana conduce a esiti imprevisti e luminosi. Anche gli insediamenti abitativi sono di pregio. Oltre ai gruppi di case tipiche che formano piccoli centri e frazioni, sono molto frequenti le ville liberty (come il Circolo dei Cacciatori, Villa Reda o alcuni palazzi del complesso Zegna Baruffa) e esempi preziosi di edilizia residenziale convenzionata come il condominio Giardino. Case e fabbriche si confondono, lavoro e abitare sono una cosa sola. Intorno, le colline e i boschi. La Rovella, luogo di forticazioni antidolciniane nel XIV secolo, è la cima più importante (889m s.l.m.) della densa catena di colline che costituiscono le Prealpi Biellesi. Abitare a Vallemosso significa avere un contatto diretto con l'acqua e con i boschi. La valle è stretta e l'unico slargo si dà nel centro del comune, sicché da sempre il rapporto è stretto. Da pochi anni raggiungere Vallemosso è più semplice: la seconda via, infatti, è costituita dalla superstrada Cossato-Vallemosso, terminata a inizio 2010, che, passando attraverso le colline di Valle San Nicolao, permette una connessione molto più rapida con Carisio e, dunque, con l'autostrada. La nuova strada ha inevitabilmente sovvertito il funzionamento del tratto della vecchia strada, dove erano numerose le attività commerciali e produttive. Il progetto di una connessione veloce con le autostrade era, a dire il vero, già di Ermenegildo Zegna, tuttavia dibattiti politici, gelosie, interessi di vario genere hanno procrastinato questo intervento agli anni duemila.

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500 m

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Vallemosso

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Fabbriche lungo lo Strona

Vallemosso. “La macchina� fotografia di Fabrizio Lava

Vallemosso. Lanificio Luigi Botto

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La crisi Il nucleo di fabbriche che s’incontra entrando nel paese è il segno della memoria e della dismissione. Insieme ai sentieri acciottolati degli operai, alle ciminiere spente, ai capannoni enormi e – quasi – completamente vuoti, gli stessi spazi hanno talvolta un’aria sinistra: dov’era il parcheggio della fabbrica ora c’è una stazione per i pullman di linea. Vuota, ahimè, perché i trasporti pubblici sono ridimensionati. Dov’erano alcune grandi industrie vi sono altre attività, come un supermercato e qualche artigiano. Quando ce l’hanno fatta e non hanno chiuso anch’essi. Le case sono perlopiù vuote e gli immigrati, un tempo piuttosto numerosi da queste parti, se ne sono andati anche loro. L’opera d’arte contemporanea appesa ai muri della Botto Giuseppe, che il tempo ha consumato, è l’ultimo segno di una generazione dal nerbo duro, che stringe i denti. Ciò che sta intorno, però, non alimenta larghe speranze. E', questa, l’unica azienda che ancora tiene, e lo fa perché ha sapientemente costruito relazioni internazionali e conserva un' importante capacità di utilizzare le risorse locali (ha ad esempio costruito un impianto sperimentale di purificazione e gestione delle acque ma allo stesso tempo coltiva relazioni che permettono di generare prodotti innovativi). Descrivere gli effetti della crisi in questo luogo significa confrontarsi con un periodo più lungo di quello tra il 2008 e il 2014. La crisi qui è cominciata molto prima e molti stabilimenti hanno concluso la loro esistenza già negli anni '70, dopo la terribile alluvione del '68. In verità gli anni '70 e '80 sono stati ancora effervescenti, per Vallemosso, con Zegna Baruffa che produce consistenti innovazioni nella lavorazione del cachemire, ad esempio. Il bilancio sociale del Comune di Vallemosso dell'anno 2007, in ogni caso, non mostra una situazione dissimile a quella di altri paesi biellesi con simile numero di abitanti. Le minorazioni, tuttavia, vi sono state, poichè negli anni '70 e '80 Vallemosso era in una situazione decisamente migliore rispetto ai comuni simili. La crisi del 2008 ha però inferto alcuni colpi di più grande impatto: il lavoro è venuto meno e moltissime fabbriche hanno chiuso. Ma Vallemosso è il paese dove fabbrica e casa coesistono, sicché, col venir meno del lavoro, anche l'abitare è soggetto a minorazioni e dismissioni. La catena degli affitti e delle vendite è aumentana con decisione. Chi ha potuto, è andato via. L'immigrazione resta a valori importanti (11% della popolazione attuale), tuttavia dal 2001 al 2014 Vallemosso ha visto decrescere i suoi abitanti del 13%. Anche l'Indice di Vecchiaia è aumentato considerevolmente (dal 221% del

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% 0-14

% 15-64

% 65+

Indice di vecchiaia

Abitanti

Età Media

2007

12,3%

61,9%

25,9%

3.868

211,2%

45,7

2008

12,2%

61,4%

26,3%

3.807

215,2%

45,9

2009

12,3%

61,4%

26,3%

3.769

213,8%

46,1

2010

12,1%

61,4%

26,6%

3.701

220,4%

46,4

2011

12,1%

60,3%

27,6%

3.640

227,9%

47,0

2012

12,3%

59,9%

27,7%

3.521

225,1%

47,0

Popolazione per età (fonte: Istat)

Popolaz. Natalità Mortalità

C r e s c i t a Migratorio C r e s c i t a Naturale Totale Totale

2003

3.962

7,8

14,4

-6,6

15,9

9,3

2004

3.973

13,6

10,8

2,8

-6,5

-3,8

2005

3.950

7,6

13,2

-5,6

-2,3

-7,8

2006

3.901

6,7

10,5

-3,8

-13,1

-16,9

2007

3.838

8,9

13,6

-4,7

-11,2

-15,9

2008

3.788

5,8

14,0

-8,2

-1,8

-10,0

2009

3.735

9,6

15,5

-5,9

-12,3

-18,2

2010

3.671

6,0

11,7

-5,7

-10,9

-16,6

2011

3.581

8,9

10,9

-2,0

-5,3

-7,3

2012

3.517

7,7

14,8

-7,1

4,5

-2,6

Bilancio Demografico (fonte: Istat)

Residenti Stranieri

Residenti Totale

% Stranieri

2005

365

3.934

9,3%

1861 2.613

1971

5.466

2006

378

3.868

9,8%

1881 3.383

1981

4.932

2007

376

3.807

9,9%

1911 3.492

1991

4.350

2008

393

3.769

10,4%

1931 4.254

2001

3.957

2009

375

3.701

10,1%

1951 5.592

2012

3.512

2010

393

3.640

10,8%

Residenti

1961 5.831

2005

2014

C 13 INDUSTRIE TESSILI

4

2

C 131 Preparazione e filatura di fibre tessili

12

12

C 132 Tessitura

11

4

C 133 Finissaggio dei tessili

5

4

C 1392 Confezionamento di articoli tessili

2

1

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Residenti

Popolazione dal 1861 al 2012 Cittadini stranieri (fonte: Istat)

Imprese del settore manifatturiero tessile (fonte: Camera di Commercio di Biella)


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2007 al 226% del 2012). Un altro problema piuttosto rilevante riguarda la viabilità: la nuova strada, che serve non solo Vallemosso ma anche Trivero e la Valsessera, infatti, costituisce una grande difficoltà di gestione. Nel 2013 e 2014 spesso i dibattiti pubblici provinciali vertevano sulla possibilità di chiudere questa strada per carenza di risorse economiche a disposizione per l'illuminazione delle numerose gallerie o per la manutenzione ordinaria. Anche qui, come altrove nel biellese, molte risposte sono venute da pratiche minori di associazioni che si occupano di cura del territorio: a fronte di numerosi eventi atmosferici che hanno causato alcuni problemi alle strade sono stati vigili del fuoco, a.i.b. Biella Orso e altri volontari a risolvere i problemi che avrebbero bloccato Vaallemosso. Per quanto riguarda i problemi legati all'illuminazione, invece, a fronte di un progetto infrastrutturale piuttosto avanzato dal punto di vista ambientale (AMADORI 2006) troviamo perlomeno singolare l'assenza di sistemi sostenibili anche banali di produzione di energia elettrica. Ci pare che un grande problema di questo territorio risieda non solo nelle reali condizioni di crisi economica, abitativa, edilizia ecc. ma anche nella difficoltà di immaginare un futuro diverso dalla storia che l'ha costruito. A volte le crisi generano una chiusura mentale dettata dalla necessità di sopravvivenza e, per quanto grandi entusiasmi, passioni viscerali e desiderio di cambiamento siano parte viva di chi si occupa di amministrazione e gestione del territorio, non è semplice accorgersi di quali siano le strade della svolta. Nel 2013 le amministrazioni di Vallemosso e dei comuni vicini, in stretta collaborazione con il Liceo Scientifico di Valle Mosso, il ‘Bona’ di Mosso e l'Istituto Alberghiero di Trivero, hanno promosso "Scenari", un progetto avviato con un triplice intento: quello di attivare i giovani del territorio nella definizione di idee e strategie per il futuro, quello di attivare e di acquisire esperienze in materia di sostenibilità dello sviluppo e infine quello di attivare reti di progetti, idee e persone per costruire capacità di futuro territoriale. Gli scenari su cui i ragazzi delle scuole secondarie hanno lavorato sono di un certo interesse (chi immagina Vallemosso come centro di formazione per l'industria e l'imprenditoria, chi ne fa il luogo di produzione efficiente di energia elettrica da fonti sostenibili, chi immagina un futuro turistico), tuttavia è difficile ragionare su Vallemosso secondo logiche ancora legate al progetto degli anni ’90, oppure secondo strategie di tipo energetico-economico di cui ancora non è chiaro il valore sociale e le implicazioni. La questione è tutta legata alle risorse (soprattutto economiche) a dispo-

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Vallemosso. “The interiors of an abandoned textile factory� foto di Tommaso Rada

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Vallemosso. Fabbriche e case.

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fabbriche cessate/dismesse fabbriche attive

Vallemosso. Imprese cessate e attive

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sizione e alla radicalmente mutata società che abita questi luoghi. Non è, questo, il solo lavoro di pensiero creativo su Vallemosso. "Stro_fa. Lo Strona, la fabbrica" è un film diretto e montato da Manuele Cecconello (di cui ospitiamo in questo lavoro alcune fotografie) che "documenta e racconta il torrente negli intrecci della sua secolare storia con le fabbriche. Il film ritrae l’identità di una comunità, quella della Valle di Mosso, alle prese con una crisi di trasformazione epocale: l’intervista all'imprenditore proprietario del grande marchio risuona con quella al singolo operaio protagonista dal basso di una tradizione professionale formidabile. La presenza degli opifici ancora in attività pulsa con i vuoti degli stabilimenti dismessi e i sogni di giovani che lanciano progetti di nuova vita" (dalla presentazione del film). "Il documentario si presenta come parte di un’operazione di riflessione che precede e vuole accompagnare una politica lungimirante di rilancio e rigenerazione socio-economica e culturale della valle dello Strona" (dalla presentazione del Comune di Vallemosso, <http://www.comune.vallemosso. bi.it/on-line/Home/Ultimenotizie/articolo55011949.html>). L'obiettivo è duplice: "essere risorsa tangibile e qualificante da impegnare nelle azioni e nelle politiche di marketing territoriale e quella di far conoscere a pubblici diversi, distinti e anche distanti una realtà produttiva concreta di imprenditori profondamente radicati da secoli nel territorio, di tecnici e maestranze ai vertici dell'eccellenza tessile laniera mondiale,con una sua singolare identità e con una storia che ha molto da consegnare al tempo nuovo che si annuncia al di là delle nebbie della crisi" (ibidem). Il film è magnifico ed è una straordinaria testimonianza della memoria, della storia, ma anche delle speranze e delle sfide. Apre finestre. Ancora, a Vallemosso vi sono state importanti campagne e mostre fotografiche come "s/guardi e ri/guardi" (2005) o il progetto "Un paese di stoffa buona" (<http://www.stoffabuona.it>) Vallemosso, tuttavia, non è solo questo (che già sarebbe molto, peraltro, giacché la produzione metanarrativa di scenari, di documentari d'autore, di esperienze fotografiche restituiscono un' "iperverità" che è già progetto e che s'avvia al futuro in forme estetizzanti del fare che s'inverano con l'azione - MANDUCA 2008). Vallemosso è un ricettacolo di associazioni e piccoli gruppi di persone che costruiscono progetti, rilanci, sguardi. Nei comuni confinanti alcuni gruppi importanti di giovani hanno da anni ricostruito un tessuto sociale disperso mettendo insieme ragazzi, giovani, anziani e famiglie in progetti sociali tra le parrocchie, le famiglie e le amministrazioni. Altrove, ancora, si lavora per la salvaguardia di alcuni prodotti tipici

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fabbrica dismessa lungo lo Strona

Tra fabbriche dismesse e fabbriche in attivitĂ

Crocemosso (Vallemosso) “A still open factory with a sign saying the change is unavoidable� foto di Tommaso Rada

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come il Macàgn, formaggio che è presidio slowfood poichè prodotti in condizioni particolarissime. L'acqua, qui, è poco utilizzata e, salvo l'impegno profuso dall'azienda Botto Luigi per la sua protezione e salvaguardia, vi è poco interesse a custodirla o a ricavarne risorse. Lungo il torrente, soprattutto a sud del centro di Vallemosso, una lunga fila di orti privati sugli argini ne preserva involontariamente la qualità e ne garantisce la cura. Le sezioni degli istituti superiori che hanno sede a Vallemosso e a Mosso sono noti a livello nazionale e talvolta internazionale per la loro capacità creativa nel proporre progetti, strategie, forme sperimentali di didattica. Il biellese "rappresenta un caso emblematico di understatement, di sottodimensionamento della comunicazione delle proprie risorse (...) non importa di chi sia la colpa, se della scarsa propensione (e/o capacità) a "comunicare" dei biellesi, se della monocultura industriale, se di un certo innegabile conservatorismo culturale e caratteriale" (VIZZARI 2002). Che sia incapacità di comunicare o fatica a leggere le proprie risorse, certamente la crisi ha amplificato con effetti drammatici sull'economia e sul lavoro questi effetti e, forse, a ben vedere, quel che è più necessario, a Vallemosso, è uno sguardo diverso.

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Questioni La questione posta da Vallemosso riguarda due aspetti: i vuoti e i confini. Si tratta qui del fenomeno dell'abbandono di natura ed edifici, entrambi di pregio, in un contesto non urbano. Rispetto al tema dei vuoti, il discorso s'avvia secondo due direzioni: quella del rischio e quella delle opportunità. Il rischio è fondamentalmente ambientale. È inevitabile che una questione ambientale che riguardi la relazione tra il costruito, il degrado, l’inquinamento del fiume si porrà molto presto e sarà necessario occuparsene in profondità. Poiché non è semplice ricostruire, rigenerare, riutilizzare laddove le risorse economiche sono limitate e dove la società è venuta meno o è fortemente ridimensionata, come a Vallemosso, il progetto si preoccupa di mettere in salvo il torrente e di custodire gli edifici. Dove talvolta la custodia si dà nella forma di "rinaturalizzazione accompagnata". Senza avere le forze economiche per demolire o riutilizzare, l'azione minima che pare necessario compiere è quella della messa in sicurezza di edifici e fiume. Le opportunità riguardano la complessa questione del patrimonio e della patrimonializzazione. I chilometri di fabbriche completamente deserti rappresentano un’enorme quantità di spazi vuoti, coperti, quasi sempre di qualità altissima, che hanno tuttavia "perdu leur valeur d'usage" (LENIAUD 2007 in HEINICH 2009). La maggior parte di questi spazi, tuttavia, non sono attualmente recuperabili. Strategie di alcuni decenni fa avrebbero museificato, conservato, custodito. Più avanti, la tradizione della patrimonializzazione si sarebbe avvalsa di parole come "riciclo", "rigenerazione", "riuso", procedendo sostanzialmente verso una risignificazione, o riattribuzione di valore, che avviene "comme un sacrement est administré à un malade" (HEINICH 2009:259). Il peso della questione è tanto enfatico quanto difficoltoso. L' "inflation patrimoniale" (ibidem) non avrebbe una vita facile, a Vallemosso: sono le condizioni entro cui il progetto può darsi, a non concederlo. I confini, dunque, sono il tema che Vallemoso pone al centro: la profondità della questione sta tra la dimensione fisica e quella sociale. La dimensione fisica riguarda gli aspetti della rinaturalizzazione e dell'avanzata del bosco: certi che i vuoti a perdere ne faranno parte, fino a dove può darsi il progetto? La dimensione sociale pertiene al restringimento demografico: per chi è dato, il progetto? Da questo punto di vista, il tema della patrimonializzazione o della rigenerazione è inquadrato in quello della condizioni per il progetto. Ci pare che l'approccio cui Vallemosso mostra segni di mag-

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giore accoglienza è di tipo tentativo o "formativo", per cui l'esperienza del "fare" è quella di "un «fare» che, mentre fa, inventa il «modo di fare»: produzione ch’è, al tempo stesso e indivisibilmente, invenzione" (PAREYSON 1988: 18), lo sguardo verso la dismissione e la rovina non è nè di contemplazione nè di muta rassegnazione. S'ha, invece, da innescare un processo produttivo che procede per tentativi ("il formare è essenzialmente un tentare, perché consiste in un’inventività capace di figurare molteplici possibilità e insieme di trovare fra di esse quella buona", ibidem: 61) attraverso una certa misurata e consapevole barbarie (BECCARIA 1768).

La custodia dei vuoti attraverso pratiche "leggere" di protezione

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Vallemosso. Negozi chiusi lungo le strade

Lo spazio della fabbrica e lo spazio pubblico si confondono in termini di funzione e di qualità . Entrambi, però, sono vuoti.

Lanificio Zegna Baruffa

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“Vallemosso, 2005” foto di Fulvio Bortolozzo alla pagina seguente: ex Lanificio Botto. Oggi sede del consorzio “The Wool Company”. foto di Manuele Cecconello

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“la morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi. e questo bestione papalino, non privo di grazia – il ricordo delle rustiche concessioni padronali, innocenti, in fondo, com’erano innocenti le rassegnazioni dei servi – nel sole che fu, nei secoli, per migliaia di meriggi, qui, il solo ospite, questo bestione papalino, merlato accucciato tra pioppeti di maremma, campi di cocomeri, argini, questo bestione papalino blindato da contrafforti del dolce color arancio di roma, screpolati come costruzioni di etruschi o romani, sta per non poter più essere compreso”. - Pier Paolo Pasolini “una disperata vitalità” Poesia in forma di rosa

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scritture | 2

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1 Flessibilità complessa

“It was well into the detailed design of the project that, at an alcohol-inspired brain-storming session off Times Square in 1962, we decided on the name Fun Palace for our short-life conglomerate of disparate, free-choice, free-time, voluntary activities, planned as a public launching-pad rather than a Mecca for East London.” – Cedric Price, from Talks at the AA, AA 19/1990:32 130


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Dalla crisi alla complessità Il Novecento è davvero finito (Bianchetti, 2011). Ed è finito anche a Biella. Lo diciamo non solo per via di periodizzazioni più o meno standardizzate ma perché la nostra lettura del territorio sembra rivelare un’inaspettata esacerbata complessità pervasiva (non è solo Biella, peraltro, a mostrare una nuova complessità1). Dire che la crisi ha generato un territorio con un più alto grado di complessità può sembrare scontato e banale, tuttavia ci pare di poter definire questa maggior densità concettuale secondo i termini dei diritti, dei valori e delle norme, che acquisiscono significati più ampi, non frammentabili né semplificabili2, con forme altrettanto varie e localizzate. Diritti atomizzati, come in Valle Cervo, ma anche nella città, per cui la protezione non è più pervicacemente legata al lavoro né alla società tout-court (castel 2003) ma, piuttosto, si esprime in forme orizzontali di condivisione, di localizzazioni, di effervescenze che tentano di supplire a quella fine della società che, senza enfatizzazioni eccessive, rinuncia al ruolo di garante delle basi universalistiche e si parcellizza in individui, perlopiù soli (touraine 2013). Lungo la vecchia strada-mercato emerge un sistema di valori che propugna il “buon vivere” entro legami di prossimità e che valorizzano l’individuo; non già come nella città dello sprawl, dove lo schema era quello di nuclei isolati e ripetuti, ma secondo relazioni che ripropongono il villaggio come garanzia di sicurezza. Si vive bene, inoltre, se le connessioni funzionano, se i collegamenti sono veloci (di tutte le reti, fisiche e digitali). È questo modello di network del buon-vivere che permette l’emergere di innovazione, delle “capabilities”3. Il "buon vivere" definisce un altro tema, piuttosto frequentato, che è quello della "qualità": si tratterebbe, in sostanza, dell' "obiettivo prioritario dell'urbanistica" che si dà essenzialmente nel progetto dello spazio pubblico

1

cfr. Bianchetti 2014, Una nuova complessità, infra, p. 12 “La frammentazione può portare con sé una nostalgia nei confronti di un passato perduto, ma può portare anche alla semplificazione e alla banalizzazione di un sistema complesso in uno più semplice” (Viganò 2010: 133). 3 cfr. la lezione di Appadurai (APPADURAI 2011). Ma anche la lunga riflessione sul modello più o meno commerciale della “smart city”, desiderato e osteggiato allo stesso tempo, fa leva su questo aspetto della “connessione” come chiave per lo sviluppo e per il bien-etre (fondandosi in qualche modo alle riflessioni sulla actor-network theory di Bruno Latour). Si intende qui rilevare non tanto la necessità radicale e teorica di connessione (fisica e virtuale), ma un’attesa quasi antropologica: sono gli stessi individui, più volte incontrati e intervistati, a dichiarare il bisogno di “essere connessi”, di avere dei legami forti con “il resto del mondo”, per non “restare esclusi”. Sono ancora gli stessi individui a sostenere come la connessione permetterebbe a loro di “uscire dall’ombra”, di esprimersi, di “diventare qualcuno” (ecco perché il riferimento alle capabilities sembra piuttosto diretto). 2

Lacaton & Vassal, Palais de Tokyo, Paris (immagine tratta dal sito) alla pagina precedente: Cedric Price, Fun Palace

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(BIANCHETTI 2014). "Lo spazio pubblico torna al centro di una nuova formazione discorsiva che è costruita a partire dal nesso tra qualità urbana e giustizia spaziale. Il primo termine, non privo delle ambiguità di sempre, si ridefinisce intorno a qualità dell’abitare, comfort, servizi, nuova estetica, cadre de vie. Il secondo è inteso come distribuzione egualitaria di questa stessa qualità in un contesto di diversità e diseguaglianza. La pretesa è che, insieme, qualità urbana e giustizia spaziale possano costruire una città abitabile. Produrre qualità è indicato come obiettivo prioritario dell’urbanistica. Più importante della regolazione dei suoli. O del corretto funzionamento del territorio. O, per meglio dire, regolazione e funzionamento si ridefiniscono come espressione di una città abitabile. Tutto si gioca su aspetti percettivi, di sensibilità, di comfort. Sulla necessità di rinforzare identità e abitabilità per un soggetto bisognoso di vedere soddisfatte le sue richieste" (ibidem). Altrove, come a Biella, ma anche lungo la strada Trossi, si sovrappongono le reti e i nuclei, con addensamenti di soggetti, di pratiche (ma anche di norme) che danno al territorio un volto a più facce non facilmente riconducibile a schemi semplificatori.4 La complessità della città, dal canto suo, non è cosa nuova e, anzi, è tema di largo respiro che ha costruito tutto il pensiero urbanistico perlomeno degli ultimi sessant’anni (Secchi 2000: 138). Si può inoltre essere complessi in modi molto diversi pure in condizioni di prossimità spaziale, e ci pare che la complessità chee la crisi ha generato oggi sia di questo tipo: un proliferare di complessità multiple compresenti. E' una complessità differente, più densa di quella del passato, e che rappresenta, in verità, la più intrigante sfida del progetto contemporaneo.

4

Jenks (1995) avrebbe sostenuto, a proposito di questa sovrapposizione, che l’offuscamento di ruoli, pratiche, soggetti, categorie, seppure mantenga ciascuno nella propria integrità, rischierebbe di cadere non tanto in una maggiore complessità quanto piuttosto in una decisa maggior complicazione della realtà. “L’eterogeneità dei frammenti non impedisce però la costruzione di un comprensibile orizzonte di senso e di una forma unitaria. Le tredici Sequenze di Luciano Berio, composte in un arco di tempo quasi trentennale, sono frammenti, eppure ciascuna e il loro insieme hanno un carattere altamente unitario. Tra gli elementi unificatori vi è, nelle stesse parole di Berio, il virtuosismo come tramite con la novità e complessità del pensiero musicale e con le sue dimensioni espressive e «la consapevolezza che gli strumenti musicali non possono essere realmente cambiati, né distrutti e neppure inventati. Uno strumento musicale è di per sé un pezzo di linguaggio musicale». Qualcosa d’analogo potrebbe avvenire per la città contemporanea e i suoi materiali” (Secchi 2010). 5 Viganò propone un interessante excursus (2010: 121-134) sulle modalità di “risposta alla complessità” che il concorso per il parco della Villette di Parigi suscita. Semplificando, pone l’attenzione sui progetti di Tschumi, Koolhaas e Price: “il diagramma di Koolhaas accumula attività, quello di Tschumi si preoccupa di combinare incontri inaspettati, quello di Price mette in scena il continuo modificarsi dello spazio metropolitano, il movimento ed il suo supporto, a servizio delle pratiche”.

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Cedric Price “The city as an egg” (Herdingham 2003)


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Un’uscita moderna. Palinsesto e patrimonio Le vie di restituzione della complessità (o di uscita dalla crisi, se vogliamo) sono evidentemente molteplici, alcune semplificatorie, altre di grande finezza5. La patrimonializzazione del territorio, che prova a leggerne il palinsesto, cercandone identità recondite, è una strada piuttosto percorsa e che presenta qua e là esiti di un qualche rilievo6. Si tratta di sublimazione di quelle identità in patrimoni“naturali” che solo apparentemente pacificano, appiattiscono, livellano. Tale operazione ha una importante valenza politica: propugna il bene patrimonializzato come espressione di un valore condiviso e si propaganda un territorio che si lascia leggere e comprendere, si espunge il caos, il disordine, la complessità. Ci pare, tuttavia, che si metta in campo una sorta di vera ambiguità di questi concetti. Patrimonializzazione e palinsesto sono ambigui perché tendono a forzare i temi dell’identità e della “valorizzazione culturale” in ordine alla creazione di uno spazio “liscio”. Il problema non è la memoria, insomma, ma l’uso strumentale che il progetto ne fa come argomentazione del proprio agire. In un contesto tutt’altro che novecentesco, il progetto della miglior tradizione moderna potrebbe non accorgersi che la cristallizzazione di valori saturi (come la famiglia, l’imprenditoria d’élite…), di rappresentazioni stanche o ormai evaporate (come il distretto anni ’80), di identità che spesso si fatica a riconoscere o di cui non ci si appropria più (Biella territorio di lana, di turismo religioso…) conduce a un fallimento del progetto stesso, appiattito e incapace di fornire risposte. Il progetto liscio presume di saper eliminare la differenza, sicuro che la differenza non costituisca un’opportunità. Si mette in ordine, si trattiene il caos, si irrigidiscono le gerarchie7. Sarebbe più utile (forse) provare a mostrare le contraddizioni, le resistenze, le vivacità, i conflitti, le abrasioni,

6 Cfr. i casi studio del quartiere Bellavista a Ivrea, di Mirafiori Sud, a Torino, della Val di Susa e della Val Maira discussi all’interno della ricerca Territori nella crisi (http://territoridellacondivisione.wordpress.com/category/i-research/territories-in-crisis/) 7 Alexander (1965) contrappone due modelli di struttura urbana (e di altrettanti visioni progettuali). Quello modernista, ad albero, annulla le complessità, semplifica le parti, gerarchizza, divide (“whenever we have a tree structure, it means that within this structure no piece of any unit is connected to other units, except through the medium of that unit as a whole”). Quello della città spontanea, a “semilattice”, in cui una rete orizzontale di sovrapposizioni e generazioni restituisce una grande varietà (“a collection of sets form a semilattice if and only if, when two overlapping sets belong to the collection, the set of elements common to both also belongs to the collection”).

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le effervescenze: in una parola, le complessità. Prendere sul serio il territorio. La memoria non sparisce né si cancella: la complessità del presente non può che raccoglierla ed appropriarsene, ma lo fa secondo logiche relazionali, non strutturaliste8.

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Nicolas Bourriaud fornisce, per l’arte, l’importante definizione di “esthétique relationnelle” (Bourriaud 1998). Il lavoro di Georges Didi-Huberman, raccolto nell’ultima mostra che cura, con Arno Gisinger, “Nouvelles histoires de fantômes” (Palais de Tokyo, Paris 2014) rivela come la memoria, che ci appartiene, è una “storia di fantasmi”. Per Didi-Huberman è interessante osservare “la vie fantomatique des images dont notre présent, autant que notre memoire – historique ou artistique -, est constitué” (Didi-Huberman 2014). “Recomposer aujourd’hui les Nouvelles Histoires de fantomes” è una “tâche commune aux artistes, aux philosophes et aux historiens, travail à refaire constamment pour donner à comprendre que nous ne vivons notre présent qu’à travers les mouvements conjugués, les montages des nos mémoires (gestes que nous esquissons vers le passé) et de nos désirs (gestes que nous esquissons vers le future)” (ibidem). Quel che conta, nella mostra, sono dunque le storie delle immagini (quasi “genealogie”) ma più ancora conta l’azione di chi ha prodotto le “nuove” immagini. Contano gli oggetti, uno per uno e in relazione agli altri, tanto che “les images seraiont alors à regarder comme les carrefours possibles de tous ces gestes conjugués”. Tutt’altro che strutturalismo, che riconoscimento identitario, che patrimonializzazione del palinsesto. Si rilevano le immagini, gli oggetti, come prodotto di quelle storie di memorie, di identità, di fantasmi. Anche di morte. “Montrant commes les peuples en larmes sont suceptibles, dans certaines conditions, de s’engager dans un geste d’émancipation capable de faire d’eux des peuple en armes”: non per la memoria, ma per gli oggetti. La mostra ci parla di progetto. Non è più possibile costruire progetti di spazio a partire dalla rilettura di palinsesti. Dal tentativo di rendere leggibile un territorio, del mostrare la sua costruzione storica attraverso le superfetazioni strutturali che l’hanno generato. Siamo in un presente (o in un futuro) di rovine, come ci mostra Hiroshi Sugimoto in “Aujourd’hui le mond est mort (Lost Human Genetic Archive)”, sempre al Palais de Tokyo. Non ci è chiesto di fornire un “grande racconto”: né della città, né del territorio. Ci è chiesto di dare spazio, di fornire le condizioni per la generazione del futuro. Come se non dipendesse più dagli architetti o dagli urbanisti, l’idea di città, ma dagli individui: l’unico rimasuglio della società. Il progetto mette in luce, descrive e chiarisce. Soprattutto i conflitti e le effervescenze. Così, improvvisamente, viene meno il bisogno di “più”, di “nuovo”, di “altro”. E ci si imbatte nel desiderio di “oltre”. Ancora memoria, ancora fantasmi, ancora rovine. Dove l’azione di Lacaton e Vassal, che quando propongono 50mila nuovi alloggi a Bruxelles ne fanno una questione di qualità prima che di spazio, e non annunciano nuovi quartieri ma sovrappiù di buon-vivere intorno a quegli stessi oggetti già presenti. E che quando progettano restauri del passato decidono di mettere in sicurezza, di rendere accessibile, ma poi si dedicano al solo “strippaggio”, al “rendere visibile” non la storia, ma l’oggetto. Consentire che l’oggetto possa dare spazio. Nella forma di situazioni e di qualità. Riemerge Nicolas Bourriaud, per cui l’oggi è un “altermodern”, un farsi fondato non sul privato, sul singolare, ma sulle pratiche delle relazioni umane (oggi dilatate). E capace di suscitarne altrettante. Il progetto è sconvolto. Se si deve parlare di orizzontalità (e si deve, in termini di possibilità allargate, di ri-democratizzazione dello spazio delle possibilità/capabilities) lo si deve fare secondo logiche molto diverse da quelle del moderno rappacificarsi dei conflitti. Si tratta di prendere sul serio il conflitto. Di produrre palcoscenici, dove la scena del mondo può avvenire.

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Un’uscita intellettuale. Il progetto è conoscenza Gli strumenti di indagine che ci sono propri sono progettuali. Il progetto è peraltro forma di conoscenza e lo è secondo molteplici direzioni: la concettualizzazione, “creazione di uno spazio e di un tempo di astrazione, nel quale riformulare il pensiero, lo sguardo e la nostra immaginazione a proposito dei territori contemporanei”; la descrizione, poiché “riconosce situazioni, costruisce con esse una relazione; vi si adatta utilizzando le anomalie, le discontinuità, le differenze; s’interroga sulla presenza di strutture d’ordine soggiacenti, utilizza ripetizioni, intuisce regole preesistenti”; la formulazione di congetture sul futuro, “esplorando una catena ipotetica di eventi, azioni, decisioni, diversamente dislocati nel tempo; indagando le relazioni tra differenti ipotesi d’uso e trasformazione dello spazio, la loro possibile coesistenza, prima che la loro reciproca esclusione” (Viganò 2010: 11-12). Ci pare si possa mostrare una ambivalenza della pratica progettuale analitico-riflessiva (critica): l’azione descrittiva e l’azione assertiva. La prima racconta il territorio a mezzo del progetto, ne mostra le geografie, ne annuncia le proprietà e le caratteristiche. La seconda mette in luce le criticità, dà forza alle abrasioni, sottolinea le vivacità, chiarisce le forme di resistenza. Identifica le opportunità. Crea condizioni di un futuro ritenuto auspicabile. Sono da tenere insieme, le due azioni, perché, come è facile intendere, sono complementari e persino contemporanee9.

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Cristopher Alexander, diagrams of a semilattice city diagrams of a tree city (Alexander 1965)

Si potrebbero obiettare con una letteratura abbondante almeno due cose: che la descrizione, che di per sé non è mai precisa, mai fedele, traduzione/tradimento, impropria, inesatta… è pratica da geografi e non da architetti. Ci si spingerebbe pertanto in un territorio non specifico, di altri, e non si avrebbero gli strumenti adatti per affrontarlo. Che, inoltre, la descrizione, proprio per il suo valore di “strumento del geografo”, contiene già in sé la capacità “assertiva”, di messa a fuoco delle anomalie, e che la distinzione è pura retorica. Tutto ciò è certamente vero. Qui si vuole però non tanto rivendicare la pratica descrittiva come propria dell’architettura, ma indicare come la pratica del progetto conservi come caratteristica intrinseca la capacità di descrivere. Inoltre il momento descrittivo e quello assertivo sono qui complementari, contemporanei e tuttavia molto distinti poiché determinati dall’inevitabile drammaturgia di scelte (a tutte le scale) che il progetto mette per sua natura in atto. I progetti della “città-albero” di Alexander sarebbero pertanto progetti descrittivi ma non in grado di restituire la complessità, quelli “a semilattice”, invece, riuscirebbero non solo a descrivere ma contestualmente a mostrare le anomalie e le forzature del territorio.

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L’azione asseriva è stata strumentalizzata in passato per dichiarare radicalismi politici, schieramenti, posizionamenti. Non si intende qui riferirsi a quel modo di fare progetto. Si tratta invece di far riferimento al progetto come insieme dpoco strutturato di pratiche, di tecniche, di dispositivi e di strumenti tesi a costruire condizioni di trasformazione. Entro il quadro di questa riflessione, l’attività conoscitiva e assertiva del progetto si misura innanzitutto con un’operazione non scontata: la messa in tensione di un concetto con le condizioni, le aspettative, le aperture e le criticità delle quattro sezioni territoriali. Questo ci è parso il modo più adeguato per ripensare il progetto territoriale senza cedere a una semplificazione del territorio ma neppure a un’idea rituale del progetto.

Flessibilità orizzontale: un modello concettuale La tematizzazione concettuale che ci sembra possa fornire il progetto contemporaneo alla attuale complessità densa del territorio è, paradossalmente10, quella della griglia flessibile e orizzontale.

10 Il paradosso sta nel fatto che il progetto orizzontale tende a sciogliere qualsiasi complessità nella continuità e non è certo una pratica progettuale contemporanea (cfr. BIANCHETTI 2014, MAZZA 2008)

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Si può a tutti gli effetti incorrere qui in un fraintendimento non secondario. C’è chi, in passato ma anche oggi, ha usato la griglia come morfologia territoriale. Superstudio e Archigram ne hanno fatto un manifesto. Gli attualissimi Dogma ne hanno riproposto la forza. La griglia orizzontale è quasi l'archetipo del progetto urbano: "Con singolare anticipazione Aristotele nel trattare di Ippodamo pone in relazione controllo sociale e controllo spaziale: in questa prospettiva la pianificazione non è solo arte di costruzione della città, è strumento di governo, e l’ordinamento spaziale prodotto dalla pianificazione si presenta come strumento di controllo sociale. Al nome di Ippodamo è associato un impianto urbano a scacchiera, la cosiddetta ‘griglia ippodamea’. Ippodamo non è l’inventore della griglia che era in uso molti secoli prima di lui, ma potrebbe essere considerato l’inventore della pianificazione se definita come strumento di controllo sociale attraverso il controllo spaziale. (...) L’esercizio svolto su Ippodamo è rivolto a sottolineare l’associazione tra griglia e costituzione, e ad individuare la natura politica delle pratiche di pianificazione in motivi più radicali di quelli abitualmente riconosciuti" (MAZZA 2008: 86,87). La flessibilità orizzontale è un dispositivo concettuale che ha avuto un successo piuttosto ampio nella storia del pensiero urbanistico. Non solo, è spesso foriero di interpretazioni conflittuali e antitetiche. La griglia ippodamea ci pare interessante non tanto rispetto agli aspetti formali quanto piuttosto rispetto a quelli concettuali e alla relazione che tra essi intercorre: "la relazione tra costituzione e griglia, se riconosciuta, stabilisce una circolarità tra politica e piano che prospetta la pianificazione non solo come attività di natura politica, perché affida le sue decisioni alla razionalità e alla discrezionalità politica, ma, in modo più impegnativo, come un’attività che ha soprattutto una finalità politica: il (ri)disegno della cittadinanza che salda in un unico processo strategie di controllo sociale e spaziale. Se l’ordinamento spaziale è funzionale al controllo sociale, le decisioni di pianificazione contribuiscono alla (ri)definizione delle forme di cittadinanza o, più precisamente, il (ri)disegno della cittadinanza è, consapevolmente o inconsapevolmente, la vera finalità del piano, mentre gli obiettivi funzionali, economici o estetici, normalmente ritenuti gli obiettivi del piano e come tali perseguiti, sono in realtà risorse per perseguire la finalità politica di ridisegno della cittadinanza" (MAZZA 2008: 91). Dal nostro punto di vista, il diagramma e il concetto non è più interessato a riprodurre una forma, “ma a chiarire una struttura che possa sostenere interpretazioni formali diverse; diagrammi e concetti provano a rappresentare il processo e le condizioni entro le quali le molteplici forme

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possono essere generate nel tempo” (Viganò 2010: 118). Il concetto deve poter sostenere la complessità, la frammentarietà e l’effervescenza alle diverse scale, “affrontando problemi multidimensionali, interdisciplinari in un contesto di incertezza; e deve fornire ‘generative results, that is to allow for and support the emergence of second-order effects’ (Lobsinger M. L., 2000, “Cedric Price, an Architecture of the Performance” in Daidalos, 74/2000)” (ibidem). La griglia teorica cui è sottoposto il territorio è la garanzia di una alta qualità spaziale che lavori sull’uso del suolo e la sua regolamentazione e assicuri la giustizia sociale. La "continuità" che tenta di raggiungere la griglia è talvolta intesa in senso formale, come in alcune radicalizzazioni della "città orizzontale", tuttavia anche qui è piuttosto immediato svelare la continuità come garanzia democratica: "dispositivo essenziale per fondare il possesso della terra, prima ancora che dispositivo morfologico di costruzione di un ordine (buono per tutte, o quasi, le condizioni). Sulla mitografia della griglia si fonda quel legame tra spazio urbano e forme democratiche di cittadinanza" (BIANCHETTI 2013: 112). La griglia avrebbe a che fare " con una particolare condizione definita dai suoi caratteri fisici e materiali non meno che con gli usi, le pratiche e con la capacità di rendere esplicite connessioni tra operazioni singole e forma complessiva prodotta dalla loro aggregazione" (ibidem: 113). Rivisitata nella forma della porosità, la griglia " permette di individuare nella discontinuità il principale ostacolo ad un migliore funzionamento del territorio. (...) Discontinuità, barriere e fratture riproducono e nel contempo riflettono una situazione che può dirsi di “ingiustizia spaziale” o di “iniqua distribuzione interpersonale del capitale spaziale" (ibidem). Una delle forme in cui si dà oggi il progetto flessibile è quello

“Should architecture obey, deny or subvert the logic of ‘the plan’? This question has continued to haunt the theory, polemics and practice of architecture throughout the latter half of the twentieth century” (Hughes Sadler 2000) ridisegno di: - Arcipelago Verde, Ungers - Bruxelles, Secchi e Viganò - La Villette, Tschumi - Toulouse Le Mirail, Candilis e Woods - Milton Keynes, Davies - Veneto, Secchi e Viganò - Japnet, Price (flow of information in space) “The vast grid of spheres are spread over the site and layered to form varying levels of exchange and a form of advanced information” (HErdingham 2003) Japnet, Price (photocopy collage showing location and scale of information spheres on site)

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della “metropoli orizzontale” che, secondo la definizione di Bernardo Secchi e Paola Viganò, si raggiunge attraverso: - limiti incerti: i limiti sono indipendenti dai confini amministrativi e spesso sono evolutivi - condizione urbana allargata: tipologicamente varia e articolata, bene attrezzata, strutturata da valli e da un reticolo denso e connesso, articolata da figure urbane e territoriali (centri antichi, parchi e foreste...) che ne costituiscono i riferimenti - disomogeneità: non elimina le differenze, valorizza la qualità dei luoghi - isotropia delle infrastrutture: si appoggia su uno spesso strato di infrastrutture e razionalizzazioni successive che hanno conferito al territorio abitabilità allargata e che permette di ripensare lo spazio pubblico - sistema delle acque: pone rilievo all’acqua poiché può essere strumento del ripensamento dello spazio pubblico - sostenibilità: può essere occasione per sviluppare un modello sostenibile originale, migliorare funzionamento, leggibilità, qualità - integrazione: non è arcipelago di spazi che separano e specializzano ma è un territorio integrato nel quale spazi verdi e coltivati sono elementi di connessione La definizione non è certo circoscritta ed apre a considerazioni plurime11. La flessibilità che abbiamo indicato come possibilità di fornire ‘generative results, that is to allow for and support the emergence of second-order effects’ (Lobsinger, cit.), ci sembra tuttavia più raggiungibile attraverso la forma orizzontale che non attraverso quella verticale della gerarchizzazione. Si tratta di un diagramma, non di una soluzione specifica; di un’idea di città, non della città reale; di un concetto, non del territorio. Su questo punto è ancora Viganò che ricorda, attraverso Deleuze e Guattari, come “Ogni concetto ha un contorno irregolare. È per questo che da Platone a Bergson si ritrova l’idea che il concetto sia una questione di articolazione, di ritaglio e di accostamento. È

11 Cfr. Anfione e Zeto 25. Il numero, dedicato alla metropoli orizzontale di Secchi e Viganò, presenta posizioni talvolta contrastanti, non allineate, definisce i contorni di un dibattito ampio che non si può liquidare in semplificazioni del tipo isotropo/anisotropo, continuo/discontinuo, moderno/antimoderno giacché, perlomeno, "l’idea di continuità, più che un deposito accogliente di forme, è occasione per ridefinire una scala di questioni e di valori. La continuità assorbe resistenze, anacronismi, trasformazioni dei territori contemporanei e riarticola i rapporti tra conoscenza e trasformazione, ridefinendone le reciprocità" (BIANCHETTI 2013: 112). 12 “Un bagaglio disciplinare preesistente, un sito concreto, una serie di domande poste dalla società (…) reagiscono ai concetti proposti e viceversa” (VIGANÒ 2010:134).

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un tutto, perché totalizza le sue componenti, ma è un tutto frammentario. (…) In un concetto si trovano spesso parti o componenti di altri concetti, che rispondevano ad altri problemi e supponevano altri piani. Ciò è inevitabile, perché ogni concetto opera un nuovo montaggio, assume nuovi contorni, deve essere riattivato e ritagliato. (…) è un atto di pensiero.” (DELEUZE, GUATTARI 1996). "Porosità, isotropia, continuità, permeabilità sono prefigurazioni che rimbalzano l’una sull’altra. Permettono di affrontare (in senso cognitivo e progettuale, mai reciprocamente disgiunti) un territorio nel quale si sovrappongono le strategie di distinzione e d’uso dei singoli e dei gruppi, imponendovi un qualche ordine progettuale, senza rinunciare a ricchezza, vitalità e disordine che quell’intrico dichiara" (BIANCHETTI 2013:114). Per queste ragioni12 il dispositivo orizzontale viene messo alla prova con il territorio complesso, in particolare con le quattro sezioni territoriali che abbiamo analizzato, non per metterlo in discussione ma per comprendere come possa funzionare, quale immagine di territorio sia in grado di offrire, quali garanzie sia in grado di tramandare. E se sia capace di generare uno spazio in grado di lasciar fermentare le effervescenze di cui è già caratterizzato.

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2 Progettare la complessità

“It has taken me this long to work out that maybe architecture is a mess; not an aesthetic mess but a much more complex social and institutional mess. It has taken me this long to have confidence to shout back to the wag: ‘Yes, Mess is the Law’, and be proud of it. It has taken me this long to get to a point of discovering that this mess is not a threat, but an opportunity.” - Jeremy Till, 2009, Architecture depends, xii 144


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oltre la crisi | biella Alla pagina precedente: Franco Vaccari, Esposizione in tempo reale n.4: lascia una traccia del tuo passaggio, giugno/ottobre 1972, XXXVI Biennale di Venezia ----Cedric Price, “Null-Plan: Navy. Existing costipated conditions and potentials”, 1969 (Price Archive, CCA) “The yellow lines represent likely scene of movement routes through the area [...] . The resultant zone is likely to become the second mayor pleasure zone - over land and water - of a largely ‘span-air’ short stay, rapid movement type” ----Reyner Banham, Paul Barker, Peter Hall, Cedric Price (1969), “Non-Plan: an experiment in freedom” in New Society, 338/1969:435-443 “The whole concept of planning (the town-and-country kind, at least) has gone cockeyed. What we have today represents a whole cumulation of good intentions. and what those good intentions are worth, we have almost no way of knowing. to say it has been with us so long, physical planning has been remarkably unmonitored; ditto architecture itself. (...) The result is that planning tends to lurch from one fashion to another, with sudden revulsion setting in after equally sudden acceptance. (...) What would happen if there were no plan? What would people prefer to do, if their choice were untrammelled? Would matters be any better, or any worse, or much the same? (...) But even if matters ended up much the same, in terms of durable success or disastrous failures, the overall pattern would be sure to be different: the look of experiment would be sure to differ from what we have now. This is what we’re now proposing: a precise and carefully observed experiment in non-planning. (...) Any advocate of Non-Plan is sure to be misrepresented;we had better repeat what we mean. Simply to demand an end to planning, all planning, would be sentimentalism; it would deny the very basis of economic life in the second half of the 20th century. (...) But we are arguing that the word planning itself is misused; that it has also been used for the imposition of certain physical arrangements, based on value judgements or prejudices; and that it would be scrapped. “

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Gli ostacoli metodologici che incontriamo per la riproduzione della complessità riguardano a nostro parere due modelli: il pensiero e lo strumento. Rispetto al “pensiero” è evidente come dall’illuminismo in poi (ma forse già Talete?) la comprensione di un fenomeno passi attraverso la sua scomposizione in parti. Rispetto allo strumento, le mappe, sappiamo anche qui come mappare significhi “ridurre” il reale, “semplificarlo”. Proponiamo, a proposito, una doppia via di uscita. Per quanto riguarda il pensiero intendiamo radicalizzare l’abduzione pragmatica. L’impostazione per cui, a seguito delle letture di osservazione, si “ipotizzi” una maggior complessità del territorio biellese permette di aprire la ricerca anziché chiuderla. Si tratta a questo punto di sviscerare l’ipotesi anziché tentare di “mostrare” una tesi. Rispetto allo strumento, le mappe, si tratterebbe invece di raccontare il tutto anziché le parti: se una lunga genealogia interpretativa sostiene a gran voce che “il tutto stia nel frammento”, e non lo neghiamo, vi è però anche chi sostiene (Anassimandro in primis) un ben diverso svolgersi del tutto, nonché una radicale impossibilità della sua conoscenza (qui è sufficiente citare, ovviamente, Heidegger). 14 Le fotografie di Pietro Minoli che qui si presentano sono conservate presso l’Archivio della Fondazione CR Biella. Minoli, giornalista e fotografo biellese del ‘900, compie un’importante campagna di rilievo fotografico dall’alto (soprattutto a volo d’uccello) del biellese. Si tratta di oltre 14mila immagini scattate tra il ’50 e l’80 che documentano l’urbanizzazione e le trasformazioni di questo territorio (si badi: senza nessun ansia di enfatizzazione della memoria. A proposito si tenga presente la nota 8 del capitolo precedente). 15 Il riferimento è ovviamente a Cedric Price e al suo Non-Plan. L’edizione originale del documento, conservata al CCA (archivio Price, 156 Parc), titola “Null-Plan. Existing costipated conditions and potentials”. Diventa evidente come non si cerchi l’abolizione del piano ma saper “costruire diversamente il progetto della città, avendo la capacità di leggere il territorio mentre questo si sta trasformando e interpretarne le potenzialità” (Viganò 2010: 127).

Nonostante la (le) complessità che il territorio mostra non inducano a una semplificazione di metodo, ci pare tuttavia adeguato tentare di mostrare gli esercizi progettuali attraverso delle scansioni simili che, se non hanno la pretesa di essere un metodo vero e proprio, permettono però una lettura trasversale. Il rischio è quello della riduzione della complessità. Si cercherà di ovviarvi soprattutto attraverso alcuni disegni che provano a rappresentarla e attraverso alcuni testi che la descrivono e la commentano13. Alcune immagini (spesso prese dal passato, non tanto per fervori nostalgici ma perché è materiale di grande chiarezza e piuttosto illuminante14) introducono la sezione territoriale. Si propone dunque un “Null-Plan” o “Piano-Zero”15 che provi a raccontare la complessità che si è letta. Da qui emergono le proposte e il tentativo di tradurre quell’ “orizzontalità” teorica in un progetto che ne mantenga il valore ideale anziché formale. Se, infatti, l’orizzontalità è una risposta plausibile alla complessità, come abbiamo visto, essa si dà in forma diversa se interfacciata con complessità di tipo diverso. La “griglia” si piega, si lacera, si moltiplica, si ridimensiona. E ogni volta assume significati diversi mantenendo però lo stesso livello ideale del “garantire le condizioni”. L’obiettivo NON è costruire “un piano per Biella”. Troppo ambizioso, troppo fuorviante, troppo specifico. Ci pare invece molto più interessante(e in qualche modo anche più confacente alla nostra natura e agli esiti di questo stesso lavoro) riflettere sulla teoria del progetto. Su due piani. Il primo è squisitamente intellettuale ed è quello, spesso citato, della capacità del progetto di essere produttore di conoscenza. Il secondo, radicalmente pragmatico, è provare a dire qualcosa delle implicazioni progettuali della crisi. Di come la crisi, cioè, cambiando il territorio, richieda anche un diverso approccio progettuale. Le quattro sezioni, con le tracce di progetto che le caratterizzano, mettondo ciascuna in discussione dei luoghi comuni disciplinari. Attraverso il progetto, si propone una riflessione sul progetto territoriale, di paesaggio, urbano e sulle condizioni del progetto. Non per mettere in crisi ma per intravvedere delle direzioni.

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Valle Cervo, in primo piano Andorno. Pietro Minoli, 1971

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Valle Cervo: cluster ovvero ripensare il progetto di territorio

Valle Cervo, Rosazza Fabrizio Lava, 2012

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oltre la crisi | biella Valle Cervo Studio del funzionamento spaziale degli insediamenti

La Valle Cervo presenta una complessità in termini di relazioni interne, di rapporti tra le parti, di attori. Nel piano zero si evidenzia una importante cesura già geografica tra l’alta e la bassa valle. Il territorio funziona per parti piuttosto distinte. Se nella bassa Valle i nuclei tendono a essere più connessi e trovare delle connessioni, nell’alta valle la disarticolazione è massima. La montagna è onnipresente, tuttavia nella bassa valle è più dolce e consente uno sfruttamento del territorio che è già piuttosto “orizzontale”: i declivi permettono il proliferare di agriturismi, piccole attività agricole e/o di allevamento, l’uso del territorio è simile. Questo uso “leggero” del suolo è diffuso qui e anche, già, nella collina prospicente la strada Biella-Cossato, che da qui ha origine. La strada che corre lungo tutta la valle è la più rilevante e spesso non trattata coerentemente. Da essa si dipartono gli importanti sentieri per la montagna, soprattutto nell’alta valle, ma anche la strada per il santuario di Oropa e quella per la panoramica Zegna. Si intravvede, in questo, un germe di possibilità di miglioramento delle connessioni per favorire un maggior uso consapevole della montagna.

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oltre la crisi | biella morfologia degli insediamenti e relazioni con i principali luoghi del welfare pubblico (le linee tratteggiate) di Biella e quello privato di Andorno. Sono evidenziate soprattutto le relazioni con il sistema del welfare socio-assistenziale e sanitario

I nuclei, ancorchè connessi, funzionano piuttosto separatamente. Anche tra Andorno, Sagliano e Miagliano, sostanzialmente contigui, vi sono relazioni contrastanti, che tendono a valorizzare ciascun nucleo piuttosto separatamente, forse per via della diversa storia operaia che ha costruito questi paesi. Le effervescenze sono di vario genere e di rilevanza non simile. Tuttavia strutturano il territorio e sono, ciascuna per la sua parte, punto di riferimento ineludibile. Le relazioni “separate” si danno anche nella forma intercomunale. Osservando infatti il sistema del welfare socio-assistenziale, che come abbiamo visto (infra, prima parte) sono basate su due riferimenti distinti (uno pubblico, a Biella e uno privato, ad Andorno) si nota come la maggiore difficoltà sia quella di costruire un sistema, una rete efficiente, mentre sono le stesse effervescenze e vivacità a garantire connessioni spesso locali e molto efficienti. Nella mappa a destra si nota come l’insediamento lungo il pendio della bassa valle, soprattutto nel versante a sud-ovest, sia piuttosto omogeneo e, in qualche modo, raffinato: sisperso e leggero, sul territorio, con un uso altrettanto flessibile. Gli altri nuclei sono, come si diceva, piuttosto separati e pressochè indipendenti.

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oltre la crisi | biella i cluster a destra: - Le Corbusier, Modulor (ridisegno) - Modulor, 70 anni dopo

16 Con l'illustrazione a fianco ci pare di poter chiarire il senso di un territorio "a misura dell'anziano". "Ed eccoci all'oggetto del lavoro qui intrapreso: vi rendete conto che in ciò che concerne le cose visive, le lunghezze, le nostre civiltà non hanno ancora superato la tappa compiuta dalla musica? (...) Se ci venisse offerto uno strumento di misure lineari od ottiche somigliante alla scrittura musicale, il processo di costruzione non ne sarebbe facilitato? (...) Il Modulor è uno strumento di misura nato dalla statura umana e dalla

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oltre la crisi | biella matematica. Un uomo con il braccio alzato fornisce nei punti determinati dell'occupazione dello spazio - il piede, il plesso solare, la testa, la estremità delle dita, essendo il braccio alzato - tre intervalli che generano una serie di sezioni auree, dette di Fibonacci. D'altra parte, la matematica offre la variazione più semplice e nello stesso tempo più significativa di un valore: il semplice, il doppio, le due sezioni auree." (LE CORBUSIER 1974 [1948]). Senza dover per forza ridefinire uno strumento di misurazione e una complessa ristrutturazione degli standard lecorbusieriani (ben altra cosa dagli standard urbanistici) ci pare necessario rimandare a quel modello teorico (il Modulor) perchè esso immediatamente si riferisce alla pratica del costruire ("io sogno di mettere nei cantieri un 'reticolo di proporzioni' tracciato sul muro che sarà la regola del cantiere", ibidem) e, di conseguenza, dell'abitare. Che succede a quell'uomo (che è la società), quando invecchia? Come ricostruiamo la città e il territorio sulla scorta di bisogni diversi, di misure diverse? Per Le Corbusier il Modulor era un sistema di misura "dalle possibilità infinite", uno "strumento di lavoro [che] non infonde il talento e ancora meno il genio. Non rende intelligenti gli ottusi; offre loro la facilità che può risultare dall'impiego di misure sicure. Ma, sulla scorta illimitata delle combinazioni del Modulor, siete voi che scegliete" (ibidem). Il ridisegno del Modulor "70 anni dopo" è provocatorio allo stesso modo della buona architettura: "l’architettura è provocatoria perché deve o dovrebbe aiutare l’uomo a vivere" (BOERI C. 2014).

(1) La drammatica crisi demografica, legata ad abbandono e invecchiamento, domanda un ripensamento necessario dei modi della cura (di persone come di luoghi) e alla costruzione di un territorio su misura dell'anziano (un distretto per gli anziani?). (2) La crisi del welfare e le sue forme minori e non universalistiche richiedono un progetto di collage, un gioco combinatorio da bricoleur che mette insieme azioni molto differenti, alcune istituzionali, altre di effervescenze e vivacità. (3) La crisi del welfare è anche crisi dell'intero: il piano tradizionale non può più occuparsi dell'intero ma deve disegnare una città che funziona per parti, frammentata, dove ogni parte funziona completamente eppure non è integrata in un unicum. [vedi infra pag. 68]

Dal punto di vista del ridisegno del territorio "a misura di anziano"16, si tratta di ripensare ai dispositivi e agli spazi dell'abitare: gli spazi pubblici dovranno essere percorribili ricchi di appoggi, con dislivelli minimi, adeguatamente illuminati ecc.; le distanze dai servizi e dalle attività commerciali non dovranno essere mai eccessive e la logica dovrà essere quella della prossimità; le forme dell'assistenza e della cura dovranno tenere in conto di un'interdipendenza tra pubblico e privato; i trasporti e alla mobilità privata dovranno essere affiancati da forme pubbliche e semi-pubbliche; i regolamenti edilizi saranno ripensati per agire sugli spazi privati mantenendo un'alta qualità condivisa ecc. Un territorio di questo tipo non ha bisogno di case di riposo, è un territorio che ha le misure della vecchiaia. E che per-

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mette agli anziani di restare dove sono e ai giovani di costruire in quel luogo un'eccellenza di professionalità e qualità della vita. Le pratiche di effervescenza si ricompongono, nel progetto "a misura di anziano", secondo logiche di bricolage che tentano di limitare quel diffuso "indebolimento delle basi universalistiche" (BIANCHETTI 2011, cfr. infra p. 68) che la crisi del welfare mostra. Un buon funzionamento del territorio, in Valle Cervo, significa oggi un ripensamento delle relazioni a scala micro e degli attori a scala macro. Dove lo stato, nella forma della Provincia o dei Comuni, non è più in grado di operare, dovrà immaginare forme di partecipazione da parte di livelli più bassi, che qui sono spesso del tessuto associativo, secondo la migliore applicazione del principio di sussidiarietà. L’esercizio della griglia dell’orizzontalità mostra, in Valle Cervo, una non continuità, densità molto diverse, addensamenti e rarefazioni. Ogni nucleo è pressoché separato, nel funzionamento orizzontale, dagli altri. La montagna, nella bassa valle, è interessata dalla griglia in maniera diffusa, a maglie larghe eppure costanti. I centri sono molto densi, quasi entità indipendenti tenute insieme da buone connessioni. Le vivacità minori danno forza alla griglia e la densificano. Il funzionamento orizzontale ci pare si possa qui rappresentare secondo un sistema di clusters. La letteratura sui cluster è piuttosto vasta e molti campi della scienza e della tecnica ne hanno fatto uso. Aldilà del valore etimologico della parola e all’uso che l’urbanistica e la pratica pianificatoria ne ha fatto a partire dagli anni ‘90 (DENTI 2004, ROCA 2004, MINELLO 2009a, 2009b, PORTER 1998, COOKE, LAZZARETTI 2007, ATTADEMO 2013), ci riferiamo qui al significato che ne ha dato la musica del ‘900, in particolare al lavoro di Henry Cowell, Karlheinz Stockhausen e Pierre Boulez.17 Non si tratta di progettare cluster industriali, creativi, motori delle cit-

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Per Cowell il cluster è un “grappolo di note” in cui sono noti i limiti superiore e inferiore (Sciarrino porterà all’estremo questo concetto disegnando cluster “all’incirca” definiti nei limiti) o, almeno, questa è la restituzione che se ne dà nella scritture dell’opera The Tides of Manaunaun (1917). Il cluster è dunque un insieme di note definito con confini invece chiari. Nell’urbanistica (PORTER 1990 e 1998, DENTI 2004, ROCA 2004, MINELLO 2009a, 2009b, COOKE, LAZZARETTI 2007, ATTADEMO 2013) diventa un insieme a se stante, una “cellula” su cui si costruisce il territorio. Nella prospettiva del piano flessibile a noi pare più interessante trattare i cluster urbani (talvolta definiti “creativi”) riferendoci alla teoria compositiva “per gruppi” di Karlheinz Stockhausen e alla “alea controllata” di Pierre Boulez. “Mutuati dal linguaggio del calcolo delle probabilità, i termini “alea” e “aleatorio” diverranno d’uso comune nel gergo dell’avanguardia per indicare l’impiego della

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a sinistra: sistema delle connessioni dei cluster (la “strada”) sotto: - sistema dei clusters - il cluster di Henry Cowell


oltre la crisi | biella casualità come elemento integrante della struttura musicale, cioè (...) un tipo di composizione in cui ‘soltanto il decorso generale sia determinato, mentre le singole componenti dipendano dal caso’ (MEYER-EPPLER 1958: 55, ‘if its course is determined in general but depends on chance in detail’). In altri termini, l’alea è un fenomeno in cui il compositore ricorre alla collaborazione creativa dell’interprete, cui affida alcune scelte di carattere propriamente compositivo. (...) Si tratta di “una svolta implicita nello sviluppo stesso dell’iperdeterminismo seriale, allorché la possibilità di discernere gli elementi strutturali della composizione abbia superato le facoltà analitiche dell’orecchio umano, così da sottrarre al controllo dell’autore gli esiti della composizione sul piano della sua percezione auditiva” (LANZA 1982: 110). Si badi: il piano flessibile NON E’ un piano che si affida al caso. Questa è evidentemente la principale differenza in termini teorici. Tuttavia l’alea, per come è stata utilizzata da Boulez e Stockhausen, soprattutto ai suoi esordi, vale la pena di essere osservata: dove lì si dice “caso” si intende infatti un’intenzionalità precisa, che è quella dell’interprete. Non molto distante, a ben vedere, dalle “pratiche” e dalle effervescenze e vivcacità minori che abbiamo descritto e considerato. Boulez fa notare, infatti, che “in parecchi compositori della nostra generazione si può notare (...) un’ossessione del caso. (...) La forma più elementare della trasmutazione del caso andrebbe situata nell’adozione di una filosofia con sfumature di orientalismo [nel 1951 Cage aveva basato “Music of changes” su un libro di divinazione cinese] che maschererebbe una manchevolezza fondamentale nella tecnica della composizione; sarebbe un ricorso contro l’asfissia dell’invenzione (...) che distrugge ogni embrione di artigianato” e che “qualificherei come inavvertenza”. si propone, piuttosto, “il rifiuto di una struttura prestabilita” e, invece, la volontà di costruire un labirinto a diversi circuiti (...), per creare una complessità instabile, rinnovata, specificatamente caratteristica della musica sonata, interpretata [sic], in opposizione alla complessità fissa e non rinnovabile della macchina. (...) Introdurre il caso nella composizione? Non è una follia, o tutt’al più, un vano tentativo? Follia, forse, ma follia utile [sic]. In ogni caso adottare il caso per debolezza, per facilità, abbandonarsi a esso è una forma di rinuncia alla quale non si potrebbe aderire senza negare tutte le prerogative e le gerarchie implicate dalla creazione di un’opera. E allora come conciliare composizione e caso?” (BOULEZ 1957). La questione è ripresa da Karlheinz Stockhausen nella sua teoria di “Gruppenkomposition” che prende le mosse da un brano, il Klavierstuck I, che commenta in un famoso testo del ‘55. E’ utile, per noi, confrontare il significato di “gruppo” con quello che abbiamo attribuito a “cluster”. “Questo brano è composto di ‘gruppi’. per ‘gruppo’ si intende un numero determinato di suoni collegati secondo rapporti affini tra loro su un piano superiore di percezione [sic], quello del gruppo, appunto. I vari gruppi di una composizione si distinguono per diversi tipi di proporzioni, per diversa struttura, ma sono correlati fra di loronel senso che non è possibile comprendere le proprietà di un gruppo se non in rapporto al grado di affinità che queste presentano con le proprietà degli altri gruppi” (STOCKHAUSEN 1955). “Tali princìpi trovarono una prima applicazione in alcuni lavori presentati a Darmstadt (...) Nel Klavierstuck XI di Stockhausen gli elementi rigorosamente predeterminati sono costituiti da gruppi di suoni distribuiti su un unico grande foglio pentagrammato, al montaggio dei quali provvede l’esecutore nell’àmbito di una quota relativamente alta di possibilità combinatorie. Più limitato, invece, è il campo di libertà concesso dalla Sonata di Boulez, che llinea elementi fissi o “formanti” accanto ad altri mobili, redatti su schede intercambiabili secondo determinate norme. (...) A partire da queste premesse l’alea, intesa come riduzione della struttura a pura astrazione metalinguistica delle operazioni di produzione del suono, venne a sancire il tramonto del serialismo e a segnare il limite ultimo della ricerca strutturalistica” (LANZA 1982: 112-113). Come si ricorda più oltre, il riferimento alla musica non intende stabilire connessioni biunivoche nè formali. E’ invece interessante, per il progetto urbanistico e di territorio, prendere in considerazione la musica aleatoria come possibilità ultima di radicalizzazione delle pratiche. Il progetto orizzontale condivide con l’aleatorietà l’idea che l’oggetto finale sia determinato nel suo decorso dal piano e che, anzi, sia proprio il piano a garantire le condizioni dello sviluppo, ma che il dettaglio sia generato dalle pratiche (di interpretazione, nella musica). Cambia radicalmente sia l’approccio al territorio sia le conseguenze della pianificazione. E’ in questo senso che si fa determinante il progetto delle connessioni ma, anche, un progetto di suolo mirato, attento, calibrato, capace di intravvedere le potenzialità che offre nel fare, come già si diceva, “plus avec moins” (DRUOT et al. 2007).

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tà et cetera, piuttosto di considerare questo territorio come composto di nuclei piuttosto indipendenti che funzionano come cellule a se stanti e che sono collegate tra loro in modi non univoci. Non si propone un modello territoriale “autarchico”, in cui ciascuno esiste per se stesso, secondo logiche "da villaggio", piuttosto un modello fondato sui dispositivi di prossimità (COGATO LANZA 2012): una città che funziona per frammenti. Ogni cluster non è autonomo o totalmente indipendente ma funziona come un sistema creativo di cui sono noti i confini e il cui uso, all’interno, è garantito dal piano (CROSTA 1998) e determinato dalle pratiche che lo costruiscono (CROSTA 2010). Il piano non può che occuparsi sommariamente, invece, dei collegamenti tra i cluster. Lo fa, anzi, attraverso la costruzione di relazioni con il tessuto associativo locale, secondo forme non convenzionali, normalizzando e incentivando forme della "presa in cura".

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Tra Pralungo e Tollegno A destra: i cluster della Valle, i collegamenti


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oltre la crisi | biella Pralungo. Il lavoro sullo spazio pubblico è un vero progetto di suolo (SECCHI 1986) perchè questo cambia radicalmente le condizioni dell’uso e garantisce accessibilità e funzionamento. Ma è anche un progetto sugli edifici e sui dispositivi di accessibilità e di sicurezza.

Pralungo. Un territorio a misura di anziano significa prima di tutto un territorio che è pensato su relazioni e dispositivi di prossimità. Così, insieme a un progetto del SUOLO capace di ragionare su dislivelli, percorsi coperti, gestione delle acque, alternanza di spazi adibiti a verde pubblico e di spazi di incontro o di isolamento, di dispositivi per rallentare il traffico e di studio delle ombre e della luce, l'uso attivo del PIANO TERRA diventa significativo. "Le rez-de chaussée est un espace de project urbaine à part entière. (...) Il peut alors être le point de départ ou de convergence d'une politique globale de la ville, car il devient le complice de l'espace public et des déplacements, des équipements, du logement et du commerce" (MASBOUNGI 2013: 10). Si moltiplicano gli spazi, le attività commerciali sono miste e di piccola dimensione, si ricostruisce un territorio a partire dall'uso dello spazio pubblico e degli spazi aperti agli abitanti (PANERAI 2013).

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oltre la crisi | biella La relazione tra l'uso del suolo e il piano terra è la chiave del progetto del cluster. I percorsi e i modi di abitare lo spazio pubblico variano con i modi della gestione dell'acqua. I percorsi coperti garantiscono protezione anche con agenti atmosferici avversi, le sedute sono molteplici cosÏ come gli appoggi e i corrimano.

in basso: Il confine tra l'interno e l'esterno del cluster

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Andorno Micca.

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Un piano orizzontale fondato sui cluster, sulla “Gruppenkomposition” e sul progetto di suolo assume connotazioni di tipo diverso: può sembrare anacronistico giacché i temi del progetto di suolo sono legati alla cultura progettuale italiana degli anni ‘80 e ‘90; può sembrare à la page perchè il progetto di cluster pare essere una pratica legata alle concezioni contemporanee di creative city, competitive territories etc.; può sembrare un intellettualismo accademico perchè il legame tra architettura e musica è stato argomento di ampie discussioni almeno da un secolo. La risposta a queste obiezioni viene dalle condizioni di complessità che abbiamo letto in Valle Cervo. Supporre un piano orizzontale come composizione di cluster significa costruire un progetto “leggero” per “faire plus avec moins” (DRUOT et al. 2007) senza fermarsi, ci pare ovvio, a retoriche formali anni ‘90: è un progetto di suolo che va aggiornato alle condizioni attuali. Il legame con le forme di rinnovamento del territorio che partono da presupposti di competizione e creatività, invece, non si danno: non si propone la forma del cluster come valvola di sfogo, lievito dello sviluppo ma, piuttosto, come modello minimo dell’abitare in un territorio sfrangiato e di grande complessità sociale e relazionale. L’ipotesi di accademicismo intellettuale, invece, è in parte presente. Tuttavia il confronto tra il piano orizzontale e la composizione musicale aleatoria non intende stabilire connessioni formali o relazioni biunivoche: si riscontra invece un’assonanza non banale sul piano della teoria che imposta il progetto. E’ il pensiero, insomma, quello che viene messo a confronto, non le forme. Si dà, nel progetto di clusters, un ripensamento del progetto territoriale. Viene meno il disegno dell'intero, sembra quasi inaccettabile la pianificazione strategica. Non se ne dichiara l'impossibilità quanto, piuttosto, un adeguamento. Agli attori, alle pratiche, alla tripla crisi annunciata. Che tuttavia rende il territorio capace (capax) dell'inatteso.

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Vigliano Biellese: la strada per Milano, tra il torrente Chiebbia e la ferrovia Biella-Novara. Pietro Minoli, 1957

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Biella-Cossato: strada mercato ovvero ripensare il progetto di paesaggio

La superstrada Biella-Cossato, in prossimità dello svincolo di Cossato e dell’attraversamento dello Strona Pietro Minoli, 1981

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oltre la crisi | biella L’analisi ha mostrato una sovrapposizione interessante di spazi che, nelle rappresentazioni classiche di questa strada, che la vuole una strada-mercato, non compaiono. La strada-mercato non né più la guida dello sviluppo né la spina dorsale del territorio: si assiste a una sorta di normalizzazione (vedi infra, “Biella-Cossato: frantumazioni e riallacciamenti”). Il traffico è grandemente diminuito e gestito secondo norme di codice della strada che tendono a diminuire la velocità e a separare i flussi, molti episodi di sospensione degli usi o di decisa minorazione accompagnati da altri di effervescenze che si riappropriano di parti non prima considerate, convivenza di modi della produzione tradizionali con forme alternative o non presenti prima... Il sistema dell’agricoltura riveste un ruolo non secondario, con uno sviluppo piuttosto importante, pervasivo e spesso innovativo, la collina, col suo sistema delle Ville, dei vigneti riscoperti, della natura protetta (il Brich di Zumaglia), è quadro e cornice, le effervescenze (di tipo produttivo/industriale ma anche agricolo/turistico) che “usano” la strada e le connessioni ma perseguono obiettivi molto diversi, il Baraggione, a sud, straordinario limite naturale pian piano riconquistato da un uso leggero. Il territorio funziona dunque secondo un sistema complesso: dove l’industria laniera non ha più la forza e il peso di trascinare la strada-mercato è il resto dello spazio a essere riconquistato e a diventare matrice di crescita. La strada funziona in quanto connessione ma cambiano radicalmente le relazioni che essa pone col contesto.

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La strada tra Biella e Cossato mostra un'anomalia di questo assunto: qui l’infrastruttura tiene insieme crescita e abbandono. Si tratta di un territorio sempre più eterogeneo, dove l’abitare, l’abbandono e la produzione convivono in forme del tutto anisotrope. La strada-mercato sta subendo una metamorfosi inversa, nella direzione di una strada urbana: mescolanza funzionale e spaziale, dove le regole sono dettate non solo dalla convivenza ma anche dalla molteplicità radicale. La strada Biella-Cossato pare essere segnata da due fondamentali aspetti: l'ammissione di una eterogenità pervasiva e la tendenza al "desiderio di urbanità e buon-vivere" (BUTLER 2014). Tutt'altro che strada-mercato, insomma. [vedi infra pag. 86]

Un piano flessibile riconosce questo territorio non come una strada ma come un sistema territoriale che coinvolge per intero la bassa vallata del torrente Cervo. Se la griglia orizzontale presenta addensamenti e puntualizzazioni, è però anche evidente come tutto è contenuto in quello spazio flessibile: la condizione dello sviluppo è data da un unico sistema. Questo territorio, è assimilabile a una vasca. Le sue potenzialità derivano infatti dal suo essere molto circoscritto (la collina a nord, la Baraggia a sud, la città a ovest, i boschi del torrente Strona a est), in un microambiente di grande biodiversità, con opportunità che derivano dall’essere un sistema, non solo una strada. Per queste ragioni, un progetto flessibile si dà qui nella forma del “parco”, che riconosce un habitat articolato e complesso. “Parco è utilizzato in senso contemporaneo,non solo per alludere ad un luogo del loisir, quanto per intendere un insieme di situazioni nelle quali i caratteri ambientali, in senso lato, concorrono in modo essenziale a costruire quelli dello svolgimento di alcune, o di tutte le principali attività e pratiche sociali.”(VIGANO' 2010:145). L’idea di parco è “un’idea complessiva di paesaggio e di pratiche che lo investono (...): un parco non di vincoli, ma di potenzialità”. Si tratta di prendere sul serio il funzionamento del territorio e di occuparsi in maniera radicale dell’habitat: sono le condizioni di ottima connessione e di naturalità diffusa a favorire la tenuta di questo luogo. Il progetto flessibile qui ha la necessità di occuparsi della diffusione in termini di naturalità e di concentrazione in termini di espansione. La crescita urbana ha da farsi in relazione stretta con la natura, la ricerca di forme di energie alternative hanno da concentrarsi e radicalizzarsi, l’addizione ha da elaborarsi in termini

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di riuso e riciclo ma anche di retrofit intelligente, che migliori la qualità dello spazio interno ed esterno. Un parco è tale perchè chiaramente definito (i confini), con emergenze di varia natura (i "sassi"), tessuti minori e maggiori ("spugne" e "tubi"), microambiente naturali e talvolta sociali diversi ("gli strati"). Il riferimento anche lessicale è al progetto per il Salento di Paola Viganò e Bernardo Secchi.18

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Il progetto di Secchi e Viganò per il Salento, in verità, può ancora essere considerato un progetto “anni ‘90”: definisce gerarchie, ammette patrimonializzazioni, induce trasformazioni “ex machina”. Ci interessa, qui, non tanto ribadire la forza di quel progetto ma provare a capire come quella visione fornisca uno spunto di radicale cambiamento di concezione di questo territorio, ai nostri giorni. “Questa accezione del termine ‘parco’ implica un lieve spostamento concettuale, non tanto rispetto l’uso del termine nel linguaggio comune, quanto rispetto l’importanza che ha assunto in tempi recenti la parte non costruita e “naturale” dell’ambiente. Se, infatti, negli anni ‘60 la concettualizzazione dei fenomeni di trasformazione territoriale poneva l’accento sulla nuova dimensione urbana, l’emergere delle questioni ambientali, una concezione di tempo libero sempre più allargata a investire lo spazio quotidiano e la ricerca di condizioni abitative nel verde rovesciano, oggi, il punto di vista. Nel grande parco salentino convivono lembi e frammenti di una naturalità un tempo molto più estesa, insieme a centri urbani più o meno grandi che insieme formano un’unica città articolata e dispersa. L’idea di parco, dunque, non nasce in Salento solo dall’osservazione dei caratteri ambientali, ma è un’idea complessiva di paesaggio e di pratiche che lo investono; è pretesto per riflettere sui caratteri fondamentali della città contemporanea” (Viganò 2010: 145-147).

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I confini del parco sono dettati dall'orografia

Gli strati del parco: a nord la fascia pedecollinare al centro la piana a sud l'alveo del torrente i confini sono netti: a nord la collina a sud la Baraggia a ovest la cittĂ a est i boschi

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sassi - effervescenze - vivacità minori - forme innovative della produzione - centri storici - centri di aggregazione - fondazioni

di riuso e riciclo ma anche di retrofit intelligente, che migliori la qualità dello spazio interno ed esterno. Un parco è tale perchè chiaramente definito (i confini), con emergenze di varia natura (i "sassi"), tessuti minori e maggiori ("spugne" e "tubi"), microambiente naturali e talvolta sociali diversi ("gli strati"). Il riferimento anche lessicale è al progetto per il Salento di Paola Viganò e Bernardo Secchi.18

spugne - la fitta rete dei percorsi secondari, delle strade agricole e di quelle urbane e collinari: è la vera e propria "maglia" dell'orizzontalità

tubi - l'acqua: torrente Cervo, Chiebbia, Strona - le strade: la Biella-Cossato, la SS 300

Viganò, progetto per il Salento: concept: sassi e spugne le parti: la dorsale paesaggi sociali: nord/sud il paesaggio degli anziani: centri antichi l'habitat dell'accessibilità le conurbazioni

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sezioni trasversali dei materiali rinaturalizzazione del torrente Chiebbia rinaturalizzazione della SS300. una fascia di rispetto permette una manutenzione pi첫 facile e un uso pi첫 condiviso

a destra: sezione tra la Via Milano e la collina via Milano e strade secondarie. Il progetto della strada deve cambiare in termini di materiali del suolo ma anche di spazi e dimensioni.

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oltre la crisi | biella dall’alto: - sezioni sul torrente Chiebbia. Una rinaturalizzazione delle sponde migliora sensibilmente la qualità dell’habitat semi-urbano - proposte di addizione. L’aggiunta di appartamenti e la crescita edilizia ha da compiersi valorizzando l’esistente anzichè demolendo e ricostruendo (cf. DRUOT, Lacaton Vassal, 2007) - tra la via Milano, la collina e il fiume c’è un ampio sistema di vie secondarie che mostrano una importante opportunità di percolazione del traffico ma, anche di penetrazione del verde.

Sulla Biella-Cossato si propone uno scenario che scassa la concezione tradizionale della strada-mercato e reinserisce quella strada entro un territorio che funziona più come “parco”, e dunque come sistema orizzontale, seppur con alcune gerarchizzazioni, che non come radicale territorio anisotropo. La strada-mercato sembra subire una metamorfosi inversa nella direzione della strada urbana, motivata da un desiderio di "urbanità"e "buon vivere" e da una eterogeneità densissima. Il "buon vivere" è tema di attualità sconcertante, a dire il vero, non solo tra Biella e Cossato. Mentre per Adorno "Es gibt kein richtiges Leben im falschen" (non si dà vera vita nella falsa) (ADORNO 2005 [1951]), altrove (BUTLER 2012) si riconosce che la vita buona si dà dove c'è un riconoscimento sociale del proprio esistere. Pare che Fortini avesse stravolto Adorno, dicendo che la vita vera si può dare solo entro la falsa. La questione riguarda la possibilità del "buon-vivere" entro condizioni esacerbate di crisi. Laddove il "desiderio di qualità urbana" s'unisce a quello per la "giustizia spaziale" e costituisce una nuova formazione discorsiva che trova il suo campo nello spazio pubblico non riuscendo tuttavia a fornire che racconti insipidi o edulcorati (BIANCHETTI 2014).19

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La proposta (etimologicamente ironica) del parco|scenico compie due spostamenti concettuali. Il primo è quello del “parco”, il secondo è quello del “palcoscenico”: intendere in questo modo un territorio significa, sostanzialmente, immaginarlo come “luogo dell’accadimento”. Fuori dall'immagine della vasca, del parco o del parco|scenico, quel che si mette in discussione qui è il progetto di paesaggio. Edifici, persone, strade, elementi naturali sono ugualmente attori dello stesso territorio: senza evocare Latour ma nemmeno un'olismo alla Simmel, la visione che mostriamo è quella di un progetto di paesaggio costruito in funzione del suo uso. Paesaggio, qui, non è culto del verde, non è museificazione degli ecosistemi, non è venerazione degli spazi residuali e della riconquista della natura, non è neanche puro racconto del dismesso e dell'accumulato. Si intende, invece, il progetto per un territorio che produce, che è vissuto, in cui l'aspetto della dinamica antropica è quello centrale ed è il motore della crescita. Paesaggio come molteplicità di relazioni continuamente intrecciate. La visione andrebbe forse più cautamente confrontata con la genalogia del "progetto per la città degli ultimi vent'anni" (SAMPIERI 2008) per ritrovarvi assonanze, distanze, slittamenti. Una coscienza allargata di paesaggio antropizzato, così com'è impostata da questa forma progettuale, ci pare in ogni caso in grado di ridiscutere, perlomeno, l'orizzontalità così come dovrebbe darsi lungo una strada-mercato in cerca di urbanità. E' già qualcosa.

19 Adorno, da questo punto di vista, abbandona il pubblico, che per lui è totalità e autenticità, dunque negativo perchè ideologico (MASIERO 2011) e lo guarda dal punto di vista del privato: "chi vuole apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l'esistenza individuale fin negli angoli più riposti" (ADORNO 2005). Non vi sarebbe possibilità alcuna di vita buona, tuttavia, perchè "nessuna emancipazione è possibile senza l'emancipazione della società", eppure, "l'individuo, pur non essendo che una cattiva copia della cattiva società, può contribuire ad una conoscenza a cui esso, viceversa, era di ostacolo finché si presentava - intatto e positivo - come la categoria dominante". Il buon vivere è in ogni caso un desiderio del tutto-alienante, per cui non può darsi né nello spazio pubblico né in quello privato. Quello privato, peraltro, "non è più praticamente possibile": "le abitazioni moderne sono astucci preparati da esperti per gente comune, (...) esse contrastano brutalmente ad ogni aspirazione verso un’esistenza indipendente, che del resto non esiste più (...) La casa è tramontata" (ADORNO 2005: #18).

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Strada Trossi. Verrone. In primo piano “Biella Fiere” e “La Città del Mobile” Pietro Minoli, 1984

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Strada Trossi: centralitĂ ovvero ripensare il progetto urbano

Strada Trossi. Verso Biella Pietro Minoli, 1984

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oltre la crisi | biella a sinistra: - diagramma di funzionamento spaziale - Null Plan: si riconoscono le nuove centralità (quadrati rossi), gli agglomerati urbani, i diversi andamenti della strada, il terreno destinato all’agricoltura, il rilievo della Baraggia a est

Le centralità sono una grande sfida. Si può affrontarle e costruirci lo sviluppo del territorio, oppure non occuparsene generando dinamiche conflittuali. La questione riguarda il progetto urbano: come riescono ancora a funzionare le nuove centralità? Se il nuovo luogo centrale è luogo cui si attribuisce un valore che permette di attirare densità, investimenti, crescita, la situazione attuale non sembra però confermare la tendenza: il valore aggiunto non sembra così decisivo e la crescita attesa tarda ad arrivare. Che succede, invece, se le centralità non riescono ad essere luogo trainante? Si tratta forse di raccontare il futuro di una città a scala minore, dove le cose funzionano molto bene e la qualità di vita è molto alta ma dove non vi è crescita dal punto vista dell'espansione. Dal peso, dall'evoluzione e dalle scelte delle nuove centralità dipende, sostanzialmente, il progetto della strada. [vedi pag. 104] La costruzione del nuovo ospedale e del centro commerciale “gli Orsi” è un’operazione che, negli anni ‘90, si sarebbe definita di “nuove centralità” (un esempio di questo modello di pianificazione si trova nell’ultimo P.R.G. di Roma che, approvato nel 2003, è costruito a partire dal 1995. Il piano prevede 18 nuove centralità quali poli di attrazione e sviluppo: la scala è evidentemente diversa e anche i meccanismi di funzionamento). Le centralità sono riconosciute come luogo portatrice di un valore specifico e, poiché non c'è un centro da decongestionare o problemi di altra natura da risolvere, è evidente che l'intenzionalità di queste nuove significazioni sta tutta nel tentativo di agganciare una crescita per la città di Biella a sud. Nella stessa logica vanno anche le strade: nonostante la Trossi sia diventata una "strada degli outlet" (quasi totalmente deserta, come abbiamo visto) resta ad oggi una delle vie privilegiate per l'accesso a Biella e la costruzione della "tangenziale" (come è chiamata localmente) migliora in maniera decisiva la viabilità da est a ovest e permette l'attraversamento della città con disinvoltura. Resta da capire, a conti fatti, se queste centralità funzionino o meno, ed è su questa strada che raccontiamo il progetto.

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oltre la crisi | biella Modello #1 Nuove CentralitĂ

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Se le centralità tengono, sono esse a trascinare lo sviluppo e a imporre la crescita generando una griglia orizzontale. In particolare le centralità sono, da nord a sud, oltre alle due citate, il centro storico di Biella, le connessioni trasversali lungo la prima parte della Trossi, il centro di Candelo, il centro culturale/amministrativo di Verrone. Ovvero gli elementi che, oggi, rivestono un ruolo di stimolo alla crescita. Il piano orizzontale si dà in forma estesa a partire da queste polarità “pubbliche”: l’idea di base è che le nuove centralità siano il luogo dello spazio pubblico per eccellenza e che, combinando servizi e attività diverse, avviino un più ampio sviluppo misto. Se questa strategia sembra quella propugnata dalle scelte attuali della città e della provincia, ci pare tuttavia un poco inattuale nelle sue forme ed estremamente complessa dal punto di vista della gestione: la carenza di fondi che oggi non permette al biellese la manutenzione completa delle strade non aiuta a immaginare che il futuro di questo luoghi di straordinarie dismissioni,abbandoni e vuoti trovi il suo futuro in centralità che generano lo sviluppo. Certamente, a differenza del passato, un progetto costruito sulle centralità ha esiti limitati, non strabordanti, confinati: quel che si aggiunge non è radicalmente nuovo. La forma che la crisi impone a un progetto di centralità, oggi, è la scelta (scegliere, peraltro, è l'operazione più autentica del progettare). Vi sono parti di territorio che sono estremamente più rilevanti: per i servizi offerti, per la qualità dell’abitare, per l’importanza a scale più ampie. Questi luoghi sono considerati, più che centralità, delle “polarità”. Il termine viene da Finn Geipel che lo impiega nel progetto per il Grand Paris. La differenza fondamentale tra polarità e nuove centralità non è soltanto lessicale: non si ha l’intenzione di “fondare” nuove parti di città quanto, piuttosto, “riconoscere” un luogo nella sua rilevanza territoriale e centrare su esso la crescita puntuale attraverso forme opposte di progetto: le polarità individuano una “città leggera” e una “città densa”. Intorno al luogo polare il progetto è densissimo, garantisce la crescita ma in forma controllata e spessa. Dove la polarità termina, il territorio si dipana in forma diffusa, meno normata, più libera (ma non in assenza di regole). Allo stesso modo il modello impone propone una “mobilità graduata” dove la gerarchizzazione di percorsi e velocità discretizza i modi dello spostarsi. L’obiettivo è la salvaguardia e il potenziamento della biodiversità e, ancora una volta, un progetto “leggero”, che preferisce costruirsi su tempi lunghi e su appropriazioni che non su tempi corti e imposizioni.

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oltre la crisi | biella POLARITA' parlare di centralità oggi significa sollevare il tema delle polarità. La distinzione non è solo lessiclae: si dichiara, certo, il ruolo "generatore" di questi luoghi, tuttavia ciò che si genera è un progetto "a due velocità, che costruisce contemporaneamente UNA CITTA' DENSA e una CITTA' LEGGERA. LIN - Finn Geipel, Grand Paris Metropole douce

La strada, in un progetto polare, ridefinisce i suoi criteri in termini di quantità di traffico, dimensioni, velocità di percorrenza. E' una strada separata, che serve a muoversi e non più a comprare. Il resto è un tessuto leggero, poco impositivo, diffuso, che presuppone tuttavia un'alta qualità degli spazi e una alta interazione tra gli attori pubblici e le effervescenze. a destra: - la famosa immagine della città vista dall'auto (Team Ten 1952) che percorre la strada Trossi, finalmente veloce, dove la sezione è maggiore e ai nordi c'è un bosco - diagramma esemplificativo di città densa/città leggera intorno all'ospedale - rinnovamento della sezione stradale

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L’opposto del progetto che parte dall’implementazione delle centralità è quello che immagina un territorio “che si restringe”: a partire da Detroit (DASKALIS et al. 2001) la questione delle “shrinking cities” pare essere una delle più rilevanti della contemporaneità. Anche se a Biella non si assiste ancora a radicali e repentine perdite di popolazione, il fenomeno di contrazione è tuttavia piuttosto presente. In questo caso un progetto orizzontale tenderebbe a focalizzarsi su “ciò che resta”, potenziando e densificando i dentri abitati esistenti o spostando nello stesso luogo attività, persone, edifici. Lo sviluppo che si presuppone, in questo caso, non ammette crescita. Si lavora dunque in due campi: (1) la densificazione della città “contratta”, luogo dell’orizzontalità estrema: una densificazione di servizi, di significati, di "qualità urbana", di spazi pubblici capaci di rispondere alla contemporaneità (cfr. pag. 172). (2) Ciò che resta fuori dalla città contratta, che decenni di studio e di progetto chiamerebbero "paesaggio" (SAMPIERI 2008). Il progetto può essere radicale e assumere declinazioni di matrice molto diversa: olistica, ecologista, elementarista, vernacolare, umanistica... (ibidem). Può darsi in forme attente, frutto di lunghi studi e basato su ideali di tipo ecologico-ambientalista, come nei lavori di Allan Berger, o nelle forme più assolutiste e quasi espressioniste come nei progetti dei Dogma (si pensi al progetto per Spina 4, a Torino. La strada torna ad essere "connessione efficiente" perchè non è più il fuoco del progetto. Anche qui, tuttavia, le mutate condizioni socio-economiche fanno pensare che sia il progetto della città contratta sia il progetto del "paesaggio" avvengano entro forme minori: si trasforma, si agisce attraverso forme leggere, che rispondono alla crisi con tempi più dilatati, una maggior elasticità, un più attento adeguamento all’impegno sociale e alla partecipazione. Sono forme puntuali, di bricolage, come quelle proposte da Lacaton e Vassal (DRUOT et al. 2007) che, quando devono proporre un ampliamento della città, lo fanno senza aggiungere nuovi edifici ma aggiungendo parti, cambiando la qualità dello spazio interno, migliorando le condizioni energetiche e di vivibilità. E’ il progetto di Patrick Bouchain (BOUCHAIN 2006), che nel ripensare una grande friche industrielle costruisce prima di tutto relazioni sociali tra i possibili fruitori e insieme ad essi immagina il progetto e lo costruisce: si tratta di appropriazioni di grande forza, come nel caso della Condition Publique di Roubaix o della Belle de Mai a Marsiglia. Si tratta, ancora, della concezione di Marco Casagrande applicata nella Ruin Academy di Taipei e nella “Urban agopuncure”, un riprendere in mano la città attraver-

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oltre la crisi | biella BRICOLAGE E AGOPUNTURA Le dinamiche della città che si restringe si affrontano significativamente entro pratiche "minori" del progetto, tese a lavorare su piccole parti di città, rinnovamenti puntuali, rilanci sociali, riconquista di spazi abbandonati. - Lacaton & Vassal, Transformation de la Tour Bois le Prêtre, Paris - Marco Casagrande, Ruin Academy, Taipei - Patrick Bouchain, Le Lieu Unique, Nantes

PUNTINISMO URBANO La strada, quando non riesce a essere ricompresa in un modello onnicomprensivo di progetto del paesaggio, che la vede come "connessione" / "tubo", torna a essere luogo eventuale, situazione urbana, dove le relazioni sono tutte in scala micro e le connessioni veloci non esistono perchè sono altrove. a destra: - bricolage dentro i capannoni vuoti - rinnovamento della sezione stradale: una strada di eventi

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so interventi di piccola portata ma di grande impatto che permettono alla “natura” di tornare padrone del territorio e agli edifici di “essere trasformati in rovina”. Per Casagrande la rovina è parte integrante del territorio e, anzi, consente un diverso modo di abitare. Salvo le differenze e gli accenti, in tutti questi casi si tratta di interventi minimi, di “faire plus avec moins” (BOUCHAIN 2006), di ricostruire il territorio partendo dalle sue potenzialità intrinseche.

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I progetti che abbiamo descritto per parlare di orizzontalità nella sezione della Strada Trossi mostrano una radicale polisemia del progetto orizzontale. La griglia può darsi in forme completamente diverse e ciascuna modalità, com’è ovvio, presenta peculiarità, vantaggi e svantaggi. Non è così semplice mostrare quale sia lo scenario più adeguato: è più interessante, però, mostrare come le risposte alla complessità non siano univoche e mantengano tuttavia alcuni tratti comuni. Entro tale cornice piuttosto comune le differenze sono molteplici, tuttavia ci pare interessante raccogliere esperienze così diverse del progetto intorno a una condivisa certezza rispetto all’impossibilità del progetto tradizionale: un’impossibilità economica, certamente, ma anche un’impossibilità semantica, poiché, di fronte agli straordinari fenomeni di abbandono e dismissione radicale20, tutti sono concordi nel trovare a fatica significati ulteriori di quegli spazi e di quei vuoti, e a fatica sono capaci di immaginarli in forma diversa dall’essere un “supporto”. Il piano tradizionale che si affida alle centralità è fortemente risignificato. Parlare di polarità significa ammettere l'incapacità del piano dell'intero di raccogliere degli esiti positivi. La dicotomia di polarità e città densa/leggera è una forma minore del progetto delle centralità. Un piano tradizionale di "shrinking city" che immagina che Tutto è [sia] paesaggio (Lotus 101/1999:41-131) non ha spazio per il compimento in epoca di crisi. L'intero si dissolve in dettagli21 ed è solo tra essi che una pratica di "puntinismo urbano" può sostituirsi a muscolari "espressionismi della città". Anche qui, una forma minore.

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“La ville moderne produit du délaissé. L’ensemble du système économique et juridique de production de terrains urbanisés et d’équipement du territoire conduit indubitablement à créer toujours plus de vides et de franges isolées, sans utilité économique apparente pour le marché. Dans un sens, la dimension techniciste de l’urbanisme, qui a dominé le champs de la discipline, privilégiant une idéologie du progrès et de la modernité aux dépens du sens et souvent de l’homme, a fait un choix, celui de la forme réticulaire du territoire et du zoning à petite échelle. Avec son corrolaire, l’abandon de pans entiers du territoire. A l’heure actuelle, quoique les discours des professionnels vantent les mérites de la mixité, refusent le zoning, les pratiques restent souvent cantonnées aux dérives anciennes, ne serait-ce que parce que les lois adoptées à une autre époque, celle de la Croissance, rendent obligatoires ces pratiques. (...) C’est pourquoi notre projet porte en lui une réflexion globale sur la culture et les pratiques de l’aménagement des villes. Suréquipée en certains points, victime de la concurrence des communes pour détourner vers elles quelque activité qui se présente, mais incapable de gérer la dynamique complexe du renouvellement de la ville sur elle-même et d’éviter la dégradation des quartiers où elle avait mis toute la fierté de son savoir-faire technique, la France veut-elle concevoir autrement son existence urbaine?” (PARIS 2000). 21 La lezione di Hans-Urs Von Balthasar, a proposito, riporterebbe a ben altre considerazioni. Interessato a tutt'altro, nel capitale testo "Il tutto nel frammento" (1963) ascrive la possibilità della comprensione del tutto ai dettagli formali. Intriso di

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Denunciare la minorità di una forma progettuale è tutt'altro che denigrarla: se ne parla a proposito di Kafka (DELEUZE, GUATTARI 1996 [1975]) e le definizioni aiutano a comprendere anche il fenomeno che indichiamo nella nostra disciplina. "Una letteratura minore non è la letteratura d'una lingua minore ma quella che una minoranza fa in una lingua maggiore" (...) " I tre caratteri della letteratura minore sono quindi la deterritorializzazione della lingua, l'innesto dell'individuale sull'immediato-politico, il concatenamento collettivo d'enunciazione. Ciò equivale a dire che l'aggettivo 'minore' non qualifica più certe letterature ma le condizioni rivoluzionarie di ogni letteratura all'interno di quell'altra letteratura che prende il nome di grande (o stabilita)" (ibidem: 29,33). E, sul piano dell'architettura: "If, as Michel de Certeau suggests, 'space is practiced place', these minor operations might be construed as practiced space. (...) The idealized modernist belief of physical determinism is turned on its head, revealing those conditions in which space can be the result of action rather than the cause of behavior. Minor architectures operate through verbs, not as nouns. Provoked by desires for resistance, fragmentation, and opposition, they may be mobilized within buildings that are underutilizednor diminished by real or perceived obsolescence. (...) They reframe the definition of architecture from the making of buildings with materials of nature to the making of spaces within the already built" (STONER 2012: 16). “Je crois au provisoire, à la mobilité des choses, à l’échange. Et je travaille à crèer, en architecture, une situation dans laquelle la construction pourra se réaliser d’une autre faÇon et produire de l’inattendu, donc de l’enchantement (...) s’inscrire dans le contexte, connaître la règle, ne pas agir mais transformer, faire le moins possible pour donner le plus possible, entraîner tout le monde, interpréter, donner du temps, transmettre, ne jamais faire pareil” (BOUCHAIN 2006).

Gestalttheorie, Balthasar dispiega le sue energie nel mostrare come la rivelazione dell'Uno si dia nelle forme della percezione della forma (dell'appercezione, si direbbe ancora altrove). E' possibile, a mio modo di vedere, ricondurre a un progetto del tutto queste pratiche di "puntinismo urbano" se la società (la somma degli attori) ha una tensione all'intero. Quand'anche non si garantisse una continuità ideale e pratica dei microprogetti si potrebbe tuttavia riconoscere un "unum" territoriale nell'esperienza delle forme concrete del darsi dei piano. E in queste utopiche (alienanti, direbbe Adorno) condizioni di integrità della società si direbbe, ancora, che Tutto è paesaggio.

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Valle Strona. Le fabbriche di Vallemosso Pietro Minoli, 1972

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Vallemosso: vuoti ovvero ripensare le condizioni del progetto

Strona. Fabbriche tessili lungo il torrente Pietro Minoli, 1963

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il piano zero di Vallemosso ci mostra una situazione complessa, di grandi cavità (gli edifici dismessi: fabbriche e abitazioni), di un’idrografia prorompente e di boschi dilaganti. Sempre più disabitato, sempre più rinaturalizzato. Tuttavia gli sforzi della popolazione sono costanti: la collina soliva è abitata e la qualità degli edifici, recuperati, è notevole. Le fabbriche che resistono hanno costruito dei meccanismi di grande tecnologia per prendersi cura dell’acqua. Le strade, un tempo mal sistemate e pericolose, sono ora in ottimo stato e favoriscono le connessioni. Mentre il fiume è circondato da edifici dismessi, alcuni di essi presentano caratteristiche di non semplice abbandono. All’inizio del paese una fabbrica importante è ancora attiva, nel centro, invece un’altra fabbrica sta chiudendo, ma fa talmente parte dell’eredità culturale di Vallemosso che è impensabile abbandonarla. I boschi avanzano di gran lena, tuttavia l’abitato è diffuso su tutti i versanti solivi ed è di qualità.

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Si tratta qui di un abbandono di natura ed edifici di pregio, in un contesto non urbano.Due sono i temi: i vuoti e i confini. I vuoti sono caratterizzati da fattori di rischio e da opportunità. Il rischio è fondamentalmente ambientale: il progetto si preoccupa di mettere in salvo il torrente e di custodire gli edifici. Dove talvolta la custodia si dà nella forma di "rinaturalizzazione accompagnata". Senza avere le forze economiche per demolire o riutilizzare, l'azione minima che pare necessario compiere è quella della messa in sicurezza di edifici e fiume. Le opportunità riguardano la complessa questione del patrimonio e della patrimonializzazione: un’enorme quantità di spazi vuoti, coperti, quasi sempre di qualità altissima, che hanno tuttavia "perdu leur valeur d'usage" e non sono attualmente recuperabili. I confini sono il tema che Vallemoso pone al centro: la profondità della questione sta tra la dimensione fisica e quella sociale. La dimensione fisica riguarda gli aspetti della rinaturalizzazione e dell'avanzata del bosco: certi che i vuoti a perdere ne faranno parte, fino a dove può darsi il progetto? La dimensione sociale pertiene al restringimento demografico: per chi è dato, il progetto? Da questo punto di vista, il tema della patrimonializzazione o della rigenerazione è inquadrato in quello della condizioni per il progetto.

Parlare di "condizioni per il progetto" rimanda immediatamente a un dibattito avvenuto almeno due volte negli ultimi trent'anni in Italia e che ebbe esiti non banali in materia di teoria del progetto e della pianificazione nonchè in termini di costruzione di lessico e retoriche. Anche parlare di "vuoti" rimanda a un altro dibattito, con le radici negli stessi anni (lo stesso articolo di Secchi del 1984 dichiarava impellente proprio questo tema). Tuttavia, proprio per via del mutamento delle condizioni, assume oggi una nuova forma: si apre una nuova stagione. Parlare di progetto rimanda, in questo caso, a tempi e modi diversi, al rapporto con la "rovine", alla "perennità" dell'architettua, a un approccio che cautamente andrebbe definito come "misurata barbarie".

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Quando in Italia si diceva che le condizioni erano cambiate, Secchi dichiarava: "progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi, esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato" (SECCHI 1984). Problemi, metodi, intenzioni. Le cause del progetto, i modi del progetto, le implicazioni del progetto. Da un punto di vista più liberamente obiettivo, ci pare che le "condizioni" si possano distinguere fra condizioni che sono, rispetto al progetto, intrinseche, "imposte dall'uomo" (le stesse di cui ragiona Secchi) ed estrinseche, "imposte dalla natura". Sulle condizioni intrinseche, che riguardano l'intero darsi del progetto, le sue ragioni, i suoi obiettivi, i modi e le tecniche, ragiona per intero questo nostro lavoro e la ricerca Territories in Crisis. Sulle condizioni estrinseche ci pare che Vallemosso permetta di aprire questioni più generali: "l'architecture est, de toutes l'expressions de l'art, celle qui est le plus soumise aux conditions matérielles. Permanentes sont les conditions qu'impose la nature, passagères celles qu'impose l'homme. Le climat, ses intempéries, les materiaux, leurs propriétés, la stabilité, ses lois, l'optique, ses déformations, les senséternel et universel des lignes et des formes imposent des conditions qui sont permanentes. La fonction, les usages, les règlements, la mode imposent des conditions qui sont passagères" (PERRET 1952). Il progetto è soggetto a condizioni spaziali. Vallemosso mette chiaramente in discussione i confini fisici in cui il progetto può darsi. I fenomeni dell'abbandono e della dismissione ridefinisco per intero il territorio. Così, entro una natura strabordante, il progetto DECIDE i suoi confini o si lascia cassare da confini che non controlla. Le mappe di queste pagine ci mostrano come le dismissioni importanti (di fabbriche ma anche di abitazioni) generino un fenomeno di "rinaturalizzazione" piuttosto consistente. Gilles Clemènt potrebbe essere affascinato, da questo terzo paesaggio (CLEMENT 2005) dove "le piante sono veri e propri dispositivi dell’osservazione, rendono visibile il cambiamento, proponendosi come materiale di una riflessione sul paesaggio, l’agire e l’estetica. (...) Territorio frammentario, caricato di forte valore simbolico e, ciò nondimeno, residuo, indeciso, sospeso." (BIANCHETTI 2006). Su questo spazio, "l’agire è andare con, non contro la natura, assecondare, osservare e intervenire il meno possibile. (...) Il gioco di lasciare le cose come stanno (e come evolvono) non elude evidentemente la decisione" (ibidem). A Vallemosso vi sono almeno due problemi: il primo è capire QUALI SIANO I CONFINI del Terzo Paesaggio. Fino a dove si spinga, fino a dove vada limitato. E' questione progettuale, questa: cosa è dentro e cosa è fuo-

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ri. Cosa, in definitiva, di ciò che è dismesso, diventa parte di quel paesaggio e cosa invece no. Si direbbe, con termini abusati, cosa sia "vuoto a perdere". La definizione del mite, dunque, dipende dal progetto. Il secondo problema è l'azione. La crisi IMPONE un ripensamento del lavoro sul Terzo paesaggio. Non è più ammessa un'intenzionalità pervicace, non si dà più un'attenzione spasmodica a tutto, si dà semmai (se va bene) un pensiero sull'intero. Tutt'altra cosa. Perchè il pensiero dell'intero riguarda essenzialmente la messa in sicurezza, la custodia, la salvaguardia, il rischio da evitare. Ben diverso da un progetto olistico in cui tutto è osservato, tutto è descritto, tutto è accompaganto. Le condizioni spaziali influenzano dunque il progetto e allo stesso tempo ne sono dettate. Il progetto definisce i limiti del suo intervento. E fa i conti con le sue reali possibilità (anche economiche) cercando di comprendere "fino a dove" si può spingere e fino a dove, invece, è necessario fermarsi. Cosciente che, quel che è confinato, non è solo lo spazio abiatato, ma anche la società.

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fenomeni di rinaturalizzazione consapevole. Le fabbriche dismesse come parte dell’ecosistema.

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Il progetto è soggetto a condizioni temporali. Rispetto alla variabile del tempo, la questione in gioco è quella della "perennità" dell'architettura. Si intende dire, qui, che le condizioni sono mutate in termini temporali perchè, ciò che cambia, è il rapporto tra architettura/progetto e il tempo. Sarebbe stolto affermare che la perennità dell'architettura è qualcosa che riguarda essenzialmente il "durare" o "perdurare": il solo termine "durabilité", in francese, è usato per indicare anche tutto ciò che sta sotto l'egida della "sostenibilità". E' evidente, insomma, che la questione sia più complessa di quel che la sola nozione di tempo implicherebbe. Per Perret "l'architecture posséderait un caractère de pérennité par le simple fait de répondre à des conditions qui sont permanentes. (...) ce type de pérennité exprime la primauté des conditions permanentes sur celles qui sont passagères, et ceci n'est possible que dans une perspective temporelle" (ORTELLI 2012). D'altra parte, tuttavia, la dimensione temporale produce, di continuo, delle rovine, che a Vallemosso sono evidenti. E la rovina, in definitiva, indica "que la pérennité des édifices n'est qu'illusoire" (ibidem) eppure, sempre per Perret, "l'architecture = belle ruines, parce que plus elles s'ouvrent, plus elles montrent de vérité" (PERRET 2002, cit. in ORTELLI 2012), sicché il progetto, che in queste condizioni non è più in grado di soddisfare i requisiti minimi di resistenza alle "condizioni" materiali, assume tutt'altra ragione d'esistere, e si svincola definitivamente dal tempo. "La pérennité dont il est question semble alors dépendre d'aspects à la fois matériels et immatériels. (...) La pérennité physique d'un bâtiment est toujours liée à la durée du sens qu'on lui attribue, à l'intelligibilité de sa signification, même au-delà de sa raison d'être fonctionelle. (...) La permanence des valeurs immatérielles d'un édifice, ainsi que leur reconnaisance de la part de la société ou d'une communauté, sont les circonstances incontournables de sa durée matérielle. cette dernière n'existe même pas en l'absence de raisons qui dépassent l'état physique de l'œuvre" (ORTELLI 2012). Davanti alle rovine di Vallemosso, le condizioni temporali, che abbiamo visto non prettamente legate allo scorrere del tempo quanto piuttosto alla capacità di risignificazione che dipende, nel tempo, dalla società, appaiono fondamentali. Non si tratta, qui, di capire come sono /come saranno gli edifici nel tempo, nella loro materialità, nella loro destinazione d'uso, nel loro rispondere alle condizioni materiali. Si tratta piuttosto di comprendere quale sia il senso che la società gli attribuisce. Da questo punto di vista ci pare che le condizioni di temporalità che si esplicano a Vallemosso indichino una

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DISTANZA incolmabile rispetto al passato, anche recente. Il tema è ANCORA "dare senso e futuro attraverso continue modificazioni alla città, al territorio, ai materiali esistenti e ciò implica una modifica dei nostri metodi progettuali che ci consenta di recuperare la capacità di vedere, prevedere e di controllare" (SECCHI 1984), tuttavia niente è più lontano da quel modo di "costruire piani 'a grana più fine', privi di carattere dimostrativo, che non aspirino a trascendere la situazione nella quale sono prodotti, che non pretendano di legittimarsi mediante un uso strumentale e burocratico dell'apparato discorsivo consegnatoci dalla tradizione, ma che articolino lo spazio del discorso con più limitate e definite tematizzazioni" (ibidem). Il riconoscimento22 di quelle rovine, invece, passa attraverso una pratica che andrebbe definita come "consapevole misurata barbarie". Compiuta l'opzione progettuale, che de-cide cosa rientri nel terzo paesaggio e cosa sia, invece, materia di sviluppo urbano (non di crescita), si tratta di ridefinire non la "grana più fine" ma, al contrario, di costruire una "visione di futuro a grana grossa". Non significa tornare alle "grandi campiture sulle mappe e ai grandi segni architettonici ed infrastrutturali sul territorio" (ibidem), quanto a un rinnovato impegno etico-politico di immaginazione del futuro. Quello che manca, a Vallemosso, è un ragionamento sulle condizioni spaziali e temporali, che si traduce in un conseguente immaginario prospettico dell'intero. La traduzione alla "grana piccola" è necessaria (con tutto ciò che questa espressione si porta con sè nei quindici anni successivi alla sua prima stesura): non prima, però, della definizione dei confini e della riappropriazione dei significati.

22 Ci sembra quasi inutile, qui (e tuttavia adeguato) richiamare, anche solo per ampliamento del pensiero, il poderoso spessore del discorso filosofico sul tema del riconoscimento, che Axel Honneth fa derivare, ancor prima che da Hegel che l'ha formalizzato, da Rousseau. "Nella misura in cui un soggetto si saprà riconosciuto in determinate capacità equalità da parte di un altro soggetto, conciliandosi con lui per tale aspetto,conoscerà contemporaneamente anche parti della propria insostituibile identità e tornerà sempre di nuovo a contrapporsi all'altro come individuo particolare" (HONNETH 2002). Il tema riacquista tuttavia una densità maggiore solo grazie a Paul Ricoeur (RICOEUR 1993) che lo ridefinisce secondo un'accezione attiva (del riconoscere come conoscere) e un'accezione passivo/riflessiva (dell'intersoggettività come strada dell'autoconoscenza) (RICOEUR 2005. Cfr. anche CASTIGLIONI 2012). L'autoconoscenza è quello cui tentiamo di riferirci anche qui. Il riconoscimento della Forma e la sua risignificazione è prima di tutto autoconoscenza dei soggetti che indagano: d'altra parte, quando si parla di Ricoeur e di riconoscimento, il primo riferimento va al "personalismo" di Mounier il quale, maestro di Ricoeur, nell'intersoggettività vedeva prima di tutto una valenza di azione politica. L'azione sembra innervata nel riconoscimento al punto che, altrove (CERAGIOLI 2012), questa stessa categoria è usata per spiegare l'azione creatrice nella teologia fondamentale. Per lo stesso Ricoeur "reconnaissance" è riconoscimento di sè E atto fondativo di riconoscenza verso l'altro, il che assume dimensioni tutt'altro che intimiste.

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La riappropriazione, il riconoscimento e la risignificazione secondo misurate barbarie si dà nel tempo. Rispetto a "existing metropolitan sites which are at present UNDERUSED or MISUSED", Cedric Price proponeva l'esercizio progettuale dei "magnets": "the STRUCTURES act as both INSERTS AND TRANSPLANTS providing socially beneficial movement routes. Their PLANNING encourages adjacent future growth while the FIXED-LIFE structures enable VARIATION & RE-ASSEMBLY to be undertaken with speed and minimal disruption. To establish a valid equation between contemporary social aspirations and Architecture, it is essential to add the latter Doubt, Delight and Change as design criteria. MAGNETS are an example of the necessity of Anticipatory Design. A series of short life structures, to be funded by local authorities or civic bodies, which would be used to set up new kinds of public amenity and public movement. They would occupy spaces not usually seen as sites available to the public. Magnets are designed to generate new kinds of access, view, sanctuary, safety, information and delight. They are designer to “overload” underused or misused sites, to make them more delightful and better fun. Magnets are deliberately mobile, adaptable and re-usable, so that they do not become, as often happens to buildings, inactive, inflexible, institutionalized, formalized, provate or redundant. (...) Magnets are both pragmatic and polemic in the way they turn space to public advantage. They are not an end in themselvesbut they encourage the continual necessity for change” (PRICE 1996; HERDINGHAM 2003: 96-97). Talvoltal’azione dell’individuo è più radicale di quella progettabile dal tecnico: a fronte di un pullulare di fermenti sociali ed effervescenze, è ora necessario considerare questi spazi non come il luogo della quotidiana sicurezza lavorativa ma come l’opportunità di sviluppare altro (un altro che, in forme minori, è già fortemente presente e diffuso sul territorio della valle come pratiche sociali di assistenza e volontariato, attività microimprenditoriali, sviluppo innovativo di energia, attivismi sportivi e naturalistici, dinamicità creative...) nascosto ma perchè spesso ci si è dimenticati di possederlo.

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oltre la crisi | biella “We began this book by admitting to the perversity of our thesis. We wanted to point out the deathly states of buildings, in their many forms and circumstances, in order to engender a feeling for the inert. (...) It was not our intention to point to deteriorating, decrepit, and destroyed buildings and merely whisper gratuitously: ‘Buildings must die’. We offer this investigation as an extended memento mori for architecture to help recalibrate its purpose. In short, this book about the death of buildings is composed in the name of architectural agency and its capacity to make worlds differently.” (CAIRNS, JACOBS 2014: 232).

Il riconoscimento e la risignificazione passano attraverso la comprensione profonda delle CONDIZIONI del progetto. Vallemosso è in uno stallo che non riesce a scorgere prospettive: si tratta, forse con logiche elementari ma non banali, di ritracciare i confini spaziali e sociali del proprio agire e di ridefinire le condizioni temporali, ovverossia di significazione, che permettono alla società un'autocomprensione di sè capace di trasformarsi in azione.

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3 In luogo di conclusione Ἱππόδαμος δὲ Εὐρυφῶντος Μιλήσιος (ὃς καὶ τὴν τῶν πόλεων διαίρεσιν εὗρε καὶ τὸν Πειραιᾶ κατέτεμεν, γενόμενος καὶ περὶ τὸν ἄλλον βίον περιττότερος διὰ φιλοτιμίαν οὕτως [25] ὥστε δοκεῖν ἐνίοις ζῆν περιεργότερον τριχῶν τε πλήθει καὶ κόσμῳ πολυτελεῖ, ἔτι δὲ ἐσθῆτος εὐτελοῦς μὲν ἀλεεινῆς δέ, οὐκ ἐν τῷ χειμῶνι μόνον ἀλλὰ καὶ περὶ τοὺς θερινοὺς χρόνους, λόγιος δὲ καὶ περὶ τὴν ὅλην φύσιν εἶναι βουλόμενος) πρῶτος τῶν μὴ πολιτευομένων ἐνεχείρησέ τι περὶ πολιτείας [30] εἰπεῖν τῆς ἀρίστης. κατεσκεύαζε δὲ τὴν πόλιν τῷ πλήθει μὲν μυρίανδρον, εἰς τρία δὲ μέρη διῃρημένην: ἐποίει γὰρ ἓν μὲν μέρος τεχνίτας, ἓν δὲ γεωργούς, τρίτον δὲ τὸ προπολεμοῦν καὶ τὰ ὅπλα ἔχον. διῄρει δ᾽ εἰς τρία μέρη τὴν χώραν, τὴν μὲν ἱερὰν τὴν δὲ δημοσίαν τὴν δ᾽ ἰδίαν: ὅθεν [35] μὲν τὰ νομιζόμενα ποιήσουσι πρὸς τοὺς θεούς, ἱεράν, ἀφ᾽ ὧν δ᾽ οἱ προπολεμοῦντες βιώσονται, κοινήν, τὴν δὲ τῶν γεωργῶν ἰδίαν. ᾤετο δ᾽ εἴδη καὶ τῶν νόμων εἶναι τρία μόνον: περὶ ὧν γὰρ αἱ δίκαι γίνονται, τρία ταῦτ᾽ εἶναι τὸν ἀριθμόν, ὕβριν βλάβην θάνατον. ἐνομοθέτει δὲ καὶ δικαστήριον ἓν τὸ [40] κύριον, εἰς ὃ πάσας ἀνάγεσθαι δεῖν τὰς μὴ καλῶς κεκρίσθαι δοκούσας δίκας: τοῦτο δὲ κατεσκεύαζεν ἐκ τινῶν γερόντων αἱρετῶν. ἡ δὲ τῶν ἰδίων οἰκήσεων διάθεσις ἡδίων μὲν νομίζεται καὶ χρησιμωτέρα πρὸς τὰς ἄλλας πράξεις, ἂν εὔτομος ᾖ καὶ κατὰ τὸν νεώτερον καὶ τὸν Ἱπποδάμειον τρόπον, πρὸς δὲ τὰς πολεμικὰς [25] ἀσφαλείας τοὐναντίον ὡς εἶχον κατὰ τὸν ἀρχαῖον χρόνον: δυσείσοδος γὰρ ἐκείνη τοῖς ξενικοῖς καὶ δυσεξερεύνητος τοῖς ἐπιτιθεμένοις. διὸ δεῖ τούτων ἀμφοτέρων μετέχειν (ἐνδέχεται γάρ, ἄν τις οὕτως κατασκευάζῃ καθάπερ ἐν τοῖς γεωργοῖς ἃς καλοῦσί τινες τῶν ἀμπέλων συστάδας), καὶ τὴν μὲν [30] ὅλην μὴ ποιεῖν πόλιν εὔτομον, κατὰ μέρη δὲ καὶ τόπους: οὕτω γὰρ καὶ πρὸς ἀσφάλειαν καὶ πρὸς κόσμον ἕξει καλῶς. - Aristotele, Politica 1267b e 1330b 202


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Hippodamus son of Euryphon, a Milesian (who invented the division of cities into blocks and cut up Piraeus, and who also became somewhat eccentric in his general mode of life owing to a desire for distinction, so that some people thought that he lived too fussily, with a quantity of hair and expensive ornaments, and also a quantity of cheap yet warm clothes not only in winter but also in the summer periods, and who wished to be a man of learning in natural science generally), was the first man not engaged in politics who attempted to speak on the subject of the best form of constitution. His system was for a city with a population of ten thousand, divided into three classes; for he made one class of artisans, one of farmers, and the third the class that fought for the state in war and was the armed class. He divided the land into three parts, one sacred, one public and one private: sacred land to supply the customary offerings to the gods, common land to provide the warrior class with food, and private land to be owned by the farmers. He thought that there are only three divisions of the law, since the matters about which lawsuits take place are three in number—outrage, damage, homicide. He also proposed to establish one supreme court of justice, to which were to be carried up all the cases at law thought to have been decided wrongly, and this court he made to consist of certain selected elders. The arrangement of the private dwellings is thought to be more agreeable and more convenient for general purposes if they are laid out in straight streets, after the modern fashion, that is, the one introduced by Hippodamus; but it is more suitable for security in war if it is on the contrary plan, as cities used to be in ancient times; for that arrangement is difficult for foreign troops to enter and to find their way about in when attacking. Hence it is well to combine the advantages of both plans for this is possible if the houses are laid out in the way which among the farmers some people call ‘on the slant’ in the case of vines), and not to lay out the whole city in straight streets, but only certain parts and districts, for in this way it will combine security with beauty. - Aristotele, Politica 1267b e 1330b

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Matrici urbane Esauriti gli sforzi di immaginazione progettuale e stremati da meditazioni avanguardiste e liminari ci si pone, con banalità e senza pensarci troppo, la domanda "perché il piano orizzontale?". Non era forse meglio inoltrarsi in percorsi gerarchici e anisotropi, scandagliare le elementarità territoriali di "durezza" e "malleabilità" e incentivarle, propugnarle, accomodarle? "La gerarchia, già nella sua derivazione etimologica dal greco ecclesiastico, evoca sia l'idea di comando, separazione, subordinazione e specializzazione, sia un'idea di sacralità.23 (...) Gerarchizzare, in ogni campo del sapere e del progetto, è divenuto il modo di mettere ordine in ciò che appariva confuso e incomprensibile" (SECCHI, VIGANO' 2014). E allora? Per gli urbanisti della "métropole horizontale" l'isotropia è, sostanzialmente, una missione democratica opposta alla gerarchia, "immagine del potere" (ibidem). Le motivazioni che ci hanno spinto a intraprendere il percorso di studio dell'orizzontalità sono un poco più ampie e non si riferiscono solo all'ordinamento del territorio o a ragioni di giustizia spaziale ("l'opposizione tra gerarchia e isotropia è opposizione tra due estremi tra i quali stanno le situazioni reali, mai perfettamente isotrope, ma anche mai del tutto ordinate gerarchicamente. Ciò che diviene interessante, quantomeno quando si osserva un territorio, è studiare come le due categorie interagiscono rincorrendosi tra loro alle diverse scale" - ibidem). No. L'isotropia si è scelta come chiave interpretativa del presente poichè, tout court, la griglia orizzontale è l'archetipo del progetto urbano. Parlare di griglia significa

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alla pagina precedente: il piano di Mileto di Ippodamo, V sec. a.C.

"Per l'uomo religioso lo spazio non e' omogeneo, presenta talune spaccature, o fratture: vi sono settori dello spazio qualitativamente differenti fra loro. "Non ti avvicinare - disse il Signore a Mose' - togliti i calzari, perche' il luogo in cui ti trovi e' santo" (Es3,5). Vi e' dunque uno spazio sacro, quindi con una sua "forza", un suo preciso significato, e vi sono spazi non consacrati, quindi non privi di struttura e consistenza, in una parola: amorfi. E vi è di più: per l'uomo religioso questa non-omogeneita' dello spazio si identifica in una pratica contrapposizione tra lo spazio sacro, l'unica cosa reale, realmente esistente, e tutta la restante informe distesa che lo circonda. E' bene dire subito che l'esperienza religiosa della non-omogeneità dello spazio è un'esperienza primordiale, paragonabile a una "fondazione del Mondo". Non si tratta di una speculazione teorica, bensì di un'esperienza religiosa elementare, anteriore a qualsiasi riflessione sul Mondo. La costituzione del mondo nasce dalla spaccatura effettuata nello spazio, attraverso la quale si scopre "il punto fisso", l'asse centrale di ogni orientamento futuro. (...) Per vivere nel Mondo, bisogna fondarlo, e nessun mondo può nascere nel 'caos' della omogeneità e relatività dello spazio profano. (...) Per l'esperienza profana lo spazio è omogeneo e neutro: non vi è alcuna rottura che stabilisca differenziazioni qualitative tra le varie parti della massa che lo formano. Lo spazio geometrico può essere sezionato e delimitato in una qualsiasi direzione, ma la sua struttura vera e propria non può dar luogo a nessuna differenziazione qualitativa, ne ad alcun orientamento" (ELIADE 2006 [1965]).

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parlare di ordinamento dello spazio24. In maniera consapevole almeno dai tempi di Ippodamo. "Ippodamo da Mileto è il primo pianificatore urbano, di cui rimanga documentazione letteraria, sia pure indiretta, e che abbia argomentato sullo spazio della polis nel duplice significato della parola greca: città-stato e città fisica. Le proposte di Ippodamo sono citate da Aristotele in due brevi passi della Politica. Ippodamo è presentato come un filosofo politico e un pianificatore. Molti studiosi di Ippodamo sono inclini a trascurare la sua duplice attività e a considerarlo solo o soprattutto un pianificatore, mentre l’associazione di costituzione e piano può essere la chiave del passo aristotelico" (MAZZA 2008). Non ci interessa, quindi, ritrattare le forme dello spazio orizzontale, la "griglia fisica". Il rilievo è dato interamente alle possibilità di organizzazione sociale, politica ed economica che l'organizzazione fisica impone. Il nesso tra le due parti è indissolubile e in qualche modo una delle due parti rimanda costantemente all'altra. La ragione più profonda per cui ci siamo occupati di piano orizzontale e abbiamo immaginato scenari progettuali che partissero da quella maglia è dunque la più recondita fiducia nelle capacità umane di organizzazione del suolo. Anzi, nelle capacità umane di immaginazione del futuro attraverso la cosmizzazione del caos. " La relazione tra costituzione e griglia, se riconosciuta,

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Mircea Eliade, dopo gli slanci sulla gerarchizzazione dello spazio come atto fondativo, rileva che "non bisogna confondere il concetto di spazio geometrico e neutro con l'esperienza dello spazio 'profano', in opposizione allo spazio sacro (...) Il concetto di spazio omogeneo e la sua storia (poichè la sua acquisizione da parte del pensiero filosofico e scientifico risale all'antichità) fanno parte di un problema di tutt'altra natura" (ELIADE 2006 [1965]). D'altra parte, tuttavia, Eliade fraintende (e fa bene) concetto di spazio geometrico ed esperienza di spazio profano proprio quando richiama l'atto di organizzazione spaziale. L'atto di organizzazione, o "cosmizzazione", è un atto sacro, di consacrazione, che assimila il pianificatore/organizzatore agli dèi e la pratica alla ripetizione della cosmogonia (ineluttabile). Ecco che, allora, lo spazio omogeneo, geometrico non è il caos, come si sarebbe potuto intendere, ma è già cosmo per via dell'azione sacra della sua organizzazione. Lo spazio è per lui costruito entro "una sottile opposizione tra il territorio abitato dalle società e lo spazio circostante sconosciuto e indeterminato: il primo è il 'Mondo', il Cosmo; il resto una specie di 'altro mondo' (...) Questa frattura nello spazio sembra la conseguenza dell'opposizione fra un territorio abitato e organizzato, quindi 'cosmizzato', e lo spazio sconosciuto estendentesi oltre le sue frontiere: da una parte il 'Cosmo', dall'altra il 'Caos'. (...) Un territorio sconosciuto, straniero, non abitato fa parte della modalità fluida, embrionale del 'Caos'. Occupandolo, ma soprattutto installandovisi, l'uomo lo trasforma simbolicamente in Cosmo, attraverso una ripetizione rituale della cosmogonia. Ciò che deve diventare il 'nostro mondo' deve essere innanzitutto 'creato' e ogni creazione ha il suo modello esemplare nella creazione dell'universo per opera degli dèi. (...) Organizzando uno spazio si ripete l'opera degli dèi [e] stabilirsi su un territorio equivale in ultima analisi a consacrarlo. (...) 'Stabilirsi' in un determinato luogo, organizzarlo, abitarlo, sono altrettante azioni che presuppongono una scelta esistenziale: la scelta dell'Universo che si è pronti a fare nostro 'creandolo' " (ibidem).

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stabilisce una circolarità tra politica e piano che prospetta la pianificazione non solo come attività di natura politica, perché affida le sue decisioni alla razionalità e alla discrezionalità politica, ma, in modo più impegnativo, come un’attività che ha soprattutto una finalità politica: il (ri)disegno della cittadinanza che salda in un unico processo strategie di controllo sociale e spaziale. Se l’ordinamento spaziale è funzionale al controllo sociale, le decisioni di pianificazione contribuiscono alla (ri)definizione delle forme di cittadinanza o, più precisamente, il (ri)disegno della cittadinanza è, consapevolmente o inconsapevolmente, la vera finalità del piano, mentre gli obiettivi funzionali, economici o estetici, normalmente ritenuti gli obiettivi del piano e come tali perseguiti, sono in realtà risorse per perseguire la finalità politica di ridisegno della cittadinanza (...) la griglia è una forma tecnica aperta a rappresentare la proiezione spaziale di strategie politiche diverse, che perseguono diversi obiettivi politici, estetici, economici, e morali. La griglia può rispondere, e in generale risponde, a criteri funzionali ed estetici, ma rimane aperta alle declinazioni suggerite da diverse, anche contraddittorie, strategie politiche e spaziali e quindi a più di una rappresentazione e determinazione spaziale del controllo sociale. La griglia ha una doppia apertura, politica e fisica, e proprio ad essa è possibile attribuire la sua autonomia e flessibilità tecnica, un’autonomia che non esclude la griglia dalla subordinazione alla politica, anzi la rende più disponibile ad essa. Anche se può essere considerata la proiezione spaziale di un principio isonomico, la griglia non esprime un definito progetto politico di ordinamento spaziale, e può sopportare forme diverse e articolate di cittadinanza. La determinazione politica può essere conferita alla griglia solo dalle distinzioni tra inclusione ed esclusione espresse da un progetto costituzionale. In secondo luogo la griglia non è sufficiente a definire le forme dello spazio fisico, è una forma bidimensionale aperta a più articolazioni nella terza dimensione" (MAZZA 2008).

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Il punto Provando a mettere a sistema le prospettive che abbiamo indicato nell'uso del piano orizzontale applicato alle quattro sezioni territoriali ci pare possibile individuare alcuni tratti di interpretazione dello spazio e del tempo della crisi che diventano altrettanti strumenti di riflessione sulla pratica progettuale. * Condizioni. La doppia natura delle condizioni del progetto (umana e naturale, cfr. infra p. 193) si acuisce nella sua differenza e, mentre si poteva serenamente affermare, nell'84, che le condizioni riguardavano "problemi, metodi, intenzioni" del progetto (SECCHI 1984), oggi è piuttosto evidente come le condizioni che premono sono quelle spaziali e temporali. A fronte di una penuria economica e mancanza di risorse per la gestione, la cura, la messa in sicurezza, diventa centrale la questione spaziale, il "dove" sono le cose, sotto quali agenti atmosferici, come sono collegate, a chi pertengono. E quella temporale, che abbiamo visto riguardare non tanto e non solo lo scorrere materiale del tempo quanto piuttosto la capacità di significazione degli oggetti e dei luoghi. * Diversità. I territori sono sempre più diversi tra loro e, al loro interno, sempre più complessi. Può sembrare banale, tuttavia questo richiama necessità di intervento molto diverse: non si può più parlare di "strada", non si può più negoziare semplicemente una "infrastruttura" (il binomio infrastruttura-sviluppo non tiene più), non si può più progettare una "vallata". E' necessario avere contemporaneamente una visione "a grana grossa" e "a grana fine". In quest'ordine. Poichè una visione generale di futuro è ciò che si fatica a costruire, più che in passato. Se il tema è perfino abusato dagli anni '90, è tuttavia attuale. La domanda "cos'è Biella domani?" è la domanda cui non siamo in grado di rispondere se non lavorando su piccoli progetti, piccole azioni, piccoli aggiustamenti. Eppure una visione allargata, di grande respiro è ciò che permetterebbe di tenere insieme un puntinismo urbano dilagante (cfr. nota 21 p. 186). * Fenomeni. La complessità intrinseca è caratterizzata da un florilegio di fenomeni molto diversi e solo parzialmente complementari. L'invecchiamento; il desiderio di "urbanità", lo spazio vissuto in forme più estensive, la "presa in cura", la ridefinizione delle centralità, le effervescenze sociali, le vivacità minori, l'intraprendenza dei singoli e dei gruppi. Il progetto nella crisi è costretto a tener conto di questi fenomeni e, se non si accontenta di descriverli, è necessario che li assuma come materiale per il progetto e idea di futuro.

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Rispondere a Biella Il lavoro che qui si conclude non ha l'ambizione di disegnare "un progetto per Biella" (impegno che sarebbe da assumere, peraltro, sia in termini accademici che in termini amministrativi e politic). Ci pare tuttavia di poter affermare alcune ipotesi di lavoro. Biella vive oggi una serie importante di vexatae quaestiones (d'altra parte è perfino à la page, nella contemporaneità, crogiolarsi in dibattiti frusti che non giungono mai a soluzione, sicché Biella è, in questo, contemporanea più che in altro). Il lavoro che abbiamo condotto le ha messe in luce, si è variamente espresso, ha puntualizzato e richiamato. Tuttavia, giacché i lavori accademici hanno il limite di non esser letti se non dagli specialisti, proviamo a richiamare qui alcuni di quei temi, non per raccogliere commenti dell'ennesimo opinionista ma per provare a mostrare come gli esiti della ricerca sono talvolta anche di ordine pratico e in grado di fornire strumenti di lavoro. * Il centro storico e le nuove centralità. Non abbiamo trattato la città di Biella in modo specifico, ed è stata una scelta. Ci premeva considerare "il territorio", studiare "il distretto". Ragionare sulla città avrebbe comportato un miope accanimento intellettuale. Tuttavia le questioni che riguardano la città sono di ordine più ampio del puro confine amministrativo. Cosa ne sarà dell'ospedale vecchio e cosa ne sarà del centro storico a fronte della fondazione delle due nuove centralità a sud del centro? * viabilità in crisi. Le strade non funzionano, qua e là è necessario chiuderle per carenza di fondi, la manutenzione non è più possibile, la forza di attrazione esercitata dalla strada non è più sufficiente a garantire lo sviluppo. Siamo giunti alla fine? * grandi infrastrutture: il peduncolo. Dibattuto per decenni e forse ora in procinto di costruzione ha generato, in un'inerzia esasperata, attese, negoziazioni, localizzazioni, dispersioni, lotte. Ma ci si chiede, oggi, se serva davvero. * invecchiamento. La "piramide sociale" della provincia ha assunto una forma piuttosto schiacciata verso l'alto, con una preoccupante riduzione delle nascite e un radicale spostamento dell'età media verso l'alto. Che ne è di Biella, un paese per vecchi? * abbandono. Da Biella si scappa. I giovani se ne vanno, i grandi sono senza lavoro: chi può va via. E chi non può, almeno, lascia le valli e si trasferisce nei centri, spopolando le montagne e tradendo la cultura locale. Nessun futuro? I temi della lamentatio biellese sono questi ed è evidente che un lavoro su Biella che non se ne occupi, oggi, è un lavoro

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con poca capacità di comprensione del reale: per quanto la riflessione teorica e progettuale sul biellese offra strumenti di indagine e di studio, ci si aspetta delle risposte. Quello che abbiamo analizzato e provato a raccontare e descrivere mette in luce tre nozioni che ribaltano le questioni: * sviluppo senza crescita. L'abitudine a immaginare che il benessere e l'alta qualità di vita si accompagnino a una crescita in termini di scala (della produzione, del costruito, della società) è tema non più applicabile a Biella. Paiono interessanti, in quest'ottica, politiche di città svizzere, austriache o tedesche che, ridotte di scala, dopo aver perso edifici, capannoni, fabbriche ma anche persone, giovani, speranze hanno ricominciato a implementare la qualità della vita. la riduzione di scala non è, insomma, sinonimo di accrescimento della povertà (cfr. CALAFATI 2010). Si tratta di ricostruire connessioni, re-inventare gli spazi già abitati, ripensare lo spazio pubblico, disegnare nuovi punti di incontro, densificare l'esistente in termini di signifcati e valori, in modo che una coerenza più ampia dell'insieme generi un discorso di maggiore completezza. Pare evidente che l'ospedale vecchio non sia una priorità: una città che si restringe ha bisogno prima di tutto di rendere più abitabile il suo centro, le sue perfierie, i suoi spazi già abitati. In una visione d'insieme, l'ex-ospedale rientrerà a pieno titolo nella città come luogo urbano, non asettico. Non è questione di destinazione d'uso, insomma,ma di pratiche dell'abitare. * effervescenze e nuovi attori. Ovunque la crisi ha ridotto, eliminato, falciato vi sono effervescenze, pratiche sociali, vivacità minori che rispondono. Il ripensamento di Biella parte anche dalla riconsiderazione di questo modo di farsi, della società, non convenzionale. Suscitano stima quelle amministrazioni che negli ultimi anni hanno dichiarato la necessità di costruire relazioni riconosciute con enti, associazioni, gruppi. Un principio di sussidiarietà a tutti i livelli pare talvolta una chiave di ricomposizione di un sistema del welfare che è in panne. Si tratta evidentemente di bricolage di azioni, di giochi combinatori, eppure di qui passa la garanzia dell'assistenza sociale, della presa in cura del territorio, della manutenzione delle strade, della vivacità sociale e talvolta produttiva. * un distretto per l'anziano. L'invecchiamento è un fenomeno diffuso e non lo è solo a Biella. Si ragiona, tuttavia, su logiche generalmente piuttosto "private", rispetto all'invecchiamento. Si costruiscono case di riposo, si gestiscono badanti e forme di assistenza intimista o casalinga, quasi mai condivisa, si portano gli anziani lontano, spesso più vicino ai figli. L'invecchiamento e l'abbandono sono due fenomeni che si

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accompagnano:se una società è vecchia non dà più risposte ai giovani, nè strumenti nè valori nè stimoli. eppure non si riesce ancora a ragionare, come alcuni esempi nelle Fiandre o nel mondo anglosassone (soprattutto inglese) sulla capacità del territorio di funzionare con gli anziani e grazie agli anziani. Un territorio che diventa esso stesso risposta a un modello di vita radicalmente cambiato è un territorio su misura dell'anziano, in cui non si è obbligati ad andare in case di riposo. E' anche un territorio che genera sviluppo, poiché é necessario ripensare alla prossimità, ai servizi di vicinato, a economie locali molto avanzate. Genera ricerca, perché costruire un intero territorio di questo genere richiede competenze, capacità, creatività. Genera attrazione, perché ciò che diventa determinante è l'alta qualità di vita, che Biella sa offrire. * una visione di città. Biella è per gli economisti un caso unico ( su questo cfr. l'opinione di alcuni "economisti applicati" come Antonio Calafati o le narrazioni di Aldo Bonomi): dopo la straordinaria crescita iniziale, Biella è subito entrata in crisi. Salvo alcuni imprenditori illuminati, a Biellanon si sono letti i cambiamenti epocali mondiali degli anni '70, le necessità di delocalizzazione come quelle di rilocalizzazione, non si è capito il senso del globale/locale, non si è riusciti ad agganciare alcunché. Biella ha persistito nella sua produzione di lana di straordinaria qualità, senza riuscire a pensare ad altro. La necessità attuale è quella di "guardare oltre i confini". Confrontarsi con altre città, immaginare altre esperienze, costituire legami internazionali. In due parole, "immaginare Biella". Si vedrà prima di tutto una città che ha bisogno di funzionare meglio, di affermare la sua qualità e le sue relazioni. E poi una città che avrà bisogno di essere connessa. sarà necessario investire sui materiali urbani già costruiti, migliorare le condizioni. E solo dopo disegnare peduncoli e autostrade: talvolta ho chiesto a imprenditori, operai, amministratori, come ritenessero potesse cambiare l'esistenza l'arrivo dell'autostrada a Biella. All'unisono, la risposta è "non di molto". O è miopia o è avvedutezza.

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Questioni aperte e la pratica del domandare Questo lavoro ha tentato di leggere e riscrivere Biella secondo uno sguardo che si è voluto non banale nè scontato. Lettura e scrittura sono forme complemetari dell'unica categoria dell'interpretazione, che resta per noi la più squisita attività dell'esistenza umana. Si è detto che il progetto è interpretazione e che le sue forme sono proprio quelle della lettura e della scrittura: l'architettura è narratività, si direbbe altrove (RICOEUR 1996): siamo molto d'accordo. Questo lavoro, in sintesi ha provato a ricostruire nozioni disciplinari ponendole in tensione su delle situazioni. Il cluster, la strada-mercato, il parco, le centralità, i vuoti e i confini sono il luogo della ridiscussione disciplinare: non si dà più cluster "attrattivo" ma cluster come "parte della città", come "prossimità"; la strada-mercato smette di funzionare come tale e subisce una metamorfosi inversa nella direzione della strada-urbana integrata in un territorio; il "parco" diventa l'occasione di ripensamento di un territorio allargato in cui elementi antropici, dinamiche, pratiche sociali sono sullo stesso piano di biodiversità e fenomeni naturali; le centralità raccontano una domanda di futuro, per cui se giocate come luogo attrattivo diventano elementi polari che disegnano doppie città dense e leggere, mentre se restano isole di un arcipelago richiedono sforzi di puntinismo urbano in cerca di unità; vuoti e confini si trasformano in riflessioni su ciò che si perde e ciò che si tiene. Ancora. Rimettere in discussione nozioni e dispositivi interni alla disciplina permette di ripensare alle forme del progetto alla luce delle implicazioni spaziali della crisi. Il progetto territoriale che viene fortemente ridimensionato come progetto di cluster, impossibilitato di ragionare su "tutto" ma costretto a pianificare "l'intero" entro logiche di relazioni nuove e attori ormai ineludibili; il progetto di paesaggio che diventa progetto dell'interazione tra uomo e territorio, abbandonando il terzo paesaggio per dedicarsi alla concezione dinamica di riappropriazione spaziale; il progetto urbano che è obbligato a ripensare il senso delle centralità, dell'espansione, della crescita, tornando a riflettere su temi quasi alla Giovannoni di ridisegno della "fibra"; le condizioni stesse del progetto, che si ampliano notevolmente e sono costrette a radicalizzarsi in forme spaziali e temporali. Se questo è vero e se abbiamo proceduto secondo interpretazioni non capziose, si aprono, alla luce dei nostri studi, al-

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meno tre questioni: (1) Per via del cambiamento radicale del contesto e delle condizioni, l’architettura e l’urbanistica necessitano di una nuova riflessione intorno al loro specifico metodo della ricerca, ai confini del loro oggetto di studio, agli obiettivi e agli strumenti. (2) Il mondo contemporaneo sembra affacciarsi a quello che ho definito “un nuovo medioevo urbano” dove si abita il surplus (di libri, di pensieri, di eventi, di edifici, di persone... ma anche di dismissioni, di ruggine, di scarti, di spazzatura, di disuguaglianze…) pur non essendo in grado di attribuirgli completamente un significato. Questo “mondo eccessivo” costituisce una realtà onnipresente che richiede di essere studiata con profondità perché le crisi ne hanno cambiato completamente lo statuto e abbisognano di un pensiero Estetico (filosofico) e Progettuale di alto livello. (3) Le tendenze contemporanee (sociali, economiche, architettoniche, legislative…) hanno stravolto il significato di “benessere” (“well-being”) rispetto all’abitare, alla privacy, allo spazio pubblico. Si chiede al progetto di tenere in considerazione questo nuovo paradigma e, allo stesso tempo, di saper dialogare con il moltiplicarsi di effervescenze e pratiche sociali di appropriazione del territorio. Si potrebbe dire che le tre questioni sono inerenti in particolare a tre aspetti del pensiero architettonico e urbanistico: l’epistemologia, la semiologia, la teoria del progetto.25 È piuttosto pericoloso inoltrarsi in questi campi:

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Delle tre questioni, la più rilevante ci pare essere quella del “nuovo medioevo urbano”. Il discorso sulle rovine, sulle dismissioni e sugli abbandoni (ad ogni scala) è ovviamente iniziato molto prima di questi anni: se è vero che Ruskin pone delle basi ineludibili, è poi anche vero che il dibattito sulla dismissione è centrale (in Europa) a partire dagli anni ’80, quando spazi residuali e dismessi paiono occasione di ridisegno urbano, salvo poi rivelarsi eventi di una più complessa fenomenologia e non sempre in grado di fornire risposte, né alla città diffusa né ai centri storici. Non è tanto necessario mappare e restituire la dimensione del fenomeno: è piuttosto evidente come sia onnipresente un po’ ovunque: sono gli anni ’90 a raccontarlo e a impostare la questione secondo criteri di “messa in sicurezza”, di “contenimento del rischio”, di “rigenerazione” e “sostenibilità”. La genealogia delle interpretazioni del fenomeno, dal punto di vista progettuale, incorpora slittamenti dei termini come dismissione, abbandono, “dross”, “rust” e rigenerazione, riuso, riciclo, fino all’apoteosi degli anni 2000 del concepire la città come un intero da riciclare (con le conseguenti retoriche della decrescita e della sostenibilità a tutti i costi nel tentativo di riconnessione di economia e territorio). La crisi ha messo fortemente in discussione questo approccio almeno da due punti di vista: (1) la penuria economica non consente più il recupero/riciclo/riuso di tutto ciò che è dismesso; (2) il fenomeno della dismissione è di dimensioni sempre più considerevoli ed è estremamente pervasivo, nella città diffusa come nei centri storici. Le città dell’occidente stanno, in sostanza, riducendo drasticamente la loro scala pur continuando a perseguire un ideale di sviluppo. Quel che emerge è che siamo di fronte a un momento di radicale stravolgimento del territorio e delle condizioni entro cui il progetto possa darsi. Dove non è più ammesso o possibile il riciclo, vi è talvolta un’intenzionalità di più o meno consapevole “misurata barbarie” che va sondata e compresa e può diventare materiale di progetto.

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è meglio esser cauti e ammettere che ciascuno di essi sia indipendente in termini di letteratura, storia, genealogia e che si può affrontare solo se saldamente costruiti e preparati. Nonostante mantengano ambiti propri disciplinari sono tuttavia aspetti ineludibili per un architetto, un urbanista o uno studioso cultore dei queste materie. Il progetto, da questo punto di vista, è uno strumento di estrema utilità (forse è anche l’unico, per noi) per azzardare qualche affermazione in questi campi senza arrischiarsi in ambiti non propri. Nell'ambito più proprio della pianificazione, queste tre questioni costituiscono la ridiscussione delle condizioni e delle forme del progetto. Pare stimolante accorgersi che la natura entro cui questa ridiscussione può avere luogo è, ancora, la rimessa in gioco di oggetti disciplinari in situazioni specifiche entro una concetto fondante e generativo. L'operazione che abbiamo compiuto, cioè, mostra una sorta di ritualità metodologica ripetibile: vi è uno sfondo teorico, che per noi era la metropoli orizzontale, vi sono dei dispositivi disciplinari (i cluster, la strada-mercato ecc.), delle situazioni reali (le nostre quattro sezioni territoriali). L'esito è stato la messa in questione di alcune forme progettuali. A ben vedere, davanti ai mutamenti delle condizioni e a una nuova, sovrabbondante complessità del territorio, una riflessione accurata circa le possibilità del progetto e l’interpretazione del presente per l’immaginazione del futuro è quel che ci è richiesto. Ma che cosa può fare, di meglio, la ricerca, se non riaffacciarsi a ciò che è già discusso, già dibattuto, saldo e confermato, e rimetterlo in discussione? Non è forse questo il compito più alto di chi pensa, quello di guardare, leggere, ascoltare, documentare, progettare ma, più di tutto, formulare le questioni che muovono l'operare?

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[Talete], mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una graziosa e intelligente servetta trace lo prese in giro, dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle gli stavano davanti, tra i piedi. La stessa ironia è riservata a chi passa il tempo a filosofare [...] provoca il riso non solo delle schiave di Tracia, ma anche del resto della gente, cadendo, per inesperienza, nei pozzi e in ogni difficoltà . - Platone, Teeteto, 174 a-174 c

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Bibliografia Tra i molti criteri di impostazione dell’apparato bibliografico, abbiamo scelto di dividere la bibliografia secondo le tre parti di cui questo lavoro è composto. Ci pare una scelta che aiuti a formare una visione unitaria della specificità di ogni parte e permetta approfondimenti specifici e confronti netti.

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Crediti Le immagini e i disegni presenti nel testo, salvo le indicazioni nel testo e seguenti, sono dell’autore. Abbiamo spesso utilizzato immagini (fotografie e disegni) di altri autori. Ci pare che adottare punti di vista diversi amplifichi, anzichè ridurre, la possibilità di comprensione del reale. Le immagini sono quasi tutte piuttosto desaturate. Non ce ne vogliano gli autori, non si tratta di mancanza di rispetto nei loro confronti quanto, piuttosto, di viziosi ragionamenti stilistici: non è un lavoro fotografico, il nostro. Sicché ci è parso intelligente (forse) adottare una chiave come quella della desaturazione per dichiarare questa sorta di libertà nei confronti dell’immagine: anche laddove si sono riprodotti scatti magnifici si è preferito mantenere una sobrietà cromatica finanche noiosa. Dove il singolo (effervescente, ricco, lucido) è ricompreso dal testo. La nostra breve esperienza ci ha condotti non raramente a pensare, infatti, che un piano riprodursi di singoli permetta al lettore di cogliere una certa unità e agli individui di meglio emergere come vivacità. Fotografie: © Manuele Cecconello: p. 71, 76, 106, 126 © Fulvio Bortolozzo: p. 125 © Fabrizio Lava: p. 54, 72, 90, 102, 106, 108, 112, 149 © Tommaso Rada, 4see: p. 98, 116, 120 Pietro Minoli: p. 148, 162, 163, 174, 175, 188, 189 (© Archivio Pietro Minoli, Fondazione Cassa di Risparmio di Biella) da Herdingham 2003: p. 141 Disegni: da Archivio Price, CCA: p. 131 da Banham et al. 1969: p. 146 da Viganò 2010: p. 137, 146, 169 Agim Enver KërÇuku: p. 20

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Ringraziamenti "cun mach ij grazie s’ampinis nèn la vèntre" proverbio biellese

"‫"אבקשׁה טֹוב לך‬

"chiederò per te il bene"

sal 122,9

Col beneplacito di certune ermeneutiche contemporanee, autore di questo lavoro dovrebbe essere il sottoscritto. La mia relatrice sarebbe lo sfondo entro cui io avrei esercitato la mia autorialità, il mio correlatore il confronto intellettuale di molti dei miei pensieri. Manco a dirlo, la faccenda è un po' più complessa di così, sicché certi passi si son scritti a Parigi bevendo Bordeaux o a Lausanne bevendo Gaillac; alcune citazioni puzzano di cene e notti insonni, altre sanno di verdure dell'orto e permacultura; qualcosa è venuto fuori da telefoni bollenti, qualcos'altro in efferati epistolari digitali. Insomma, niente di più e niente di meno che un precipitato. E' abbastanza facile riconoscersi: nelle parole, nei disegni, nelle note, nei libri citati. Grazie. Non vogliatemene, voi che venite dopo, ma più di tutti sono grato a Cristina Bianchetti, che mi ha seguito con passione indefessa, come mai avrei immaginato e ben oltre i doveri imposti dai riti accademici, mettendo da parte sonno, tempo e vacanze perchè credeva in me e in questo lavoro. E ci crede ancora. Grazie.

Angelo Sampieri Matteo Robiglio, Francesca Governa, Sergio Pace, Andrea Bocco. Luca Ortelli, Elena Cogato, Angioletta Voghera, Laura Cantarella. Alberto Geuna, Alberto Valz Gris, Laura Graziani, Martina Alterini, Felipe Quintero & Paula Mendez, Janet Hetman. Agim Enver KërÇuku, Ianira Vassallo, Giulia Setti, Giulia Sonetti, Dafne Regis, Giacomo Pettenati, Cristiana Mattioli. Andrea della CCIAA, Luca del CNA, l'ufficio r.u. bonprix, Emilio Sulis e Manuela Vinai, Stefano Zucchi, Gianni Sacchi. amici, stimolo e sostegno di sempre: Fabio, Dany, Luca, Giulia Marco, mamma, papà Paolo

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implicazioni spaziali della crisi e metamorfosi del progetto nel distretto di Biella


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