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www.thema.es ISSN 2384-8413

Rivista dei Beni Culturali Ecclesiastici

Settembre 2011-ISNN 2239-673X

THEMA

IL PAESAGGIO SACRALIZZATO le terre, i segni e i simboli

AstolfiBadinoFerri FumagalliGanisLonghiMarzoratiMavilioNovelliOmenetto PasiniPellitteriPiussiProiettiRadiceServadioZermani


CENTRO STUDI DI ARCHITETTURA E LITURGIA

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Università degli Studi “G. D’ANNUNZIO” DIPARTIMENTO DI ARCHITETTURA PESCARA

CENTRO STUDI DI ARCHITETTURA E LITURGIA

ARCHITETTURA

e LITURGIA

CORSO DI PERFERZIONAMENTO

Cultura e Progetto dello Spazio Sacro DIREZIONE: Prof. Arch. LUDOVICO MICARA - Prof. DON ANTONIO DE GRANDIS Coordinamento Scientifico Arch. Fernando Cipriani - Coordinamento Didattico Arch. Michele Giuliani


INDICE

EDITORIALE di Leonardo Servadio LETTURE 4 L'immensità Interiore: Il Monastero Di Bose Michele Badino

22 Tra ulivi e templi dorici La chiesa di San Gregorio ad Agrigento Giuseppe Pellitteri

6 Da Stonhenge a Vaals: la lezione di Van der Laan Tiziana Proietti

26 Un monastero urbano: risacralizzare la città Giancarlo Marzorati

10 Sacro naturale e sacro artificiale Stefano Mavilio

28 Tracce del sacro nel South England Le chiese salvate da “The Churches Conservation Trust” Michela Beatrice Ferri

12 Dove la croce regge il muro La cappella nel bosco a Varano dei Marchesi Paolo Zermani

32 “Il paesaggio sacralizzato” prima e dopo il terremoto in Friuli del 1976 Don Sandro Piussi - Daniela Omenetto

14 Landmarks: il sacro sta negli occhi di chi guarda? Flavia Radice

36 Il quartiere senza nome e la sua Eglise Maison Giorgio Ganis

16 Un viaggio alla Cappella di Ronchamp Jessica Astolfi

40 Paesaggio sacralizzato e militanza ecclesiale Andrea Longhi - Pietro Pasini

18 “Costruire chiese in Africa” Carlo Fumagalli

44 Trasformazioni e valorizzazione di un paesaggio alpino Francesco Novelli 48 Il segno e il disegno. Le chiese di Mario Botta

THEMAIDEA “L’Abruzzo è un grande produttore di silenzio…un silenzio arcaico, che ospita rumori animali, e fruscii vegetali, tutti sommessi, come assorbiti nella grande immagine del Luogo”. Giorgio Manganelli

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FOTO DI COPERTINA Chiesetta in Santo Stefano di Sessanio (AQ) _Photo Giuseppe Marcantonio

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La risacralizzazione del paesaggio, cura per la civiltà Leonardo Servadio

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ell'intrico delle strade, tra il lento procedere di veicoli dalla potenza inutile perché definitivamente ingabbiata nelle interminabili code che li aggruppano in disordinati convogli, mentre si cammina a fianco dei palazzoni che fan dimenticare la presenza del sole, ecco s'apre uno spiazzo e appare la facciata amica di una chiesa: ben riconoscibile perché rimanda a un'alterità vicina, che si sente immediatamente propria. Ci si può entrare e sentirsi accolti, a differenza dei palazzi che ostentano la l'altezzosa esclusività dell'intangibile proprietà altrui. Camminando per campi aperti, ove lo sguardo abbraccia il frutto del sapiente lavoro dell'uomo nelle file ordinate delle piantagioni e nella lineare distinzione cromatica tra le colture, ecco sorgere isolata un'edicola sulla cui parete l'immagine votiva rimanda alla preghiera, usata in un'epoca che pare remota e ora dimenticata. Rimanda al gesto semplice e ingenuo del contadino che, privo ancora delle strumentazioni meccaniche, sostava un poco dopo la fatica, pensando a orizzonti più vasti, agli sterminati campi dello spirito, al riposo che l'attendeva in un'altra vita. Salendo sentieri erti tra spuntoni di pietra e fitti tronchi oltre i quali occhieggiano vette innevate, quando si apprezza il peso e il brivido della solitudine a fronte di una natura maestosa ma anche potenzialmente minacciosa, nell'aria tesa e fresca dell'altura ecco apparire d'improvviso una croce tra le rocce: è l'ingresso di un eremo ora definitivamente chiuso. Ma un tempo era abitato da un silenzio desiderato, ricercato, operosamente coltivato, percorso da un impegno alla meditazione e alla spiritualità che si raffigurava in tanti piccoli segni ancora visibili: la disposizione degli oggetti, le pitture murali, la campana accanto alla soglia, gli antichi simboli della veglia. Sono occasioni in cui d'improvviso ci si trova di fronte a una dimensione “altra”, che non ci s'aspettava d'incontrare. THEMA I EDITORIALE I 2

Si prova una sorpresa piacevole perché subito ricollegabile a una consuetudine antica che ognuno sente ancora come intima e sua. Avviene allora la riscoperta del senso dello “essere” che trascende l'incedere dei giorni coi suoi impegni, occupazioni, preoccupazioni e affanni. E in questa riscoperta si manifesta la “sacralizzazione” del paesaggio. Sacrale non di per sé, ma perché reso tale da quel rapporto di intimità profondamente umana e di trascendenza insieme, che insieme si schiude e si suggella nell'animo della persona quando avviene l'incontro. È “sacrale” a prescindere da quella che potrebbe essere vista come ambiguità di un termine dall'ampio campo semantico: vigeva in epoca precristiana, è attivo per altre religioni e altri modi di intendere il mondo spirituale, per culture lontane. Ma in realtà forse neppure tanto lontane, ove ci si rivolga alla ricerca del bene, del vero, del buono che abitano l'animo di chiunque, e lo rendono anche suscettibile di ascoltare e recepire il messaggio cristiano, soprattutto ove questo si presenti in modo autentico e non eccessivamente ammantato di paludamenti. E comunque non è nel termine che risiede la specificità, né bastano una o tante parole, per corrette e precise che siano, per indirizzarsi sul cammino della salvezza, se la coscienza e il desiderio sono rivolte altrove. Le architetture e i luoghi non hanno in sé la capacità di sprigionare un senso di sacralità: ma la persona può riconoscerla, e inscriverla, trasmettendola. Ecco dunque che la “risacralizzazione” può essere, là ove si trovino da un lato la trasmissione (tradizione non tradita) di un messaggio, e dall'altro l'apertura all'ascolto di un cuore che, per quanto distratto dalle mode del momento, non dimentichi la profondità di quel che le supera e da esse prescinde. Nel tema della sacralizzazione o

Con tutta l'ambiguità che può comportare il termine, nella cultura contemporanea si sente la necessità di una nuova attenzione verso luoghi che sono testimonianza di spiritualità: luoghi che esistono, recano una memoria ma indicano anche una potenzialità. Questa si esplicita nel momento dell'incontro con chi li sa riconoscere per la loro carica evocativa.

risacralizzazione si incontrano l'espressione artistica e la capacità di comprenderla: si tratti di un'ariosa chiesa eretta in Africa dal lavoro manuale cooperativo di tanti con tecnologie elementari, o di una cappella “firmata” dalla collaborazione tra un genio dell'architettura come Le Corbusier e un sacerdote sensibile e colto come p. Couturier. In ogni caso ci troviamo di fronte a un modo di porsi dell'uomo nel paesaggio, rispettosamente educandolo dallo stato di natura allo stato di cultura non arbitrariamente intesa come gesto che desidera imporsi, ma attentamente vissuta come missione di testimonianza. Risulta al proposito particolarmente calzante la lettera ricevuta dal Monastero di Bose, che riferisce di un modo di abitare il paesaggio che rimanda alla fondazione della civiltà, in quanto azione congiunta, sociale, armonizzata tra tanti non in competizione tra loro ma in condivisione. Nei monasteri questa è da sempre la tradizione: in realtà in qualsiasi comunità cristiana dovrebbe esserlo; in realtà lo è in qualsiasi comunità che riesca a mantenere nel tempo la sua ragion d'essere. L'architettura e il luogo ove si pone, d'altro canto, hanno il pregio della stabilità che a volte i gruppi umani perdono: una pieve abbandonata continua a prospettare il senso del modo di vivere della comunità che a lungo vi si raccolse, anche se questa ora non c'è più. Però ne resta qualcosa, nel ricordo inciso nei muri: le pietre parlano. A volte gridano, quando sono testimoni di fatti sconvolgenti. Se ne può riscoprire la sacralità recuperando almeno un'immagine di quel modo di vivere desueto. E questo può avvenire ovunque. Non a caso in uno degli articoli che proponiamo si parla di un progetto per far nascere un nuovo monastero in un ambiente urbano: nello spazio che fu di una grossa acciaieria alle porte di Milano e che ora attende una nuova destinazione. È un luogo che è stato già a suo modo


È un luogo che è stato già a suo modo sacralizzato dal lavoro dei tanti che tra gli altiforni, le gru, le presse hanno passato anni di fatica, e può essere risacralizzato dalla scoperta di un nuovo modo di intendere la vita contemplativa nell'universo urbanizzato, percorso da un attivismo continuo ma ormai atomizzato dopo la perdita di quella grande avventura comunitaria che fu l'era industriale coi suoi corrispettivi ideologici. Anche a Torino la chiesa del Santo Volto che il vescovo, card. Severino Poletto, affidò al progetto di Mario Botta, è stata intesa proprio con questo scopo “risacralizzante” in un'area di un'ex periferia industriale. Senz'altro oggi molti sentono la necessità di valorizzare i luoghi che si riconoscono come patrimonio di valore identitario. In tale ambito, la prospettiva di risacralizzare brani di paesaggio, urbano o rurale, si associa alla scelta di conservare una cultura sulla quale in anni recenti s'è visto profilarsi il rischio dell'oblio, in questo nostro tempo in cui tanti si sono lasciati coinvolgere nelle tendenze dissacranti che i secolarismi, immanentismi, economicismi di varia estrazione hanno prodotto. L'auspicio, con questo numero di Thema.es, è di contribuire all'opera risacralizzante di cui ci sembra che l'epoca nostra abbia bisogno.

Monastero di Bose / photo © Bosephotoarchive

Chiesa del Santo Volto_Torino / photo Enrico Cano

THEMA I EDITORIALE I 3


L'immensità Interiore: Il Monastero Di Bose Una lettera da una Comunità in cammino Michele Badino

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aro Direttore,

rispondo alla Sua gentile richiesta di scrivere alcune riflessioni sul tema dello spazio sacralizzato in riferimento alla Comunità monastica di Bose. Mi limiterò a qualche appunto, quasi fosse un taccuino di viaggio, con alcune impressioni e considerazioni scaturite, sia da letture, sia dal vivere quotidianamente gli spazi del monastero. Svolgere il tema in modo più esaustivo richiederebbe ben altro spazio e competenze. Comincio il viaggio riportando un brano da una lettera di Romano Guardini: Avevo risalito il cammino da Varenna a Perledo, poi me n'ero allontanato e mi ero diretto verso un erto pendio coperto di grandi alberi, un castagneto. Che poteva mai essere quel luogo, per chi era abituato agli alberi e alle foreste della Germania? Certo non un bosco. Gli alberi distavano una ventina di passi gli uni dagli altri. I rami di un albero a mala pena toccavano quelli degli altri. Non c'era sottobosco. Il suolo era pulito e i tronchi si ergevano nella luce. Le loro fronde non formavano una copertura continua, l'ombra non dominava da nessuna parte. Ogni ramo restava libero, fino alle sue più sottili estremità, ogni foglia vicina alle altre conservava la propria forma e la propria identità (…) Il sole penetrava ovunque. C'era ombra, ma ciononostante tutto era pieno di luce. Non c'era nulla di quella misteriosa oscurità tipica delle foreste del Nord: un'ombra leggera, piena di sole, il sole dovunque, ma come smorzato da un velo di dolcezza (…) Doveva essere proprio così il Lucus degli antichi, il “bosco sacro” (1).

Vi è una sacralità del luogo che è un dato creazionale, insito nella chiamata all'esistenza e nella conferma della bontà di tale opera, poeticamente descritto all'inizio della Bibbia (cfr. Gen 1-31). È eloquente il dialogo tra Dio e Mosè nell'episodio del roveto ardente: “Disse Dio a Mosè: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!»” (Es 3,5).

THEMA I BADINO I 4

Accade così per ogni posto in cui sorge un luogo sacro, ma in particolare la fondazione di un monastero in un determinato luogo è nella tradizione spesso legata a un mandato divino, a una apparizione, a un exvoto, che rendono sacra quell'area. Nel caso del nostro monastero, forse tale dato può essere riferito a una presenza quasi millenaria di fede, narrata eloquentemente dalla pieve romanica di San Secondo. Al contempo, però, una presenza di fede può rendere un determinato luogo “altro”. Su di una collina, nei pressi di Biella, un gruppo di cristiani di diversa confessione ha occupato, da due anni, le poche casupole lasciate vuote dal piccolo nucleo di abitanti migrati in città. Sono case per modo di dire: il vento fischia tra le fessure e la nebbia che le avvolge sembra quasi dipanarle e portarsele via. Non c'è nemmeno la luce elettrica. C'è la fede paradossale di questi amici che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il cristianesimo di domani … Ho goduto di aver chiuso così “gli anni sessanta”, il decennio del Concilio … Ho avuto l'impressione (ma non è la prima volta) che il cristianesimo sia di nuovo sul punto in cui gli si aprono dinanzi tutte le possibilità … Là dove Dio non trova la fede, anche gli occhi degli uomini tra poco non vedranno più niente. Amen! (2).

Possiamo trascrivere quindi come prima nota sul nostro taccuino: 1. Il sacro, quindi anche i luoghi e lo spazio fisico e naturale, è insito nella chiamata all'esistenza, è insito nella creazione. Occorre però uno sguardo capace di coglierne le trame originali, magari non evidenti ma profonde ed eloquenti. Un secondo appunto di viaggio ci è dato da quella che potremmo chiamare “maieutica del luogo”: ovvero un sorta di ri-creazione che avviene attraverso l'opera antropica che interviene sulla natura e ne riplasma porzioni ridefinendone coordinate sia spaziali sia conoscitive.

Il monastero, sorto negli anni '60 del Novecento da una cascina abbandonata, si è dilatato in corti aperte che sono segno di accoglienza. Gli spazi, le pietre, le architetture esprimono uno stile di vita scandito dai rintocchi delle campane. Non solo un luogo, ma un tempo in cui lavoro e preghiera hanno il respiro della pace. Ringraziamo Michele Badino, monaco di Bose e architetto, che in questa lettera parla del "viaggio" nel luogo e nel tempo del monastero.

L'architettura fonda la sua ricerca più nobile sulla domanda di sacro delle comunità che va servendo (…) Dove questo lavorio dura secoli e occupa le migliori menti ed energie, il paesaggio si ripolarizza, ritrova una rete di punti di riferimento, non necessitati dagli eventi di un rapporto con il sacro incontrollabile e alieno, ma pianificati, integrati nel sistema dei segni dell'insediamento, parte non trascurabile del patrimonio che si trasmette nelle generazioni: nel paesaggio culturale il senso del sacro si fa senso della storia (3). 2. Ri-creazione, ovvero ridare alla creazione la bellezza. Cinquant'anni di lavoro dei fratelli e delle sorelle della Comunità monastica di Bose portano al risultato odierno: un borgo della Serra morenica che diviene monastero in cui in ogni angolo la ricerca, mai conclusa, è quella di ridare spazio alla bellezza, liberarla dalle superfetazioni di cui spesso noi umani intasiamo spazi e edifici. Il terzo passo è la fedeltà a un dato ricevuto, che si cerca di vivere, compiendo con umiltà e fedeltà il lavoro di conoscere un luogo, chi lo ha abitato, chi vi ha lavorato, sofferto e amato, è un esercizio che potremmo chiamare di “lettura del luogo”: “La lettura è lo spazio prodotto da quella pratica del luogo che costituisce un sistema di segni, cioè un racconto” (4).

Photo / Bose © Photoarchive


La collina della Serra morenica su cui si adagia il borgo di Bose ha una storia di preghiera. La chiesa romanica di San Secondo e le tante altre chiese romaniche della Serra ne sono memoria e testimoni. Essere fedeli a tale storia è un tratto della vita monastica, in cui ogni giorno si ricomincia, compiendo gli stessi gesti scanditi dal suono della campana che plasma al ritmo della preghiera lo scorrere del tempo. È un'immensità interiore a conferire il vero significato a certe espressioni riguardanti il mondo che si offre ai nostri occhi. Tale immensità nasce da un insieme di impressioni davvero indipendenti dalle informazioni del geografo (5). Lo spazio sacro per creazione è confermato sacro dal vivere il tempo come ringraziamento. Le pietre stesse che costruiscono gli edifici divengono testimoni eloquenti e narranti la fedeltà e la perseveranza. “Il sacro non si abita, (…) è lo spazio sacro stesso uno spazio di confine, di limen, una sorta di affaccio, dal quale per un attimo si intravvedono talvolta frammenti di un'altra dimensione e che non si può attraversare facilmente avanti e indietro” (6). 3. Contemplazione della creazione e preghiera divengono pietre che parlano, narrazione di una storia e di una presenza nella quale lavoro e preghiera divengono espressione quotidiana della vita del monastero e della sua edificazione e mutazione continua, che aprono una finestra sull'orizzonte (7). Più che le parole, la sosta all'interno della chiesa del monastero, o della cappellina degli inizi o anche solo nei cortili contemplando le montagne fa percepire come la pace, dimensione interiore, può essere trasmessa anche attraverso coordinate fisiche, da come gli spazi sono configurati e orientati a questa pace.

La quarta e ultima nota del nostro taccuino è la comunità. Ovvero come la vita comunitaria, con la quotidianità e il lavoro dei fratelli e delle sorelle, divenga luogo in cui lo spazio fisico, lo spazio umano si trasformano e plasmano vicendevolmente, diventano sacri. L'altro, il fratello e la sorella divengono il luogo in cui riconoscere una presenza, scoprirla, riscoprirla soprattutto quando non riesco più a coglierla. Lo spazio in cui la comunità vive diviene spazio in cui accogliere chi ci visita, e riconoscere in questa visita una Presenza, fare in modo che possa fermarsi, sostare e rinfrancarsi (8). La vita comunitaria è un cammino che è attesa, attesa di una trasfigurazione dell'umanità e del creato in cieli e terra nuovi descritti nel libro dell'Apocalisse. La configurazione fisica degli spazi architettonici del monastero di Bose cerca di esprimere tale attesa: tutto si articola intorno a cortili, memoria del chiostro e al contempo della corte delle cascine piemontesi. Ma tali corti mantengono un lato aperto, non sono chiuse in sé stesse, anche fisicamente, manca un lato: vivono un'incompiutezza. Anche il luogo attende. Il luogo è sacro se è capace di attesa, di Colui (il Santo) che porterà in pienezza il dono della bellezza e armonia smarrito nel giardino dell'Eden.

del profumo della pace che ogni essere umano ricerca. fr. Michele Badino monaco e architetto

NOTE (1) Romano Guardini, Lettere dal lago di Como, trad. di Giulietta Basso, Morcelliana, Brescia 1993. (2) Ernesto Balducci, Diario dell'esodo 1960/1970, Vallecchi, Firenze 1971, pp. 231-232. (3) Paolo Castelnovi, Il senso (del sacro) del paesaggio, relazione al convegno internazionale Paesaggio e sacralità (Sacra di S. Michele, Torino 13 settembre 2002). (4) Michel de Certeau, L'invenzione del quotidiano, trad. di Mario Baccianini, Lavoro, Roma 2010, p. 173. (5) Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, trad. di Ettore Catalano, Dedalo, Bari 2006, p. 207 (6) Paolo Castelnovi, op. cit. (7) Può essere interessante la lettura di Fernand Pouillon, Les Pierres sauvages (Seuil, Paris 2008), che in forma di romanzo narra la costruzione dell'abbazia di Thoronet. (8) Emblematica è l'ospitalità di Abramo ai messaggeri di Dio alle querce di Mamre, narrata nel libro della Genesi al capitolo 18.

4. Comunità e trasfigurazione, o meglio trasfigurazione della comunità. Nel salutarLa rivolgo a Lei e ai suoi lettori l'invito a venire nel nostro monastero, percorrerne gli spazi, sostare nei diversi luoghi, ascoltare il silenzio. Forse tale sosta potrà essere di aiuto a continuare o meglio approfondire queste poche note sul tema dello spazio sacro o magari anche solo a fermarsi per un'ora e sentire la nostalgia

Photo / Bose © Photoarchive

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Da Stonhenge a Vaals: la lezione di Van der Laan Tiziana Proietti

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in dai tempi più remoti l'uomo ha compreso l'importanza di riservare porzioni di spazio al culto ed al ritiro spirituale. Attraverso il semplice atto di delimitazione della natura egli ha plasmato le due condizioni fondamentali della sua esistenza – il tempo e lo spazio – dando vita a luoghi sacralizzati, dove le forme della natura si incontrano con le forme della cultura e della liturgia. Un esempio eminente è ancora oggi osservabile alcune miglia a nord di Salisbury in Inghilterra, dove si erge l'antico monumento di Stonehenge. Qui un insieme circolare di pietre megalitiche cinge uno spazio ricavato all'interno della vastità dello spazio naturale. Le relazioni di prossimità reciproca stabilite tra i vari elementi lapidei regolano il passaggio dallo spazio esterno allo spazio interno, il quale ultimo, seppur privo di una copertura, si trasforma in spazio architettonico. L'architetto olandese e monaco benedettino Dom Hans van der Laan (1904-1991) si riferisce proprio a Stonehenge per l'esemplificazione dei principi fondamentali del costruire introdotti nel suo trattato Architectonische Ruimte (1977). Egli definisce il monumento come una sintesi perfetta ed elementare dell'habitat umano e del “fare architettura”. Secondo Van der Laan, in Stonehenge sono presenti tutti gli stadi dell'abitare umano, definiti da lui stesso: cella, cortile e dominio. Lo spazio centrale, cinto da cinque triliti lapidei, rappresenta la cella, definita da Van der Laan per estensione e morfologia lo spazio dedicato all'operare e dunque al rito e al raccoglimento. L'anello circostante delimitato dai trenta megaliti costituisce il cortile, spazio morfologicamente atto ad accompagnare il fruitore ad un'esperienza motoria. Infine lo spazio esterno il cui confine è segnato da un fossato circolare rappresenta il dominio, porzione di spazio all'interno del quale l'uomo definisce un limite visivo rispetto THEMA I PROIETTI I 6

all'illimitato spazio naturale. Secondo Van der Laan, le modalità di fruizione, interazione e celebrazione dello spazio si fondono con le masse architettoniche e i vuoti che le intervallano, contribuendo alla messa in forma dello spazio esperienziale dell'uomo. Lo spazio sacralizzato nasce proprio da questa fusione osservabile nel monumento di Stonehenge e mirabilmente sintetizzata da Van der Laan con le tre famiglie di forme – naturali, culturali, liturgiche (1) – attraverso le quali una porzione di spazio naturale si eleva e nobilita a spazio architettonico. Per l'architetto e teorico olandese, Stonehenge può essere considerato presagire la nascita dell'impianto basilicale cristiano, il cui carattere domestico domina la sua evoluzione morfologica, tipologica e simbolica. Esso, a differenza dell'architettura classica greca, non è una rappresentazione fittizia della società costruita dall'uomo. La sua arcaicità pone piuttosto le basi per un'architettura reale, dove l'uomo e il suo modo di partecipare alla vita collettiva sociale e religiosa e di rispondere alla sua condizione di appartenenza al mondo naturale, di cui egli stesso è prodotto, sono il punto di partenza e arrivo (2). La teoria di Van der Laan, così come le sue poche ma significative opere architettoniche, muove proprio dalla volontà di accedere a quei paradigmi elementari ed irrinunciabili del fare architettonico espressi in modo efficace nel monumento di Stonehenge. Ma quali sono le caratteristiche dello spazio sacralizzato nella contemporaneità e come queste possono ancora oggi contribuire alla nobilitazione dell'abitare umano? Van der Laan offre possibili risposte ed esempi efficaci da cui muovere nuovi passi per questo tipo di riflessione. In accordo con la teoria di Van der Laan, l'essere umano è dotato di un intelletto limitato attraverso il quale non può accedere

L'Abbazia di San Benedetto, lo spazio architettonico e la sacralizzazione dello spazio naturale. Il monaco e architetto olandese ha teorizzato il modo in cui le scansioni e i ritmi indotti nell'ambiente dalla presenza umana sono volti a favorire una relazione di carattere “cosmico” che si traduce in un'occasione per intuire al di là del pensabile. A differenza del concetto di chiusura che va con l'idea di tempio, il rapporto tra monastero e natura circostante sfocia in una porzione di spazio sacralizzato.

all'illimitatezza e immensità che caratterizza lo spazio naturale. Egli non può comprendere la natura nella sua infinitezza ma può produrre forme che rendano intelligibile alla sua mente la natura che lo circonda. Attraverso il posizionamento di muri paralleli, essi stessi dotati di una forma chiaramente definita nelle proporzioni ed in rapporto reciproco fra loro, l'uomo conferisce una forma allo spazio naturale dando vita allo spazio architettonico. Quest'ultimo, secondo Van der Laan non inizia al di sotto di un luogo coperto, come sostiene Laugier, ma dall'atto di delimitazione dello spazio naturale. Lo spazio architettonico non è difatti un semplice vuoto. Esso completa e sacralizza lo spazio naturale per mezzo del semplice atto del costruire, attraverso il quale l'uomo realizza un elemento intermedio, tra egli stesso e la natura, in grado di rispondere non solo alle sue esigenze fisiche di riparo dalle ostilità dell'ambiente, ma soprattutto di appagare i suoi bisogni intellettuali e spirituali. L'uomo, grazie allo spazio architettonico, abita lo spazio naturale sacralizzandolo e rendendolo rispondente alla sua complessa condizione esistenziale di essere razionale e spirituale. Come esposto da Van der Laan: «L'edificio della chiesa è (…) uno spazio in cui stare, muoversi e parlare, una dimora nel senso più ampio del termine – lo spazio di cui abbiamo bisogno al fine di inserire la nostra esistenza nello spazio naturale» (3). Pertanto, lo spazio sacro non è meramente quello contraddistinto dalla presenza di una comunità e coscienza religiosa, ma è quello spazio che, ricavando una porzione nell'immensità dello spazio naturale, riesce a modellare quest'ultimo producendo un perfetto connubio tra la limitata esistenza umana e l'infinitezza della natura. Natura e artificio si incontrano in uno spazio intelligibile e carico di attitudini percettive in grado di stimolare l'uomo al suo sviluppo culturale, sociale e spirituale.


L'abbazia di San Benedetto a Vaals (19561986) è oggi riconosciuta come l'opera più importante di Van der Laan, nonché l ' a r c h i t e t t u ra - m a n i f e s t o d e i p r i n c i p i architettonici e degli insegnamenti raccolti dal maestro olandese nei suoi scritti. Van der Laan riconobbe nell'architettura l'atto più importante di completamento dello spazio naturale da parte dell'uomo. L'abbazia di Vaals esprime in modo mirabile proprio questa azione di completamento. Essa sovrasta imponente una lieve vallata della cittadina di Vaals, non molto lontana dalla città Maastricht, situata sul confine olandese stretto tra il Belgio e la Germania. L'intervento di Van der Laan è l'integrazione di un preesistente impianto monastico progettato da Dominikus Böhm e Martin Weber nel 1923 e rimasto incompleto per molti anni a causa della seconda guerra mondiale. Nel 1955 la chiesa non era ancora stata realizzata e l'anno successivo Van der Laan fu chiamato per il completamento del complesso. L'impianto della preesistente abbazia, organizzato su di uno spazio a corte centrale, viene affiancato nel progetto di Van der Laan da un nuovo chiostro posto in asse a quello esistente e da due corpi longitudinali, adiacenti la nuova corte, i quali ospitano la chiesa, la cripta, la sacrestia e la biblioteca. Nell'abbazia di San Benedetto l'atto di delimitazione dello spazio naturale e la sua sacralizzazione si compiono su differenti livelli. Come in Stonehenge, l'impianto monastico si propone come una perfetta sintesi delle modalità dell'uomo di abitare lo spazio. Infatti la disposizione degli ambienti è ordinatamente suddivisa in una zona dedicata all'osservazione e contemplazione dello spazio naturale e all'atto del camminare (dormitorio dei monaci, galleria prospiciente il bosco, chiostro), una zona centrale dedicata al lavoro, al ristoro e alle attività culturali dove si tende a

stare ed operare (biblioteca, sacrestia, laboratori, refettorio), e una zona riservata alla preghiera e alla meditazione (chiesa, atrio). Lo spazio esterno è infine cinto da un doppio filare alberato che, nella teoria di Van der Laan, costituisce un “dominio”. Queste zone, o modalità dell'abitare, sono chiaramente distinguibili nell'impianto dell'abbazia nonché esperibili in occasione di una visita. L'ordinata disposizione e articolazione delle masse architettoniche e dei vuoti che le intervallano è l'ingrediente fondamentale per l'attivazione di un rapporto equilibrato tra le differenti zone e fra queste e lo spazio naturale che nell'insieme le accoglie. Il risultato è un principio di spazio urbano. I rapporti proporzionali tra le masse architettoniche sono, in accordo con la teoria del numero plastico messa a punto da Van der Laan, il principio motore per l'attivazione di queste relazioni tra spazio naturale e spazio esperienziale dell'uomo. Essendo l'architettura un atto di delimitazione dello spazio naturale, lo spessore delle masse delimitanti non può che essere il dato di partenza del processo costruttivo e della definizione dei vari rapporti di prossimità reciproca tra le pareti e, conseguentemente, degli ambienti che esse ospitano. Van der Laan assegna un valore di intelligibilità alle forme architettoniche e decide di afferire ad una gamma limitata di gruppi di grandezza al fine di accompagnare le limitate attitudini percettive dell'occhio umano alla comprensione dello spazio che esperisce. Pertanto parametri come la regolarità delle masse, la similarità di rapporti proporzionali ripetuti e i rapporti di prossimità spaziale concorrono tutti alla definizione di un ordine chiamato a relazionare fra loro le varie zone o spazi dell'abitare.

Hans van der Laan / planimetria e prospetti del monumento di Stonehenge, Maggio 1970, (Archivio Hans van der Laan OSB, Vaals).

Hans van der Laan / planimetria dell'Abbazia di San Benedetto a Vaals, (Archivio Hans van der Laan OSB, Vaals; legenda dell'autore).

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Hans van der Laan / assonometria dell'Abbazia di San Benedetto a Vaals, Maggio 1970. (Archivio Hans van der Laan OSB, Vaals).

Affianco a questo primo contatto tra spazio naturale e spazio esperenziale dell'uomo, attivato dalla interposizione di un elemento intermedio di dialogo tra i due spazi (lo spazio architettonico), si costruisce un secondo livello che mette in relazione le forme materiali visibili e le “forme della cultura” (4). Qui ogni essere umano interagisce con gli altri uomini all'interno di uno spazio, scandito dalle masse architettoniche, e di un tempo, scandito dal suono. Anche questo incontro acquista una forma ben precisa nell'abbazia di Vaals. Guardando alla chiesa di San Benedetto si osserva come la disposizione dell'arredamento, e dunque la sistemazione dei fedeli e dei monaci durante le cerimonie liturgiche, concorra in modo evidente e mirabile allo scopo. L'intero spazio è dominato dal posizionamento dell'altare, elevato su di un basamento in pietra, attorno al quale si dispongono, sui due lati le sedute per i monaci, alle spalle quelle per l'abate e il priore, e frontalmente quelle per i fedeli. Il principio di delimitazione dello spazio architettonico si replica nella disposizione dei partecipanti alla messa che come pilastri si dispongono ordinatamente attorno a quello che acquista così la veste di spazio sacro. Interessante notare che le proporzioni dello spazio riservato all'altare in pianta sono le medesime dello spazio analogo costruito al livello della cripta. Le aree limitrofe lo spazio centrale ospitante l'altare, così come le superfici delle navate laterali e della zona posteriore alle s e d u te r i p o r t a n o p ro p o r z i o n i e s a tt e producendo una ripetizioni di forme elementari simili. La disposizione delle masse architettoniche gestisce pertanto non solo il rapporto tra interno ed esterno ma anche tra uomo e uomo, tra spirito e spirito. Infine i gesti, le posizioni, i modi di disporsi e orientarsi, e tutta la dinamica della cerimonia liturgica si fondono con i due parametri di tempo e spazio. THEMA I PROIETTI I 8

Essi, avendo una durata determinata non sono difatti legati esclusivamente allo spazio fisico che li accoglie, ma anche al tempo. Così l'interasse di una campata o lo spazio che separa il mobilio liturgico non è interessato esclusivamente dal suo dato dimensionale ma anche dal tempo di percorrenza che contribuisce così ai gesti che definiscono il rito. Secondo Van der Laan le forme della liturgia si articolano a loro volta nelle forme degli oggetti, dei gesti e delle parole. Le immagini visibili mutano così in segni, gli oggetti in simboli, i movimenti in gesti, e la musica in parole e canti (5). Nel suo testo Het vormenspel der liturgie Van der Laan si esprime come di seguito al riguardo: «Nella liturgia i mobili, lo spazio, l'altare hanno una finalità unica: quella di essere segno» (6). Le stesse vesti, disposte al di sopra dell'abbigliamento usuale, perdono la loro funzionalità divenendo segni legati al valore espressivo della forma. L'espressività è conferita agli oggetti, in accordo con la teoria di Van der Laan, per mezzo dell'essenzialità della forma. La funzionalità degli oggetti passa in secondo piano. Nell'abbazia di San Benedetto ogni oggetto liturgico e paramento sacro è disegnato da Van der Laan seguendo un principio di essenzialità volto ad esaltare le proprietà formali dell'oggetto a cui la proporzione fa da preludio imprescindibile. Per concludere, usando le parole dello stesso Van der Laan: «costruire case è una specie di fare al quadrato» e inizia con la formazione di «pareti non per le pareti in sé, ma per far nascere tra di esse degli spazi formati: un prodotto supremo del fare umano» (7). La forma è conferita allo spazio dalle forme materiali, trasformate in forme architettoniche dall'intelletto umano, dalle forme della cultura, grazie alle quali l'uomo e le sue attitudini spirituali ed intellettuali entrano in relazione con quelle degli altri uomini, e dalle forme della

Abbazia di San Benedetto / schema della disposizione e proporzione del mobilio attorno all'altare nell'aula liturgica (disegno dell'autore).

liturgia per mezzo delle quali le immagini divengono segni e i movimenti si caricano di significati superiori. L'abbazia di Vaals offre un esempio eminente di questo incontro auspicando nuovi avanzamenti e riflessioni sull'importanza dell'espressività dello spazio architettonico – atto di sacralizzazione dello spazio naturale – la cui forma deve ambire a trasformarsi in nutrimento per la mente e lo spirito dell'uomo.

NOTE (1) Van der Laan H., La forma. Natura, cultura e liturgia nella vita umana, (1985) Collana L'architettura e l'ideale, Milano, Sinai editore, 2000. (2) Van der Laan H., Lo spazio architettonico. Quindici lezioni sulla disposizione dell'habitat umano, (1977) Collana L'architettura e l'ideale, Milano, Sinai editore, 2002, lezione XV, pp. 259-260. (3) Van der Laan H., La forma. Natura, cultura e liturgia nella vita umana, cit., lezione IX, p. 92. (4) Le forme della cultura si articolano, secondo Van der Laan, in forme funzionali (finalità corporee), forme espressive (finalità intellettuale), e forme monumentali (segni che servono alla comunicazione fra uomini). Ivi, lezione IV, p. 40. (5) Le forme liturgiche rappresentano una forma sintetica del complesso delle forme culturali in grado di presentare all'uomo il sistema di forme naturali in maniera intelligibile alla sua mente: «La liturgia è tutta segno». Ivi, lezione IV, p. 47. (6) Ivi, lezione IX, p. 92. (7)Hans van der Laan, Il quadro liturgico dell'abbazia di Vaals. Un'autobiografia, 1988, in Ferlenga A., Verde P., Dom Hans Van der Laan. Le opere e gli scritti, Milano, Electa-Mondadori, 2000, p. 43.


Abbazia di San Benedetto / vista dell'ingresso principale con campanile e preesistenza sullo sfondo (foto dell'autore).

Abbazia di San Benedetto / vista della nuova foresteria e del campanile sullo sfondo della preesistenza (foto dell'autore).

Abbazia di San Benedetto / vista generale dell'impianto monastico e suo rapporto con il contesto paesaggistico (Archivio Hans van der Laan OSB, Vaals).

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Sacro naturale e sacro artificiale Stefano Mavilio

Girare intorno al fenomeno religioso per mezzo della fisiologia, la psicologia, la sociologia, l'economia, la linguistica, l'arte, eccetera, significa tradirlo e lasciarsi sfuggire appunto il "quid" unico e irriducibile che contiene: il suo carattere sacro. La sola cosa che si possa validamente affermare intorno al sacro in generale, è contenuta nella definizione stessa della parola: sacro è quel che si oppone al profano. (Eliade M., Trattato di storia delle religioni, 1948) 0.Premessa Prendete questo testo come l'indice di qualcosa di più ampio che non scriverò mai. Molti infatti hanno già scritto a proposito del rapporto tra sacralità dell'ambiente naturale e sacralità dell'ambiente costruito (del paesaggio <sacralizzato>), a sua volta declinato in contesti assai diversi, quali quelli che la Redazione di Thema rammentava nel “call for paper” per questo numero della rivista (cito non senza aver apportato qualche modifica alla sequenza): chiese rupestri, cappelle montane, monasteri; tratturi abruzzesi, percorsi di pellegrinaggio e camminamenti (le cosiddette “vie sacre”) e tutta la pletora di costruzioni che lungo di essi si dispongono: eremi, monasteri, ostelli, priorati, badie, santuari, siano essi ruderi, che ancora in buone condizioni. Cambiando genere: le costruzioni megalitiche e i complessi ipogei; i sagrati e i campanili (con un grido di domanda senza risposta: si può risacralizzare oggi? E qual è il senso della riconoscibilità che essi propongono e producono?). E infine ma non ultimi nella tesi che vado a sostenere: i sacri segni; i sacri monti; la sacralità delle grotte e dei boschi (quello di Nemi innanzitutto, secondo THEMA I MAVILIO I 10

dice Frazer); il valore simbolico e sacro delle architetture antiche nel paesaggio. E qui mi fermo per non essere costretto a dare ragione della parola paesaggio, che come tutti sanno nulla ha a che fare con il territorio delle origini, quanto piuttosto come quello che ciascuno di noi ci vuole leggere e ci legge: il paesaggio del vino, quello del dissesto idrogeologico, e via dicendo. Né posso ancora ignorare che i termini sono mal formulati: non esiste antitesi fra sacro e costruito giacché il costruito non sempre è profano (e fino a una certa data fu sempre sacro); e che piuttosto che sacralità, intesa quale modalità di manifestazione del sacro stesso, meglio sarebbe parlare di sacro toutcourt. Riformulando il pensiero dunque posso ben dire: in che modo è declinabile la duplicità fra sacro e profano nel territorio, a sua volta - talvolta sacralizzato? E quali sono i reciproci rapporti fra il <naturalmente> sacro e il <volutamente> sacro? Provo quindi a fare ordine, non senza notare che ne emergerà un “quaternario”, già fin dalle richieste della redazione; polarizzandosi tale ordine sui seguenti valori a loro volta declinati in forma duale: sacro e profano - ambiente naturale e antropizzato, con tutte le diverse possibili permutazioni: del sacro in ambiente naturale e del sacro in ambiente antropizzato; parimenti per il profano. Segnalando fin d'ora la coppia di opposti sui quali mi piace soffermarmi: luoghi “dotati di naturale senso del sacro” vs. luoghi nei quali -di contro- il sacro deriva da un atto di volontà.

1.Il sacro delle origini Che esista un “sacro delle origini”, è fatto acclarato da tempo; più difficile, secondo rammenta Eliade, darne una definizione che sia plausibile al colto e all'incolto, al fesso e al

Il “sacro” come alcunché di primigenio immediatamente riconoscibile nel luogo naturale, o anche come la prosecuzione di questo nell'atto del costruire, di per sé implicante l'atto di sacralizzare o, quanto meno, di riconoscere la sacralità già naturalmente insita in un luogo. Il termine “sacro” rievoca la separazione nel mondo, ma anche l'incontro col cielo.

profano. Memore delle belle lezioni del prof. Pfeiffer alla Gregoriana, posso azzardare, citando, che è sacro ciò che è separato; nel senso del sipario che disloca cose vicine o contigue, parando innanzi a sé ciò che ivi si manifesta; già che il sacro può essere così vicino così lontano, come diceva quel famoso regista. E' il caso del sacro naturale, che allude, coinvolge, o semplicemente volge la mente altrove. E per sacro naturale intendo un sentimento generato parimenti da luogo e da un oggetto: un bosco, una foresta; un betilo, sia esso rinvenuto, come quello che Giacobbe usò per giaciglio, sia esso di origine meteorica; altri direbbe siderale, con tutte le implicazioni del termine. Nei pressi di Roma esiste un lago, il piccolo lago di Nemi, “circondato dai boschi, che gli antichi chiamavano <lo specchio di Diana>. Nel recinto del santuario di Nemi cresceva un albero da cui non era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva diritto di battersi col sacerdote e se l'uccideva, regnava in sua vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis.” (Il virgolettato è tratto da: Frazer J. G., Il ramo d'oro, Torino 2012). Sacerdozio e regalità dunque, anticamente, erano entrambi legati a un luogo sacro, il luogo sacro per eccellenza, la selva, che come ricorda altrove Frazer, ai tempi dei romani copriva buona parte del territorio conosciuto ed era giacché impenetrabile- separata per forza e quindi <sacra> per definizione. La madre Terra, Tellus Mater, era portatrice di una sua propria sacralità, che manifestandosi autonomamente (retoricamente, giacché nulla si manifesta che non si manifesti all'occhio di uno spettatore), sotto forma di ierofania, comunicava la potenza del sacro naturale. Sacre erano dunque le selve e gli alberi, in particolare certi alberi, considerati mediatori fra


il cielo e la terra, assi del mondo, successivamente tipizzati nella forma palo, totem, scala, ponte; sacre erano le acque, giacché ad immagine di quelle superne (ogni Eridano in terra, è immagine dell'Eridano celeste, con buona pace di certi recenti adoratori del Po); sacri i sassi (non tutti i sassi); secondo Eliade potevano essere megaliti funerari, pietre fecondatrici sulle quali scivolare, pietre forate, 'pietre del fulmine', meteoriti e betili, pietre sacre, "omphali", 'centri del mondo'. Talune, oltre che rinvenute, riallocate a significare secondo intenzione: come i megaliti di Stonehenge, che segnano da sempre il corso del sole ai solstizi e agli equinozi, senza curarsi di chi passa.

Samarra (Iraq) / Moschea / pianta e vista aerea

2.Il sacro che deriva da un atto di riconoscimento Avendo già citato il bel racconto di Giacobbe e i megaliti solari, eccomi a parlare, sempre brevemente, del “sacro che deriva da un atto di volontà”. Sacro per eccellenza è il recinto, giacché frutto dell'atto del tracciare (ogni tracciato è ierofania, epifania del sacro, di ciò che è separato). Cinte da mura erano le città antiche, cosmogoniche, certo per necessità, per difendersi dall'Altro (non sto a segnalare il fatto che l'altro, a sua volta, aveva in sé l'idea di sacro; ai nemici come agli amici, nell'Odissea, si recavano doni). Come allude il titolo del paragrafo, non è l'azione del recingere che consacra il luogo, quanto piuttosto il contrario: la sacralità del luogo precede l'atto del recingere e successivamente- del costruire, giacché recinto per eccellenza è quello che recinge il santuario. Per paradosso, lo spazio interno è ordinato, centrato, strutturato, a fronte dello spazio esterno che è caotico per definizione. “Come può dunque -si domanda Eliade- uno spazio qualunque trasformarsi in uno spazio sacro? Semplicemente perché una sacralità vi si manifesta.” Abbiamo così individuato due categorie: quella del sacro che si manifesta in un luogo separato per sua natura, qual è ad esempio la selva; e quella del sacro che pur manifestandosi da sé, richiede un ulteriore atto: il suo riconoscimento da parte della collettività. Per ulteriore paradosso, quello cintato è spazio “reale per eccellenza.” E parlando di architettura, è una lunga storia: dal mito di Didone, alle città di fondazione, ai castra, alle città murate, fortificate, fino ai recinti delle tangenziali, degli anelli, dei passanti, delle bretelle, il passo è breve; il percorso passa attraverso al mundus, al solco,

al pomerio, che ai riti di fondazione -non è questo il luogo per parlarne- sono intimamente connessi, insieme al recinto sacro, al temenos, ed al cerchio di fuoco, tutte espressioni della medesima idea. Quindi ancora tracce e ancora mura di città, bullwerk e boulevards, che segnano la storia delle città capitali all'alba del XIX secolo; e grandi e piccole muraglie; chiostri, giardini cintati, paradisi perduti e Gerusalemme celesti; presbiteri, scholae cantorum, amboni; iconostasi e jubé; peristilii, templi peripteri e peripatesi; quadrati magici, tappeti, forse mandala, certamente non labirinti. E infine soglie, limiti e confini (come cantava Battisti).

3.Conclusione forse troppo affrettata In definitiva: “uno spazio può essere consacrato da una ierofania ma l'uomo stesso può costruire lo spazio sacro, a condizione di celebrare determinati riti.” Il sacro <originario> risiede nella foresta; la foresta è la figura archetipica del sacro/separato. Come la foresta ha una temporalità e una spazialità separate dalla quotidianità, così il santuario, il recinto, che per esistere necessita dell'atto umano, instaura le stesse condizioni spazio temporali: qui si rende possibile una rottura di livello; qui il cielo e la terra si incontrano, perché qui il tempo e lo spazio delle origini sono stati ricreati. Il recinto pertanto è a sua volta foresta: separa un orizzonte; è quadrato per definizione, giacché ben fisso in terra (quattro nani secondo l'Edda reggono la volta del cielo ai quattro angoli della terra). Ad altri il piacere di elencare e commentare alcuni di questi spazi...

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Dove la croce regge il muro La cappella nel bosco a Varano dei Marchesi (Parma) Paolo Zemani

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l percorso a cielo aperto tra la casa di abitazione e il bosco, che si sviluppa per circa trecento metri, è il rivelatore della piccola opera. Il lungo lembo prospettico costituito dall'appendice del parco, compreso tra il rio a sinistra e il monte a destra, assume come punto di fuoco, in lontananza, il nuovo elemento simbolico costituito dal frammento di muro e dalla croce. Verso di essi l'abitante o l'ospite si incamminano. L'intervento è costituito da un setto murario di ml. 9 x 6 ,cui si appoggia una croce in ferro di altezza analoga, e da una seduta. In pianta: un punto e due linee. Il muro è costruito a margine del declivio che, immediatamente, si inerpica a quote sempre maggiori. La croce è impiantata dalla parte opposta, verso il rio della Moglia e la strada che sale al santuario di S. Lucia e al castello del IX° secolo. L'edificazione è così composta attraverso elementi diversi, accostati a esaltare il rapporto c o n l ' o s s e r va z i o n e d e l l a m o r fo l o g i a paesaggistica esistente: chi giunge dalla casa ,dal paese o da lontano, transita sotto la croce o vi sosta. L'evocazione dei due elementi simbolici, il muro e la croce, uniti dallo svolgersi di un percorso, assume carattere rituale. Il tipo architettonico è il percorso stesso, arricchito da frammenti. Ogni giorno il sole del mattino illumina la croce in modo diretto, proiettandone gradualmente l'ombra sul muro. Soltanto quando il sole è più alto,prima di scomparire dietro il monte,l'ombra della croce si dispone sulla terra per un breve intervallo di tempo. Dal punto di vista materico la costruzione è concepita attraverso una muratura faccia vista in mattoni di tipo antico rosa chiaro, secondo la tradizione costruttiva di quest'area collinare in

cui si rinvengono, da secoli,fornaci per la cottura dell'argilla. La croce è costituita da travi tipo HEA 120 mm. verniciate color ruggine, come l'acqua ferruginosa che scende dal rio della Moglia, alimentata da sorgenti ricche di ferro. La casa esistente e il suo contesto assumono così valenza di microcosmo aperto alla scoperta, attraverso la croce, della relazione con il rio e il monte, l'acqua e la terra. La realizzazione è del 2012. Di Paolo Zermani (Con Eugenio Tessoni.Collaboratore: Emanuele Ghisi)

Cappella nel bosco / Pianta

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Il progetto realizza un luogo di preghiera intimamente connesso alla realtà paesaggistica esistente nell'area storica collinare interessata dall'itinerario di pellegrinaggio della Strada Romea,ancora segnato dalla duecentesca meridiana in pietra incisa sulla parete dell'antico hospitale di Casa Faggi, sito poco lontano.


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Landmarks: il sacro sta negli occhi di chi guarda? Flavia Radice

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n richiamo ancestrale

«Il Vecchio Uomo Antico persiste in noi e il nostro stesso spirito è imbevuto dalle sue lunghe esperienze, delle sue interpretazioni.» (1) La montagna ha da sempre affascinato l'uomo di ogni epoca e cultura. La mitologia greca brulica di monti abitati da dei e ninfe, da centauri e muse. Da quando gli dei hanno trasferito la loro dimora nel cielo, le vette delle montagne sono diventate il luogo del passaggio, del possibile contatto con la trascendenza, fino a diventare immagine per eccellenza della ricerca di Dio. Gli edifici che sorgono in cima alle montagne o a l l e c o l l i n e c o n t i n u a n o a d a tt ra r r e irresistibilmente lo sguardo umano. Il paesaggio italiano, costellato di aspre catene montuose e dolci colline, offre qua e là al viaggiatore la sorpresa di una chiesa poggiata su una vetta, catturandone la vista. Questi luoghi rientrano probabilmente in quello che l'immaginario collettivo potrebbe intendere per 'paesaggio sacralizzato'. Tuttavia non solo le chiese occupano le vette dei monti. È ben noto quanto l'edilizia militare abbia nei secoli punteggiato la penisola di fortezze e castelli con la precisa funzione di difendere e controllare il territorio. Siamo certi che quelle appaiono come pie edicole non siano invece qualcosa d'altro? Landmarks Le vicende storiche hanno caricato alcuni edifici di stratificazioni semantiche che oltrepassano il campo religioso senza cancellarlo; interessi politici di rappresentanza e di controllo del territorio si fondono alla devozione e alla pietà popolare. Alcuni esempi possono rendere meglio l'idea di questo connubio. «Nido di rondini sperduto per l'aria appare la THEMA I RADICE I 14

Sacra a chi la contempla da Torino; nido di aquila appiccicato al sommo delle rupi la diresti da Alpignano; nido di assassini, fortezza, ricettacolo del Veglio della montagna la giudicai la prima volta che la vidi da Sant'Ambrogio; opera dei giganti, lavoro di titani si appalesa a chi l'ammira dalla base dei suoi muraglioni» (2). Questa suggestiva descrizione degli inizi del Novecento della Sacra di San Michele, notissima meraviglia medievale che si staglia nel cielo della Val di Susa, lascia intravedere la duplice valenza religiosa e militare del monumento. Edificato per onorare l'arcangelo capo delle milizie celesti, è rimasto nei secoli a presidio dell'imbocco della Valle. Non è solo l'altitudine (962 m s.l.m.) ma anche la conformazione della montagna a conferirgli quel suo aspetto 'orrido': al termine di una dorsale, è isolata dalle altre vette e con un dislivello sul fondo valle di 602 m (pendenza media di 92,6%). È poi visibile da grandi distanze, dalla collina di Superga al massiccio d'Ambin, per mancanza di ostacoli orografici. Chiesa o fortezza? A circa 35 km in linea d'aria dalla Sacra, la Reale Basilica di Superga custodisce Torino. Voluta da Vittorio Amedeo II per onorare il voto alla Vergine per la fine del pesante assedio sulla città (1706), è frutto di un'esplicita volontà celebrativa del sovrano. Costanza Roggero ha nel 2011 una felice espressione per indicarla: la «dimensione politica del monumento sacro» (3), comprovata anche dall'aggiunta alla chiesa del mausoleo reale e di un convento. L'architetto Filippo Juvarra «disegna una macchina prospettica pensata per essere vista da lontano» (4): il re desidera monumento che funga da riferimento visuale a chiunque si avvicini alla città capitale e che sia in diretta corrispondenza con il castello di Rivoli, culla della dinastia dei Savoia. «In questo senso la basilica si pone come sintesi e conclusione di un disegno a scala

Sin dall'antichità il luogo elevato diviene momento di mediazione con l'alterità, ed evoca il possibile contatto col cielo. La semplice collocazione di alcuni edifici si rende espressione di questo anelito, al di là delle ragioni per le quali sono stati eretti. Questi spesso riguardano la difesa del territorio. Tuttavia il loro senso, nel passato e oggi, continua a leggersi secondo un desiderio che è comune all'essere umano, anche quando non si ritiene vocato alla religione. I casi della Sacra di San Michele, della Basilica di Superga, del Santuario della Madonna di San Luca, del Santuario di Loreto

territoriale» (5). La visibilità sembra dunque una cifra importante per considerare questo tipo di edifici. «Visibile da molti chilometri di distanza, per chi arriva alla città dalla pianura o dalla valle del Reno […] la sua evidenza è assoluta, caratterizza ogni veduta panoramica della città: non si può non vederlo, tanto che spessissimo incuriosisce il viaggiatore e sempre, al bolognese che rientra, annuncia l'aria di casa» (6). Così Carlo Degli Esposti nel 1993 descrive il Santuario della Madonna di San Luca. Esso occupa il vertice del monte della Guardia (289 m s.l.m.), il più alto fra i colli bolognesi. Più volte rimaneggiato nei secoli, è realizzato fondamentalmente sotto la spinta del sentimento religioso della comunità bolognese, che si farà carico – nelle sue diverse corporazioni – della costruzione del portico monumentale. Tuttavia l'identificazione del popolo con il suo santuario va oltre la devozione per incarnare la sospirata autonomia di una città di confine dello Stato Pontificio: è significativo come venga decisa la ricostruzione della chiesa ad opera del Dotti nel momento di massima tensione con l'autorità romana. Diventa dunque difficile, anche in questo caso, discernere una volontà meramente politica da una propriamente religiosa. Infine la 'città-santuario' dello Stato della Chiesa: Loreto. Qui il motivo che genera l'edificio sacro è assai particolare: contenere la Santa Casa di Nazareth, che la leggenda vuole miracolosamente depositata sul crinale del monte Prodo. «Se la fede e la religiosità popolare sono all'origine dello sviluppo di Loreto nei secoli, il suo cantiere architettonico e artistico e l'immagine stessa della cittàsantuario sono specialmente il frutto del diretto interesse, della fede e dell'impegno tenace della più alta gerarchia ecclesiastica» (6). In queste poche righe di Arnaldo Bruschi ritorna il tema della devozione unita alla volontà


La Reale Basilica di Superga

politica del sovrano. In questo caso non si tratta di rappresentanza, ma di necessaria militarizzazione del territorio: dal 1480, infatti, con la battaglia di Otranto e la minaccia dei Turchi agli Stati italiani, le coste adriatiche sono insicure. È necessario mostrare – soprattutto verso il mare – un'immagine militare della Chiesa e della cristianità. Ciò si realizza in Loreto con l'elevazione al soglio pontificio di Giulio II, che fa della basilica di Loreto una vera 'cittadella religiosa'. Ci sarebbero numerosi altri esempi italiani di edifici religiosi dal non comune impatto paesaggistico. Si sono evocati questi quattro, molto noti, perché pur appartenendo a epoche, autori e committenze diverse ed esprimendosi attraverso diverse forme architettoniche, tutti godono di una straordinaria visibilità, amplificata dalla presenza di grandi arterie viarie (autostradali e ferroviarie) che scorrono ai piedi delle loro alture. È fatto storicamente consolidato questa posizione privilegiata, per cui generazioni e generazioni hanno posato gli occhi sulla Sacra e su Superga, su San Luca e su Loreto. Che cosa avranno visto i viaggiatori e gli abitanti passando nei secoli all'ombra di questi landmarks, questi 'segni territoriali'? Negli occhi di chi guarda La civiltà che ha prodotto questi manufatti è una civiltà in cui «l'ortodossia cattolica era percepita ancora come momento inscindibile dallo Stato e dalla comunità civile» (8). Ciò che un tempo veniva percepito secondo le logiche di una cultura fortemente segnata da simbolismi religiosi e di rappresentanza, peraltro interrelati, lo leggiamo oggi con uno sguardo più 'paesaggistico'. L'uomo di oggi in prima battuta non può che cogliere la monumentalità ed il valore estetico di queste realizzazioni, anche senza conoscerne tutte le implicazioni storiche e religiose. L'aura sacra che paiono irradiare questi luoghi è patrimonio comune

dell'uomo contemporaneo a prescindere dalla sua cultura, poiché si basa su quell'ancestrale richiamo che è eredità comune dell'uomo. E allora sì, il sacro sta negli occhi di chi guarda.

NOTE (1) SAMIVEL, La montagna dei miti e delle leggende, in MAURICE HERZOG (A CURA DI), La montagna, Novara, Istituto Geografico DeAgostini, 1962, p. 64 (2) ALESSANDRO MALLADRA, ENRICO G. RANIERI, La Sacra di San Michele. Natura, Arte, Storia, TorinoGenova, 1907, p.59

La Sacra di San Michele in vetta al monte Pirchiriano _photo F. Ceragioli

(3) Cfr. COSTANZA ROGGERO, Superga e i Savoia: la dimensione politica di un monumento sacro, in VALERIO PIERO CORINO (A CURA DI), La reale basilica ci Superga. Storia, restauri e nuovi spazi per l'accoglienza, Torino, Omega, 2011, pp. 11 -14 (4) CECILIA CASTIGLIONI, Filippo Juvarra e l'invenzione di un'architettura per il paesaggio, in VALERIO PIERO CORINO (A CURA DI), La reale basilica di Superga, cit., p. 27 (5) ELENA GIANASSO, Committenza reale per un'architettura dinastica, in VALERIO PIERO CORINO (A CURA DI), La reale basilica di Superga, cit., p. 18 (6) CARLO DEGLI ESPOSTI, Un lungo viaggio verso la “magnificenza”: il santuario prima della ricostruzione settecentesca, in MARIO FANTI, GIANCARLO ROVERSI (A CURA DI), La Madonna di San Luca in Bologna: otto secoli di storia, di arte e di fede, Bologna, Cassa di risparmio in Bologna, 1993, p. 137

Il Santuario della Madonna di San Luca sul monte della Guardia_photo Savigno

(7) ARNALDO BRUSCHI, Loreto: città santuario e cantiere artistico, in FERDINANDO CITTERIO, LUCIANO VACCARO (A CURA DI), Loreto crocevia religioso tra Italia, Europa ed Oriente, Brescia, Morcelliana, 1997, p. 441 (8) ALFEO GIACOMELLI, Valori simbolici del santuario e del portico nel contesto politico-culturale bolognese del Sei-Settecento, in FANTI, ROVERSI , La Madonna di San Luca in Bologna, cit., p. 194

Il Santuario della Santa Casa di Loreto

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Un viaggio alla Cappella di Ronchamp Jessica Astolfi

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'era sul far della sera d'una fredda ma limpida giornata autunnale, dopo un lungo viaggio. Siamo arrivati a Ronchamp per una stradina impennata e stretta dove il pullman passava a mala pena... un'ultima curva ed ecco la cappella: quasi inaspettatamente appare sul colmo della piccola collina. L'abbiamo vista tante volte, l'abbiamo studiata sui libri e l'abbiamo immaginata nel suo contesto. Ma la la realtà, comunque, sorprende. Se parliamo di un mito che si incontra per la prima volta e lascia stupiti perché supera ogni aspettativa, proprio questo è Ronchamp; se parliamo di sacralità del paesaggio, la visione dell'insieme è proprio questo, complice un rosso tramonto vivace che con la sua luce faceva risaltare la piccola cappella le cui forme geometriche si stagliavano verso il cielo dove le dolci curve facevano apparire la copertura quasi sospesa, poggiata su una sottile linea separatrice che corre lungo tutto il perimetro. L'insieme è una sintesi architettonica che si inserisce armonicamente nel paesaggio: questa l'impressione che rivivo pensando a quel momento, all'emozione vissuta mentre scendeva la sera si accendevano le luci, dai toni caldi e freddi sapientemente intercalati, a illuminare la cappella esaltandone le forme e facendo apparire nuove sagome, grazie anche alla grande luna che rischiarava tutto il paesaggio. Il mattino seguente il paesaggio appariva diverso, la poetica immagine della sera lasciava il posto alla presenza del manufatto architettonico, forte nella purezza delle sue forme. Prima dell'ingresso una lapide a ricordo delle persone uccise in quel luogo durante la seconda guerra mondiale: la cappella ne fa memoria. È stata costruita principalmente con materiali di risulta e con il minimo necessario di cemento armato: anche questo stupisce, osservando la sublime eleganza del risultato. THEMA I ASTOLFI I 16

Si vede un reportage fotografico dove si possono seguire le diverse fasi del cantiere: vi compare anche Le Corbusier. Il verde del prato e gli alberi ormai spogli nell'autunno inoltrato, facevano da corollario al manufatto, e man mano che ci avvicinavamo sentivo crescere l'emozione, il senso di meraviglia. Prima di entrare desideravo scoprire tutte le accortezze usate dal maestro svizzero francese. Sapevo che solo soffermandomi con attenzione avrei potuto distinguerle nell'insieme. Ogni lato della cappella mostrava peculiarità che i libri di architettura non mi avevano mai illustrato. Ecco il lato con la mensa del sacrificio, esterna ma inserita in un'insenatura della costruzione, davanti a cui si stende un ampio e accogliente spazio verde. C'è sovrastante un'apertura che ospita una statua della Madonna: questa su un perno può girare per volgersi verso l'interno della chiesa dove, in posizione speculare, sta l'altare principale. Allo stesso modo il coro si affaccia sospeso verso l'esterno e, diviso da una piccola porta, un analogo spazio si apre verso l'interno. Poi la facciata con tutte le aperture, di dimensione e profondità diverse, con vetri di diverso colore e con scritte diverse che danno all'interno la sensazione di una parete che “parla”, e comunica dando “movimento” a uno spazio sobrio, tanto ieratico quanto essenziale. Pozzi di luce altissimi che proiettano raggi luminosi su altari minori nascosti in insenature dei muri perimetrali, dove sono ricavati anche alcuni confessionali. Tutti materiali poveri, semplici, naturali. I banchi per i fedeli rialzati sul piano di camminamento da un pavimento in legno. Passaggi discreti che conducono all'ambone e al coro. Non c'è fonte battesimale non essendo parrocchia. L'acustica è perfetta. Alcuni amici intonano

Jessica Astolfi, Presidente dell'Associazione “Costruire il Sacro” riferisce di una visita al capolavoro di Le Corbusier. La piccola chiesa che segna un punto di svolta nella produzione del grande architetto e che emerge nel paesaggio come un segno sempre nuovo, sempre capace di sollevare incanto.

dei canti e l'armonia del suono si diffonde con cristallina chiarezza, vibra nell'aria come un palpito di vita. La cappella di Ronchamp va visitata più e più volte. Per quanto ci si soffermi con attenzione nel guardarla, rivela sempre qualcosa di nuovo. Ha quella purezza insita nel linguaggio dell'architettura che solo i grandi maestri sanno trasmettere. Ci torneremo... photo_Daniele Basso


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“Costruire chiese in Africa” Carlo Fumagalli

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o realizzato due chiese in Africa, una in Camerun, la chiesa St. Claire a Fontem, l'altra in Kenya, la cattedrale cattolica di Embu, St. Peter and Paul,. Per la verità, ce ne sarebbe una terza, pure questa in Kenya, che però non prendo in considerazione, perché è sostanzialmente una copia della prima, iniziata a mia insaputa. A mia insaputa fino a quando non hanno dovuto venirmi a chiedere copia di alcuni disegni che erano andati perduti. In Africa, e tra i missionari, tutto è possibile. Chiese progettate e costruite in tempi e in paesi diversi dell'Africa, tappe di un unico percorso, che parte dalla ricerca e dal rispetto di espressioni architettoniche locali, per inserirsi poi in quel processo di inculturazione avviato successivamente dalla Chiesa per coniugare il messaggio evangelico con la tradizione. La chiesa di Fontem risale alla fine degli anni sessanta. Attraverso un primo contato con la tradizione, il progetto cerca di recuperare alcuni contenuti e alcune forme delle costruzioni locali. La cattedrale di Embu, costruita circa vent'anni dopo, sviluppa invece il problema dell'inculturazione attraverso una ricerca più approfondita della tradizione antica per verificare se vi fossero in essa elementi conciliabili col cristianesimo, da riproporre attraverso l'architettura. Caratteristica comune a tutt' e tre le chiese, la realizzazione eseguita senza l'apporto di imprese di costruzioni, facendo lavorare la gente del posto, col preciso intento di coinvolgere nei lavori la popolazione stessa.

FONTEM Sulla chiesa realizzata a Fontem non mi soffermo più di tanto per dare maggiore spazio alla cattedrale di Embu. Fontem era allora uno sperduto villaggio nel cuore della foresta tropicale, che nel giro di pochi decenni si è sviluppato fino a diventare THEMA I FUMAGALLI I 18

una vera città grazie al Movimento dei Focolari, che, giunto là su invito del Vescovo locale dietro richiesta dei Bangwa, la tribù che abita quella zona, si impegnò dapprima nella cura dei tanti ammalati, soprattutto bambini – la mortalità infantile raggiungeva allora circa l'ottanta, novanta percento delle nascite, rischiando di portare all'estinzione la tribù stessa – quindi avviò varie altre attività di lavoro e di formazione, tanto che furono gli stessi Bangwa, molti dei quali nel frattempo si erano convertiti al cristianesimo, a volere una loro chiesa. Fin dal mio primo viaggio non mi fu difficile capire in quale contesto mi venivo a trovare; si trattava di un delicato intreccio di rapporti che si era creato tra focolarini e Bangwa ed era chiaro che anch'io avrei dovuto inserirmi in quella dinamica di rapporti. La costruzione della chiesa era infatti soltanto un particolare di un percorso a dimensioni molto più grandi. L'idea base del progetto è quella della capanna chiesa. Mi sembrava la soluzione migliore per inserire bene questa costruzione in un ambiente fatto, a quel tempo, di poche capanne sparse qua e là, completamente privo di una realtà urbana, che si potesse definire tale (foto 1-2). La pianta è a forma ottagonale, la copertura si sviluppa a tre balze sovrapposte, la più bassa si modifica in corrispondenza dell'ingresso principale, quella più alta in posizione diametralmente opposta dando forma a una cuspide. Viene così sottolineato l'asse ingresso-presbiterio (foto 3-4). Qualcuno vide nel tetto a tre falde una concezione “unitaria e trinitaria”: all'interno dice “uno”, all'esterno dice “tre”. I Bangwa vi lessero invece un altro significato: se le capanne della gente comune hanno un solo tetto e quelle dei capi dei villaggi un duplice tetto sovrapposto, probabilmente realizzato così per favorire il ricircolo dell'aria, era giusto che la capanna del Grande Capo ne avesse tre. I lavori furono eseguiti dai locali sotto la direzione di un focolarino geometra e di un altro

Non solo le città europee si sono sviluppate attorno alle loro chiese in epoca medievale. Anche oggi il spazio sacralizzato diviene centro promanatore di nuove realtà urbane. A questo fenomeno si assiste in diverse parti del mondo, e tra queste in Africa. Ne ha parlato l'architetto Carlo Fumagalli al Seminario “Adeguamento liturgico e progetto d'architettura per la chiesa di oggi” che si è svolto a Loppiano il 28-29 gennaio 2011. Pubblichiamo qui il testo del suo intervento, gentilmente messoci a disposizione dal prof. Giuseppe Arcidiacono dell'Università di Reggio Calabria, quale attiva testimonianza di una persona che si è impegnata per far sorgere nuovi insediamenti urbani nel “continente nero”, e di farlo alla luce della fede: anche come omaggio alla memoria di Carlo Fumagalli, architetto che si impegnava nel suo lavoro con la passione dell'artigiano creatore, scomparso nel maggio 2012.

falegname. Nelle mie brevi permanenze a Fontem sperimentai anch'io cosa significhi lavorare con gente tanto lontana per razza e cultura, in situazioni ben diverse dalla nostra. Racconto solo un episodio. Un giorno dissi “Domani possiamo cominciare a montare le capriate”, ma negli occhi, coi quali mi sentii guardato, lessi senza fatica che la gru, da quelle parti, non era ancora stata inventata. Bisognava inventarla. Terminati i lavori, consacrata la chiesa, restava in me una grande voglia di ripetere questa esperienza, o meglio di continuarla, soprattutto di conoscere più a fondo un popolo che forse non avevo mai considerato, ma che invece avevo cominciato a scoprirne una profonda, velata ricchezza. Quel mondo dove le cose più impensate diventano la normalità quotidiana, dove tutto sembra scontato anche se non lo è, mi aveva affascinato. Ma come sarebbe stato possibile?

Carlo Fumagalli


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CATTEDRALE DI EMBU L'occasione mi si presentò qualche anno dopo quando il Vescovo della Diocesi di Embu, in Kenya, una giovane diocesi da poco costituita, aveva pensato di rivolgersi a me per il progetto della cattedrale, dopo avere visto la copia della chiesa di Fontem realizzata in Kenya.

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Il progetto (foto 5-6-7-8) Il progetto prende spunto da due realtà fondamentali della tradizione locale: il monte Kenya e l'albero mugumu. Il monte Kenya, nei tempi antichi era considerato la dimora terrena del dio Ngai; Il mugumo; detto anche “albero di Dio” o “albero rituale”, era l'albero sotto il quale si svolgevano i riti sacri. La configurazione del monte - un cono molto schiacciato a pendenza lieve, e, al centro, le ripide rocce che puntano verso il cielo ricoperte di neve e di ghiaccio – ha suggerito la forma della cattedrale, che si presenta come un ampio tetto, lievemente inclinato, che ruota tutt'attorno a due alte torri. Questo sviluppo orizzontale che si fa verticale al centro è in certo qual modo l'immagine della Chiesa, come ebbe a definirla Paolo Vl: “la chiesa ha due dimensioni, una gerarchica, che potrebbe dirsi verticale, di paternità; l'altra di fraternità, di comunità.” La grande copertura, che accoglie e unifica l'assemblea = la dimensione orizzontale, il rapporto uomouomo. Al centro, ai piedi delle torri, che svettano verso il cielo, come le due più alte cime del monte, il presbiterio = la dimensione verticale. Più su, tra le torri, una grande vetrata, l'immagine di Maria. Più su ancora, siamo oramai all'esterno, una grande croce. Per gli africani l'acqua è segno di vita, segno della provvidenza divina, benedizione. Il monte Kenya è ricco d'acqua, che scende dai ghiacciai solcando le molte valli disposte a raggiera tutt'attorno alle cime; così è per la

pioggia che cade sul tetto: viene versata in grandi vasche distribuite tutt'attorno e da qui incanalata in capienti cisterne, e usata poi soprattutto per irrigare i campi. (foto 12-13) Il mogumo, è una pianta maestosa, imponente, alta 25/30 metri e più, dalla chioma larga, e dal caratteristico tronco, che si presenta come un insieme di rami incollati che si aprono verso l'alto, ricordando vagamente le strutture gotiche. Trova la sua interpretazione nei due grandi pilastri, posti nella parte anteriore del presbiterio, ciascuno composto da otto colonne aderenti l'una all'altra, che si aprono in alto in altrettanti rami atti a reggere le capriate della copertura. Inquadrano l'altare, il luogo dove oggi si svolge il sacrificio . L'interno (foto 9) la chiesa (l'aula assembleare), quindi l'area presbiteriale e, in sequenza, la cappella feriale, posta a quota inferiore di circa un metro, per seguire l'andamento del terreno; sempre in asse e con accesso dalla cappella feriale stessa, la cripta per la tumulazione dei vescovi, al di sopra della cripta, il palco per manifestazioni all'aperto (religiose o altro). La cripta non è caratteristica delle chiese africane, tuttavia, pensando che un tempo il re della tribù veniva sepolto ai piedi dell'albero sacro, sembra giusto che il “capo” della chiesa locale venga sepolto vicino al luogo del sacrificio nuovo. La sepoltura dei vescovi sotto la chiesa ricorda inoltre che gli apostoli, e i loro successori, sono le fondamenta della Chiesa. Lateralmente, da un lato, al piano terra la sacrestia e gli uffici, al piano superiore la residenza; dall'altro lato il salone riunioni. Alcuni momenti fondamentali della vita dell'uomo, che interessano il suo rapporto con Dio, hanno contribuito a definire l'impianto interno della chiesa : la nascita = il battesimo (i catecumeni – da quelle parti sono molte le persone adulte che vengono battezzate – entrano in chiesa THEMA I FUMAGALLI I 19


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attraverso ingressi angusti e bui posti a lato dell'ingresso principale), l'iniziazione = la cresima (i cresimandi, maschi e femmine, percorrono separatamente i porticati esterni per riunirsi entrando in chiesa dove la comunità è già raccolta), il matrimonio (prima di entrare in chiesa la sposa viene unta in fronte con grasso di pecora, segno di fertilità), la morte (il feretro entra in chiesa ed esce da porte diverse). Espressione dominante di ogni manifestazione a sfondo religioso è la danza. Attraverso la danza l'africano esprime i suoi sentimenti, la gioia, il dolore, il ringraziamento e anche la domanda. “un vero libro aperto per la meditazione”, così un africano l'ha definita. La danza non poteva quindi non essere recuperata anche nelle celebrazioni cristiane. La sola chiesa ha un'apertura di circa 70 metri e l'intero complesso copre circa 4,500 mq. La preoccupazione di fare continuo riferimento a simboli e riti derivanti dalla tradizione, più ancora di voler reinterpretare nella forma, anche se con una certa libertà, alcuni elementi naturali, potrebbe apparire eccessiva e destare qualche dubbio, s'è dimostrata invece indispensabile da quelle parti per aiutare la popolazione a capire meglio l'architettura stessa dell'edificio nel suo significato e nelle sue funzioni, a sentire la chiesa più loro perchè visibilmente radicata nella tradizione. Ne avremo conferma il giorno della presentazione del progetto e in altre occasioni durante il corso dei lavori. La realizzazione (foto 10-11) Quando stavo per iniziare il progetto della cattedrale, il Vescovo mi aveva espresso il desiderio di vedere coinvolta in quest'opera l'intera comunità “non mi importa – diceva – quanto tempo impiegheremo”. Voleva che quest'impresa fosse una buona occasione per la crescita di una comunità ancora fragile – la diocesi era stata costituita soltanto tre anni

prima –. Per soddisfare questa sua esigenza, capii che non sarebbe bastato l'approfondimento della conoscenza della tradizione, ma avrei dovuto entrare in profondità nella vita della gente, nel loro quotidiano, cercare di capire le loro usanze, le loro esigenze, entrare in sintonia con loro e accettarli come sono. Oramai sapevo che gli africani, al di là di come possono apparire, sono gente di antiche tradizioni, dotate di una grandissima sensibilità; il fatto poi che non avessero una particolare preparazione tecnica perché fino allora non avevano avuto altra occasione se non quella di costruire capanne o poco più, aveva poca importanza, bisognava iniziare la costruzione da lì anche se il progetto era ambizioso. Mi fu di grande aiuto un geometra italiano, Attilio Sartirani, un bergamasco, “uno di quelli duri come il granito”, che aveva una lunghissima esperienza africana per avere lavorato per molti anni in varie nazioni del continente, e che io avevo conosciuto qualche anno prima perché era stato lui a costruire la copia di Fontem, e ora s'era reso disponibile a scendere per lunghi periodi in Kenya per seguire i lavori per tutta la loro durata, durata lunga dal momento che i lavori sono iniziati negli anni novanta e la cattedrale è stata consacrata soltanto nel 2001, e che l'intero complesso non lo si può ancora considerare del tutto finito. Così affrontammo i lavori senza ricorrere ad imprese, ma assoldando gente locale, lavorando con loro, al loro fianco e come loro erano capaci. In certo qual modo s'è dato al lavoro un'impostazione che ricalca le orme proposte dall'Esortazione Apostolica ECCLESIA IN AFRICA (1995) di S.S. Giovanni Paolo II°, là dove si sottolineano i legami profondi che intercorrono tra evangelizzazione e promozione umana. Un'impostazione di lavoro che s'è rivelata una delle caratteristiche più importanti di quest'opera, forse il successo più grande.


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di quest'opera, forse il successo più grande. La prima sensibilizzazione è venuta dallo stesso Vescovo quando, davanti ad una folla accalcata in un campo di calcio, valutabile in circa 10/12.000 persone ha presentato il progetto. Era la festa della Diocesi. La presentazione, durata almeno mezz'ora dopo quattro ore di cerimonia sotto un sole a perpendicolo, è stata seguita da tutti con molto interesse. Il Vescovo ha spiegando il recupero di alcuni valori tradizionali, come l'albero sacro e il monte Kenya, facendone una vera catechesi.

invece sta sul tronco . Successivamente mediante una piallatrice che ci era stata donata, s'è potuto levigare le tavole quindi passarle alla lavorazione. Col procedere della costruzione, si faceva sempre più urgente la necessità di attrezzature più impegnative, ma ci rendevamo anche conto che, di pari passo, queste potevano essere capite e accolte. Quasi sempre le rimediavo gratuitamente e inviavo con container. Quanti ne abbiamo fatto partire! Dopo otto, nove anni, quando iniziavamo a montare le grosse travature, ci è stata proposta una gru, che certamente ci sarebbe stata di grande aiuto, ma, prima di accettarla ci siamo chiesti “saranno in grado di capirla?” Soltanto dopo una attenta riflessione abbiamo accettato il dono. Utilissima per montare il tetto, coadiuvata però anche da una grande abilità acrobatica.

Ma veniamo ai lavori. Per alcuni, dove era possibile, abbiamo fatto intervenire intere comunità parrocchiali: Gli scavi, ad esempio. Vediamo poi qualche altro lavoro: le murature in pietra. Quelle portanti sono realizzate a doppio paramento esterno che fa da cassero al calcestruzzo armato gettato all'interno, gli altri a paramento semplice. Da dove siamo partiti? la pietra proviene da piccole cave nei dintorni , quindi portata in cantiere dove viene lavorata da scalpellini. Quanto al calcestruzzo, viene confezionato in piccole betoniere e trasportato da una colonna di carriole. Per poter sfruttare al massimo le pietre cavate, che presentano ovviamente misure varie, loro stessi si sono inventati questo ricorrenza di tre filari a spessori diversi. Una volta poste in opera i giunti in malta vengono rifiniti con cementi liquido. Le travature reticolari in legno della copertura. Per la complessità del tetto anche qui vediamo da dove siamo partiti: il tronco d'albero giunge in cantiere appena squadrato. In cantiere viene realizzato un fosso largo circa 80 cm. e profondo circa due metri. Il tronco viene collocato lungo il fosso, sostenuto da qualche traversino, arrivano i due tagliatori, uno dei quali scende nel fosso, l'altro

Mi fermo qui, ma tutte le lavorazioni hanno seguito questo iter, e quando ci si trovava di fronte ad alcune lavori che non sapevano proprio da che parte cominciare, chiedevamo ad alcuni artigiani italiani di scendere per qualche tempo per insegnar loro. Solo per insegnare, non per fare. Sono venuti per insegnare nuove tecniche costruttive, nuove metodologie di lavoro, hanno dato tempo, materiali, denaro. Sono tornati, siamo tornati, con altre ricchezze in mano: la genuinità della vita, l'amore alla vita, i valori veri, autentici della convivenza umana: la solidarietà, la disponibilità, l'amicizia, l'aiuto reciproco disinteressato, e ancora, il rispetto dell'uomo e della natura. Progetto e realizzazione, integrati così in un unico processo creativo, hanno dato vita ad un'opera che poteva ben dirsi frutto dell'intera comunità, espressione di tanti e i più svariati apporti, e, In certo qual modo, veniva a c o m p l e t a re q u e l l a p r i m a r i c e rc a d i inculturazione che era alla base del progetto

Oggi la cattedrale la si vede da lontano, dall'altra parte della valle dove si sviluppa la città, la si vede appena ci si affaccia ad Embu arrivando da Nairobi. E' lì, punto forte di riferimento, orgoglio di tutti, credenti o no, segno di speranza. Viene ora da chiedersi: quanti sono che, nel corso degli anni, hanno dato il loro contributo, hanno lavorato, fissi o volontari in questo cantiere? Difficile rispondere, sicuramente molti. Questa insolita costruzione, a dimensioni spropositate, che lentamente cresceva sulla loro terra, attirava tutti, o per lavoro o per curiosità, cattolici e non, tanto da finire coll'incidere sulla realtà sociale stessa. E silenziosamente si andavano tutt'attorno ricostruendo una nuova dimensione umana, più matura, più forte, più aperta. Il contatto con un'altra cultura, che qui si manifestava attraverso tecniche costruttive mai viste fino allora, che non avevano la pretesa di imporsi né di porsi come metro di misura, che si lasciavano prendere da mani inesperte fino a farsi impossessare totalmente da loro stesse una volta divenute capaci, ha finito coll'annullare diffidenze e aprire a una nuova fraternità che andava oltre i limiti tribali.

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Tra ulivi e templi dorici La chiesa di San Gregorio ad Agrigento Giuseppe Pellitteri

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iù naturale è un paesaggio, senza segni tangibili di quanto la storia dell'uomo sia riuscita ad imprimere, più vivo è quel senso del sacro che avvicina al Divino e che fa pensare quasi come sia irriverente o sbagliato intervenire con qualsiasi gesto artificiale. Si sa che i siciliani, pur avendo ereditato culture e religioni importanti nel Mediterraneo, i cui segni sono ampiamente visibili in tutto il territorio dell'Isola, non siano bravi a valorizzarli e a difenderne il patrimonio. Sembrano aver perduto la consapevolezza del sacro diffusa tra le popolazioni antiche, ciascuna con le proprie intuizioni e credenze, che portava a vedere la terra e la natura come un dono divino e inviolabile, da rispettare. Il progetto della nuova chiesa di San Gregorio doveva cogliere in maniera forte e chiara l'aspetto sacro del paesaggio in cui sarebbe sorta. Nonostante la presenza disordinata di case sparse e costruzioni anonime, l'area destinata, pianeggiante, era abbastanza libera e segnata da una vegetazione diffusa, tipicamente mediterranea, con i colori dorati della terra, sotto l'azzurro tipico del mare della costa meridionale siciliana. Prima di tutto era la campagna stessa, piena di ulivi di tutte le generazioni, che già faceva sentire quella sacralità le cui radici affondano nella notte dei tempi. Già oggetto di venerazione ad Atene, sin dalla fondazione “L'olivo, piantato dalla dea Atena fu incendiato dai barbari, insieme al santuario; ma il giorno dopo, quando gli ateniesi salirono nel sacro recinto, videro che dal tronco era spuntato un germoglio” (Erodoto, “Storie”) - l'ulivo divenne la pianta prevalente dei greci in Sicilia, le cui vestigia erano a due passi dal nuovo “tempio” che doveva nascere. L'ulivo mantiene il suo significato anche in tempi biblici: “II Signore tuo Dio sta per farti entrare in un paese fertile … paese di ulivi …” (Dt 8,8; 2 Re 18,32) e il popolo eletto è come un “olivo verdeggiante” (Ger 11,16).

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Lo stesso tra i cristiani. Nella campagna siciliana è possibile vedere ancora qualche ulivo “ s a ra c e n o ”, s e c o l a r e , t e s t i m o n i a n z a dell'importanza che ebbe questa pianta anche per gli arabi. Nell'Islam infatti l'ulivo è l'albero “cosmico”, asse e centro del mondo, benedetto e sacro, albero “della luce” secondo il Corano (24,35). Ma occorreva andare oltre: mettere in sintonia la sacralità di quel paesaggio campestre antico, con la particolare identità del paesaggio agrigentino, già sacro per altri motivi, introitandolo nella sacralità del tema affrontato, quello di dover progettare lì la domus ecclesiae per le generazioni future. Cioè, saper cogliere quell'inscindibile nesso che ci deve essere tra edificio sacro e paesaggio, inteso come manifestazione divina, come avveniva in passato, ma che la contemporaneità ha spezzato, recidendo il filo invisibile che necessariamente dovrebbe legare la sacralità del luogo con quella dello spazio architettonico, in tutte le sue articolazioni. Ad Agrigento tutti i luoghi parlano il linguaggio della sacralità e riempiono un paesaggio che già nasce sacro. A partire da questo si sarebbero potuti strutturare gli spazi della nuova chiesa, come elevazione trascendente, se non metafisica, di una dimensione estetica di cui l'architettura in generale, ma irrinunciabilmente la chiesa contemporanea, deve riappropriarsi. Il paesaggio è sacro e rimane tale se non è un semplice luogo dove edificare, ma “il luogo” dove lo spirito può raccogliere e vivificare tutti i messaggi presenti, ancora vivi e con radici profonde nel tempo. “La chiesa come elemento ordinatore del territorio” (A. Dell'Acqua, “Paesaggi del Sacro”), riesce a esprimere ora, prendendo lezione dal passato, tutti i legami delle diverse componenti naturali, architettoniche, culturali e soprattutto spirituali, consolidatisi nel paesaggio e identificatisi nel “luogo”.

Inserito nella terra, spezzato da squarci che lo avvicinano ai resti archeologici, il nuovo complesso riprende e riassume la sacralità antica che raccoglie dal territorio stratificato nel tempo. E la proietta, riorientando quel ponderoso carico di storia, verso la prospettiva della speranza cristiana. Con un gesto che fa della progettazione decostruttiva, l'anelito alla riconciliazione tra le epoche, le culture, le tracce delle civiltà mediterranee.

Elevando gli occhi da quel tratto di meravigliosa costa, in cui sarebbe dovuta sorgere la nuova chiesa, lo sguardo raggiunge la vallata dominata dalla Via Sacra, con la maestosità dei templi dorici e alle spalle; ancora più in alto sta la città, con i segni visibili delle chiese antiche, su cui svetta la cattedrale. Ma, molto più vicino, i resti ben visibili di un villaggio dell'età del bronzo risalente al XV-XII sec. a.C. (E. De Miro, “Archai della Sicilia greca”), con l'impianto delle case e i segni di un recinto che rinvia a un immaginario intriso di una spiritualità rituale ancora viva, come ce ne sono altri lungo la stessa costa, a Monte Grande o a Madre Chiesa, che dimostrano la presenza egeo-micenea nella Sicilia centro-meridionale sin dalla nella metà del II millennio a.C. Dietro la distesa del mare aperto, un infinito ancor più aperto da quando centinaia di profughi, di immigrati, di disperati, quasi quotidianamente arrivano dal resto del mondo per un approdo incerto. Un asse spirituale tracciato nel paesaggio Mediterraneo avrebbe interpretato i segni vivi dei momenti più sacri della storia di quei luoghi, a partire dal dramma dell'approdo della disperazione verso una speranza protesa verso l'alto, rappresentata dal colle di Girgenti con la possanza della cattedrale, attraversando dal mare verso la rupe terre che registrano tutti i momenti più salienti della storia sacra e tutti i segni lasciati dal tempo: dal totem al tempio, dall'altare alla basilica. La nuova chiesa avrebbe dovuto essere il centro di questo percorso trascendente, come un punto di passaggio vitale verso l'infinito. La nuova chiesa, con tutto ciò che serve ma che ancora la parrocchia di San Gregorio non aveva potuto avere, cioè una sede adeguata al territorio, doveva essere dedicata a quell'importante Vescovo agrigentino, San Gregorio II (591-630) considerato l'ultimo grande esegeta della patristica


Vista verso la Valle dei Templi e la città

greca, a cui si deve nel VI sec. la consacrazione del Tempio della Concordia a prima cattedrale cristiana. Col suo gesto San Gregorio era riuscito non solo a porre le fondamenta della Chiesa Agrigentina, ma anche a salvare dalla distruzione quello che sarebbe diventato un simbolo per Agrigento, il tempio della Magna Grecia forse più noto nel mondo. Il ricordo di una così miracolosa opera di conservazione dell'eredità culturale greca è stato addirittura recentemente vivificato dalla Chiesa, elevando il Santo a protettore degli studiosi della “Conservazione dei Beni Archeologici ed Architettonici”. Ai piedi del tempio, sotto e lungo la Via Sacra, la pianura che raccorda l'acropoli con la costa prende proprio il nome di “Piano di San Gregorio” ed è lì che nel 1993, non molto distante da dove sarebbe sorta la nuova chiesa, papa Giovanni Paolo II faceva sentire la sua voce imperiosa, lanciando il famoso anatema contro i mafiosi: “Nel nome di Cristo..., mi rivolgo ai responsabili: convertitevi! un giorno verrà il giudizio di Dio!”. Il contatto così forte con la Valle dei Templi, con una sacralità così viva e diffusa in tutta la vallata, imponeva la necessità di vivificare ancora una volta la presenza di tutti questi temi religiosi ereditati nel tempo, per proiettarli verso un futuro che ne garantisse la continuità e ne mantenesse la spiritualità. Il segno più vicino era quello più lontano nel tempo: i resti dell'insediamento fortificato di origine cretese, in un campo di ulivi che diventa il tessuto entro cui ordire il tutto. La loro vicinanza e quella dei resti dei templi dorici, pure immersi nello stesso paesaggio, hanno caratterizzato fortemente il progetto, segnandone l'espressione frammentata e determinando la composizione dell'intero complesso che, prevalentemente ipogeo, lascia fuori terra solo i corpi più significativi: l'aula liturgica, il campanile e la casa canonica, che si affacciano su di un chiostro esterno ribassato,

Il complesso parrocchiale immerso nel paesaggio Mediterraneo

vero cardine di tutta la composizione. Su di esso, infatti, prospettano anche le aule seminterrate, destinate alle attività parrocchiali, e la cappella feriale, posta sotto il possente volume della chiesa vera e propria: un parallelepipedo decostruito e movimentato, rivestito di travertino. I tagli che la spaccano drammaticamente, oltre ad esprimere le ferite che segnano il corpo della società siciliana, sono allineati in modo tale da consentire dal centro della chiesa di traguardare quell'asse “sacro” che congiunge idealmente e spiritualmente tutti i momenti di religiosità che hanno scritto la storia di quel paesaggio: da un lato i resti del villaggio miceneo, dall'altro prima la vallata, poi i templi e infine la città coi suoi monumenti cristiani sullo sfondo. Il volume centrale così interrotto vede la parte dell'area presbiterale sbalzare possentemente sopra il chiostro ipogeo, scandito dal ritmo dei pilastri del porticato, le cui corsie mettono in comunicazione tutti gli ambienti destinati alle attività pastorali. L'aver spinto il centro di tutto il complesso verso il basso, se da un lato ha consentito di lasciare più libero e meno contaminato il paesaggio esterno, dove solo pochi elementi si confrontano con il sito archeologico limitrofo e con lo sfondo della Valle dei Templi, imprescindibile riferimento figurativo, dall'altro ha permesso la creazione di una gradonata esterna che mette in relazione il sagrato e il chiostro stesso, con le diverse attività liturgiche che vi si svolgono; inoltre alla gradonata è affidato il ruolo di ospitare eventuali celebrazioni all'aperto. Il chiostro, volutamente essenziale, geometrizzato, è una delle tante “Piazza d'Italia” di De Chirico; è uno spazio metafisico, perché deve creare quell'inevitabile moto di ascesa, che attraversa entrambi i luoghi deputati alla preghiera, la cappella feriale sotto e l'aula liturgica sopra, proiettandoli verso il cielo, incardinati in un perno costituito da un

parallelepipedo tagliato che punta verso l'alto, ben saldato a terra, ma che continua a legare la dimensione spirituale della chiesa con quella sacra del paesaggio.

Planimetria generale

Pianta piano terra

Il chiostro centrale

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La discesa verso il basso e il rivestimento delle pareti con lastre di acciaio cor-ten danno la sensazione di entrare in un ambiente sepolcrale, dal quale il senso di risalita è dato da squarci di luce che penetrano dall'alto. Lambendo le pareti della cappella centrale dell'Adorazione e il piccolo giardino triangolare, dove è saldamente piantato proprio un ulivo “secolare”, tutte queste “luci” portano lo sguardo verso il cielo e liberano lo spirito oltre i limiti fisici dell'edificio. Questo è costituito da un'unica navata, chiaro riferimento alle prime basiliche paleocristiane, posto secondo la direzione est-ovest, recuperando l'orientamento tipico sia del tempio greco che delle chiese medievali, e segnando ancora una volta un rinnovato strettissimo connubio tra i due edifici cultuali. La chiesa imprime allora una rotazione rispetto all'asse che congiunge i due siti archeologici, che risulta invece allineato col chiostro, con la casa canonica e col campanile. Questo, posto in prossimità della strada, è costituito da uno snello e alto parallelepipedo, rivestito pure in travertino e tagliato in diagonale: un vero e proprio landmark urbano, che denuncia nella campagna e dalla strada, con la sua croce incavata, la presenza della domus ecclesiae. Il fronte d'ingresso è palesato dalla presenza di due “torri”, un chiaro riferimento al Westwerk, il corpo occidentale a torri dell'architettura normanna in Sicilia, inclinate però verso il centro e di altezza diseguale per accentuare l'effetto prospettico degradante dal vicino sito archeologico alla rupe cittadina. Esse servono da collegamento con i fronti laterali, di cui quello nord rivolto proprio verso la Valle dei Templi, riproduce il colonnato del tempio, il cui ritmo si basa sul modulo, ordinatore anche del ritmo del chiostro e del viale laterale, di sette elementi, quanti sono i Vescovi agrigentini Santi o beati, le cui grandi effigi mosaicate dall'artista Enzo Venezia sono collocate in corrispondenza, all'interno; il fronte sud è parzialmente forato da una serie di bucature che scrivono le note dell'Ave Maria gregoriana. Inserito al centro, tra le due torri, vi è un robusto setto verticale anch'esso rivestito in cor-ten, la cui giacitura perpendicolare alla strada THEMA I PELLITTERI I 24

denuncia l'ingresso alla chiesa e ne enfatizza il senso di accoglienza, simbolo dell'ascensione del Cristo ma anche di una porta sempre aperta alla comunità, pronta ad accogliere anche i profughi provenienti dai paesi del Mediterraneo e dell'Africa, tragicamente sbarcati sulle coste agrigentine. La sua imponenza e l'isolamento visivo, nel gesto dell'apertura e dell'invito ad entrare dato dalla rotazione del setto, trasformano in positività cristiana l'incertezza dell'ignoto, in speranza la certezza della fede. Sottotono rispetto alla chiesa, troviamo la casa canonica con il suo aspetto dimesso, che si contraddistingue per la sua semplicità formale e cromatica, dove il gioco delle bucature di logge e finestre vuole richiamare il linguaggio del paesaggio urbano di borgata, che si apre verso ovest alla campagna con i suoi segni rupestri e tra gli ulivi. All'interno, varcata la soglia dell'aula, l'area presbiterale è individuata da un parallelepipedo cavo sospeso, pure rivestito in cor-ten, ruotato e ben visibile dall'esterno; una rilettura della cupola rinascimentale, che penetrando all'interno dello spazio della navata avvolge, in un fascio di luce proveniente dall'alto, il Cristo in bronzo, pure di Enzo Venezia, che sospeso racconta della sua resurrezione, libero dalla croce, spoglio, simile agli uomini d'oggi. “Cristo spogliò se stesso” (Paolo di Tarso, “Lettera ai Filippesi”, 2:5-8), nella cosciente accettazione della morte, appare in forma umana al momento dell'eucaristia, lasciando la croce sullo sfondo. Sopra, il velario inclinato, che copre parzialmente il lucernario, è la lastra tombale del sepolcro che si scoperchia nell'atto trascendentale del risorgere. Anche l'apparato iconografico e gli arredi sacri, connaturati all'architettura complessiva della nuova chiesa, in linea con gli attuali orientamenti (Papa Benedetto XVI, “Discorso agli artisti”), attraverso la trasparenze dalle ampie vetrate, riscrivendo temi della tradizione sacra, rinsaldano e proiettano quel legame più volte ricercato con la profondità del paesaggio circostante. Photo / Giuseppe Pellitteri / Complesso parrocchiale di San Gregorio ad Agrigento © Alessia Riccobono

Aula liturgica_porta

Aula liturgica_altare

Mosaici

Prospetto nord


Prospetto sud

Campanile

Corte Ave Maria gregoriana

Porta

Esterno lato sito archeologico

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Un monastero urbano: risacralizzare la città Giancarlo Marzorati

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a proposta fu formulata nel 2001 da Don Giovanni Brigatti, prevosto di Sesto San Giovanni, nel 2001, nel l'ambito dell'incontro “Agenda 21” convocato per rilanciare la città che fu la “Stalingrado d'Italia” nel mondo postideologico e postindustriale. Ma in generale, post-tutto: perso nell'assenza di ideali. L'idea era di ricostruire sulle ceneri dell'immensa area Falck – milioni di metri quadrati su cui sorgevano le acciaierie di cui restano scheletri di alcuni immensi capannoni, oggi vincolati come patrimonio culturale, archeologia industriale – una zona che desse un nuovo senso all'agglomerato urbano: giardini, la “Città della salute de della ricerca” (la cui realizzazione è in dirittura d'arrivo), inevitabilmente nuovi palazzi residenziali ma anche – questa l'idea di Don Brigatti – un nuovo monastero urbano. Sembra una contraddizione nei termini: i monasteri nascono nel deserto e nella storia hanno sempre occupato luoghi romiti, solitari, isolati, lontani dal mondo: dove i monaci potevano dedicarsi alla preghiera, e al lavoro. Ora et labora, secondo la tradizione benedettina che è l'asse portante del monachesimo europeo. Ma, se monastero è luogo dove brilla la fede entro un contesto di solitudine: quale ambiente oggi può essere più adatto di una città contemporanea, dove regna la solitudine per delle moltitudini, l'isolamento pur nel frastuono continuo, la disperazione pur nel flusso delle folle? Ed ecco che il progetto di un monastero la cui presenza possa far rinascere una città di antica tradizione come Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, appare più che significativo: forse profetico. Nel mondo dove tutto sta diventando città e quel che era campagna è sempre più eroso dall'espansione delle periferie nel mondo avanzato, e delle bidonville nel mondo che un tempo si considerava “terzo”, un monastero urbano diventa il germe di una nuova missione, THEMA I MARZORATI I 26

Un progetto preparato da Giancarlo Marzorati per costruire un novo insediamento monastico sull'area dove un tempo sorgevano le imponenti acciaierie Falck a Sesto San Giovanni (Milano). L'ipotesi prevede un chiostro circolare attorno al quale si raccolgono le varie parti del monastero. L'ubicazione è da decidere: o sotto lo scheletro dell'immenso edificio denominato “Pagoda”, una delle maggiori strutture che erano contenute nel perimetro delle acciaierie, o nel prato vicino. Il monastero dovrebbe sorgere accanto alla Città della salute e della scienza, nuovo polo sanitario d'eccellenza alle porte di Milano.

quella che col principio del lasciarsi coinvolgere nel mondo del lavoro solo uomini di preghiera e di azione come i monaci – e le monache – possono portare avanti.

spiccata attenzione per la qualità ambientale. I requisiti sommari di consistenza della nuova struttura sono riassumibili nella tabella seguente:

Giancarlo Marzorati, architetto che con la sua opera ha accompagnato e guidato Sesto San Giovanni verso la modernità postindustriale disegnando nuove piazze, nuovi svincoli stradali, nuove torri per uffici e residenziali che sono diventati il simbolo e il vessillo della nuova città, ha abbracciato con entusiasmo l'idea e ha tracciato una duplice ipotesi. Quella di uno spazio circolare che, spiega Marzorati, “ha la forma di una goccia che cade nell'acqua generando tutto attorno un'onda circolare. Si tratta di un chiostro centrale attorno al quale si raccolgono gli spazi dell'accoglienza, la chiesa, le celle dei monaci. Il tutto ricoperto dal prato: inserito nel parco. Natura e architettura fusi assieme”. Lo spazio centrale è facilmente accessibile da molteplici passaggi che interrompono la continuità del colle erboso sotto cui vive il monastero. E al centro del chiostro, la croce. Così il monastero urbano diventa luogo di risacralizzazione: nella memoria del lavoro dei tanti che qui hanno sudato agli altiforni. Nell'auspicio che il futuro sia sempre di più aperto al dialogo, alla tolleranza, all'accoglienza: quella insegnata dal messaggio evangelico. Presentiamo di seguito la relazione stesa dallo Studio di architettura di Giancarlo Marzorati in merito al progetto di monastero urbano.

- Estensione complessiva dell'area interessata al Monastero: circa 5.000 mq comprensivi del verde che deve corredare la parte edificata a suo necessario complemento. - La comunità monastica è prevista composta di 5 suore e 4/5 fratelli: comunità conventuale con propria clausura. - Accoglienza per ospitalità di 6/7 ospiti oltre a una decina di camere per allettati (malati). - Accoglienza quotidiana con mensa rivolta anche ai poveri, con capienza di almeno 150 persone che pranzano con la comunità francescana. Servizi di accessibilità, cucina, logistica e accessori occorrenti. -Chiesa comune aperta alla città con capienza non inferiore a 300 persone con elevata qualità architettonica e spazi accessori occorrenti. - Edificazione al piano terra con spazi per parcheggio pertinenziali e funzionali alle diverse destinazioni. Al livello superiore le camere e gli spazi di clausura. - Progetto architettonico sviluppato attorno al chiosco centrale, elemento caratteristico e di condivisione delle funzioni come agorà dell'intero monastero. Luogo di incontro, di accoglienza, di preghiera di comunità. -Edificazione improntata a concetti di bioarchitettura, contenimento energetico e di durabilità e modesta manutenibilità. Di semplice lettura e fruibilità. - La comunità necessita di insediamento iniziale sufficiente alle attività basilari con eventuale sviluppo successivo diluito nel tempo con ipotesi di incremento delle funzioni. - Il luogo dovrà valorizzare l'aspetto storico testimoniale del lavoro che qui ha la propria storia e le proprie ragioni vitali e rendersi disponibile a tutti.

Ipotesi di progetto per un monastero L'iniziativa prevede la realizzazione di una realtà inserita nella città e collegata fisicamente alla struttura sanitaria di cui è complemento. Si tratta di un insediamento all'insegna dell'ospitalità, condivisione e servizio a favore della povertà e marginalità, pensato con


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I THEMAFOTO4 I FOTO1/ La «pagoda» oggi. Oggi un elemento di archeologia industriale, l'edificio T 3 copre una superficie di un ettaro ed è alto oltre 30 metri, diviso in quattro campate. All'origine, negli anni '70, ospitava un forno elettrico a colata continua. L'edificio è contraddistinto dalle grandi chele metalliche che emergono sopra la copertura. FOTO2/3/4/5/ Vista prospettica, pianta e diverse prospettive dell'ipotesi progettuale a “Cratere” da realizzarsi in una zona a prato vicina alla nuova Città della salute. L'edificio si raccoglie attorno al chiostro rotondo al cui centro sta uno specchio d'acqua da cui emerge la croce. Diversi varchi permettono il passaggio. La struttura è tutta in legno con copertura verde. FOTO 6/7/8/9/ Viste prospettiche, piante e planimetria dell'ipotesi progettuale che prevede di inserire il monastero entro il perimetro della struttura “T3”, edificio vincolato come testimonianza di “archeologia industriale” che fu uno dei poli principali delle acciaierie Falck. Il progetto è sostanzialmente simile, struttura in legno e tetto verde che sale senza soluzione di continuità dal terreno. Chiostro centrale: la tradizione monastica rivisitata secondo criteri contemporanei.

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Il Santuario della Santa Casa di Loreto I THEMAFOTO8 I

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Tracce del sacro nel South England Le chiese salvate da “The Churches Conservation Trust” Michela Beatrice Ferri

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splorare il South England, le sue sette contee che si affacciano sullo stretto della Manica – Kent, East Sussex, West Sussex, Hampshire, Dorset, Devon, Cornwall –, per poi proseguire nel suo Somerset – il cui territorio pianeggiante presenta le stesse caratteristiche del resto del Sud – e immergersi nel suo Wiltshire, può permettere al visitatore di entrare nel cuore pulsante della Greater London ormai consapevole di che cosa sia l'autentica England – almeno, quella della parte meridionale della grande isola. Se la storia di questa terra è avvincente, la storia di come il Cristianesimo sia arrivato qui lo è ancora di più. È ovvio che spingersi alla ricerca delle tracce del “sacro” visitando il South England significa chiedersi, anzitutto, che cosa si intenda per “sacro” e quale rapporto esso abbia avuto con la storia di questi luoghi. Come è accaduto e come accade nel resto del pianeta, anche nelle campagne del sud dell'Inghilterra la presenza del “sacro” si può ritrovare in ogni luogo realizzato per il culto. Non è possibile, però, sapere con certezza quanti culti e quanti luoghi adibiti ad essi abbiano trovato spazio in queste zone, così come richiederebbe una trattazione più estesa esaminare ed elencare tutte le chiese che popolano le contee del South England e che lo rendono così affascinante e al contempo così diverso dal resto dell'Europa. Ho optato per una scelta: accompagnarvi andando alla scoperta di alcune delle chiese del South England protette e salvate dal “The Churches Conservation Trust”. Ricordate che laddove il luogo di culto è un tutt'uno con il paesaggio che lo ospita, e quindi laddove artificio e natura si uniscono per dare vita ad un aspetto caratterizzante e particolare di un determinato ambiente, preservare e salvare dalle intemperie e dalla rovina del tempo un luogo di culto, significa aiutare il paesaggio a continuare a vivere al di là del tempo e della sua stessa storia. THEMA I FERRI I 28

Il “The Churches Conservation Trust” – nato come “Redundant Churches Fund” – è un ente di beneficienza con sede a Londra istituito nel 1969 dal Parlamento e dalla Chiesa d'Inghilterra per la conservazione delle chiese o delle parti di chiese di interesse storico e archeologico o di una certa qualità architettonica, per la maggior parte non più utilizzate come luoghi di culto a causa delle loro condizioni. Finanziato in parte dal “Department for Culture, Media and Sport”, così come dai “Church Commissioners”, e, dal 2001, anche dal grande pubblico e da altri enti, questo organismo è stato in grado di mettere in salvo, finora, più di 340 edifici, e le sue chiese accolgono ogni anno più di un milione e mezzo di visitatori. Si presenta, oggi, come la più grande opera di raccolta di chiese storiche del Regno Unito – che vanno dal gioiello “medieval” pressoché intatto presente in alcuni ambienti rurali idilliaci, alla magnifica chiesa in tipico stile vittoriano sita in un centro urbano, alla chiesa con gravi problemi di riparazione che necessita di un poderoso intervento per potere sopravvivere nel tempo. Il “The Churches Conservation Trust” si occupa, quindi, di quelle chiese considerate degne di conservazione, di riparazione e di manutenzione per una vasta gamma di motivi, tutti legati al loro significato storico, architettonico o culturale. L'obiettivo principale della sua azione è quello di mantenere le chiese strutturalmente sane, protette dalle intemperie e di renderle visitabili. Il lavoro di questo organismo sostiene annualmente la produzione di circa cinquanta botteghe artigianali inglesi, e consente a circa 3.500 volontari di svolgere un ruolo fondamentale nella salvaguardia di questi antichi edifici. La maggior parte delle chiese rimangono consacrate – sebbene non vengano utilizzate da tempo – e molte tra esse sono ancora luogo

Oltre 340 edifici di origine ecclesiastica e di valore storico, che vanno dal medioevo all'800, sono stati preservati grazie al “Fondo per la conservazione delle chiese”, istituito nel 1969. La presenza di tanti luoghi di culto è la cifra della particolarità della regione. Preservare e salvare dalle intemperie e dalla rovina un luogo di culto, significa aiutare il paesaggio a continuare a vivere al di là del tempo.

di ritrovo per le celebrazioni. Le comunità locali sono incoraggiate a usare questi spazi per attività ed eventi adeguati. Al contempo, questi edifici forniscono una risorsa educativa, permettendo ai bambini e ai giovani di studiare la storia e la storia dell'architettura dei luoghi in cui vivono. Partiamo dalla contea del Kent, non solo “il giardino dell'Inghilterra” ma, prima ancora, l'antica Cantium. Tra le diciassette chiese preservate grazie all'azione del “The Churches Conservation Trust”, la All Saint's Church, nella zona del West Stormouth (foto 1), è un gioiello di epoca sassone sorge nascosta tra gli alberi nel delizioso ambiente del Little Stour. Pian piano che si ci avvicina, si notano dapprima la guglia e poi la torre campanaria. Circondata da un piccolo cimitero, si presenta severa e robusta con i suoi mattoni grigi in pietra. Il richiamo alle sue origini sassoni è forte, sebbene molti siano stati i cambiamenti stilistici tuttora evidenti. Scopriamo che la chiesa venne danneggiata verso la fine del quattordicesimo secolo; ricostruita, fu ristrutturata nel 1845 e rimase in uso fino al 1979. All'interno è conservato un pulpito del diciassettesimo secolo e un organo che mostra ancora la leva di pompaggio originale.

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Entrando in quello che fu l'antico Regno del Sussex non si può non sostare nei pressi delle Seven Sisters per ammirarne il biancore che si affaccia imponente sul mare. Nell'East Sussex sono due le chiese messe in salvo: la Saint Andrew Church, a Hove, e la Saint Peter's Church a Preston Park (foto2). Quest'ultima presenta un ambiente interno che lascia il visitatore a bocca aperta, anche dopo circa otto secoli di vita e varie vicissitudini. Sita nel suggestivo parco di Preston Manor, nel 1906 purtroppo fu danneggiata da un incendio che causò la scomparsa di molti dei suoi “wall paintings” risalenti al quattordicesimo secolo. I frammenti dei dipinti spiccano nei colori rosso e marrone contro le pareti tinteggiate a calce, e tra questi è possibile cogliere la scena dell'assassinio di Thomas Becket nella cattedrale di Canterbury. Un grandioso restauro effettuato nel ventesimo secolo ha permesso la sistemazione delle pareti, delle finestre e della pavimentazione attorno all'altare sulla base di una splendida combinazione di modelli e di colori. Tra le sei chiese del vicino West Sussex, rimanendo molto indietro nel tempo decidiamo di visitare la Church of Saint Mary Magdalene a Tortington, nei pressi della nota Arundel (foto 3). Risalente al dodicesimo secolo, dall'aspetto chiaramente medievale, ci invita a entrare attraverso una porta imponente con tre cinghie di cerniera ornamentali. Al suo interno sono presenti i “beakheads” – disgustosi mostri con becchi, lingue e tentacoli da calamaro che sembrano disapprovare l'abbagliamento dei visitatori, probabilmente un tempo dipinte con colori vivaci per intrattenere o per terrorizzare chi entrava. Nello Hampshire – la contea dei due grandi porti Portsmouth e Southampton – merita una visita la Saint Mary's Church, ad Hartley Wintney, nei pressi di Hook (foto 4).

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Circondata dal verde e immersa in un ambiente dall'aspetto silenzioso, su una collina, fu originariamente costruita per ospitare un ordine religioso femminile. Costituita dalla navata e dal coro risalenti al tredicesimo secolo, presenta i transetti e la torre che furono aggiunti, come si può notare, nel diciannovesimo secolo. Sempre al tredicesimo secolo risalgono resti di affreschi, tra cui una rappresentazione di San Cristoforo. Il Dorset e il Devon anticipano la meravigliosa Cornwall con la ripresa di tutti gli elementi del paesaggio tipici delle contee viste finora. Anch'essi collinosi, anch'essi affascinanti, presentano qua e là chiese ormai in disuso anch'esse preservate grazie al “The Churches Conservation Trust”: prendiamo l'esempio della piccola ma graziosa Saint Cuthbert Old Cancel, a Obore, nel Dorset, e della Holy Trinity Church a Torbryan, nel Devon. La prima (foto 5) – un incantevole edificio in pietra dal colore dorato – è stata costruita nel 1553 e presenta alcuni elementi del diciassettesimo secolo. La seconda, immersa nella campagna collinosa del Devon (foto 6), si raggiunge passando attraverso vicoli stretti caratteristici di questa contea. Il visitatore rimane stupito per le dimensioni della chiesa, poiché si colloca in un paesaggio che non ne presenta di questo genere. Si tratta di un tipico esempio dello stile “Gothic Perpendicular”, costruito verso la metà del quindicesimo secolo. Di aspetto superbo, con una torre che si innalza come baluardo di questo stile architettonico, mantiene al suo interno una sorta di indipendenza stilistica che la salvò dallo zelo puritano della Riforma. Nella suggestiva Cornwall – una terra che si differenzia dal resto del South England, nel suo paesaggio così come nel suo allungarsi verso il mare oltre lo stretto della Manica – una sola chiesa è stata preservata. Si tratta della chiesa

di Saint Anthony in Roseland, a Portscatho, nei pressi di Truro (foto 7). Una caratteristica particolare di questa chiesa è di avere mantenuto la sua originaria pianta a croce medievale, pur essendo stata interamente restaurata nel diciannovesimo secolo. Costruita verso la metà del dodicesimo secolo, è considerata il migliore esempio di chiesa parrocchiale costruita tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo tuttora presente nella contea del Cornwall. Spostandoci verso nord, in direzione della Capitale, ci immergiamo dapprima nella contea del Somerset e poi in quella dello Wiltshire. Tra le diciotto chiese del Somerset messe in salvo dal “The Churches Conservation Trust” merita una visita la Saint Thomas à Beckett Church, a Pensford, nei pressi di Bristol (foto 8). La chiesa è in fase di recupero: costruita verso il quattordicesimo secolo in quello che oggi si presenta come un grazioso villaggio, nel corso del tempo una sua parte purtroppo è stata trasformata in un'abitazione privata. Ci addentriamo nella contea dello Wiltshire, nota per la sua meravigliosa “piana di Salisbury”, che ospita il complesso megalitico di Stonehenge. L'atmosfera è ancora più suggestiva se questa area viene attraversata in estate poco prima del tramonto (ma occorre essere fortunati e avventurarsi da quelle parti in una calda e limpida serata) lasciandosi alle spalle Salisbury per recarsi in direzione del villaggio di Rollestone, vicino a Shrewton. Qui la Saint Andrew's Church (foto 9) è la chiesa del luogo, costruita nel tredicesimo secolo, con due grandi finestre perpendicolari e una piccola torre campanaria aggiunta nel diciannovesimo secolo. In un'area che pullula di reperti archeologici, in questo caso specifico e in questa area in particolare, il “sacro” testimonia una presenza sul territorio caratterizzata da elementi diversi e THEMA I FERRI I 29


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“Il paesaggio sacralizzato” prima e dopo il terremoto in Friuli del 1976: Cjase di Diu, cjase nestre – Casa di Dio, casa nostra Don Sandro Piussi e Arch. Daniela Omenetto

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n Friuli, a seguito del sisma del 1976, le chiese distrutte furono 114, quelle gravemente lesionate 234, quelle lesionate 484; 41 campanili furono distrutti, 119 gravemente lesionati e 210 lesionati. Le canoniche distrutte furono oltre 95, 46 gravemente lesionate e 164 lesionate. Il bilancio complessivo della ricostruzione, a trentasette anni di distanza, rivela che l'aspetto di gran parte del territorio friulano è stato profondamente rinnovato. Gli edifici ecclesiastici ricostruiti ex novo, 57 nell'Arcidiocesi di Udine, sono caratterizzati da un lato dall'utilizzo di linguaggi e rimandi alla tradizione del territorio, dall'altro da forme architettoniche moderne. Con il completamento, nell'agosto del 2009, del restauro della parrocchiale di Forgaria e la realizzazione del campanile di Maiano nel maggio 2012, è giunta al termine la stagione della ricostruzione post terremoto in Friuli. L'ingente patrimonio edilizio di chiese, campanili, chiesette votive, insieme con i paesi ricostruiti, è stato al centro di un percorso complesso e travagliato, protrattosi in un tempo dilatato fino all'oggi. Le scosse sismiche del 1976, tra maggio e settembre, coinvolsero un'area di 5.700 Kmq comprendente 137 comuni (45 comuni “disastrati” come Gemona e Osoppo, 40 “gravemente danneggiati” e 52 “danneggiati” tra Udine e Pordenone, con l'eccezione di tre comuni nella provincia di Gorizia). La zona maggiormente colpita fu quella tra l'area pedemontana e le Alpi Carniche, con epicentro tra i comuni di Gemona, Osoppo e Trasaghis. Il territorio friulano, caratterizzato da valli e catene montuose, ricco di piccoli borghi e frazioni che si identificano nei loro campanili, chiese e chiesette votive, fu pesantemente danneggiato. Nella maggior parte dei casi si trattava di chiese situate all'interno del tessuto edilizio, con THEMA I PIUSSI - OMENETTO I 32

affaccio sulle vie principali o sulla piazza del paese. Il paesaggio era poi coellato da un gran numero di chiesette votive, costruite in aree scarsamente insediate e a volte accessibili solo da sentieri, e di pievi realizzate su sedimi molto antichi. La devozione popolare e l'attaccamento a questi luoghi hanno portato, dopo il sisma, un netto rifiuto verso soluzioni che prevedevano il trasferimento nella periferia di Udine o la ricostruzione attraverso sistemi di prefabbricazione. Il timore della perdita dell'identità culturale spinse intere comunità a divenire soggetto da ascoltare e consultare per programmare le modalità della ricostruzione di case e chiese insieme. Le comunità si ritrovarono così a condividere tutto, precarietà inclusa, e a partecipare in modo attivo alla rinascita, richiedendo la ricostruzione di vie, piazze, edifici religiosi in cui identificavano la propria storia. Non doveva essere trascurata nessuna chiesa votiva o minore. L'importanza del ruolo della chiesa e della torre campanaria nel tessuto urbano e nella memoria collettiva spingevano verso la ricostruzione in forme filologiche o secondo il principio del “com'era dov'era”. Fra tutti vale l'esempio di Venzone, che risorse “com'era e dov'era” grazie alla tenace determinazione dei suoi abitanti. Alla Fabbriceria e ai cosiddetti ricercatori di pietre si deve il restauro attraverso anastilosi e recupero delle murature superstiti del Duomo di Sant'Andrea Apostolo. Una molteplicità di fattori ha inciso sulla scelta di come operare tra le molteplici soluzioni possibili, in particolare il tipo di danno e le richieste delle comunità e dei committenti. La stessa soggettività di tecnici, progettisti e soprintendenti chiamati a redigere o valutare i progetti, ha portato spesso ad accogliere o

Il sisma in Friuli ha costituito un punto di partenza, una nuova fase piena di attese e speranze anche per la Chiesa. Poiché si pose mano alla ricostruzione nella prima età del post concilio, i suoi risultati , rappresentati da 57 chiese nell'Arcidiocesi di Udine, possono essere letti oggi anche dal punto di vista liturgico. Edificare fu allora un vero e proprio banco di prova, un'occasione unica di sperimentazione in cui si tradussero gli indirizzi conciliari. Le chiese post sisma sarebbero divenute le chiese del 2000. Molte sono state ricostruite secondo il principio “com'era e dov'era”, altre secondo modalità innovative, in altri casi si conservano i ruderi come testimoni. Diverse modalità per interpretare un bisogno sentito da tutti: non dimenticare l'evento, ricordare l'afflato solidario della ricostruzione, conservare la memoria di quanto avvenne, prima e dopo il sisma.

Chiesa dei Ss. Pietro e Paolo app./ Maiano. Prima e dopo il terremoto, 1989, ing. Tito De Biasio. La ricostruzione del nuovo campanile con il mantenimento del basamento dell'antico costituisce l'ultimo intervento realizzato in Friuli dopo il sisma, concluso nel 2012 su progetto dell'ing. Lorenzo Saccomano. / Photo F. Martelli Rossi


Duomo di Sant'Andrea ap. / 1988-95, Venzone / Photo F. Martelli Rossi

respingere determinate soluzioni, operando anche indipendentemente dalla condizione di partenza. A partire dalla localizzazione e dall'entità dei danni subiti, si può osservare la prevalenza, fino al 1986, di due modalità di intervento: da una parte la ricostruzione filologicamente corretta o in forme moderne in aree disastrate o dove l'intero tessuto urbano era stato pesantemente compromesso, dall'altra interventi di restauro e consolidamento dei manufatti in aree valutate danneggiate. Numerosi furono i casi di ripristino e consolidamento dei campanili tra il 1976 e il 1986, mentre a poca distanza continuarono a giacere per anni i resti e le macerie dell'attigua chiesa. Si vedano, ad esempio, la chiesa di San Giorgio a Lusevera o la chiesa di Sant'Antonio di Padova a Torlano.

Chiesa di Sant'Antonio di Padova / Torlano Photo F. Martelli Rossi

Chiesa di S. Giorgio /1992, Lusevera / Photo F. Martelli Rossi

La ricostruzione della chiesa di San Giacomo a Cergneu, in comune di Nimis, richiese tempi e procedure più lunghe rispetto al ripristino del campanile. La cella del campanile, infatti, viene ridisegnata nel 1983, mentre la ricostruzione della chiesa termina nel 1991 (foto_in album). La chiesa dei Santi Vito, Modesto e Crescenzia a Oseacco, nel comune di Resia, vede oggi l'antica torre campanaria inserita nel tessuto urbano, mentre la nuova chiesa è stata ricostruita in posizione più periferica . In altri casi la stessa comunità richiese, per mutate esigenze, il ridimensionamento della propria chiesa e del campanile, come nel caso della chiesa della Beata Vergine Immacolata a Pioverno (foto_in album). L'allontanamento dall'evento calamitoso, il mutare delle tecniche, delle tecnologie e l'evolversi delle idee di restauro, hanno portato poi ad accettare anche altre possibili modalità di intervento o non intervento. Dopo il 1986 si registrano così anche alcuni progetti in cui la parte superstite antica e quella di nuovo apporto dialogano, come nel caso della facciata della chiesa di Santa Maria di Fossale a Gemona. In diversi interventi a cura della Soprintendenza viene lasciata traccia della memoria del sisma attraverso il differenziale dato dalla risega tra le porzioni murarie superstiti e quelle di nuova costruzione. Nella chiesa di San Lorenzo a Forgaria e nella pieve di Cesclans si possono osservare tali differenziali, in particolare nella facciata e nella zona absidale, sebbene per entrambe le chiese a lungo fossa prevalsa l'ipotesi del mantenimento a rudere. Nella pieve di Santo Stefano a Cesclans, infatti, dopo lo sgombero delle macerie, tra il 1984 ed il 1985, si realizza il consolidamento statico e la reintegrazione della macro lacuna del campanile, lasciando le porzioni superstiti della navata laterale a rudere. Solo successivamente si opta per la ricostruzione della chiesa,

inaugurata nel 2009, e la realizzazione di appositi spazi museali per la sistemazione archeologica dei reperti venuti alla luce in successive campagne di scavi (foto_in album). Rispetto a quanto teorizzato subito dopo il sisma, il mantenimento a rudere non è stato frutto di una precisa scelta progettuale, fatta eccezione per un unico caso, ma dettato da fattori economici e dal trascorrere del tempo. Questo ha portato a considerare le cosiddette “mancate ricostruzioni”, come la chiesa di San Giovanni Battista a Venzone, come dei ruderi veri e propri (foto_in album). Allo stato attuale permangono, inoltre, alcune cosiddette “ferite da rimarginare”: si tratta di edifici simbolo non ancora ricomposti, andati quasi completamente distrutti, sui quali la progettualità si è interrotta o non è mai stata avviata. La diversa percezione, nuovo utilizzo o non utilizzo che se ne fa e il tempo trascorso dall'evento portano anch'essi, come la chiesa di Santo Spirito a Moggio Udinese, ad essere considerati dei ruderi. In realtà, un unico caso di mantenimento a rudere e sistemazione a parco urbano è costituto dalla cinquecentesca chiesa di Santa Maria delle Grazie a Gemona, che si configura come un vuoto urbano (foto_in album). Emblematico risulta il caso della chiesa di Santa Margherita a Trasaghis, edificio ecclesiastico ricostruito in forme moderne accanto al campanile e ai ruderi dell'antica chiesa, su modello di Coventry (foto_in album). Il sisma in Friuli ha costituito un punto di partenza, una nuova fase piena di attese e speranze anche per la Chiesa. Poiché si pose mano alla ricostruzione nella prima età del post concilio, i risultati della nuova edilizia, rappresentata da 57 chiese nell'Arcidiocesi di Udine, possono essere letti oggi anche dal punto di vista liturgico. Edificare fu allora un vero e proprio banco di prova, un'occasione unica di sperimentazione in THEMA I PIUSSI - OMENETTO I 33


Localizzazione degli interventi di ricostruzione ex novo a cura dell'Arcidiocesi di Udine.

Antologia interventi a cura della Soprintendenza.

Antologia interventi a cura di associazioni, volontari, fondi parrocchiali o altri enti.

cui si tradussero gli indirizzi conciliari. Le chiese post sisma sarebbero divenute le chiese del 2000. Gli interventi di ricostruzione ex novo furono effettuati dall'Arcidiocesi di Udine, quella maggiormente colpita, in Concessione con cinque leggi sui fondi ordinari dal 1976 al 1992.

coglie uno “svolgimento garbato, misurato del tema dello spazio sacro per una comunità”. Molteplici contributi analizzano quindi le diverse modalità con cui sono stati affrontati e risolti i problemi della ricostruzione e quali ne siano gli esiti, quali le tipologie di intervento dal punto di vista dell'adeguamento e miglioramento antisismico, quanto sia stato possibile salvare della pittura murale e quali scoperte ne hanno accresciuto il patrimonio. Un DVD allegato agli atti arricchisce la documentazione fotografica del testo, suddivisa in due sezioni. Per la prima volta nel DVD è proposta la panoramica delle 57 chiese e campanili edificati ex novo, indicandone i progettisti e la data di fine lavori. Di ciascuna chiesa è illustrata la localizzazione, l'inserimento nel contesto abitativo, lo stato prima e dopo il terremoto, l'edificio attuale all'esterno e all'interno. Il reperimento delle immagini delle antiche chiese è stato possibile grazie ai documenti conservati presso gli archivi delle parrocchie, della Soprintendenza, dei Comuni, nonché grazie alla generosità di privati. Quanto agli interventi a cura della Soprintendenza del Friuli Venezia Giulia – come il duomo di Gemona - il DVD ne presenta un'antologia: chiese ricostruite, ripristinate, restaurate o lasciate, in alcuni casi, allo stato di rudere. Sono documentate anche le chiese e chiesette il cui recupero o ricostruzione è stato curato con fondi della stessa parrocchia, dall'opera di volontari o di associazioni. Gli atti si chiudono con una “conclusione aperta”, nella quale si invita a considerare l'importanza del conoscere e del fondare sulla conoscenza l'opera necessaria di valorizzazione e manutenzione cui siamo chiamati. Il mutare delle tecniche e una nuova concezione nei confronti della materia del costruito e della conservazione hanno contribuito al formarsi di una mentalità più attenta al miglioramento antisismico e alla prevenzione.

Per le chiese del Friuli è auspicabile che si programmi la manutenzione degli edifici sacri e in particolare si avverta l'urgenza di intraprendere interventi di prevenzione. A oltre trent'anni dagli interventi di ricostruzione post sisma in Friuli, sarà necessario provvedere al restauro del restauro. Non va dimenticato che il modello Friuli fu possibile anche grazie alla solidarietà, ai gemellaggi, alla sinergia tra i vari enti coinvolti nella ricostruzione di case, chiese e paesi, e soprattutto grazie alla forza della fede. La ricostruzione ha visto uniti i fedeli con i propri parroci, insieme nelle liturgie celebrate prima nella provvisorietà di tende, prefabbricati o a cielo aperto accanto ai ruderi, fino alle animate discussioni per i progetti e, infine, nelle nuove chiese restaurate o costruite ex novo.

Sul tema dell'edilizia ecclesiale dell'Arcidiocesi di Udine prima e dopo il sisma del 1976 recentemente è stata pubblicata l'edizione degli atti di due convegni organizzati nel 2011 e nel 2012. Il volume “Chiese prima e dopo il terremoto, Cjase di Diu cjase nestre” raccoglie gli atti del 1° convegno “Architettura ecclesiale tra storia e attualità” e del 2° convegno “Le chiese del 2000 - La ricostruzione in Friuli nella stagione postconciliare”, organizzati a cura dell'Ufficio Beni Culturali dell'Arcidiocesi di Udine e dell'architetto Giorgio Della Longa. L'edizione per la prima volta illustra quanto e come si è ricostruito, restaurato o lasciato allo stato di rudere, riprendendo le fila dai “desiderata” emersi nel 1979 nel convegno ecclesiale “Cjase di Diu, cjase nestre. Problemi di arte sacra in Friuli dopo il terremoto”. Tale convegno, fortemente voluto nel 1979 da mons. Alfredo Battisti, ha fornito indirizzi di metodo e di programma per la ricostruzione. Diverse furono poi le risposte ai “desiderata” emersi nel 1979, quando comunità parrocchiali, professionisti e istituzioni dettero vita a un lavoro di sinergia e di squadra, modello ancor oggi di quello che è stato riconosciuto come “modello Friuli”. Da un lato si osservano interventi nel solco della tradizione, della memoria e del localismo, come nella nuova chiesa di San Bartolomeo a Portis, dall'altro l'utilizzo di linguaggi diversi, come nel caso della chiesa di San Marco a Campolessi, nel comune di Gemona. In particolare nella nuova Santa Teresa del Bambin Gesù a Molins di Tarcento, come sostiene l'architetto Giorgio Della Longa, si THEMA I PIUSSI - OMENETTO I 34

Chiesetta di Santa Lucia/ 1988-89, Venzone. Intervento a cura del volontariato.

Chiesa della Trasfigurazione / 1989, Moggio Udinese


Dal sisma alla ricostruzione

Chiesa di San Giacomo/ Cergneu, prima e post sisma.

Chiesa della Beata Vergine Immacolata/ Pioverno, prima e post sisma.

Cesclans, Pieve di S. Stefano / Intervento a cura della Soprintendenza, 2009.

Chiesa di San Giovanni Battista/Venzone, facciata e porzioni murarie superstiti.

Ex chiesa di Santa Maria delle Grazie / Gemona

Chiesa di Santa Teresa del Chiesa della Beata Vergine Immacolata / Bambin Gesù /Molinis di Tarcento Gemona, Campagnola

Chiesa di Santa Margherita / Trasaghis, 1994

THEMA I PIUSSI - OMENETTO I 35


Il quartiere senza nome e la sua Eglise Maison

Giorgio Ganis

O

ggi, 2014. Dalla prima periferia di Udine, direzione nord-ovest, entro in città lungo il viale di collegamento tra l'autostrada, il cimitero monumentale, il nuovo centro studi e l'ospedale. All'inizio di un cavalcavia, sulla sinistra, una strana costruzione, isolata fra due alti condomini, sopra una collinetta attira la mia attenzione: la tipica villetta degli anni sessanta\settanta del novecento? no, è la “nuova” chiesa dell'Assunta (foto 1). Ieri, 1965. Dietro le “colline” (ossia i cumuli di terra) di un viale in costruzione, appena tracciato sui campi incolti, tra alti condomini, in mezzo agli ultimi campi faticosamente sottratti all'edilizia privata, si trova una piccola costruzione a due piani, simile a una baracca. È la chiesa provvisoria per la nuova parrocchia di un nuovo quartiere; il primo lotto di quella che avrebbe dovuto essere la nuova monumentale chiesa di Santa Maria Assunta (foto 2). Parto da questo breve ricordo della mia prima infanzia per raccontare la storia e il senso di quella strana costruzione che si può ammirare oggi, ossia la Chiesa dell'Assunzione della Beata Vergine Maria, semplicemente chiamata dagli udinesi chiesa di Santa Maria Assunta. È il racconto dell'esperienza di un progetto spirituale ed edilizio, nato e realizzato coralmente, con tutta la comunità, in un preciso contesto, fisico e temporale, in una delle nuove periferie di Udine, dopo il Concilio Vaticano II, tra la fine degli anni '60 e la prima metà degli anni '70 (foto 3). Non sono il progettista della chiesa e non sono nemmeno un parrocchiano di allora, sono solo una persona “informata dei fatti”: da bambino l'ho vista nascere e trasformarsi (la nonna e i cugini abitavano nel quartiere e così a volte frequentavo la chiesa e la parrocchia) e recentemente ho ricostruito la sua storia (fisica e liturgica) in due articoli pubblicati in QE12 THEMA I GANIS I 36

La nascita del “Borgo dell'Assunta” e della chiesa di Santa Maria Assunta, a Udine: un progetto semplice ma chiaro che ha cercato di interpretare al meglio le linee del Concilio, a pochi anni di distanza da questo. Una contemporanea “Domus Ecclesiae” esprime l'afflato della comunità che la volle così, spoglia e priva di simboli, perché convinta della scelta che comportava la rinuncia alla monumentalità. Senza con questo ridurre la carica di “sacralità” che la nuova chiesa ha portato al quartiere.

Quaderni dell'Ecoistituto del Friuli Venezia Giulia ”Santa Maria Assunta: una Eglise Maison a Udine” (a cura di Francesco Chinellato e Anna Pellegrino, Udine 2013.) Il paesaggio sacralizzato La “collinetta”, ossia l'ampio sagrato erboso, è una delle caratteristiche principali di questa chiesa (foto 4-5). Questa area verde, leggermente rialzata rispetto alla strada, è coronata da un muro in cemento, dove c'è l'ingresso principale che immette nel chiostro, (foto 6-7), fulcro di tutto il complesso. Dal chiostro si entra all'atrio sud e da questo nell'aula e nella stanza per le confessioni. L'aula della chiesa è stata così protetta, e tenuta più lontana possibile dal traffico stradale. Oltre il chiostro, verso nord, c'è un campo giochi immerso nell'area verde e un teatrino all'aperto (foto 8-9). Il quadriportico ricorda la casa romana dei primi cristiani, ma anche lo spazio antistante alle prime cattedrali del IV secolo, quando “era denominato “paradiso” ed era ritenuto un elemento indispensabile della basilica cristiana”. (E. Abruzzini, “Arte e liturgia”, San Paolo 1993). Nel portico ci si isola dal mondo esterno e dai condomini che sovrastano la chiesa e nell'area verde interna, una scultura realizzata con un blocco grezzo di pietra di Torreano rimanda all'altare, realizzato con lo stesso tipo di pietra, nell'aula.

I THEMAFOTO1 I photo Giorgio Ganis, 25 aprile 2013, Archivio arch. Giorgio Ganis, Udine

I THEMAFOTO2 I photo Alberto Caroncini, 1965, Archivio ing. Alberto Caroncini, Udine

I THEMAFOTO3 I photo Bing Maps, luglio 2012, Internet

I THEMAFOTO3a I Disegno da “Carta Tecnica Regionale numerica”, Udine 066112, 2006, Regione Friuli V.G._ particolare


I THEMAFOTO4 I photo Giorgio Ganis, 25 aprile 2013, Archivio arch. Giorgio Ganis, Udine

I THEMAFOTO5 I photo Giorgio Ganis, 1 aprile 2013, Archivio arch. Giorgio Ganis, Udine

Area verde, sagrato, chiostro, teatrino e chiesa costituiscono un tutt'uno: dall'esterno si vede cosa succede dentro l'aula e dall'interno si vede cosa accade fuori. I progettisti, o meglio la Comunità, vollero che la vita quotidiana entrasse nella chiesa e che dalla chiesa si potesse vedere la vita quotidiana. Nel chiostro e nel retrostante parco si ritrovava quella comunità sorta assieme alla Chiesa (foto 10).

inglobato è diventò un'ala laterale dell'aula principale, mentre la grande chiesa, non ancora realizzata, fu riprogettata totalmente e ridimensionata e tenuta più lontana possibile dalla strada principale. La piccola costruzione già realizzata guidò così, almeno nella planimetria, quello nuova; anche la quota di ingresso, che è a livello del chiostro, corrisponde a quella della chiesetta provvisoria. L'aspetto finale della nuova chiesa, finita nel 1975, è dunque la strana costruzione, simile ad una villetta, che vediamo oggi. Non è facile identificarla come edificio di culto perché non ha alcuna delle caratteristiche di una chiesa tradizionale e nemmeno alcun simbolo religioso. Anche gli adulti non riescono a capire un luogo o un edificio se non vi riconoscono alcuni elementi particolari che li caratterizzano, dato che sono legati agli archetipi appresi da bambini. Lì vicino inoltre è stato costruito un condominio, che invece sembra una chiesa, dato che è alto ed ha un timpano con rosone, sul prospetto lungo il viale. Non aiuta alla sua identificazione come luogo di culto neppure la targa sul muretto di recinzione, all'ingresso verso il viale, perché è inciso: “Parrocchia dell'Assunzione della Beata Vergine Maria”, e non “Chiesa dell'Assunzione …”. Non c'è nemmeno una facciata principale: nulla. Quando dal portico si entra nel piccolo atrio e da lì all'interno della chiesa il disorientamento e lo straniamento sono ancora maggiori perché si cammina su un pavimento di legno e in uno spazio nuovo, nel quale primeggia una scarna e grande mensa, anch'essa di legno, proprio quel grande tavolo che è presente nella cucina di molte case friulane (foto 11-12-13). In altre parole, anche l'interno della chiesa non ha nulla dell'archetipo dello spazio religioso. Eppure proprio di una Chiesa si tratta, con la “C” maiuscola: la “ekklesia” dei primi cristiani, la Comunità dei credenti. Per capire questa strana chiesa bisogna iper lui l

La costruzione della chiesa La cappella provvisoria del 1965 era situata al piano rialzato di un'anonima casetta a due piani (la “baracca”) e l'aula era costituita da una semplice stanza con soffitto molto basso: nulla a che fare con l'aula di una chiesa. Era stata costruita (in poco meno di sei mesi!), fra due alti condomini, ai margini di quel vasto terreno abbandonato, solcato da sentieri e da “colline” artificiali, che si stava trasformando nell'imponente viale Cadore. Il secondo lotto non fu mai costruito e quella “baracca” fu inglobata nel nuovo complesso parrocchiale. I tempi erano cambiati: il progetto monumentale (dell'arch. Giacomo Ria), che si richiamava al concetto di tempio non soddisfaceva più le esigenze del parroco e dei parrocchiani e fu abbandonato. Nel frattempo era morto il progettista e l'incarico fu affidato a un giovane parrocchiano, l'ingegner Alberto Caroncini. Il parroco di allora in una recente intervista ha affermato che: “Non si trattava di costruire una struttura con un progetto già pronto, da cliché più o meno correnti, ma la nostra chiesa”. Fu dunque progettata non solo una chiesa, ma un insieme di spazi a misura della comunità. Il nuovo progetto, iniziato nel 1966, era avveniristico, sconcertava molti ed era contestato da destra e da sinistra, da credenti e perfino da atei! Non fu fatta tabula rasa dell'esistente (che fu

I THEMAFOTO6 I photo Alberto Caroncini, 1990, Archivio ing. Alberto Caroncini, Udine

I THEMAFOTO7 I disegno Giorgio Ganis su foto Foto Bing Maps, luglio 2012, Internet

I THEMAFOTO8 I disegno Giorgio Ganis, 14 aprile 2013, Archivio arch. Giorgio Ganis, Udine

I THEMAFOTO9 I photo Giorgio Ganis, 14 aprile 2013, Archivio arch. Giorgio Ganis, Udine THEMA I GANIS I 37


I THEMAFOTO10 I photo Giorgio Ganis, 3 marzo 2012, Archivio arch. Giorgio Ganis, Udine

I THEMAFOTO10a I photo Giorgio Ganis, 1 aprile

immergersi nel contesto spaziale e culturale che l'ha ispirata. Erano gli anni del secondo dopoguerra con il boom economico, gli anni successivi al Concilio Vaticano II (aperto l'11 ottobre 1962 e chiuso nel 1965). “Mettete nelle chiese la semplicità, la serenità e il calore delle vostre case”, disse Papa Giovanni XXIII agli architetti francesi. Il Concilio invitava ad un rinnovamento. La comunità di Santa Maria Assunta, stimolata dal Concilio, compì una riflessione che la portò a una consapevolezza e una partecipazione attiva e così prima volle e pensò, e poi costruì un edificio per un quartiere nuovo con una comunità nuova e giovane e un parroco altrettanto giovane. Subito capì che non aveva bisogno di una chiesa-tempio, ma di un luogo per pregare e vivere assieme. L'assemblea non era costituita solo da persone che frequentavano la parrocchia in quanto chiesa, ma in quanto luogo di aggregazione e confronto dato che il piano regolatore comunale non aveva previsto alcun servizio. Furono proprio le precise richieste della base che determinarono molte scelte spaziali e funzionali (come l'aula con le pareti mobili per poter sì celebrare i riti religiosi, ma anche concerti e riunioni, o tutti gli spazi annessi come la biblioteca, la foresteria, il refettorio e la piccola cucina, o come il chiostro stesso). La comunità stava nascendo, come una grande famiglia, e come aggregazione di famiglie. C'era un grandissimo senso dell'accoglienza e tutto era fatto assieme: preghiera, lavoro, studio, svago, secondo quel vero spirito c o m u n i t a r i o a u s p i c a t o d a l C o n c i l i o. Accoglievano le persone che avevano bisogno e con loro condividevano tutto (casa, soldi, tempo) vivendo così direttamente il cristianesimo e sperimentando lo spirito dell'agape. La costruzione della chiesa fu veramente un'epopea. Don Nicola valorizzava l'umano perché per lui veniva prima del cristianesimo

per lui la parrocchia chiusa, un'invenzione del XVI secolo, aveva fatto il suo tempo e doveva aprirsi, a nuovi orizzonti che valorizzassero la Comunità . È per questo che anche la chiesa si apre: dalle ampie vetrate trasparenti entra la vita di ogni giorno e sulle pareti, invece delle immagini sacre, entra l'attualità, con le grandi foto di fatti di cronaca: Papa Paolo VI all'ONU, un intervento chirurgico, la nascita di un bambino... In contrapposizione al caos prodotto dall'edificazione selvaggia, era uno spazio di pace e di preghiera circondato dal verde, per tutta la comunità, dove svolgere non solo le funzioni religiose. Nel chiasso della città nuova era necessario un momento di pausa, un'oasi di tranquillità (foto 14). Era stata pensata ed è stata realizzata proprio una casa, nel verde, sopra un leggero pendio, in una zona della città priva di case, perché satura di palazzi. Attorno alla casa è stato costruito un portico; dietro hanno realizzato un giardino e poi, adiacente al parco, il Comune ha edificato una casa per i figli: l'asilo.

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2013, Archivio arch. Giorgio Ganis, Udine

I progettisti e quel che venne prima Gli autori di questa opera sono l'ing. Alberto Caroncini (per la parte architettonica) e l'ing. Dario Vendruscolo (per la parte strutturale), ma il vero progettista è don Nicolino Borgo. Il Vescovo di Udine nel maggio 1964 decise di formare una nuova parrocchia ed incaricò Don Borgo che fu nominato parroco del nuovo quartiere nell'ottobre 1964. Si mise subito al lavoro ed assieme alla Curia ed ai parrocchiani comprò i terreni strappandoli alla speculazione edilizia e già alla fine del gennaio 1965, sotto la neve, con la posa della prima pietra, iniziarono i lavori della nuova chiesa (quella provvisoria); il 5 giugno dello stesso anno, dopo solo pochi mesi, la chiesa fu consacrata. Il parroco pensò poi per quasi dieci anni alla nuova chiesa, assieme al progettista ed a tutti parrocchiani, e “visitò”, prima nelle riviste di

I THEMAFOTO11 I photo Alberto Caroncini, 1975, Archivio ing. Alberto Caroncini, Udine

architettura e poi direttamente le nuove chiese, per affinare le idee che stavano formando. Don Borgo, con l'ing. Caroncini andò a vedere le ultime nuove realizzazioni nella periferia di Bologna volute dal Cardinale Giacomo Lercaro. Visitarono anche le opere degli architetti Glauco Greslieri e Silvano Varnier nella zona di Pordenone che si ricollegavano alle esperienze bolognesi, ma che erano più vicine al loro sentire. Andarono a trovare Enzo Bianchi, Priore di Bose (Biella), la piccola Bose di allora, e andarono a trovare Padre David Maria Turoldo a Sotto il Monte (Bergamo), che li sconsigliò di fare chiese in quei tempi. Don Borgo, assieme a un parrocchiano, andò anche a vedere nel nord Europa, specie nel Belgio francese e fiammingo, nel Brabante sotto Bruxelles, le “églises-maison”, che già conoscevano attraverso la rivista “Art d'église”, che allora leggevano nella Biblioteca del Seminario di Udine. Andarono a studiare quelle chiese semplici e in particolare quelle dell'architetto belga Jean Cosse, tra cui l'église di Saint-Paul, à Waterloo, del 1968. L'idea di costruire una casa-chiesa piacque subito alla comunità che, dopo opportuni approfondimenti, la adattò. Nulla di troppo oltre lo stretto indispensabile, sia come esigenza etica, sia come esigenza materiale, per la ristrettezza dei mezzi a disposizione. La chiesa è sobria, negli spazi e nei materiali, proprio come raccomandano le varie norme CEI. Nel 1975 la chiesa nuova è in pratica finita (a parte le rifiniture: il pavimento in legno, alcuni arredi). Don Nicola Borgo, in un libretto di presentazione del progetto per la nuova chiesa, scrisse: “La nostra «chiesa» si avvicinerà alle caratteristiche di una «casa», con particolare attenzione per tutto ciò che facilita l'incontro, la conoscenza, il dialogo, lo scambio, in una parola lo «stare insieme» partecipato, critico e creativo”.


I THEMAFOTO12 I photo Alberto Caroncini, 1975, Archivio ing. Alberto Caroncini, Udine

I THEMAFOTO13 I photo Alberto Caroncini, 1975, Archivio ing. Alberto Caroncini, Udine

I THEMAFOTO14 I photo Bing Maps, 29 aprile 2012, Internet

Ancor oggi in questa chiesa, sia all'interno, sia all'esterno, si è immersi totalmente nel nuovo e si respira quell'aria di casa, semplice e comunitaria, che don Nicola e il progettista hanno realizzato con il contributo, anche materiale, di tutta la comunità parrocchiale. La chiesa di Santa Maria Assunta a Udine è unica perché è nata in un quartiere “giovane”, con gente giovane e colta, con un parroco giovane e un progettista giovane che nel Concilio Vaticano II hanno veramente creduto; con il Concilio sono cresciuti, con il Concilio hanno sognato e sono riusciti, coralmente a realizzare i loro sogni. Questa chiesa è unica proprio perché il suo spazio e le sue forme rispecchiano le idee di un tempo ben preciso, per una comunità ben precisa, in un luogo ben preciso, periferico e senza tradizione, di una città in veloce espansione e dunque nuova. Il luogo era senza storia, senza alcun legame con il passato dato che erano solo campi senza abitazioni, e questa chiesa è riuscita a materializzare con forme nuove il “clima” dei primi anni '70 del '900. Oggi viviamo in un clima diverso e dunque la comprensione di questo complesso architettonico, difficile già all'epoca della sua costruzione, è ancora più ardua. Ci vuole una grande forza etica e grande energia, suggerita dalla fede, e bisogna essere convinti profondamente della bontà delle proprie idee per poterle inseguire, andando contro corrente. Solo così si può riuscire a concepire e realizzare una chiesa totalmente nuova, una “chiesa domestica”, per una liturgia rinnovata, che nessuno ha eguagliato, a Udine e in Friuli. Solo così si possono semplificare al massimo gli spazi esterni ed interni e gli arredi sacri riuscendo nello stesso tempo a fondere l'aspetto materiale con quello spirituale. Solo così si possono omettere all'esterno i simboli religiosi, lasciando che la chiesa si confonda con una casa senza temere equivoci.

Qui è stato realizzato un vero spazio comunitario che favorisce la partecipazione e pone, letteralmente, tutti sullo “stesso piano” poiché non c'è alcun gradino e dunque nessuna separazione fra aula e presbiterio: clero e fedeli sono veramente un'unica Comunità senza gerarchie. (Questo fu uno dei motivi per cui il progetto non fu approvato dalla Commissione di Arte Sacra di Udine, mentre invece fu approvato da quella centrale di Roma!).

APPROFONDIMENTI Per chi volesse approfondire e capire meglio la genesi di questa chiesa rimando al Quaderno dell'Ecoistituto del FVG, QE12, citato all'inizio dell'articolo. Il volume è nato per spiegare la chiesa a chi, istintivamente, la rifiuta senza nemmeno conoscerla ed è anch'esso un'opera corale: quattro professionisti udinesi, due architetti e due ingegneri, hanno analizzato i molteplici aspetti della chiesa. Luciano Di Sopra ha descritto gli aspetti urbanistici e funzionali; Alberto Caroncini (uno dei progettisti) il lungo iter progettuale durato 10 anni della chiesa; Francesco Chinellato ha analizzato gli aspetti architettonici e costruttivi; Giorgio Ganis in due articoli ha raccontato il contesto urbano, un luogo periferico e senza storia , dove è stata realizzata la chiesa e le idee del Concilio Vaticano II che hanno determinato gli spazi e gli arredi liturgici. Don Nicolino Borgo, in una lunga intervista di Anna Pellegrino alla fine del volume, ha descritto il contesto culturale e religioso di quel periodo e le idee che, assieme ai parrocchiani, lo sostennero nella costruzione della chiesa parrocchia perché, come scrive giustamente l'intervistatrice, don Nicola è stato ed è tuttora un costruttore “di chiese e di anime”.

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Paesaggio sacralizzato e militanza ecclesiale

Andrea Longhi e Pietro Pasini

L

a connotazione ascensionale dei luoghi di culto accomuna una pluralità di esperienze religiose, in modo non solo metaforico: le alture, i monti, le vette sono spazi di sacralità archetipica, che emergono da un sostrato antropologico condiviso da molte civiltà. La comune connotazione prevalentemente mistica di tali luoghi alti non deve tuttavia indurre a de-storicizzare il fenomeno: in ogni religione e in ogni temperie storica la salita al monte si è declinata con esigenze spirituali, istituzionali, politiche e sociali diverse. Un sito di altura può essere luogo di ritiro dalla vita secolare, ma può essere al tempo stesso un manufatto architettonico ben riconoscibile e visibile dai territori contermini, proponendosi come modello o come alternativa alla prassi architettonica circostante; un edificio per il culto in posizione elevata può essere spazio di difesa dell'interiorità, ma può anche trasformarsi in postazione ben difesa e munita rispetto alle vicende politiche terrene. In genere, un edificio in 'alto' è fatto per vedere, ma anche per essere visto; può essere costruito per santificare chi ne fruisce direttamente elevandosi, ma anche per condizionare, persuadere, affascinare, interrogare o intimorire chi resta in “basso”. In tal senso, il paesaggio alpino del nordovest ha vissuto una stagione intensa di “ascensionalità sacrale”, al tempo stesso intimamente religiosa e politica, durante i decenni successivi al Concilio di Trento: la cultura borromaica ha innestato nella devozione popolare montana elementi colti di spiritualità biblica e di teologia apologetica, creando nei Sacri Monti alpini una barriera immateriale e materiale verso la penetrazione delle dottrine della Riforma. L'esperienza di un paesaggio sacralizzato in modo militante – difensivo e apologetico al tempo stesso – non è tuttavia confinata nei secoli della Controriforma e del Barocco. Un THEMA I LONGHI - PASINI I 40

fenomeno simile – isolato, ma esemplare nei suoi caratteri architettonici e culturali – è riscontrabile, nel medesimo quadrante alpino, negli anni del Dopoguerra e della Ricostruzione. In quel caso il confine alpino da sacralizzare non è più una frontiera tra sud e nord d'Europa, tra cattolicità e protestantesimo, ma è una frontiera che attraversa la società italiana al suo interno, lacerandola: la fine del secondo conflitto mondiale vede una spaccatura assai articolata, ma comunque profonda, tra il mondo cattolico e le culture politiche ispirate alla filosofia marxista e al socialismo reale. A cavallo delle cruciali elezioni del 1948, che sanciscono la collocazione definitivamente atlantica del nostro paese, le tensioni politiche e culturali assumono forme architettoniche e urbane, ma si manifestano anche in un'inedita operazione di sacralizzazione alpina, decisamente novecentesca per presupposti ideali ed esiti formali. Il promotore dell'iniziativa è Luigi Gedda (1902-2000), protagonista dal dibattito ecclesiale e politico del Dopoguerra, presidente della Gioventù Cattolica e – successivamente – dell'Unione Uomini di Azione Cattolica dal 1934 al 1949, per diventare poi presidente generale dell'Azione Cattolica dal 1952 al 1959. A latere rispetto al suo impegno in Azione Cattolica, Gedda fondò nel 1942 il movimento della Società Operaia, per dotare di solide basi spirituali i militanti più attivi nell'animazione sociale, mentre nel 1948 promosse i Comitati Civici, per intervenire direttamente nella competizione elettorale contro il blocco di sinistra del Fronte Democratico Popolare. L'attività politica e religiosa di Gedda – venata di caratteri autoritari e impregnata di personalismo, come pure, tuttavia, di originali spunti mistici – costituisce una delle pagine più controverse del Dopoguerra italiano, che la storiografia ha recentemente indagato in modo scevro da pregiudizi ideologici e partitici (1).

L'ascesi è un fatto spirituale, ma vi sono luoghi che la rappresentano e la invitano. Riprendendo con interpretazione nuova quanto già compiuto coi Sacri Monti alpini sorti dall'inizio del XVI secolo, Luigi Gedda nel secondo dopoguerra fondò due case per esercizi spirituali montane: di Casale Corte-Cerro (Verbania) e il Getsemani di Capaccio-Paestum. Architetture di grande modernità, dotate di importanti apparati artistici. Oggi la prima è minacciata dall'incuria, a rischio di essere perduta se non si interviene s u b i t o v i n co l a n d o l a e r e s ta u ra n d o l a .

Uno dei tratti finora sottovalutati nell'attività del p e r s o n a g g i o è l ' a tt e n z i o n e a l l ' a r t e , all'architettura e al paesaggio, che si manifesta sia nella sua committenza istituzionale associativa (case e parrocchie di Azione Cattolica: si veda l'articolo in Thema 1, 2012, pp. 36-41), sia nella committenza privata verso le iniziative da lui patrocinate. In tale contesto la sacralizzazione del paesaggio alpino operata con la costruzione del Getsemani di Casale Corte-Cerro (1948-1950) assume un ruolo nodale, dal punto di vista architettonico e artistico, ripreso con pari intensità pochi anni dopo in Campania, nel Getsemani di CapaccioPaestum (1955-1959). La riscoperta storiografica del complesso di Casale Corte Cerro si declina, purtroppo, con l'avanzare inesorabile del degrado seguito al suo abbandono negli anni Ottanta del Novecento: la straordinaria scelta del sito è la ragione della repentina fortuna del complesso negli anni Cinquanta, come pure del suo attuale impossibile utilizzo, descritto nelle pagine seguenti da Pietro Pasini. Queste poche righe possano essere di buon auspicio per una rivalorizzazione di questa montagna sacralizzata in termini contemporanei Il Getsemani di Casale Corte Cerro (Vb) presenta una soluzione assolutamente innovativa di casa di esercizi spirituali: il tema della modernità attraversa sia l'inserimento dell'edificio nel paesaggio, sia le soluzioni costruttive e il linguaggio architettonico. La realizzazione di uno spazio totalmente dedicato alla spiritualità e alla formazione civile non passa attraverso la rievocazione di stili o di gusti retrospettivi, nostalgici, storicisti: la lotta culturale contro il comunismo passa attraverso il messaggio che la modernizzazione non è prerogativa dei regimi anti-cristiani o secolari, ma può essere fatta propria anche dai militanti cattolici. La casa di ritiro diventa quindi una “città sul


La posizione del Getsemani di Casale Corte Cerro in una cartolina postale degli anni Sessanta circa.

Il Getsemani affacciato sulla valle Strona e verso il Lago Maggiore, 1953 circa

Il Getsemani e il sottostante paese di Casale Corte Cerro in una cartolina degli anni Cinquanta.

monte” evangelica (Mt 5, 14) in senso tutt'altro che metaforico: è una vera e propria piccola città, un microcosmo autonomo, dotato di ogni comfort necessario per un adeguato percorso di maturazione spirituale, incluso un cinematografo per le iniziative di propaganda interna; al tempo stesso, il luogo è inaccessibile con mezzi meccanici, ad eccezione di una ardita teleferica; infine, la casa è visibile, ma al tempo stesso domina la visuale su un paesaggio di straordinaria bellezza, ma anche di straordinaria importanza viaria, nello snodo tra la valle d'Ossola, il Verbano e la conca del Cusio, sull'unico poggio da cui si possono abbracciare con lo sguardo i laghi d'Orta e Maggiore. La matrice del linguaggio è organica, attenta alla morfologia e al contesto naturale, ma al tempo stesso il segno è forte, autorevole; il linguaggio moderno è sicuro e colto, declinato funzionalmente nelle diverse attività: vita liturgica comunitaria, meditazione individuale, studio, socializzazione, formazione religiosa e politica comunitaria. L'esperienza formativa 'cosmica' è totale, sia personale sia comunitaria. Le singole 'celle', prive di interferenze visive reciproche, consentono un rapporto individuale e particolare con il creato, perché il giardino di tradizione monastica (in particolare camaldolese (2)) è superato in favore di una fruizione del paesaggio nel suo insieme; ma al tempo stesso la natura è anche scenario di fruizione collettiva, per la preghiera e per la liturgia, come sotto illustrato da Pasini. L'edificio diventa presto un'icona della possibile conciliazione tra sacralità alpina e modernità, tra spiritualità e militanza, tra misticismo e apologetica, le cui valenze innovative prestano tuttavia il fianco alle accuse di autoritarismo rivolte verso Gedda e il suo entourage. La polemica biografia scritta da Caro Falconi (3) così descrive la “Predappio” di Gedda: un «aereo edificio destinato a esercizi spirituali, corsi d'addestramento, convegni […] simile a un grande albergo dotato d'ogni

moderna comodità: dai soggiorni agli eleganti appartamenti e alle camere con bagno, ciascuna provvista d'un solitario terrazzino, dai saloni alla grandiosa terrazza che lo incornicia, all'anfiteatro per le riunioni all'aperto e perfino alla 'passeggiata archeologica' nel bosco-parco. E non basta: questo singolare Getsemani è munito di apparecchi televisivi e di proiezione cinematografica, di altoparlanti diffusi per quasi tutti gli ambienti e, particolare non meno inatteso, vi si giunge ormai con una comoda funivia»; in sintesi, «col suo lusso, una testimonianza delle ambizioni della nuova Azione Cattolica e del suo presidente». Andrea Longhi

Progetto, vita e declino di un'architettura al servizio dell'impegno sociale Il cristianesimo, da san Giovanni Battista agli anacoreti, ha scoperto e valorizzato la necessità dell'uomo di ritrovarsi in solitudine per accrescere il colloquio con Dio. Con sant'Ignazio di Loyola la rigida pratica eremitale viene modernizzata, integrandola con un corso organico di meditazioni: gli Esercizi Spirituali. A tale tema, attualizzato alla temperie culturale dell'Italia del Dopoguerra, si ricollega la casa di Casale Corte Cerro. Nella convinzione che “...chi vuol trasmettere un messaggio all'anima umana per farla risorgere dal sepolcreto della vita moderna, deve anzitutto preoccuparsi di fermare l'uomo, fisicamente, e di isolarlo dai rumori dell'ambiente, cosicché egli sia in grado di ascoltare la voce di Dio e la voce della sua coscienza”(4) , il complesso fu progettato per favorire l'isolamento dal mondo ma, anche, permettere lo svolgimento di una vita spirituale comunitaria. L'insieme degli edifici principali comprende una chiesa-santuario, una Manica Retta per i servizi

comuni come mensa e cucine, biblioteche, sale di studio e di svago e la Manica Curva per le camere da letto. Il Chiostro, richiamo primo al convento medioevale, viene portato con geniale intuizione dal livello del piano terreno al piano di copertura dell'edificio, creando una passeggiata coperta lungo tutta la Manica Curva, protesa verso il paesaggio. Non più una meditazione introspettiva e personale, ma un nuovo approccio al mondo associazionista d'apostolato; come indicato da Pio XII: “non solo difesa, ma conquista”(5). Con il posizionamento del chiostro sulla copertura viene a mancare la necessità di una corte interna chiusa. L'edificio si apre abbracciando lo spazio claustrale solo per tre lati, permettendo così alla natura di permearlo. La Casa è inserita in un parco di pertinenza di circa 100.000 mq, posto sulle montagne che circondano il lago d'Orta. Per favorire il raccoglimento individuale, essa venne dotata di camere singole, ciascuna con balcone e fioriera, sorta di moderne celle monacali con giardino. La disposizione edilizia del complesso in forma curva convessa, sul limitare di un pianoro a mezzacosta e aperto con un angolo di 200° sulla vallata, consente di godere da ogni camera del panorama aperto su monti e laghi. Il contatto con la natura, percepito anche da Gedda come “richiamo primo alle meraviglie di Dio e del Creato” è alla base dell'approccio progettuale. L'accesso alla Casa avviene tutt'oggi esclusivamente tramite una Via Crucis pedonale, inserita in un bosco fittamente piantumato perché “anche le ombre del bosco possano contribuire alla separazione dal mondo e alla meditazione nel quadro della natura”. Percorsa la Via Crucis, il visitatore incontra un torchio in granito, posto a ricordare il significato della parola aramaica Getsemani (ovvero, frantoio). Nel parco, progettato come filtro tra il mondo esterno e i frequentatori della Casa, una fitta THEMA I LONGHI - PASINI I 41


Il chiostro panoramico e l'affaccio delle 'celle', in una cartolina degli anni Cinquanta.

rete di camminamenti esclusivamente pedonali permette di godere del verde e del silenzio, collegando all'edificio principale una serie di emergenze, interpretabili come le 'tappe dell'anima' e pensate per invitare alla meditazione e alla preghiera. S'incontra, quindi, il tempio dello Spirito Santo, una sorta di cappella ad archi parabolici aperta ai venti poiché “lo spirito soffia dove vuole” (Gv 3,8), la Madonna della cascata, dove un torrente, con il suo scrosciare, sembra pregare incessantemente e il Belvedere di San Giuseppe, arricchito da una ben plasmata statua di San Giuseppe e Gesù bambino che invita alla meditazione sulle meraviglie del creato. Più a monte si trovano l'altare della Memoria, luogo in cui un sarcofago romano funge da memento mori, e l'anfiteatro per gli incontri di catechesi all'aperto durante la bella stagione. Poco oltre, è allestita la Passeggiata Archeologica, ricca di manufatti romani, etruschi, rinascimentali, creata per invitare alla riflessione sul passato e per “abituare l'ospite all'ascolto di parole inespresse”. Nel folto del bosco rimane l'Angelo, grande scultura posta a ricordare l'angelo invocato da Gesù nella notte di Passione, e la Croce del Getsemani, realizzata per i giardini di Castel Sant'Angelo a Roma e posizionata al Getsemani dopo alterne vicende burocratiche. Gedda pone molta attenzione alle opere d'arte che arricchiscono il parco del Getsemani, così come l'interno della struttura: “nel silenzio del Getsemani l'arte è una voce (…) quasi una meditazione che si sviluppa, ascoltando le voci di questo mistico silenzio: la voce della natura, la voce della storia e, soprattutto, la voce della fede” (6); il linguaggio usato dai molti artisti coinvolti è nuovo, e in stretto legame con l'architettura, “perché il contributo della creazione e della riproduzione artistica fosse un omaggio dell'umanità redenta al suo Salvatore” (7).

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La teleferica di collegamento tra il fondovalle e la casa (da Il Messaggio del Getsemani, 1961).

Come già accennato da Longhi, al Getsemani anche l'arte sacra parla il linguaggio della modernità. Dismesso e venduto alla fine degli anni Novanta, il complesso versa in stato di abbandono. I progetti di riqualificazione sono, all'oggi, fermi; nonostante l'impegno della proprietà nell'eseguire l'ordinaria manutenzione del Santuario, il complesso e le pertinenze, dal 2009 posti sotto la tutela della Soprintendenza Regionale del Piemonte, sono stati ripetutamente vandalizzati. Fabbricati e terreni sono da poco tornati sul mercato immobiliare. Pietro Pasini NOTE (1) Luigi Gedda nella storia della Chiesa e del Paese, a cura di Ernesto PREZIOSI, Ave, Roma 2013.

Il Getsemani e il Montorfano, in una foto d'archivio della Presidenza Generale dell'Azione Cattolica (ISACEM, Roma)

Strawinsky. Pitture murali sul Lago d'Orta, Anzola d'Ossola 1988, p. 31. ................................................................... Andrea Longhi è autore di Le architetture di Luigi Gedda: committenza e cantieri (1949-1959), in Luigi Gedda nella storia della Chiesa e del Paese, a cura di Ernesto Preziosi, Ave, Roma 2013, pp. 277-302; il tema è posto in un contesto più ampio in Andrea Longhi, Carlo Tosco, Architettura, Chiesa e società in Italia (1948-1978), Studium, Roma 2010, pp. 135141. Pietro Pasini si è laureato presso il Politecnico di Torino con la tesi Il Santuario dell'Assunta al Getsemani di Casale Corte Cerro (1949-1956). Premesse al dibattito conciliare sullo spazio sacro (relatore Costanza Roggero) e ha curato, per lo Studio Pasini e Montafia Architetti di Omegna, le pratiche necessarie alla richiesta di Interesse Culturale.

(2) Ildo AVETTA, Il Getsemani di Casale Corte Cerro, in Il Getsemani di Casale Corte Cerro, Chicca, Tivoli [1957], p. 3. (3) Carlo FALCONI, Gedda e l'Azione Cattolica, Parenti, Firenze 1958, pp. 158-160. (4) Luigi GEDDA, Il messaggio del Getsemani, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1961, p. 41; dal medesimo testo sono tratte le citazioni successive delle parole di Gedda. (5) PIO XII, discorso agli Uomini di Azione Cattolica in Piazza San Pietro, 7 settembre 1947 (http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/s peeches/1947/documents/hf_pxii_spe_19470907_uomini-azionecattolica_it.html). (6) Il Messaggio cit., p. 57 (7) Luigi GEDDA, Il Getsemani, in Théodore

L'altare della memoria, con un gruppo di militanti (da Il Messaggio del Getsemani, 1961 e Il Getsemani, 1957).


Luigi Gedda ispeziona i lavori al 'chiostro' e alle 'celle', 1949-1950 (da Il Getsemani, 1957).

Luigi Gedda e un gruppo di giovani partecipanti a un ritiro spirituale, in foto di gruppo nel chiostro panoramico (da Il Messaggio del Getsemani, 1961).

Le cartoline illustrate, con il passaggio alla tecnica a colori, continuano a sottolineare la valenza paesaggistica del complesso.

Il percorso pedonale di salita al Getsemani.

Il chiostro panoramico sulla Manica Curva e il centro servizi della Manica Retta, nella situazione attuale.

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Trasformazioni e valorizzazione di un paesaggio alpino Dalla mostra “Valle di Susa Arte e Storia” (1977) al progetto “Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina“ (2003)

l sacro e il profano, uniti nel nome della cultura. Col risultato di rafforzare l'identità storica di una valle e di promuoverne l'immagine per fini turistici, mentre si sono riscoperte e valorizzate le emergenze di carattere sacrale. Tutto questo nel corso di decenni nei quali si sono susseguiti studi, ricerche, indagini conoscitive sfociati in eventi espositivi e in pubblicazioni.

Francesco Novelli

La mostra, Valle di Susa Arte e Storia, presentata a Torino nel 1977 riprendeva ed ampliava un'esperienza già realizzata nel 1972 a Susa (TO) in occasione della celebrazione del bicentenario dalla fondazione delle diocesi segusina. Il patrimonio culturale e figurativo della Valle di Susa oggetto da diversi anni di un'importante e coinvolgente azione di inventariazione con estese campagne fotografiche, aggiornamento dello stato di conservazione, è stata guidata da mons. Severino Savi e dalla Soprintendenza torinese. Un censimento, o meglio come la definì Franco Mazzini (Soprintendente per i Beni Artistici e Storici del Piemonte) un'”impresa” per il cui coordinamento scientifico si deve dare conto a Giovanni Romano. Una vera e propria azione di tutela, non più diretta al singolo bene ma ad un patrimonio di beni diffusi su un territorio alpino, caratterizzato dalla presenza di un sistema di edifici religiosi – alcuni dei quali molto antichi – che coinvolgerà e influenzerà le attività di ricerca e tutela nei decenni a seguire. Le indagini conoscitive svolte e coordinate sul territorio da Severino Savi contribuiscono già alla fine degli anni sessanta a delineare un paesaggio sacro la cui importanza Savi aveva ampiamente colto e che ha contribuito a consolidare nel rendere conto delle modifiche e trasformazioni in corso nella Valle, attraverso schedature, censimenti, e una significativa campagna fotografica oggi confluita nel Fondo Severino Savi, consultabile presso la Biblioteca Diocesana di Susa. Recupero e riqualificazione culturale in loco – slogan dell'iniziativa del 1972: l'attività di Savi ebbe il pregio di focalizzare l'attenzione sull'intera valle di Susa, attraverso la schedatura delle opere mobili si acquisì una maggiore consapevolezza del patrimonio presente in ogni località, rafforzando il pensiero di una diocesi, di un territorio di confine, considerato di passaggio, in tutto il suo ritrovato potenziale di valorizzazione. THEMA I NOVELLI I 44

La mostra promossa a Torino nel 1977, nasce come risposta decisa e netta all'incremento di furti di opere d'arte in Valle di Susa, ma arriverà a configurarsi quale occasione di visibilità paesaggistica importante, in un momento storico in cui si dibatteva – tra l'altro - sulla futura costruzione dell'autostrada A32, meglio conosciuta come “Torino – Bardonecchia”. L'azione svolta in Valle di Susa tra la fine degli anni cinquanta e la fine degli anni settanta, sebbene possa sembrare finalizzata alla sola conservazione e tutela dei beni mobili di proprietà religiosa coinvolge – inaspettatamente – tutto il territorio, documentando, spesso analiticamente trasformazioni significative che in alcuni casi hanno compromesso un paesaggio culturale, i cui fondamenti teorici andavano consolidandosi proprio in questi stessi anni. Dall'analisi della documentazione fotografica redatta dal fotografo personale di Savi, Paolo Bressano, si sottolinea come spesso azioni volte alla speculazione edilizia più disinvolta abbiano intaccato definitivamente, trasformandolo, il contesto ambientale caratterizzato dalle architetture sacre della valle. Giovanni Carbonara, sottolineando la necessità di un approccio al paesaggio in termini di conservazione integrata (“Carta di Amsterdam” - 1975), osserva: “Secondo molti studiosi il concetto di paesaggio sembra racchiudere in sé gli aspetti visivi del territorio corrispondendo, in quest'ambito specifico, al concetto di immagine utilizzato da Cesare Brandi, nella sua Teoria del restauro (1963), riguardo agli oggetti artistici, esso è quindi “culturale” per definizione, in quanto altrimenti non sussisterebbe in quanto paesaggio ma semplicemente come ambiente o territorio […] Il paesaggio rappresenta dunque il lato artistico e figurale del territorio e si prospetta in qualche modo, come opera d'arte, anche se di quel tipo speciale che in estetica è detto “opera aperta”, perché necessariamente da completare con un

personale lavoro di definizione, delimitazione e riconoscimento da parte del fruitore. Ma questa immagine è sostenuta e trasmessa da un medium fisico che la perpetua, con più o meno lente trasformazioni, nel tempo. Questo medium è […] il territorio stesso nei suoi segni fisici naturali e in quelli dovuti all'azione incessante dell'uomo. Ne discende che il restauro, ma anche conservazione e salvaguardia del territorio, sono l'unica garanzia di tutela del paesaggio; tuttavia essa non può venire concepita in sé e per sé ma deve assumersi la responsabilità di un serrato dialogo con le ragioni della trasformazione e dello sviluppo […]. Il problema […] non è di congelare lo stato attuale ma di controllare il mutamento e d'orientarlo in senso culturalmente e socialmente positivo”. (Colloquio internazionale di Torino Il paesaggio culturale nelle strategie europee, Ufficio centrale per i Beni ambientali e paesaggistici della Regione Piemonte nel 1999). Gli studi ed approfondimenti avviati alla fine degli anni novanta dalla Regione Piemonte, per la costituzione del Piano Territoriale Regionale, Approfondimento della Valle di Susa, sottolinearono come la Valle di Susa dovesse essere riconosciuta nella sua identità di paesaggio culturale di straordinaria ricchezza di segni storici, di valori estetici, di opere d'arte, in parte già compromessi e a grave rischio nella loro identità e nelle loro interrelazioni. I successivi programmi di interventi straordinari legati agli eventi delle Olimpiadi Invernali (2006) e l'avvio delle opere della linea ferroviaria ad alta capacità si configurarono quindi come una nuova occasione per la valle. Gli ultimi venti anni, 1994-2014, hanno fortemente connotato la Valle per il fermento e la nascita di attività progettuali di ampio respiro con una forte valenza legata alla valorizzazione territoriale. Nell'ambito dell'Arte sacra si segnalano in particolare nel 1994, il progetto Conoscenza e valorizzazione del patrimonio religioso alpino,


Planimetria della Diocesi di Susa

in analogia con l'iniziativa “Chemin de Baroque” (territorio della Savoia), una schedatura dei beni artistici religiosi dell'Alta Valle di Susa, e la successiva realizzazione di una segnaletica volta a segnalare i siti più significativi. Nel 2003 il progetto La Via Francigena nella Valle delle Abbazie si poneva l'obiettivo di valorizzare le antiche reti di percorsi (Via Francigena) utilizzate da pellegrini e viandanti da e verso la Francia. Il convegno Archeologia. Una risorsa per la Valle di Susa, tenutosi a Susa il 30 novembre 2001, è considerato un momento di sintesi importante per la conoscenza e prima azione di valorizzazione a sistema delle principali emergenze archeologiche aperte al pubblico. Il tema della valorizzazione del patrimonio fortificato valsusino è invece stato affrontato in maniera sistematica con un progetto Valorizzazione delle Fortificazioni in Area Alpina, promosso dalle Regione Piemonte nel 2001, seguito, nel 2003, dalla redazione di un piano di valorizzazione per ipotizzare itinerari di visita delle principali emergenze fortificate. La sinergia creata tra il processo di riconoscimento del proprio patrimonio culturale e il senso di appartenenza e di identità degli abitanti della Valle di Susa, la volontà di accrescere l'offerta culturale della valle, facendo del patrimonio culturale uno sviluppo turistico e quindi economico ha permesso di porre le basi per lo sviluppo del piano di valorizzazione Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina (http://www.vallesusa-tesori.it/it/). Un progetto di sviluppo locale le cui linee di indirizzo sono state approvate nel 2003 dalla Giunta della Regione Piemonte; l'organizzazione e sviluppo del piano è avvenuto attraverso il coordinamento di sette gruppi di lavoro fra cui emerge il gruppo Arte Sacra. Questa iniziativa è stata motivo per la ripresa degli studi sul patrimonio storico artistico e architettonico sacro della valle, un'occasione favorevole alla rivalutazione di quanto già

Almese, fraz. Rivera / Santo Stefano_photo Massimo Sebastiani, 2005

prodotto negli studi e iniziative pregresse, soprattutto sono state avviate attività di ricerca che hanno permesso di effettuare una sintesi dello stato dell'arte evidenziando l'importanza e la consistenza di un patrimonio da intendersi quale “Museo diffuso”. Le iniziative di restauro, conservazione e valorizzazione dei beni sul territorio, fortemente stimolate dall'evento olimpico del 2006, hanno in questi ultimi anni fornito un contribuito fondamentale al completamento delle attività di conoscenza e ricerca avviata nel corso degli anni settanta con gli studi di Severino Savi, Gianni Romano, Guido Gentile. Il progetto Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina ha avuto quindi il grande merito di consolidare con un adeguato percorso di conoscenza e comunicazione un “paesaggio sacralizzato” storicizzato fortemente radicato al territorio anche attraverso la pubblicazione di itinerari di Arte Religiosa Alpina, in guide a divulgazione nazionale quali Gli itinerari d'arte, Valle di Susa (ed. Skira). A dieci anni dalla costituzione del progetto regionale l'attività di valorizzazione sul territorio e la crescente presenza di un turismo culturale in valle di Susa rappresentano un riscontro positivo sia per l'economia locale sia per l'acquisita consapevolezza di aver potenziato la visibilità e riconoscibilità di questo significativo sistema di beni culturali religiosi diffusi su un territorio alpino.

Sant'Ambrogio di Torino / San Giovanni Vincenzo photo Massimo Sebastiani, 2005

Le immagini appartengono alla Fototeca del Centro Culturale Diocesano, Susa

Susa / Campanili di Santa Maria Maggiore e Cattedrale di San Giusto_photo Massimo Sebastiani, 2005

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Exilles / San Pietro Apostolo_photo Massimo Sebastiani, 2005

Oulx fraz. Savoulx / San Gregorio Magno_photo Massimo Sebastiani, 2005

Oulx / Santa Maria Assunta_photo Massimo Sebastiani, 2005

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Oulx , fraz. Chateau Beaulard / San Bartolomeo Apostolo_photo Massimo Sebastiani, 2005

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Bardonecchia, fraz. Melezet / Sant'Antonio Abate_photo Massimo Sebastiani, 2005


Cesana Torinese / San Giovanni Battista_Fondo Severino Savi, Biblioteca Diocesana di Susa

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Sestriere / Sant'Edoardo_Fondo Severino Savi, Biblioteca Diocesana di Susa

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Il segno e il disegno. Le chiese di Mario Botta

T

ra le tante opere del progettista svizzero, alcune risaltano con particolare forza perché evocano potenzialità sacriali insite nel sito. Tra queste si segnalano la chiesa di Mogno, la cappella sul monte Tamaro, la recentissima cappella di Zillertal: tutte in panorami montani dove si staccano come gemme di geometrica purezza radicandosi nel sito quali espressioni dell'umano desiderio di essere nella natura, quale sublimazione della stessa. La cappella di Zillertal sembra nascere dal suolo per staccarsi da quello e anelare al cielo. Il vicino specchio d'acqua esalta questa tensione di distacco e la sua geometria a dodecaedro rombico richiama quella delle struttura delle pietre o dei critalli, dalle facce precise e levigate, nette, pulite. La cappella sul monte Tamaro sorge con regolarità circolare, e ricorda le torri di guardia che nel medioevo si usavano per sorvegliare i confini. Ma il lungo percorso a ponte e ad arco che la àncora alla sommità del monte conferisce all'insieme una dinamica diversa, uno slancio verso il panorama circostante, come un richiamo che si protende sopra la vallata per rivolgersi tutto all'intorno. E la chiesa di Mogno, col suo tamburo petroso scandito dalla biromia dei conci allineati, disegna alla sommità il profilo di una foglia che si posa leggera, in ciò fondendo l'elemento floreale e quello geologico, per comporre una forma che nella sua astrattezza primigenia si allontana da ogni epoca pur appartenendo a tutte, ed elude ogni moda. Le strutture di qualità geometrica hanno una forza evocativa di grande vigore, perché sono viste sbito con chiarezza, quali elementi noti: per quanto originali, uniche, singolari, non generano la sorpresa che usualmente si prova di fronte a qualcosa di cui si percepisce che è frutto di uno sforzo inventivo volto a segnare la “firma” del progettista. Le forme geometriche nascono da un sostrato noto, sperimentato, consueto tanto all'ingegno umano, quanto al mondo naturale THEMA I BOTTA I 48

cui appartengono da sempre – come da sempre vi appartengono i cristalli, le formazioni geologiche, i marmi, le foglie, le spirali lungo cui si allineano le foglie sui rami o attorno alle quali si svolgono i moti stellari delle galassie. Così, le presenze geometriche frutto di architettura entrano nel paesaggio e vi imprimono l'orma dell'uomo, ma esprimono la delicatezza che cerca una ragione di contatto. Lo stesso avviene nel “panorama” urbano: lo si vede nella chiesa del Santo Volto di Torino, che sorge sul luogo di una vecchia fabbrica dismessa. Per volere card. Severino Poletto, vescovo di Torino fino al 2010 che la commissionò, la chiesa sorge come memoria e gesto di santificazione del diuturno lavoro degli operai in fabbrica. E di questa rimane la ciminiera, trasfigurata dalla “corona di spine” che l'avvolge salendo a spirale. E lo si vede nel profilo della cattedrale di Evry. Che con la sua corona di alberi sembra voler far trionfare sulla sfilacciatura della periferia parigina, l'ordito intessuto da una natura accolta nell'archtiettura e in essa sublimata. In contesti naturali, come in contesti urbani, quando la chiesa riesce a presentarsi con una presenza ben chiara e distinguibile, ottiene ovunque di “santificare” il sito, di questo evocando gli aspetti più densi di significato. Presentiamo di seguito alcune citazioni di Mario Botta in merito ai suoi progetti di chiese.

Cappella di Zillertal / Photo Enrico Cano

“Disegnare uno spazio 'sacro' dopo le esperienze bruciate dai diversi movimenti artistici recenti (da Picasso fino ad oggi) diviene impresa ardua proprio per il venir meno di valori sicuri di riferimento. Penso che nell'architettura si debba diffidare quando le regole del mestiere scompaiono per lasciare spazio a ogni sorta di arbitrarietà. Nell'arte del costruire sussistono principi elementari: la relazione con il territorio, la legge di gravità, la luce come generatrice degli spazi, che restano costanti al di là della forma espressiva e che richiedono rispetto e attenzione”. Così scrive Mario Botta, uno tra i maggiori architetti di chiese di questi decenni. Le sue opere, e in particolare le sue chiese, si distinguono per il valore geometrico che ne caratterizza la forma. Il volume è immediatamente percepito come qualcosa di semplice e allo tesso tempo concluso: in sé sufficiente.

Cappella sul Monte Tamaro / Photo Enrico Cano

La chiesa di Mogno

Cappella sul Monte Tamaro / Photo Enrico Cano


Chiesa di Mogno / Photo Enrico Cano

Chiesa di Mogno / Photo Enrico Cano

Chiesa di Mogno / Photo Enrico Cano

La chiesa di Mogno Tutto incomincia una sera di quasi trent'anni fa, il 25 aprile del 1986. Sul televisore scorrono le immagini di una valanga impressionante: scende dalla montagna dell'alta Valle Maggia, nel Canton Ticino, portando con sé un'enorme massa di neve insieme ai detriti. La osservo come devono averlo fatto i testimoni dalla sponda opposta della valle: inarrestabile, accompagnata da uno spaventoso frastuono di alberi sradicati e macerie trascinate in basso, fin dentro l'abitato del piccolo villaggio di Mogno. Sono distrutti il campanile e la chiesetta secentesca; le campane mandano un ultimo rintocco prima di scomparire trascinate a fondo valle. Infine si diffonde per tutta la valle un silenzio surreale. Mi colpisce soprattutto la strana lentezza della valanga, che procede per così dire a passo d'uomo, eppure tanto distruttiva da annientare l'opera secolare degli uomini. La spiegazione del commentatore televisivo è molto razionale: si tratta – afferma - di un fenomeno rarissimo innescato dall'accumulo contemporaneo a monte di due ampi bacini di neve. Logica, certo, la sua analisi, eppure insufficiente ad esprimere la vastità del mistero. Qualche mese più tardi, in estate, un'associazione nata nella valle “per la ricostruzione della chiesa di Mogno” mi propone di andare lassù: vuole che mi occupi del progetto per la ricostruzione. Salgo faticosamente, partendo da Locarno, in compagnia di pochi amici. Quasi un'ora in auto lungo una strada tortuosa; sulla via incontro persone ancora intente a rimuovere legna e sassi; e intanto la carreggiata si fa sempre più stretta. Fra la vegetazione, ormai rada, si profila ogni tanto un'opera di sostegno, una baita, un muro. Ed eccomi a Mogno: pochi chilometri più in basso pulsa la vita di Locarno, lassù tutto è immobile. L'enorme massa di neve si è arrestata ai bordi del villaggio, da cui sono spariti la

chiesetta di San Giovanni Battista del XVII secolo, il cimitero cintato, riferimento storico per chi viveva là. Calpesto vecchia torba, segni di mura, tracciati di pavimenti smunti e scoperchiati alla luce del sole. Il tracciato delle strade non esiste più, nove case sono distrutte e altre pericolanti. Infine abbraccio con emozione, per la prima volta, l'intero spettacolo: la montagna, riassestata in poco tempo sull'enorme massa di detriti, pare una mappa naturale distesa lungo il pendio. Come in un impietoso confronto, la forte orografia naturale sovrasta la fragilità delle trasformazioni umane. Ma come mai gli abitanti della valle tengono tanto alla ricostruzione di una chiesa? La risposta è semplice, disarmante: “perché – dicono - c'è sempre stata”. Tutto qui. Chi ci vive non può, o non vuole, rassegnarsi a trasmettere alle generazioni future un territorio più povero di quello ereditato. E qui sento nascere dentro di me qualcosa che mi spinge ad accettare: percepisco l'importanza del confronto con la montagna, un architetto è chiamato a raccogliere la sfida, piegando le forze della natura alla volontà degli uomini. Comunque, dopo il tempo della riflessione, viene quello della decisione. Non posso ricostruire la chiesa “dov'era” e “com'era”: vorrebbe dire negare l'evento stesso della valanga, cancellarne il dramma, l'impatto emotivo, le conseguenze distruttive sul paesaggio, persino gli interrogativi che sempre si pongono quando ci si assume la responsabilità di “costruire”. Se invece ricominciassi da zero… proporrei una nuova lettura della montagna, forse favorirei una coscienza ambientale diversa: ogni progetto ha in sé una forza innovatrice, è un'occasione per scardinare le letture di comodo. Non si può mentire quando si è chiamati a rispondere creando, ridisegnando i rapporti spaziali senza subire gli equilibri esistenti.

Ma quante cose – scopro – si riassumono nel mistero della montagna! Il suo paesaggio possiede una forza primordiale. C'è in esso un bisogno di testimoniare oltre la propria vita, la necessità di consolidare un'eredità di lavoro, l'urgenza di vincere la solitudine, un'esigenza di testimoniare lo scarto fra il bisogno di infinito e la consapevolezza dei propri limiti. Forse è vero che il nostro tempo è fragile: riconoscerlo significa accettare nuove sfide. L'architetto sa d'essere subordinato alla natura, ma proprio questo gli rende possibile trovare le ragioni, le forze, gli obiettivi del progetto, le speranze ad esso legate. Risalgo lassù più volte per interrogare quel luogo, prima di tracciare un solo segno sul foglio. Cerco di comprendere i silenzi, lo scorrere del tempo, le attese dei valligiani. Riscopro il piacere di modellare una muratura in pietra viva, ritagliata dalla stessa montagna, capace di generare quel senso di protezione e gravità in cui è presente la stessa ragione del costruire. Così nasce il progetto per una cappella in pianta ellittica, dotata di luce “totale”, di una luce zenitale, capace di evocare la forza della rovina, uno spazio teso fra la terra e il cielo. Quella chiesa nascente per me diventa parte del paesaggio, carica di valori simbolici e metaforici, non soltanto tecnici e funzionali. Mi sembra di riconoscervi l'intero spettacolo dell'opera umana: un bene assoluto, inappropriabile, valore sociale e collettivo in cui si deposita la nostra storia. Così il mistero della montagna mi riconduce al senso profondo dell'architettura, in cui è costante il rapporto fra il nuovo e la realtà stratificata del paesaggio. Quel territorio rarefatto, al limite del cielo, rappresenta anche l'orizzonte del mondo con il quale è chiamato a confrontarsi l'atto creativo.E infatti non c'è opposizione fra natura e artificio: più si sale in alto, più occorre competenza culturale e capacità creativa, se si vuole sopravvivere. THEMA I BOTTA I 49


La montagna possiede un suo spazio: esige un'unità del fare più elevata rispetto alla consuetudine della divisione del lavoro. Alle alte quote, di fronte alla grandiosità dei paesaggi, ogni oggetto architettonico, ogni segno lasciato dall'uomo presuppone la semplicità del “comporre”. Io non so se quella mia opera rappresenti un atto esplicito di religiosità. Oggi, lassù, ritrovo spazi abitati da canti e preghiere, silenzi ed emozioni che testimoniano ansie, timori, attese. Un fiore deposto ai piedi dell'altare o la sagoma di una donna in preghiera risvegliano il bisogno di abbracciare il mondo. E tutto rinvia all'atto primordiale del gesto architettonico: il mettere pietra sulla terra, il trasformare una condizione di natura in una condizione di cultura. Mario Botta Aprile 2013

Il valore simbolico Le opere di architettura costituiscono segni importanti di comunicazione dove, accanto agli aspetti strettamente tecnici e funzionali, persistono valori simbolici e metaforici. La città è un libro di pietra e, al suo interno, siamo portati di volta in volta a leggere oltre le funzioni, le istituzioni, la storia, le testimonianze, i ricordi, le emozioni. Un edificio può assumere nel tempo significati e testimonianze indipendentemente dal fatto che risponda ancora alla funzione primitiva. L'architettura è un segno di memoria così come la città è un libro degli eventi che utilizziamo solo parzialmente per piegarli alle nostre funzioni. Pensiamo, per fare un esempio, al ruolo che svolge il teatro nella città come struttura deputata all'immaginario collettivo: lì si sono susseguiti desideri e rappresentazioni a volte lontani dal cittadino che non ne ha mai fruito direttamente, ma resta il luogo simbolo di quel sogno collettivo dove, generazioni dopo THEMA I BOTTA I 50

generazioni, hanno inseguito eventi, lotte, amori e tragedie lontani dalla quotidianità. Ancora oggi il teatro conserva la memoria di quel passato e quando gli passiamo accanto non possiamo fare a meno di pensare a quel suo ruolo anche se non abbiamo mai messo piede in quella realtà. La ricchezza della città (in particolare di quella europea) è data proprio da questo aspetto che prescinde da una diretta utilizzazione. Una piazza è una pausa bella all'interno del tessuto urbano anche per chi non la frequenta, così la chiesa è il luogo della fede di una comunità anche per chi la sfiora unicamente nell'attraversare la città. L'interesse che ho maturato rispetto allo spazio del sacro mi ha portato a riconoscere aspetti evocativi, momenti di bellezza, silenzi significativi offerti dagli edifici di culto nel loro stretto dialogare con l'ambiente contiguo. Una chiesa offre una presenza emblematica che continua ad interrogarci rispetto ai temi ed ai misteri della vita. Per questo la sua architettura, forse ancor più di altre istituzioni, merita di essere opportunamente connotata dentro il paesaggio circostante. Non si tratta di un semplice servizio ma di un segnale che assume valori evocativi, che ci parla dei bisogni primordiali del nostro vivere, dell'essere oggi fragili o forti dentro la nostra identità.

del presente. Come in altre forme espressive (si pensi ad artisti come Picasso, Moore o Klee) anche nell'arte del costruire i valori ancestrali talvolta nascosti trovano una diretta interpretazione nelle forme della contemporaneità. L'edificio religioso nell'arco di millenni è stato un costante punto di riferimento sia per l'architettura sia per le grandi ricerche artistiche; sembra logico che tale eredità solleciti ancora oggi interessi ed interrogativi. Sembra tremendamente ingenuo pensare (come taluni nostalgici vorrebbero) che una così ricca testimonianza non possa trovare oggi altre forme espressive e scompaia nella pochezza del presente senza lasciare tracce e speranze del nostro tempo. Mario Botta Maggio 2008

Cappella sul Monte Tamaro / Photo Enrico Cano

Mario Botta Novembre 2007

La forma del silenzio L'architettura del sacro dà forma al silenzio, al “non detto”, invita alla meditazione, è luogo carico di significati simbolici e metaforici capaci di evocare condizioni oltre il “finito”. Lo spazio del sacro ricompone il tessuto collettivo, il passato rivive attraverso interpretazioni e testimonianze nella sensibilità

Cappella sul Monte Tamaro / Photo Enrico Cano


Cappella di Zillertal / Photo Enrico Cano

Cattedrale di Evry / Photo Pino Musi

Chiesa del Santo Volto / Torino / Photo Enrico Cano

Cappella di Zillertal / Photo Enrico Cano

Cattedrale di Evry / Photo Pino Musi

Chiesa del Santo Volto / Torino / Photo Enrico Cano

THEMA I BOTTA I 51


THEMAINFOLIO

ITHEMAPROIETTIIAbbazia di San Benedetto, vista interna dell'aula liturgica

THEMA I ALBUM I I


ITHEMAPROIETTIIAbbazia di San Benedetto, vista interna della cripta

THEMA I ALBUM I II


ITHEMAASTOLFIICappella di Ronchamp

THEMA I ALBUM I III


ITHEMAASTOLFIICappella di Ronchamp

THEMA I ALBUM I IV


ITHEMAASTOLFIICappella di Ronchamp

THEMA I ALBUM I V


ITHEMAPELLITTERIILa chiesa di San Gregorio ad Agrigento

THEMA I ALBUM I VI


ITHEMANOVELLIIBardonecchia, fraz. Rochemolles, San Pietro Apostolo

THEMA I ALBUM I VII


ITHEMANOVELLIIVillar Focchiardo, Santa Maria Assunta

THEMA I ALBUM I VIII


ITHEMANOVELLIISauze di Cesana, San Restituto

THEMA I ALBUM I II


AUTORI

numero tre/ luglio duemilaquattordici

Jessica Astolfi Architetto, Presidente di “Costruire il Sacro” Fr Michele Badino Monaco di Bose e Architetto Michela Beatrice Ferri Dottore di ricerca in Filosofia, Giornalista Mario Botta Architetto Giorgio Ganis Architetto Libero Professionista Andrea Longhi Architetto, Professore aggregato di Storia dell'architettura, DIST, Politecnico di Torino Giancarlo Marzorati Architetto Libero Professionista Stefano Mavilio Architetto, Coordinatore del Master in progettazione degli edifici per il culto organizzato dall'Università La Sapienza e da LUMSA, Roma Francesco Novelli Architetto, Dipartimento di Architettura e Design, Politecnico di Torino Daniela Omenetto Architetto Pietro Pasini Conservatore Giuseppe Pellitteri Architetto, Professore di Composizione Architettonica e Urbana, Università degli Studi di Palermo Mons. Sandro Piussi Arcidiocesi di Udine, Ufficio per i Beni Culturali Tiziana Proietti Architetto e Dottore di Ricerca Flavia Radice Dottoranda in Beni Culturali, Politecnico di Torino Paolo Zermani Architetto, Professore di Composizione Architettonica, Università di Firenze

CENTRO STUDI DI ARCHITETTURA E LITURGIA


THEMA Rivista di Architettura Sacra e dei Beni Culturali Ecclesiastici

numero tre/ luglio duemilaquattordici

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011 ISSN 2384-8413 Editore Centro Studi di Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Periodico Semestrale Direttore Responsabile: Leonardo Servadio Coordinamento Redazionale Michele Giuliani Paola Renzetti In redazione Simona Valente Comitato Scientifico

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Luigi Bartolomei Università di Bologna Fernando Cipriani Centro Studi di Architettura e Liturgia P. Andrea Dall’Asta Direttore Galleria San Fedele di Milano don Antonio de Grandis Centro studi di Architettura e Liturgia Renato Laganà Università di Reggio Calabria Andrea Longhi Politecnico di Torino Ludovico Micara Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara Giuseppe Pellitteri Università di Palermo Carlos Clemente San Romàn Università di Alcalá de Henares (Spagna) Corrispondenze Roma/Silvia Stella Galimberti Milano/Silvana Di Stefano Sede redazione: Via Villa di Basile, 27 Pescara E-mail: architetturasacra.it@gmail.com

Stampato per il Centro Studi di Architettura e Liturgia a Pescara da Laser Multimedia srl in via Valignani 45, Versione cartacea stampata nel Luglio 2014 Versione digitale rilasciata nel Luglio 2014 Credits & Copyrights Legge 22 aprile 1941, n. 633 Art. 70 1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. [...] 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell'opera, dei nomi dell'autore, dell'editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull'opera riprodotta.


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ISSN 2384-8413

THEMA

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