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www.thema.es ISSN 2384-8413

Rivista dei Beni Culturali Ecclesiastici

THEMA

L’ARCHITETTURA E I SUOI SIGNIFICATI L’edificio di culto e la sua eloquenza

ServadioSantiBoselliRupnikMarkiewczMavilioGrisiClementeSuppressaBraghieriLaganà CervellatiVitielloFerriLeoniBelloniStroikBerarducciMarcianiMarzoratiBarbieri



EDITORIALE Il tempo e il senso del costruire di Leonardo Servadio

LETTURE 7

51 L’oratorio dei Padri Filippini: il rispetto

Un canone per l’arte sacra

della sacralità

Giancarlo Santi

Pier Luigi Cervellati

13 Il segno dell’abside

55 L’identità del colore, dialogo tra memoria,

Goffredo Boselli

16 Le chiese, icone della Chiesa Marko Ivan Rupnik

contesto, valori architettonici

Maria Vitiello

58 Le vetrate: luce come segno del Creatore.

21 Architettura e liturgia: un dialogo aperto Philippe Markiewicz

24 Del simbolismo nell’architettura delle chiese Stefano Mavilio

30 Emil Steffann: topografie liturgiche Tino Grisi

Intervista a Sara Meda Michela Beatrice Ferri

63 La forza dell’umiltà Luigi Leoni

65 Il significato e la sua verità nel progetto. Intervista a Paolo Belloni

Leonardo Servadio

34 Come la materia parla all’anima

69 Segni e simboli di realtà celesti

37 L’espressione dello spazio sacro

72 L’architettura sacra nel contesto della

Carlos Clemente

in Giovanni Michelucci

Duncan G. Stroik

contemporaneità

Carlo Berarducci

Alessandro Suppressa

42 Le chiese, espressione della ecclesiologia attuale

Alessandro Braghieri

76 Elementi architettonici, segni significativi Paolo Marciani

82 Il colore come segno degli spazi della socialità

47 L’innovazione tecnologica nella chiesa contemporanea

Giancarlo Marzorati

85 Tre segni che fanno del prefabbricato una chiesa

Renato Laganà

Elena Tandardini

THEMAIDEA A che scopo c’è il portale? Forse ti meravigli di questa domanda: “Perché se ne entri e se ne esca”, pensi tu; la risposta non sarebbe invero difficile.Certo; ma per entare e uscire non occorre alcun portale. Una apertura più ampia nella parete servirebbe pure allo scopo e un saldo assito di panconi e forti tavole basterebbe all’apertura e alla chiusura... Non sarebbe però un portale. Questo intende a qualcosa di più che non sia il soddisfacimento di un mero scopo; esso parla. Presta attenzione quando lo varchi e sentirai: “Ora io lascio l’esterno: entro”.

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Fuori c’è il mondo, bello fervido di vita e di creazione possente. Frammezzo v’è anche molto d’odioso e di basso. Esso ha in sé qualcosa del mercato; in esso ognuno corre attorno, tutto qui si fa largo. Attraverso il portale però entriamo in un interno, separato dal mercato, calmo e sacro: nel santuario. Certo, tutto è opera e dono di Dio, duque Egli può muoverci incontro... gli uomini fin dall’inizio hanno saputo che luoghi determinati sono in modo particolare consacrati, riservati a Dio... (Romano Guardini “I santi segni”)

In copertina: l’abside del Monastero di Novy Dvur, arch. John Pawson (vincitore Premio Frate Sole 2008). Uno spazio etereo dove il finito sconfina nell’infinito. Foto di Hisao Suzuki, per gentile concessione dell’archivio Fondazione Frate Sole.


Il tempo e il senso del costruire Leonardo Servadio

La cattedrale di Barcellona è uno degli edifici più orrendi al mondo. Ha quattro pinnacoli dentellati in forma di bottiglie di vino... penso che, evitando di farla saltare, gli anarchici abbiano mostrato tutto il loro cattivo gusto...”. Così scriveva George Orwell nel suo “Omaggio alla Catalogna” del 1938. E non era l’unico a pensarla così. Si era in piena guerra civile spagnola e l’edificio di cui parla l’autore del “1984” in realtà non è quello della cattedale, bensì la Sagrada Familia, opera massima di Antoni Gaudí, oggi universalmente apprezzata, visitata da milioni di persone da ogni continente, simbolo della capitale catalana. Gaudí era morto nel 1926, il cantiere era fermo e l’unica parte completata era quella relativa alla facciata della Natività con, appunto, le sue prime quattro torri. Ma il disegno generale era chiaro, l’ambizione dell’opera evidente e persone di cultura e di gusto potevano ben formarsene un’opinone. Come mai c’era chi, come Orwell, trovava addirittura repellente quel che oggi a molti sembra un capolavoro dell’architettura di chiese del XX secolo? Una notazione previa, che va sempre tenuta a mente: la chiesa - di qualiasi denominazione - ha un impatto

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emotivo maggiore di quello sollevato da altre architetture. Lo testimonia, paradossalmente, lo stesso Orwell che, anglicano di nascita, sosteneva di aver “accettato meccanicamente la religione cristiana senza alcun trasporto” e in Catalogna fu vicino ad anarchici e socialisti. Ma quel che dice della Sagrada Familia dimostra che nell’animo nutriva il desiderio di vedere chiese che soddisfacessero le più alte aspettative: perché, se no, prendersela tanto con un edificio dotato semplicemente di tratti diversi da quelli dell’architettura storica? Anche oggi si levano spesso voci fortemente, a volte radicalmente critiche verso l’architettura contemporanea, e questo avviene soprattutto riguardo ai progetti delle chiese: pur nel mondo apparentemente sempre di più indifferente alla religione, dall’edificio chiesa tutti tendono ad aspettarsi un contributo di primaria rilevanza nel contesto urbano. Inutile chiedersi se le opinioni dei critici attuali faranno o no la stessa fine di quella che manifestò Orwell verso l’opera di Gaudí. Ci chiediamo invece che rilevanza occupi, nella formazione del gusto che tende ad avversare novità, quali quella che a suo tempo rappresentò il progetto gaudiniano,

Complesso e articolato, il progetto della chiesa è chiamato a esprimere un chiaro significato, che risponda anche alle richieste culturali, estetiche, formali, ma soprattutto alle finalità liturgiche. Si richiede che il rapporto tra l’essere e l’apparire in esso giunga a una perfetta coincidenza. Di qui la necessità che i diversi elementi che lo compongono siano tutti eloquenti e che, insieme, rappresentino la comunità cristiana in cammino.

la semplice abitudine che porta molti a voler perpetuare “archetipi” dai quali non accetta di staccarsi. Salvo naturalmente attendere che le nuove proposte si siano affermate universalmente per cui, una volta penetrate nell’inconscio collettivo, esse siano accettate automaticamente. A ben guardare, ancor oggi si potrebbe benissimo argomentare che la Sagrada Familia sia un capolavoro di mancanza di grazia: con la sua totale sproporzione tra base e altezza, con quegli irti pinnacoli privi di armonia, con quei portali in cui si ravvisano rimembranze delle figure apotropiche medievali, con rivestimenti esterni che ricordano le squame corazzate dei rettili. A voler cercare, si possono ben trovare ragioni per provare disagio di fronte alle dimensioni e alla particolarissima elaborazione del pur tanto apprezzato Tempio Espiatorio barcellonese. Ma ha fatto breccia nei cuori delle persone, è divenuto un Landmark ineludibile della città. Soprattutto, è dotato di caratteristiche che lo rendono inequivocabilmente riconoscibile come chiesa. Ecco dunque che almeno una prima affermazione si può tentare: l’abitudine è di notevole rilevanza nel conformare il rapporto affettivo delle persone


Sagrada Familia | Prospetto laterale

Sagrada Familia | Facciata della Natività

verso le architetture (e i luoghi). Del resto Christan Norberg Schulz pone proprio questo alla base delle sue elaborazioni del concetto di Genius Loci. E a questo occorre aggiungere un altro aspetto fondamentale: il senso di cui immediatamente si rivestono le architetture agli occhi di chi guarda. Perché un edificio è riconosciuto come “chiesa” e un altro non lo è? Perché di alcuni edifici si accetta che siano chiese e altre chiese invece non sono riconosciute per tali? Anche qui si potrebbe argomentare che molto deriva dalle abitudini. La chiesa per antonomasia è quella con accanto un campanile e col tetto a due falde, magari con l’abside che rigonfia la facciata posteriore e la cupola che ne corona il cuore. Parlando di tali elementi, cominciamo a far riferimento anche ad aspetti attinenti alla liturgia. L’edificio ha, sempre e anzitutto, il senso che l’uso gli attribuisce. Se per gli antichi romani basilica poteva significare “tribunale” o “mercato”, per noi, da secoli adusi a basiliche destinate all’esercizio del culto, quella stessa forma automaticamente rappresenta la chiesa. E un preciso valore segnico e identitario si attribuisce a diversi elementi. La cupola: alle origini era diffusa soprattutto nel mondo arabo, ma agli occhi di un occidentale cupola vuol dire chiesa. Il portale, condiviso

con qualsiasi altro edificio di rilevanza, nella chiesa individua una soglia di assoluta singolarità: è ciò che separa (o unisce) il luogo di culto da quel che ne sta fuori: il sacro e il profano. Le absidi, non nate per scopi cultuali ma così appropriate, così confacenti alla finalità di ospitare l’altare e offrire uno sfondo che ne esalti la presenza; così adatte a indicare anche all’esterno la presenza del centro del luogo di culto. Si può affermare che diversi elementi sono divenuti caratteristici delle chiese, anche se tali non sono, né all’origine, né in via esclusiva. E questi elementi, raccolti assieme nella forma basilica o nelle strutture a pianta centrale (che si presentano come un caso particolare di cupola “totale”), compongono insiemi fortemente caratterizzati. Chissà se quando l’abate Suger per primo volle rivestire la sua chiesa, St. Denis, di ampie vetrate che la rendessero un luogo di trasparenze e di colori, non sia stato anch’egli accolto con dubbioso scetticismo da confratelli e fedeli abituati alla penombra degli edifici romanici. Ma oggi le grandi vetrate sono senza dubbio un’altra delle “cifre” caratteristiche delle chiese, antiche e contemporanee. E chissà che cosa pensasse il popolo romano quando vide la facciata che il Maderno eresse su piazza San Pietro, coi suoi tratti palatini più che ecclesiastici: certo possenti, imponenti,

grandiosi, ma anche molto terreni, solidamente ancorati alla dimensione orizzontale; non la “tipica” facciata dai tratti romanici, gotici o, neppure, rinascimentali. Il fatto è, comunque, che oggi tutti ben riconosciamo il volto della chiesa che è al centro del mondo cristiano: l’abbiamo assunta e definitivamente depositata nella nostra coscienza. Il progetto della chiesa incide su corde di alta sensibilità emotiva e quando, per preparare questo numero 5 di “Thema”, ci siamo posti il problema di discutere attorno al “senso” della struttura architettonica approrpiata per rappresentare la chiesa ai nostri giorni, e ci siamo chiesti se e come l’architettura in quanto tale possa essere espressione limpidamente eloquente e dotata di simbolicità, ci siamo addentarti su un terreno assai complesso. Perché, per quanto si tenti di ottenere una valutazione oggettiva e ampiamente condivisa, quando si cerca di arrivare a definire una forma architettonica chiaramente e univocamente adatta, ci si rende conto che i tentativi di reperire un “canone” coerente con la tradizione e con la cultura contemporanea divengono elusivi. Incalza la domanda: vi sono chiese contemporanee che riconosciamo univocamente per tali? E, se vi sono, in THEMA | EDITORIALE |

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Sagrada Familia | Vista interna

S. Massimiliano Kolbe a Bergamo (progetto Vittorio Gregotti) | Un tamburo reinterpreta la cupola.

forza di che cosa lo sono? Possono oggi le chiese essere disegnate secondo i criteri varibili, volubili, individualizzati, a volte capricciosi, caratteristici dell’architettura contemporanea che nel nome dell’unicità del progetto rifugge da forme precostituite per cercare di offrire sempre qualcosa di inedito – laddove invece la chiesa agli occhi del fedele dovrebbe esprimere, o il già noto e acquisito, o quel che sta al di sopra delle mode del tempo corrente per attingere a significati di valore universale?

continua a seguire modelli canonizzati che si perpetuano nel tempo. Così si va sul sicuro: anche se all’origine forma ed elementi non nascono come tipici della chiesa, lo diventano con l’uso e tali si mantengono. Sorge però il problema: in Occiente dal basso medio evo la Chiesa ha scelto di raccontre le storie evangeliche calandole nella vita contemporanea. Giotto parla di Gesù e Maria non come personaggi vissuti all’epoca loro, ma come figure contemporanee. Viventi, operanti. Che è come dire: quello della nascita e della predicazione di Gesù non è solo un fenomeno storico, ma una novità che si ripresenta sempre nuova e accompagna la storia rinnovando nel tempo il messaggio evangelico. Sempre eguale a sé stesso, sempre aggiornato alla contemporaneità. Questo è quanto la Chiesa occidentale compie, almeno dal basso medioevo in poi: in questo fiorì l’umanesimo cristiano. Un’abside disegnta con una composizione di paretine che chiudono e allo stesso tempo suggeriscono spazi ulteriori è forse meno abside di quella classica a base semicircolare? Una parete di fondo come quella concepita da Alvar Aalto per la chiesa di Riola di Vergato, nell’economia di uno spazio che allude a un “oltre” grazie al convergere delle rette che lo

Torna d’aiuto considerare il caso del progetto presentato su questo numero di Thema dall’architetto statunitense Duncan G. Stroik. Si tratta di un edificio santuariale nuovo ma che avrebbe potuto essere stato realizzato pari pari anche nel Settecento o nell’Ottocento. Dotato di tutte le caratteristiche depositate nel tempo che, secondo l’opinione dell’Autore, ne garantiscono anche oggi l’efficacia espressiva e il valore cultuale. Alcuni pensano che questo sia l’unco cammino possibile per rendere edifici dotati del senso di “chiesa”. Del resto questa è l’antica tradizione delle Chiese Ortodosse orientali che, sia nel campo artistico con le icone (forma artistica riconosciuta nel concilio di Nicea II, nel 787), sia in campo architettonico, THEMA | EDITORIALE |

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definiscono in un punto intangibilmente lontano, non è anch’essa una riinterpretazione in chiave moderna, ma non meno significativa, dell’abside classica? Nei vari interventi di personaggi autorevoli e di acuti studiosi che hanno offerto i loro contributi a questo numero di Thema, si raffrontano diverse opinioni. Che cosa ha valore di simbolo? Questa è una domanda che aleggia. Non giunge una risposta univoca e condivisa. Del resto non esiste simbolo se questo non è riconosciuto e condiviso. Questo riconduce all’aspetto fondante, il più importante dell’edificio chiesa. Esso nasce come luogo per ospitare una comunità celebrante. Ma la comuità può celebrare ovunque. Non celebrano gli scout all’aria aperta con altari e croci costruiti sul luogo? E la “icona” più rappresentativa del movimento liturgico non è la Sala dei Cavalieri del castello di Rothenfels, dove Romano Guardini celebrava versus populum fin dagli anni ‘20 del ‘900 usando un tavolo come altare mentre i giovani del Quickborn lo attorniavano su tre lati? Certamente la Chiesa è quella di pietre


viventi. D’altro canto, una volta che si stabiliscono edifici che in permanenza ospitano celebrazioni comunitarie, non resta depositata in tali edifici la memoria viva di quelle celebrazioni? L’esempio della chiesa prefabbricata di Bologna, di cui si parla nel servizio che chiude questo numero di Thema, ne è una chiara dimostrazione: un’aula di per sé priva di valore architettonico, un capannone prefabbricato, quanto di meno elegante, aulico o espressivo si possa immaginare. Ma la comunità non lo ha voluto abbandonare. Anche quei muri di disadorna, scarna, elementare semplicità erano divenuti di alto significato per loro: recavano la memoria di battesimi, cresime, matrimoni, funerali... Alcuni cambiameniti, e la chiesa capannone è rimasta, ma rinnovata: un’abside, un campanile, un nartece per renderla più eloquente. In piccolo, un poco quel che è avvenuto con moltissime chiese storiche importanti alle quali nel tempo diverse generazioni hanno aggiunto nuovi elementi, nuove testimonianze; e quel che oggi troviamo in basiliche ammirate quali San Pietro in Vaticano, S. Maria del Fiore, la catterale di Chartres, non è semplicemente frutto di un progetto o di un momento, ma la sommatoria di diverse campagne edificatorie e artistiche, il fondersi delle opinioni e dei gusti di diversi committenti, dell’impegno di tanti fedeli che vi hanno variamente contribuito dando luogo a un assieme di memorie, condivise da comunità che vivono diacronicamente continuando le proprie testionianze di fede anche attraverso l’architettura. Anche nella Sagrada Familia (la cui costruzione partì nel 1882 dopo diversi anni che i committenti ne preparavano l’avvio e un paio di anni prima che Gaudí cominciasse ad apportarvi la sua impronta) il cantiere è ancora aperto, e il risultato che ammiriamo è frutto di molte mani, di molte generazioni. È più che una “forma” (apprezzabile o no che

sia): è una composizione di elementi che nel loro insieme dicono “chiesa”. Forse è proprio questo quel che manca a molte chiese contemporanee: che le si guardi non come lavori compiuti, bensì come progetti in corso d’opera che ogni comunità ha la responsabilità di portare avanti, generazione dopo generazione, in esse depositando il meglio di quanto lascia su questa terra. Così, forse, dovremmo edificare, ristrutturare, curare, conservare, adeguare, le nostre chiese: non solo guardando al passato, ma pensando al futuro. Concependole come un vettore che attraversa il tempo, ma tenendo l’occhio fisso su quanto sta sopra il tempo. Guarderemmo allora le nostre chiese contemporanee non con lo stesso occhio con cui ammiriamo quelle antiche, ma come gemme di nuove vite, appena agli inizi, cui tutti siamo chiamati a contribuire perché rappresentino non questo o quel progettista, ma la nostra comunità che oggi compie il suo cammino, edificando una testimonianza destinata a protrarsi, al di là dei tempi.

Cattedrale di Oakland (California) | (progetto S.O.M., foto T. Hursley) | Il portale.

Santuario di Fatima (Portogallo) | Chiesa nuova (progetto Alexandros Tombazis) | Reinterpretazione del nartece.

Chiesa di Mogno (progetto Mario Botta, foto Pino Musi) | Vista verso l’altare.

Monastero di Tautra (progetto Skodvin & Jensen) | La chiesa | Parete di fondo trasparente sulla natura.

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Chiesa di Riola di Vergato, (progetto Alvar Aalto) | Vista verso la parete di fondo.

Chiesa di St. Denis | Vetrate absidali.

Sala dei Cavalieri | Castello di Rothenfels (sistemazione liturgica di R. Guardini e R. Schwarz).

S. Ambrogio a Milano (varie opere nei secc. IV-XI-XII, nel XX revisione del presbiterio).

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Cappella ecumenica St. Henry a Turku (Finlandia) (progetto Sanaksenaho) |

Hainburg (Austria) (progetto Coop Himmelb(l)au) |


Un canone per l’arte sacra

“Nobile bellezza piuttosto che fasto” Giancarlo Santi

P

remessa Esiste

un

canone1,

un’espressione che sintetizzi l’insegnamento del Concilio Vaticano II in materia di arte sacra, cioè di arte per la liturgia? Quel canone potrebbe essere “nobile bellezza piuttosto che puro fasto”, cioè il n.124/a della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium (SC). Ci proponiamo di verificare questa ipotesi. Il n.124 della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia SC2, nella formulazione approvata nel dicembre del 1963, risulta composto da tre paragrafi: il primo indica quale tipo di arte sacra i Vescovi dovranno promuovere, il secondo indica quali opere d’arte essi dovranno allontanare “dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri”, il terzo precisa la finalità principale in vista della quale si dovranno costruire le nuove chiese, la liturgia. 1 | L’espressione “canone”, che utilizzo in senso musicale, non giuridico, mi è stata suggerita dal testo di padre F. Cassingena – Revedy osb citato in nota. 2 | “Nel promuovere e favorire un’autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare una nobile bellezza piuttosto che un puro sfarzo. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri.

Il superamento o il ridimensionamento del “fasto” come canone dell’arte sacra cattolica non è da considerare un evento secondario, dal momento che, di fatto, dall’età barocca in poi il fasto era diventato sinonimo di arte sacra e di liturgia cattolica ed era rimasto tale per almeno tre secoli. I documenti magisteriali in diversi luoghi usano termini quali nobiltà, semplicità, povertà. La chiesa si distingua non tanto per sontuosità di costruzione quanto per nobiltà di linee e si presenti davvero come simbolo e segno delle realtà ultraterrene.

Il primo paragrafo - n. 124/a - è formulato così: “Nel promuovere e favorire un’autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare una nobile bellezza piuttosto che un puro fasto. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri”. Siamo di fronte a una direttiva (non un semplice auspicio), di carattere generale (tocca tutte le espressioni dell’arte per la liturgia e viene estesa anche alle vesti e agli ornamenti sacerdotali al di fuori della liturgia), che i vescovi sono tenuti ad attuare, una direttiva espressa con un testo sintetico, a due facce (cosa fare e cosa non fare), che tocca una questione nevralgica relativamente all’arte sacra. Il testo non contiene alcuna definizione di “arte sacra” (che viene data come nota e, dal contesto e dagli interventi dei Padri, è da intendere come l’arte al servizio del culto liturgico).

Con quella direttiva i Padri conciliari si proponevano esplicitamente di rispondere alla domanda: in sintesi, quale tipo di arte sacra intende promuovere il Concilio? Il tema affrontato (decisamente nuovo nella storia dei documenti conciliari ma non nella storia della riflessione teologica e della prassi pastorale), il tono dell’enunciato (un compito), la sua estensione e la sua stessa collocazione (all’inizio del paragrafo) mettono sull’avviso: si tratta di questione decisamente importante. Sembra perciò doveroso soffermarsi a riflettere innanzitutto sulla sua origine e sul suo significato.

I vescovi abbiano cura di allontanare con zelo dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri le opere d’arte che sono contrarie alla fede e ai costumi e che ripugnano alla pietà cristiana, che offendono il genuino senso religioso, o perché depravate nelle forme, o perché mancanti, mediocri o false

che ha accompagnato e promosso lo sviluppo del testo conciliare. La prima osservazione che emerge dall’analisi comparata delle quattro formulazioni della Costituzione è che il paragrafo è assente sia nello

nell’espressione artistica. Nella costruzione poi degli edifici sacri ci si preoccupi diligentemente che siano idonei a consentire lo svolgimento delle azioni liturgiche e la partecipazione attiva dei fedeli.”

1. Per ricostruire la genesi del testo in esame abbiamo a disposizione una pubblicazione che ha utilizzato i documenti dell’Archivio del Concilio, nella quale si analizza il dibattito3

3 | GIL HELLIN F., Concilii Vaticani II Synopsis Constitutio de Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2003.

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Schema approvato dalla Commissione preparatoria tra la fine del 1961 e l’inizio del 1962, sia nello Schema approvato da Papa Giovanni XXIII e inviato ai Padri per l’esame in aula e presentato nella prima Sessione conciliare il 22 ottobre 1962. Nei due Schemi citati era presente solo il secondo paragrafo, quello relativo alle opere d’arte da allontanare. In essi non vi era traccia neppure del terzo paragrafo. La prospettiva che caratterizzava i due primi Schemi all’inizio del dibattito in aula era dunque solo negativa: ci si limitava ad affidare ai vescovi il compito di allontanare dalle chiese le opere d’arte non adatte (specificandone le motivazioni); nulla si diceva a proposito delle caratteristiche salienti delle opere d’arte da ammettervi né della finalità da perseguire nella costruzione delle nuove chiese. Sia il primo paragrafo, che stiamo analizzando, sia il terzo (che non prendiamo in considerazione in questa sede) compaiono per la prima volta nella terza versione della Costituzione, nel così detto testo “emendatus”, cioè il testo risultante da quello precedente, modificato dalla Commissione per la liturgia sulla base degli interventi orali e scritti dei Padri. Abbiamo così raggiunto una prima conclusione significativa: SC 124/a è frutto del dibattito conciliare del 1962, non dei lavori preparatori del Concilio stesso. Lo si può considerare un apporto, una novità del Concilio. SC 124/a è accompagnato da una relazione che indica le ragioni delle modifiche introdotte allo Schema precedente rinviando agli interventi dei Padri che le hanno proposte. In questo modo siamo messi in grado di conoscere le ragioni che hanno spinto la Commissione a inserire il nuovo paragrafo e possiamo risalire ai Padri che ne hanno chiesto l’inserimento con i relativi interventi; perciò siamo molto agevolati nell’interpretare il nostro paragrafo. THEMA | SANTI |

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Nel successivo dibattito che si svilupperà nel 1963 il nostro paragrafo non subirà modifiche e verrà approvato nella sua formulazione originaria il 4 dicembre 1963. Chiarito come, quando e da chi il testo è stato formulato, approfondiamo ora quali sono stati gli interventi dei Padri che sono stati accolti, in base a quali criteri e con quali obiettivi la Commissione sulla sacra liturgia ha formulato il testo. La Commissione dichiara in primo luogo di avere accolto il suggerimento contenuto nell’intervento di Maurizio Roy, cardinale canadese, il quale, tra le altre cose, chiedeva che fosse evidenziato il “nobile” fine al quale le opere d’arte sacra devono soddisfare; occorre precisare, tuttavia, che nel suo intervento il cardinale non usa l’espressione “nobile bellezza”. La Commissione inoltre dichiara di accettare il suggerimento contenuto nell’intervento di Alfred Ancel, vescovo ausiliare di Lione4, e di altri (Paul Seitz, Bonaventura Leo De Uriarte Bengoa, Pietro Zilianti, Ercolano van der Burgt) che si erano espressi a favore di un’arte sacra sobria, ispirata alla semplicità evangelica, chiedendo di evitare lo “scandalo” provocato dalla eccessiva sontuosità delle vesti prelatizie e dell’arte sacra in genere. Su questa base la Commissione ha ritenuto di formulare un nuovo paragrafo con cui introdurre il n. 124, un paragrafo che sarà poi approvato: “Curent Ordinarii ut arte vere sacram promoventes eique faventes, potius nobilem intendant pulchritudinem quam meram sumptuositatem”. Inoltre, per quanto riguarda le vesti e gli ornamenti, ambito per il quale va 4 | In una pubblicazione del 1973 Alfred Ancel chiarisce il suo intervento al Concilio: Pauvreté de l’Eglise, Paris, Editions du Jour; nel 1974 il volumetto sarà pubblicato con il titolo Per una chiesa povera dal centro Studi Sociali dei padri gesuiti del Centro San Fedele di Milano. Ancel approfondisce in particolare il legame tra la povertà, le chiese e il culto alle pp. 65 – 70.

fatto valere il criterio appena indicato, la Commissione cita gli interventi di altri nove Padri che invitano insistentemente alla sobrietà (Simon Hoa Nguyen Van Hien, Paolo Yoshigoro Taguchi, Renato Kerautret, Emmanuel Larrain Errazuriz, Enrico Golland Trindade, Maurizio Baudoux, Rodolfo Silva Henriquez, Paolo Gouyon, Ansgario Sevrin). Nello stesso tempo la Commissione richiama la necessità di non eccedere nella linea della povertà e a questo proposito cita gli interventi di tre Padri (Iesus Enciso Viana, Zacharias Rolim De Moura e Carlo Rossi). Rileggendo gli interventi dei Padri che stanno all’origine di SC 124/a emerge un’idea di arte sacra di elevato livello qualitativo, ispirata alla semplicità e alla sobrietà (e analogamente per le vesti e gli ornamenti episcopali) ed emergono anche i motivi per i quali i Padri avanzano la loro proposta. Si tratta di motivi pastorali (non estetici né liturgici): essi desiderano evitare che la sontuosità delle opere d’arte e delle vesti del clero diano scandalo ai poveri del mondo. La motivazione addotta non è generica né tanto meno estemporanea ma si rifà all’insegnamento dei padri della Chiesa (come san Giovanni Crisostomo, esplicitamente citato da Alfredo Ancel) e al Vangelo e tiene conto della povertà che affligge una parte rilevante dell’umanità, come evidenzia il vescovo ausiliare di Lione nel suo intervento5. 5 | Si tenga conto della vivacità del dibattito in materia di “povertà” negli anni conciliari di cui è testimone il volume Y. M. – J. Congar, Pour une Eglise servante et pauvre, Paris, Edition du Cerf, 1963 tradotto in italiano e pubblicato dalle edizioni Qiqajon Comunità di Bose nel 2014; nella prefazione Enzo Bianchi richiama in sintesi il clima nel quale il volumetto è stato scritto e non dimentica di collocarne la recente pubblicazione in lingua italiana nel contesto dell’insegnamento di papa Francesco sulla “Chiesa povera e dei poveri”. A proposito dell’insegnamento dei Padri della Chiesa in materia di povertà e ricchezza segnalo M.


Poste queste premesse, l’espressione “nobile bellezza”, coniata e proposta dalla Commissione e inserita nel testo della Costituzione, a nostro sommesso parere, risulta non del tutto felice e sembra piuttosto generica; inoltre essa, per quanto riguarda la sua formulazione letterale, affonda le sue radici nella storia dell’arte e dell’estetica6, piuttosto che nell’insegnamento dei Padri della Chiesa e del Vangelo. Il significato dell’espressione “nobile bellezza”, tuttavia, emerge con sufficiente chiarezza dal momento che essa viene contrapposta e fatta prevalere (“potius…quam”, “piuttosto che” è da intendere in senso avversativo) sul “puro fasto” (da intendere come sontuosità. sfarzo, lusso, esibizione di materiali preziosi e rari, ostentazione di oggetti di fattura raffinata)7. Considerata nella sua totalità, quindi, l’espressione che stiamo esaminando risulta più esplicita nella parte negativa (che cosa occorre evitare) che nella parte propositiva (che cosa si deve promuovere). Non può sfuggire, infatti, che al “puro fasto” sarebbe stato più logico contrappone la “modestia”, la “sobrietà”, la “semplicità”, o anche la “nobile semplicità” (se si fosse inteso evitare ogni rischio di banalizzazione), Todde e A. Pieri, Retto uso delle ricchezze nella tradizione patristica, Milano, Edizioni Paoline, 1985. 6 | W. Tatarkiewics, Storia di sei Idee, Palermo, Aesthetica, 2004, ed polacca 1976, p. 168 (W. Goethe) e p.171 (E. Sou riau). 7| Per quanto riguarda gli aspetti negativi delle opere d’arte sacra, oltre al “puro fasto”, va tenuto conto di SC 124/b che ripropone la normativa del Concilio di Trento integrandola con una nota sull’espressione artistica che non può essere mancante mediocre o falsa (“I Vescovi abbiano cura di allontanare con zelo dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri le opere d’arte che sono contrarie alla fede e ai costumi e che ripugnano alla pietà cristiana, che offendono il genuino senso religioso, o perché depravate nelle forme, o perché mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica.”)

non la “nobile bellezza”, dal momento che, come testimonia tanta parte dell’arte rinascimentale e barocca, fasto non si oppone a bellezza. A proposito di “nobile semplicità”, è il caso di ricordare che tale espressione era già stata usata in SC 34 dove veniva riferita ai riti (“i riti risplendano per nobile semplicità”) anche se in nota il commento della Commissione faceva riferimento alla “semplicità evangelica”. Si può supporre perciò che la Commissione la conoscesse ma che abbia ritenuto di non utilizzarla per motivi che non conosciamo (ma che potrebbero essere contenuti nei verbali della Commissione stessa). Al termine di questa breve analisi sembra di poter concludere che i Padri conciliari nell’adottare l’espressione “nobile bellezza” intendevano proporre una bellezza dignitosa, semplice e sobria, le cui radici sono nella semplicità evangelica; essi pertanto escludevano la mera sontuosità, cioè l’uso di materiali rari e costosi, di indumenti sfarzosi, di fogge complesse e teatrali. È opportuno far notare che il superamento o il ridimensionamento del “fasto” come canone dell’arte sacra cattolica (mai dichiarato ufficialmente ma presupposto e largamente praticato con numerose variazioni e sfumature a partire dalla Controriforma, non dalla così detta Riforma cattolica,8 al 8 | Sulla questione “Riforma cattolica e Controriforma” rinvio a Paolo Prodi, Arte e pietà nella Chiesa tridentina, Bologna, il Mulino, 2014 la cui introduzione aggiorna sul dibattito. Per quanto riguarda l’architettura merita attenzione Giovanni Sale, Pauperismo architettonico e architettura gesuitica, Milano, Jaca Book, 2001. Più in generale sull’arte promossa dalla Compagnia di Gesù fino alla soppressione si veda Giovanni Sale (red,), Ignazio e l’arte dei gesuiti, Milano, Jaca Book, 2003. Una sintetica e aggiornata rassegna sull’insegnamento del Concilio di Trento in materia di arte, con ampia rassegna bibliografica, è costituita da: Domizio Cattoi Domenica Primerano (redd.), Arte e persuasione. La strategia delle immagini dopo il Concilio di Trento,

puntoda non creare problemi neppure agli estensori dei primi due Schemi della Costituzione conciliare sulla liturgia) non è da considerare un evento secondario, dal momento che, di fatto, dall’età barocca in poi il fasto era diventato sinonimo di arte sacra e di liturgia cattolica ed era rimasto tale per almeno tre secoli. Da questo punto di vista l’abbandono del canone “fasto” si può considerare come un’inevitabile conseguenza dell’aggiornamento della Chiesa, chiamata a vivere e a testimoniare la sua fede in una società in cui la cultura del fasto, almeno per quanto riguarda le arti, pare ormai avere ceduto il passo alla cultura della semplicità. Non si può negare, tuttavia, che l’adozione di un’espressione così caratterizzata come “nobile bellezza”, mentre teneva conto degli interventi dei padri conciliari nelle loro punte più riformiste, attenuandole, rivelava l’intenzione di promuovere un’arte sacra di elevata qualità, evitando ogni forma di banalizzazione.9 Infine non si può ignorare il fatto che, con l’intenzione di chiudere la strada a eventuali atteggiamenti radicali, il testo risulta assai sfumato in due punti: in primo luogo il fasto non viene escluso in modo assoluto dal momento che viene qualificato come “puro fasto” e, Trento, Temi, 2014, catalogo della mostra, Trento, Museo Diocesano Tridentino, 7 marzo – 29 settembre 2014. 9 | Nella Costituzione conciliare sulla sacra liturgia l’uso dell’aggettivo “nobile” ricorre solo quattro volte: in SC 124, in SC 34 (“i riti splendano per nobile semplicità”), in SC 113 (“L’azione liturgica assume una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente in canto..”) e in SC 122 (“Fra le più nobili attività dell’ingegno umano sono, a pieno diritto, annoverate le belle arti”). Sembra di capire che tale aggettivo sia da intendere non tanto in senso letterale, cioè “aristocratico”, ma in senso metaforico, cioè “elevato”, “alto” o anche “dignitoso”. Sembra anche che la scelta di tale aggettivo intenda evitare il rischio di opere d’arte di modesto o basso livello. Nulla si dice delle opere di artigianato, né delle opere di serie, né del design.

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in secondo luogo, la “nobile bellezza” non viene contrapposta a “puro fasto” (che non viene escluso in modo netto) ma preferita a esso (“piuttosto che”). 2. Nei principali documenti attuativi Come è stato recepito il canone sull’arte sacra nei due principali documenti attuativi del Concilio in materia di arte sacra, le Premessa al Messale e il Rito della dedicazione di una chiesa? Nella versione 1983 di “Principi e Norme per l’uso del Messale Romano” SC 124 non viene mai citato da solo. Tuttavia il n. 279, dedicato alla “disposizione generale del luogo sacro” recita: “l’arredamento della chiesa abbia di mira una nobile semplicità piuttosto che il fasto”, espressione che combina il n. 34 e il n. 124 di SC, limitandolo però all’arredamento. Nel n. 243, tra i principi generali, SC 124 viene citato insieme ai due precedenti, SC 122 e SC 123, con la seguente formulazione: “…i luoghi e le cose che servono al culto siano davvero degne, belle, segni e simboli delle realtà celesti”. Questo testo utilizza quasi per intero la sequenza degli aggettivi presenti in SC 122, ignorando l’aggettivo “decorose”, ma non fa cenno alla “nobile bellezza”. Neppure nella versione approvata nel 2004 dello “Ordinamento Generale del Messale Romano” SC 124 viene citato da solo. Tuttavia, nel n. 292 si dice: “L’arredamento della chiesa si ispiri a una nobile semplicità, piuttosto che al fasto”, variando un poco la versione presente nel n. 279 del 1983. Nel n. 288, tra i principi generali, si ripropone il testo del n. 243 nella versione 1983 e si citano SC 122, SC 123 ed SC 124. Nelle premesse al Messale Romano, perciò, l’espressione “nobile bellezza” non compare. Al suo posto compare l’espressione “nobile semplicità, piuttosto che il fasto”. Anche il “Rito della dedicazione di una chiesa” non utilizza l’espressione “nobile bellezza” e non cita SC 124. THEMA | SANTI |

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Tra le premesse, tuttavia, il n. 29 ne riprende e amplia la formulazione: “Come la sua stessa natura e funzione esige, la chiesa dev’essere adatta alle sacre celebrazioni, dev’essere quindi un edificio dignitoso, che si distingua non tanto per sontuosità di costruzione quanto per nobiltà di linee e si presenti davvero come simbolo e segno delle realtà ultraterrene”. 3. È interessante verificare come il canone dell’arte sacra promosso dal Concilio in SC 124 è stato accolto e assimilato nei documenti pubblicati da alcune conferenze episcopali nei 50 anni successivi al Concilio stesso10. Nel n. 6 del direttorio liturgico pastorale pubblicato nel 1987, i vescovi spagnoli citano per esteso SC 124 e lo commentano così: “L’arte dev’essere un elemento espressivo, degno e funzionale dello spazio e nell’ambiente della celebrazione. La bellezza semplice e attraente costituisce un buon invito ad approfondire e a vivere l’esperienza del mistero.” È degno di nota il fatto che, nel n. 7, intitolato “Qualità delle forme artistiche”, il direttorio elenca sei qualità: autenticità, sobrietà, attualità, creatività, eleganza e limpidezza; tra esse SC 124 viene citato solo in relazione alla sobrietà o semplicità e viene posto a conclusione del commento che accompagna queste due qualità. “Sobrietà o semplicità in accordo con lo spirito evangelico e con il gusto moderno che in architettura, decorazione , arredamento e abbigliamento cercano un’adeguata funzionalità più che la complicata sontuosità di altre epoche.” I vescovi tedeschi affrontano il nostro tema nel capitolo 2 delle “Linee guida per la costruzione e l’arredo degli edifici sacri” pubblicate nel 1988. A conclusione del punto 2.1. (dedicato 10 | Tiziano Ghirelli, Ierotopi cristiani le chiese secondo il magistero, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pp. 473 – 808.

alla preparazione, progettazione e costruzione delle chiese) dichiarano: “costruzione e arredo devono, al pari della liturgia, risplendere per la nobile semplicità (SC 34)”. Il paragrafo successivo, il n. 2.2. (dedicato alle opere d’arte) conclude: “l’architettura ecclesiale dev’essere contrassegnata dalla credibilità del Vangelo, cioè deve segnalarsi per una semplicità abitata da qualità artistica e da funzionalità” e, in riferimento agli interventi di ristrutturazione sostiene che “gli ambienti liturgici non devono dare l’impressione di fasto eccessivo (SC 124). Ciò non significa che per questo debbano apparire dimessi.” I vescovi italiani, nel documento dedicato alla costruzione delle 11 nuove chiese , pubblicato nel 1993, uniformandosi al n. 279 di “Principi e Norme per l’uso del Messale Romano”, che citano, nel paragrafo n. 18 dedicato all’arredo, utilizzano l’espressione “nobile semplicità anziché il fasto”, che è frutto della combinazione tra SC 34 e SC 124. A loro volta i vescovi irlandesi trattano del nostro tema nel direttorio pastorale del 1994, nel quale, al punto 3.5, sotto il titolo di “ semplicità” dichiarano: “l’architettura e la decorazione dovrebbero essere caratterizzate da una nobile semplicità (IGMR 287). Semplicità non significa pauperismo e l’autentica espressione della virtù cristiana della povertà può costituire una forte testimonianza di fronte al materialismo crescente della vita moderna.” Nel documento pubblicato nel 1999 i vescovi canadesi dedicano un intero paragrafo all’arte nell’insegnamento del Vaticano II dove citano i SC 123 ed SC 125 e interpretano SC 124 come “ nobile bellezza piuttosto che sontuosità”. Inoltre, tra i principi da seguire nella progettazione degli spazi liturgici includono la “semplicità”. 11 | CEI Commissione episcopale per la liturgia, La progettazione di nuove chiese, Nota pastorale, 18 febbraio 1993.


I vescovi della Conferenza Episcopale USA, nel documento pubblicato nel 2000, si limitano a indicare due soli criteri per valutare l’arte destinata al culto: “qualità” e “adeguatezza” (funzionalità in senso lato). Nel documento pubblicato nel 2006 i vescovi della Conferenza Episcopale di Inghilterra e del Galles, nel n. 12 dedicato alle opere d’arte, si limitano a citare IGMR adottando un’originale formulazione “nobile semplicità piuttosto che ostentazione.” 4. Per concludere può essere utile passare in rassegna le interpretazioni date al nostro tema da alcuni autori nel corso dei cinquant’anni dopo il Concilio a partire da quelle pubblicate negli anni più vicini all’approvazione della Costituzione liturgica. Il benedettino brasiliano Marcos Barbosa nel suo contributo al volume contenente studi e commenti sulla Costituzione conciliare sulla liturgia12 pubblicato nel 1964, a Costituzione liturgica appena approvata, associa la sontuosità alle esuberanze barocche e la nobile bellezza alla povertà e conclude la sua breve riflessione su SC 124/a in questi termini: “Nel mondo d’oggi, che prende coscienza della sua miseria, non sarà più convincente, più attraente e più materna un Chiesa che si presenti vestita da povero? E la nobile bellezza di cui parla la Costituzione si trova più facilmente nella povertà che nella mera sontuosità”. Il liturgista Antonio Donghi, nel 1986, a vent’anni dalla conclusione del Concilio13, commenta la Costituzione sulla liturgia e, in tema di “nobile bellezza”, argomenta: “L’arte è al servizio del trascendente per un vero 12 | Don Marcos Barbosa osb, “L’arte sacra”, in Guglielmo Barauna ofm (red.), La sacra liturgia rinnovata dal Concilio, Torino, Elle di ci, 1964, traduzione dal portoghese, pp. 645 - 666. 13| Antonio Donghi, Sacrosanctum Concilium. Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, Casale Monferrato (AL), PIEMME, 1986, p. 112.

dialogo celebrativo e perciò deve avere le caratteristiche del segno liturgico: una nobile bellezza che non è incompatibile con la povertà evangelica che è la vera anima del culto (SC 34)”. Sul tema della “nobile bellezza” si è soffermato nel 2014 Luigi Girardi14 che, seguendo un percorso liturgico, pare giungere a conclusioni analoghe alle nostre. “Il testo conciliare – sostiene il preside della Facoltà di Liturgia di Padova – sembra trovare un equilibrio invitando a rifuggire dalla sontuosità (che sembra contraria al carattere di semplicità, carità, solidarietà ispirato dal Vangelo), ma indicando anche il dovere di tendere a una nobile bellezza, ossia senza rinunciare a quella qualità artistica (o di elevazione dal linguaggio ordinario) che è necessario al linguaggio rituale in genere, proprio per assolvere al suo compito.” A partire dal tema della “nobile semplicità” si sviluppa la riflessione teologica di padre Francois 15 Cassingena-Trevedy osb che, dopo avere accostato la categoria di dignità a quella di bellezza, scava nelle due sintetiche espressioni conciliari “nobile semplicità” e “nobile bellezza” e identifica la triade concettuale semplicità, nobiltà e bellezza che, a suo parere, si può considerare il “canone” dell’arte sacra secondo il Vaticano II. Lo studioso benedettino, inoltre, colloca la triade nel contesto della Scrittura, della 14| Luigi Girardi, “Liturgia e architettura a 50 anni da SC: la via aperta dal Concilio”, relazione in occasione della giornata di studio “Architettura di chiese e riforma liturgica a 50 anni dal Concilio Vaticano II”, Torino, Facoltà Teologica di Torino, 23 maggio 2014, testo distribuito in aula. 15| “Nobile bellezza”: schizzo per un’estetica e un ethos della liturgia attraverso la Costituzione “Sacrosanctum Concilium”, in Goffredo Boselli (red.), Nobile semplicità liturgia, arte e architettura del Vaticano II, Magnano (BL), Edizioni Qiqajon Comunità di Bose, 2014, atti dell’XI Convegno liturgico internazionale, Bose, 30 maggio – 1 giugno 2013, pp. 199 – 216..

letteratura patristica e della ricerca teologica contemporanea. 5. Fuori dai confini della letteratura ecclesiale – testi magisteriali e contributi teologici – è difficile individuare categorie che siano in grado di tradurre espressioni come “nobile bellezza”, dal momento che espressioni come “nobiltà” e “bellezza” praticamente sembrano non trovare più spazio nella letteratura critica corrente ma in quella storica (tanto è vero che, alla fine del sec. XX, il termine “bellezza”, in particolare, è diventato onnipresente nella comunicazione ecclesiastica con un’accezione estremamente generica). Stante questa situazione, per una migliore comprensione di “nobile bellezza” sembrerebbe non del tutto fuori luogo ricorrere alla categoria della “semplicità”16, come, d’altra parte, hanno fatto numerosi documenti di Conferenze episcopali citati. Semplicità, da una parte si può considerare una categoria contemporanea, dal momento che sembra del tutto aliena da ogni forma di storicismo, e dall’altra si può considerare come il punto di arrivo di un processo di elaborazione che prende l’avvio dalla complessità per arrivare a forme di immediata lettura e comprensione, cioè come il frutto consapevole di una ricerca paziente che esclude ogni forma di banalità, di formalismo gratuito e di esibizionismo 16 | A titolo esemplificativo rinvio al numero monografico della rivista di architettura e design “area” 2009/106 dedicata a “simplicity”, semplicità, con numerosi interventi e un ricco corredo bibliografico relativo all’arte, all’architettura e al design. Ancora a titolo esemplificativo cito parte del contributo dell’architetto Alberto Campo Baeza che commenta così l’aggettivo “semplice”: “semplice è essenziale, non è minimale; semplice è logico, non è capriccioso; semplice è razionale, non è razionalista; semplice è chiaro, non è complicato; semplice è puro, non è freddo; semplice è delicato, non è blando; semplice è vero, non è falso; semplice è onesto non è truffatore, semplice è poetico, non è prosaico.”

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tecnologico. Conclusione Siamo partiti dall’ipotesi che l’insegnamento in materia di arte sacra del Concilio Vaticano II potesse essere condensato nel canone in un solo punto – SC 124/a – ma, passando in rassegna i documenti di attuazione del Concilio, i documenti di alcune conferenze episcopali e le riflessioni di alcuni teologi e liturgisti, ci siamo resi conto che il canone dell’arte sacra secondo il Concilio Vaticano II richiede, sia un’articolazione più ampia, sia una formulazione più efficace. Il canone a una sola componente, infatti, risulta insufficiente (troppo astratto e generico) e la sua stessa formulazione sembra richiedere di essere espressa con in termini più propositivi e più comprensibili nell’attuale contesto culturale; così come si presenta, rischia di ridursi a una sorta di citazione, un mero reperto retorico, affascinante ma sterile. Il canone dell’arte sacra secondo il Concilio Vaticano II, perciò, potrebbe essere espresso così: + la Chiesa non ha uno stile artistico proprio ma è aperta a tutte le culture artistiche (SC 123), +è aperta/in dialogo con l’arte contemporanea (SC 123), +è alla ricerca di una bellezza semplice e sobria (meglio che nobile) non del fasto (SC 124/a), +intende promuovere opere d’arte sacra che siano di elevato livello e che sappiano entrare attivamente nelle dinamiche della liturgia (SC 123.124/c). Questo canone articolato non ha un valore meramente teorico ma ha valore operativo. È in grado, cioè, di orientare meglio (con precisione ed efficacia) l’attività dei vescovi e dei loro collaboratori in quattro ambiti: +nella formazione del clero e dell’intero popolo di Dio e degli artisti, +nella scelta degli artisti e degli architetti ai quali affidare gli incarichi, THEMA | SANTI |

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+nell’impostare la ideazione delle opere d’arte e la progettazione delle opere di architettura, +nella valutazione delle opere d’arte e di architettura. Giunti a questo punto sorge spontanea la domanda se, in quale misura e con quali risultati tale canone dell’arte sacra è stato effettivamente proposto dai vescovi e utilizzato nei quattro ambiti sopra elencati, da parte delle diocesi, delle conferenze episcopali regionali e da quelle nazionali nei 50 anni successivi al Concilio. Ma, evidentemente, per dare risposta a questa impegnativa ma non eludibile domanda sarebbe necessaria un’altra e ben più ampia ricerca.

Chiesa di Sant’ Agostino | Ascoli Piceno | foto Silvana Di Stefano

Chiesa di Santa Maria di Siponto (Manfredonia -FG) | Cripta | foto Giuseppe Marcantonio

Basilica di San Nicola da Tolentino | Chiostro | photo Silvana Di Stefano

Chiesa di Santa Maria di Siponto (Manfredonia -FG) | Cripta | photo Giuseppe Marcantonio


Il segno dell’abside Goffredo Boselli

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forma di emiciclo oppure di un muro poligonale o di semplice parete, l’abside è la parte della chiesa opposta all’entrata principale. Il termine “abside” proviene dal greco aphis reso in latino con abis o apsis e più tardi absida. Aphis è qualsiasi oggetto curvo e non necessariamente a semicerchio. A partire dal Medioevo col latino apsis prevale il senso di spazio semicircolare. Occorre ricordare che anche nelle più antiche sinagoghe la parte rivolta a Gerusalemme era molto spesso contrassegnata da una sporgenza semicircolare attraverso la quale si indicava la direzione della città santa e dunque segnava il punto dove dirigere la preghiera della comunità. Se nelle sinagoghe più antiche l’abside rimane vuota, in quelle più recenti accoglie l’Aron haQodesh, l’armadio santo che contiene il Sefer Torah, il rotolo della Legge. Negli esempi più antichi di chiese cristiane, quelle siriache che sono la forma cristianizzata della sinagoga ebraica, si trova, quasi addossata al muro dell’abside, una tavola a forma di sigma, forse a voler in qualche modo assecondare la forma del catino absidale. A partire dal IV secolo si chiama abside la parte concava delle basiliche

romane opposte alla porta d’ingresso. Quando i cristiani abbandonarono le catacombe utilizzarono l’emiciclo riservato ai magistrati per porvi la cattedra episcopale e i seggi dei presbiteri. La conca absidale divenne il presbiterio al centro del quale venne posto l’altare. Nel corso dei secoli, per la sua configurazione, la posizione elevata, lo splendore dei suoi mosaici e il ruolo nell’azione liturgica, l’abside divenne il centro di convergenza di tutto l’edificio. Per questo, nelle chiese orientate l’abside era lo spazio verso il quale l’assemblea era rivolta per la preghiera e lo sguardo dei fedeli convergeva verso il catino dell’abside dove era raffigurato il Pantocrator, il Cristo nella gloria. La preghiera liturgica era così invocazione rivolta al Veniente di cui il sorgere del sole era segno ed evocazione. In occidente, l’architettura romanica, la gotica e successivamente quella barocca variano le forme dell’abside – anche a causa del cambiamento di funzione che nel corso dei secoli essa assunse all’interno dello spazio e dell’azione liturgica – e tuttavia non aboliscono l’abside, riconoscendola come una parte costitutiva ed essenziale di una chiesa cristiana al pari della facciata, del portale, della

La funzione primaria dell’abside non è di qualificare lo spazio retrostante l’altare. Al contrario, scopo dell’abside è dare, sia allo spazio, sia all’azione liturgica un senso nella duplice accezione di direzione e di significato. L’abside è il luogo dove l’edificio converge, così che le linee architettoniche guidano l’assemblea celebrante a orientare il corpo, lo sguardo, lo spirito e la preghiera in una direzione.

navata, del transetto, del presbiterio. L’architettura liturgica contemporanea non si è posta in modo netto in continuità con le epoche e gli stili architettonici che l’hanno preceduta. Quale la ragione? Rispondere a questa domanda potrebbe essere l’oggetto di ricerche ampie e documentate di cui oggi, a mia conoscenza, non si dispone. Il fatto stesso che manchino studi mirati sull’evoluzione storica dell’abside, e sulla sua comprensione nell’architettura liturgica contemporanea è indice eloquente. Occorre riflettere sulle ragioni per le quali la riflessione degli architetti, come dei teologi e dei liturgisti sia stata attratta in questi ultimi anni dallo spazio liminare, dal luogo della soglia, dalla simbologia della porta e abbia dimenticato lo spazio speculare all’ingresso di una chiesa, qual è appunto l’abside. Una ragione è senz’altro il fatto che nella dimensione liminare si coglie un significato antropologico che allo spazio absidale a torto non si riconosce. Sebbene si debba costatare l’amnesia del segno dell’abside, al tempo stesso non mancano alcune nuove interpretazioni dello spazio absidale di indubbia qualità architettonica. L’estrema pulizia formale dell’ampio THEMA | BOSELLI |

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Miguel Fisac | Iglesia de la Coronación de Nuestra Señora | Vitoria | photo Wikipedia - Zarateman

emiciclo realizzato nel 1955 da Emil Steffann nella chiesa di St. Laurentius a Monaco è l’interpretazione dell’abside come parte curva, una vera e propria aphis. Ma Steffann esclude aperture e così rinuncia alla luce, elemento tradizionalmente costitutivo dell’abside. Nelle chiese di Miguel Fisac l’abside è una realtà pensata e creata; dalla lineare curva di Nuestra Senora de la Coronacion a Vitoria (1957-1960) alla triabsidata Santa Ana a Moratalaz. In Santa Maria a Marco de Canaveses, Álvaro Siza Vieira presenta un’intelligente rilettura dello spazio absidale. L’intensità di presenza dell’abside di Siza, elemento contraddistinto anche all’esterno, regge il confronto con l’imponente portale, situandosi in un ideale dialogo. Al segno della porta corrisponde il segno dell’abside, sono realtà speculari molto simili in altezza e dimensione. L’originalità di quest’abside è che sia uno spazio oltre l’aula così che dall’interno è più intuita che dimostrata. THEMA | BOSELLI |

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La sua presenza è rivelata da due ampie aperture rettangolari ricavate nella parete dietro l’altare, vere e proprie monofore grazie alle quali la luce zenitale dell’alto spazio absidale entra nell’aula. In fine, la grande abside della recente Notre-Dame de l’Arche de l’Alliance a Parigi configura un distinto spazio absidale sul modello basilicale. In basso è interamente percorsa da una panca per i ministri e al centro si staglia una croce in vetro che la fende dall’alto in basso e che lascia filtrare la luce esterna. Sia qui che a Marco de Canaveses la luce è elemento dell’abside, e nel solco da tradizione la luce è materia e simbolo, così da essere Luce confessata e celebra. Questi pochi esempi mostrano che una nuova interpretazione dell’abside è possibile quando l’architetto e il committente sono consapevoli che essa è un elemento costitutivo e irrinunciabile di una chiesa cristiana. La funzione primaria dell’abside non è unicamente di qualificare lo spazio

retrostante l’altare che non può mai essere ridotto a semplice fondale o tutt’al più a scenario dell’azione liturgica. Al contrario, lo scopo principale dell’abside è quello di dare sia allo spazio sia all’azione liturgica un senso nella duplice accezione di direzione e di significato. L’abside è il luogo dove l’edificio converge, così che le linee architettoniche guidano l’assemblea celebrante a orientare il corpo, lo sguardo, lo spirito e la preghiera in una direzione. Se infatti lo spazio liturgico non ha una direzione chiara, anche la preghiera dell’assemblea è disorientata. L’abside è polo di convergenza, elemento di unità, spazio di incontro. Per questa ragione, nella chiesa cristiana è da sempre attestata una contiguità tra abside ed altare. Se l’altare è l’oggetto centrale dello spazio liturgico cristiano, l’abside è lo spazio tipico dell’altare, in quanto è il luogo che consente all’altare di rivelare il suo senso di tavola ma anche di soglia, di frontiera.


Per Romano Guardini l’altare è una soglia che realizza una frontiera tra lo spazio del mondo e lo spazio di Dio, tra l’immediatezza dell’umano e la trascendenza del divino. L’abside è lo spazio nel quale l’altare cristiano si iscrive e al tempo stesso l’altare circoscrive attorno a sé comunicando le sue proprietà. Per questo l’abside è anch’esso soglia e frontiera, è figura dell’aldilà dell’altare, e dunque dell’aldilà della Chiesa e del mondo stesso. L’abside autorizza l’altare a decentrarsi; muove lo sguardo e lo spirito dei credenti dal visibile all’invisibile: è spazio epifanico. Teologicamente l’abside è dunque anamnesi spaziale della Parusia, ossia di ciò che la comunità cristiana attende e invoca, per questo l’abside è simbolo escatologico, e il compimento atteso. La forma concava o semicircolare del luogo absidale, il suo sporgersi oltre l’edificio è il segno spaziale della Chiesa che si protende verso il Veniente. L’abside è la Chiesa chiamata dal suo Signore a uscire da sé stessa verso la sua verità. Per questo l’abside è stata anche intesa come spazio gratuito, non funzionale, suggestivamente definito da Frédéric Debuyst espace de gloire. L’abside è il respiro di una chiesa.

Miguel Fisac | Iglesia de Santa Ana y Nuestra Señora de la Esperanza ,1966, Madrid,Moratalaz,

Alvaro Siza | Igreja de Santa Maria Marco de Canaveses | Portone e Abside |photo Wikipedia - Pedro Simões

Notre Dame de l’Arche d’Alliance | Parigi | photo Wikipedia

Alvaro Siza | Igreja de Santa Maria Marco de Canaveses | photo Siza

Notre Dame de l’Arche d’Alliance | Parigi | Interno

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Le chiese, icone della Chiesa Marko Ivan Rupnik

Il luogo nel quale si riunisce la comunità cristiana per ascoltare la parola di Dio, per innalzare a Lui preghiere di intercessione e di lode e, soprattutto, per celebrare i santi misteri, è immagine speciale della Chiesa, tempio di Dio, edificato con pietre vive. Così l’edificio di culto cristiano corrisponde alla comprensione che la Chiesa, popolo di Dio, ha di sé stessa nel tempo: le sue forme concrete, nel variare delle epoche, sono immagine relativa di questa autocomprensione. Pertanto, la progettazione e la costruzione di una nuova chiesa richiedono, anzitutto, che la comunità locale si sforzi di attuare il progetto ecclesiologico-liturgico scaturito dal concilio Vaticano II che, in sintesi, esprime due convinzioni: la Chiesa è mistero di comunione e popolo di Dio pellegrinante verso la Gerusalemme celeste (cf SC 6.10; LG 4.9.13; GS 40.43); la liturgia è azione salvifica di Gesù Cristo, celebrata nello Spirito, dall’assemblea ecclesiale, ministerialmente strutturata attraverso l’efficacia di segni sensibili (cf SC 7.14; DV 21)”.1

1 | Conferenza Episcopale Italiana, Ufficio Liturgico Nazionale, La progettazione di nuove chiese, 1993, A1.

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Da queste poche righe è chiaro che anche l’attuale indicazione della Chiesa per la costruzione di nuovi spazi liturgici si inserisce senza mezzi termini nella grande e ininterrotta tradizione: la chiesa è immagine della Chiesa. Un’esistenza comunionale Nel discorso di congedo di Cristo nel vangelo di Giovanni viene testimoniato in modo esplicito che la missione di Cristo si compie nell’estendere sull’umanità la vita di Dio, l’esistenza divina. La vita divina è la comunione delle persone e l’esistenza delle persone in tale comunione d’amore è vivere uno nell’altro (cf Gv 14,10). Senza la redenzione, l’uomo non è in grado di arrivare alla vita vera che è appunto quella di Dio, la comunione assoluta. La comunione dunque è la vita che si accoglie, che viene donata, che non si conquista, ma si accoglie. L’accoglienza di questa vita trasfigura l’uomo, da individuo, in una nuova realtà che è la persona a immagine del Figlio che nello Spirito Santo partecipa alla relazione del Figlio con il Padre.2 2 | “ Infatti il Cristo non getta in noi un debole principio di corpo, o poche gocce di sangue, ma ci comunica perfettamente il suo corpo e il suo sangue. Egli non è semplicemente causa della vita come i genitori, è la vita; non si chiama vita

La realtà simbolica è esperienza di unità: bello è ciò che non è chiuso ma è aperto, abitato dall’Altro. Il pensiero moderno svaluta il simbolo, riducendolo a segno arbitrario usato per rappresentare convenzionalmente un’entità astratta, oppure identificandolo con segni attraverso i quali si instaura tra gli oggetti una relazione definita dalle convenzioni culturali di un particolare codice comunicativo. Mentre per gli antichi Padri il simbolo non è un rimandare da qualche parte, ma è la manifestazione, la rivelazione e la comunicazione del mistero come vita.

La Chiesa è così un organismo della comunione delle persone in Cristo. Un organismo delle persone che vivono la loro umanità al modo di Dio, il che per loro è possibile in Cristo. Nel processo dell’incarnazione, Cristo si identifica con Adamo morto, con l’umanità morta, separata, per raggiungerci e aprirci con il dono dello Spirito Santo la via nella quale noi possiamo identificarci con la sua umanità risorta. Con il battesimo ci troviamo innestati in questa umanità di Cristo, in questo suo corpo ricco di dimore. Quando ci riscopriamo nel corpo di Cristo come parte della comunione con gli altri, allora sperimentiamo davvero che lo Spirito Santo ci rende partecipi della vita di Dio. E scopriamo una nuova esistenza perché siamo in Cristo, un’esistenza caratterizzata dalla vita l’uno nell’altro.3 perché sia causa di vita, come per esempio chiamava luce gli apostoli perché furono per noi guide di luce. Si chiama vita, perché egli è ciò per cui realmente si vive: è lui la vita. Così dunque rende santi e giusti quelli che aderiscono a lui, non solo istruendo e insegnando quello che si deve fare, esercitando l’anima alla virtù e rendendo operanti le sue potenze orientate alla vita retta, ma fattosi lui stesso per loro giustizia e santificazione da Dio”: N. Cabasilas, La vita in Cristo, PG 150, 612D, tr. it. a cura di U. Neri, Città Nuova, 3° ed., Roma 2000, p. 221. 3 | Il passaggio dall’“ipostasi biologica” all’“ipostasi ecclesiale” garantitoci dal battesimo


Santuario di S. Giovanni Paolo II Cracovia

L’uomo, da solo, può al massimo giungere ad essere uno accanto all’altro, ma il battesimo e l’eucaristia ci plasmano e ci trasfigurano in un’esistenza l’uno nell’altro. Il cristiano partecipa pertanto di quel grande mistero espresso in modo così semplice ma magistrale da Cristo quando risponde a Filippo: “chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Cristo esplicitamente sostiene nel Vangelo di Giovanni (cf 10,30) che Lui e il Padre sono una sola cosa, dunque non è possibile una considerazione di Cristo in un cristocentrismo radicale, ma si fa spazio una conoscenza relazionale. “Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio” (Gv 8,19). La relazione non è un accidente, una realtà prevalentemente psicologica o sociologica, ma è la vita – la vita vera perché è la comunione e la vita filiale. E dunque è il luogo della conoscenza è ciò che ci permette di vivere questa nuova esistenza. Cf Ioannis Zizioulas, L’essere ecclesiale, tr. it. Monastero di Bose 2007, 23ss.

personale, della conoscenza che riempie di vita, che salva e che trasfigura nella comunione che è l’amore del Padre che dura in eterno (cf Gv 17,3). Cristo non è un rimando di analogia, ma nella sua umanità, nella sua morte, nel suo costato aperto si squarcia quel velo innalzato dal peccato come morte, come vera separazione dell’uomo da Dio e, come una diga che frana, fa entrare nell’umanità la vita del Santuario, la vita divina. L’umanità di Cristo è inseparabile dalla divinità, Lui vive nell’umanità la totale figliolanza. E l’umanità è preparata fin dalla creazione ad accogliere tutta la divinità, tutta la comunicazione di Dio che può esprimersi nell’umanità del Figlio. Nell’umanità di Cristo si dischiude dunque tutto ciò che è la vita divina, la comunione trinitaria e l’amore del Padre. E noi cristiani partecipiamo con il battesimo a questa umanità di Cristo. Per questo motivo la logica e la mentalità più tipica cristiana, come l’hanno vissuta e articolata i Padri

della Chiesa e i primi concili, è proprio quella del simbolo.4 In una realtà, vederne una più profonda che affonda sempre di più in una manifestazione – anzi, in una rivelazione – della vita come amore personale che coinvolge in una conoscenza partecipata. Una partecipazione di vita che immediatamente si traduce in un 4 | Quando parliamo del simbolo, bisogna stare attenti alle interferenze intellettuali che oggi possiamo subire dal pensiero moderno. Queste interferenze sono veri e propri disturbi su ciò che il simbolo era secondo la Chiesa e secondo tantissimi Padri antichi. Il pensiero moderno svaluta il simbolo, riducendolo ad un segno arbitrario usato per rappresentare convenzionalmente un’entità astratta, oppure identificandolo con dei segni attraverso il quale si instaura tra degli oggetti una relazione definita dalle convenzioni culturali di un particolare codice comunicativo, fatta oggetto dello studio della semiotica. Mentre per gli antichi Padri, basti ricordare Efrem il Siro, il simbolo non è un rimandare da qualche parte, ma è la manifestazione, la rivelazione e la comunicazione del mistero come vita. Nel simbolo si rende presente il mistero come vita che coinvolge in una relazione ed esige dall’uomo stesso un’attività intellettuale – quella di dar nome progressivamente al contenuto. Questo dar nome ai contenuti non è il lavoro di un individuo, ma della persona intessuta nella comunione con gli altri. È la memoria del corpo di Cristo che dà riferimento all’intelletto.

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amore che trasforma e trasfigura e diventa stile di vita. Una conoscenza relazionale e comunionale, un vedere l’uno nell’altro, un’esperienza non soggettiva, ma della vita come Chiesa, che diventa fonte di un’intelligenza nuova perché esperienza della comunione.5 Una realtà divino umana Questa esperienza della vita come ecclesialità, della vita come partecipazione alla comunione trinitaria è fonte di teologia e allo stesso tempo anche il soggetto che teologa. Per questo motivo l’edificio ecclesiale, la chiesa, è lo spazio di questa identità 5 | Anche il termine “esperienza” va considerato con attenzione per impedire interferenze con la cultura degli ultimi secoli basata sull’individuo e sul soggetto. L’esperienza nella teologia del primo millennio è svincolata totalmente da ciò che per noi oggi è soggettivo e oggettivo, individuale e collettivo, ma è proprio la realtà fondante della redenzione. Tu es ergo sum è esattamente il superamento dell’individuo, del soggettivo, ed è il trionfo del personale, cioè del trinitario.

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della Chiesa.6 Lo spazio che i cristiani hanno cominciato a costruire per la loro liturgia doveva avere nella sua stessa struttura questa teologia, in modo che lo spazio stesso presentasse quest’esistenza dell’umanità – più esattamente della divinoumanità –, che vi abita, vi celebra e vi prega. La struttura dello spazio stesso è costituita da questa novità, in modo tale che vedendo si possa “leggerla” e, “leggendola”, si partecipi. La visibilità, leggibilità e partecipazione. Tre principi della trasfigurazione del cosmo, dell’umanità e della storia. La bellezza come amore realizzato I cristiani, riconoscendosi nell’umanità di Cristo morto e risorto, avvertivano la lotta spirituale con l’uomo vecchio e con la sua cultura. Perciò sentivano il bisogno di essere aiutati a rimanere nel corpo di Cristo progredendo nella partecipazione alla vita divina in modo 6 | “Ora quel che è di Cristo è più nostro di quel che è da noi”: N. Cabasilas, La vita in Cristo, PG 150, 613B-C, tr. it. cit., p. 222.

sempre più integrale. Ma esisteva ,soprattutto nei cristiani di cultura greca, il rischio di aiutarsi solo con l’insegnamento, perché insegnando si poteva facilmente cadere nella trappola di intendere la fede come un insegnamento, come una filosofia di vita. Ma così si va verso l’astrattismo, le teorie e le ideologie. I cristiani di cultura latina avvertivano invece come fosse più importante sottolineare l’agire, l’azione del cristiano, perché una dimensione fondamentale della loro cultura era il diritto. Ma, insegnando prevalentemente l’aspetto morale, si correva il rischio di svuotare la novità della fede riducendola ad una religione che faceva leva sul dovere, sull’impegno dell’uomo, e dunque decade nel moralismo ed eticismo. Si scopriva la necessità di creare uno spazio che, come tale, facesse vedere ciò che si è. E, lavorando sullo spazio come immagine della Chiesa, si lavora sulla bellezza, evitando così sia l’ideologismo che il moralismo. Per gli antichi, la bellezza era la carne della verità e del bene, come si esprime magistralmente Solov’ëv.7 Era esattamente una realtà simbolica, un’esperienza di unità, di trovarsi l’uno nell’altro. Bello è ciò che non è chiuso, non è opaco, non è univoco, ma dentro è aperto, abitato dall’Altro. La bellezza è l’amore realizzato, afferma lucidamente Florenskij,8 sostenendo che l’unica realtà veramente bella è la Chiesa. Perciò il cristiano ha messo nello spazio che racchiude il mistero della Chiesa questo principio del simbolo e della bellezza, perché vi sia, come direbbe il concilio Niceno II, permanentemente in atto un evento liturgico, un annuncio, una comunicazione che attira e affascina perché bella, ma rivela perché vera 7 | Cf V. Solov’ëv, Il significato universale dell’arte, in Id., Il significato dell’amore e altri scritti, tr. it. Milano 1983, p. 227. 8 | Cf P. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità, tr. it. Milano 1974, p. 116.


e coinvolge perché è una comunione realizzata. Così lo spazio ha una visibilità di bellezza perché vi si legge in modo coinvolgente ciò che vi si rivela, che si comunica, che coinvolge. A partire dalla vita Il problema che noi fedeli oggi troviamo è che spesso lo spazio costruito e destinato alla chiesa non è nella sua struttura edificato in questo modo, ma molte volte le sue strutture portanti sono espressione di un’estetica soggettiva, del pensiero e della volontà di un soggetto, perciò si rifanno a una simbologia soggettiva, dunque assolutamente lontana dal modo tipico della Chiesa. Perciò le persone non riescono a scorgere dentro questa realtà delle realtà più profonde, vive, comunionali, espressione del superamento del separato, dell’isolato, dell’individuale, del teorico, dell’astratto. Molto spesso la struttura portante è una matematica geometrica senza carne, senza corpo, senza muscolo. E, come tale, incapace di comunicare ciò che è la Chiesa, corpo di Cristo, organismo già svincolato dall’individualità, ma realizzazione della persona comunionale, di una corporeità che non attira per se stessa ma è luogo della manifestazione della vita come comunione. Siccome lo spazio non è costituito da quella teologia menzionata sopra, e dunque non è leggibile come comunicazione della vita, non rende testimonianza, non annuncia, è anonimo. Se i turchi o i comunisti nell’est europeo dovevano scavare gli occhi ai santi e murare contropareti per utilizzare lo spazio degli edifici ecclesiali ad altri scopi, oggi per cambiare una chiesa in uno showroom è questione di un quarto d’ora di lavoro… Il che vuol dire che si sta formando un cristiano con una mentalità che si accorda con tutto. Ma questo è possibile solo quando la mentalità è staccata dalla

vita. Quando invece è costitutiva alla vita stessa, perché comunionale, personale, non è possibile che possa accordarsi con tutto. Infatti, la vita comunionale ha sempre il carattere delle persone. Siccome lo spazio è anonimo, per far vedere che si tratta di una chiesa bisogna appendere sulle pareti qualche quadro e mettere nell’abside – o almeno nello spazio dietro all’altare – qualche croce, tutte cose che l’antica tradizione non contemplava perché sulle pareti della chiesa non si possono appendere delle cose e soprattutto il crocifisso non può occupare l’abside da solo, se non inglobato nell’intero mistero pasquale. In tal modo si vede che si è ormai persa la tradizione, non si sa più quali siano veramente gli elementi che costituiscono l’edificio ecclesiale. La felice espressione di Richard Giles, che sintetizza la comprensione patristica della Chiesa, secondo cui le pareti della chiesa sono il telo sul quale la Chiesa dipinge il suo autoritratto, mette a nudo tante cose che oggi si fanno.9 Dalla Chiesa per la chiesa Come afferma il grande Alexander Schmemann, è difficile conoscere le cose della liturgia quando l’orizzonte del credente è frantumato.10 Ne sono prova, ad esempio, le fatiche, le deviazioni a destra e sinistra, espressione dello stesso soggettivismo, ma a colori diversi, perché non è possibile fare una riforma della liturgia profonda, intelligente e sapiente se non è inserita in un orizzonte teologico che abbia una mentalità del simbolo, in una ecclesiologia che non si occupi di sé, ma sia semplicemente fonte e soggetto del teologare, del creare, se è inserita in una pastorale diventata 9 | Cf R. Giles, "L’adeguamento degli spazi liturgici", in AA.VV., Spazio liturgico e orientamento, Convegno liturgico internazionale, Monastero di Bose 2006, p. 137. 10 | Cf A. Schmemann, Liturgia e tradizione, tr. it. Roma 2013, pp. 50ss.

ormai metodologia, ricerca di tecniche e modi di fare sganciati dal dogma e dai grandi misteri teologici. E se anche il dogma e la sacramentaria non si studiano a partire dalla liturgia e sul suo sfondo, ma su quello della filosofia, della sociologia, o addirittura della psicologia, è evidente la frustrazione. Così è anche la questione della costruzione dello spazio liturgico. Fino a quando non avremo una visione organica, una visione del simbolo in un modo autenticamente cristiano – il simbolo cioè che affonda in Cristo ed è fondato sul sacramento – fino ad allora sarà difficile trovare una via che possa far fiorire la costruzione dello spazio liturgico. Fino a quando si disprezzerà l’antico motto che dalla Chiesa nascono le cose per la chiesa, fino a quando il rapporto tra teologia e cultura, Chiesa e cultura non sarà inteso in modo comunionale e di trasfigurazione, non credo che si potranno fare passi significativi e le nostre costruzioni saranno oggetti estrapolati dal tessuto, lontani dai fedeli, cose esotiche disseminate nelle nostre città che faranno pensare alla gente ciò che sempre più spesso ripetono: “Ma non siete più capaci di fare una chiesa bella? Infatti, passando per una città e vedendo una cosa strana, che non c’entra niente con il resto, o una struttura rigida e fredda, viene subito da pensare che sia una chiesa…”. Mi sembra facilmente constatabile l’imbarazzo delle costruzioni attuali di fronte alla dimensione escatologica della Chiesa e della liturgia. Da Pio V in poi, la stessa dimensione escatologica dell’eucaristia si è incrinata, oggi è resa quasi impercettibile, e nella costruzione della chiesa totalmente assente, se non talvolta camuffata nel linguaggio soggettivista di un simbolismo inconsistente. L’anafora, cioè il movimento ascendente, ossia il passaggio – pascha – oggi praticamente non viene colto THEMA | RUPNIK |

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dall’architettura contemporanea. Per questo è più facile che lo spazio attualmente costruito sia uno spazio di solitudine dell’individuo, spazio che fa leva forse sul raccoglimento, sul vuoto, ma che certamente non è lo spazio costituito dalla divinoumanità e dall’incontro. L’incontro, appunto, in cui si viene trasfigurati e accompagnati nel passaggio.

Collegio S. Lorenzo da Brindisi | Roma

Discesa agli inferi e Resurrezione nella cappella del Collegio San Stanislao a Lubiana, opera di padre Marko Ivan Rupnik e degli artisti del Centro Aletti 2010

Cappella delle suore del Preziosissimo sangue | Roma | I mosaici qui illustrati sono tutti opera di P. Marko Ivan Rupnik

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Architettura e liturgia: un dialogo aperto Philippe Markiewicz

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on la sua incarnazione, Dio ha assunto un corpo, così da raggiungerci per il tramite di questo. Ecco che a noi spetta di aprire i nostri sensi alla Grazia che, a seguito dell’incarnazione, ci viene incontro per mezzo dei nostri sensi. Con la sua Pasqua (la sua Morte e la sua Resurrezione) Cristo ha ricapitolato in sé tutta la creazione (cf Ef 1,10). Ogni cosa, di qualsiasi tipo, può dunque essere considerata come membro del corpo “cosmico” di Cristo, grazie al quale ci giunge la Grazia. Nella liturgia, il ruolo dello Spirito Santo consiste nel mostrarci il corpo di Cristo che è presente nelle realtà del mondo. La liturgia è l’insieme dei segni sensibili che, grazie all’azione dello Spirito santo, mostrano il corpo di Cristo presente dentro di noi, e che a noi permettono di entravi in comunione tramite la nostra presenza fisica: segni come il profumo dell’incenso, il gusto del pane e del vino, i colori delle vetrate istoriate, il suono dei cantici, la freschezza dell’acqua, i materiali, i volumi, lo spazio, l’architettura... Pertanto l’architettura di una chiesa è parte integrante della Liturgia, e soltanto nel contesto di questa le forme e i simboli che la compongono assumono il loro significato. La liturgia

celebrata è l’unica chiava interpretativa che permette di comprendere la funzione teologica dell’architettura di una chiesa, e in generale dell’arte sacra. Nella città, senza confusione né separazione Se la liturgia si celebra nello spazio interiore, che dire dell’aspetto esteriore della chiesa nel contesto urbano? «L’artista pagano opera tutto all’esterno, ma noi agiamo sempre all’interno, come le api», dice l’apprendista architetto di cattedrali in L’Annuncio a Maria di Paul Claudel. A differenza degli altri monumenti pubblici, l’esterno delle chiese – soprattutto nel corso dei primi secoli – non è appariscente: il vocabolario urbano dell’architettura cristiana sembra essere riservato agli interni. L’interno di una chiesa appare come un brano di città rivoltato come un guanto. La navata è trattata come una via fiancheggiata da colonnati tra due “facciate” che si fronteggiano, l’incrocio del transetto è come un crocicchio stradale, le volte sono un cielo stellato, le tribune sono balconate (per gli angeli?)... Per comprendere le difficoltà che si trovano nel pensare all’esterno di una chiesa, consideriamo come il patriarca

L’architetto deve partire dall’interno: sapere a che cosa si collega una chiesa e che cosa significa la liturgia. Se gli si spiega che cos’è la liturgia, di cui l’architettura è parte costitutiva, saprà tradurre questa in spazio. Il problema non è sapere quale forma dare a una chiesa, quali materiali e quali simboli usa.

Atenagora descrive la “sua” cattedrale, Santa Sofia a Costantinopoli: «Vista dal mare, Santa Sofia appare chiusa come un segreto. (…) Da vicino questa impressione si conferma: Santa Sofia si sottrae, nasconde i suoi volumi, non si presenta mai in facciata. È troppo ampia perché l’occhio possa abbracciarla tutta, come del resto è appropriato per una cattedrale. Le curve degli archi e delle cupole non si adattano ai poderosi contrafforti, a loro volta appesantiti alla base da rinforzi in successione. Questo “esterno” non intende esaurirsi in se stesso, né cerca di riprendere il chiaro equilibrio tra interno ed esterno che si ravvisa in tante nobili chiese bizantine o romaniche. Non intende essere, lo si percepisce con un sobbalzo al cuore, che l’espressione quasi imbarazzata di un “interno”, richiama l’interiorità 1». Bisogna accettarlo: vista da fuori, Santa Sofia è una mostruosità; proprio come gli archi rampanti gotici sono delle antifacciate: sono come quelle impalcature che negli studi cinematografici si vedono dietro gli scenari che si presentano come arredi urbani. Se li troviamo belli, ha detto Le Corbusier, è per motivi di carattere soggettivo e 1 | Citato da Olivier Clément in Dialogue avec le patriarche Athénagoras, Paris, 1969, p. 278.

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Piano di Roma | Giambattista Nolli | 1748, dettaglio. © DR Si evidenzia la continuità/discontinuità tra gli spazi delle strade e quelli delle chiese (si notano il Pantheon, S. Maria sopra Minerva in Piazza Minerva, Sant’Ignazio in Piazza Sant’Ignazio, ecc.).

totalmente sentimentale: «La cattedrale non è un’opera plastica; è un dramma: la lotta contro la gravità2». Rivelatore

è l’esempio delle due basiliche più prestigiose del mondo cattolico: le facciate di San Pietro in Vaticano e di San Giovanni in Laterano, con le loro logge, le loro finestre e i loro balconi, si presentano come i fronti di palazzi urbani. Nulla vi compare della finalità religiosa nel della forma dello spazio al quale introducono. Il piano di Roma di G. Nolli (1748) evidenzia in modo significativo la continuità tra lo spazio pubblico delle strade e delle piazze quello delle chiese. Dove comincia lo spazio “sacro”, dove termina lo spazio “profano” se tutto si ricapitola in Cristo, se tutto partecipa in qualche modo all’unica sacralità del corpo di Cristo? Ancora, solo la liturgia – il luogo e il tempo della celebrazione – permette di operare un discernimento e di manifestare la presenza di quel corpo. Dunque, invece di definire il luogo della chiesa come uno spazio sacro, in quanto contrapposto allo spazio profano dalla strada, è meglio parlare di “spazio sacramentale”. Uno spazio al cuore della città - “senza confusione né separazione” rispetto a questa (sine 2 | Vers una architecture, Parigi, 1923, 1995, pag. 19.

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Catterale della Resurrezione, Évry, Francia | Mario Botta | 1995. © DR

commixtione neque divisione) – che rivela e rende presente il regno di Dio, il corpo di Cristo. Questa inversione dello spazio – pensiamo alla prospettiva inversa delle icone – immerge il fedele nello spazio sacramentale, che è quello del Regno, del Pleroma, del Fine già raggiunto. L’architetto, che secondo Aristotele è colui il quale conosce la finalità, dovrebbe essere sensibile a questo “programma”! La Chiesa, gli architetti e i simboli L’architetto dunque deve partire dall’interno: sapere a che cosa si collega una chiesa, sapere che cosa significa la liturgia. Se gli si spiega che cos’è la liturgia, di cui l’architettura è parte costitutiva, saprà tradurre questa in spazio. Il problema per lui non è sapere quale forma dare a una chiesa, servendosi di quali materiali e di quali simboli... Lo ”aspetto” esteriore – segno, segnale, testimonianza – certamente non è secondario, ma viene dopo. Ogni cultura, ogni situazione particolare richiede una risposta ad hoc. Il nascondimento degli anni 1970 ha avuto – e mantiene – la propria grandezza; l’ostentazione della croce – in dialogo e in opposizione con i simboli dei luoghi delle altre religioni oggi

presente nelle città – ha anch’essa la propria ragion d’essere. L’architetto attende che gli si parli di assemblea concelebrante (tutta l’assemblea dei battezzati concelebra, ognuno secondo il sacerdozio proprio, e uno solo presiede), di relazione tra i differenti componenti che manifestano la presenza reale di Cristo: l’assemblea, la bipolarità del luogo della proclamazione della Parola e dell’altare... Bisogna reinterrogare i simboli, soprattutto quando si pensa di conoscerli a memoria. Un simbolo è sempre polisemico: comprenderne tutta la profondità richiede cultura e discernimento. Il Tetramorfo non è simbolo anzitutto dei quattro evangelisti. È in primo luogo il segno della presenza di Dio, del Signore che viene: oggi nella liturgia. Proprio per questo lo si ritrova nei catini absidali sopra l’altare, sui portali delle chiese e sugli evangeliari, dove l’attuarsi della liturgia realizza in modo superlativo la presenza di Cristo. Il Tetramorfo ricorda che la liturgia – come recitano le preghiere eucaristiche dell’Oriente e il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1354) - “fa memoria”, e quindi attualizza, la Seconda Venuta di Cristo. Avendo fatto passare in secondo piano questo aspetto essenziale della liturgia,


Un dialogo tra liturgisti, architetti e assemblee concelebranti Quale programma mai viene presentato oggi agli architetti? Ancora nel 2015 si continua con uno spazio di tipo tridentino riaggiustato: una sala teatrale con opposizione frontale tra attori e spettatori... Il Vaticano II ci ha insegnato che la Chiesa deve mettersi all’ascolto di quanto lo Spirito dice per mezzo del mondo. La Chiesa ascolta quel che gli architetti hanno ricevuto la grazia e la missione di dirle? L’assemblea in preghiera è sempre considerata come il luogo primario della rivelazione e dell’interpretazione del Mistero, come ben aveva compreso Romano Guardini? I liturgisti accettano di non vivere più di rendita sulla riforma conciliare o di fungere da zelanti interpreti dell’ultima moda papale? Osano riproporre ex novo le fonti testuali e archeologiche che si sono tanto rinnovate dopo cinquant’anni? Lo spazio liturgico della Chiesa del Vaticano II dev’essere ancora inventato.

Maison d’église Saint-Paul | La Plaine-Saint-Denis, Francia, arch. P. Berger e J. Anziutti, 2014. © DR (pianta e vista esterna). Con la Cattedrale di Évry e la Chiesa di San Paolo a Foligno, testimonia quanto siano poveri i programmi liturgici che sono stati forniti agli architetti. Quando si uscirà dai rabberciamenti del modello tridentino?

la Chiesa latina ha insistito troppo sull’attesa. Il che spiega in buona parte la difficoltà a uscire dallo schema della chiesa a forma di autobus o di teatro, anche dove lo spazio architettonico si presterebbe a altre sistemazioni (v. per esempio la cattedrale di Évry progettata da Mario Botta). Ecco dunque che occorre comprendere i simboli, ma anche usarli con discernimento. Recentemente tutti interpretano l’ambone come una “seconda mensa” e si premurano di conformarlo come un secondo altare, per quanto il Concilio parli di una sola mensa sotto due forme (Dei Verbum n. 21): è una metafora, non una descrizione formale. Allo steso modo in cui Dio si è rivelato nella storia

nella duplice forma di “eventi e parole intimamente connessi” (Dei Verbum n. 2), si dà ormai un unico pane di vita, sotto due forme: la Parola e il Corpo di Cristo. A questo unico “pane di vita” corrisponde quindi (nello stesso registro teologico-simbolico) una sola “mensa”, nelle due forme. Il luogo della parola è anzitutto un luogo: un luogo simbolico, un luogo di relazione. Come lo sono tutti gli elementi che conformano lo spazio liturgico. Quanto simbolismo sciatto si eviterebbe se ci si prendesse cura per discernere, per dialogare e per riflettere! Perché tanti altari, amboni, “troni” episcopali che hanno forma di questo e di quello...?

Chiesa di San Paolo | Foligno, arch. Massimiliano Fuksas, 2009. © DR (foto Moreno Maggi). La forza e la poesia dell’architettura fanno sì che ci si aspetti una equivalente qualità nella sistemazione liturgica. Invece si propone uno scenario di tipo teatrale ingombro di quattro monumenti fuori scala (quattro altari?).

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Del simbolismo nell’architettura delle chiese Stefano Mavilio

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ARTE I - « QUESTO UCCIDERÀ QUELLO»

L’arcidiacono contemplò per qualche istante in silenzio il gigantesco edificio, poi, stendendo con un sospiro la mano destra verso il libro stampato che era aperto sul suo tavolo, e la mano sinistra verso Notre-Dame, volgendo uno sguardo triste dal libro alla chiesa, disse: <Ahimè! Questo ucciderà quello> (V. Hugo, Notre-Dame de Paris)

Nel suo libro più noto - Notre-Dame de Paris - scritto a soli 29 anni, Victor Hugo delinea con chiarezza esemplare la questione delle questioni, con una semplice affermazione: “Questo ucciderà quello, il libro ucciderà l’edificio”1. La vaga formula dell’arcidiacono aveva un senso, voleva dire: la stampa ucciderà l’architettura. Infatti, dalle origini fino a tutto il XV secolo dell’era cristiana, l’architettura è “il gran libro dell’umanità”2. Dunque parafrasando Dom Claude Frollo, arcidiacono di Notre-Dame, possiamo stabilire una data: la metà del XV 1 | cfr. Hugo V., Notre-Dame de Paris, Milano 1996, p. 191 e segg. 2 | Ibid.

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Nel distacco dalla tradizione e nella svolta verso l’autoreferenzialità, l’architettura attraversa un periodo agonico: dall’epoca in cui a essa era affidata la testimonianza e la trasmissione della scienza e della cultura, a oggi, molto è cambiato e soprattutto gli strumenti della comunicazione hanno finito per nascondere di essa questa funzione che le è peraltro consustanziale. Ma in quanto arte essa sarebbe per eccellenza dotata di valore simbolico: lo si ritrova anche oggi là dove questo è compreso soprattutto nel rapporto con la misura, e col numero.

secolo, quando Gutenberg, rivoluzionò la tecnica di stampa introducendo i caratteri mobili: quando il libro di carta uccise il libro di pietra3.

quella che si ostinava a vegetare nei manoscritti, era costretta, pur di farsi udire, a inquadrarsi nell’edificio sotto forma di inno o di epigrafe”4.

Non entro nei dettagli ma la cosa che voglio segnalare qui è che una volta l’architettura, vero libro di pietra, era l’<enciclopedia> per eccellenza, il <sussidiario> di una umanità ancora giovane ma già consapevole. Assommava in sé l’alfabeto, la lingua, la memoria, e ancora col tempo, incluse le altre arti. E la cattedrale era il libro di pietra per eccellenza. Leggo ancora: “Tutte le arti obbedivano all’architettura e l’assecondavano. Erano le operaie della grande opera. L’architetto, poeta e capomastro, riassumeva nella sua persona la scultura che gli cesellava le facciate, la pittura che gli miniava le vetrate, la musica che metteva in moto le campane e soffiava negli organi (aggiungo io, che dettava i ritmi e le proporzioni delle fabbriche). Perfino la povera poesia propriamente detta,

“Ma perché di tutte le cose date, l’umanità volle scegliere proprio la dura pietra a significare l’Uno? Forse che non si è mai stati stranamente attratti dal colore, dalla forma d’una pietra, non ci si è sentiti come chiamare da essa, invitati a chinarci e raccoglierla? (... ) In che consiste la bellezza delle pietre? (...) Fra molti popoli la pietra è Dio”. E il cielo “è la pietra germinale e pietre ne cadono. (...) La pietra è il firmamento, di quella pietra siamo sassi staccati e quella pietra è Abramo e Cristo”5. E fra tutte le pietre la principale fu chiamata luz, che Giacobbe adoperò come guanciale la notte che vide in sogno una scala unire il cielo e la terra. “Ora Giacobbe partì da Beer-Sceba e se ne andò verso Haran. Giunse in un certo luogo e vi passò la notte, perché il sole era già tramontato. Allora prese una delle pietre del luogo, la pose sotto la sua testa e in quel luogo si coricò. E sognò di vedere una scala appoggiata sulla terra, la cui cima

"Alcuni stabiliscono con precisione alla metà del secolo XV la data della perdita dell'antica tradizione, perdita che comportò, nel 1459, la riorganizzazione delle confraternite di costruttori su una nuova base, ormai incompleta." (Guénon R., Autorità spiritual e potere temporale, Milano 2014, pag. 46).

3 |

4 | cfr. Hugo V., Notre-Dame de Paris, cit. 5 | cfr. Zolla E., Le meraviglie della natura,

Milano 1975, p. 117.


toccava il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ed ecco l’Eterno stava in cima ad essa (...). Allora Giacobbe si svegliò dal suo sonno e disse: <Certamente l’Eterno è in questo luogo, e io non lo sapevo>. Ed ebbe paura e disse: <Terribilis est locus iste! Haec domus Dei est et Porta Coeli>. Così Giacobbe prese la pietra che aveva posta sotto la sua testa, la eresse come stele e versò dell’olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Bethel, mentre prima il nome della città era Luz” 6. Il portale centrale di Notre-Dame, costruito tra il 1220 e il 1230, Gravemente danneggiato nel 1771, ha subito negli anni numerosi restauri e ricostruzioni che lo hanno privato di gran parte dei simboli originari. Fu oggetto - come del resto tutto l’impianto iconografico della cattedrale - di attenta esegesi da parte di Fulcanelli, l’ultimo degli alchimisti, che secondo Pauwels e Bergier, l’uno scrittore, l’altro fisico nucleare, ancora viveva a Parigi ai primi del secolo scorso, prima di scomparire una volta raggiunto il

6 | (Genesi 28, 17).

grado di adepto7. Fulcanelli è l’autore de il Mistero delle cattedrali, pubblicato postumo nel 1922, che aveva come sottotitolo I’interprétation ésotérique des symboles hermétiques du grandœuvre [alchemica], titolo spiegabile anche al profano nei termini per i quali l’alchimia era considerata - un tempo “pedagogia magica”. Leggo dalla prefazione alla prima edizione: “Fulcanelli non è più. Tuttavia, questa è la nostra consolazione, il suo pensiero resta ardente e vivo, racchiuso per sempre in queste pagine come in un santuario. Grazie a lui, la Cattedrale gotica cede il suo segreto. Non è senza sorpresa né senza emozione che apprendiamo come fu intagliata dagli antichi la prima pietra delle sue fondamenta, gemma abbagliante, più preziosa dello stesso oro, su cui Gesù ha edificato la sua Chiesa. Tutta la Verità, tutta la Filosofia, tutta la Religione poggiano su questa Pietra unica e sacra. Molti, gonfi di presunzione, si credono capaci di foggiarla; eppure, come sono rari gli eletti abbastanza semplici, abbastanza

Scala iniziatica

7 | cfr. Pauwels L., Bergier J., Il mattino dei

maghi, Milano, 1994, p. 121.

Corpo di resurrezione

Portali di Notre Dame, Parigi (da Wikipedia)

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sapienti, abbastanza abili da venirne a capo!”8. Che ne è del libro di pietra oggi, che assistiamo inermi perfino alla lenta ma inesorabile scomparsa del libro di carta? E dei misteri? E della pietra stessa? La pietra è ciò che annulla la distanza fra archetipo e tipo, fra idea e oggetto; che incarna quella idea, secondo l’ipotesi per la quale è archetipo ciò che aduna e “Sapienza è la conoscenza che di esso se ne abbia”9. La pietra - le cattedrali erano disposte in sola pietra - è metafora di divinità, perché nell’immobilità della pietra risiede l’Unità che si fa beffe del moto che produce il molteplice. La quiete, l’immobilità, la Sapienza, le Forme formanti, gli archetipi, riconducono tutti al mondo di mezzo, dove gli archetipi <sono>. Mondo di mezzo, mondo delle Idee, delle Forme immaginali -mundus imaginalis , al’ālam al mithālī, ; “ottavo clima”, Terra del Malakut, Terra celeste di Hūrqalyā; Jabarut, luogo <alla confluenza dei due mari>, dove “si spiritualizzano i corpi e si corporizzano gli spiriti”10, dove le intelligenze cherubiniche sposano il mondo materiale delle forme incarnate, della physis; luogo degli “accadimenti spirituali reali”11: “questa Terra di verità è la Terra dove fioriscono i simboli, contro i quali naufraga l’intelletto razionale”12, giacché Simbolo è ciò che riunisce nella trance13, dando luogo 8 | cfr. Canseliet E., Prefazione alla prima

edizione, in: Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali, Roma, 1972, p. 10.

9 | cfr Zolla E., Le meraviglie della natura, Milano 1975, p. 517. 10 | cfr. Corbin H., Corpo spirituale e Terra celeste, Milano, 2002, p. 116. 11 | Ibid., p. 29. 12 | Ibid., p.101. 13 | "Io mi metto in trance. Nessuno se

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nuovamente all’Uno che ivi si specchia. Queste le cattedrali, questo il loro mondo epifanico, luogo per eccellenza delle iero-storie, delle immagini pietrificate. Ancora Pietra: “E io ti dico: Pietro Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”14. PARTE II - POSSIAMO ANCORA PARLARE DI SIMBOLOGIA ? A chi si chiede se e in quale misura l’architettura sia capace oggi di rivestirsi di valenze simboliche, posso citare per tutti l’esempio di Mario Botta, che simbolicamente progetta e numericamente “dispone” le sue architetture. Incontrato a un convengo, alla domanda se adoperasse il Modulor15, rispose semplicemente “sì” cosa del resto a me nota, dopo una conversazione con don Trucco16, ne accorge. Ma è così." (Le Corbusier, Présence du dénomné, nota manoscritta, 1955, in: Wogenscky A., Le mani di Le Corbusier, Roma, 2004).

che lo aiutò nella realizzazione della con-cattedrale di Torino (oggi Chiesa del Santo Volto) il quale raccontava che Botta era solito adoperare certe misure ricorrenti, quali ad esempio 43 e 70 (centimetri). La stessa concattedrale – poi - fa del sette la sua <cifra> significativa, già che il sette, simbolicamente parlando, è numero elettivo del mondo metallico, dei sette pianeti17. La qual cosa mi dà agio di segnalare che lavorare per simboli innanzitutto - è lavorare coi numeri. Il vecchio Corbù - ad esempio - fu più affine al quadrato, al quaternario, che distingue le quattro stagioni, i quattro elementi noti e i quattro Evangelisti; e che è strettamente legato al Due per operazione di raddoppio e al Dodici, al quale riferisce pure il tre per moltiplicazione del Quattro, dal quale siamo partiti in questo apparente gioco matematico che di matematico non ha nulla18. Detto dei numeri, sono ulteriori archetipi del costruire e fonte costante di ispirazione a chi ne facesse uso: la Creazione, in senso mitologico, della

14 | (Matteo 16,13-20). 15 | Non è questo il luogo per una descrizione attenta del Modulor del quale peraltro ha diffusamente trattato lo stesso autore nei due volumi omonimi: cfr. Le Corbusier, Modulor e Modulor II, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1974. Rimane da dire che il Modulor -basato sul numero base -113- il suo doppio -226- e le rispettive sezioni aure in addizione e sottrazione -70 e 140; 183 e 366- nasceva invece su base 108, numero le cui valenze simboliche ho già descritto altrove (cfr. Mavilio S., Dalla precessione degli equinozi alla misura armonica a scala umana, in: La divina proporzione, Atti del convegno, Monastero dell’Incarnazione – Siloe, 10 -11 settembre 2011, supplemento al n. 8 del quadrimestrale ArtApp). 16 | Mons. Giuseppe Trucco è nato a Savigliano (CN) il 10 aprile 1943. Ordinato sacerdote dal Card. Michele Pellegrino il 25 giugno 1967, fa una breve esperienza come vice parroco a Nichelino e a Beinasco. Inviato in fabbrica come prete operaio nel '69, si laurea nel 1977 in Pedagogia - indirizzo sociologico - all'Università di Torin. Consegue la licenza in Teologia Pastorale nel 1995. Nel 2001 è nominato Vicario episcopale del distretto Torino città.

Nel 2003 è nominato parroco fondatore del Santo Volto e responsabile unico dei lavori di tutto il complesso. Inaugurato il Santo Volto nel 2006, don Trucco si dedica a tempo pieno alla pastorale parrocchiale, coadiuvato dalla comunità di consacrate del Santo Volto. (http://www.diocesi.torino.it/diocesi_di_ torino/curia/00046162_BIOGRAFIA_di_ mons__Giuseppe_Trucco_e_recapiti. html). 17 | Storicamente -fin dall'antico Egitto e dalla Mesopotamia- si è soliti associare ai sette pianeti i sette metalli: Saturno-piombo, Giove-stagno, Marte-ferro, Venere-rame, Mercurio, Sole-oro, Luna-argento. 18 | La Gerusalemme Celeste ha quattro lati e tre porte per ogni lato, pertanto dodici, in una sintesi perfetta del 3 del 4 e del 12 che in sé contiene pure il 2 ed il 6, a dispetto della decina che mai fu in uso presso gli antichi e della quale ancora oggi diffidano le culture anglo-sassoni il cui sistema di misura è basato per l'appunto sul numero dodici.


Chiesa del Santo Volto, Torino (qui sopra e in alto a destra) | Courtesy Mario Botta, foto di Enrico Cano

quale l’Architetto è faber; il Tempo e lo Spazio; i sette punti cardinali19 e quindi: le dimensioni del sopra e del sotto, il Centro e l’Asse del Mondo; nonché l’Oriente che in senso simbolico è sinonimo di Illuminazione (che nulla ha che fare con il cosiddetto Illuminismo) con tutte le sue ricadute sull’orientamento liturgico dell’edificiochiesa; e ancora: numero (del quale si è detto) peso e proporzione20 e infine la Geometria nel senso di misurazione del globo terrestre21. Pallide vestigia di tale dottrina simbolica, sono oggi ancora presenti - ad esempio - nel rituale della posa della prima pietra, mediante la quale si prende possesso di un Luogo, azione simbolico-rituale che centra, orienta e definisce tutte le successive operazioni del costruire. Altrettanto interessante dal medesimo 19 | I sette punti cardinali sono: il Nord il Sud l'Est l'Ovest, il Sopra e il Sotto, il Centro. 20 | "Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso." (Sapienza 11, 20) 21 | Per una più attenta disamina degli archetipi e dei simboli del costruire, cfr. Mavilio S., L'architettura è una scala, Perugia 2014.

punto di vista, la dedicazione di una Chiesa22. Assai diversa la prassi, con particolare riguardo all’edificio-chiesa. Per farla in elenco, non senza riferimento ai desiderata di chi mi commissionò lo scritto, l’acqua - in primis - ha smarrito il senso di lavacro dal peccato originale; non scorre acqua all’esterno e tanto meno all’interno di una chiesa, salvo stiparne una <parte> in mediocri simulacri che definiamo fonti, spesso senza coperchio e pertanto polverosi; per non dire delle acquasantiere, quasi sempre all’asciutto e che nel migliore dei casi ospitano orrende “ciotoline” in vetro di provenienza domestica. Per non dire dei materiali da costruzione, che non hanno più alcun legame con la Tradizione; altro è costruire in nuda pietra, altro preoccuparsi dei “cappotti” e delle “tecnologie”, che in alcun modo sono percepibili “come caratterizzanti” e che insieme al complesso mondo dell’impiantistica, che la fa da padrona e che pure è necessaria, non sono ancora intimamente legate al progetto ma vengono perlopiù vissute 22 | cfr. CEI - Conferenza Episcopale Italiana, Benedizionale - major, Città del Vaticano, 1992.

come accessorie e pertanto sono - nel migliore dei casi - ridondanti (dove si confonde la Scienza con la tecnologia). Per non dire delle teorie che a tali esperienze fan da “pàredre” e che nulla hanno a che fare con la liturgia. Se certe architetture sono minimaliste, la liturgia, giacché performante, di contro è ridondante. Per non dire del <razionalismo> che esula decisamente dall’ambito religioso, che fa del mistero, di ciò che è nascosto e dell’Altrove, il centro della sua dottrina. Cosa dire infine dello stile, che come dice la parola stessa rimanda alla grafia (si disegnava con uno stilo) piuttosto che al costruire? È mio parere che non esistano approcci progettuali ma che esista la progettazione toutcourt. In quanto al sociale, se esso debba riflettersi nel costruire siamo qui nel campo del costume e della morale (dal latino mōs-moris) dunque nel campo del divenire che è attributo più consono alla moda che all’edilizia. Simili considerazioni potrei fare sulla luce - troppa luce artificiale, poca luce interiore; sull’Assemblea, totalmente scomposta e ineducata; e sul progetto iconografico che - nonostante sia

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Formante in forma formata.

fondamento del costruire liturgico23 - è stato di fatto espulso dal contesto perché - a detta di tanti - troppo <costoso> (sic !). Se mi chiedete infine, in che modo l’architettura della chiesa rifletta l’ecclesiologia di questi decenni postconciliari, rimane da chiedersi quale sia la corretta modalità di coniugare il corpo mistico di Cristo, del quale egli è il Capo e l’Assemblea che ne costituiscono le membra, con una disciplina totalmente autoreferenziale, che preferisce lo straordinario all’ordinario, dando luogo a tanti edifici diversamente inutili, a fronte di tanti edifici diversi ma funzionali, come fu per l’architettura pre-conciliare e com’è nella logica della <tipologia> che secondo dice Arìs - produce il dissimile dal simile (identità nella differenza)24, giacché trasforma in edificio l’idea, o per dirla meglio - trasforma la Forma 23 | CEI - Conferenza Episcopale Italiana, Commissione Episcopale Per La Liturgia, La progettazione di nuove chiese, Nota Pastorale, 1993. 24 | "Tipo è ciò che permane nella differenza" (cfr. Arìs C. M., Le variazioni dell’identità – il tipo in architettura, Torino 1993).

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CONCLUSIONI In conclusione: non c’è Arte che non sia simbolica, giacché l’arte è operazione poietica e conseguentemente è definita nel campo del fare, dell’agire25. È operazione alchemica. Ricerca e produzione della pietra filosofale, trasmutazione del metallo vile in oro, produzione dell’oro sapienziale; e siamo ancora nel campo della simbolica, nonché del rito, perché vera Arte è quella rituale, che riunisce il qui-ora a quanto fatto <ab initio>, che ripete cioè la Creazione del Mondo26. Parafrasando altri27, posso dunque dire che se l’architettura si giova di strutture simboliche è operazione rituale e pertanto ciascun momento del <costruire> rimanda a un dato elemento del cosmo e della società al quale sono legati quel simbolo e quel rito che a tutti gli effetti fanno parte di questo o quell’aspetto di quel Mito che Noi chiamiamo Architettura.

Misure e proporzioni

25 | "Ho 77 anni e la mia morale si può riassumere così: nella vita si deve fare." cfr. Le Corbusier, Rien n'est transmissible que la pensée, in: Le Corbusier, Opera completa, volume 8, Zurigo 1970. 26 | Cfr. Eliade M., I riti del costruire, Milano 1990, passim. 27 | cfr. Malamoud C., La danza delle pietre, Milano 2005.

Monastero di la Tourette | Particolari | qui sopra e in alto a sinistra | photo S. Mavilio


L’ARCHITETTURA È UNA SCALA

Euro 12,00

STEFANO MAVILIO

Noi non abbiamo il dono della vita eterna ma è proprio perché ci confrontiamo con il tempo che aneliamo (e possiamo intendere) l’eternità.

L’architettura è una scala Una “dissennata apologia del sé impone l’oblio della Tradizione” lamenta Mavilio nelle prime pagine del “manualetto” di architettura intitolato “L’Archtiettura è una scala. La Scala di Giacobbe dell’architettura” (Edizioni Nuova Prhomos, 110 pagine, 12,00 euro). In realtà vi si parla di qualcosa che viene prima del progetto, ovvero della qualità del pensiero di chi si arroga il diritto di conformare spazi che altri dovranno abitare. E così l’indagine si rivolge a un mondo di cui oggi poco si dice e meno si sa: il mondo degli archetipi, così prossimo a quello delle idee, così poco tangibile eppure così importante per chi deve porre forme che non si limitino a estrinsecare vanità. L’architettura è pensata, progettata e conosciuta per solito in due dimensioni, non a caso di solito, banalmente, la misuriamo in metri quadrati. La terza dimensione è però quella più rilevante, anche perché la verticalità accenna a un collegamento che va al di là del mondo fisico. Può dunque l’architettura addentrarsi nel mondo della metafisica? Le chiese – ma più in generale i templi delle più diverse denominazioni – implicitamente o esplicitamente contengono questo anelito, altrove per solito ignorato. L’argomentazione si svolge a partire da rimandi ai testi fondanti: non della sola architettura, ma della cultura e dell’identità. La Bibbia, i Rg Veda, i miti, i “classici”. L’indagine si dilata in quel che rende umano l’essere. Il testo svolge il tema per il quale l’architettura sarebbe una scala che unisce il cielo e la terra, con

l’architetto a fare da tramite. Più in dettaglio, si individua un mondo intermedio fra quello delle pure essenze angeliche e quello sensibile; idea questa condivisa dai cristiani, dai cabalisti, dagli sciiti persiani e dai neoplatonici che, pur con le dovute e relative differenze, chiamavano questo Luogo, il mundus imaginalis, Alam-al-Mittal, dove risiederebbero le Idee e al quale l’architetto sarebbe in grado di accedere in virtù delle sue doti profetiche che gli consentono di evocarne la presenza per la ragione per la quale le idee sarebbero esse stesse autopoietiche, sarebbero cioè in grado di manifestarsi da sé agli occhi di chi sia in grado di Vedere. Si tenta quindi una disamina dei principali archetipi o idee che governano l’Architettura e le ricadute che esse hanno sulle diverse tipologie edilizie; si chiude con una serie di possibili modalità progettuali che a tali “processi” si ispirano. Per richiamare infine le forti, elevate, ma anche terribili parole con cui Vitruvio spiega la complessità dell’operare dell’architetto, sostenendo che questi “deve essere versato nelle lettere, abile disegnatore, esperto di geometria, conoscitore di molti fattori storici; nondimeno abbia anche cognizioni in campo filosofico e musicale, non sia ignaro di medicina, conosca la giurisdizione e le leggi astronomiche...”. C’è di che pensare, prima e oltre il progettare...

Cosmogonia

Equinozi

Sole Luna

L’autore svolge da tempo ricerche sull’idea di archetipo in architettura e sui relativi simboli che tali archetipi sviluppano. È coordinatore didattico e scientifico del Master in Progettazione per l’edilizia di culto; vive a Roma dove esercita la libera professione. Tra le realizzazioni si segnalano: la nuova aula liturgica detta Sala della Pace nel complesso monumentale di S. Rita a Cascia, il complesso parrocchiale di S.

Opposizioni

Bernardino Realino a Lecce con D. Boscia e il complesso parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo a Roma.

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Emil Steffann: topografie liturgiche Tino Grisi

Più che un segno, una presenza viva. Le chiese di Emil Steffann non si impongono alla vista per splendore di forme o per ricchezza di ornamenti. Ma riescono ad esprimere un senso di prossimità e insieme di intimità non gelosa: sono il luogo di comunità cristiane che non si escludono dalla società per quanto vi si pongano con discrezione e con riserbo. Con Emil Steffann l’architettura per la chiesa assume il carattere del servizio reso alla comunità dei fedeli e alla città nel suo complesso. Sulle chiese di Emil Steffan, Tino Grisi ha appena pubblicato un volume in lingua italiana e tedesca assieme: “Konnen wir noch Kirchen bauen?”, la più completa analisi mai compiuta sinora sull’opera del grande architetto tedesco.

Q

uando, nel 1932, una comunità della diaspora cattolica in terra luterana si unisce, celebrando la solennità del Corpus Domini nella Parade di Lubecca, la scena rituale accade nella strada, l’aperto urbano dove la centralità dell’apparato festivo formato da altare e baldacchino orienta e attualizza un luogo di comunicazione con il trascendente. Il Sacramento, dopo aver lasciato la chiesa, è condotto verso ogni lato dell’altare, dove sosta circondato dai ministranti; nello spazio libero, un secondo, più ampio anello processionale formato dai fedeli, in cui inizio e fine coincidono, delimita come un muro vivente, la sfera sacra. Questo particolare esempio di composizione di una festa religiosa fu concepito dall’architetto tedesco Emil Steffann (1899-1968) ed è il capostipite di una straordinaria lista di opere liturgiche diffuse poi in tutta la Germania.1 A Lubecca, una nuova espressività si basa sulla scoperta di una forma latente nella tradizionale 1 | Per la dissertazione completa sulle chiese di Steffann si veda: Tino Grisi, “Können wir noch Kirchen bauen” / “Possiamo ancora costruire chiese?”. Emil Steffann und sein / e il suo Atelier, Regensburg, Schnell und Steiner, 2014 cui si rimanda anche per tutti i riferimenti bibliografici.

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Processione del Corpus Domini di Lubecca: schizzo compositivo di Emil Steffan dell’anello di pietre vive e schema nello spazio urbano (Tino Grisi) con la posizione della chiesa e dell’altare.

disposizione di quattro altari presso un incrocio stradale; l’unico apparato, quale nodo simbolico, li racchiude in una superiore unità celebrativa, mentre si ricrea l’antica azione comune dei circumstantes radunati attorno alla mensa. Lo stesso edificio parrocchiale, la chiesa del Sacro Cuore, dove la processione origina e termina, forma un’unità percorribile con lo spazio stradale, a sottolinearne l’integrazione aperta con il mondo. Questa continuità

d’uso pubblico tra il reticolo urbano e gli interni chiesastici è raffigurata già nella cartografia settecentesca, dove l’abbandono del vedutismo e il raffinarsi della grafia poché su base catastale permettono una chiara indicazione dell’alternarsi di pieni e vuoti nella città. Nella carta di Milano di Marc’Antonio Dal Re (1734) si assiste all’inserimento delle piante del Duomo e di altre venti chiese in prosecuzione del fondo bianco delle vie, in contrasto con il tratteggio nero degli isolati. In


St. Laurentius Colonia-Lindenthal | Pianta del complesso parrocchiale

Processione del Corpus Domini di Lubecca: foto d’epoca che evidenziano l’azione celebrativa e la postura dei circostanti

seguito, nella pianta di Roma di Giovan Battista Nolli (1748), la sistematica rappresentazione in chiaro degli spazi aperti fa delle chiese i capisaldi di una maglia della percorribilità nella quale il contesto pubblico si presenta nella sua fluida continuità. Ancor più, in epoca medievale e diffusamente in Europa, sull’esempio della liturgia stazionale romana messa in atto processionalmente di chiesa in chiesa, gli edifici ecclesiali cittadini erano riuniti dal rito itinerante in un’unità ideale. Il sistema stazionale della città di Colonia, per esempio, rivela come la geometria ripetuta e integrata all’impianto urbano della Kirchenfamilie formi una narrazione architettonica capace di ripercorrere la storia fondativa della Salvezza, determinando in tal modo una sacralizzazione della topografia cittadina. Proprio a Colonia, Steffann, tra il 1960 e il ‘62, integra la pianta del paradiso (Paradies) alla topografia sacra del complesso parrocchiale di St. Laurentius. Un luogo quadrato, a cielo aperto, si schiude fra il volume della chiesa e l’ala degli spazi pastorali; al centro una fontana circolare, dove l’acqua si raduna nel piccolo bacino

anulare e scorre in quattro solchi incisi nella pavimentazione fin nelle conche di raccolta, al punto medio di ciascun lato, in corrispondenza dei doccioni. Agli angoli vigilano quattro arbusti, mentre, tutt’attorno, un fine acciottolato riporta, come fossili impressi, stilizzazioni di foglie e figure geometriche. Lo spazio è liberamente fruibile, sorta di sagrato interno per un edificio posto sul fronte strada, filtrato solo da uno spesso setto murario indipendente. Il giardino è qui un segno compositivo basico, posto in comunicazione con la città e come registrato a fianco del suo sistema di relazioni sacrali. Una minuta finestra contemplativa, traguardante verso la mensa, lega il Paradies all’aula liturgica: si determina così un perfetto esempio di zona di comunicazione, tanto importante poiché in quell’ambito non si è ancora all’interno e da lì è possibile guardare a quanto accade, riflettere sulla propria partecipazione. Nel lavoro di Steffann, l’estetica di un’opera che esiste in quanto rivela si sposa con l’assidua ricerca della verità dei significati esposti. La chiesa parrocchiale di Monaco di Baviera sempre intitolata a San Lorenzo (195257) ne evidenzia la massima sintesi

St. Laurentius Colonia-Lindenthal | Il Paradies all’ingresso con la fontana circolare | foto Tino Grisi

St. Laurentius Colonia-Lindenthal | Lo spazio liturgico | foto Tino Grisi

architettonica: in un’atmosfera di grande respiro luministico egli crea un luogo privilegiato di celebrazione, dove l’espressività dei materiali si scioglie ovunque in combinazioni al servizio della preghiera. Il progetto risponde a un articolato programma edilizio e si colloca interamente nel verde di una conca compresa fra due strade parallele, resa accessibile da scabri sentieri tracciati con moto organico. Il desiderio di articolare i volumi in una narrazione continua che racchiude su tre lati il vuoto accogliente del cortile alberato, con equivalenza di THEMA | GRISI |

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St. Laurentius Monaco-Gern | Foto aerea dell’inserimento urbano del centro parrocchiale | Google Maps

St. Laurentius Colonia-Lindenthal | Vista dell’edificio dalla strada | foto Tino Grisi

scala e trattamento materico, porta Steffann a non imporre, pur nella perfetta assialità cosmica, il ricorrente orientamento a est. La chiesa è del resto, fin dall’inizio e ben prima della riforma liturgica, concepita e utilizzata per la celebrazione rivolta ai fedeli; nondimeno, l’orientamento verso ovest dell’abside consente al sacerdote di continuare ad avere, durante l’Eucaristia, il viso rivolto al sole nascente, come nella tradizione cristiana e more romano. L’edificio per il culto appare così disposto in modo assai diverso rispetto all’allineamento urbano prevalente; si distingue per l’arretramento dal fronte stradale, la rotazione dei corpi di fabbrica e il percorso di preparazione all’ingresso. L’abside si fa, come gli altri fronti, sfondo di una progressione invitante, lungo la quale i lati della chiesa si mostrano svincolati dal loro valore di posizione tettonica, come rosseggianti quinte che raccolgono e dirigono il passo e l’occhio del fedele verso il cuore del luogo celebrativo. La parete sud, caricata dal fuori misura della croce metallica, tenuta in equilibrio da quattro contrafforti inclinati, assume il ruolo della facciata e rimanda all’ingresso posto, come THEMA | GRISI |

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dietro l’angolo, sotto una pensilina di esile trama metallica, agganciata alla manica della sacrestia; solo il triangolo di finestre arcuate ne fa intuire la lateralità, destinata a filtrare la luce del mezzogiorno. Un’altra fuga di finestre corre nell’attico orientale e arriva al campanile a vela, sbucato in contropendenza dal muro a nord. Si è condotti nella chiesa, dai sentieri, dal corridoio, dall’arco, ma non si entra nello spazio principale, bensì in una navata parallela - dove è l’altare dell’adorazione eucaristica - aperta all’improvviso verso destra, appena illuminata da rade mattonelle vitree murate nel fianco meridionale. L’altare del sacrificio sta aldilà di una teoria d’archi a tutto sesto, sotto il soffitto a due falde rivestito in doghe d’abete disposte a spina di pesce e inaspettatamente dipinte in verdeazzurro, appena sollevate sul bianco calce dei muri disposti a prospetti interni, incisi da sottili incassature tonde, oppure dilatati da zeppe triangolari. Avanzando tra i banchi disposti in tre gruppi, dirimpetto e ai lati della mensa, colpisce il senso di distensione e larghezza della parete di fondo la quale, occupata per più di un terzo

St. Laurentius Monaco-Gern | L’abside rivolta alla strada | foto Tino Grisi

St. Laurentius Monaco-Gern | Fronte meridionale | foto Tino Grisi

dalla curva estroflessa dell’abside, dilata trasversalmente lo spazio della chiesa. La luce piove cospicua da un triplo orizzonte e asseconda la composizione spaziale dell’agire liturgico, individuando nell’incrocio baricentrico il vero luogo - lo spazio dell’altare che unisce e orienta l’abbraccio dell’assemblea circostante - dove la verità si manifesta sotto forma di bellezza.


St. Laurentius Monaco-Gern | Vista con il portico d’ingresso e il campanile a vela sullo sfondo | foto Tino Grisi

“Können wir noch Kirchen bauen? Possiamo ancora costruire chiese? - Emil Steffan e il suo atelier”. Di Tino Grisi (Edizioni Shnell + Steiner, 2014, 288 pagine, 49,95 euro).

Un’opera antologica sulle chiese di Emil Steffan Il volume pubblicato in edizione bilingue (italiano-tedesco), basato sulla tesi di Dottorato di ricerca discussa presso il Dipartimento di architettura dell’Università Bologna nel 2013, rappresenta il primo

St. Laurentius Monaco-Gern | Lo spazio dell’altare | foto Tino Grisi

studio completo e illustrato con foto originali delle 39 chiese cattoliche realizzate tra il 1950 e il 1968 da Emil Steffann e i suoi collaboratori. L’autore ha condotto un’investigazione molteplice, visitando e documentando tutti gli edifici, consultando gli archivi e parlando con testimoni coevi. In questo modo è riuscito a

presentare una prospettiva profondamente interna al lavoro di Steffann, svelandone il contenuto spirituale nel contesto religioso e architettonico di una Germania dove, dopo la II guerra mondiale, si è attuata l’attività di edificazione per il culto più fervida di tutti i tempi.

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Come la materia parla all’anima Carlos Clemente

Due casi esemplari: il monastero carmelitano di Batuecas, del XIV secolo, e le architetturae di Eladio Dieste, realizzate in Spagna alla fine del XX secolo. Vi si ravvisano spazi che in quanto tali assumono valore simbolico, poiché hanno la capacità di preparare la persona all’incontro col mistero. Si tratta in ogni caso non di “gesti” creativi, ma di soluzioni concrete a problemi concreti, compiute in economia di mezzi e, forse anche per questo, ricche di poesia.

Monastero di San José nella valle di Batuecas in Spagna | La chiesa sorge nel mezzo e su tre lati la attorniano le celle dei monaci.

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retto nel 1599, il monastero carmelitano di Batuecas si trova in una condizione privilegiata. In un “deserto”, come vuole la tradizione monastica: lontano dal mondo, solitario, silente. Ma in una valle floridissima di varia vegetazione vicino alla vetta chiamata Peña de Francia a sud ovest di Salamanca, non lontano del confine col Portogallo. Sta in basso nella valle, unica presenza umana in mezzo al bosco, quasi nascosto tra la vegetazione. Fu in parte distrutto e abbandonato nel 1836 a seguito del clima politico avverso dell’epoca, cui si sommarono gli effetti di un incendio, ma è stato restaurato nel 1936 da Santa Meravillas de Jesus che lo affidò ancora ai padri carmelitani. Oggi è un luogo assolutamente singolare dove l’insieme composto dalla natura allo stato autenticamente silvestre e dalle costruzioni che vi si insinuano ma con assoluta attenzione e rispetto, si realizza un raro equilibrio tra ambiente edificato e ambiente naturale. La chiesa e le parti comuni del monastero occupano la parte centrale del complesso e tutto attorno stanno le celle dei monaci, a diretto contatto col bosco che lo circonda. Il luogo in sé ispira un senso di sacralità. Il suo silenzio, il perfetto unirsi di lavoro umano e di contesto silvestre rendono la parola “cosmo” in senso compiuto: bellezza, totalità, completezza. La fama di questo monastero si è diffusa con tranquilla sicurezza nel tempo, al punto da divenire luogo in cui si recano monaci di altri centri religiosi per periodi di assoluto riposo e di rinnovata contemplazione, come anche laici, per lo stesso motivo. Oggi spesso vi giungono giovani in cerca di segni nuovi cui ispirarsi. L’attività della contemplazione – sembra una contraddizione nei termini, ma non lo è, perché la contemplazione va ricercata – porta a esperire compiutamente la religiosità ovvero il

trovarsi assieme dell’individuo con sé stesso e con gli altri, con l’intelletto e con l’anima, con le creature e col creato. Se un’architettura può arrivare a ricoprirsi del senso del simbolo, nel monastero di Batuecas si può giungere proprio a esperire tale unione nella compiutezza dell’essere. Perché se quando si pensa al simbolo si immagina un qualche segno che rimanda ad altro da sé, e in questo senso il simbolo è sempre veicolo di trascendenza, parlando di architettura della chiesa ci si riferisce allo spazio, ed è a questo cui anzitutto si chiede che acquisisca valore simbolico. Come avviene tale passaggio? Lo spazio può portare la persona in una condizione particolare: quella che permette di comprendere, attraverso l’esperienza sensibile, il senso della trasfigurazione. Questo infatti è il simbolo fondamentale della chiesa edificio: la trasfigurazione. La percezione attiva di un passaggio dal mondo quotidiano a una condizione differente che dice raccoglimento, sacralità, comprensione della limitatezza propria e assieme anelito alla trascendenza. L’azione sacramentale porta a fondesi col mistero di Dio: è in questo che avviene la trasfigurazione. Ecco che lo spazio acquista valore simbolico là dove invita la persona ad accettare questo stato che implica silenzio, contemplazione, elevazione. Come riesce l’architettura a ottenere questo risultato? Attraverso la sapiente mescolanza di materia e luce, di forma e texture. Nel monastero di Batuecas, che abbiamo preso ad esempio, l’ambiente della valle alberata, del danzare della luce tra rami e foglie, la progressione solenne attraverso il portale del monastero e poi nella lunga china che conduce alla chiesa dall’erto tetto a due spioventi incuneantisi nel cielo, circondata dall’abbraccio delle celle

geometricamente dispostevi attorno, porta l’animo della persona all’attesa, e lo prepara all’incontro. I massicci muri di pietra danno, assieme, il senso della permanenza e dell’alterità: oltre il muro, solido, invincibile, sta l’ignoto, l’infinito. E nella chiesa l’altare, la croce, le statue della Vergine, dei santi, sono i segni che guidano il cammino del fedele. Lo spazio è il simbolo che apre all’incontro con l’Altro, e questo spazio è abitato dai segni che rendono esplicito il cammino e individuano la fede nel suo estrinsecarsi attraverso l’azione liturgica. Ma, naturalmente, parlando del monastero di Batuecas ci riferiamo a un’architettura storica, dotata del cumulo di senso straordinario che il passaggio dei secoli imprime alla sintesi di costruito e natura dove il senso del “deserto” monacale risalta con evidenza.

Il monastero di San José nella valle di Batuecas in Spagna

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Il problema è se sia possibile, e in che misura, che tale esperienza simbolica possa ottenersi in architetture contemporanee. Al riguardo è rilevante citare l’opera di uno dei maggiori architetti di chiese del XX secolo, a tra questi forse il meno conosciuto: Eladio Dieste, progettista uruguayano nato nel 1917, morto nel 2000. Lo invitammo ad Alcalá de Henares nel 1993, per partecipare a un congresso dove presentare i suoi straordinari sistemi strutturali. Ne nacque una collaborazione che portò alla realizzazione di diversi edifici non solo in Alcalá, ma in diversi luoghi vicini, al punto che ne è derivato quello che oggi si chiama il “corridoio di Dieste”. Dieste ha fornito progetti di sue chiese costruite e non costruite e ha collaborato per compiere tre chiese, San Juán de Ávila e Nuestra Señora de Belén ad Alcalá de Henares, e la Sagrada Familia in Torrejón de Ardoz. In alcuni casi si trattava di edifici in parte già cominciati, che furono ripensati e riprogrammati per compiersi col sistema strutturale di Eladio Dieste. Questi era un ingegnere e aveva inventato il suo sistema strutturale per costruire magazzini industriali in modo rapido e poco costoso. Si tratta di pareti in mattoni autoportanti erette secondo il disegno delle superfici rigate: il sistema è semplice e può essere descritto in poche parole. Alla base si traccia una linea sinusoidale e in alto si disegna un’altra sinusoidale speculare alla prima, così che alla “cresta” dell’una corrisponda il “ventre” dell’altra: è semplice costruire una parete in mattoni che unisca le due sinusoidi e ne risulta un muro capace di autosostenersi e di sostenere anche discrete spinte laterali. Dieste usò queste pareti per costruire decine e decine di edifici, e comprese che questo semplice sistema costruttivo era anche denso di suggestione. La vera architettura non nasce tanto THEMA | CLEMENTE |

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da gesti scultorei, ma proprio dalla ricerca di soluzioni semplici ed efficaci ai problemi strutturali. Fu così per il romanico e per il gotico, fu così per le ingegnose invenzioni di personaggi come Auguste Perret o lo stesso Le Corbusier. Le strutture in “ceramica armata” (i muri autoportanti sono doppi, con intercapedine ventilata e distanziatori metallici) hanno in sé una capacità espressiva notevole. Escogitate per costruire in fretta e a basso costo sono molto adatte per realizzare luoghi di alto valore simbolico come le chiese. Definiscono spazi nei quali la materia e la luce comunicano il senso dell’abbraccio che accoglie mentre il seguito di ondulazioni attraversate da varchi di luce non portano alla percezione di una chiusura, bensì di una dinamica vitale che avvicina al linguaggio della natura l’azione costruita . “Perché l’architettura sia veramente costruita, i materiali non devono essere usati senza un profondo rispetto per la loro essenza e per conseguenza delle loro possibilità” diceva Dieste: un uomo semplice e umile, cristiano convinto e dedito al suo lavoro inteso come servizio. “Credo che riusciremmo a raggiungere un ampio accodo se ci prefiggessimo come finalità condivisibile la pienezza e la felicità dell’essere umano – diceva – A me non interessa il potere, mi interessa l’uomo”.

La chiesa di San Juan ad Alcalá de Henares costruita negli anni Novanta seguendo i disegni di Eladio Dieste

Chiesa di San Juan ad Alcalá de Henares

Chiesa di San Juan ad Alcalá de Henares| Un particolare della copertura: si notano le pareti laterali sagomate a sinusoide. L’uso del cemento è ridotto al minimo, le strutture sono in mattoni e sono autoportanti

La chiesa della Sagrada Familia, costruita a Torreón de Ardoz in Spagna negli anni ‘90: due viste durante la costruzione. Si riconosce la facciata, simile a quella della chiesa realizzata da Eladio Dieste ad Atlantida (Uruguay) a metà degli anni ‘50.


L’espressione dello spazio sacro in Giovanni Michelucci Alessandro Suppressa

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ichelucci, oltre ad aver attraversato un intero secolo, ha affrontato temi progettuali e riflessioni teoriche legati allo spazio urbano. In questo processo creativo, è indubbio che il tema dello spazio sacro ha rappresentato il filo conduttore di una ricerca continua. Il percorso che inizia con la piccola cappella di Caporetto del 1917 e che giunge agli schizzi per la nuova chiesa di Abetone, ultimo progetto al quale si è dedicato prima della scomparsa, è caratterizzato da una evoluzione continua dell’edificio chiesa in relazione alle vicende umane e al contesto urbano e ambientale che di volta in volta mutano. Dalla sua sensibilità emergono letture e valori simbolici che affondano nella storia individuale e collettiva e si protendono in una dimensione senza tempo che rendono ancora oggi attuali e coinvolgenti le sue opere. In particolare, nelle chiese realizzate nella sua Pistoia, troviamo le radici tematiche della sua lunga e creativa elaborazione progettuale e in esse è ben percettibile il suo iter di maturazione, il suo processo di acquisizione dello spazio all’interno di una dialettica tra tradizione e

Un lungo itinerario di vita e di ricerca che è a un tempo spirituale e culturale: il grande progettista toscano è tra i pochi che nell’epoca contemporanea ha saputo trasfondere nell’architettura un significato ricco di risonanze profonde pur restando ancorato alla modernità e ha immaginato luoghi di culto tra loro diversi, ma sempre fortemente caratterizzati oltre che solidamente radicati nel contesto. Come ha scritto lo stesso Michelucci, “nelle mie chiese ricorrono due motivi principali: la barca e la tenda”. Sono entrambi simboli chiari e antichi, da Michelucci riproposti con sensibilità nuova.

modernità, quest’ultima intesa come capacità di leggere i segni dei tempi e tradurli in forme architettoniche. Come nell’architettura sacra confluiscono una molteplicità di discipline, di dimensioni e di relazioni, così in Michelucci convivono numerose sottolineature, tanto da fargli attribuire, oltre al titolo di architetto, alcune qualificazioni come quella di poeta, di filosofo, di teologo dell’architettura, insieme ad altre, tutte comunque riconducibili ad una dimensione di interiorità e di spiritualità: il suo pensiero, infatti, si contrappone al concetto di materialità tanto da far attribuire alla forma la dimensione dell’essere o meglio dell’esistere, entro la quale le attività dell’uomo acquisiscono una valenza altra, di respiro universale. Questa sua capacità di leggere i bisogni interiori dell’uomo è ricambiata da una costante e crescente attenzione da parte dei “non addetti”; i giovani in particolare ma anche molte

persone comuni, vengono affascinati dal linguaggio fiabesco dei suoi scritti e ognuno di loro rintraccia delle tensioni ideali e dei semi di speranza che interpellano direttamente la vita personale e di conseguenza la sfera comunitaria. L’architettura è così associata a una dimensione etica e di alto profilo ed è sottratta alle logiche del profitto dove l’uomo è finalizzato al consumo dei beni dimenticando che la città è la sintesi costruita delle relazioni sviluppate nel grande solco della storia. Più freddo e distaccato risulta, invece, il rapporto con la critica e con gli architetti in genere che, pur essendo di grande

Dedica del Maestro ad Alessandro Suppressa nell’occasione di una mostra svoltasi al Beauburg nell’87

Giovanni Michelucci

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Giovanni Michelucci | Disegni per la chiesa di Abetone

rispetto verso un padre dell’architettura italiana, non è mai sfociato nella piena condivisone in quanto, è una figura

Arriva compiutamente al tema dell’architettura sacra non solo con un ricco ed eterogeneo bagaglio culturale

libero, più di sempre, dall’ambizione di creare un’opera intellettualmente interessante”. Per la verità questo

difficile da collocare, troppo ai confini del fare architettura, poco interessato al solo studio formale che invece sembra andare per la maggiore: citando Brecht, Michelucci evidenzia tale diversità di atteggiamento: “ad alcuni artisti, contemplando il mondo, succede come a molti filosofi. Nello sforzo di arrivare alla forma la sostanza va perduta”. Che in Michelucci sia presente una dimensione spirituale è fuori da ogni dubbio ma occorre capire se essa, con lo scorrere del tempo, sia confluita in un cammino di fede più adulta senza la quale risulterebbe difficile comprendere la sua azione progettuale e l’evoluzione della forma architettonica. Il pensiero progettuale che ha originato le circa trenta chiese progettate, concentrate in gran parte nell’arco temporale che va dal dopoguerra alla fine degli anni ottanta, non può essere ridotto a un espressionismo gestuale che nasce da una visione antropologica del sacro. Occorre sempre tenere presente che Michelucci esce dai canoni professionali tradizionali; quando nel 1946 inizia a elaborare e a concretizzare il primo vero progetto di una chiesa, quella per Collina, ha già 55 anni e ha già acquisito una formazione in settori complementari all’architettura.

ma soprattutto avendo acquisito una profonda conoscenza dell’uomo e avendo condiviso in più riprese le ferite dell’umanità, emerse in particolare dalla devastazione della guerra e dalla povertà sociale. La sua visione antropologica nasce non da una visione intellettualistica dei fenomeni sociologici ma dal concepire che anche una dimensione di semplice spiritualità può sfociare nella fede; l’uomo può riscattare la propria dimensione materiale, trasfigurando le comuni sconfitte sociali della povertà, dell’emarginazione, della sofferenza in una visione sacrale della vita, dimensione che non può rimanere estranea all’architettura. È da questa dinamica che la dimensione spirituale di Michelucci cresce e si plasma: in un arco di tempo relativamente breve, dal 1953, data di conclusione della chiesa di Collina, al 1960, cioè ai primi studi per la chiesa di S. Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, Michelucci evolve sensibilmente l’acquisizione dello spazio architettonico, con una libertà espressiva capace di cogliere l’essenza e approfondire i molteplici aspetti simbolici del sacro, grazie anche al suo “sentirsi libero da preoccupazioni storico - ambientali e

processo si era concretizzato e annunciato, qualche anno prima, con le forme più contenute ma non per questo meno incisive, nella chiesa del Villaggio Belvedere a Pistoia, nella quale è forte il richiamo simbolico della tenda che si stende su una piazza. In essa forte è il rapporto con il tessuto urbano del quartiere tanto da far esaltare lo spazio assembleare in una sorta di piazza orizzontale, tangente al percorso, coperta e protetta da una tenda che si raccoglie sul presbiterio: “nelle mie intenzioni gli elementi architettonici dovevano far avvertire un collegamento ideale tra lo spazio ecclesiale e la città “. Si potrebbe dire che la prima fase di questo itinerario prende avvio dalla piccola cappella costruita durante la prima guerra mondiale (1916-17) lungo la valle dell’Isonzo, a Casale Ladra e giunge sino alla chiesa di Santa Maria a Larderello in provincia di Pisa (1956 – 58). Michelucci, in tutte le sue opere di questo periodo accosta al tema dello spazio sacro elementi della memoria e del luogo vissuto, chiaramente identificabili e comprensibili anche dalla gente più semplice, e tale dimensione umana rappresenta il primo passo per approdare a una dimensione spirituale.

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Giovanni Michelucci | Chiesa dei SS. Pietro e Girolamo, Pistoia (PT), Collina | photo A. Suppressa

Giovanni Michelucci | Chiesa dei SS. Pietro e Girolamo, Pistoia (PT), Collina

La “non architettura “ della chiesa di Collina con la sobrietà e i tratti rurali “di un fabbricato sacro che si fa casa

Papa Giovanni XXIII per superare le perplessità e i dubbi dei settori più tradizionalisti. Non sono più solo le vicende umane a ispirare la progettazione ma esse si integrano con le cose del mondo e in particolare con la bellezza e la forza della natura. A tale riguardo è significativo e affascinante il racconto di Michelucci, nel quale ripercorre sinteticamente l’idea che origina la chiesa dell’Autostrada: “nelle mie chiese ricorrono due motivi principali: la barca e la tenda, entrambi elementi di vita, entrambi ricovero dell’uomo in viaggio. Quando nacque dentro di me l’idea della Tenda, come forma della chiesa di San Giovanni Battista, ero solo in campagna. Guardavo il paesaggio e vidi lontano, all’orizzonte, una forma, come di un ponte appuntito.

di tutti”, la chiesa della Vergine caratterizzata e ritmata dal paramento in laterizio riconducibile al fianco del S. Domenico di Pistoia, quasi a voler portare una eco della storia urbana e religiosa della città in luogo periferico e privo di una precisa identità. Infine, Larderello dove forte è il confronto con un paesaggio caratterizzato dai fumi e dai grandi refrigeratori industriali: attraverso il rimando alla forma ottagonale delle grandi torri di raffreddamento, Michelucci esalta l’assemblea e il vibrare mistico della luce filtrata dalle vetrate colorate, offrendo una interpretazione gioiosa dello spazio e contribuendo ad allontanare dall’animo l’onda grigia dei fumi emanata dai soffioni, una chiesa in grado cioè, “di dare significato e valori nuovi alle azioni della vita quotidiana”. Con questa opera “forse la più fantastica”, l’architetto raggiunge un livello di eleganza e raffinatezza formale tali da fargli imporre autocriticamente una battuta di arresto: dinanzi al naturale e forse non confessato senso di compiacimento per ciò che è stato realizzato, avverte che quella non è più una dimensione che gli appartiene. Attraverso queste esperienze Michelucci comprende che il rapporto

tra l’uomo e Dio non può essere intimistico ma in questa alleanza devono partecipare e integrarsi tante dimensioni: l’architettura e la natura, lo spazio sacro e lo spazio urbano e il paesaggio, quasi come l’opera architettonica sacra fosse la continuazione naturale del processo creativo divino. Questa seconda fase prende chiaramente le mosse, come già detto, dalla contenuta ma importantissima chiesa del Belvedere, per la cui realizzazione occorre essere grati, oltre che all’autore, anche ai responsabili ecclesiastici di quel tempo, che non hanno indugiato nella realizzazione. A cavallo degli anni ’50 e ’60, questa nuova consapevolezza di Michelucci matura grazie ai numerosi rapporti di amicizia e di scambio culturale con alcune personalità del mondo cattolico fiorentino, attente al vento rigenerante e ricco di stimoli degli anni che preparano il Concilio Vaticano II. Questo processo trova la massima concretizzazione nella chiesa più famosa, quella dell’Autostrada del Sole, che provocò scandalo in quanto rompeva con una prassi funzionalistica, per cui ogni spazio doveva essere ben definito e preciso e in cui sembrava “che l’uomo non potesse entrare con tutta la propria umanità”. Si rese necessario l’intervento illuminato di

Giovanni Michelucci | Chiesa della Vergine, Pistoia

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La chiesa di Longarone è memoriale della tragedia del Vajont: il 9 ottobe 1963 una frana precipitò nel bacino idrico arificiale del Vajont e causò un’ondata che superò la diga e sommerse il sottostante paese di Longarone. Morirono 1917 persone. La chiesa conserva nell’atrio testimonianze dell’evento e la sua forma rievoca il vorticare della massa liquida che spazzò via il paese | photo A. Suppressa

Era quella la figura che poteva esprimere l’esigenza dell’oggetto non variabile. La tenda è la forma più perfetta che si possa dare, non ce n’è un’altra. Un’altra sarebbe sbagliata. È l’unica e più semplice figura di un riparo e porta a un pensiero che è preghiera”. Questa sensibilità e questa coralità di pensiero si evolve prima nella scultoreità monolitica del Santuario della Beata Vergine della Consolazione a San Marino, in cui il rivestimento uniforme d’intonaco grezzo e la forza della luce naturale fanno assume in contemporanea all’intero spazio severità e morbidezza e, successivamente, nell’ultima chiesa realizzata: quella di Longarone, conclusa nel 1978, in cui prende forma la drammatica dimensione di forza della natura. Opera questa che trascende lo stesso concetto di chiesa e dell’edificio commemorativo delle vittime del Vajont ma che diviene luogo urbano per ritrovare una comunicazione nei rapporti, una solidarietà corale che liberi dalla drammaticità della tragedia e dall’isolamento provocato dal senso di smarrimento. L’ultima fase che si delinea durante la sua lunga vecchiaia di centenario, più complessa e meno identificabile delle precedenti, può essere riassunta chiaramente in una dichiarazione di intenti, più volte richiamata ma sempre efficace: “chiunque volesse THEMA | SUPPRESSA |

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commissionarmi una chiesa, saprà che mi impegnerei a costruire un pezzo di città aperto a tutti, ma anche chi volesse commissionarmi un edificio pubblico, laico, tenga presente che mi impegnerei a imprimervi quel senso di sacralità che la città ha smarrito”. Questa impostazione nasce anche dallo sgomento interiore che gli scaturiva proprio dal vedere che le sue architetture non riuscivano a catturare e a interpretare tutte le tensioni che stavano maturando nella società e nella chiesa ed ecco quindi la necessità di proiettare direttamente il tema dello spazio sacro sulla nuova città superando le distinzioni, rinunciando ai primati simbolici tradizionali, evocando, grazie alla sua saggezza, una sorta di atteggiamento ecumenico che prende vita dall’incontro e dalla fusione delle differenze. Solo in questi tempi percepiamo la portata lungimirante di tale ammonimento. Non è un caso che le sue opere architettoniche, non solo nell’ambito degli edifici sacri segnano il passo sul piano realizzativo; nell’ultimo decennio di vita Michelucci produce un’enorme quantità di disegni e schizzi (depositati e visibili presso il Centro di Documentazione nel Palazzo Comunale di Pistoia e che ancora pochi conoscono), senza trovare tra i committenti persone di coraggio in grado di calarsi nella profondità del suo pensiero e di attivare nuove relazioni.

Committenti spesso prigionieri del pragmatismo semplificatorio (sempre duro a morire) per la ricerca di facili consensi. In questa nuova chiave di lettura deve essere inquadrato il progetto di una chiesa e un centro civico per il quartiere di S.Miniato a Siena che per cinque anni (1977-82) impegna Michelucci in una fertile e ricca elaborazione di schizzi, anche quando la prospettiva di concretizzare l’opera si era allontanata; nei suoi appunti manoscritti, si legge infatti: “lo spazio non ha più confini tutto è sacro e non vi è comportamento di uomo o avvenimento che quella sacralità possa distruggere”. In un certo senso si chiude idealmente il grande cerchio che ritrova l’uomo non più e non solo portatore di stati emozionali tragici o felici, spesso più grandi di lui, ma esso è rigenerato, quasi felice, del suo partecipare alla vita comunitaria e alla faticosa scoperta della sacralità della vita con il suo essere coinvolto assieme alla natura nel processo della creazione delle cose. Questo approdo è ancor più rafforzato dalla carica simbolica e fantasiosa della grande chiesa a forma di “arca incagliata nella roccia”, progettata nel 1982 per Guri in Venezuela: il suo navigare nel mare tempestoso della storia e della coscienza si infrange idealmente nella materialità e il luogo fisico che ha contenuto il navigatore


Santuario della Beata Vergine della Consolazione , San Marino

si solleva da terra quasi a voler creare una dimensione ininterrotta con il cielo, pronto ora con la propria vela, a spiccare il volo. “Mi distacco sempre più dal mio lavoro e dal mio tormento, perché il mondo che sto scoprendo è molto più alto delle mie possibilità: è il mondo dello spirito”, affermava. In questo atteggiamento, in questo processo di acquisizione ci sono molti elementi affini ad un autentico cammino di fede; non è forse dallo sgomento e dal dubbio che si alimenta la fede, dal comprendere che l’uomo non può contemplare il tutto con la sola dimensione razionale ed è proprio quindi una volta che ha preso coscienza di ciò, del proprio limite sente il bisogno di affidarsi a Dio. Il suo atteggiamento umile e radicale nei confronti del fare architettura del “io non so nulla” è il desiderio di spogliarsi dalle proprie certezze per mettersi in discussione ogni volta per poter meglio comprendere i nuovi bisogni. Solo dopo averli interiorizzati, potrà tornare in gioco l’esperienza maturata. Quante volte il cristiano deve fare un punto e ripartire: questo non significa non riconoscere la positività delle esperienze fatte; quelle oramai ci appartengono e sono dentro di noi. Occorre avere un atteggiamento di nuova disponibilità capace di ascoltare ciò che avviene intorno a noi e non riproporre stancamente un modello

rassicurante oramai sperimentato. Ad esempio, inserire un grande camino nella chiesa progettata per il paese montano di Pian di Novello affinché, al termine della giornata, quando la gente si troverà per pregare, ognuno possa portare un proprio pezzo di legna per alimentare il fuoco, di fatto è un’idea semplice e geniale allo stesso tempo. Ma non rimane inespressa nel nostro animo, se non può emergere grazie a una sensibilità e a un’attenzione verso la liturgia che sorge dalla comprensione del valore dei simboli? Questo stato d’animo nasce e si rafforza attraverso una vera e propria meditazione nei confronti della vita: qualcosa che prima è stato intuito e poi masticato lentamente con distacco critico grazie a un paziente lavoro quotidiano. È il mondo dello spirito che lo esige. La ricerca di Michelucci è solitaria, tesa a costruire il proprio mondo interiore: ogni progetto, anche non realizzato, è documentato da molti disegni, che spesso differiscono l’uno all’altro introducendo ogni volta una piccola modificazione, segnando così il tempo della riflessione. Oggi, nella società dei consumi, tutto è stato accelerato e anche i progetti vengono selezionati per la loro rapidità di esecuzione: il “fare” prende sempre più possesso del “come” e del “perché” fare. Nel noto articolo “Giovanni Michelucci teologo dell’architettura”, Padre

Eugenio Marino, non solo vedeva in Michelucci la figura che era riuscita a scardinare lo spazio sacro stereotipato ma anche colui che lentamente era riuscito a calarsi nella dinamica liturgica: “Michelucci si è inserito in questa ricerca, e lo si può vedere nelle tre caratteristiche che individuano i suoi edifici sacri: la coralità, l’agorà e il percorso. Tale triade non è che espressione e interpretazione architettonica delle ‘caratteristiche della Fede’, della ecclesia, che è il Popolo di Dio”. Alla soglia dei cento anni Michelucci è arrivato appena a toccare con un dito di una mano ciò che aveva sempre desiderato, e non è un caso che abbia affermato “se io campassi altri novantanove anni, mi basterebbero appena per rincorre questo sogno, questa idea, questa cosa: la città”. Sono sicuro che ci ha lasciati con la felicità nel cuore, sapendo di poter disegnare la città eterna, nel tempo infinito.

Santuario della Beata Vergine della Consolazione , San Marino

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Le chiese, espressione della ecclesiologia attuale Alessandro Braghieri

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alla metà del secolo scorso, molte nuove chiese non possedevano più la poderosa iconicità-identità che ne ha caratterizzato l’architettura nei secoli precedenti. Anche se non sempre con risultati adeguati, ciò è avvenuto per consentire agli edifici chiesa di riflettere la Chiesa, che si stava rinnovando, che rappresentavano: una Chiesa che, come affermato dal Concilio Vaticano II, “cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena; essa è come il fermento e quasi l’anima della società umana” (GS n. 40). In questo contesto, le chiese non potevano più essere il tempio di un Dio lontano (anche se, comunque, vede e provvede) ed edifici rappresentativi di una Chiesa con un forte potere temporale, ma dovevano essere la casa della comunità che vi si raduna, con semplicità, insieme al suo Dio1.

1 | A partire dal XVI secolo, con l’avvento dell’era moderna, c’è stato un lento mutamento della società: si è passati da una strutturazione eteronoma della società, sotto l’ombrello della Chiesa, ad una società a strutturazione autonoma, e l’adesione alla Chiesa e alla fede, prima scontata e naturale è, pian piano, divenuta una scelta individuale dei singoli. Chiaramente ciò si è riflesso anche sull’urbanistica delle

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Ciò è ancora più necessario oggi quando, come dimostra tutti i giorni papa Francesco, rispetto al passato, abbiamo una Chiesa più “informale”, semplice e “vera”, che è più famigliare e d’incontro per tutti, aperta a cristiani e non cristiani, che si pone come luogo privilegiato dell’incontro e della relazione, sia tra individui, sia tra gruppi, nell’urgenza dell’attuale società multietnica, plurireligiosa e secolarizzata. Ciò deve naturalmente riflettersi sull’architettura delle chiese, che devono “comunicare”, in un modo adeguato per tutti, ciò che è l’istituzione che rappresentano2. Il papa, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013, scrive che «La Chiesa è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre. Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte città e sull’architettura delle chiese. (Cfr. M. GAUCHET, La Chiesa nella società contemporanea, in AA.VV., Chiesa e città, “Atti del VII Convegno liturgico internazionale”, Bose 4-6 giugno 2009, Magnano 2010, pp. 47-61). 2 | Con evidenza si può rileggere l’insegnamento di Paolo VI, sia il grande rinnovamento che ha operato nella Chiesa, sia nello specifico dell’architettura di chiese quand’era arcivescovo di Milano.

Non più segni di una presenza trionfante e poderosa, ma luoghi di incontro, nello spirito del nuovo francescnesimo annunciato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, in cui i luoghi di culto sono prefigurati come luoghi privilegiati per l’evangelizzazione e per il dialogo, espressione di una Chiesa aperta all’accoglienza. I tre esempi delle chiese di Cristo Speranza del Mondo a Vienna, San Francesco d’Assisi a Steyr e di San Martino di Bertalia a Bologna.

aperte» (EG n. 47), poi, riferendosi alle città, afferma che «… queste grandi aree e la cultura che esprimono sono un luogo privilegiato della nuova evangelizzazione. Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane …» (EG n. 73) e ancora «… Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!» (EG n. 210). Egli, magistralmente, traccia la strada da seguire: nelle attuali città, i luoghi di culto e di servizio cristiani vanno pensati e proposti come strumenti privilegiati per l’evangelizzazione della società, da attuare con l’incontro interpersonale, come nella migliore tradizione della Chiesa, in particolare delle origini. In effetti, fin dal principio, “i cristiani hanno sempre fatto dell’incontro interpersonale il paradigma della trasmissione della fede” 3 che 3 | Cfr. R. FISICHELLA, La Chiesa nel


dev’essere trasmessa “naturalmente” nella quotidianità delle nostre giornate, con il nostro vivere immersi nella società di cui facciamo parte, per esserne il lievito che la fermenta, facendola crescere. Di conseguenza, le chiese devono presentarsi a tutti, indifferentemente dal bagaglio culturale di ciascuno, come testimonianze visibili, materiali, di ciò che sono (o, meglio, che dovrebbero essere) le vere comunità cristiane: luoghi dell’accoglienza, della relazione, del servizio, della verità. Per fare ciò è fondamentale il modo con cui gli edifici di culto si pongono sul territorio e il rapporto che s’instaura tra gli spazi delle chiese e quelli pubblici circostanti. Esse diventano strumenti efficaci dell’evangelizzazione solo se sono in grado di interagire con gli abitanti del quartiere, facendo percepire a tutti, indipendentemente da etnia, religione di appartenenza e condizione socio-culturale, la presenza di Dio e la possibilità dell’incontro con Lui e con la comunità dei fratelli, che sono fattori naturali di attrazione in quanto rispondono a bisogni ancestrali dell’uomo. Divenendo spazi d’incontro e di relazione, le chiese contribuiscono al percorso di formazione e di umanizzazione della società, che si attua trasformando una massa d’individui in comunità. Possono così essere i “core”4 dei quartieri, indifferentemente centrali o periferici, e attori principali dei processi di riqualificazione urbana degli stessi: il cammino della storia, Cinisello Balsamo, 2013, p. 73. 4 | Il termine “core” è qui inteso come luogo che incoraggia la trasformazione degli abitanti da individui passivi a cittadini attivi, trattato all’VIII Congresso CIAM “The core of the city”, Hoddeston 1951. (Cfr. S. GEIDION, Breviario di architettura, Torino 2008, cap. 4). Qui ci si riferiva ai centri sociali che poi, come ha dimostrato la storia, hanno fallito il compito, mentre le chiese spesso hanno avuto successo.

fermento e l’anima della società. Analizzando alcune chiese costruite in Europa dall’inizio del 2000, che rispondono ai “requisiti funzionali” sopra espressi, emergono alcuni elementi “invarianti” che ne caratterizzano, fisicamente, l’inserimento urbanistico e l’architettura. Si tratta di chiese-case inserite con sapiente semplicità nei quartieri di cui fanno parte, architetture nobili, radicate al territorio, che dialogano con l’intorno, che intercettano i percorsi pubblici ponendosi sui passi della gente, che le lambisce e le attraversa. Grazie alla loro collocazione, all’articolazione degli spazi esterni, mai separati da quelli pubblici, e ad una mediata continuità tra interno ed esterno, è possibile percepire (o anche vedere) l’ambiente dell’aula ecclesiale che si presenta come “isola” di pace nel caos della città e luogo dell’incontro con Dio e con la comunità cristiana. Durante lo svolgimento delle liturgie si vedono i cristiani come assemblea del popolo di Dio che si riunisce con il proprio Dio. La liturgia, culmine e fonte dell’azione della Chiesa (SC n. 10), irradia così nella città un riflesso di quella trascendenza di cui essa ci fa tutti partecipi. Le forme non sono mai convesse, che escludono chi sta fuori, ma sempre articolate, con cavità o parzialmente concave, che invitano, abbracciano e includono. Anche i volumi compatti hanno così, di fatto, braccia aperte: le braccia accoglienti di Dio e della comunità. In contesti difficili sono “semi di Dio” che portano frutto. Ecco il compito delle chiese: “seminare Dio” nella città per annunciare, con le possibilità espressive dell’architettura, il Vangelo ad una società sempre più digiuna di quel lessico cristiano che per secoli è stato condiviso da tutti. Per fare questo non devono imporsi ma proporsi, non isolarsi ma contaminarsi, non nascondere ma mostrare. Questo

è il nodo. Senza addentrarsi nella complessità dei temi del linguaggio, dell’espressività e della comunicativa dell’architettura, derivanti dalle scelte urbanistiche e architettoniche, se è vero che l’urbs, cioè la “città di pietre” è la forma visibile della civitas, cioè della “città di persone” che l’ha prodotta, dove le singole architetture che la costituiscono sono l’espressione cristallizzata dell’autocoscienza che ha si sé chi le ha costruite, in primis il committente5, allora oggi, a 50 anni dal Concilio, non possiamo più costruire chiese di un certo tipo, gli edifici di culto non possono più estollersi6 e dominare la scena urbana. Non possono essere enormi, sproporzionate rispetto al contesto, autoreferenziali, opulente, dominanti, di maniera, come molte che purtroppo si continuano a costruire, poiché forniscono un’immagine distorta e superata (forse nostalgica) della Chiesa, che non è più tale. Le fanno del danno, allontanano le persone e attraggono giuste critiche. Non a caso, oltre ad alcune ormai “vecchie” chiese del Movimento Liturgico, fanno ancora scuola i casi, già datati, delle note chiese di Cristo Speranza del Mondo dell’architetto Heinz Tesar a Vienna del 2000 e di San Francesco d’Assisi dello studio Riepl Riepl Architekten a Steyr del 2001. Molto più piccole degli edifici che le circondano, senza ricorso a forme retoriche, a simboli 5 | Sull’argomento, tra gli altri, è esemplare il saggio: M. ROMANO, Costruire la città, Milano 2004. 6 | L’insolito termine “estollersi” (lat. “extollere”= levare in alto, superare - ndr) è tratto da una sintetica nota del 1956 intitolata “Alcune norme riguardo ai progetti di chiese nuove”, con la quale il card. Giuseppe Siri, al tempo arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, diede, all’allora segretario dell’Ufficio Arte Sacra della Curia Arcivescovile genovese, i criteri cui attenersi per la costruzione delle nuove chiese. Anche un attento e fedele servitore della Chiesa come Siri non aveva compreso che i tempi erano cambiati.

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Cristo Speranza del Mondo | quartiere

L’edificio nel

Cristo Speranza del Mondo | Vista dall’accesso pedonale principale al quartiere

Cristo Speranza del Mondo | Vista da un percorso laterale principale

e a “effetti speciali”, non vi si può rimanere indifferenti e fare a meno di “frequentarle”: interagiscono con gli abitanti del quartiere e si pongono come luoghi d’incontro e di relazione con i fratelli e con Dio. Vediamole nel dettaglio.La Chiesa di Cristo Speranza del Mondo, inserita nel caos del centro direzionale di Donau-City, alla periferia nord-est di Vienna, ha un volume decisamente piccolo e basso rispetto alla massa degli edifici circostanti, ma assolutamente definito e riconoscibile per forma e linguaggio architettonico che, come nella gran parte della tradizione, stabilisce un “rapporto di distinzione” tra l’edificio di culto ed il resto del quartiere. La differenza è che nell’architettura storica la chiesa si distingueva perché emergeva, qui, invece, emergono i palazzi circostanti, come quinte che la inquadrano. La chiesa, identificata solo da una modesta croce bianca sul fondo nero della finitura superficiale, è quindi molto ben visibile e chiaramente accessibile, proprio per l’azzeccata posizione nell’articolata trama del tessuto urbano. Quest’edifico esprime, in modo non retorico, identità tra forma e funzione, in modo da essere subito identificabile come chiesa. Collocata in prossimità dei principali percorsi, veicolari e pedonali, d’accesso al quartiere, la chiesa si propone senza imporsi ed è frequentata principalmente nella pausa pranzo (oltre che prima e dopo l’orario di lavoro) dai molti impiegati, anche non cattolici, del centro direzionale, che la

apprezzano come luogo e momento di pausa e di silenzio, nel ritmo incalzante delle giornate lavorative. La particolarità dell’orientamento dell’edificio, in diagonale rispetto ai percorsi più prossimi, contribuisce a creare sia il dinamismo che fa della piccola chiesa il fulcro dello spazio

luminosità e alla sacra assemblea. Nella sua totalità come in molti dettagli, questa chiesa dice esattamente ciò che la sua dedicazione esprime: Cristo speranza del mondo. Secondo la mia sensibilità questo edificio è così esemplare perché, senza eccessi e senza falso pathos, esprime in un ambiente secolarizzato quella speranza che anche nell’umanità secolarizzata di oggi risponde alla domanda di senso, alla ricerca di un orientamento, al bisogno di fiducia».

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pubblico, sia degli ambiti pubblici esterni “di appartenenza” della stessa. Per posizione, costituisce un passaggio obbligato per quanti attraversano la piazza, costretti a lambirne lo spigolo in prossimità del quale si trovano i portoni d’ingresso (quindi l’invito a entrare) e due vetrate trasparenti che mettono in collegamento visivo (parziale) interno ed esterno: in questo modo l’architettura “intercetta” i passanti e gli offre ristoro e pace. Ciò diventa occasione d’incontro e di relazione tra le persone, che entrano e si ritrovano in chiesa, tra loro e con Dio. La forma definita e compatta del volume, unita all’utilizzo di materiali che invecchiano lentamente, dà agli osservatori la sensazione di nobile semplicità, di stabilità, di permanenza, di monumento sacro. A proposito di questa chiesa, il cardinale Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna, ha scritto che: «Raramente, di fronte ad un’architettura sacra moderna, avevo avuto l’impressione che si potesse realizzare così bene l’unione tra il linguaggio formale contemporaneo e l’autentica sacralità dello spazio. Qui, mi pare, si è riusciti a dare sostanza e forma all’accoglienza e all’intimità,alla

Cristo Speranza del Mondo | Pianta

Cristo Speranza del Mondo | Interno

Cristo Speranza del Mondo | Interno


San Francesco d’ Assisi | L’edificio nel quartiere

San Francesco d’Assisi | Vista dal fianco est

San Francesco d’ Assisi | Il portico di fronte all’ingresso quale luogo d’incontro

La Chiesa di San Francesco d’Assisi è la parrocchia del quartiere popolareoperaio di Resthof all’estrema periferia nord di Steyr, città di circa 50.000 abitanti dell’Austria Superiore. Il quartiere, caratterizzato da grandi edifici residenziali a blocco, di scadente qualità architettonica, ordinati su una maglia ortogonale e separati tra loro da anonimi spazi a verde, è situato su una delle cinque principali arterie viarie che collegano la città con l’esterno, ma è separato da questa da un’estesa area industriale, della quale è “il dormitorio”, e dal fiume Enns, che costituiscono delle vere e proprie cesure, sia fisiche che culturali, tra il quartiere ed il resto della città. Il quartiere, anche per la rigida maglia ortogonale che lo regola, è quindi percepito e vissuto dagli abitanti come luogo totalmente artificiale, non rapportato in modo organico né alla città, né all’ambiente naturale nel quale è collocato. Questi elementi urbanistici di fondo sono ampiamente recepiti e risolti dal progetto di questa chiesa che, collocata al centro del quartiere, ne segue l’impianto a maglia ortogonale. Come già la chiesa vista in precedenza, essa ha un volume più piccolo e basso rispetto alla massa degli edifici circostanti, ma assolutamente definito e riconoscibile per forma e linguaggio architettonico. Anche in questo caso, si stabilisce un “rapporto di distinzione” tra l’edificio di culto e il resto del quartiere. La differenza rispetto all’architettura storica è che la Chiesa di San Francesco d’Assisi non si distingue perché emerge, bensì per

la forma, per la qualità architettonica e per la “distanza fisica”, più apparente che reale, dagli edifici intorno. La chiesa, è molto ben visibile, assolutamente riconoscibile e facilmente accessibile per l’azzeccata ubicazione nella banale trama del tessuto urbano, per il volume definito, per il trattamento delle pareti esterne (in cemento armato con l’aggiunta di un pigmento che gli conferisce un colore caldo), per la luce che dall’interno “s’irraggia” nel quartiere. Non è identificabile da segni esteriori specifici, quali un campanile o una croce, ma sono ben visibili i luoghi della celebrazione, in primis l’altare, centro “geometrico” della chiesa e del quartiere, e il fonte battesimale, “attraverso il quale entriamo nella Chiesa”, con i naturali significati simbolici. Anche in questo caso, l’edificio, nobile e semplice allo stesso tempo, si propone senza imporsi. Arretrata rispetto ai fronti stradali, la chiesa è posizionata in modo tale da essere visibile da tutti i lati. I percorsi pedonali consentono di circolarvi tutt’intorno e, eventualmente, di attraversarla, fruendo degli spazi esterni che, nella quotidianità, si offrono come luoghi d’incontro e di aggregazione degli abitanti, indipendentemente dalla religione di appartenenza. Anche a Steyr individuiamo una funzione particolare dell’edificio chiesa, fuori dagli schemi canonici: quella di luogo d’incontro anche laico. Assolutamente radicata nel quartiere

dal quale non è scindibile, nel suo piccolo, è progettata per costituirne il core e, pertanto, come principale elemento di riqualificazione e di rivitalizzazione, in grado di favorire la socializzazione degli abitanti e di “bilanciare” il distacco e la distanza dal centro, trasformando un luogo “estraneo” e “freddo” in casa della comunità che contribuisce a formare. Ampie vetrate favoriscono un dialogo continuo tra interno ed esterno, accentuato dall’inserimento di spazi verdi all’interno dell’edificio. Non vi è soluzione di continuità tra gli spazi della chiesa e quelli del quartiere: la comunità cristiana, radunata per le proprie liturgie, è perfettamente visibile dall’intorno. Le liturgie sono celebrate, in piena luce, al centro del quartiere e non nel nascondimento, coinvolgendo così tutti gli abitanti e gli spazi urbani circostanti, che non sono estranei alla convocazione dell’assemblea liturgica Sia la chiesa che gli arredi, compresi i poli liturgici, sono realizzati con materiali poveri, che per la purezza delle forme e per l’essenzialità del disegno realizzano oggetti nobili

San Francesco d’ Assisi | L’interno dell’aula visto da fuori evidenzia la continuità esternointerno

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e semplici e, come tali, facilmente leggibili e apprezzabili da tutti. Riguardo a queste due chiese, non vi è dubbio, che il contenimento delle dimensioni unito alla scelta di forme, tecnologie e materiali semplici, sia per l’architettura, sia per gli arredi, porti a un significativo contenimento dei costi: quello di costruzione, riducendo anche il pericolo della lievitazione dei prezzi in corso d’opera, quello di esercizio, specialmente per il riscaldamento e per l’illuminazione, e quello per la manutenzione. Su quest’ultimo argomento è da rimarcare come l’uso di tecnologie semplici e di materiali durevoli, che invecchiano bene e lentamente, sia una scelta fondamentale per manifestare la solidità, la permanenza, la serietà e la sobrietà dell’istituzione che le chiese rappresentano. Al contrario, l’impiego di materiali che invecchiano presto e male (grandi superfici lisce intonacate, grandi coperture vetrate dalle quali, prima o poi, entra acqua, ecc.) riflette anche sull’istituzione Chiesa la caducità delle cose, dando un senso di decadenza, abbandono e trascuratezza, non opportuno, oltre all’idea che si spenda male.Proprio per la semplicità delle forme e delle scelte tecnologiche, è esemplificativa di una buona prassi progettuale la Chiesa di San Martino di Bertalia di No Gap Progetti S.r.l. a Bologna del 2012, con le murature in mattoni a faccia vista (dentro e fuori) e il tetto in zinco-titanio: è fatta bene e potenzialmente “eterna”. Proprio per la famigliarità con il luogo (fisico e culturale), per la semplicità, per il calore e per la solidità dell’architettura, è piacevole da vedere e da frequentare, è chiara e da serenità, aiuta a “fare silenzio” e predispone all’incontro con i fratelli e con Dio. Anche operando scelte di questo tipo, sobrie ma non banali, si da seguito all’invito di papa Francesco per “una Chiesa povera” e

San Martino | L’accesso vetrato che mette in continuità esterno e interno

“che ama e custodisce il creato”.

San Martino | Vista del retro del complesso parrocchiale

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San Francesco d’ Assisi | L’aula con vista sull’esterno

San Francesco d’ Assisi | Il fonte battesimale con il quartiere sullo sfondo accentua la continuità esterno-interno

San Martino | Continuità tra gli spazi esterni interni al complesso parrocchiale ed il quartiere


L’innovazione tecnologica nella chiesa contemporanea Renato Laganà

N

ell’aprile 1910 Charles Edouard Janneret (Le Corbusier), nel visitare le città di Germania per approfondire gli studi sugli sviluppi dell’architettura, rimase colpito da una “costruzione in cemento armato, grandiosa e piena di forza”, la Garnisonkirche di Theodor Fischer a Ulm. Fischer nel suo progetto si era posto il problema dell’innovazione e, affascinato dalla nuova tecnologia del cemento armato ebbe il coraggio, rispetto ai suoi contemporanei, di svelarne l’essenza attraverso il rifiuto alla finitura o alla subalternità estetica delle forme classicheggianti dettate dall’eclettismo. L’uso della nuova tecnologia non solo aveva permesso di realizzare l’ambiente aula privo di sostegni, garantendo nel contempo una visuale libera verso l’altare e il pulpito e una buona acustica, ma di affermare la possibilità di nuove tipologie scaturenti da un desiderio di innovazione. La realizzazione dell’Ein feste Burg pensato da Fischer segnava un momento fondante nella storia del nuovo materiale, il cemento armato, che veniva “adoperato in maniera tanto spregiudicata per un edificio monumentale e mostrato come materiale validissimo, sia all’interno

che all’esterno”. La lezione di Fischer restò impressa nella formazione culturale di Le Corbusier, che accolse anche gli insegnamenti di Auguste Perret il quale considerava il calcestruzzo come “una pietra che nasce, e la pietra naturale è una pietra che muore” (1944). Questa concezione probabilmente sta alla base di quella architettura sacra espressa nella Cappella di Rochamp (1955) in cui la ricerca di forme plastiche, che sembra prevalere sugli aspetti liturgici, veniva finalizzata alla realizzazione di un paesaggio artificiale su un elemento naturale. La plasticità del calcestruzzo, le linee curve che segnano una rottura con le linee razionali delle altre sue opere, la ricerca di suggestioni rese dalla diversità volumetrica delle pareti e dai tagli in esse praticati costituiscono gli elementi di un’opera che esprime, come ha affermato recentemente Maria Antonietta Crippa, una religiosità “così autentica e così legata a una profonda attenzione per la liturgia”. Il Novecento ha segnato, con gli episodi citati, la trasformazione di una tradizione che, incapace di attingere alle novità dettate dalle nuove tecnologie, aveva costruito repertori

Lo spazio chiesa nel suo modificarsi deve offrire alle comunità di fedeli schemi tipologici e forme che consentano di cogliere, attraverso l’uso congruo di materiali, l’immaterialità che contraddistingue lo spazio del sacro. Le nuove tecnologie possono, anzi devono, far emergere la sacralità dei materiali offrendo sensazioni emotive.

tipologici di mimesi stilistiche. L’opportunità di svincolarsi dai canoni stilistici offriva all’architetto nuovi strumenti progettuali per interpretare nel contempo l’evoluzione della coscienza religiosa nella società contemporanea. Lo spazio chiesa nel suo modificarsi deve offrire alle comunità di fedeli schemi tipologici e forme che consentano di cogliere, attraverso l’uso congruo di materiali, l’immaterialità che contraddistingue lo spazio del sacro. Le nuove tecnologie possono, anzi devono, far emergere la sacralità dei materiali offrendo sensazioni emotive. Le scelte tecniche non possono

Theodor Fischer | Garnisonkirche,Ulm

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Theodor Fischer | Garnisonkirche,Ulm

diventare elementi di trasgressione, come spesso avviene nell’edilizia civile, la scelta dei materiali e delle soluzioni va attentamente ponderata e commisurata e messa in relazione non solo con il presente ma, attraverso scelte durevoli, alla verifica di durabilità nel tempo. Questa considerazione si rapporta alle numerose esperienze di uso improvvido della tecnologia del cemento armato che necessita di procedure puntuali e minuziose laddove si voglia esprimere con la lavorazione a vista l’espressività dell’artificiale. In questi anni sono stati molteplici gli interventi di risanamento con costi elevati eseguiti su strutture in cemento armato, sia nelle chiese con linee architettoniche dell’eclettismo, sia nelle nuove forme della modernità. In un materiale che ha di poco superato i cento anni di uso nelle strutture architettoniche, la ricerca del requisito di durabilità ha comportato l’acquisizione e la sperimentazione di tecniche puntuali e innovative. Dalla fine degli anni Cinquanta del sec. XX gli interventi si sono susseguiti coinvolgendo esempi illustri, come il santuario di Neviges, opera di Gottfried Böhm. Un’esperienza innovativa vissuta dall’architetto tedesco all’interno di una ricerca non solo spaziale ma soprattutto materica perché forse insoddisfatto dal cemento a faccia vista si rifugia nelle THEMA | LAGANÀ |

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Gottfried Böhm | Santuario di Neviges

opere successive alla tradizione del mattone e all’innovazione più matura dell’acciaio. L’esperienza dei risanamenti apriva gli occhi sulle procedure da seguire per mettere a punto le tecniche esecutive migliorate negli anni anche attraverso l’uso di casseforme evolute. Tra queste opere, caratterizzate dall’ innovazione tecnica, si può aggiungere la chiesa Dives in Misericordia, a Tor Tre Teste in Roma, di Richard Meier nella quale il cemento armato incidentalmente assume un ruolo innovativo per le tecniche di cantiere adottate per il suo confezionamento e per la sperimentazione attuata dagli sponsor nella composizione e nella ricerca di una superficie autopulente. Si tratta tuttavia di un’innovazione parziale, limitata al momento della produzione e non caratterizzante l’idea di progetto. Dalla chiesa di Ulm in poi, l’innovazione tipologica, rapportata all’avanzamento tecnologico, ha posto l’esigenza di dilatare gli spazi determinando il problema delle grandi coperture per risolvere le quali il cemento armato ha mostrato i suoi limiti per l’invasività geometrica degli elementi, talvolta superata con l’impiego di travi precompresse. Nella realizzazione di ampie coperture prevalse dapprima l’impiego del ferro, con l’uso di travature reticolari e

successivamente quello delle travi in legno lamellare. L’uso del legno per costruire le chiese appartiene oggi alla cultura nordica, laddove perpetua da secoli una tradizione che si è aperta negli ultimi anni a nuove forme. Le realizzazioni in Italia si identificano in alcune chiese costruite in località montane e quelle chiese provvisorie del dopo terremoto, donate dal Papa Pio X alle popolazioni calabresi nel 1909. Quel materiale, che aveva costituito la scelta più economica per la costruzione di chiese, era stato sostituito nel tempo dalla pietra, più sicura in caso di incendio. L’evolversi delle forme architettoniche lo avevano di fatto relegato a un ruolo strutturale nelle coperture. Tuttavia spesso l’ampiezza delle navate era commisurata alle dimensioni degli elementi lignei, alla possibile unione e alle geometrie delle capriate, da semplici a complesse. Il “ritorno al passato”, come lo definì Mario Roggero nel 1999, si deve a una innovazione tecnologica, quella del legno lamellare che alla qualità “calda” del materiale univa i requisiti di resistenza al fuoco, di leggerezza strutturale, di economicità rispetto alle altre tecnologie assicurando alte prestazioni. L’uso dei componenti lignei in lamellare sovverte la subalternità strutturale e le nuove realizzazioni ridimensionando la pietra e il cemento


Richard Meier | Chiesa Dives in Misericordia, Tor Tre Teste, Roma

Craig W. Hartman | Christ The Light , Oakland

armato a un ruolo di elemento di appoggio per elementi strutturali che si proiettano verso l’alto o coprono grandi superfici. Dei primi anni Novanta, sul finire del secolo XX, cito tra gli esempi significativi la chiesa di S. Massimiliano Kolbe a Varese di Justus Dahinden dove la forma architettonica si identifica in una semisfera, in parte sezionata, che si appoggia quasi al terreno generando uno spazio che racchiude il luogo delle celebrazioni con una concezione innovativa rispetto alle tradizionali tipologie. La cupola emisferica, parzialmente interrotta, trova nell’elegante e sottile struttura in legno una costruzione geometrica di elementi triangolari che culminano in una forma semistellare che racchiude il lucernaio centrale. L’involucro esterno nega tuttavia la coraggiosa scelta

locale, che si elevano con forme curve, generate dall’intersezione tra cerchi e sfere su un impianto planimetrico di forma ovale. L’edificio, il cui involucro

Su questo ambito non è ancora facile esprimersi perché gli esempi ricorrenti sono quelli di interventi di applicazione di pannelli fotovoltaici per la produzione di energia il esito produttivo può essere remunerativo in termini economici ma è fortemente lontano dalla esigenza di considerare l’edificio chiesa come elemento unitario dal punto di vista compositivo. È chiaro che questo è soltanto un aspetto del complesso sistema che sottende l’attenzione al bioclima che ormai, nelle scelte tecnologiche più recenti, si affida alle pareti ventilate, ai materiali riciclati, all’attenzione ai sistemi di coibentazione termica delle pareti, alla gestione delle acque di riciclo, ecc. Tutto questo sembra emergere anche dalle proposte più attuali del progetto culturale portato avanti dalla CEI attraverso i progetti pilota . Il

del legno affidandosi ad un sistema artificiale di componenti industriali che si contrappongono alla rusticità dei setti murari. Uno degli esempi più significativi dell’uso di elementi lignei avanzati è la cattedrale di Christ The Light a Oakland in California negli Stati Uniti d’America, opera di Craig W. Hartman dello studio Skidmore, Owing & Merrill. La tecnologia costruttiva associa al legno le lastre di cristallo e la trasparenza mette in luce la centinatura verticale delle aste, in legno douglas

freddo grigiore della base in cemento armato a faccia vista, la struttura che si eleva esalta i toni caldi del legno accompagnata dalle larghe schermature, dagli arredi interni e dalle scultoree composizioni. È emersa da quest’ultimo esempio la tematica dell’eco efficienza e dell’uso delle fonti rinnovabili che si è posta

è fatto di superfici vetrate, è anche uno degli esempi di attenzione alla sostenibilità ambientale attraverso la gestione dei flussi climatici interni che nella stagione estiva assicurano il raffrescamento e nella stagione invernale sfruttano l’effetto serra per il riscaldamento minimizzando “l’uso di energia e di risorse primarie”. Improntato anche all’innovazione tecnologica, coerente con i tempi attuali, anche la scelta dell’uso del cemento armato mescolato con cenere volatile ottenuta dal reimpiego di scarti di produzione industriale (sottoprodotti della produzione di carbonio) per lo zoccolo di base che poggia su un sistema di isolatori antisismici. Al

in questi ultimi anni all’attenzione dei progettisti supportata peraltro dall’invito espresso a livello europeo per orientarsi verso la progettazione di edifici di bioarchitettura.

centro parrocchiale S. Maria Goretti in Mormanno, di Mario Cucinella, aderisce solo in parte alla complessità della soluzione bioclimatica. Pur se definito “basato sui principi della progettazione passiva che attinge alle risorse naturali per promuovere un rapporto armonioso con il creato”, sembra sviluppare solo in parte le intenzioni ponendo l’attenzione al progetto illuminotecnico che utilizza sorgenti luminose a basso impatto ambientale. Gli edifici, progettati secondo i principi della progettazione THEMA | LAGANÀ |

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passiva per attingere alle risorse naturali, si pongono l’obiettivo di limitare il ricorso agli impianti meccanici per promuovere “un rapporto armonioso con il creato”. Siamo tuttavia a livello di intenzioni di progetto. Si resta in attesa della realizzazione dell’opera per vedere se Mario Cucinella, che ha dimostrato nelle sue più recenti opere di raccogliere la sfida della complessità, riuscirà a fornire un esempio utile per una riflessione sull’innovazione bioclimatica nella progettazione delle chiese.

SMG Church |esterno | render by Engram Studio

Le Corbusier | Cappella di Rochamp | photo D. Basso

Le Corbusier | Cappella di Rochamp | photo D. Basso

SMG Church | interno e vista notturna | render by Engram Studio

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L’oratorio dei Padri Filippini: il rispetto della sacralità Pierluigi Cervellati

Una storia tormentata, come quella di molti edifici storici dedicati al culto e assoggettati alle spoliazioni e distruzioni dovuti alle soppressioni napoleoniche e alle guerre. Infine, il cambio di destinazione d’uso. Eppure un restauro accurato ricostruisce il senso dell’edificio delle origini. E questo, pur nella sua nuova finalità, ritorna a ispirare un senso di spiritualità.

Le forme dell’Oratorio sono state ricostruite grazie all’uso del legno in lamelle: ne risulta un insieme che riprende con precisione l’oiginale, ma con un accento di leggerezza e ariosità che rende lo spazio a una trasparenza in cui si uniscono il tempo andato e quello presente

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L

a mia esperienza di progettista in campo ecclesiastico riguarda il restauro dell’ex Oratorio annesso alla chiesa e al convento dei Padri Filippini a Bologna. Costruzione rettangolare di metà Settecento, rococò più che barocca, in cui le trabeazioni, i decori, le sculture e gli elementi architettonici - colonne, volte e archi - s’intervallano nell’accompagnare lo sguardo verso l’unico altare posto nella parete absidale, sotto una piccola cupola. L’Oratorio affianca la chiesa seicentesca e aveva una funzione propria, particolare in questi conventi: non era riservato solo ai Padri Filippini, bensì a tutti i fedeli. Ebbe un grande successo di partecipazione. Il rococò era di moda, certo, ma l’ambiente ispirava al raccoglimento ed era scelto per le 40 ore di preghiera che precedono la Pasqua. La chiesa è tuttora funzionante mentre il convento fu soppresso dai napoleonici che lo adibirono a uso militare (e a tale destinazione è rimasto legato fino a pochi anni fa). L’Oratorio invece fu trasformato in stalla e in parte deformato. Poi fu adibito a magazzino dagli austriaci e quindi a deposito - sempre di materiale militare - dagli italiani, fino all’inizio del ‘900. quando ritornò all’originale funzione. Fu restaurato e ammodernato con l’aggiunta dell’illuminazione elettrica, il rifacimento delle grate lignee, una sostanziale ripulitura delle superfici ammalorate e con la sostituzione della settecentesca tela sovrastante l’altare con una madonna tardo ottocentesca. Così rinnovato, ebbe nuovo successo (trionfava il liberty in quegli anni) ma, come era già accaduto alla fabbrica originale, ebbe vita breve. La caserma era un facile obiettivo militare. Un doppio bombardamento durante la seconda guerra mondiale fece crollare la cupola e la volta a vela centrale, ovviamente il tetto e la parete nord confinante con la caserma ex convento. THEMA | CERVELLATI |

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L’intervento post bellico - diretto dal soprintendente Barbacci - fu parziale e in parte gravemente lesivo. Barbacci non amava il barocco e detestava il rococò. Rifece la copertura usando tradizionali travi lignee e ricostruì la parete bombardata in modo tradizionale. Le foto mostrano le impalcature ancora in legno e i maestri muratori all’opera che ricostruiscono magistralmente la parete distrutta. Barbacci sostituì la colonna in mattoni crollata con una dello stesso formato, ma in cemento. Forse per mancanza di finanziamenti la ricostruzione fu abbandonata per uno o due anni, e allora i Padri Filippini ebbero l’idea piuttosto strampalata di trasformare l’Oratorio in una piscina coperta. L’idea piacque a Barbacci che mai avrebbe rifatto le trabeazioni e i decori rococò. Demolì il pavimento settecentesco e il sottostante colonnato, residuo di un precedente Oratorio. Poi il tutto fu abbandonato, per 50 anni ancora, fino a quando a fine anni ‘90 mi fu affidato l’incarico di restaurarlo per farne un Auditorium. Ritenni che il restauro iniziale di Barbacci dovesse rimanere inalterato, annerito dal tempo e dalla polvere, mentre invece decisi di ricosturire completamente quanto era stato demolito dal soprintendente. Questi peraltro, prima della demolizione, aveva compiuto, da solo, un accurato rilievo dell’esistente, mediante un ingegnoso sistema di chiodi e corde: tale rilievo, insieme con la ricca documentazione degli interventi del primo novecento ha consentito che la ricostruzione ripristinasse esattamente la situazione preesistente. Un “com’era e dov’era” per riparare una demolizione impropria - per non dire scellerata. Rimaneva il grosso problema della volta e della cupola e dell’arcata preabsidale. Si doveva usare il sistema del “com’era e dov’era” come molti amici sostenevano? Era passato mezzo

secolo, il dramma della guerra non poteva essere trattato come l’errore di un soprintendente e neppure si poteva trattare un’opera di un bravo architetto, qual era il Torreggiani, molto stimato dal cardinale Lambertini (poi Papa Benedetto XIV), alla stregua di una qualsiasi costruzione settecentesca priva di quegli accorgimenti prospettici propri di quell’Autore. Per questo decisi di usare il legno. Mettendo in evidenza, con un restauro molto accurato, sia l’originale, sia il rifacimento post bellico. Critiche ed elogi sono di prammatica in questi casi. Capisco l’ibrido metodologico utilizzato: il rifacimento/ripristino “com’era e dov’era”, il consolidamento, il restauro inteso quale restituzione, il nuovo che assume l’aspetto di una sinopia… Non mi pronuncio sul risultato. Non ribatto alle critiche. Confesso però la mia commozione quando vidi i primi visitatori, e poi in seguito altri che, ignorando che fosse un Oratorio, entrando si facevano il segno della Croce. Nonostante l’ibrido metodologico avevo rispettato la sacralità del luogo.

Altre viste interne della sistemazione dell’ex Oratorio


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Archistar e chiese contemporanee: una nota a margine Chiedo scusa se esprimo valutazioni personali; vorrei non filosofeggiare, ognuno di noi percepisce il senso del sacro in modo soggettivo, anche se poi riscontra spesso le stesse sensazioni nella collettività. Ho progettato una sola chiesa. Il progetto non è stato realizzato. Lo respinse la commissione della Curia Arcivescovile di Bologna. Lo ritenne inadatto. Non moderno. Aveva ragione. Nulla di quel progetto faceva riferimento ai canoni dell’architettura moderna o postmoderna, contemporanea. (Il progetto e le varianti risalgono a 10-15 anni fa). Condividevo (allora e ancor oggi) l’opinione dell’Arcivescovo di quegli anni, il cardinal Giacomo Biffi. In diverse occasioni disse che riteneva molte delle nuove chiese non confacenti alla finalità spirituale indispensabile per un edificio sacro. “A volte sembrano dei garage, dei magazzini, altre hanno forme strane, mancano di sacralità”. E Biffi, che io sappia, non è mai stato contro l’architettura moderna. Pensavo che la sacralità si formasse con il tempo, con lo stratificarsi della preghiera, con lo svolgersi dei riti, come quando si fa un teatro nuovo: le prime volte che si utilizza sembra che stoni. Un teatro è come uno strumento musicale. Per farlo suonare bene, si dice, bisogna fare, e bene, della buona musica. (A mio avviso continuano a stonare anche molti dei nuovi fabbricati realizzati all’interno della città storica. Via della Conciliazione a Roma è lo sventramento più offensivo fatto all’identità spirituale e culturale inferta a Roma). Molte chiese moderne, anche se non sembrano garage o magazzini, nonostante i riti, le preghiere e l’abitudine, continuano a far risaltare le peculiarità compositive dell’autore. Magari sono di grande e affascinante impatto nel paesaggio urbano periferico, come la bellissima chiesa di Dio Padre Misericordioso, costruita da Richard Meier a Roma. Dentro, però, esprime il senso del sacro? Non tutte le chiese lo esprimono, spesso neppure quelle costruite nel passato, anche se è difficile non coglierlo in quasi tutte le altre dove le pietre o i decori, THEMA | CERVELLATI |

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la povertà francescana o la ricchezza trionfante barocca, manifestano una forte spiritualità fino a suggestionare chi le frequenta per la loro sacralità. Sono un invito al raccoglimento, alla contemplazione, alla preghiera. Sono un po’ come i quadri di Guido Reni a soggetto religioso che, in particolare da Marc Fumaroli in L’École du silance (1994), sono considerati un invito alla preghiera. Che cosa sarebbe Firenze senza la cupola di Santa Maria del Fiore? O Roma senza il Cupolone? La maestria del progettista è evidente, ma questa resta come offuscata (e non solo agli occhi del profano) dal miracolo del risultato. Sarà forse invidia verso chi ha potuto costruire una chiesa, ma faccio fatica a non sospettare che la tendenza di molte archistar sia quella di far risaltare il proprio “io” invece di Dio. Brunelleschi e ancor più Bernini tenevano, eccome, al proprio prestigio, ma senza rinunciare a esaltare la sacralità e la città in cui realizzavano la loro opera. Grandi archistar hanno firmato negli ultimi anni chiese importanti. Alcune sono state illustrate proprio in questi giorni in una rivista femminile che riportava uno scritto del Cardinal Ravasi. Non è un commento critico, bensì una dottissima silloge sul Tempio Giudaico. Testo da conservare. Le immagini invece… che dire del muro - una gigantesca ghigliottina di cemento - che incombe sull’ingresso della chiesa dedicata a San Paolo Apostolo a Foligno (opera di M. Fuksas): facciata portale di un enorme scatolone che mette soggezione all’esterno e dà senso del vuoto al suo interno. Strampalata la forma della chiesa del Volto Santo a Torino (opera di M. Botta ). Tubi quadrangolari a un certo punto strozzati da una mano (quella di King Kong?) che li rende sghimbesci campanili che formano all’interno l’aula ecclesiale circondata all’esterno da tubi rettangolari ricurvi che sembrano “prese d’aria”. Respinge per la ricercatezza della forma. Stupisce invece la ricerca fatta da Vittorio Gregotti per la chiesa di San Massimiliano Kolbe a Bergamo. Contrario da sempre alle archistar, fautore di una razionalità e quindi anti-monumentale da autentico maestro dell’architettura moderna, qui appesantisce la costruzione con una monumentalità assai simile a certe costruzioni del mussoliniano EUR 42, specie con la raggiera di pilastri

rettangolari che potrebbero terminare tutti con un fascio littorio, mentre il tamburo esterno - con le aperture quadrotte da lager nazista - e l’interno scabro con freddo effetto marmoreo, assumono un aspetto funerario, cimiteriale. Nessuna sembra un magazzino o un garage, anzi. Ma il sacro dov’è? Mi piacerebbe capire se qualcuno si sente calamitato a pregare al loro interno. Io, lo ripeto, sarà per invidia, non ci proverei nemmeno e neppure ascolterei una messa, come sospetto anche dei loro autori. Quella di Meier arricchisce il panorama urbano, qualifica, e tanto, una zona periferica, compensa - se così si può dire - lo scempio che ha fatto sostituendo l’Ara Pacis con una costruzione che assomiglia a un autogrill autostradale. Ho citato solo qualche esempio di nuove chiese realizzate negli anni ‘2000. Alcuni diranno che ho citato autori che non si dichiarano cattolici praticanti o che sono ebrei. Anche Guido Reni, pur cattolico, era posseduto da una passione demoniaca tale da imporgli di fare tanti quadri di soggetto sacro per compensare i suoi notturni debiti… eppure i suoi dipinti a tema religioso esprimono una spiritualità o una compassione (come lo sguardo della donna che stringe al seno il figlioletto nella “Strage degli Innocenti”) indimenticabile. Mi chiedo: possibile che nessuno di loro sia andato o ritornato a Ronchamp a vedere la cappella di Notre-Dame du Haut costruita da Le Corbusier negli anni ’50 del secolo scorso? Come una sacra rappresentazione di Guido Reni, la cappella lecorbusieriana sollecita la preghiera. I particolari della cappella poi, nel loro ritmico intrecciarsi di forme e colori trasmettono una forte spiritualità. “Dio sta nei particolari”, diceva un altro maestro dell’architettura moderna Mies van der Rohe…. Pierluigi Cervellati


L’identità del colore, dialogo tra memoria, contesto, valori architettonici Maria Vitiello

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ella percezione dello spazio il colore ha un ruolo fondamentale; esso definisce l’habitat e consente a chi lo vive di comporre delle mappe cognitive che hanno la funzione di riconoscere e di identificarsi in un luogo. La fisionomia di un paesaggio, l’aspetto di una struttura urbana porta con sé non solo forma ma la luce e con la luce il colore. Alla scala urbana, come a quella paesaggistico-territoriale, la presenza del colore è basilare, dunque, per la rivelazione di un’immagine. All’interno della compagine urbana il ruolo degli edifici ecclesiastici è importante, poiché nella città, e in particolar modo in quella antica, vi è una rigida struttura gerarchica che interconnette gli spazi: vi sono le strade, le piazze, il tessuto abitativo e le emergenze architettoniche che, proprio per essere tali, sovrastano l’edilizia abitativa e costituiscono gli elementi di riconoscibilità di un luogo. Il paesaggio urbano di Firenze è inconfondibile ed è dato da una confluenza di architetture monumentali; ovvero: dalla cupola brunelleschiana di Santa Maria del Fiore, dal volume del Bargello, da Palazzo Vecchio e da tutti quegli edifici rappresentativi che, come dice Prust, parlano della comunità e riassumono

la città. In questo intreccio di forme, di volumi, di percorsi, di natura, il colore rappresenta un elemento di grande importanza, poiché questo riesce a esaltare il senso di organismo che è proprio di una città, ovvero in certi casi a svilirlo. La città non è un totalità di elementi fissi, è, invece, un organismo in lenta ma inesorabile mutazione. Nel suo insieme è una memoria materiale del passaggio nel tempo della cultura di un luogo, è stratificazione di presenze sicroniche e, pure, palinsesto diacronico di codici linguistici diversi che appartengono alla codificazione dello spazio dell’architettura, della politica, della pianificazione, della natura dei luoghi. Tutti questi elencati sono codici riconoscibili da tutti, perché sono frutto di un lento processo di modificazione dello spazio sociale che plasma le individualità e legittima abitudini, valori diffusi e costumanze. È da questo insieme di codici non scritti, bensì radicati nell’animo di ciascuno perché carichi di senso, di vissuto, di appartenenza, che l’identità collettiva trova l’humus da cui trarre vita. Questa è l’identità cromatica di un luogo, la connessione profonda che lega il colore di un organismo architettonico all’insieme dei colori urbani ed a quelli

La città è stratificazione di presenze sicroniche e palinsesto diacronico di codici diversi ma riconoscibili da tutti, perché frutto del lento modificarsi dello spazio sociale. Da tale insieme di codici non scritti ma radicati nell’animo e carichi di senso si alimenta l’identità collettiva. I cromatismi manifestano questa identità ed evidenziano la connessione profonda che lega il colore di un’architettura all’insieme dei colori del panorama urbano e rurale.

del territorio in cui è inserito. Corrado Ricci, in un articolo pubblicato sul supplemento al “Bollettino d’Arte” del 1916 traccia un interessante profilo del senso di profondo radicamento che le città storiche hanno all’interno dell’ambiente naturale e antropico. «Le antiche città italiane, oltre che una speciale architettura, hanno spesso un colore loro proprio. Chi può dimenticare quello ferrigno di Gubbio o Volterra? Quello perso di Siena e di Verona? Quello argenteo di Venezia e di Firenze? Quello fosco-vermiglio di Piacenza e di Bologna? Questi e altri toni di colore fanno parte della fisionomia di molte nostre città ed è quindi un errore voler loro imporre certe note convenienti, per esempio, alle piccole case di Tunisi e Tripoli […] dove le tinte chiare sono destinate a respingere la veemenza dei raggi solari. Non è possibile … immaginare sino a qual punto il colore di un edificio valga ad armonizzare, oppure a turbare, un dato ambiente monumentale». 1 L’identità cromatica di un contesto storicizzato è costituita, allora, da tinte che lo segnano, che dialogano con il territorio intrecciando con questo relazioni non lineari ma complesse, che devono essere adeguatamente salvaguardate in un’azione restaurativa THEMA | VITIELLO |

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tendente alla conservazione sia del testo architettonico, sia del suo contesto. La scelta di un colore per un’architettura, e in particolare per un’emergenza architettonica quale è l’edificio ecclesiastico, necessita come primo atto la «presa di coscienza della dimensione critica delle problematiche inerenti la compatibilità estetica e materica delle coloriture architettoniche»2, nel senso che è un tema che ha bisogno di essere sviluppato avendo ben chiaro l’aspetto ‘scientifico’ dell’argomento, che «deve rendere consapevoli su “che cosa” s’interviene e su “come” sia corretto intervenire». 3 Volendo tracciare un percorso di metodo è necessario partire da un’osservazione che a molti può apparire ovvia: quella per cui ogni azione restaurativa, quindi anche quella inerente la facies cromatica di una chiesa, debba essere basata sull’osservazione dello stato all’attualità del manufatto e del suo contesto, e ciò significa considerare insieme la fabbrica e il luogo del quale essa è parte in tutta la sua realtà cromatica. Solo da ciò è possibile tentare di interrogarsi su qual è o potrebbe essere il “giusto colore” attraverso il quale offrire una qualificazione a una determinata realtà architettonico-urbana. Il ristabilimento del colore originario, che è ipotetico quanto realmente irraggiungibile,rappresenta un’ambizione ancora molto diffusa tra i restauratori e un vanto tra i committenti, nonostante si affermi sempre più il convincimento che ogni strato di storia debba essere preservato nella sua propria identità. Il fronte di un organismo architettonico, quindi, concretizza il piano d’incontro tra l’articolazione interna dell’architettura e la dimensione urbana della città. Questo disegna il confine tra l’intimità dell’uso degli spazi interni e la percezione collettiva dei riti sociali; un limite che è concreto, ma per alcuni aspetti è evanescente. THEMA | VITIELLO |

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Scorcio della città di Alatri (Fr) | Il colore bianco, da molti ritenuto una tinta neutra, in realtà non lo è. La monumentalità della chiesa all’interno del tessuto urbano, già di per sé palese per forma e per volumetria, viene fatta risaltare dal candore dell’intonaco, in un assolo decisamente sgradevole.

All’interno di questo quadro la parete acquisisce un significato semantico che è legato al ruolo funzionale di diaframma e alla sua vita autonoma di parete, sulla quale si concentra la funzione simbolica dell’edificio e i suoi caratteri strutturanti. Questo passaggio di scala costituisce un punto delicato e problematico, in quanto il problema delle cromie cessa di essere accordo tonale del paesaggio e diviene materia. «Il che equivale a dire che il colore è tutt’uno con la materia. D’altra parte, la materia in quanto tale esibisce il proprio colore, perciò i suoi costituenti, siano essi materiali tradizionali o moderni, naturali o artificiali, siano impiegati concretamente ovvero imitati, simulati, rappresentati o semplicemente allusi, congiuntamente caratterizzano la scena urbana e di fatto ne determinano la figuratività».4 In altri termini, in un progressivo avvicinamento alla fabbrica, dalla dimensione territoriale a quella architettonica, il tema del colore esige di essere affrontato nel rispetto dell’identità concettuale della materia, il che significa primariamente che ogni tonalità applicata non deve alterare l’integrità del linguaggio attraverso il quale l’architettura e la superficie che ne determina l’involucro ci parla. Un linguaggio che è proprio di ciascun sistema edilizio ed è fatto da elementi costitutivi che sono langue e parole, ovvero lemmi e sintassi. Compito dell’architetto, che è anche

restauratore, in sostanza è quello di riuscire a individuare una gamma cromatica che sappia tenere insieme quei rapporti strutturali che riguardano la figura e il suo sfondo, l’orditura e la parete, le ossa e i complementa, il testo e il contesto; legami che sono architettonici e percettivi, i quali si veicolano, si raccolgono e sono salvaguardati proprio dal colore. 1 | Corrado Ricci, Il colore di Roma, in Cronaca delle belle arti, Suppl a “Bollettino d’Arte” III, 1916. 2 | Maria Piera Sette, Ancora sul ‘colore’, note in margine ad alcune questioni di restauro, in a cura di M. Rossi, Colore e Colorimetria. Contributi Multidisciplinari, Vol. VII A, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2011, pp. 465-474 3 | Arnaldo Bruschi, Problemi di materiali e d.i colori delle facciate con ordini architettonici nella Roma rinascimentale e barocca, in “Bollettino d’arte”, 47, 1988, pp. 117-122. 4 | Maria Piera Sette, Ancora sul ‘colore’…cit, 2011, pp. 465-474.

Basilica di Superga, Torino | Il restauro delle superfici murarie ha alterato la sintassi architettonica juvarriana, alterando completamente i rapporti proporzionali tra le parti che compongono i fronti. In un avvicinamento scalare all’architettura il colore non può essere valutato solo in funzione dell’accordo paesaggistico, ma è necessario farlo calare nella realtà architettonica della superficie, interpretando correttamente gli elementi che la compongono e individuando cromie che restituiscano alla materia la realtà linguistica di cui è manifesta.


Vedute di Zagarolo (Rm) | L’immagine restituisce due vedute del paese. Sono il “prima” e il “dopo” della cura ricevuta dalla cupola della chiesa di San Pietro Apostolo. L’accordo cromatico che il tempo aveva generato sulla coloritura giallastra producendo un ricco gioco di chiaroscuri, si è perso appiattendosi in un nuovo colore eccessivamente chiaro e privo di vibratilità.

Roccasecca (Fr) | Il nucleo urbano si distende lungo il fianco del monte, l’accordo cromatico dell’insieme edilizio è armonico, i volumi delle chiese si distinguono per conformazione.

Barrea (Aq) | Il nucleo urbano si colora uniformemente dei toni aranciati che rilascia il tramonto, l’accordo cromatico dell’insieme edilizio è armonico, la chiesa si distinguone per la forma e la massa volumetrica.

Chiesa di Sant’Eustachio, Roma | Il fronte della chiesa rinnovato per l’anno giubilare si pone in netto contrasto con le cromie del tessuto architettonico all’interno del quale la chiesa si pone. Un’operazione siffatta sbilancia l’accordo strutturale dell’organismo urbano. Solo col tempo, quando gradualmente sono state rinnovate anche le fronti degli edifici contermini, l’armonia tra le parti è ritornata ancora a essere. Il “testo” architettonico, quando esaminato nella sua singolarità, cioè senza tener conto del suo “con-testo”, genera dissonanze.

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Le vetrate: luce come segno del Creatore Intervista a Sara Meda

Sara Meda, docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha pubblicato “La vetrata nell’architettura sacra a Milano nella Seconda Metà del Novecento” (ed. Vita e Pensiero, 2009). Nell’architettura sacra il legame della vetrata con la luce assume un’accezione simbolica forte in quanto questa è manifestazione di Dio. Le vetrate apportano un senso di sacralità anche là dove l’architettura di per sé è inespressiva.

Michela Beatrice Ferri

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l tuo volume raccoglie un’indagine pionieristica. Come nasce questo lavoro e da che cosa ha origine la tua attenzione per la vetrata sacra contemporanea a Milano ?

Il mio lavoro nasce dalla lettura del testo Il genius loci cristiano di Frédéric Debuyst in cui l’autore si interroga su come un architetto possa progettare oggi uno spazio sacro o, meglio, uno spazio ben connotato nella sua identità cristiana.Tenendo conto delle caratteristiche proprie del genius loci enunciate da Debuyst, mi è sembrato che la vetrata, per sua natura e storia, potesse corrispondere a tali criteri e contribuire, così, a influenzare lo spazio architettonico orientandolo al suo significato più profondo. Ho voluto verificare tali presupposti partendo dal territorio a cui appartiene la mia storia, scegliendo la contemporaneità innanzitutto perché l’interrogativo sollevato da Debuyst riguarda l’oggi, ma anche perché nel Novecento si è verificata una riscoperta del valore artistico della vetrata. Qual è il profondo significato artistico della vetrata ?

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La vetrata nasce nel Medioevo, nello spazio della cattedrale, come un mosaico di luce e colore attraverso cui diviene percepibile la dimensione divina. Il vescovo Durando di Mende alla fine del XIII secolo la definisce “scrittura divina” in quanto illumina i fedeli con la luce del vero sole: Cristo. La vetrata prende vita solo se trapassata dalla luce che continuamente la rinnova coinvolgendola nel suo variare al trascorrere delle ore e delle stagioni. Ecco perché, per esprimere a pieno il suo valore artistico, la vetrata deve corrispondere a questa sua natura legata alla luce e al colore, prima ancora del soggetto che viene rappresentato. Durante l’ideazione l’artista deve già pensare forme adatte alla traduzione in vetrata, assai diverse da quelle di un dipinto. Il disegno, infatti, deve essere semplice poiché costituirà la trama dei piombi di sostegno ai vetri colorati; le ombre concepite come accostamento di colori e non in termini di chiaroscuro; gli interventi pittorici, come la grisaglia, dosati per non compromettere la trasparenza del vetro. Fondamentale, infine, è la scelta dei colori, del tipo di vetro e, all’interno di una stessa lastra, della parte che meglio risponde alle esigenze artistiche dell’ideatore.

Nel corso dei secoli si è perso il valore autentico della vetrata ed essa è divenuta pittura su vetro. Nel Novecento sono stati grandi artisti quali Matisse, Chagall, Rouault, Léger a riappropriarsi la sua vera natura creando splendide opere d’arte. Hai scelto di dedicare il tuo studio alla vetrata sacra nella seconda metà del Novecento. Intendi, quindi, rivolgerti a ciò che è venuto dopo il Concilio Vaticano II, oppure a ciò che viene dopo la II Guerra Mondiale ? Ripercorrendo la storia della vetrata si può notare come la rinascita di tale forma artistica avvenga a partire dalla fine degli anni Quaranta-inizio anni Cinquanta, in corrispondenza di una più ampia riflessione sull’arte sacra avvenuta soprattutto in Francia intorno agli Ateliers d’Art Sacré e all’omonima rivista. Il mio primo riferimento è, dunque, quello legato a un rinnovamento avvenuto dopo la II Guerra Mondiale. Ciò non toglie che certamente il Concilio Vaticano II ha dato un nuovo impulso all’arte sacra e dunque anche alle vetrate. La Chiesa si fa interlocutore, riapre il dialogo con gli artisti ponendo esigenze e


bisogni. La vetrata, che da poco aveva assistito alla sua rinascita, possiede le caratteristiche per rispondere a tali istanze e per questo si diffonde notevolmente. Il Concilio Vaticano II a volte diviene soggetto stesso della vetrata, come è accaduto nel tiburio del Duomo o nella chiesa di S. Maria Goretti. A Milano, inoltre, l’arcivescovo cardinal Montini propone per il biennio 1962-63 la costruzione di ventidue nuove chiese celebrative di tale evento, il che ne esemplifica la forza propulsiva nei confronti dell’architettura e dell’arte sacra, forza che investe anche la vetrata. Tra gli interventi artistici di rilievo, così come tu li definisci, analizzi in primis il Duomo di Milano. Ci puoi parlare delle nuove vetrate? Il Duomo ospita 55 vetrate che, dalle più antiche risalenti al XV secolo all’ultima datata 1988, ne percorrono tutto il perimetro e ne ornano il tiburio dando una forte caratterizzazione all’architettura e all’atmosfera interna. I nuovi interventi riguardano tre vetrate delle navate, tre della controfacciata e otto del tiburio e sono stati affidati a diversi artisti che hanno saputo inserirle armonicamente nella realtà esistente. I primi risalgono al 1947 e portano la firma di Aldo Carpi, che illustra nella prima finestra del lato settentrionale le Storie di Davide, e Giovanni Buffa, che nella terza finestra rappresenta la Lotta tra S. Michele e i demoni. Questi due lavori, affidati a personalità già mature da un punto di vista artistico e di conoscenza della vetrata, costituiscono un anello di passaggio verso le realizzazioni più recenti. Le composizioni, infatti, si caratterizzano per un’evidente libertà che permette a Carpi di esulare dalla rigida corrispondenza tra episodio e antello, e al Buffa di anticipare le scelte monocompositive che caratterizzano molte vetrate novecentesche.

Dell’artista ungherese Giovanni Hajnal sono le tre vetrate della facciata risalenti al 1955 che illustrano la Sinagoga, la Trinità e la Chiesa. Tali soggetti sono rappresentati attraverso la loro personificazione, a cui si accostano elementi simbolici. Pur essendo all’inizio della sua lunga carriera nel campo delle vetrate artistiche, Hajnal si distingue già come la personalità che, all’interno del Duomo, maggiormente rinnova l’arte vetraria ritrovando l’antica luminosità. Riduce al minimo gli interventi pittorici a grisaglia, limitandoli ai particolari e lasciando alla trasparenza del vetro puro la costruzione delle forme attraverso l’accostamento di toni e colori. Inoltre concepisce già il disegno in termini di vetrata dando vita a immagini plastiche e fortemente caratterizzate, più vicine a una sensibilità nordica. Le successive vetrate create per il Duomo occupano uno spazio poco visibile per l’altezza elevata, quello del tiburio. Realizzate nel 1968, commemorano, per volontà dell’arcivescovo Giovanni Colombo, il Concilio Vaticano II rappresentando Maria Mater Ecclesia, proclamata tale in quell’occasione e i Messaggi rivolti dal Concilio all’umanità. Sono otto, affidate a due a due ad Amalia Panigati, Cristoforo De Amicis, Trento Longaretti e Luigi Filocamo, artisti maturi nel loro sviluppo poetico e nell’arte vetraria. La Panigati, in particolare, vanta una lunga esperienza che riguarda tutto l’iter della vetrata dall’ideazione alla realizzazione finale. Pur mantenendo ognuno la propria cifra stilistica, i diversi artisti hanno saputo armonizzare le loro opere. Si nota, infatti, una sintonia cromatica e compositiva così come una tendenza alla semplificazione delle forme e alla purezza del colore che favorisce la luminosità dell’insieme. Le creazioni di Longaretti, inoltre, si distinguono per l’espressione di sentimenti profondamente umani, che

G. Hajnal | La Chiesa | Duomo di Milano | 1955

dimostrano una tenera partecipazione alle vicende narrate. Nel 1988, dopo trentatré anni, torna a lavorare in Duomo Giovanni Hajnal, che realizza la vetrata più recente, dedicata a I beati card. Ferrari e card. Schuster, tema strettamente connesso alla storia della chiesa milanese. Si trova nella settima finestra del lato meridionale e si nota immediatamente per la varietà dei colori che proietta sulle colonne e sul pavimento. Hajnal, infatti, limita la grisaglia ai contorni o ai tratti del volto favorendo l’uso di vetri colorati puri, privi di interventi pittorici, per ottenere la massima trasparenza alla luce e una maggiore vivezza cromatica. Le tessere vitree irregolari danno movimento alla composizione che alterna episodi abbreviati tipici delle “storiette” quattrocentesche a una monumentalità visibile soprattutto nelle due figure principali. Rispetto al primo intervento, lo stile si fa più marcato e incisivo, le forme più spigolose e geometrizzanti, ma è evidente nella descrizione degli atteggiamenti un coinvolgimento emotivo coi soggetti rappresentati. THEMA | FERRI |

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T. Longaretti | Apertura del Concilio Vaticano II | S.Giuseppe e le opere di misericordia | S. Maria Goretti, Milano, 1968

Nella mia ricerca mi interessava indagare come si potesse intervenire con le vetrate sia in una chiesa storica, stilisticamente ben connotata, sia in una chiesa moderna, spesso bisognosa di una connotazione in senso sacro. Nel primo caso ho rilevato due tendenze: ad armonizzarsi con la tradizione,

più evidente l’impianto storico. Dopo aver provveduto alla sbiancatura delle pareti, gli architetti Latis hanno deciso di intervenire anche sulle finestre dell’abside prima (1978), della navata centrale e della facciata poi (1988), con l’inserimento di vetrate policrome in sostituzione dei preesistenti vetri opachi piombati. L’intervento, affidato a Marta Latis, interessa tutte le principali fonti luminose e per questo agisce in modo significativo sulla qualità e sul tipo di luce dell’intera struttura. La luce, infatti, non è più bianca e con

come la Panigati ha mostrato nella Cappella di S. Maria delle Grazie (foto in album), o a porre in modo netto il segno della contemporaneità. In tal senso particolare è l’intervento di Marta Latis in S. Vincenzo in Prato. Si tratta di una chiesa risalente al IX-XI secolo poi rimaneggiata nei secoli successivi e oggetto di restauri tardo-ottocenteschi. L’ultimo restauro, concluso nel 1989, se è da ritenersi “leggero” in quanto non ha coinvolto la struttura architettonica, ha però modificato radicalmente la percezione dello spazio per rendere

il cambiare delle ore e delle stagioni produce effetti variopinti sul candore delle pareti. Il tema tratta nell’abside il Mistero dell’Ostia, nel lato destro della navata le Gerarchie angeliche, in quello sinistro la Creazione e in facciata sono riportate due frasi tratte dalla prima Lettera di S. Paolo Apostolo ai Colossesi. Il linguaggio, costruito essenzialmente con il colore, abbandona il criterio figurativo, per divenire piuttosto simbolico ed evocativo. Le tessere vitree sono allungate, le linee dei piombi mosse e fluenti così da creare

Vi è un intervento, tra quelli da te esaminati nel tuo volume, su cui ti sei soffermata con più curiosità e che a tuo parere può essere preso come caso particolare oppure come exemplum?

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M. Latis | Creazione delle piante | S. Vincenzo in Prato | Milano | 1988

un effetto d’insieme decorativo. I colori seguono la luminosità naturale, per questo prevalgono i toni freddi sulla parete nord, quelli caldi a sud. La scelta di non ricreare una luminosità medioevale, ma di esaltare per contrasto l’antica struttura con un intervento decisamente contemporaneo, può mettere a rischio l’adeguata fruizione del monumento anche per l’uso di colori troppo intensi. Non a caso il lavoro della Latis è stato frutto di diverse rielaborazioni guidate dai consigli della Commissione per l’Arte Sacra e i Beni Culturali e della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici. Il tuo libro si divide in tre sezioni. Dopo la prima sezione, contenente un’analisi di genere storiografico, e una seconda sezione che illustra le vetrate sacre protagoniste del tuo studio, intitoli la terza sezione “Il rapporto tra la vetrata e lo spazio architettonico”. Seguendo questa sezione, ti chiedo: qual è il ruolo della vetrata nell’architettura civile? La vetrata ha iniziato ad acquisire un


ruolo di primo piano nell’architettura civile con l’avvento del razionalismo che, scardinando il tradizionale legame tra pittura, scultura e architettura ed eliminando l’ornamento in quanto la funzione esornativa è già ritenuta insita nella forma e nel materiale, ha ridotto gli elementi strutturali lasciando maggiore libertà alle pareti e creando così le premesse per la diffusione della vetrata. Questa viene apprezzata per le sue caratteristiche di leggerezza e grande luminosità. Anche nell’architettura civile, dunque, il vetro è sempre stato associato alla luce. Si pensi al Crystal Palace di Londra di Joseph Paxton (1851), interamente costruito in ferro e vetro, ritenuto una forma architettonica astratta, fatta di aria, luce e colore. L’espressionismo tedesco sottolinea la valenza simbolica del cristallo tanto da attribuire a esso una capacità salvifica, di trasformazione dell’uomo e di liberazione dal male, come mostra il testo di Paul Sheerbart Architettura di vetro, dove l’anima della nuova città dei salvati è la luce stessa. Nelle sue architetture Mies van der Rohe lascia sempre più spazio al vetro, capace di trasformare continuamente le superfici nell’impatto con la luce, fino ad arrivare in alcuni edifici ad un effetto di smaterializzazione. Le innovazioni architettoniche introdotte da Le Corbusier liberano totalmente la facciata dalla sua funzione portante permettendole di essere interamente trasparente alla luce grazie all’uso totale del vetro. La vetrata ben risponde alle esigenze di luminosità, ariosità, limpidezza, apertura verso l’ambiente esterno che costituiscono le condizioni per una vita sana e serena. Tali esempi mostrano come il ruolo della vetrata nell’architettura civile sia, in sintesi, quello di far vivere meglio l’uomo, portando negli ambienti interni il potere benefico della luce e creando un legame con il territorio in cui l’edificio si inserisce.

E, come si differenzia questo ruolo da quello ricoperto, invece, nell’architettura sacra, oggetto della tua indagine? Nell’architettura sacra, come ho già accennato, il legame della vetrata con la luce è letto in un’accezione simbolica molto più forte e definita in quanto la luce è manifestazione di Dio. Alla vetrata è affidato il compito di creare un’atmosfera spirituale in cui sia favorito l’arricchimento interiore del fedele, il suo rapporto col Creatore. Si pensi alla Cappella del Rosario a Vence, progettata da Matisse tra il 1948 e il 1951. Egli concepisce uno spazio bianco, solcato su due pareti da tratti neri raffiguranti la Vergine con il Bambino, S. Domenico e la Via Crucis. I lati opposti risultano alleggeriti da vetrate policrome, decorate da semplici forme vegetali fatte di puro colore che, al passaggio della luce, si riflettono sulle pareti e sul pavimento decorando le figure in bianco e nero. L’intento di Matisse non è tanto quello di narrare storie – e non a caso queste sono raffigurate da semplici linee nere – ma di creare attraverso la luce un luogo ricco di spiritualità. Essa diviene l’elemento unitario di tutta la cappella tanto da far dire all’artista che la vera materia di Vence è la luce. Anche Le Corbusier, quando progetta la Cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp (1950-55), dà alla luce un ruolo fondamentale definendola la chiave dell’intero edificio. Lo spazio della cappella presenta un andamento curvilineo, all’interno le pareti sono bianche, il soffitto grigio in cemento a vista, il pavimento in cemento e pietra va declinando verso l’altare. L’illuminazione, oltre che da una fessura collocata tra il guscio della copertura e l’involucro verticale dei muri, è data essenzialmente da una serie di vetrate distribuite in modo asimmetrico sulle pareti. Esse riportano immagini simboliche o parole

inneggianti a Maria. Trapassandole la luce, ora bianca ora policroma, caratterizza l’ambiente rispondendo al desiderio dell’artista di creare un “luogo di silenzio, di preghiera, di pace, di gioia interiore”, un ambiente pervaso dal “sentimento del sacro”. La trattazione si chiude con un capitolo importante. Chiedo, con le stesse parole del titolo: qual è la funzione architettonica della vetrata nelle chiese milanesi? Nell’estrema varietà tipologica che caratterizza le chiese milanesi sorte nel Novecento, un’interessante chiave di lettura dello spazio e del suo significato può essere quella della luce. In tale prospettiva la vetrata entra direttamente in gioco interagendo con l’architettura e dandole un significato simbolico in alcuni casi marginale, in altri determinante. Per quanto riguarda le chiese antiche, che hanno come punto di riferimento il Duomo, si privilegia un inserimento armonico della vetrata nella struttura, basato sulla consonanza cromatica e sulla preferenza verso immagini figurative. Il Duomo diviene un modello, interpretato a volte in modo quasi letterale, anche per tutte quelle chiese di impianto neomedioevale, in genere risalenti ai primi decenni del Novecento. Si pensi a S. Rita alla Barona o al SS. Redentore. Le vetrate si distribuiscono sulla facciata, lungo la navata, nel transetto e nell’abside veicolando la luce in modo uniforme lungo il percorso, a volte accentuandola nella zona del presbiterio. La funzione prevalente delle vetrate è in questi casi più decorativa che non di reale modifica della spazialità interna. Diverso è il caso di quegli edifici sacri a pianta longitudinale con navata unica o con navate laterali estremamente ridotte, dove l’abside non presenta alcuna apertura bensì spesso opere THEMA | FERRI |

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d’arte monumentali. In facciata si inseriscono finestre di grandi dimensioni tanto da costituire visivamente una sorta di parete luminosa che si pone come polo dialogico con la zona presbiteriale. Le vetrate presenti nelle cappelle laterali non influiscono, invece, in modo determinante sulla luminosità del corpo centrale, ma hanno una funzione di alleggerimento delle pareti e dilatazione dello spazio delle cappelle. Un esempio può essere la chiesa di S. Francesco d’Assisi al Fopponino. Un altro caso è quello delle chiese in cui le vetrate si dispongono in una fascia continua lungo tutto il perimetro e, a volte, anche nel tiburio. Essendo collocate immediatamente sotto la copertura, creano un effetto di separazione tra questa e le pareti sottostanti di cui ne costituiscono la terminazione. Le vetrate assumono una funzione architettonica di completamento e chiusura e, allo stesso tempo, di alleggerimento e apertura. La luce, distribuita lungo tutta la zona superiore, acquista una valenza simbolica comprendendo tutto lo spazio in questo perimetro luminoso. Tale valenza si accentua laddove vi siano vetrate anche nel tiburio in quanto l’altare, centro visivo e di significato, viene immerso in una più intensa luminosità acquistando maggiore rilevanza. Possiamo citare S. Biagio a Monza (foto in album). Un ruolo più strettamente architettonico viene assunto dalla vetrata nelle chiese in cui essa costituisce una vera e propria parete, come si nota in molte realizzazioni di Costantino Ruggeri tra cui S. Basilio o il battistero dei SS. Clemente e Guido (foto in album). La vetrata veicola una grande luminosità e si pone in costante rapporto con lo spazio esterno essendo un elemento di chiusura, ma non totale come le pareti. Un simile valore architettonico, anche se con andamento discontinuo, THEMA | FERRI |

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emerge in vari edifici sacri in cui i muri sono interrotti da una serie di finestre molto lunghe e strette, distribuite a breve distanza fra loro su due o tre lati, o addirittura lungo tutto il perimetro. Le vetrate non sono più continue, ma possono estendersi su una lunghezza maggiore rispetto a una singola superficie vetrata. Se da un lato l’effetto luminoso non è più così intenso, dall’altro diviene avvolgente e determinante per l’atmosfera dell’intero edificio. In alcuni casi, come negli Angeli Custodi, si avverte una sorta di smaterializzazione della struttura architettonica. Totalmente diversa è la funzione delle vetrate nelle chiese in cui si accentua la forma triangolare della sezione trasversale. Collocate alla convergenza del tetto, costituito da falde fortemente verticali, percorrono in una fascia continua tutta la lunghezza della chiesa divenendo una lama di luce che taglia l’architettura e la apre verso il cielo. Come si nota, ad esempio, in S. Giovanni Bono, le vetrate costituiscono una soluzione di raccordo, di copertura, ma anche un elemento evocativo. Vi sono, poi, chiese ispirate alla Cappella di Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp di Le Corbusier. In esse le aperture non seguono uno schema definito, ma si collocano secondo forme, dimensioni e rappresentazioni variabili. Un caso ben riuscito è la Chiesa della Resurrezione dove le vetrate, distribuite nel cono sopra l’altare, alla sinistra di questo e nella zona del fonte battesimale, svolgono una funzione simbolica e di connotazione degli spazi più significativi. Meno determinante è il ruolo delle vetrate in edifici quali S. Filippo Neri dove esse sono disposte in una serie, a breve distanza l’una dall’altra. Di forma quadrata corrono ad altezza non elevata lungo una o due pareti costituendo una sorta di dipinto luminoso.

Più significativa, invece, è la funzione della vetrata nelle chiese in cui il tiburio costituisce una sorta di lucernario che indirizza verticalmente la luce sul presbiterio evidenziandolo in modo deciso. Si pensi, ad esempio, alla Madonna dei Poveri. Ultimo, ma di valenza architettonica fondamentale, è il caso in cui la vetrata costituisce una parete continua che percorre i tre lati dell’edificio. Interessante è la chiesa Mater Misericordiae di Baranzate dove l’ampia aula rettangolare è definita da pannelli semitrasparenti in vetro, polistirolo e policarbonato inseriti in un’intelaiatura in metallo. Una fascia di vetro trasparente completa le pareti in alto, verso il soffitto e a contatto con il pavimento. Si viene, così, a creare uno spazio immerso nella luce; una luce diffusa, uniforme, intensa che ha l’insostituibile compito di suggerire la funzione sacra di un edificio altrimenti poco caratterizzato in tal senso. Di evidente richiamo alle architetture di Mies van der Rohe è, invece, la chiesa di Santo Spirito a Pavia dove la parete d’ingresso e le due laterali sono costruite con lastre di vetro trasparente. Circondata da alberi e verde, diviene una sorta di chiesa giardino per il costante rapporto tra interno ed esterno. Da queste tipologie appare evidente che, a seconda della posizione e dell’estensione, la vetrata interagisce in modo più o meno determinante con l’architettura. In molte chiese moderne, in particolare quelle costruite negli anni Settanta dove spesso manca una caratterizzazione in senso forte dello spazio sacro, essa tenta di rispondere a tale esigenza creando un’atmosfera, sottolineando un percorso fisico e spirituale che dall’ingresso conduce all’altare o mettendo in evidenza l’area presbiteriale, cuore dello spazio sacro cristiano.


La forza dell’umiltà Luigi Leoni

I

n ogni epoca, nel corso del passato, l’edificio chiesa ha sempre avuto un carattere preminente nel contesto in cui è stato eretto. Valenze diverse dell’edificio hanno portato indubbiamente a caratterizzazioni non univoche, ma certamente, qualunque fosse la destinazione - una cattedrale nel centro di una grande città o un santuario da raggiungere in pellegrinaggio sulla cima di un monte al di fuori di un contesto urbano - la chiesa, sino all’epoca contemporanea, è sempre apparsa come segno inconfondibile e riconoscibile di luogo eminente nel contesto, a suggellare la coralità dei sentimenti di un popolo chiamato a celebrare la gloria di Dio con una fede condivisa. La monumentalità di opere d’arte nei centri urbani o la scelta di luoghi significativi in paesaggi naturali di rara bellezza per episodi isolati come richiamo a vivere momenti altamente spirituali denunciano proprio l’intendimento di qualificare un ambiente con presenze che esprimessero con forza la loro peculiarità e il loro pregio. Nel mondo contemporaneo profonde trasformazioni sociali, culturali e artistiche hanno portato ad esprimere con modalità nuove l’approccio col

sacro, quindi anche a gestire il modo di dialogare con il contesto circostante, ma non si può negare che ancora tale dialogo sia ricercato. Voglio portare un esempio emblematico che può aiutare a discernere nuovi processi e nuove tendenze legate a sensibilità contemporanee, non disgiunte dagli slanci per una creatività che vuole entrare nel profondo dei valori umani e cristiani: il Nuovo Santuario della Madonna del Divino Amore in Roma. Alla periferia sud della metropoli romana, dal Settecento esisteva un piccolo santuario sulla cima di un colle, ben visibile percorrendo la via Ardeatina, luogo di pellegrinaggi e di richiamo per tutti coloro che desideravano impetrare grazie dal Cielo per intercessione di Maria Vergine. Il voto fatto dal popolo romano di erigere un nuovo santuario, in ringraziamento per la liberazione dell’Urbe nell’ultimo conflitto mondiale, non aveva trovato per decenni l’esaudimento. Nell’anno mariano 1987 fu proposto a Padre Costantino Ruggeri e a me di affrontare l’ideazione del nuovo progetto. Non vi erano molte possibilità di sviluppare una grande opera all’interno delle mura, secondo quanto era stabilito dal piano regolatore della

In un periodo in cui svanisce la preminenza che un tempo caratterizzava gli edifici di culto, sia nel contesto urbano, sia in quello rurale, risaltano le opere di p. Costantino Ruggeri che ha saputo trovare un segno artistico ben riconoscibile, intessuto di luce e colore. Anche dove, come nel Santuario del Divino Amore presso Roma, l’edificio nuovo nasce sotto la terra, sollevandola come una zolla erbosa. Non c’è bisogno di monumentalità perché la chiesa parli al cuore delle persone.

città. Tutti i progettisti che avevano affrontato in precedenza il problema si erano scontrati con questa limitazione. Padre Costantino non si lasciò scoraggiare o, meglio, si lasciò trasportare da quello che l’ambiente gli suggeriva al di là di regolamenti o disposizioni sino allora percepiti come regole da non infrangere. Nel primo viaggio che fece quando fu chiamato dal rettore del santuario, Don Pasquale Silla, rimase affascinato dalle bellezze dei luoghi, dalla morbidezza dei colli ondulati che riportavano a una freschezza e verità originaria, e distese il suo sguardo oltre la collina nell’intera vallata ove sorgevano grotte, segno di cave storiche di materiale tufaceo. Voglio lasciar parlare padre Costantino stesso che fa un resoconto della sua prima visita al Santuario in un testo intitolato: In visita a Maria nella sua casa di campagna, per poter conoscere la genesi di un progetto significativo. «Quando ho visto la prima volta il posto e la chiesetta del Divino Amore su quel colle verde, l’idea del nuovo santuario è arrivata subito, da sé. Confesso che sono tornato, nel cuore, il ragazzo che andava pellegrino ai grandi e piccoli santuari della sua campagna lombarda. THEMA | LEONI |

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Ma nella Roma cristiana il popolo spicciolo e festoso ha qui, al Divino Amore, da più di due secoli, il suo polmone di verde, di fede, d’allegria cordiale e conviviale. La preghiera corale, estemporanea, appassionata quanto semplice (la stessa che Federico Fellini ha rappresentato in un suo film dolente e vero) mi ha reso soltanto un felice pellegrino dimentico di tutte le chiese ideate e costruite con Gigi Leoni. Le motivazioni lontane e più vicine di tanta devozione dei Romani per il Divino Amore sono note, e affascinano i pensieri di chi anche oggi vi giunge in pellegrinaggio o anche soltanto per una scampagnata. L’antico pellegrino liberato dai cani che gli sbarravano il cammino verso Roma, l’immagine bellissima della Madonna dagli occhi bruni, il voto di Pio XII e del popolo romano per la scampata distruzione della capitale nel 1944 sono motivi che esprimono la riconoscenza, la pietà e l’amore dei Romani per la Vergine Maria.La storia evangelica di quelli che nel cuore del santuario hanno vissuto in povertà, letizia e zelo, primo fra tutti il Padre don Umberto Terenzi, su quel poggio umile e luminoso, richiama immagini lontane e sempre nuove. Si respira una pace e una letizia da Cantico delle creature. Un inno che viene dal passato in arie mistiche che ispirano fraternità, concedendo una sosta riposante per lo spirito e per il corpo. Per questo ho sognato e continuo a sognare d’essere anch’io, come cristiano e come artista, uno che per un felice momento ha dimenticato le cattedrali importanti e solenni, i templi regali, per dare forma e cuore a una grotta, a una “casa di campagna” per Maria e per noi. A questa Madonna, amica gentile e madre generosa, voglio costruire col suo popolo una casa simile a una roccia affiorante da un prato di collina, familiare al verde, agli alberi, all’azzurro del cielo, agli uccelli, THEMA | LEONI |

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all’ondeggiare delle messi e al profumo dei fiori. Questa casa di Maria sarà la più semplice, la più discreta, la più rispettosa dell’ambiente in cui la faremo sbocciare. Come la sognò don Umberto nella notte tra il 17 e il 18 marzo del 1933, avrà “bellezza e singolarità architettoniche”. In questa terra, in questa campagna romana povera ma splendida, mi auguro di venire spesso con gli amici per incontrare la Madonna del Divino Amore, respirare la sua dolcezza e la sua misericordia, guardarLa e parlarLe. E dopo averLe aperto il cuore, sarà bellissimo fare con Lei e con gli amici uno spuntino sul prato, ai bordi del piccolo lago azzurro mentre Lei ci parlerà di suo Figlio. La Madre ci raccomanderà di fare, come a Cana, “quello che Lui ci dirà”, cioè di cambiare l’acqua della ripetitività e della noia in vino generoso di fantasia, di fede e d’amicizia». Tutto ciò che Padre Costantino aveva sognato si è avverato. Il Nuovo Santuario appare inserito nella natura circostante, come è stato concepito: una zolla che si solleva avendo come tetto un prato verde. Tutto è nato da un’intuizione mossa dal desiderio di accogliere in umiltà le suggestioni scritte nell’ambiente naturale circostante per farle rivivere intensamente con creatività e novità.

Diverse immagini della nuova aula del Santuario del Divino Amore, lungo il pendio della collina in cima alla quale sta il santuario storico. Nella foto al centro, una grotta nel panorama circostante: immagine cui si ispira il progetto di Ruggeri e Leoni.


Il significato e la sua verità nel progetto Intervista a Paolo Belloni Leonardo Servadio

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’è chi ritiene che il progetto di una chiesa sia in tutto simile a qualsiasi altro progetto: bisogna sentire il committente, “ascoltare” il sito, avere una idea delle funzioni cui si intende assolvere... Un architetto che, come lei, pur giovane, ha già al suo attivo diversi progetti di chiese, condivide, o ritiene che vi siano particolarità che appartengono solo al campo ecclesiastico? Certamente vi sono dinamiche che riguardano ogni progetto, a prescindere dalla sua finalità. Così anche per la chiesa, come per qualsiasi altro edificio, si analizzano gli aspetti funzionali, dimensionali, il contesto e si dialoga con un liturgista che imposta la disposizione dello spazio celebrativo. Questi sono gli aspetti che “limitano” e condizionano il progetto. Ma poi si innesta un tema molto più specifico che definisce l’essenza del progetto di una chiesa: che vuol dire progettare una chiesa, un luogo di preghiera ed un luogo di celebrazione ai nostri giorni? Questa è la domanda che ci poniamo all’interno del gruppo di lavoro e di ricerca con il quale stiamo affrontando questo tipo di progetti: che ognuno pensi, anzitutto, al senso di questa specifica opera.

Abbiamo infatti in mente molti, troppi esempi, tante tipologie di chiese, antiche e contemporanee. Pensiamo di avere un’idea chiara di che cos’è lo spazio celebrativo, con le sue particolarità, la sua monumentalità, i segni e le figure che lo articolano. Tutto questo fa parte di un bagaglio culturale che costituisce un’enorme ricchezza, ma non può trasformarsi in un registro di automatismi e scelte scontate. Tale bagaglio può portare a focalizzarsi sul già noto oppure può essere la base su cui lavorare per schiudersi a nuove possibilità. Qui si pone la sfida che consiste nel riscoprire e reinventare, giorno per giorno, all’interno di alcune regole determinate: infatti anche la CEI lascia una certa libertà di azione e spinge verso questo tipo di ricerca che è poi in fin dei conti la ricerca di una “verità delle cose”. Si può concepire uno spazio circolare, quadrato o rettangolare: nella storia delle chiese troviamo le soluzioni più diverse perché di fatto la nascita della religione cristiana non è legata a uno spazio specifico predeterminato. Le catacombe come le basiliche, sono mutuate dai luoghi degli incontri pubblici dell’antica Roma. Ma oggi occorre trovare forme capaci di significare lo spazio della chiesa, calato nella cultura

Paolo Belloni, contitolare dello studio di architettura PBEB insieme con Elena Brazis, è da tempo impegnato nel campo della progettazione per la Chiesa. In questa intervista che ha concesso a Thema, spiega il suo metodo di lavoro, nella ricerca di esprimere lo specifico significato dell’edificio dedicato al culto, rimanendo nel solco della tradizione ma con l’obiettivo di raggiungere l’autenticità, evitando automatismi o scelte scontate.

contemporanea e allo stesso tempo di porsi in continuità con la storia. Per la chiesa che stiamo costruendo a Cavernago abbiamo cercato di rispondere recuperando l’essenzialità e la verità degli spazi e dei segni, attuali e sedimentati nel tempo. Ritornando alla domanda direi che no, progettare una chiesa non è come progettare qualsiasi altro edificio. Sente la necessità di dare un senso simbolico all’edificio, così che risalti nel contesto urbano? Bisogna trovare il modo di evidenziare la specificità, rendendo chiara la finalità del luogo. La ricerca di espressione simbolica è rischiosa, può portare a un sovraccarico formale che finisce per divenire caricaturale. Se penso alla Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe a Berlino, che non è una chiesa, la trovo densa di spiritualità, proprio per la sua pura essenzialità. Non è monumentale, non è un segno volumetricamente forte, eppure la potenza della relazione con il contesto urbano e degli interni è evidente e innegabile. Lo trovo uno spazio che induce al raccoglimento e in questo può forse ritenersi in parte simile a quel che potrebbe essere uno spazio THEMA | BELLONI |

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sacro. Ma qui ci si deve inoltrare nel tema della specificità: la chiesa è atta alla celebrazione di una liturgia: in questo si distingue da qualsiasi altro ambiente. Che lo spazio interno della chiesa sia volto alla liturgia, può trovare manifestazione anche all’esterno? Penso alla cappella di Ronchamp o alla chiesa di Firminy: entrambe hanno un altare e un ambone anche all’esterno e in questo modo esprimono non solo all’interno la loro ragion d’essere. Vi sono altri modi, ovviamente, per attivare un rapporto tra interno ed esterno. Ricordo lo spazio delle cattedrali gotiche, dove non c’è parete di fondo che ferma lo sguardo dietro all’altare, come spesso avviene invece nelle chiese contemporanee: le vetrate, la profondità delle prospettive attirano lo sguardo e il pensiero verso uno spazio ulteriore che va oltre lo spazio chiuso della celebrazione per estendersi a uno spazio più ampio e non ben definito. La Chiesa dell’Acqua di Tadao Ando, mutuando la cultura giapponese, rappresenta una delle massime e più essenziali espressioni di questo desiderio di mettere in relazione lo spazio sacro col paesaggio. Anche la Chiesa della Luce, vicino a Osaka si inserisce nell’ambito di questa ricerca ma, in questo caso, di tutto il creato viene selezionato solo un elemento: la luce. Nel progetto per la chiesa di Cavernago ho previsto una parete di fondo vetrata: lo spazio dell’aula si estende oltre il limite, verso un piccolo chiostro contemporaneo esterno e verso l’infinito. In questo caso la vista è filtrata da una quinta che definisce il fondo dell’area presbiteriale Anche nella ristrutturazione della chiesa di Brembo abbiamo adottato una serie accorgimenti di questo tipo, con la presenza di “velari” in onice THEMA | BELLONI |

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Chiesa di Cavernago | Vista aerea

Chiesa di Cavernago | Ingresso principale

Chiesa di Cavernago | Vista interna

Chiesa di Cavernago | Vista interna

Chiesa di Cavernago | Cortile


retroilluminato che permettono che lo sguardo di chi sta nell’aula non venga bloccato sul fondo, ma indugi verso spazi ulteriori... Nella chiesa di Cavernago avete anche adottato un ingresso laterale, così che chi entra debba cambiare direzione per rivolgersi all’altare... La spazio della chiesa è necessariamente dinamico: lo spostamento è espressione di cambiamento, ed entrare in chiesa comporta una trasformazione rispetto a quanto avviene negli ambienti ad essa esterni. L’elaborazione dello spazio della soglia è in questo fondamentale per dare il senso del cambiamento tra il “fuori” e il “dentro”. La persona entra e poi ruota il proprio corpo per dirigere lo sguardo verso l’altare. Nell’effettuare questa rotazione, che avviene in pochi secondi, abbraccia visivamente tutto lo spazio e ne coglie la ricchezza e l’articolazione dei volumi, volumi essenziali, in questo caso monomaterici e monocromatici a richiamare l’essenzialità dello spazio del romanico dove struttura, supercie, pareti e pavimenti erano spesso realizzati con un unico materiale: la pietra. Nel nostro caso useremo la “pietra liquida” dei nostri tempi: il calcestruzzo, trattato con inerti e ossidi tali da conferire un carattere caldo e accogliente. Oltre a questo, credo che l’elaborazione della luce sia fondamentale nel dare significato allo spazio della chiesa...

abbiamo predisposto un grande lucernario che segna la sua presenza volumetrica anche all’esterno e che all’interno si presenta come un volume puro il cui perimetro ha uno spessore di soli 10mm. Bianco all’esterno e trattato in foglia oro all’interno per potenziare la preziosità della luce che cala dall’alto. Nella chiesa di Cavernago abbiamo disposto diversi lucernari: quello maggiore è rivolto verso ovest e si eleva fino a quota 13 metri, il punto più alto della chiesa. Questo racchiude anche la croce, ben visibile dall’esterno come dall’interno. Quindi questo si presenta come elemento eminente che protende la croce, e dall’interno si percepisce come elemento che attinge la luce del cielo. Altri tre luecernari, che dialogano compositivamente e volumetricamente verso l’esterno, sottolineano l’importanza dei luoghi liturgici principali: altare, ambone e fonte battesimale. Nella chiesa che stiamo costruendo a Carpi un importante parallelepipedo ortogonale illumina lo spazio presbiteriale e “significa” lo spazio della chiesa nel contesto urbano. In fin dei conti è la luce, come Le Corbusier ci ha insegnato che, attraverso il diverso riflesso sulle superfici, attraverso la generazione delle ombre, ci permette di leggere lo spazio, la sua profondità, la sua dimensione, la sua natura e la sua atmosfera: l’Architettura.

Chiesa di Dalmine | Interno

Chiesa di Dalmine | Presbiterio

Chiesa di Dalmine | Interno

Chiesa di Carpi | Ingresso

Per questo si serve dei lucernari strategicamente disposti... Nella chiesa di Dalmine, dove intervenivamo su un edificio degli anni Cinquanta, era necessario dare carattere e forza alla luce soprattutto nell’area presbiteriale che risultava troppo buia e austera. Per questo

Chiesa di Carpi | Interno

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Chiesa di Dalmine | Vista zenitale del lucernario rivestito in foglia d’oro

Casa del Pellegrino Giovanni XXIII | Sotto il Monte

Casa del Pellegrino Giovanni XXIII | Sotto il Monte

Casa del Pellegrino Giovanni XXIII | Sotto il Monte | Superfici di cemento a vista martellinate a mano così da ottenere superfici scabre, dall’apparenza petrosa. Anche i materiali hanno un senso specifico nell’architettura.

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Segni e simboli di realtà celesti Duncan G. Stroik

Un santuario statunitense, di recente realizzazione, è inteso quale luogo che rimanda al miracolo della Vergine di Guadalupe. Come si compiono pellegrinaggi al santuario messicano, così anche questo santuario americano è organizzato in modo tale a consentire di percorrere una via di pellegrinaggio: come avveniva con i Sacri Monti, che in piccolo riproponevano il pellegrinaggio a Gerusalemme.

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’americano moderno è un avventuriero. Cerca fama e fortuna ovunque possano essere trovate, anche se la ricerca lo porta lontano. Ma anche il cristiano contemporaneo è un pellegrino, seppure spesso si trovi a vagare come fecero gli israeliti nel deserto. Si può ritenere che sia importante per i cittadini americani impegnarsi in un pellegrinaggio spirituale. E sul piano architettonico il luogo del pellegrinaggio si ottiene concretamente nel santuario. Il santuario di Nostra Signora di Guadalupe, nel Wisconsin, è un tempio che sorge in un ambiente naturale: bisogna abbandonare la città per scoprirlo. Come avvenne con l’Eremo delle Carceri sopra Assisi per s. Francesco, così anche il santuario della Vergine di Guadalupe è un luogo in cui rifugiarsi, lontano dalle ansie del mondo. Sorto sulla roccia, il tempio è in parte collina e in parte creatura umana. Mentre questa “barca di Pietro” veleggia nel verdeggiante panorama, la sua cupola e il suo campanile indicano il cielo. Come dicono i Salmi delle Ascensioni, bisogna arrivare al tempio camminando. Lungo il percorso si incontrano diversi compagni. Alla partenza, alle falde del colle, un luogo di ospitalità per il corpo,

Posato sulle colline del Wisconsin, il Santuario chiama i pellegrini a cercare un briciolo di Paradiso entro i muri della chiesa.

quindi una cappella, e poi i santi che accompagnano il viaggio. Una antica via di pellegrinaggio è la Via Crucis di Gerusalemme, qui riproposta con quattordici stele. Vi sono quindi diverse cappelle esterne imperniate su temi mariani, reinterpretazione contemporanea dei Sacri Monti lombardi. Sono intesi come viaggi più piccoli, che rimandano al pellegrinaggio a Guadalupe, ubicato sulla collina di Teypeyac in Messico (dove sorge l’originale Santuario della Vergine di Guadalupe – ndt.). Arrivando

sulla piazza in mezzo alla foresta, ecco svelarsi l’edificio. Classico e monumentale, ingentilito dalle figure degli apostoli e da quella del Pastore sopra il portale. Più in baso, al livello degli occhi di chi osserva, si trova la rappresentazione del miracolo della tilma (il mantello di Guadalupe dove è impressa non da mani umane l’immagine della Madonna -ndt.), e questo è il centro da cui si può intendere il santuario. Si attraversa quindi una soglia bronzea per entrare in un nartece policromo dove il pellegrino è avvolto da immagini rievocanti il THEMA | STROIK |

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racconto della Vergine di Guadalupe. Per esprimere trascendenza, la navata si eleva e manifesta la ragion d’essere del pellegrinaggio. Vi sono diversi percorsi che portano al luogo eminente, che è l’abside. Archi, pilastri e cornici orizzontali indicano il fulcro del complesso, dove stanno le icone, gli oggetti liturgici, e il tabernacolo. Navate laterali di dimensioni generose rafforzano il senso processionale dell’aula e permettono la collocazione di altri luoghi santuariali dentro il santuario. Qui il pellegrino osserva le immagini di coloro i quali costituiscono per lui esempi di vita e che per lui intercedono. Si può in questo modo entrare in contatto coi santi, acquisire un senso del divino? Lo scopo di tutta l’arte e l’architettura sacra è proprio questo: tanto più lo è nel santuario. La ricchezza dell’architettura, i marmi, le iscrizioni, i simboli esprimono proprio questo e costituiscono un monumento dedicato a una Regina e al suo Figlio. Il tutto è inteso a parlare, attraverso i sensi, al pellegrino, ricco o povero che sia, lavoratore o intellettuale. Non a creare sconcerto o ad abbagliare come avviene con l’esibizione tecnologica, ma a rendere concreto il senso epifanico attraverso una bellezza armoniosa. Questo è un luogo di calore spirituale ed è un refugium peccatorum; è la casa di tutti coloro che compiono il viaggio su questa terra, un accenno di paradiso per i pellegrini, e un’icona della Nuova Gerusalemme per coloro che cercano la loro casa.

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THEMA | 8 THEMA | 1 La piazza. THEMA | 2 Il miracolo della tilma è mostrato al visitatore come inizio del racconto iconografico espresso nell’edificio. THEMA | 3 Il cammino spirituale verso il Signore raggiunge un’espressione visibile nella forma della chiesa, dove la navata porta verso l’altare e il santuario. THEMA | 4 Nelle navate laterali il pellegrino trova luoghi adatti alla preghiera personale rivolto alle immagini dei santi intercessori. THEMA | 5 Una “tenda nella natura”, un baldacchino sovrastato da un angelo protegge l’altare de inquadra un mosaico della Vergine di Guadalupe. THEMA | 6 Un dettaglio del ciborio mostra l’attenzione e la cura artigianale con cui è stato realizzato ogni elemento del santuario. THEMA | 7 Altari laterali, iscrizioni mariane, vetrate artistiche e pitture generano un luogo di bellezza e di preghiera che eleva la mente e il cuore alla contemplazione delle realtà celesti. THEMA | 8 La volta del paradiso è raffigurata come il cielo stellato del giorno in cui apparve Maria, il 12 dicembre 1531. THEMA | 9 Le pareti sono ornate da festoni floreali e da capitelli con motivi vegetali. THEMA | 9

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L’architettura sacra nel contesto della contemporaneità Carlo Berarducci

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uando si parla di architettura sacra, nell’immaginario collettivo vengono in mente le poderose immagini delle grandi architetture delle cattedrali e delle chiese gotiche, rinascimentali, barocche e neoclassiche, segni iconici che caratterizzano i centri storici delle città europee. Più difficilmente gli edifici di culto contemporanei. La perdita di iconicità urbana e rappresentatività delle chiese contemporanee dipende dalla perduta rappresentazione della contemporaneità, che una volta era affidata e trasmessa dagli edifici sacri. L’architettura delle chiese è sempre stata simbolica, ma non è sempre stata iconica. Distinguo infatti la simbolicità, intesa come apparato di segni appartenente alla sfera liturgica, dall’iconicità urbana dell’edificio ecclesiastico. Le chiese paleocristiane erano fortemente simboliche ma non erano iconiche. Contenevano già quasi per intero l’impianto simbolico che caratterizzerà l’architettura della chiesa dei successivi secoli, avevano già formulato chiaramente l’impianto di derivazione basilicale con ingresso girato sul lato corto con l’aggiunta di una più piccola navata ortogonale THEMA | BERARDUCCI |

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a formare il transetto e quindi la pianta a croce, intesa quale simbolo della crocifissione di Cristo. Eppure non erano ancora iconiche, il loro impatto urbano era limitato, non emergevano dal contesto edificato come emergeranno successivamente le cattedrali gotiche e le grandi chiese della controriforma. Erano anzi schiacciate dalla grandiosità delle rovine degli edifici imperiali romani, dei palazzi, dei templi e dei colonnati dei fori, rispetto ai quali erano solo piccoli edifici rimessi in piedi con materiali di recupero. Le chiese paleocristiane avevano una dimensione domestica, la valenza simbolica e sacra era contenuta nel loro spazio interno più che nel loro impatto urbano. La loro funzione primaria era di accogliere la comunità dei fedeli in uno spazio separato e raccolto dove riunirsi, pregare ed entrare in comunione con Dio. L’iconicità urbana arriverà molto dopo. Quando la Chiesa assumerà il potere temporale, le chiese assommeranno in sé l’identificazione dell’intera comunità urbana e saranno costruite non più solo per accogliere i fedeli ma per rappresentare le comunità, e diventare espressione stessa delle città. È quando si ricominceranno a costruire edifici ex novo, sostitutivi

Non semplicemente alla chiesa in quanto tale manca la capacità di porsi come momentosimbolo: è la cultura contemporanea a non essere in grado di offrire spazi e contesti capaci di ospitare segni quali quelli che articolavano le città storiche. Né l’iconicità è ravvisabile nelle dimensioni, per quanto l’imponenza delle cattedrali medievali sia oggi in parte ripresa da edifici quali grattacieli o musei. Le chiese contemporanee possono trovare nell’apertura accogliente, quale quella di una piazza, o nella riduzione di scala, il segno di una nuova identità.

degli edifici della civiltà romana ormai in disarmo, che le chiese assumeranno carattere urbano. Questo per dire che mentre il carattere simbolico delle chiese nasce insieme alle prime chiese e ne caratterizzerà tutta la storia, con adattamenti più o meno significativi fino alle modifiche liturgiche e simboliche introdotte dal Concilio Vaticano II con il rivolgimento dell’altare e l’accentuazione del valore simbolico dell’assemblea, il carattere simbolico urbano delle chiese è legato alla storia temporale della chiesa e al suo rapporto con il contemporaneo, più che alla storia spirituale e liturgica. Pertanto è qui che si deve ricercare la perdita di iconicità identitaria che ha segnato l’ultimo secolo caratterizzato dalla despiritualizzazione delle società secolarizzate. L’essere cristiano nelle società laiche occidentali è diventato un fatto essenzialmente privato e la Chiesa stessa ha abdicato alla funzione di esprimere e rappresentare il contemporaneo in favore di una funzione più discreta e laterale: di presenza, di accoglienza e di servizio sociale, spesso in supplenza alla mancanza di servizi urbani che le amministrazioni comunali non riescono a garantire. La Chiesa rinuncia quindi


Philiph Johnson | Crystal Cathedral

a quella rappresentatività capace di portare l’architettura delle chiese alla ribalta del dibattito architettonico

televangelista reverendo Schuller - poi andato in bancarotta e quindi acquistata recentemente dalla Diocesi

di un linguaggio alla scala urbana, monumentale, e perché arrivano alla compiutezza della comprensione e

e artistico, per limitarsi a costruire edifici funzionali capaci di offrire spazi d’incontro e di gioco o di servizio sociale, da realizzarsi con costi contenuti. Le chiese realizzate nelle periferie urbane assolvono a questo compito più che a necessità rappresentative e hanno a disposizione, salvo casi eccezionali, risorse limitate. Gli edifici simbolici rappresentativi della contemporaneità sono diventati i musei d’arte contemporanea, gli stadi e i grattacieli, edifici nei quelli è riposta la stessa volontà di rappresentazione del contemporaneo e di autoproclamazione del potere economico e culturale, quando non di sfida tra città o nazioni, che era

Cattolica – o quale la chiesa Dives in Misericordia, progettata da Richard Meier a Roma, le chiese di oggi sono edifici di dimensioni minori, rapportabili più alla scala del centro sportivo o della scuola di quartiere che non a quella che abbiamo in mente quando pensiamo alla chiesa come segno urbano e come emergenza nel tessuto della città storica. Insomma le chiese che la Chiesa costruisce oggi non sono e non intendono essere presenze urbane emergenti, quindi non è probabilmente corretto fare rapporti e confronti con l’iconicità urbana dell’architettura delle chiese premoderna. Non credo tanto in una specificità dell’architettura sacra, e quindi

della reinterpretazione dell’architettura romana e della sua monumentalità e la trasferiscono nei nuovi edifici sacri e civili del Rinascimento. Michelangelo non sviluppa un’architettura specifica delle chiese distinta da una ricerca architettonica generale che lo porta alla definizione dell’ordine gigante; gli elementi e la grammatica che usa sono gli stessi. Lo stesso fanno Palladio con la riformulazione del timpano su colonne, e altri fino a Le Corbusier con lo “spazio indicibile” di Ronchamp. Ronchamp appunto, la Chiesa sull’Autostrada di Michelucci, alcune più piccole chiese di Tadao

stato per quasi un millennio proprio delle chiese gotiche, rinascimentali e barocche. Gli edifici ecclesiastici costruiti negli ultimi decenni tornano a essere più vicini alla concezione delle chiese paleocristiane o dei monasteri, complessi edilizi polifunzionali nei quali lo spazio della chiesa vera e propria era, ed è, solo un elemento dell’insieme. Salvo casi eccezionali con diverse dichiarate intenzioni quale la Christal Cathedral di Philip Johnson a Los Angeles, voluta dal megalomane

nella crisi dell’architettura sacra in quanto tale. Esiste l’architettura e il suo sviluppo nel tempo, ed esistono architetture che interpretano, assieme, il tempo e alcune particolari tipologie. L’architettura di Michelangelo, il suo linguaggio, il suo apparato di segni, erano usati indifferentemente sulla Piazza del Campidoglio e nel tamburo della cupola di San Pietro. L’invenzione michelangiolesca dell’ordine gigante è sperimentata in entrambi i casi. Entrambe sono grandi architetture perché risolvono un tema, una tipologia, attraverso la formulazione

Chiesa di Knarvik | Norvegia

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Aando, fino alla più recente Chiesa di Knarvik, piccolo ma incisivo landmark sulla costa sopra Bergen in Norvegia, sono chiese contemporanee che riescono a diventare icone riconosciute, perché sono architetture riuscite, capaci di interpretare e inserirsi nel proprio contesto. Altro aspetto da considerare è il contesto nel quale l’architettura delle chiese in Italia e in particolare a Roma si inserisce. Un contesto diverso e forse unico rispetto ai contesti urbani dei paesi industrializzati. Il contesto nel quale le nuove chiese sono realizzate è, quasi sempre in Italia e sempre a Roma, disarticolato, privo di coerenza e di coesione, dilatato, slabbrato e irrimediabilmente degradato, mai completato. Qui le aree destinate al servizio ecclesiastico sono spesso ricavate in zone marginali o di risulta del piano urbanistico, dove i rapporti dimensionali tra edifico ecclesiastico e edificazioni circostanti sono invertiti rispetto a quelli della città storica; dove l’edificio della chiesa diventa una depressione, o una riduzione di scala entro un tessuto urbano composto di grandi blocchi edilizi distanziati, piuttosto che una singola emergenza. Questo ultimo aspetto potrebbe non essere un problema, come tentava di dimostrare il progetto di Francesco Berarducci, vincitore del concorso del 1969 per la chiesa di Nostra Signora di Bonaria a Ostia Lido. Progetto purtroppo dimezzato e mutilato nella realizzazione mai terminata, in cui tale rapporto dimensionale diventava il motivo generatore. Rinunciando a riempire lo spazio destinato alla chiesa con un oggetto architettonico, progettando piuttosto un vuoto urbano si realizzava un edificio piazza, nelle intenzioni progettuali anche percorribile, dal quale emergevano solo alcuni volumi primari e dove il solo campanile svettava tra gli edifici residenziali incombenti THEMA | BERARDUCCI |

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intorno. Francesco Berarducci così prendeva atto del rapporto invertito, trasformandolo nel punto di forza del progetto, sia formalmente, sia simbolicamente, e faceva della chiesa il luogo urbano mancante nel quartiere. Ma è un contesto, quello delle nuove periferie, nel quale qualsiasi monumento uscirebbe male, una volta recintato con grigliati keller verde bandiera su muretti di tufo con copertina in travertino in aggetto, illuminato con lampioni a sfera, circondato da parcheggi mal organizzati, tra marciapiedi mal disegnati e peggio realizzati, cartelli stradali ridondanti e spazi verdi con cespugli dislocati senza criterio con al centro cabine elettriche a loro volta recintate. Accadrebbe anche al Partenone. Perché il problema non è quello dell’architettura sacra, ma quello della cultura urbana e della cultura costruttiva di questo Paese e in particolare della città di Roma, ed è decisamente un problema

Roma | Nuove periferie

Francesco Berarducci | N.S.Bonaria | Ostia Lido

di involuzione culturale. È quindi necessario cercare di comprendere che cosa sia successo, e come mai il peggio si è prodotto a partire dalla fine degli anni ‘70. Dall’altra parte è necessario ricomporre la connessione della Chiesa con lo sviluppo dell’arte e dell’architettura contemporanea, qualunque essa sia. Del resto non erano gli “ignudi” un problema, altrettanto incondivisibile all’epoca di Michelangelo come può esserlo certa arte contemporanea? Forse allora le nuove chiese potrebbero diventare occasione per la realizzazione di opere specifiche e farsi promotrici di nuove produzioni d’arte, sviluppando un rapporto con l’arte contemporanea e quindi con i luoghi e gli ambienti della sua produzione,


i musei e le gallerie, e con gli artisti siano giovani sconosciuti o affermati. L’apparente involuzione della architettura delle chiese ha quindi molteplici aspetti ognuno dei quali meriterebbe un’analisi più approfondita. Si possono riassumere così: - la mancanza di volontà di rappresentazione da parte della committenza, (che tra l’altro non è in grado di sostenere l’impegno finanziario per realizzare e gestire edifici di importante valore); - il venir meno della condivisione dei valori rappresentati dalla Chiesa all’interno delle società secolarizzate occidentali, nelle quali si è consumata e si consuma una rivoluzione essenzialmente “anticristiana”, come l’ha definita Ernesto Galli della Loggia, nella mentalità e nei costumi collettivi che costituisce una frattura decisa con il passato che rende difficile o improprio il confronto con i grandi edifici ecclesiastici del passato; - in Italia e in particolare a Roma una crisi culturale generale che si esprime nel disastro delle nuove periferie dove negli ultimi decenni sono stati prodotti ambienti urbani unici nella loro mancanza di riferimenti alla cultura architettonica e urbana storica; - una tendenziale disconnessione della Chiesa dalla produzione dell’arte contemporanea e dalle sue proprie modalità di espressione e dall’architettura contemporanea considerate entrambe spesso come fredde e incapaci di rappresentare il sacro. Nel panorama sopra descritto i piccoli edifici delle chiese potrebbero invece assumere un ruolo propulsivo di trasmissione di qualità e di cultura dell’architettura e della città, e quindi di cultura civica, realizzando piccoli episodi, come zattere di salvataggio

nel naufragio della cultura urbana delle periferie, come fari di preservazione, monasteri di una cultura architettonica posta sotto assedio dall’avanzare della barbarie urbana prodotta dai piani urbanistici, dalle norme tecniche di attuazione, dagli accordi di programma e da quanto ne segue. L’architettura delle nuove chiese potrebbe tentare di indicare il cammino nel medioevo della civiltà urbana, ripartendo da una chiarezza di intenti e di metodologie operative, e facendosi promotrice di cultura urbana e di avanguardia dell’arte e dell’architettura - come lo è stata per secoli - riportandosi al centro della produzione di cultura contemporanea. SANT’AGOSTINO DI CANTERBURY E NOSTRA SIGNORA DEL SUFFRAGIO A TORRE MAURA (Roma) Con la chiesa di S. Agostino di Canterbury e Nostra Signora del Suffragio a Torre Maura ponevo il problema dell’iconicità dell’architettura ecclesiastica a base progettuale. Il progetto si poneva il proposito programmatico di rispondere all’esigenza di riconoscibilità dell’edificio ecclesiastico, separando decisamente e chiaramente il volume contenente l’aula ecclesiastica dal resto dell’impianto parrocchiale, facendo di quest’ultimo lo sfondo all’articolazione delle compatte ma articolate volumetrie del primo. Affidando quindi alle volumetrie parrocchiali il compito di connessione e cucitura con l’edificato circostante, e di raccordo organico con la morfologia del terreno dell’area, e lasciando al contrario che l’edificio della Chiesa vera e propria potesse essere un puro oggetto razionale stagliato nel paesaggio con la sua forza iconica, ponendosi come un modello eventualmente riproducibile. Il volume dell’aula liturgica era quindi sviluppato a partire da una semplice pianta centrale a croce greca completata da quattro ambienti circolari sulle diagonali. Semplici volumi stereometrici e cilindrici erano quindi estrusi dalla pianta con altezze differenti in modo tale che i volumi a base rettangolare più alti di quelli a base circolare potessero funzionare come “maniche di luce” indiretta all’interno dell’aula.Il proposito era esattamente quello di produrre un edifico “oggetto” compatto e concluso come erano le chiese di devozione mariana poggiate come edifici isolati nel paesaggio come la meravigliosa S. Maria della Consolazione a Todi. (C.B.). Sant’Agostino di Canterbury e Nostra Signora del Suffragio | Torre Maura | Roma

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Elementi architettonici, segni significativi Paolo Marciani

Studi di chiesa a pianta centrale

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Dallo studio della forma basata su figure geometriche dotate di valore simbolico, alla realizzazione di opere. Lo studio, portato avanti nel Centro Aletti di Roma insieme con l’artista, padre gesuita Marko Ivan Rupnik, dà luogo a diversi progetti nei quali la cupola, l’abside, il quadriportico sono assunti nella loro valenza di spazi che riconducono al ricordo dell’incarnazione e dell’ascensione.


S

i troveranno in queste pagine alcune immagini di progetti e di realizzazioni di architetture per la liturgia cui il mio studio Dettagli Architettura di Roma ha lavorato a partire dai primi anni novanta del secolo scorso. L’opportunità di vivere intensamente l’eucarestia e la parola celebrate nel seno di una comunità ecclesiale postconciliare, la lettura appassionata di Romano Guardini, la scoperta dei filosofi religiosi russi tra Otto e Novecento e la loro peculiare lettura dell’icona russa, ma anche la rivalutazione dell’architettura sacra dei primi decenni dello scorso secolo nel nord Europa e di quella francese intorno al cenacolo domenicano di Art Sacré negli anni quaranta e cinquanta, tutto questo mi aveva portato a riflettere sulla forma della chiesa nel nostro tempo e nel rapporto con la tradizione. I primi schizzi di studio erano mirati a interpretare il rapporto simbolico tra il cubo e la sfera, tra l’ambito della vita aldiqua e quello aldilà, indagando la cupola come volta celeste, luogo di Dio che si libra al di sopra del qui e ora dei fedeli, indicandone il compimento. L’architettura delle chiese greche, russe slave a pianta centrale esprimeva perfettamente nello spazio urbano questo gioco sapiente di volumi primari, questo dialogo tra terra e cielo. All’interno, nello spazio celebrativo, l’assemblea dei circumstantes, ora confermata dalla riforma liturgica uscita dal Vaticano II veniva a disporsi ad anello intorno all’altare. Nello stesso tempo a questa tensione centripeta operante nello spazio si sommava il movimento in senso assiale che dall’ingresso sospingeva occhi e cuori verso il luogo della proclamazione della parola, poi verso la consumazione del pasto eucaristico per approdare infine nell’abside, spazio dell’eschatòn, del compimento. Questo doppio movimento, interpretato in termini di architettura contemporanea (là dove

non esiste statica, ma dove ogni forma è aggredita nei suoi nodi per trarne il massimo di energia espressiva) aveva l’inatteso esito di sospingere l’asse della cupola fuori e oltre l’asse del cubo di base dell’aula. In questo modo la sfera fuoriusciva dal cubo e toccava terra generando un’abside che si poteva leggere in naturale, geometrica continuità con la cupola. Ai miei occhi questa fusione della cupola con l’abside rendeva leggibile simbolicamente l’incarnazione come spazio in cui il cielo tocca la terra e insieme l’ascensione, come luogo in cui la terra ritorna nel cielo. Gli schizzi qui esposti hanno avuto uno sviluppo nel progetto presentato come prova finale di diploma nel primo Corso di Architettura Ecclesiale tenuto presso il Vicariato di Roma nell’anno 1996/1997, progetto virtuale per una parrocchia, S. Domenico Guzman, da realizzarsi nella periferia romana

di Cinquina. In questa proposta il cubo che ospitava l’assemblea dei fedeli si apriva centralmente su di una volta a botte che poi, toccando terra, generava l’abside. Il progetto, realizzato tra il 2007 e il 2012 a Barletta per la Parrocchia della SS. Trinità rappresenta la naturale conclusione di questa ricerca. Lo schema progettuale è nato da una serie di conversazioni tenute con l’allora parroco Don Francesco Piazzolla. Da queste emergeva il desiderio di creare un percorso di avvicinamento graduale alla chiesa che conducesse i fedeli dai rumori della vita cittadina al raccoglimento del luogo della Celebrazione e della Preghiera. Il suggerimento era quello di creare un quadriportico (del tipo in uso nelle basiliche paleocristiane) con chiostro centrale e attività parrocchiali sviluppate lungo il perimetro.

Chiesa di S. Domenico Guzman a Cinquina | schizzi e disegni di progetto

Chiesa di S. Domenico Guzman a Cinquina | schizzi e disegni di progetto

Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Disegni di progetto

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Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Disegni di progetto

Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Disegni di progetto

Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Plastico

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L’accesso alla chiesa sarebbe avvenuto attraverso il filtro del porticato stesso. Un ulteriore spazio di mediazione a ridosso dell’ingresso sarebbe stato rappresentato dalla Penitenzieria e dal Battistero da disporre ai due lati delle porte di accesso all’aula celebrativa. La tipologia scelta per la chiesa di Barletta è stata quella a pianta centrale con il presbiterio baricentrico rispetto all’assemblea, a garantire la massima visibilità e partecipazione dei fedeli alla celebrazione. È stato assunto anche in questo progetto lo schema orientale classico del cubo sovrastato dalla cupola emisferica. Questo schema di derivazione bizantina, ma frequentato anche in occidente soprattutto nel rinascimento, è stato, come negli studi precedenti, reinterpretato in senso dinamico: la volta sferica (leggermente ovoidale) slitta rispetto al cubo in direzione dell’abside. In questo modo un lato del cubo si apre per mostrare la cupola che tocca terra . Il cubo, che rappresenta la terra nei suoi quattro punti cardinali, si apre allo scenario della nuova Gerusalemme che scende dal cielo: la gloria del Padre nel cielo, lo Spirito che anima la creazione, il Figlio che si incarna e trasforma il mondo e la sua storia per restituirli nell’eskatòn alla Gloria del Regno. La cupola interseca il cubo, ma non se ne legge mai l’intersezione fisica, in modo che l’interno della volta non presenti un limite fisico ma si espanda invece liberamente in una luce che muta con le ore del giorno, luce che penetra da una fessura continua perimetrale alla porzione di cupola, da una grande finestra strombata che di apre nella volta al di sopra dell’ingresso e, in misura più modesta, dall’oculo superiore della cupola. Sul piano iconografico si è proposta la realizzazione di un mosaico con configurazione libera a strappo. Questo poggerà sulla superficie lignea della cupola dal suo vertice fino a scendere alla base dell’abside. La chiave della


Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Esterno

Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Esterno

Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Interno

volta, una lente vetrata di circa due metri e mezzo di diametro, consente una pacata illuminazione zenitale dell’aula. Tutte le tonalità del bianco, dell’oro e guizzi di smalto di vetro colorato faranno lievitare il mosaico come uno spettacolo celeste offerto alla contemplazione dei fedeli. In senso autenticamente bizantino si è scelto di non avere finestre aperte direttamente verso il cielo ma piuttosto di aprire allo sguardo del popolo di Dio, che prende parte qui e ora alla celebrazione dei misteri, uno scenario luminoso di cieli nuovi e terra nuova. Al di sopra dei banchi, un soffitto piano alto circa 6 m, rivestito di legno chiaro, ospita proiettori a incasso e altoparlanti. Verso i tre muri perimetrali della chiesa questo controsoffitto si allontana dalle rispettive pareti per lasciar scendere la luce naturale indiretta alle spalle dei fedeli. Opera di P. Marko Ivan Rupnik saranno i mosaici in facciata e nell’abside, quando ci saranno risorse per realizzarli. Nelle prospettive di progetto qui presentate i mosaici sono rappresentati attraverso immagini tratte da altre opere già altrove realizzate. La costruzione del complesso parrocchiale di Barletta è stata rallentata dalle difficoltà economiche nel reperimento

di fondi. Il completamento del battistero, i mosaici, le sistemazioni esterne dovranno essere affrontati in seguito. La chiesa parrocchiale della SS. Trinità a Barletta già riflette molte delle idee portate avanti dal Duemila in avanti con P. Marko Ivan Rupnik e la comunità degli artisti universalmente conosciuta come Centro Aletti, che ha sede nel cuore di Roma a poche decine di metri da S. Maria Maggiore. Una riflessione costante sulla teologia della bellezza, il desiderio di servire la liturgia facendone risplendere tutte le sfumature, una ricerca tesa a riportare in vita nel seno della chiesa il bel composto di brunelleschiana memoria facendo rivivere una collaborazione totale tra le arti. Tutto questo, vissuto in un contesto di relazioni liberate in cui rivive in una forma non accademica il pensiero dei Padri della Chiesa, sta traducendosi in opere concrete: prima in un’ampia gamma di adeguamenti liturgici di chiese e cappelle in diversi Paesi d’Europa, poi nel lavoro su progetti concreti di nuove chiese. Con P. Rupnik, dunque, si è portata avanti un’ampia riflessione sul significato da attribuire all’edificazione di una chiesa oggi nelle nostre città. Secondo il padre

gesuita il simbolo radicale da mettere in campo è quello della croce posta sul mondo, da un lato, e la forma dell’ekklesìa convocata attorno all’altare dall’altro. Una croce estrusa in altezza, divenuta cioè volume prismatico, è tipica delle chiese a pianta latina tra romanico e gotico. Eppure molto spesso la presenza di navate multiple, di ricche facciate intese quali spartiti a sé stanti, di archi di scarico e contrafforti gugliati sui fianchi, nonché di absidi multiple con loggiati e altri elementi architettonici complessi, tutto questo rende poco immediata la lettura della croce che si forma nell’intersezione tra navata e transetto. Tale lettura risulta molto più immediata nella spoglia sobrietà di mille piccole chiese di campagna romaniche, soprattutto nell’Europa meridionale. Studiando nello spazio l’interferenza tra i volumi generati dalla croce, segno dell’amore che si consegna al mondo, e l’involucro emisferico che avvolge l’assemblea che ne raccoglie il frutto, siamo approdati a una forma complessa costituita da alte pareti, sostanzialmente cieche, interpolata a spicchi di sfera. Un’apparenza esteriore di sobrietà quasi espressionista resa THEMA | MARCIANI |

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Parrocchia di Narni Scalo | Il progetto con la piazza dal valore simbolico

Parrocchia di Narni Scalo | Esterno

Chiesa della SS. Trinità a Barletta | Cantiere

Chiesa di S. Teresa Benedetta della Croce a Roveleto di Cadeo | Maquette di progetto

Chiesa di S. Teresa Benedetta della Croce a Roveleto di Cadeo | Maquette di progetto

possibilmente con un unico materiale. All’interno i due volumi danno per sottrazione un alto spazio illuminato da una lama continua di luce lungo il perimetro del tetto ed in basso dilatato in rigonfiamenti curvilinei simmetrici che ospitano parte dell’assemblea e vanno poi a formare piccole absidi laterali nel presbiterio. Per sostenere strutturalmente e figurativamente questo spazio articolato si è pensato di ricorrere a due coppie incrociate di grandi archi su cui si appoggiano lateralmente le scocche tondeggianti laterali e su cui gravano verticalmente le pareti alte della croce. Qualche tempo dopo la nascita di questa idea, nel corso di un bellissimo viaggio di studio in Armenia, abbiamo scoperto che questo intreccio di archi era stato introdotto a partire dal X secolo nella realizzazione dei Gavit, i grandi atrii d’accesso alle chiese armene, costruite in tufo giallo-rosso, spazi illuminati centralmente dall’alto e destinati a raccogliere il popolo prima e dopo le celebrazioni liturgiche. Queste riflessioni sono state alla base di un progetto, tuttora in fase di studio, condotto su di una parrocchia a Narni Scalo, in Umbria, di cui alleghiamo un paio d’immagini. È interessante notare

che il quadriportico di Barletta diviene qui un piazza ottagonale alberata su cui affacciano, oltre alla chiesa, le opere parrocchiali, il salone multiuso e possibili strutture private o pubbliche di dimensione locale, come un asilo, un chiosco per i giornali, una farmacia. Abbiamo intavolato con il Comune di Narni un dialogo mirante a definire un masterplan del completamento del tessuto urbano di Narni Scalo includente il previsto quartiere di edilizia agevolata circostante la nuova chiesa, disegnato proprio a partire dalla piazza ottagonale, facendo di questa lo spazio comunitario baricentrico del quartiere e nucleo generatore di forma urbana. Ma la piazza stessa come spazio tra l’aula liturgica e la città, ha un alto valore simbolico: chi viene dal mondo , si raccoglie nella piazza ottagonale come l’intera creazione si raccoglie nell’ottavo giorno. Completo questa carrellata di lavori a tema sacro con due progetti in fase avanzata di elaborazione. Il primo è una Unità Pastorale da costruirsi in Roveleto di Cadeo alle porte di Piacenza, frutto della fusione di quattro parrocchie preesistenti, ubicate nel territorio circostante. L’articolazione esterna/interna dei

volumi di questa chiesa, dedicata a S. Teresa Benedetta della Croce così come lo sviluppo del quadriportico, rimandano alle lunghe conversazioni con P. Rupnik cui ho più sopra accennato. L’architettura del complesso è chiara e luminosa; quando sarà completata ingloberà, rivestendolo di kerlite con pattern travertino chiaro, anche un centro parrocchiale preesistente integrandolo a sé, sia per funzione, sia per immagine. Circondato da un tessuto residenziale di case a due livelli con tetto a spioventi e affacciato su campi da gioco e verde pubblico, questo complesso è stato pensato come presenza luminosa in grado di affiorare dalle foschie del lungo inverno padano. I mosaici sono previsti anche qui in facciata e nell’abside. Una particolarità: i quattro grandi archi che sostengono e scandiscono lo spazio interno saranno intagliati sui lati con scene della creazione trasfigurata, al modo delle pareti delle navate delle chiese paleocristiane orientali dei primi secoli. Il secondo progetto in lavorazione riguarda anch’esso una Unità Pastorale, questa volta dedicata a S. Giovanni Paolo II e da costruirsi nella

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periferia di Perugia, in località Ponte della Pietra, lungo Via di Settevalli. Di questo progetto diamo alcune immagini in cui appare anche il campanile, che in un primo tempo non si potrà realizzare. La volontà di orientare a est l’abside della chiesa, il rispetto di molteplici vincoli urbanistici e la consueta penuria economica hanno contribuito a formare l’impianto planimetrico del progetto. Un chiostro che si dischiude verso valle con due braccia aperte, sagomate sull’orlo del terrapieno di sedime assecondando il profilo di esondazione di un affluente locale dell’Aniene, un’aula a pianta centrale impostata su due coppie di archi a tutto sesto in legno lamellare, un gioco di volumi in contrappunto, cubo, croce, sfera e poi tre portali d’ingresso costruiti con reminiscenze degli archi catenari gaudiani. I corpi a uno, due e tre livelli delle aule e della canonica delimitati lungo il chiostro da portici bassi su pilotis, sono coperti da tetti lignei, rivestiti da tegole piane smaltate in grigio perla, con una esplicita volontà di recuperare una scala umana, tessiture e colori della tradizione umbra. Crediamo che un

Chiesa di S. Teresa Benedetta della Croce a Roveleto di Cadeo | Maquette di progetto

Chiesa di S. Giovanni Paolo II a Perugia | rendering di progetto

Chiesa di S. Giovanni Paolo II a Perugia | rendering di progetto

Chiesa di S. Giovanni Paolo II a Perugia | rendering di progetto

Chiesa di S. Giovanni Paolo II a Perugia | rendering di progetto

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Il colore come segno degli spazi della socialità Giancarlo Marzorati

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l quartiere si chiama Rondinella, nella zona nord ovest di Sesto San Giovanni. Città e periferia allo stesso tempo, Sesto si allunga seguendo le direttrici della ferrovia che l’attraversa, come un fiume, da sud a nord, e delle strade principali che seguono la stesa direzione. Al punto che, questo che è stato uno dei più importanti centri siderurgici d’Europa, a differenza di tante città storiche, non si è sviluppato attorno alle piazze, intese come luogo della sosta e del ritrovo, bensì è cresciuto nella indaffarata dinamica dei trasporti da e verso le grandi acciaierie e le tante altre fabbriche che costituiscono l’ossatura e l’orgoglio della storia di questa città un tempo nota come la “Stalingrado d’Italia”. Ma l’appellativo non inganni chi non conosce Sesto San Giovanni: nel suo densissimo tessuto urbano non mancano le chiese, coi campanili e i sagrati: soltanto avviene che il dilungasi delle strade, il loro fitto allinearsi, l’incalzate ritmo delle edificazioni, tendono a metterle in secondo piano. Sesto è una città di strade e marciapiedi: ma oggi l’accentuata attenzione ambientale dell’era postindustriale vi sta aggiungendo spazi più ampi per i pedoni, zone vietate al traffico, percorsi

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ciclabili. Queste considerazioni preliminari servono per introdurre l’argomento. Nel quartiere Rondinella, periferico in questa grande periferia solcata da strade e vie che è Sesto, lo slargo prospetta sulla facciata di una chiesa, S. Maria Ausiliatrice: decorosa, ben costruita, memore dell’epoca della grande espansione urbana degli anni Cinquanta. Ma il traffico passa sulla strada propulso dalla fretta: il luogo c’è, ma quasi sfugge. Il centro parrocchiale è momento di riferimento per un quartiere molto vasto e, accanto alla chiesa, i campi sportivi e i locali dell’oratorio costituiscono il punto di ritrovo non solo per decine e decine di giovani, ma anche per una crescente popolazione di anziani pensionati. Questo il motivo che impernia la richiesta di aggiornare il complesso parrocchiale: renderlo meglio disposto a manifestarsi nel mondo contemporaneo, così che oltre alla memoria della grande, eroica epoca della produzione industriale, sia luogo ben riconoscibile e aggiornato, capace di parlare alla sensibilità di giovani e di anziani. Capace si essere segno della memoria ma anche proposta nuova e gioiosa. Capace di dire “accoglienza” e “protezione”, capace di individuazione ben chiara, pur senza indulgere alla

L’ampliamento degli spazi comunitari nel centro parrocchiale è l’occasione per definire in modo nuovo la presenza della chiesa nel contesto urbano. Un peristilio rende la dignità sua propria al sagrato che tendeva a essere spinto in secondo piano dall’incombere della sede stradale. Il dispiegarsi di diversi cromatismi in momenti ritmici e melodici caratterizza i nuovi spazi per le attività parrocchiali rivolte in particolare a giovani e anziani.

separazione. Capace di dire che il messaggio cristiano si incarna in tutte le epoche. Anche ai nostri giorni, con sobrietà non disgiunta da fermezza (la “firmitas” vetruviana, qui è chiamata a essere anche annuncio gioioso, non disgiunto dalla virtù cardinale della “fortezza” che consente di “essere nel mondo” senza cedere alle sue lusinghe). Quindi, come procedere per aggiornare un centro parrocchiale nel suo complesso contesto? Due sono state le direttrici fondamentale del progetto, entrambe volte a far sì che la presenza architettonica del centro parrocchiale fosse meglio visibile, accattivante, capace di divenire momento ineludibile così che chi passa sia portato a voltarsi e fermarsi, e chi lo frequenta sia portato a sperimentarvi gioia. Le due direttrici sono rappresentate dallo studio di elementi architettonici che in primo luogo medino il rapporto tra edificio della chiesa e ambiente circostante, e fungano da sottolineatura per il luogo sacro; in secondo luogo dalla proposta di altri elementi che siano segno ben visibile degli spazi del centro parrocchiale: collegati ma distinti dalla chiesa, a essa prodromici e rivolti liberamente


Localizzazione

Stato di fatto e di progetto da Viale Matteotti

Pianta piano terra

Prospetto su Viale Matteotti

alla cittadinanza. Ecco che per quanto riguarda la chiesa si è pensato a un leggero peristilio che definisca il sagrato su tre lati e verso la strada si modella ad arco così privilegiando la prospettiva verso il portale della chiesa. Una soluzione semplice, “leggera”, trasparente che però basta per rimarcare la presenza della chiesa, nel raccordarla e ravvicinarla al quartiere. A renderla in un certo senso “estranea” alla strada nel momento stesso in cui si evidenzia la progressione che da questa porta allo spazio aperto del sagrato e, oltre questo, all’ingresso nel luogo

Stato di fatto e di progetto da Viale Matteotti

consacrato alla liturgia. Il peristilio non chiude il sagrato, ma lo fa risaltare quale spazio previo alla chiesa. E con la sua leggera struttura di colonne raccordate da travi ricorda i quadriportici dei primi secoli, ma ne rivede l’immagine con un disegno che diviene un insieme di cenni. Nulla nel peristilio si presenta come barriera, tutto è invece inteso come segno che individua un luogo lasciandolo contemporaneamente alla libera fruizione. Ma chi attraverserà il peristilio saprà di essere già in uno spazio “altro”, lontano dalla strada: lo spazio dal quale si alzano gli occhi al

cielo. Lo spazio del centro parrocchiale è ampio e variegato. Subito accanto al sagrato sta il teatro, di recente già ristrutturato, la cui facciata su strada è segnata da un insieme di cospicui elementi verticali metallici che ricordano un poco le poderose colonne dei templi greci: il luogo è dedicato alla cultura. Il richiamo è specifico, esplicito. Oltre il teatro, il capannone di tipo industriale ospita oggi le attività dell’oratorio: accoglienza, ritrovo per le famiglie e i giorni, ritrovo per le persone anziane, bar. Qui la proposta è di sviluppare una nuova edificazione che in altezza si confronti col vicino THEMA | MARZORATI |

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teatro così da ospitare le attività su due piani fuori terra. Il tema degli elementi tubolari verticali è ripreso e sviluppato anzitutto con un cilindro policromo che incardina il passaggio dal teatro al resto del centro parrocchiale, e quindi con una serie di più agili colonne di diverso colore che accompagnano il profilo dell’edificio sul prospetto verso la strada. Quindi, il tema della colonna che si pone come momento qualificante del sagrato, si sviluppa in due passaggi successivi ritrovandosi nella ponderosità degli elementi bombati che individuano il teatro e nel più agile e allegro ritmo policromo che segna la facciata del centro per il ritrovo. Qui il colore diviene dominante: l’edificio si dilata nella parte alta in un volume di netta stereometria che resta sospesa sulle tante colonne colorate. In alto c’è la trasparenza dei cristalli. In basso la spinta dinamica del colore. Questo diviene, all’interno, gioco di luci che attraversano in senso verticale e orizzontale lo spazio che si apprezza nella sua ampiezza grazie alle grandi vetrate verticali che prospettano su una parete interna all’oratorio, dove ondate di colore accarezzano una parete come se fossero state distese dall’alto: da una mano celestiale. Sono colori vivaci che insistono su tinte solari, naturali: rossi, gialli, verdi, azzurri. Il colore qui è assunto come espressione del respiro vitale. E si dispiega invitando al sorriso luminoso della socialità e della condivisione. È segno che invita a un modo di interpretare la vita nella pienezza delle sue espressioni, in tutte le età. Se le colonne si dispongono come ritmo variato che rende prossimi gli ambienti e gli spazi in cui si articola il centro parrocchiale, la soverchiante fioritura cromatica invita alla gioia di un cristianesimo condiviso con la città.

Vista dell’ingresso all’oratorio

Vista del bar

Vista della lobby

Sezione A

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Tre segni che fanno del prefabbricato una chiesa Elena Tantardini

U

n po’ come le grandi cattedrali medievali, che furono costruite in parti distinte, per sovrapposizioni successive: così anche la chiesa di San Lorenzo in Bologna. Nacque come prefabbricato industriale, provvisorio, nel 1971. Ma quel capannone prefabbricato divenne il luogo di riferimento dei parrocchiani e quando a metà degli anni Ottanta vi furono condizioni tali da permettere di sostituirlo con una chiesa vera e propria, essi decisero di tenere quel che già avevano. Il prefabbricato per quanto privo di valore architettonico aveva assunto un valore affettivo tale da non poter essere abbandonato. In sé questa è una lezione importante a fronte delle molteplici critiche espresse alle “chiese capannone”: se è vero che la chiesa è il luogo ove si riuniscono i fedeli per esercitare il rito, allora è questo prevalente sull’architettura. La comunità è composta di persone prima che di muri, e le pareti di per sé sono eloquenti anzitutto nella misura in cui racchiudono una storia che ha significato per chi vi si raccoglie... Ma resta il fatto che il capannone prefabbricato avrebbe potuto essere più vicino a quel che l’usanza inveterata riconosce come chiesa. Ecco che, stabilito che il capannone

prefabbricato restasse, il problema diveniva come intervenire su di esso per renderlo simile alla forma-chiesa radicata nelle coscienze non solo dei parrocchiani. A questo provvide il progetto elaborato dall’ing. Aldo Barbieri nel 1987, che sarebbe stato realizzato sei anni più tardi. Gli elementi aggiunti dal progettista sono tre: e questi, insieme con una revisione accurata degli interni per evidenziare e facilitare le funzioni liturgiche, sono proprio quelli che possono essere considerati come sostanziali per la “forma chiesa”. Sono i segni caratteristici: uno spazio di mediazione tra esterno e interno, un elemento evidente che segnali la presenza del luogo di culto e quel che contribuisce a focalizzare l’attenzione sul centro della celebrazione. Ovvero, una bussola (nartece), un campanile e un’abside. La chiesa preesistente presentava una struttura in travi e pilastri in cemento armato e tamponamenti in pannelli prefabbricati. Il suo impianto è stato mantenuto qual era. Il cambiamento più evidente è stata l’aggiunta del campanile. Questo, su base ottagonale, sale dal luogo dell’ingresso principale in tal modo definendo anche lo spazio di una bussola che funge da “stanza di

Nella periferia di Bologna una chiesa costruita in prefabbricazione diviene luogo eloquente grazie all’apposizione di un campanile, di un nartece e di un’abside. Il progetto di Aldo Barbieri è semplice e di grande efficacia ed è una dimostrazione che basta poco per rendere alla dignità ben riconoscibile di chiesa anche un edificio spoglio e disadorno, tipico delle periferie urbane, costruito in fretta e con un investimento minimo.

Vista esterna prima dell’intervento

Vista interna prima dell’intervento

Vista interna prima dell’intervento

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compensazione” tra esterno e interno. Di per sé la forma ottagonale reca la simbolica collegata dall’epoca tardo antica al battistero. Il protendersi in alto del campanile interrompe la monotonia della copertura piana e diviene richiamo visibile da lontano. La forma ottagonale è ripresa anche nell’abside, che si protende esternamente sul retro mentre all’interno amplia il volume dell’aula nello spazio dell’altare conferendo a questo una maggiore visibilità. Questo, insieme con l’elaborazione delle nicchie laterali, conferisce all’aula la qualità di un luogo ampio e accogliente, articolato in spazi gerarchicamente organizzati. Le travi a vista sono state coperte con una controsoffittatura organizzata in modo tale da dare l’idea di una tripartizione dello spazio in navate. Come ha scritto Maria Luisa Piscedda nel presentare il progetto, le due navate laterali “terminano contro la parete di fondo frantumandosi in un gioco del controsoffitto, e si distinguono dalla navata centrale che senza soluzione di continuità si prolunga nel presbiterio”. L’accurata organizzazione dei sistemi di illuminazione è fondamentale, qui come in ogni luogo di culto: le controsoffittature alloggiano faretti verticali e altre lampade sono occulte dietro le sporgenze laterali dei piani orizzontali e negli spazi liberi tra quelle e le pareti. Lucernari squadrati evidenziano la presenze dell’altare principale, di quello della cappella feriale, del battistero e della statua della Madonna. Così un capannone industriale che era inteso come chiesa solo dalla comunità parrocchiale, è divenuto chiesa riconoscibile da chiunque. Secondo una logica dell’essenzialità: bastano pochi segni. Campanile, nartece e abside. I segni visibili della chiesa di muratura, dove si riunisce la chiesa delle persone.

Vista esterna dopo l’intervento

I disegni del prefabbricato e quelli dell’intervento evidenziano gli elementi aggiunti

Viste interne dopo l’intervento

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Vista esterna dopo l’intervento


THEMAINFOLIOIl

THEMA | SANTI | Chiesa di Santa Maria di Siponto (Manfredonia -FG) | foto Giuseppe Marcantonio

THEMA | ALBUM | I

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THEMA | BOSELLI | Miguel Fisac | Iglesia de la Coronación de Nuestra Señora | Vitoria | photo Wikipedia - Zarateman

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THEMA | BOSELLI | Alvaro Siza | Igreja de Santa Maria Marco de Canaveses | Pianta | photo Siza

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THEMA | BOSELLI | Alvaro Siza | Igreja de Santa Maria Marco de Canaveses | Complesso | photo Siza

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THEMA | ALBUM | IV


THEMA | GRISI | St. Bonifatius Dortmund: vista dall’altare verso la finestra del fronte ovest | foto Tino Grisi

THEMA | ALBUM | V

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THEMA | GRISI| St. Remaclus Cochem-Cond: la mole cruciforme in pietra giallo-bruna | foto Tino Grisi

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THEMA | ALBUM | VI


THEMA | LAGANA’ | Craig W. Hartman | Christ The Light , Oakland | photo Cesar Rubio

THEMA | ALBUM | VII

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THEMA | LAGANA’| Gottfried Böhm | Santuario di Neviges | Tabernacolo

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THEMA | ALBUM | VIII


THEMA | SUPPRESSA | Michelucci | Chiesa Villaggio Belvedere | Pistoia

THEMA | ALBUM | IX

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THEMA | SUPPRESSA | Michelucci | Chiesa Villaggio Belvedere | Pistoia

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THEMA | ALBUM | X


THEMA | CERVELLATI | Oratorio dei Padri Filippini | Cupola

THEMA | ALBUM | XI

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THEMA | FERRI| M. Latis, Serafini | S. Vincenzo in Prato | Milano, | 1988

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THEMA | FERRI| G. Hajnal | I beati card.Ferrari e card.Schuster(part.) |

THEMA | ALBUM | XII


THEMA | FERRI| Santa Maria delle Grazie | Natività

THEMA | FERRI| C. Ruggeri | S. Dionigi in SS.Clemente e Guido | Milano

THEMA | ALBUM | XIII

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numerocinque | marzoduemilaquindici

AUTORI Aldo Barbieri | Ingegnere PhD, titolare dello Studio Enarco, docente a contratto presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna Paolo Belloni | Architetto, cotitolare dello Studio PBEB, docente nel corso di laurea in Architettura Ambientale, Politecnico di Milano

Carlo Berarducci | Architetto PhD, titolare dello studio Carlo Berarducci Architecture di Roma Goffredo Boselli | Monaco di Bose, liturgista Alessandro Braghieri | Architetto libero professionista, Genova Pierluigi Cervellati | Architetto e urbanista, già docente di urbanistica presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna e di recupero e riqualificazione urbana presso lo IUAV, Venezia Carlos Clemente San Roman | Architetto PhD libero professionista, docente presso la Facoltà dell’Università di Alcalà de Henares (Spagna)

di

Architettura

Michela Beatrice Ferri | PhD, giornalista e docente a contratto di filosofia presso lo Holy Apostles College & Seminary, Cromwell (Connecticut, US) Tino Grisi | Architetto PhD, DISA Università degli Studi di Bergamo Renato Laganà | Architetto, professore associato, Facoltà di Architettura, Università di Reggio Calabria Luigi Leoni | Architetto libero professionista, presidente della Fondazione Frate Sole, Pavia Paolo Marciani | Architetto, cotitolare dello studio Dettagli Architettura, Roma

Sara Meda | PhD, docente a contratto, Storia dell’Arte contemporanea, Università Cattolica di Brescia Fr. Philippe Markiewicz | OSB, architetto, direttore della rivista

Arts Sacrés

Giancarlo Marzorati | Architetto, titolare dello studio Marzorati Architettura, Sesto San Giovanni (MI)

Stefano Mavilio | Architetto PhD, libero professionista, coordinatore del Master in progettazione degli edifici per il culto, organizzato dall’Università la Sapienza e dalla LUMSA, Roma P. Marko Ivan Rupnik | S.J., artista e teologo, Direttore del Centro Aletti, docente presso la Pontificia Università Gregoriana, Roma

Mons. Giancarlo Santi | Presidente emerito Associazione Musei Ecclesistici Italiani (Amei), docente all’Università Cattolica di Milano Duncan G. Stroik | Architetto titolare dello studio Duncan G. Stroik (in South Bend e in Austin), docente di architettura presso l’Università di Notre Dame (Indiana, US) Alessandro Suppressa | Architetto libero professionista in Pistoia, già membro del comitato scientifico della Fondazione Michelucci

Maria Vitiello | Architetto PhD, Dipartimento di Storia Disegno e Restauro dell’Architettura dell’Università “Sapienza”, Roma

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