Thema 6|16

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THEMA spazi di comunione www.thema.es ISSN 2384-8413

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RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI


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Una nuova linea di arredi per chiese

Schiavone, design per l’armonia interiore: storia di un sapere senza tempo Chiesa San Tommaso Apostolo - Roma Progetto: Arch. Marco Petreschi

Legati nella storia in particolare alla maestria degli artigiani e al genio della mente architettonico-artistica, gli arredamenti lignei per le chiese sono un elemento che da solo è capace di conformare l’ambiente, donandogli qualità spirituale. È in questa concezione che realizza le sue opere Schiavone, figlia di un laboratorio artigianale nato nella seconda metà degli anni Cinquanta, oggi azienda che conferma sempre di più la sua attitudine a coniugare una tradizione ricca di alta qualità di esecuzione, di tecniche e accorgimenti costruttivi fatti di un sapere senza tempo, con le più moderne tecnologie. L’azienda, con competenza professionale dialoga e risponde alle esigenze di una progettazione moderna e di una committenza capace di generare nuove edificazioni, e contribuisce con i suoi banchi e arredamenti in genere a riportare al loro splendore originario cattedrali e chiese antiche.

Schiavone

Chiesa San Carlo Borromeo - Roma Progetto: Arch. Antonio Monestiroli

Chiesa di Dresano - Milano Progetto: Studio Corvino&Multari

Chiesa San Giuseppe Vecchio Massa Carrara Progetto: Arch. Anna Della Tommasina

Chiesa Santa Gianna Beretta Molla - Trezzano sul Naviglio Milano Progetto: Studio Quattroassociati

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Forma e sostanza in un’unica soluzione: una serie di apparecchi da incasso virtualmente invisibili, in grado di integrarsi perfettamente nell’architettura degli spazi.


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Accrescere il valore del patrimonio culturale... Il nostro obiettivo è valorizzare, preservare e custodire il grande patrimonio culturale con le sue immense bellezze che narra di uno splendore dal passato glorioso e presentare agli occhi di un pubblico sempre più attento e curioso la cultura e l’arte che esso ci tramanda e racconta. Con la tecnologia per l’eliminazione dell’umidità capillare PROsystem abbiamo fatto un passo avanti nella conservazione aumentando anche il valore dei monumenti storici e di architetture importanti come scuole, ospedali, chiese e palazzi con particolare attenzione agli edifici posti sotto la protezione dell’UNESCO come la Basilica Eufrasiana di Parenzo, perla del periodo bizantino ed il Palazzo di Diocleziano a Spalato, uno dei monumenti meglio conservati dell’architettura romana nel mondo. PROsystem è un sistema unico che si oppone al processo di risalita dell’umidità capillare e i cui risultati sono visibili in pochi giorni a seconda della struttura, dei materiali utilizzati nella costruzione e della porosità del suolo.

...aprendo porte chiuse già da molto tempo Questa è la storia di una prigione chiamata “Dragon”, situata nel magnifico Palazzo del Rettore nella città di Ragusa (patrimonio UNESCO). La prigione ha suscitato la curiosità dei numerosi visitatori che “sbirciavano” attraverso le sue inferriate. Con l’eliminazione dell’umidità di risalita capillare che, per la sua presenza nelle mura causava odori sgradevoli di muffe e di funghi, il sistema PROsystem ha reso possibile la riapertura della prigione al pubblico. Oggi, da più di dieci anni, le sue porte sono sempre aperte per tutti i visitatori della bellissima Ragusa.

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THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

pg.

1.

Editoriale Francesca Rapini

THEMA 6/16 2016 luglio/dicembre periodico semestrale

2.

Saluto istituzionale Carlos Azevedo

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011 ISSN 2384-8413 Editore

Centro Studi di Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

3.

Introduzione Fabrizio Capanni

5.

LA NOBILE BELLEZZA Antonio De Grandis

Direttore Responsabile

9.

Redazione

via di Villa Basile, 27 Pescara Emanuele Cavallini, Paola Renzetti, Simona Valente Comitato Scientifico

Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, P. Andrea Dall’Asta, don Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Giuseppe Russo, Claudio Varagnoli Progetto grafico e impaginazione

Mauro Forte Hanno collaborato:

Carlos Azevedo, Luigi Bartolomei, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Antonio De Grandis, Laura Fagioli, Tino Grisi, Andrea Longhi, Valerio Pennasso, Ettore Spalletti, Studio TAMassociati, Claudio Varagnoli Stampa

Lp Grafiche - Pescara Credits & Copyrights

Legge 22 aprile 1941, n. 633 Art. 70 1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscanoconcorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. [...] 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta. www.thema.es themaes.editore@gmail.com In copertina

Ettore Spalletti, bozzetto per l’Evangeliario Ambrosiano. Per gentile concessione della Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro. Le foto relative alle opere di Spalletti alle pagine 4, 8, 14, 17, e 30, sono pubblicate per gentile concessione del cardinal Dionigi Tettamanzi.

THEMA è patrocinata dal

ARCHITETTURE DI CHIESE CONCILIARI: MODELLI, METAFORE, PROGETTI Andrea Longhi

15. LA CELEBRAZIONE SECONDO LA RIFORMA LITURGICA FRA ADEGUAMENTO E NUOVE COSTRUZIONI Valerio Pennasso

18. PROGETTI PILOTA E CONCORSI: SINTESI CRITICA DI UN DECENNIO Laura Fagioli

21. UN PROGETTO PER LA NUOVA CHIESA DEL VARIGNANO - VIAREGGIO Studio TAMassociati

23. ARCHITETTURA DELLO SPAZIO SANTO. CHIESE MODERNE PRE-CONCILIARI Tino Grisi

31. ARCHITETTURE DI CHIESE CONTEMPORANEE. LE CONDIZIONI DEL PROGETTO Luigi Bartolomei

37. CONSERVAZIONE E PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI LITURGICI Claudio Varagnoli

43. L’ECLISSI DELL’ARTE LITURGICA. QUALI SFIDE NELLA CHIESA DI OGGI? Andrea Dall’Asta SJ

PONTIFICIUM CONSILIUM DE CULTURA

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Francesca Rapini


ETTORE SPALLETTI

Bozzetto per l’Evangeliario Ambrosiano


Editoriale SPAZI DI COMUNIONE.

ARCHITETTURA E ARTE PER LA LITURGIA NEL CINQUANTENARIO DEL CONCILIO VATICANO II Francesca Rapini

Spazi di comunione Architettura e arte per la liturgia nel Cinquantenario del Concilio Vaticano II 5 dicembre 2015 - Convegno di studi Organizzato da

Arcidiocesi Pescara-Penne

Con il patrocinio di

Il Centro Studi di Architettura e Liturgia di Pescara (in collaborazione con l’Arcidiocesi di Pescara-Penne) ha organizzato lo scorso 8 dicembre un Convegno di studi in occasione del 50mo dalla conclusione del Concilio Vaticano II: “Spazi di comunione. Architettura e arte per la liturgia nel Cinquantenario del Concilio Vaticano II”. L’evento si è inserito nel panorama nazionale degli studi e dei momenti di confronto e dibattito relativi all’esperienza ecclesiale alla luce del Concilio Vaticano II ed alle riflessioni sulla costruzione di nuove chiese e sugli adeguamenti liturgici attuati nel postconcilio. Il rinnovamento della liturgia ha rappresentato e rappresenta, infatti, il contesto nel quale si inseriscono gli interventi di adeguamento degli spazi liturgici esistenti e la realizzazione di quelli nuovi, all’interno di un processo di non breve risoluzione ma che necessita di tempi e modalità ancora da definire, come ben evidente dalla varietà e multiformità di proposte attualmente presenti. Alla luce del Sacrosanctum Concilium, un acceso dibattito anima il rapporto fra architettura e liturgia, sull’importanza del significato dell’“arte e dell’architettura sacra”, e come esso viene esplicitato dagli architetti e artisti coinvolti nel processo di progettazione e realizzazione delle chiese.

PONTIFICIUM CONSILIUM DE CULTURA

Le architetture di chiese parrocchiali, i progetti pilota ed i concorsi CEI, la celebrazione secondo la riforma liturgica nelle chiese storiche in Italia, le tematiche sull’architettura pre-conciliare, moderna e contemporanea dello spazio santo sulla conservazione e progettazione degli spazi liturgici nel contesto nazionale e abruzzese e sulla ricerca dell’arte sacra contemporanea, rappresentano alcune delle tematiche proposte nel corso della giornata e dibattute da liturgisti, architetti, artisti e specialisti della materia.

Conferenza Episcopale abruzzese - molisana

Hanno contribuito per il miglior esito del convegno:

Michele Carafa scultore

Comitato scientifico

Mons. Fabrizio Capanni Officiale del Pontificio Consiglio della Cultura

Mons. Vincenzo Amadio Vicario Generale Arcidiocesi di Pescara - Penne

Padre Andrea Dall’Asta Direttore Galleria San Fedele, Milano

Francesco Garofalo Università “G. D’Annunzio”, Chieti - Pescara

La rivista Thema n. 6, quindi, riporta i qualificati contributi degli esperti delle discipline del settore che costituiscono il corpus degli atti del convegno e rappresenta uno strumento per quanti vorranno approfondire ed avere un panorama degli aspetti che animano il dibattito sulle questioni legate ai nuovi segni, ai nuovi simboli, ai modelli, ai tipi e alle diverse forme della bellezza ecclesiale per il futuro. La rivista è impreziosita all’interno ed in particolar modo in copertina dalle immagini delle opere realizzate dall’artista Ettore Spalletti invitato dal Centro Studi a partecipare al convegno. Troviamo, infatti, le splendide immagini delle tavole dell’Evangeliario Ambrosiano voluto dall’allora Arcivescovo di Milano, Cardinale Dionigi Tettamanzi e commissionate a maestri dell’arte contemporanea tra i quali Ettore Spalletti che attraverso il suo linguaggio contemporaneo ha interpretato magistralmente il messaggio evangelico. La notizia della morte del prof. Francesco Garofalo architetto, docente e progettista, componente importante del comitato scientifico ci è giunta inaspettata mentre completavamo la lavorazione di questo numero della rivista. Forte è il sentimento di cordoglio dell’intera redazione che tramite la sottoscritta, esprime tutto il proprio rammarico per la scomparsa prematura di un docente e architetto che si era occupato dell’organizzazione del Convegno Spazi di Comunione e che con la sua attività ha lasciato molteplici e importanti testimonianze ripercorribili nelle attività di corsi, seminari, convegni, progetti e nell’impegno civile che ha sempre manifestato con reale convinzione.

Paola Renzetti Centro Studi “Architettura e Liturgia”, Pescara

Emanuele Cavallini Centro Studi “Architettura e Liturgia”, Pescara

Il numero 6 di Thema si presenta anche con un attento ed accurato restyling grafico: un nuovo formato editoriale ed un’impaginazione caratterizzata da un equilibrato ed elegante bilanciamento tra testi ed immagini presenti nella rivista.

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SPAZI DI COMUNIONE. ARCHITETTURA E ARTE PER LA LITU

Saluto istituzionale

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Saluto ciascuno dei presenti con vivissima cordialità. È molto opportuna questa riflessione a 50 anni esatti (fra tre giorni, l’8 dicembre) dalla fine del Concilio Vaticano II. Si intende qui celebrare tale ricorrenza in relazione alla riforma liturgica sotto diversi punti di vista, che includono la sensibilità e l’apporto diversificati dei liturgisti, delle molteplici correnti e scuole architettoniche, della pluralità degli artisti al servizio della liturgia, dei committenti in ricerca di soluzioni e tenendo conto della mutata situazione socio-culturale delle comunità cristiane. Già Sant’Agostino affermava che il senso delle promesse divine deve essere “immaginato” per acquistare spessore e così corrispondere al nostro desiderio. Ciò che è stato rivelato deve essere sempre nuovamente immaginato per poter essere creduto – analogamente avviene per l’esperienza del contenuto di verità che in un’opera d’arte mi attrae e mi avvince. L’arte è veramente epifania sensibile della grazia, manifestazione anticipata dell’eschaton, nella molteplicità dei suoi generi. Nella sequela di Cristo, con stile di discrezione “kenotica”, si deve permanere oggi in una situazione di esilio e di deserto del cristianesimo, nella drammatica lontananza di Dio. L’esperienza cristiana si pone non con un linguaggio trionfalista, ma come culturalmente solidale. Non per piacere al Papa Francesco, ma per seguire Gesù. La comprensione costruttiva della secolarità e della storia della libertà richiede competenza critica credibile e fedele alla verità e alla bontà. C’è un rapporto allo stesso tempo dialettico a dialogico fra architettura, arte e liturgia. Il dialogo onesto, autentico e sensibile fra teologia e arti contemporanee aiuterà a capire i nuovi contesti estetici, come campi di esperienza e di dimostrazione. Si richiede una disponibilità ad una ermeneutica sperimentale per provare quello che è riuscito o no. Ciò deve esigere anche da parte degli architetti/artisti una sensibilità per il senso fondamentale della tradizione cristiana come dinamica universale e storico-salvifica dell’incarnazione, dell’invio dello Spirito e di una speranza attiva nella venuta del Signore. È significativo e essenziale che la teologia impari a vedere nella profonda mediazione estetica un apporto decisivo. Infatti, la Chiesa e la società trovano negli artisti i segni delle loro migliori aspirazioni. Le arti sono ancora gli unici movimenti di ricerca creativi ed esistenziali rimasti, per giungere a una nuova unità tra forme di vita pratica, intelligibilità, filosofia e religione. Le arti incarnano i più importanti fenomeni spirituali di interpretazione e auto-correzione dalla modernità. La teologia ha bisogno di una capacità di percezione, di una sensibilità estrema, per rompere una apparenza, una superficialità, stare al gioco accettando l’inevitabile irritazione e provocazione, e procedere così ad una riflessione profonda sulla condizione odierna. Il potenziale profetico e utopico che è andato perduto nelle ideologie politiche, può essere riguadagnato attraverso le arti. Percepire il pathos spesso disturbante dell’arte di avanguardia, capirlo come affidabile segno dei tempi, in epoca di mutazione culturale, è dare senso a un discorso su Dio, nella sequela di Gesù. Questi cinquanta anni rivelano come arte e fede cristiana contribuiscano ad un nuovo ethos che deve essere ancora raggiunto, di un ethos della libera autolimitazione e di una solidarietà senza condizioni. Questa alleanza sarà necessaria perché l’umanità possa sopravvivere. Un’arte non grandiosa, ma incarnata nella vita umile del corpo che siamo noi, come individui e come comunità. La sensibilità etico-politica nella vita dei fedeli e della società può essere formata proprio mediante un radicale confronto artistico. La fede può essere ravvivata in quanto passione per Dio e si può evitare il rischio di una coscienza infelice. L’arte ci sveglia sulla dimensione incarnata dell’esistenza. La fedeltà dell’esperienza cristiana a una teologia della creazione, dell’incarnazione e dello Spirito Santo aiuterà a riconfigurare e a ricomporre nuovamente lo specchio della tradizione, ancora frantumato. La credibilità della fede cristiana passa attraverso la forma valida della trasmissione artistica, capace di generare ammirazione e inquietudine. Questo Convegno, promosso dalla Arcidiocesi di Pescara-Penne, in collaborazione con il Centro Studi Architettura e Liturgia, permetta di condividere la passione per la qualità estetica della architettura e dell’arte liturgica, trovare soluzioni, per corrispondere alle nuove prospettive che la maturità dei cinquanta anni passati a tutti richiede.

Carlos Azevedo Delegato Pontificio Consiglio della Cultura


RGIA NEL CINQUANTENARIO DEL CONCILIO VATICANO II

Introduzione Il pittore Aligi Sassu (Milano 1912 – Pollença, Spagna, 2000), pur non essendo uno spirito particolarmente religioso, ha frequentato soggetti sacri. Un tema che ricorre più volte nell’arco di oltre un quarantennio di attività (1941-1987) è quello dei «concili storici». La sensibile evoluzione nella trattazione del tema nel corso degli anni denota, con tutta evidenza, una diversità nella percezione e forse nell’esperienza personale della Chiesa come istituzione. Fra le prime opere, il Concilio di Trento del 1941-1942, ad esempio, è un’opera grumosa, dominata dalla tonalità rosso sangue e inquietante per gli sguardi arcigni dei padri conciliari e la presenza di armigeri. Completamente diversa è l’atmosfera di un’opera di oltre vent’anni dopo, eseguita a Pescara nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo, dedicata nel 1963. Essa fu commissionata dai padri Oblati di Maria Immacolata dietro suggerimento di padre Fiore Paglione e di suo fratello Andrea, allora direttore della Galleria 32 di Milano e futuro cognato dell’artista, con il favore del vescovo di Pescara-Penne Antonio Jannucci e del parroco padre Antonio Morette. Si tratta della rappresentazione del Concilio Vaticano II, realizzato a tempera su tre pareti di una cappella della chiesa, su una superficie di 49 m2. Sulla parete di fondo i due papi Giovanni XXIII e Paolo VI – che hanno rispettivamente aperto e chiuso il concilio – venerano san Pietro: si tratta di una allegoria della Chiesa romana. In piedi o sugli scranni, disposti in 5 file, si allineano 76 padri conciliari, fra cardinali e vescovi, tutti a grandezza naturale. Molti di essi sono veri e propri ritratti e ben riconoscibile è il citato mons. Jannucci. Quest’opera, realizzata nel 1964, mentre il concilio era in pieno svolgimento, è un documento storico di prima mano. Il clima che dovette percepire e che trasmette l’artista è di grande serenità. Dai volti aperti dei padri deriva l’immagine della Chiesa non più ripiegata su sé stessa, ma cordialmente disposta ad andare verso gli uomini. Il 4 dicembre 1963 il concilio infatti aveva promulgato la costituzione sulla sacra liturgia Sacrosantum concilium; il 7 dicembre 1965 promulgherà la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes; l’8 dicembre rivolgerà i suoi «messaggi all’umanità», fra cui quello agli artisti: «poeti e uomini di lettere, pittori, scultori e architetti, musicisti, gente di teatro e di cinema…» affinché non lascino interrompere l’alleanza con la Chiesa, non rifiutino di mettere il proprio talento a servizio della verità divina, non chiudano lo spirito al soffio dello Spirito Divino. Con questa immagine vorrei introdurre i lavori del convegno Spazi di comunione, pensato per celebrare i cinquant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II che cadrà esattamente fra tre giorni, l’8 dicembre. È stato osservato che 50 anni non sono molti per la recezione di un concilio, che è un fenomeno, per così dire, «di lunga durata». È tuttavia indubitabile che la riforma liturgica abbia già da tempo prodotto un’immagine nuova di chiesa edificio, diversa da quella anteriore al concilio, pur se preparata da una «preistoria» in area tedesca e francese. Anche il discorso sull’arte liturgica, sebbene meno avanzato, si sta ponendo oggi in termini più corretti rispetto al passato. Il convegno che stiamo aprendo intende pertanto essere un contributo alla storicizzazione di quanto è avvenuto in tali ambiti in questo mezzo secolo e soprattutto alla riflessione sull’architettura e l’arte liturgica più adatte al nostro tempo. Il suo sguardo, attento soprattutto alla realtà italiana, intende da una parte allargarsi al contesto europeo e, dall’altra, non dimenticare la realtà regionale Abruzzo, che lo ospita, la quale possiede elementi di dinamismo ma presenta ancora in parte le ferite del sisma che l’ha colpita sei anni fa.

Fabrizio Capanni Officiale del Pontificio Consiglio della Cultura

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ETTORE SPALLETTI

Salle des départs a Garches, 1996


LA NOBILE BELLEZZA Antonio De Grandis

Liturgista e Presidente Centro Studi “Architettura e Liturgia” – Pescara Profilo dell’autore Don Antonio De Grandis nato a Pescara il 1963. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Teramo e Baccalaureato in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana Roma. Licenziato in Liturgia presso il Pontificio Istituto Liturgico S.Anselmo Roma. Ha conseguito il dottorato in Diritto Canonico alla Università Lateranense Roma. È stato Responsabile beni culturali ecclesiastici e nuova edilizia di culto della Arcidiocesi di Pescara-Penne nel periodo 2000-2006. Svolge attività didattico scientifica come Prof. di Liturgia presso l’ Istituto Superiore di Scienze Religiose “ G. Toniolo” di Pescara . È stato Direttore del corso post-laurea di “Architettura e liturgia” sulla progettazione dello spazio sacro presso la Facoltà di Architettura di Pescara. È docente ai corsi di aggiornamento professio-

La Chiesa, fin dai primi secoli ha favorito l’arte che ha avuto un suo ben preciso e notevole carattere catechetico, capace di parlare e di ‘ripetere’ (katà-echesìs) continuamente ai credenti, allora illetterati, attraverso i suoi segni ‘visivi e visibili’, il messaggio della “Buona Notizia”, oggetto del magistero della Chiesa che non poteva rimanere esposto alla mera interpretazione individuale. Ed anche se il Concilio di Nicea II del 787 fissò alcune norme regolamentanti l’arte sacra, in specie pittorica, la Chiesa nel corso dei secoli fu sempre aperta ad accogliere le tradizioni che a poco a poco s’erano andate fissando fuori del suo ambito e lasciò agli artisti piena libertà, purché l’insegnamento catechetico del mistero della salvezza fosse il fine dell’arte stessa. Insomma, la katà-echesìs, ossia la rimuginazione-ripetizione continua del messaggio della salvezza, è stato il vero programma dell’arte cristiana che nel corso della storia e nell’avvicendarsi di secoli e generazioni, secondo le epoche e gli ambienti sociali, i progressi o i regressi della tecnica, le forme molteplici assunte dalla pietà cristiana, ha assunto stili mutevoli, frutto della ricerca dell’uomo, sempre fedeli tuttavia ai nuclei persistenti dei dogmi della fede. L’arte cristiana così, nel corso della sua storia, ha rispecchiato le aspirazioni più profonde dei popoli e delle epoche da cui fu via via arricchita tanto che al suo sviluppo hanno contribuito i più grandi artisti d’ogni tempo. Ma la “giusta autonomia” degli artisti, liberi di esprimere la propria creatività e sensibilità, ha richiesto e richiede di riconoscere sempre più anche le esigenze pratiche legate all’uso dell’arte sacra. Il Concilio Vaticano II ha fatto alcune importanti precisazioni a proposito di “Architettura e arte”, temi molto ampi che abbracciano questioni essenziali per la vita liturgica e le attività della Chiesa ed ha posto una sorta di “focus funzionale” sull’arte sacra, chiamata essenzialmente a servire il “culmen” e la “fons” della vita cristiana che è la celebrazione liturgica, la ‘santa convocazione pasquale’ che loda, ringrazia e fa memoria dell’evento pasquale, e durante la quale avviene il grande mistero dello ‘scambio’ , l’admirabile commercium, dei doni divini tra un Dio divenuto uomo e l’uomo che diventa ‘dio’. L’arte cristiana al servizio della liturgia, e in ultimo dell’uomo, se possiede una grande valenza catechetica, è quanto mai ragionevole e conseguenziale che l’artista riconosca che quanto da lui prodotto finemente deve essere al servizio pieno e totale della liturgia e dei fedeli, conscio che il suo lavoro artistico è un’autentica mistagogia, intesa e spiegata dai Padri come una scuola di vita e di spiritualità cristiana, tutta imperniata sulla liturgia, la ‘divina economia’. Oggi, tuttavia si constata da parte

La katà-echesìs, ossia la rimuginazioneripetizione continua del messaggio della salvezza, è stato il vero programma dell’arte cristiana.

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degli artisti una certa incomprensione mistagogica della divina celebrazione dei misteri di Cristo, presente nella Parola, nei sacramenti e nella persona dei fratelli, in specie degli ultimi. Questa realtà che è il cuore della liturgia cristiana, l’arte sacra dovrebbe ben tenerla presente per esserne degnamente al servizio. E così lo spazio liturgico di una costruzione-chiesa nel fare sempre riferimento al Mistero pasquale, anche fuori della celebrazione, e durante la pie pratiche delle devozioni extraliturgiche di pietà popolare, deve consentire e favorire la “partecipazione piena, consapevole e attiva” di tutti i fedeli alla celebrazione liturgica. Allora l’arte può offrire il suo necessario appoggio estetico alla divina liturgia. Perciò, gli artisti hanno bisogno di ascoltare e comprendere le richieste dai committenti ed hanno bisogno di conoscere bene la divina liturgia cristiana. La reale presenza del Mistero, del Verbo incarnato, durante la liturgia cristiana è una sfida certamente interessante e altamente ispirante per gli artisti che nel loro sforzo artisticocreativo manifestano attraverso l’espressione della materia, qualcosa che appartiene al mondo dello spirito. Una seconda carenza, oggi assai rimarchevole, riguarda la formazione liturgica degli artisti che deve essere di molto migliorata. Il Concilio ha stabilito un’attenzione prioritaria per la formazione permanente liturgica di tutto il popolo di Dio. Non si può migliorare l’arte sacra senza una migliore comprensione mistagogica dei sacramenti e senza una efficiente formazione liturgica degli artisti che perciò dovrebbero essere dei credenti e non solo dei valenti artisti. E se certamente non tutte le opere artistiche realizzate sono sempre eccezionali, esse tuttavia hanno sempre da trasmettere un aspetto della “buona notizia” così come è stata sentita ed accolta dall’animo dall’artista il quale intende aprire prospettive sempre nuove per i fedeli che in un certo senso hanno bisogno di qualcuno, l’artista appunto, sia architetto che scultore o pittore, che sappia scrutare l’oceano della trascendenza per trasmettere loro speranza e gioia. La bellezza di per sé porta a ringraziare per i doni ricevuti, primo fra tutti la nostra vita. E se l’arte sacra è capace di suscitare il ringraziamento è allora già un grande ed autentico ‘servizio catechetico’ prestato agli uomini disincantati del nostro tempo. Nella Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia, il papa Benedetto XVI sottolineava che il “rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza … che è veritatis splendor… e non mero estetismo … né fatto decorativo … ma elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione…” (Sacramentum caritatis n. 35). Questo, naturalmente, deve renderci consapevoli di quale attenzione dobbiamo tenere perché i divini misteri di Cristo risplendano secondo la loro natura. E le parole del Pontefice non potrebbero essere più chiare e più di conforto per quanti operano al servizio della divina liturgia. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza, di minimalismo e di pauperismo sia nell’arte che nella celebrazione dei divini misteri. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione è modalità artistica propria, in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché l’arte cristiana è importante. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano

nale di Architettura per la liturgia ed adeguamento liturgico che il Centro Studi Architettura e liturgia svolge con la Fondazione Architetti Pescara - Chieti. È membro del comitato scientifico-redazionale della rivista on-line “Thema” www.thema.es. È stato nominato a componente di giuria di concorsi di architettura, correlatore di tesi di laurea, consulente liturgico in concorsi di architettura ed ha pubblicato articoli sul tema dell’architettura e la liturgia. Oggi è presidente del Tribunale ecclesiastico Regionale Abruzzese – Molisano.

La reale presenza del Mistero, del Verbo incarnato, durante la liturgia cristiana è una sfida certamente interessante e altamente ispirante per gli artisti che nel loro sforzo artistico-creativo manifestano attraverso l’espressione della materia, qualcosa che appartiene al mondo dello spirito.


Nella Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia, il papa Benedetto XVI sottolineava che il “rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza … che è veritatis splendor… e non mero estetismo … né fatto decorativo … ma elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione…” (Sacramentum caritatis n. 35). 7

anche i santi testimoni che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio. Ma, ascoltiamo ancora papa Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra … non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità… Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia della celebrazione dei Vespri - 12 settembre 2008). Come si diceva, nel considerare alcuni aspetti dell’arte celebrativa è stata data qualche priorità e il sottolineare alcune priorità, all’interno di una panoramica più generale, forse può essere di qualche aiuto anche in relazione alle considerazioni più strettamente inerenti l’arte e l’architettura sacra che, come si sa, si pongono a servizio della liturgia. Per questo è quanto mai necessario che arte e architettura conoscano bene la liturgia, il suo spirito, la sua arte celebrativa. Solo così potranno realizzare lodevolmente il loro compito. Valga ancora una volta quanto affermato da Benedetto XVI: “Il legame profondo tra la bellezza e la liturgia deve farci considerare con attenzione tutte le espressioni artistiche poste al servizio della celebrazione. Una componente importante dell’arte sacra è certamente l’architettura delle chiese, nelle quali deve risaltare l’unità tra gli elementi propri del presbiterio: altare, crocifisso, tabernacolo, ambone, sede… si deve tenere presente che lo scopo dell’architettura sacra è di offrire alla Chiesa che celebra i misteri della fede, in particolare l’Eucaristia, lo spazio più adatto all’adeguato svolgimento della sua azione liturgica. Infatti, la natura del tempio cristiano è definita dall’azione liturgica stessa, che implica il radunarsi dei fedeli (ecclesia), i quali sono le pietre vive del tempio (cfr 1 Pt 2,5)” (Sacramentum caritatis,41). Siano queste mie brevi note un chiaro indirizzo per gli artisti chiamati al servizio della liturgia alla luce di quanto raccomandato dal Concilio Vaticano II.


ETTORE SPALLETTI

Evangeliario ambrosiano, Veglia Pasquale (fronte), 2011


ARCHITETTURE DI CHIESE CONCILIARI: MODELLI, METAFORE, PROGETTI Andrea Longhi

I percorsi di maturazione di un’ecclesiologia di comunione e di una nuova sensibilità liturgica hanno consigliato, fin dagli anni Cinquanta, il ripensamento dei modelli chiesastici basilicali ottocenteschi, in favore di forme più dinamiche, accoglienti e favorevoli alla partecipazione dei fedeli. La questione partecipativa era stata posta dal Movimento Liturgico fin dai primi anni del Novecento e aveva già trovato spazio in alcune importanti acquisizioni magisteriali, come il paragrafo su La partecipazione dei fedeli nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII (20 novembre 1947). L’abbandono di certezze tipologiche rassicuranti e la passione per la sperimentazione hanno generato, tra la Ricostruzione e il post-Concilio, una diffusa frammentazione di esperienze, in cui l’espressività del progettista o la soggettività del punto di vista teologico del committente hanno reso episodico ed individuale ogni singolo progetto. Rare, negli anni a cavallo del Concilio, le riflessioni sistematiche o metodologiche volte a orientare la progettazione: solo dagli anni Ottanta (in particolare dopo gli eventi di tema architettonico collegati al Congresso Eucaristico nazionale tenutosi a Milano nel 1983) la ricerca sul tema della chiesa ha iniziato a svilupparsi, in ambito sia ecclesiastico sia accademico, per arrivare ai tre documenti della Conferenza Episcopale Italiana sui beni culturali (1992), sulla progettazione di nuove chiese (1993) e sull’adeguamento liturgico (1996), e a numerosi manuali, testi, convegni, concorsi e mostre tematici. Politecnico di Torino, Dipartimento Interateneo Scienze, Progetto, Politiche del Territorio Profilo dell’autore Andrea Longhi è professore associato di Storia dell’architettura presso il Politecnico di Torino (DIST) ed insegna la medesima disciplina presso l’Università degli Studi di Torino. Tra le sue pubblicazioni: L’architettura del battistero. Storia e progetto (curatela, Skira 2003); Luoghi di culto. Architetture 1997-2007 (Motta 2008); I beni culturali della Chiesa. Metodi ed esperienze di valorizzazione pastorale (curatela, Effatà 2009); Architettura, Chiesa e società in Italia (Studium 2010, con Carlo Tosco); è membro dei comitati scientifici dei Congressi Internazionali di Architettura Religiosa Contemporanea, dei Convegni Liturgici Internazionali di Bose, del Centro Studi Dies Domini della Fondazione Lercaro di Bologna; collabora da più di un decennio con l’Ufficio Beni Culturali e con il Servizio per l’Edilizia di Culto della CEI per progetti di ricerca storica-critica e di formazione.

Nonostante la vivacità delle esperienze e l’impegno delle istituzioni, a cinquant’anni dal Concilio nel dibattito giornalistico o nelle conversazioni di sacrestia emerge talora un certo disorientamento per l’assenza di “modelli” o di “tipi” riconoscibili, rassicuranti, che identifichino e rendano riconoscibile la presenza della Chiesa nelle città contemporanee. Anzi, l’investimento in ricerca legato ai documenti della Cei e ai concorsi di architettura pare essere considerato un investimento sprecato, proprio perché volto a sondare ulteriori possibilità, e non a fissare un modello unico e ufficiale, canonico. La deprecata assenza di soluzioni standardizzate e ripetibili è poi solitamente accompagnata dalla lamentela circa la “bruttezza” delle chiese “moderne”, senza che il polemista di turno dichiari mai le proprie categorie di valore, o dia spessore storico e geografico alle proprie affermazioni: se esistono chiese che qualcuno può ritenere “brutte” (sulla base di quali parametri sociologici, filosofici, teologici?), ciò implica che ci sono state comunità cristiane e vescovi che le hanno volute così, assumendosi la responsabilità della scelta del progettista (talora inadeguato, è vero, ma magari devoto), delle ditte esecutrici (talora incapaci, è vero, ma economicamente convenienti), delle tecnologie adottate (al risparmio), delle scelte artistiche (delegate ai cataloghi) ecc. Peraltro, le comunità che vivono quotidianamente la propria fede in quelle chiese non le ritengono forse poi così “brutte”, e tanto meno sono interessate al parere di critici di architettura improvvisati o in cerca di una ribalta mediatica. Cerchiamo dunque di capire il senso più profondo di tale dibattito, partendo dai termini stessi della questione. Quando parliamo di “modelli” possiamo intendere architetture che risolvano in modo talmente brillante un problema da diventare inimitabili, icone di un’epoca: in quanto non imitabili, sono solo copiabili, replicabili, clonabili. I “tipi” sono invece soluzioni

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ricorrenti, fondate sull’esperienza, sulla norma o sulla memoria figurativa di una società, che aiutano il progettista a impostare il proprio percorso progettuale limitando le infinite variabili possibili; l’adozione di “tipi” aiuta anche il fruitore, il frequentatore, il passante, perché vengono semplificati l’orientamento, la riconoscibilità, la familiarità. Le polemiche sulle “assenze” di modelli e tipi post-conciliari cosa lamentano, dunque? L’assenza di capolavori cui ispirarsi? O l’assenza di soluzioni facili, ripetibili, condivise? Probabilmente più la seconda ipotesi, dettata dall’esigenza di semplificare il lavoro dei progettisti, ma soprattutto dei committenti, dei valutatori, delle comunità e dei singoli fruitori. Sebbene dagli anni Novanta la letteratura sia tornata alla riflessione tipologica sulle chiese – capitalizzando l’ampia e ricca letteratura sul ruolo del “tipo” nel progetto di architettura – i recenti richiami chiedono non tanto riflessioni tipologiche o morfologiche, ma repertori, manuali, codificazioni, regole …

Un dibattito aperto

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Il problema è evidentemente complesso, e per questo è stato oggetto di un approfondimento che ha attraversato un’intera annata della rivista “Arte Cristiana”, con numerosi interventi prestigiosi di architetti noti per la competenza ecclesiale (Sandro Benedetti, Maria Antonietta Crippa, Paolo Portoghesi), progettisti impegnati nella riflessione teorica e metodologica (Antonio Monestiroli, Massimo Ferrari, Paolo Zermani, Vincenzo Melluso), architetti studiosi del tema liturgico (Tino Grisi), oltre che teologi (Severino Dianich, Daniel Estivill, Marko Ivan Rupni, Angelo Lameri, Crispino Valenziano). I contributi di “Arte Cristiana” sono difficilmente sintetizzabili; in questa sede, per offrire un contributo ulteriore al dibattito, possiamo cercare di verificare se realmente gli architetti – impegnati nella costruzione di centinaia di chiese dal Concilio a oggi – hanno viaggiato per cinquant’anni senza il timone di modelli e tipi. Sfogliando qualsiasi manuale di storia dell’architettura, troveremmo un repertorio limitatissimo di manufatti-chiese che hanno inciso nell’immaginario architettonico occidentale novecentesco: il santuario di Ronchamp, il memoriale dell’Autostrada, forse la cappella di Pampulha e la cattedrale di Brasilia; da ultimo, la Dives in Misericordia a Roma e, per strizzare l’occhio al mondo ecclesiale, hanno recentemente trovato spazio il Corpus Domini di Aquisgrana e la cappella di Rothenfels. Le Corbusier, Michelucci, Niemeyer, Meier, Schwarz: le icone del Novecento possono diventare esempi per i nostri quotidiani problemi parrocchiali? Possono essere modelli accessibili o, tanto meno, generare tipi frequentabili? Le Ronchamp e le chiese dell’Autostrada clonate nelle periferie italiane sono evidentemente casi-studio interessanti dal punto di vista della sociologia e della psicologia dell’architettura, ma non del progetto liturgico.

A cinquant’anni dal Concilio ... emerge talora un certo disorientamento per l’assenza di “modelli” o di “tipi” riconoscibili, rassicuranti, che identifichino e rendano riconoscibile la presenza della Chiesa nelle città contemporanee.

Nella necessità di dare una forma eloquente ad assemblee rinnovate gli architetti hanno forse ammirato i Maestri, ma sono comunque dovuti andare alla ricerca di immagini, simboli, metafore o allegorie più avvicinabili, che potessero guidarli nella quotidianità dell’esercizio progettuale, per vincere la “paura del foglio bianco”. Passata l’illusione, talora simpaticamente o ingenuamente ideologizzata, che fosse sufficiente aderire scrupolosamente ai riti per fare una buona chiesa (il cosiddetto “funzionalismo liturgico”), diversi progettisti si sono interrogati su come rappresentare correttamente il rinnovamento ecclesiologico nella sua completezza, e come potesse ogni singola chiesa richiamare una Chiesa rinnovata, mondializzata e inculturata in ogni contesto, eventualmente anche con suggestioni poetiche, sacrali, luministiche, letterarie. La questione è particolarmente delicata per i complessi parrocchiali, che sono il tema progettuale più difficile, poliedrico e diffuso, riguardando non solo le chiese, ma anche le


Le Sacre Scritture hanno costituito la base dell’esegesi allegorica dell’edificio cultuale fin dalla patristica e dalla teologia medievale, in particolare quella vittorina. Le Scritture non sono però solo una chiave ermeneutica, ma anche un repertorio di immagini architettoniche o naturali di grande suggestione, sovente tradotte in metafore sottese a progetti di chiese contemporanee. opere pastorali, gli oratori, gli spazi comuni per la catechesi, la carità o lo svago, temi che a loro volta implicano l’uso di modelli o tipi diversi. Se santuari, cappelle private o altri generi di chiese possono tollerare derive liriche personali (e, non a caso, occupano le pagine delle riviste e dei siti di architettura glamour), un complesso parrocchiale deve essere a servizio di una comunità territoriale, in cui devono trovare medesima ospitalità diverse spiritualità, devozioni, culture, formazioni e – ormai – etnie e lingue. Una parrocchia non è un luogo “elettivo”, scelto da persone con sensibilità ed estetiche affini, ma un luogo che appartiene al proprio territorio, e di cui la comunità locale deve potersi appropriare. Passiamo brevemente in rassegna alcune fonti che hanno costituito modelli mentali, metafore, per alimentare le visioni di chiesa dei progettisti e dei committenti.

Una fonte primigenia: le immagini delle Sacre Scritture Le Sacre Scritture hanno costituito la base dell’esegesi allegorica dell’edificio cultuale fin dalla patristica e dalla teologia medievale, in particolare quella vittorina. Le Scritture non sono però solo una chiave ermeneutica, ma anche un repertorio di immagini architettoniche o naturali di grande suggestione, sovente tradotte in metafore sottese a progetti di chiese contemporanee. Le architetture bibliche sono poche e ben descritte: l’arca di Noè (ben nota nelle sue misure e proporzioni), la tenda del convegno (accuratamente descritta per materiali e procedure di montaggio), il tempio (sia quello costruito da Salomone, sia quello visto da Ezechiele), cui potremmo aggiungere altri contesti ambientali unici, quali il primigenio giardino dell’Eden, il deserto e le mon-

tagne sacre in tutta la loro possenza numinosa, o alcuni episodi specifici, come l’altare di Betel o la scala di Giacobbe. Se l’Antico Testamento alimenta immagini archetipiche, potenti, il Nuovo Testamento porge scenari più domestici e quotidiani – come le case in cui Gesù predica, le vie che frequenta, le barche dei suoi amici pescatori – o naturali – l’acqua corrente o un poggio ombreggiato – per arrivare all’unico vero “modello” di chiesa, ossia la stanza superiore addobbata del Cenacolo, cui gli apostoli arrivano seguendo l’uomo che porta la brocca d’acqua (Lc 22, 8-13). Interessanti però anche altre immagini forti che hanno nutrito l’immaginario artistico, quali il sepolcro vuoto, riletto nella storia come modello di fonte o di ambone, o – soprattutto – la Gerusalemme Nuova scesa dal cielo (Ap 21), modello architettonico e urbanistico della civiltà medievale. I settantatre libri del canone cattolico sono quindi “tenuti insieme” da due architetture potenti, che hanno alimentato per secoli l’immaginario formale cristiano: il giardino dell’Eden della Genesi (Gen 2) e la Città dell’Apocalisse, al cui centro si trova la piazza con l’albero della vita (Ap 22). La principale suggestione spaziale offerta dal Nuovo Testamento è, tuttavia, il Corpo di Cristo, proposto – soprattutto dalla teologia paolina – come “modello” di Chiesa e, per conseguenza, di chiese, radicalmente alternativo al tempio, destinato alla distruzione. Da tale teologia del Corpo sono derivate le chiese antropomorfe, soprattutto quelle cruciformi, che associano il segno cristiano per eccellenza con la perfezione proporzionale del corpo umano, asserita dalla cultura classica pagana e perpetuata da Vitruvio. L’adesione formale a tale metafora corporea pare tuttavia non essere più soddisfacente sia nella modernità (quando il Corpo di Cristo è l’Eucaristia, non l’impianto antropomorfo dell’edificio), sia nella contemporaneità, se non nella forma sublimata del segno della croce.

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Un repertorio di immagini aggiornato? Il Concilio Vaticano II

delle volte, deve essere spiegato, perdendo dunque quell’immediatezza che ogni simbolo deve avere).

I testi conciliari si misurano esplicitamente con alcune “immagini” di Chiesa, di evidenza visiva, ma di difficile traduzione in architettura. Le suggestioni principali vengono dalla costituzione ecclesiologica Lumen Gentium (21 novembre 1964) che, tuttavia, esordisce con una prima definizione di Chiesa come “mistero” (LG 3). La costituzione stessa propone esplicitamente alcune ”immagini” di Chiesa: “Come già nell’Antico Testamento la rivelazione del regno viene spesso proposta in figure, così anche ora l’intima natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri dei profeti” (LG 6). Le immagini proposte sono l’ovile e il gregge, il podere, la vigna, la dimora di Dio, la sposa mistica. Tuttavia, la categoria del Corpo di Cristo (LG 7) conserva la sua centralità teologica e figurativa, cui si affianca l’immagine del Popolo di Dio (LG 9), la cui traduzione spaziale si è però prestata negli anni successivi a interpretazioni più sociologiche e assembleariste, che teologiche e comunitarie. Il Concilio impegna dunque i progettisti in una lectio difficilior, che richiede l’interpretazione meditata dell’intero corpus magisteriale, e non la mera estrapolazione di citazioni citabili, di pretesti, di spunti su cui si corre il rischio di costruire non metafore, ma astruse allegorie.

Il modello è la casa originaria? Molti architetti hanno invece lavorato su un tema più sottile, più familiare, ma al tempo stesso più rischioso, ossia il tema della casa: non più la casa di Dio domus Dei, ma la domus ecclesiae delle comunità primitive, una chiesa domestica che si rifà ai modelli di vita apostolica, riletta anche come casa formata delle case di Dio che sono i corpi dei cristiani (citando Paolo Portoghesi). Case-chiese che funzionano bene non solo per riunioni intime, ma che – opportunamente rilette e amplificate – possono ospitare anche la vita dei centri parrocchiali. Non necessariamente la casa-chiesa deve sposare le teologie del nascondimento o del lievito nella pasta che – non prive di ambiguità – hanno goduto di un certo successo nell’occidente secolarizzato degli anni Settanta e Ottanta. Piuttosto, chiese-villaggio, costituite da insiemi di ambienti domestici, raccolti lungo sequenze di spazi aperti, in cui le comunità possano fare esperienza di vita comune a una scala vivibile e visibile.

Forse dal Concilio non può emergere un “tipo” o un “modello” fisicamente ripetibile, per-

Un bricolage figurativo di buona volontà In mancanza di modelli tipologici o figurali espliciti gli architetti si sono rivolti, per dare una “forma” al Popolo di Dio, verso un arcipelago di metafore variamente ispirate dal mondo biblico ed ecclesiale: la barca (di Pietro, ma anche l’arca di Noè, o la nave di Giona), la tenda (di Mosè, di Abramo, ma anche le tre tende – mai montate – della Trasfigurazione), la grotta (antro mistico, di Elia, ma anche luogo pastorale, di Betlemme), il manto (della Vergine, ma – perché no? – anche di san Paolo), la pietra (di Pietro, di Giacobbe), la montagna (del Sinai, del Tabor, degli Ulivi ecc.), la sorgente (del Giordano sull’Hermon, del tempio di Ezechiele, della Gerusalemme Celeste). Altre metafore hanno attinto da un repertorio antropomorfo più ampio, come le braccia aperte (se l’ha fatto Bernini …), o dal mondo della devozione mariana (la turris eburnea, l’arca dell’alleanza, la porta del cielo, la stella del mattino ecc.), o dalla natura (la valva di conchiglia, il cristallo, la foglia). La spasmodica ricerca di “riferimenti” ha spesso indotto all’abuso dell’allegoria o a derive iper-simboliche, in cui la forma dell’assemblea diventa una variabile di minor importanza rispetto al “messaggio” che la forma della chiesa offre (ma che, il più

Oppure la soluzione è l’azzeramento dei modelli?

All’opposto, l’azzeramento della metafora porta all’assolutizzazione della geometria, dei tracciati puri, in nome della totale aniconicità, dell’assenza di un’iconologia architettonica cristiana: i monoliti, i solidi stereometrici, i rapporti proporzionali, le meridiane di luce. Secondo Mario Botta è necessario azzerare le tipologie, ripartire dalla riflessione sull’assoluto, sul silenzio (e non sulla comunità e sulla storia). Eppure la forza memoriale del tipo, più che il suo valore funzionale, conserva un suo fascino culturale. In numerosi progetti degli ultimi due decenni il transetto, l’abside, la cupola, la facciata, il portale … non sono solo citazioni di una “tradizione” morta, ma elementi potenzialmente riattivabili, sia nei loro riferimenti teologici e liturgici, sia nel loro valore di immagine condivisa, di riferimento ecclesiale, ma anche civico, sociale, identitario. Edifici che sanno porsi come “monumenti” in senso etimologico del termine, ossia come luoghi di memoria condivisa. Possibilmente, anche di valori di convivenza condivisi.

La fatica del progetto e la cura del cantiere Forse dal Concilio non può emergere un “tipo” o un “modello” fisicamente ripetibile, perché le immagini di Chiesa sono plurali, e – ancor di più – perché la Chiesa è chiamata a incarnarsi in ogni diverso contesto in cui porta il proprio messaggio; la lectio faci-


ché le immagini di Chiesa sono plurali, e – ancor di più – perché la Chiesa è chiamata a incarnarsi in ogni diverso contesto in cui porta il proprio messaggio; la lectio facilior del prototipo pare estranea allo spirito del Concilio, oltre che al suo corpus testuale.

lior del prototipo pare estranea allo spirito del Concilio, oltre che al suo corpus testuale (e, peraltro, mi pare anche estranea alla storia dell’architettura cristiana nelle sue diverse periodizzazioni storiche, ma non c’è ora spazio per argomentarlo). Probabilmente dobbiamo cercare un modello non di forma, ma di azione: lavorare su un modello processuale da attuare nell’agire architettonico ecclesiale, nella progettualità che ogni comunità è chiamata a esprimere con discernimento e responsabilità. La storia dell’architettura non racconta semplicemente una sequenza di edifici esemplari, non è un album di figurine o un catalogo da cui scegliere, ma narra che la costruzione delle chiese è data da un dosaggio sapiente e faticoso di diversi elementi, tra cui possiamo individuare: - visioni di lungo periodo e ambizioni alte, ispirate a “modelli” ecclesiali (non formali o allegorici), stili di vivere la Chiesa, visualizzati architettonicamente da progettisti e committenti colti, pazienti, dialogici; - progetti che affrontano e risolvono problemi per parti, pur senza perdere di vista l’insieme, partendo dai nodi sentiti come centrali da ogni diversa comunità (si può partire dall’altare o dai percorsi rituali, oppure dalle relazioni con il contesto; si può iniziare il cantiere dalle opere pastorali per fare la chiesa alla fine, o si può iniziare dalla chiesa attorno a cui far crescere il villaggio parrocchiale, ecc.); - cantieri continui, non finalizzati a un’inaugurazione definitiva fatta sulla base di un progetto imperfettibile, ma scanditi da un continuo laborío progettuale, manutentivo, migliorativo, che di volta in volta prefigura e realizza nuovi assetti, che l’architettura sapiente deve saper ospitare. A cinquant’anni dal Concilio si può immaginare una “chiesa a forma di Chiesa”, e non a forma di qualcos’altro? Intendiamo, non l’auspicio di un ritorno a una “chiesa a forma di chiesa” nel senso di un richiamo figurativamente tradizionale o tradizionalista (un edificio che lavori sulla citazione, sulla memoria, sulla tipologia, sulla riarticolazione delle chiese storicizzate, o ritenute tali), ma il desiderio di una ricerca architettonica sul senso dell’ecclesiologia conciliare: chiese che sappiano raccontare una Chiesa dinamica, plurale e aperta, capace di rendersi viva in ogni contesto culturale, sapendosi di volta in volta rendere riconoscibile; una Chiesa capace di porre domande e risposte non assiomatiche o precostituite, ma costruite a partire dalla specificità di ogni comunità, nell’ambito di una cattolicità sempre più ampia e variegata.

Nota bibliografica Il tema dei modelli e dei tipi è stato oggetto di un vivace dibattito sulla rivista “Arte Cristiana”, aperto dal direttore Valerio Vigorelli nei numeri 878 (2013) e 880 (2014), cui hanno fatto seguito interventi nei fascicoli 881, 882, 884, 885, 886, 887, ripresi dalle Osservazioni conclusive di Vigorelli stesso nel fascicolo 889 (2015). La questione è stata approfondita da Giancarlo Santi, Modelli, tipi, prototipi, architetti e architetture di riferimento, in stampa nel volume Architettura e liturgia: autonomia e norma nel progetto, Bologna, Bononia University Press - Fondazione Lercaro, e da Birgit Kastner, L’immaginario delle chiese nell’architettura contemporanea: tenda, barca, manto, fabbrica …, relazione tenuta al XIV Convegno Liturgico Internazionale di Bose, che sarà pubblicata agli atti. Restano riferimenti ineludibili: Cettina Militello, La casa del popolo di Dio. Modelli ecclesiologici, modelli architettonici, Bologna, EDB, 2006; Severino Dianich, Immagine di

chiesa: la percezione della forma ecclesiae nello spazio della città postmoderna, in Il corpo del logos. Pensiero estetico e teologia cristiana, a cura di Pierangelo Sequeri, Milano, Glossa, 2009, pp. 125-178; Giancarlo Santi, “Una chiesa semplice, sobria, bella. Che cosa insegna la ‘chiesa garage’”, in Id., Architettura e teologia. La Chiesa committente di architettura, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2011, pp. 135-160. Sul tema del rapporto tra corporeità, persona e forma della chiesa rimando ad Andrea Longhi, Tempio e persona. Antropomorfismo e cristocentrismo nell’architettura cristiana (secoli XII-XVI), e Giorgio Della Longa, Tempio e persona nell’architettura delle chiese cristiane moderne e contemporanee, in Francesco Valerio Tommasi (a cura di), Tempio e persona. Dall’analogia al sacramento, Verona, Fondazione Centro Studi Campostrini, 2013, pp. 253-310.

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ETTORE SPALLETTI

Evangeliario ambrosiano, Veglia Pasquale (retro) , 2011


LA CELEBRAZIONE SECONDO LA RIFORMA LITURGICA FRA ADEGUAMENTO E NUOVE COSTRUZIONI Valerio Pennasso

Direttore dell’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici della CEI Responsabile per il Servizio Nazionale per l’edilizia di culto della CEI Profilo dell’autore Presbitero della Diocesi di Alba, già incaricato diocesano per i beni culturali ecclesiastici della Diocesi di Alba e per l’Edilizia di culto, Incaricato regionale per i beni culturali ecclesiastici del Piemonte e Valle d’Aosta, membro della Commissione Liturgica regionale del Piemonte e Valle d’Aosta, membro di commissione di alcuni Concorsi per l’adeguamento liturgico di chiese storiche e nuova edilizia di culto.

Il contesto all’interno del quale si muove il rinnovamento della liturgia e vanno ad applicarsi, in questi ultimi anni, gli interventi di “adeguamento” degli spazi liturgici esistenti alla liturgia e la realizzazione di quelli nuovi, lo possiamo rileggere alla luce del recente pontificato di Francesco. Proprio la Evangelii gaudium ci offre alcune chiavi di interpretazione che approfondiscono gli elementi essenziali dell’azione ispiratrice della realizzazione degli spazi liturgici delle chiese. 1. Il ruolo fondamentale è affidato al Popolo di Dio (EG nn. 111-134) “Tutto il popolo di Dio annuncia il vangelo” è il titolo della prima sezione del capitolo terzo dell’Evangelii gaudium che approfondisce le relazioni fra i membri della chiesa, i singoli fedeli e il popolo di Dio nel suo articolato e complesso agire. Un popolo non monolitico, ma articolato, composito, unito e multiforme. Un popolo di discepoli missionari, ciascuno chiamato e inviato dallo Spirito per realizzare un dialogo da persona a persona. Il Vaticano II stesso riprende la tradizione biblica, patristica e liturgica della Chiesa come Popolo messianico di Dio (LG 9-12). L’esperienza di Papa Francesco della Chiesa-Popolo di Dio si realizza in esperienze concrete della vita vissuta di chi si fa carico dell’uomo nella sua miseria. Su questa linea la missione della chiesa è quella di incontrare Cristo, anzi toccare Cristo, nei poveri (EG 270). La chiesa è il corpo di Cristo, nelle ferite degli altri tocchiamo le ferite di Cristo: «tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me» (Mt 25,40). Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo (EG48). La Chiesa deve porsi in ascolto del popolo e non può prescindere da questo ascolto della vita, attraverso quegli strumenti e organismi di partecipazione e di dialogo pastorale. Non sono organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti. (EG 31) 2. La pietà popolare può esprimere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi (EG 123). Nella pietà popolare, poiché è frutto del Vangelo inculturato, è sottesa una forza attivamente evangelizzatrice che non possiamo sottovalutare: sarebbe come disconoscere l’opera dello

La Evangelii gaudium ci offre alcune chiavi di interpretazione che approfondiscono gli elementi essenziali dell’azione ispiratrice della realizzazione degli spazi liturgici delle chiese.

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Spirito Santo (EG 126). Papa Giovanni Paolo II segnalava nella Vicesimus quintus annus che per molti il messaggio del Concilio Vaticano II è stato percepito mediante la riforma liturgica» (n. 12). Proprio attraverso la Sacrosanctum Concilium alcune novità fondamentali vengono riconsegnato alla comunità attraverso la liturgia. 1. La liturgia è opera di Dio. Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche» (SC7). Il primo attore di ogni azione liturgica è sempre il Cristo che si manifesta hic et nunc nella Chiesa. 2. La liturgia attua l’opera della redenzione. La SC (5.6.7) mette in luce il cristocentrismo pasquale. Senza Gesù, Figlio di Dio, storicamente risorto da morte e assiso alla destra del Padre, nella perenne effusione dello Spirito, la liturgia verrebbe fraintesa e ridotta a una buona notizia religiosa, proveniente da una iniziativa dell’uomo, ma non sarebbe la liturgia cristiana in cui è in atto l’opera della nostra redenzione. 3. L’assemblea è il soggetto celebrante. Nella celebrazione la Chiesa intera – sacerdote e fedeli – compie tutta l’azione eucaristica, in quanto uno solo è il soggetto che compie l’azione liturgica: «Noi». Il soggetto integrale della celebrazione è uno solo: l’assemblea liturgica gerarchicamente costituita. Purtroppo la liturgia è stata colta più come oggetto da riformare che come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui «esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa […] dalla liturgia attinge la forza per la vita» (Giovanni Paolo II, Vicesimus quintus annus, 1988 n. 4) “Costruire una chiesa «di pietre» esprime una sorta di radicamento della chiesa «di persone» nel territorio (plantatio ecclesiae), il che esige un discernimento della comunità a cui il nuovo edifico è destinato” (cf. Nota Pastorale CEI La progettazione di nuove chiese,3). Un approccio che curi particolarmente l’aspetto ecclesiologico risulta di fondamentale importanza durante tutto lo sviluppo del processo (adeguamento di edifici storici o progettazione di nuovi edifici), dalla fase di approfondimento della conoscenza fino alle problematiche inerenti la gestione e la manutenzione del bene. La proposta di metodo dei Concorsi nazionali per progetti pilota per la realizzazione di nuove chiese è confluita nella nuova iniziativa dei Percorsi Diocesani per andare incontro ad una “necessità di Chiesa” mediante il coinvolgimento delle comunità sul territorio (dalla committenza diocesana, alla comunità parrocchiale, ai gruppi di progettazione…). La prospettiva nel tempo sarà la sempre più ampia diffusione, a livello locale, del percorso.

La proposta di metodo dei Concorsi nazionali per progetti pilota per la realizzazione di nuove chiese è confluita nella nuova iniziativa dei Percorsi Diocesani per andare incontro ad una “necessità di Chiesa” mediante il coinvolgimento delle comunità sul territorio. La prospettiva nel tempo sarà la sempre più ampia diffusione, a livello locale, del percorso.


ETTORE SPALLETTI

Evangeliario Ambrosiano, Esaltazione della Santa Croce, 2011


PROGETTI PILOTA E CONCORSI: SINTESI CRITICA DI UN DECENNIO Laura Fagioli

Profilo dell’autore Architetto, ha frequentato il Master “Architettura e arti per la liturgia” presso il PIL S. Anselmo. Dal 2006 collabora con il Servizio Nazionale per l’edilizia di culto della CEI, dove svolge attività di supporto al Comitato analizzando l’architettura delle chiese. Relatrice in corsi e convegni; coordinatrice delle rubriche “Una chiesa al mese” e “Un libro al mese”. Responsabile del coordinamento dei Concorsi “Progetti Pilota”, di cui ha curato le pubblicazioni allegate a Casabella e le mostre presso Sala1 (2006, 2008) e presso il MAXXI (2011). Dal 2013 Tutor nei “Percorsi Diocesani”; nel 2015 partecipa alla redazione del Manifesto CEI “Progettare città per le persone”.

La prima edizione dei Concorsi Nazionali per Progetti Pilota della Conferenza Episcopale Italiana per la progettazione di nuovi complessi parrocchiali risale al 1998. Da allora si sono avute complessivamente sei edizioni che hanno visto coinvolte diciotto diocesi. La lungimiranza della scelta riconosceva nella procedura concorsuale la strada maestra da percorrere con lo scopo di innalzare la qualità: qualità del prodotto architettonico, ma soprattutto qualità del processo. I Progetti Pilota hanno costituito il terreno di sperimentazione di una proposta metodologica fondata sul coinvolgimento di tutti i soggetti del processo edilizio e incentrata su alcuni elementi essenziali come la già menzionata procedura concorsuale e la costituzione di gruppi di progettazione, obbligatoriamente composti da professionisti afferenti alle tre discipline ineludibili nella progettazione di chiese: architettura, arte e liturgia. La scelta del concorso a inviti derivava appunto dalla necessità di instaurare un serrato dialogo tra committenza e progettazione. Le ultime tre edizioni dei concorsi, coordinate dal Servizio Nazionale per l’edilizia di culto della CEI, hanno avuto luogo rispettivamente negli anni 2006, 2008, 2011. In particolare le ultime due hanno introdotto alcune novità, sempre nell’ottica di valorizzare il ruolo delle committenze diocesane e di incentivare il fondamentale dialogo di queste con i gruppi di progettazione. Oltre alle attività di formazione (incontri, seminari, sopralluoghi …) il Servizio ha iniziato ad elaborare strumenti finalizzati alla strutturazione organica della documentazione. L’ultima edizione ha sperimentato la gestione elettronica integrale del concorso; la tipologia ad inviti, in forma anonima, è stata arricchita da un doppio livello di giuria, di cui il secondo a livello diocesano nella visione di una committenza coinvolta come protagonista della procedura. La consapevolezza del ruolo del committente ha però riguardato in particolar modo le fasi iniziali durante le quali il Servizio ha svolto un ruolo di accompagnamento nella redazione degli Studi di Fattibilità e del Documento Preliminare alla progettazione, evidenziando il ruolo fondamentale del Responsabile del procedimento. La mostra del 2013 al MAXXI, accanto ai progetti che hanno partecipato al concorso, ha illustrato le fasi della procedura, ha spiegato l’efficacia della metodologia dei Progetti Pilota.

La lungimiranza della scelta riconosceva nella procedura concorsuale la strada maestra da percorrere con lo scopo di innalzare la qualità: qualità del prodotto architettonico, ma soprattutto qualità del processo.


L’esperienza dei concorsi nazionali, confrontata con quella derivante dal lavoro ordinario sulle pratiche di richiesta di finanziamento per la costruzione di nuove chiese, ha condotto il Servizio Nazionale per l’edilizia di culto alla formulazione di una nuova iniziativa: i Percorsi Diocesani. L’esigenza di valorizzare le risorse sul territorio, la necessità di sperimentare sul campo la metodologia proposta mediante un lavoro concreto “con le persone” recepiva la “necessità di Chiesa”, l’esortazione all’approccio ecclesiologico ben esplicitata nelle Note Pastorali.

L’esperienza dei concorsi nazionali, confrontata con quella derivante dal lavoro ordinario sulle pratiche di richiesta di finanziamento per la costruzione di nuove chiese, ha condotto il Servizio Nazionale per l’edilizia di culto alla formulazione di una nuova iniziativa: i Percorsi Diocesani. L’esigenza di valorizzare le risorse sul territorio, la necessità di sperimentare sul campo la metodologia proposta mediante un lavoro concreto “con le persone” recepiva la “necessità di Chiesa”, l’esortazione all’approccio ecclesiologico ben esplicitata nelle Note Pastorali. Le tre diocesi selezionate, Forlì - Bertinoro, Lucca e Monreale, sono state accompagnate nel percorso da una concreta attività di tutoraggio da parte del Servizio che, mediante questa particolare esperienza di sperimentazione diretta, ha potuto affinare la metodologia per giungere all’elaborazione di linee guida strutturate come strumento a disposizione di tutte le diocesi italiane. Il lavoro, incentrato sul continuo dialogo tra le diverse componenti, ha visto la figura del Responsabile del Procedimento come coordinatore di tutte le fasi. La formazione ha costituito lo strumento essenziale per incentivare la consapevolezza e l’autonomia delle comunità sul territorio: la committenza diocesana, la comunità parrocchiale, i gruppi di progettazione, la cittadinanza. Pianificazione, programmazione, progettazione si sono concretizzate in approfonditi strumenti di lavoro (Studi di Fattibilità, Documento preliminare alla progettazione, Bando di concorso) prodotti mediante un concreto processo partecipativo. Nel giugno 2015 sono stati proclamati i progetti vincitori che ora stanno proseguendo il cammino finalizzato alla realizzazione degli edifici.

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UN PROGETTO PER LA NUOVA CHIESA DEL VARIGNANO - VIAREGGIO Studio TAMassociati

Sostenibile significa semplice. Questa affermazione fornisce la chiave di lettura utilizzata da TAMassociati per affrontare il tema proposto dal concorso per il nuovo complesso parrocchiale “Resurrezione di Nostro Signore” a Viareggio nel quartiere Varignano. La semplicità è stata considerata la strategia più efficace per affrontare ogni decisione di progetto, senza per questo perdere di vista gli standard qualitativi richiesti, coniugando architettura, sostenibilità e bellezza. Ripensare alle potenzialità della “semplicità” è stata la visione che ha guidato il progetto vincitore del concorso indetto dalla Arcidiocesi di Lucca, esito dell’iniziativa “Percorsi diocesani 2013” della Conferenza Episcopale Italiana.

La nuova chiesa somiglia…

TAMassociati opera nell’ambito dell’architettura e comunicazione per il sociale. TAM si basa su un’idea concreta: coniugare impegno civile e professione. È’ uno studio creativo a servizio delle istituzioni pubbliche, delle organizzazioni non profit e di quella società civile attenta ai valori di equità, sostenibilità, sviluppo dei beni comuni. TAMassociati ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti internazionali, tra cui recentemente: Premio Architetto Italiano dell’anno 2014, Zumtobel Group Award 2014, Premio Aga Khan per l’Architettura 2013, Premio Curry Stone Design Prize 2013, Medaglia d’oro G. Ius – Premio Capocchin 2013.

1, 2. Viste di progetto del sagrato e dell’aula del nuovo complesso parrocchiale Resurrezione di Nostro Signore a Viareggio (LU) - Progetto TAMassociati

La nuova chiesa della Resurrezione non vuole cancellare l’identità dell’attuale edificio, nè vuole “dimenticare” una memoria così stratificata e condivisa nel Varignano. Vuole piuttosto comprendere le ragioni e la forza di quel progetto, e restituirle alla comunità in un nuovo edificio ed in nuovo contesto, bello ed accogliente, che contenga il senso ed il valore di quell’esperienza, rinnovandone la grande originalità. L’attuale edificio costituisce, infatti, una memoria viva di come la Chiesa abbia partecipato in modo attivo ai grandi cambiamenti sociali e culturali avvenuti in questo Paese; e anche in forza di questo, l’edificio, nonostante lo stato attuale di degrado, mantiene il suo importante valore identitario e simbolico per tutti gli abitanti del quartiere, e per chiunque voglia leggerne il significato. Pensiamo quindi che la nuova chiesa debba rinascere (risorgere) dalle proprie radici, fatte di “coraggio” e “semplicità”. Per questa ragione tutte le scelte progettuali sono improntate ad una sobrietà concettuale e costruttiva, che rifugga ogni tipo approccio “monumentale” (inadatto al luogo ed alla sua storia) e metta, piuttosto, l’accento sui caratteri di “solidarietà” ed “accoglienza” che hanno caratterizzato da sempre la vita di questa parrocchia e dell’intero quartiere. In questa prospettiva non vengono definite delle “pertinenze” esterne, ma si sviluppa nel progetto un unico edificio, che contiene al suo interno tutte le specificità richieste del programma liturgico e pastorale. Aula liturgica e spazi parrocchiali, pur architettonicamente distinti in due corpi di fabbrica, sono legati da un unico basamento il quale dona unità all’edificio e interagisce in modo differenziato con lo spazio esterno. Sagrato, esonartece e giardino diventano quindi spazi aperti in grado di ospitare diverse funzioni, spazi di mediazione e incontro, pensati per ospitare tutta la comunità.

La nuova chiesa dialoga… L’attuale frammentazione urbana troverà nel nuovo edificio un elemento ordinatore in grado di costruire nuove relazioni con il contesto, cercando di arricchire il rapporto di interscambio tra chiesa e ambiente circostante. Il disegno degli spazi esterni concorre così a determinare un forte grado di permeabilità, che l’edificio suggerisce nei suoi affacci “pubblici”. La progettazione del verde farà pensare ad una chiesa collocata in un giardino, un luogo di accoglienza e di partecipazione, da affidarsi anche alla cura della comunità. Il giardino diventerà una cerniera tra l’edificio e il nuovo parco urbano, a disegnare tutto il fianco della chiesa rivolto verso la nuova edificazione residenziale. La chiesa, con il suo corredo di piante ed alberi, diventerà lei stessa “porta del parco”, agendo come forza trainante del cambiamento ed integrandosi in modo organico nel nuovo disegno di sviluppo e di riqualificazione del quartiere.

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ARCHITETTURA DELLO SPAZIO SANTO. CHIESE MODERNE PRE-CONCILIARI Tino Grisi

Università degli Studi di Bergamo Profilo dell’autore Architetto e libero ricercatore, laureato al Politecnico di Milano, è Dottore di ricerca in Ingegneria edile-Architettura presso l’Università di Bologna: la tesi di dottorato è pubblicata in edizione bilingue (italiano-tedesco). Ha conseguito il Master di II livello in Progettazione e adeguamento di chiese alla Sapienza di Roma. Co-curatore del volume Le cattedrali della Lombardia. L’adeguamento liturgico delle chiese-madri della regione ecclesiastica Lombarda, è stato progettista invitato al 6° Concorso pilota CEI. Svolge attività didattica come Cultore della materia in Composizione architettonica presso il Dipartimento di Ingegneria e scienze applicate dell’Università di Bergamo. Collabora alla rivista di architettura Arketipo.

Le iniziali tracce di modernità impresse sugli edifici per il culto cattolico sono dovute alla tecnica.1 St. Jean a Montmartre (Anatole de Baudot, 1904) è la prima chiesa in cemento armato, ma, in effetti, il nuovo materiale è qui utilizzato per geometrizzare un generico schema di chiesa basilicale e permettere specifiche variabili decorative e luministiche nella tessitura delle volte e delle pareti. Il progetto si ferma così a una raffigurazione eclettica della struttura e determina uno spazio liturgico piuttosto passivo e del tutto visuale. Anche Auguste Perret a Nostra Signora di Raincy (1923) crea un involucro prettamente strutturale nel quale, tuttavia, il cemento si mostra al vivo in colonne, coperture ribassate e pannelli parietali traforati; nonostante ciò, lo spazio celebrativo è la classica replica di un impianto trinavato, caratterizzato dal differente orientamento delle volte e scandito da campate uguali, dove l’assemblea dei fedeli occupa la parte mediana, ben distinta dal presbiterio isolato nelle due porzioni finali. Karl Moser s’ispira dichiaratamente a Perret nel comporre l’Antoniuskirche a Basilea (1927), una chiesa urbana completamente inserita nel fronte viario. Eppure, l’uso del cemento comincia a perdere i meri connotati materici, trasfigurati dall’impalpabile decorazione prodotta sui sottili pilastri e i semplici setti murari dal passaggio della luce attraverso le vetrate colorate. Le proporzioni dilatate della nave centrale e la parete piatta con il crocifisso, oltre l’altare, accentuano l’impressione di unitarietà dello spazio; anche la posizione dei pilastri è dichiaratamente in relazione all’assemblea: non la limitano, 1 Per le chiese della prima metà del Novecento si veda: Wolfgang Jean Stock, Europäischer Kirchenbau / European Church Architecture 1900-1950, München/Berlin/London/New York, Prestel, 2006.

1. Vista interna della Antoniuskirche a Basilea (foto Tino Grisi)

ma si fanno avvolgere da essa. È solo con la chiesa del Corpus Domini ad Aquisgrana (1930), eretta da Rudolf Schwarz, che si evidenziano il distinguo da ogni tendenza razionalista/funzionalista e il rifiuto dell’estetizzazione della tecnica. L’edificio ha un’ossatura portante in calcestruzzo armato, però racchiusa tra due pareti in conglomerato di pomice, e una copertura in carpenteria metallica, velata dal controsoffitto piano: ciò lo rende strutturalmente simile a un castello di carte, dove nessuna nervatura è posta in evidenza. L’unico segno visivamente portante, il setto dove poggia il pulpito, sembra avere una posizione libera e variabile, pare poter scorrere lungo il bordo del soffitto in rapporto al fianco dell’assemblea.2 Secondo Romano Guardini, l’ordine dello spazio santo si rintraccia in un triplice orientamento: dalla luce della Parola a 2 v. Wolfgang Pehnt e Hilde Strohl, Rudolf Schwarz 1897-1961, Electa, Milano, 2000, pp. 81-88 (Rudolf Schwarz. Architekt einer anderen Moderne, Verlag Gerd Hatje, Ostfildern, 1997).

L’ordine dello spazio santo si rintraccia in un triplice orientamento: dalla luce della Parola a penetrare la tenebra; verso la presenza di Cristo nell’altare; dell’anima rivolta dal basso alla benedizione dell’Altissimo.

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penetrare la tenebra; verso la presenza di Cristo nell’altare; dell’anima rivolta dal basso alla benedizione dell’Altissimo.3 Nel progetto di Emil Steffann4 per una piccola chiesa in un sobborgo di Lubecca (1938) vediamo un edificio di apparente elementarità inserito in quest’ordine direzionato. Una grande finestra arcuata serve a collocare la chiesa nel cosmo, secondo un orientamento con il Sole e la Stella Polare. Gli assi s’intersecano così, invisibilmente, in un unico spazio ove sorge una direzionalità cruciforme, senza che esso assuma la determinata forma di una croce. L’ala con l’ingresso, gli ambienti di servizio e la sala parrocchiale forma, invece, in prospetto e in sezione, una ricorsività scalare ruotata del volume della chiesa. Bisogna, infatti, considerare come il primato della liturgia non esaurisca in sé l’azione di una Chiesa che plasma la sua testimonianza terrena quale teologia della comunione.5 Nel progetto per il centro parrocchiale di Sant’Anna a Berlino (1936), steso a quattro mani da Schwarz e Steffann, l’ambiente trasversale dell’endonartece è lo 3

Romano Guardini, I santi segni, Morcelliana, Brescia, 1930, 8a ed. 2000, pp. 189–190 (Von heiligen Zeichen, 1922).

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Per l’approfondimento di tutte le chiese di Steffann si rimanda a: Tino Grisi, “Können wir noch Kirchen Bauen”/“Possiamo ancora costruire chiese?”. Emil Steffann und sein/ e il suo Atelier, Schnell und Steiner, Regensburg, 2014.

5 v. Albert Gerhards, “La liturgia. Diaconia per la città degli uomini”, in Goffredo Boselli (a cura di), Chiesa e città, Atti del VII Convegno liturgico internazionale di Bose, Edizioni Qiqajon, Magnano, 2010, pp. 97-111.

2. La navata della chiesa del Corpus Domini ad Aquisgrana (foto Tino Grisi) 3. Disegni di progetto della cappella a Schlutup di Emil Steffann (Archiv Hülsmann) 4. St. Wolfgang a Regensburg (foto Tino Grisi) 5. Scatti d’epoca dell’interno di San Felice a Centocelle (A. Cassi Ramelli, Edifici per il culto, tav. XX) 6. Giuseppe Terragni: Cattedrale (disegno n. 0454)


strumento spaziale di una misura spirituale opposta all’anonimato di massa della metropoli. Il parallelepipedo degli spazi pastorali viene unito, in un sol corpo, all’aula celebrativa attraverso l’atrio, dove è la presenza sacramentale del fonte battesimale. L’altare è interamente circondabile e la forma dell’assemblea è per blocchi disposti liberamente di fronte e a lato della mensa. Vediamo questo schema distributivo multilaterale della congregazione pienamente applicato per la prima volta da Dominikus Böhm nella chiesa di St. Wolfgang a Ratisbona (1938).6 All’interno della pianta quadrangolare s’individua un inserimento cruciforme estruso dal volume di base: Böhm non rifiuta qui riferimenti, anche pittoreschi, all’architettura storica i quali si rivelano, in realtà, strumento per modellare la pressione spaziale e l’incidenza della luce, introducendo all’aerea composizione del santuario. Nel periodo, in Italia, si segnala la chiesa di San Felice nel quartiere romano di Centocelle (1934),7 opera di Mario Paniconi e Giulio

sacerdote si rivolga al popolo durante la preghiera eucaristica. In piccoli progetti precedenti, come quello per una chiesa rurale nella diocesi di Messina (1933), vediamo un edificio ad aula unica, con la dislocazione all’ingresso del fonte battesimale e la presenza del luogo della parola al limitare del presbiterio appena rialzato. Curiosamente, questo progetto, destinato a un luogo mediterraneo, ricorda la chiesa Stella Maris di Dominikus Böhm, costruita su un’isola nel mare del Nord (1931). L’ingresso è segnato dall’arco rettilineo della campana e, anche qui, un prisma bianco continuo, solo limitato in alto dalla sottile linea della copertura, definisce l’intero edificio per il culto. L’aula liturgica a tutta altezza succede all’atrio e alla cantoria ritagliata sul fianco, mentre la polarità orientante dell’altare a dossale si sovrappone al segno di speranza della grande pala raffigurante la Vergine. Un partito decorativo pittorico che nasce da un avancorpo sospeso e si prolunga nell’abside caratterizza anche l’ultimo progetto di Giuseppe Terragni. Disegna-

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Pediconi. Si tratta di uno spazio lontano dal linguaggio sia accademico sia razionalista e che appare quasi ispirato dal classicismo nordico e dalla plastica novecentista, nel disegno limpido come nell’accentuazione del vuoto. Attraverso pochi segni significanti, distribuiti lungo i percorsi liturgici, e la sobria luminosità radente, la chiesa si mostra di una nuda verità e di un’intensa forza sacramentale. Nello studio di chiesa moderna di Cesare Cattaneo, insieme al pittore Mario Radice (1939),8 troviamo una decisa adesione spaziale ai principi del Movimento Liturgico. In una pianta a settore circolare l’assemblea è raccolta a ventaglio attorno al presbiterio rotondo, coperto dalla cupola; l’altare è situato in modo che il

ta pochi giorni prima di morire, dopo il disperato ritorno dal fronte russo, la cattedrale (1943) è una figura iperbolica che trascorre da un ampio arco ribassato in facciata verso la tesa curvatura dell’abside. Privo di committenza e di un luogo, il progetto aspira a una “monumentalità atmosferica”,9 dove la volta sottile potrebbe apparire come un mantello pietosamente steso sull’assurda rovina del tempo. Una lirica dimostrazione di fede, dunque, non ancora un luogo di preghiera. In effetti, in Europa le cattedrali s’innalzano, in quel momento, tra cumuli di macerie.10 Anche la cittadina di Dorsten, in Vestfalia, è rasa al suolo il 22 marzo 1945 con la chiesa settecentesca delle Orsoline e la loro scuola. L’edificio della Santa Croce viene rico-

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Sull’opera di Dominikus Böhm: Wolfgang Voight e Ingeborg Flagge, Dominikus Böhm 1880-1955, Ernst Wasmuth Verlag, Tübingen/Berlin, 2005.

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Documentata in: Antonio Cassi Ramelli, Edifici per il culto, Vallardi, Milano, 1949.

8 Sui progetti di Cattaneo: Maria Antonietta Crippa e Damiano Cattaneo (a cura di), È Dio il vero tema. Cesare Cattaneo e il sacro, Archivio Cattaneo, Cernobbio, 2011.

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Attilio Terragni, “Una vecchia storia sempre attuale e nuova”, in Valerio Paolo Mosco, L’ultima cattedrale, Sagep Editori, Genova, 2015, p. 38.

10 Per le chiese successive alla seconda guerra mondiale: G E Kidder Smith, The new churches of Europe, Holt Rinehart and Winston, New York/Chicago/San Francisco, 1963.


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struito da Emil Steffann (1958): una parete rettangolare in arenaria dorata si sovrappone e sovrasta il corpo della navata, come fosse una parentesi segnaletica e protettiva del luogo liturgico, lasciando apparire, appena alle sue spalle, la porta incisa nel profilo in laterizio della chiesa. Un moncone di trave alta e sottile disegna un portale atmosferico, ancorandosi al nuovo volume della scuola. Il lirismo del manto fluttuante di Terragni si trasforma ora in un’immagine epica, carica di materia e di tempo: un drappo che rivela nascondendo. Anche il nuovo santuario di Ronchamp (1955) viene eretto dopo che sulla collina di Bourlémont era passata la guerra, rovinando l’edificio medievaleggiante il quale, nel 1913, aveva sostituito, dopo un incendio, la prima costruzione settecentesca riadattata nel corso dell’Ottocento; la cappella di Le Corbusier occupa lo stesso luogo di pellegrinaggio sulla sommità dei Vosgi.11 Ronchamp appare come un luogo rovesciato che rinvia all’altrove: tutta la sua composizione ci conduce a recingerlo, circondarlo, prima di accorgerci che si tratta di un assemblaggio provvisorio, di un esterno che riempie un interno come srotolato lì, solo di passaggio. Le tre polilinee di cui si compone la pianta appaiono autonome l’una dall’altra: il muro a sud raccoglie il cammino dei pellegrini insieme alla torre prominente, la parete est riceve e orienta il loro radunarsi. La cappella è in realtà un luogo di raccoglimento, mentre l’assemblea liturgica si forma nel paesaggio; all’interno tutte le linee curve sembrano avere un moto gravitazionale verso la mensa, ma la fila di panche segue in realtà la direzione del muro maggiore inclinato e si rivolge alla finestrella che custodisce l’immagine mariana, incastonata nella parete orientale. Essa è l’unica sporgente all’esterno, verso il portico che protegge il presbiterio all’aperto, rappresentando l’autentico passaggio di comunicazione tra dentro e fuori. La contemporanea chiesa di Schwarz Maria Regina a Saarbrücken (1954) è costruita 11 Su Ronchamp: Jean Petit, Le livre de Ronchamp. Le Corbusier, Les cahiers forces vives, s.l., s.d.; Danièle Pauly, Ronchamp. Lecture d’une architecture, Ophrys, Paris, 1980.

7. Facciata della chiesa Heilig Kreuz a Dorsten (foto Tino Grisi) 8. Immagine interna d’epoca del santuario di Ronchamp (foto G E Kidder Smith) 9. Ronchamp: la celebrazione liturgica all’aperto (foto Charles Bueb) 10. Chiesa di Maria Regina a Saarbrücken (foto Tino Grisi)



11. Vista dal presbiterio verso l’assemblea in San Lorenzo a Monaco (foto Tino Grisi) 12. La chiesa dell’Immacolata a Bologna (foto G E Kidder Smith) 13. Interno pre-conciliare dei Santi Martini di Schwarz a Colonia (foto Christof Pfau) 14. Santissima Trinità a Norimberga, vista verso l’altare (foto Tino Grisi)


anch’essa sopra un pendio e il suo disegno è determinato dall’incrocio di due ellissi, in modo che appaia come una mole convessa in arenaria rossa. Ne nasce, nel complesso, una figura aperta, derivata da una matrice cruciforme, che si rivela, nel susseguirsi della pienezza muraria delle testate con il taglio vetrato parabolico degli angoli, quasi come una corona o rosa mistica. La comprensione di questa figura non può fermarsi però a una percezione pittorica dell’immagine, cogliendone un vago richiamo simbolico, bensì deve afferrare il suo essere chiesa, esposta come figura abitabile e posta sul passaggio aperto a una visione spirituale del mondo. La posizione dell’altare, all’intersezione delle quattro conche absidate, genera, per l’assemblea, proprio il valore e il significato del disporsi verso questa soglia spirituale. Il paradigma architettonico dell’opera di Emil Steffann nel dopoguerra è la chiesa di San Lorenzo a Monaco (1957), fin dall’inizio concepita e utilizzata, ben prima della riforma liturgica, per la celebrazione rivolta ai fedeli. Nondimeno, l’orientamento verso ovest dell’abside consente al sacerdote di continuare ad avere, durante la preghiera eucaristica, come nella tradizione cristiana e secondo il costume romano, il viso rivolto al sole nascente la cui luce filtra dalla fuga di finestre dell’attico orientale. Il fedele non entra direttamente nello spazio principale, ma in una navata parallela che si apre e conduce lateralmente all’altare dell’adorazione eucaristica. La mensa del sacrificio è, invece, sotto il soffitto a due falde rivestito in doghe d’abete dipinte in verde, appena sollevate sul bianco calce dei muri: presenza che unisce e non delimita, essa orienta l’abbraccio avvolgente dell’assemblea circostante. La chiesa dell’Immacolata di Glauco Gresleri (1961), concepita come una variegata struttura in cemento a vista appena sospesa sui muri bianchi strollati, in un evidente richiamo a Le Corbusier, è l’esempio tra i più interessanti prodotti dal cosiddetto laboratorio bolognese all’epoca dell’arcivescovo Lercaro.12 In un’aula quadrangolare, tracciata liberamente tra il reticolo dei pilastri e preceduta dall’atrio con il fonte battesimale e lo spazio per l’adorazione, l’assemblea si raduna sui tre lati attorno all’altare.

In un contesto di ricerca espressiva, forse ridondante, dei singoli elementi costruttivi, è la cappella feriale ad apparire significativamente capace di orientare la preghiera in un ambiente direzionato e di avvolgente semplicità, appena rotto dal taglio verticale della finestra sporgente. Non mancano, anche in questo periodo, esempi di edifici per il culto dove è la dimensione tecnica a caratterizzare l’architettura religiosa. La chiesa di Nostra Signora della Misericordia a Baranzate (1958), nella diocesi di Milano,13 ha una struttura di colonne, travi e solette nervate a vista interamente prefabbricate e un tamponamento realizzato con pannelli in vetro e polistirene. Una luminosità radiante si diffonde equamente da tutti i lati dell’involucro scatolare, mentre la parte alta dei fronti rimane trasparente verso il cielo. All’aula liturgica si accede lateralmente e dal basso, attraverso una rampa di scale che media il passaggio dall’umbratile spazio d’ingresso posto a livello terreno. Siamo comunque lontani dalla maniera sensibile con cui Rudolf Schwarz, nella chiesa dei Santi Martiri a Colonia (1954), ritaglia e sospende a quattro pilastri giganti che appaiono, assieme, elementi di fondazione del luogo liturgico e il rinvenimento di una struttura già esistente, un involucro disponibile al transito della luce e della fede, per mezzo solo di una sottile trama lineare dorata. Chiudo questa rassegna con un edificio proprio realizzato durante il Concilio Vaticano II, la chiesa intitolata alla SS. Trinità a Norimberga, opera di Alexander von Branca (1964).14 È un edificio a pianta ovale con un vano d’ingresso e un vano absidale raccordati dall’ambulacro colonnato; alle estremità dell’asse trasversale si aprono il battistero e la cappella feriale, mentre l’altare è in posizione avanzata e consente all’assemblea di disporsi secondo lo schema tripartito. La costruzione povera di quest’architettura, con il mattone che dalle pareti si ripete a terra nel percorso anulare, le colonne e la trabeazione in cemento a vista, il muro bianco su cui poggia con levità la semplice copertura di legno, annuncia e rivela la presenza estetico-teologica di un nuovo, eppur sempre ripetuto, fondamento.

12 Si veda: Glauco Gresleri, Maria Beatrice Bettazzi e Giuliano Gresleri, Chiesa e Quartiere. Storia di una rivista e di un movimento per l’architettura a Bologna, Editrice Compositori, Bologna, 2004.

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La chiesa dell’Immacolata di Glauco Gresleri (1961) è l’esempio tra i più interessanti prodotti dal cosiddetto laboratorio bolognese all’epoca dell’arcivescovo Lercaro.

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Sull’edificio il volume a cura di Giulio Barazzetta, La chiesa di vetro di Angelo Mangiarotti, Bruno Morassutti, Aldo Favini la storia e il restauro, Electa, Milano, 2015. Documentata in: Pina Ciampani, Il luogo dell’incontro. L’architettura nei luoghi di culto, Electa, Milano, 2002.

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ETTORE SPALLETTI

Evangeliario ambrosiano, Assunzione della Beata Vergine Maria - Messa nel Giorno, 2011


ARCHITETTURE DI CHIESE CONTEMPORANEE. LE CONDIZIONI DEL PROGETTO Luigi Bartolomei

Parole chiave: architettura sacra, composizione architettonica, estetica delle chiese, arte sacra, secolarizzazione Profilo dell’autore Laureato in Ingegneria edile nel 2003 ed è ricercatore (rtd A) presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, ove nel 2008 ha conseguito il dottorato di ricerca in Composizione architettonica sui temi del progetto dello spazio sacro nella società contemporanea. Si occupa specialmente dei rapporti tra sacro e architettura, in collaborazioni formalizzate con la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna ove è professore invitato per seminari attinenti alle relazioni tra liturgia, paesaggio e architettura. Presso la Scuola di Ingegneria e Architettura di Bologna insegna Composizione architettonica e urbana, ed è stato docente di Architettura del paesaggio e delle infrastrutture. È collaboratore de “Il Giornale dell’Architettura” e direttore della rivista scientifica del Dipartimento,

Nonostante una generale diminuzione del clero e dei fedeli in occidente, il numero delle chiese in Italia presenta un pur flebile aumento tendenziale. Ciò si realizza perché alle chiese storiche, disseminate nelle campagne o sugli Appennini, si vanno aggiungendo quelle che inseguono la mobilità della popolazione contemporanea nelle cinture urbane e nelle periferie. Sulla scia di un inurbamento che, con diverse velocità, perdura dalla fine del secondo conflitto mondiale, anche gli edifici di culto hanno partecipato al boom edilizio tanto che nessuna epoca storica ha visto l’edificazione di tante chiese come gli ultimi 60 – 65 anni. Di qui la difficoltà di redigere un catalogo o un atlante generale, ancora assente nella bibliografia italiana ed europea1 e certamente lontano dalle pretese di questo breve intervento. Ciò che qui mi propongo di fare è piuttosto tentare di abbozzare il comune contesto culturale e specialmente architettonico-produttivo delle più recenti realizzazioni. Vorrei cioè porre al centro di questo intervento la relazione tra le contemporanee architetture del sacro e le condizioni della loro composizione, in relazione all’arte e all’architettura odierne. Riguardo a questo tema muoverò alcune considerazioni tra due icone estreme: da un lato il tipo medievale della chiesa civica o della cattedrale che ci ha raggiunto con il carattere del cantiere perpetuo spesso tendente all’incompiuto 1 In Italia una lodevole iniziativa promossa dalla CEI è stata quella di “una chiesa al mese” rubrica del sito del Servizio Nazionale per l’Edilizia di Culto della Conferenza Episcopale Italiana, con schede redatte da Andrea Longhi a descrivere alcuni degli episodi di maggiore interesse in materia di architettura religiosa contemporanea. (www.chiesacattolica.it/snec/una_chiesa_al_ mese/00022936_Una_chiesa_al_mese.html)

(come Bologna o Siena), dall’altro una sola opera, già oggetto di molte pubblicazioni e rappresentativa del nostro tempo: “Reading between the lines”, di Pieterjan Gijs e Arnout Van Vaerenbergh, realizzata a Limburg (Belgio) nel 20102. Il paragone trova il suo interesse nel fatto che, in ambedue i casi, si tratta formalmente di chiese tipologicamente riconoscibili, benchè la genesi e lo scopo dei due manufatti sia distinto. Si consideri allora il primo tipo, qui esemplificato strumentalmente nella Basilica di San Petronio a Bologna. La chiesa concretizza in termini volumetrici e formali l’ordine della città e della società medievale. Nel paesaggio urbano la sproporzione della sua massa rispetto ad ogni altro elemento del tessuto storico evidenzia maestosamente un centro, un axis mundi teologicamente orientato, conseguenza e a sua volta origine di un cosmos3 capace di conformare il paesaggio ben oltre le cinte murarie della città. Il gigantismo dell’architettura religiosa me-

Le cattedrali restano nel paesaggio urbano come l’espressione dell’unità di una nazione.

2 Opera già considerata in L. Bartolomei, “L’istante e l’eterno. Luoghi e spazi del sacro tra città degli uomini e città di Dio” in Elena Modena (a cura di) Il tempo e il sacro. Atti del convegno 5—6 Ottobre 2013, Vittorio Veneto – Treviso, Edito dalla Provincia di Treviso, 2014, pp.70 e ss 3 Cfr. Otto von Simson, La cattedrale Gotica. Il concetto medievale di ordine, Il Mulino, Bologna, 1988

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dievale esibisce la tensione civica di questi edifici che si proponevano idealmente ospitali per l’intera cittadinanza, manifestando la piena sovrapponibilità tra comunità religiosa e comunità politica, formalmente indiscutibile nel medioevo ed oggi, al contrario, evidentemente perduta. Le cattedrali restano nel paesaggio urbano come l’espressione dell’unità di una nazione costruita nella comunione di un ethos4 a legare territorio, abitanti e loro prodotti in una alleanza profonda, ancorata ad una radicata traditio. L’edificio sacro resta così come la reliquia di quell’ordine in cui la società, la cultura e, complessivamente, il paesaggio si erano sedimentati in un processo di cristallizzazione secolare, impossibile da ricostruire artificialmente una volta che ne siano andate perdute le condizioni. Di qui la natura puerile di ogni approccio compositivo di matrice storicista. Simili orientamenti progettuali, infatti, barattano la rassicurante familiarità percettiva dei profili storici per architetture estranee al proprio contesto5 tanto in ordine spaziale che temporale.

“IN_BO. Ricerche e progetti per il Territorio, la Città, l’Architettura”.

Da queste considerazioni il secondo termine di paragone già introdotto, “Reading between the lines”, esibisce un paradosso: se le chiese contemporanee presentano fisionomie a tal punto diversificate da non essere più riconoscibili, in questo caso il profilo dell’edificio disegna nel paesaggio una figura aderente alla immagine mentale che tutti hanno di una chiesa. Eppure, la certezza di ciò che appare, è distante da ciò che quel manufatto effettivamente è. “Reading between the lines”, infatti, è un’opera d’arte parte di “Pit”, percorso artistico nella regione di Borgloon-Heers (nella provincial fiamminga di Limburg, Belgio), prima tappa di

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un progetto espositivo a scala paesaggistica che, dalla sigla del museo d’arte contemporanea di Hasselt che lo ha promosso, Z336, ha desunto il nome di Z-OUT. Quantunque “Reading between the lines” sia una forma astratta dal tipo delle chiese fiamminghe ad essa prossime e sia addirittura corredata di croce, essa è tuttavia un’opera d’arte che assume la forma dell’edificio cristiano per non-essere una chiesa ma per avere tuttavia la capacità di fondare un paesaggio, significare una collina e costruire un ineludibi4 Nell’interesse di un paragone con il presente, si veda: Massimo Cacciari, “Ethos e Metropoli”, in MicroMega, Feltrinelli, n. 1/90, pp. 39 e ss. 5 Sull’approccio storicista per l’architettura delle chiese anche come errore teologico, si può vedere: L. Bartolomei, “Notes on contemporary architecture for Catholic Churches: Theological Considerations for New Architectural Approaches” in G. Martin (ed.) A living presence. Extending and Trasforming the Tradition of Catholic Sacred Architecture, The Catholic University of America, Washington, 2010, pp. 175199 6 Si veda: www.z33.be

1. “La biunivoca e mutua relazione tra Chiesa e Mondo” (GS IV,40) come illustrata in una slide del convegno.


le riferimento visivo per gli abitanti del vicino villaggio. Dal caso precedente, strumentalmente assunto nella Basilica di San Petronio a Bologna, questo secondo esempio esibisce una distanza notevolissima, misurabile in uno slittamento nell’uso delle figure storicamente ascrivibili al sacro, fino ad una loro totale emancipazione dai contenuti religiosi cui originariamente corrispondevano. Si tratta insomma di un transito dal sacro al profano che interpella un intero novero di studi sul comportamento religioso e il paesaggio e la geografia culturale7. Considerando il potere fondativo intrinseco allo spazio sacro (si pensi alla stele di Giacobbe8, o al solco di Romolo), davanti a quest’opera occorre ammettere che non è più il luogo sacro o il suo simbolo a spezzare l’originale isotropia dello spazio e dare un nome e un ordine al cosmo. Ad ottenere tale risultato è sufficiente il loro simulacro, ossia una forma o una figura non più attinente al senso religioso ma piuttosto a forme primarie della percezione spaziale radicate nell’inconscio collettivo. Così la sagoma di una chiesa sulla collina richiama quella relazione tra chiese e territorio che spesso e altrove “ha consolato” l’abitare, trasformando uno spazio in luogo, attribuendo un contesto e un nome a un punto anonimo della crosta terrestre di lì innanzi innestato in uno spazio-tempo cosmico, ordinato e orientato in senso geografico ma altrettanto spirituale e religioso. Di questa relazione tra significante e significato “Reading between the lines” perde la chiarezza del secondo termine, lasciato alla privata proiezione di ciascuno. L’architettura diviene nuda icona, significante suscettibile di un significato conferito soggettivamente, a partire da un repertorio di immagini la cui confidenza è antica e comune per il particolare distretto culturale di riferimento. La potenza evocativa dell’oggetto muove tanto dalla sua tensione antiquaria, che ne astrae le forme dal repertorio architettonico della tradizione cristiana locale, quanto dalla forza con cui proprio di queste architetture spezza l’ovvietà del simbolo, ossia la coincidenza tra forma a funzione, tra azione e luogo, significato e significante. A tale scardinamento del simbolo corrisponde evidentemente la

maggiore libertà evocativa di cui si fregia l’opera d’arte. Avvantaggiata dalla propria equivocità, l’arte oggi è più cattolica della religione, ossia meno specifica e pertanto più universale, anzi diremo “pluriversale”, ad individuare uno spazio evocativo, semanticamente aperto. La chiesa-non-chiesa di Borgloon è una delle manifestazioni di questa “religione dell’arte” che già Heidegger aveva annunciato9. Tra i due poli estremi delle osservazioni che si sono proposte è avvenuto uno scambio tra arte e religione ad invertirne l’ampiezza dei relativi concetti. Mentre l’arte non più invocata ad interpretare i contenuti specifici delle singolari tradizioni religiose ha forse perso di precisione semantica certamente universalizzandosi in forza di una maggiore ambiguità, la religione nella società globale resta al contrario “un particolare”, ossia una connotazione di comunità, individui o gruppi che le nuove condizioni dell’occidente rendono prossimi, ossia chiamati a sperimentare necessariamente istanze di condivisione. E’ ben evidente allora che il presupposto della riconoscibilità figurativa immediata degli edifici di culto, conseguenza della sovrapponibilità tra comunità religiosa e comunità politica, si è dissolto, consegnando l’estetica delle chiese ad una fondamentale incertezza compositiva proprio ai confini con il mondo, ossia nel loro affacciarsi sulla città, generando un ventaglio di approcci che vanno dal minimalismo, al mimetismo, all’estraneazione più o meno ostentativa10.

L’architettura diviene nuda icona, significante suscettibile di un significato conferito soggettivamente, a partire da un repertorio di immagini la cui confidenza è antica e comune per il particolare distretto culturale di riferimento.

Non è tuttavia solo al confine con la città che la relazione tra Chiesa e Mondo genera conseguenze sull’estetica del luogo di culto. Il fatto che la Chiesa sia una “realtà nel mondo, un pezzo della realtà mondana”11 ma che i suoi scopi e la sua natura non si esauriscano nella realtà mondana stessa12 genera una biunivoca e mutua relazione13, in cui ciascuno dei due termini offre e matura qualcosa dall’altro14. 9 Martin Heidegger, “Rammemorazione” in La poesia di Hoelderlin (titolo orginale Andenken, 1943, trad. it. A cura di L. Amoroso), Adelphi, Milano, 1988, pp.136 e ss. 10

Ad esemplificazioni delle tendenze citate si possono considerare rispettivamente: Chiesa di Sant’Antonio e Centro Parrocchiale di San Bartolomeo a Portalegre (Portogallo, João Luís Carrilho da Graça, 2008), la chiesa di Christus Hoffnung der Welt, (Donau city church, Vienna, Hans Tesar, 2000), Cappella in Valleaceron, (Ciudad Real, Spagna, S-M.A.O., 2000).

11

Dietrich Bonhoeffer, Tra Dio e il mondo, Lit Edizioni, Roma, 2015, [testi tratti da Das Wasen der KIrche e So ist est gewesen. Briefe im kierchnkampf 1933-1942], p. 52

7

A partire da Mircea Eliade, il Sacro e il Profano (Bollati Boringhieri, Torino, 1967) fino agli studi dei geografi: Aldo Pecora, Ambiente Geografico e società umane, Loesher ed, Torino, 1979; Eugenio Turri, Antropologia del Paesaggio, Ed. Di Comunità, Milano, 1983

8

Gn. 28,18

12

Epistola a Diogneto (cap. 5-6)

13

Gaudium et Spes, IV,40.

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Si veda su questo scambio ancora Gaudium et Spes, IV, 41-44

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Poiché tanto la Chiesa in quanto ecclesia, quanto le chiese come manufatti dell’architettura sono parte del Mondo, gli edifici di culto si trovano al centro di un interessante chiasmo ermeneutico in cui le istanze proprie della religione e della liturgia si fondono con gli stili, le tecniche ma anche le culture dei particolari contesti. Se in generale i corpi architettonici possono essere considerati un deposito significativo del loro contesto culturale (e ciò vale per le chiese tanto in relazione al loro contesto ecclesiale, quanto a quello mondano e architettonico), altrettanto i medesimi corpi architettonici considerati nella loro coralità possono essere all’origine di una interpretazione del proprio tempo (e della relativa Chiesa) oltre al fatto di esserne loro stessi interpretazione.

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Non si può allora fare a meno di notare che nelle nuove realizzazioni, ancora per la gran parte concepite su una separazione rigida tra presbiterio e spazio per l’assemblea rigato di panche15, la sacralità propria dell’edificio raramente si ispira ad una ricerca estetica e formale fondata sulla spiritualità oggettiva del cristianesimo. Insomma la “mondanizzaione” dello spazio di culto non si registra tanto sul fronte esterno, ove le architetture delle chiese tentano un dialogo ineludibile con la città contemporanea. La mondanizzazione o complessiva incertezza dell’attuale architettura cristiana si respira piuttosto negli interni, ove non si evolve uno spazio disegnato sulle specificità della liturgia cristiana, ma piuttosto prevale un ricorso a forme primarie e archetipiche dell’inquietudine religiosa16, corrispondenti a registri percettivi più profondi e comuni, emotivamente coinvolgenti ma privi di specificità. Così la recentissima chiesa di Santa Monica in Madrid (Vicens + Ramos, Madrid, 2016) adotta come quinta al presbiterio un astratto cubismo di luce e oro, mentre la chiesa di Sant’Antonio a Portalegre (João Luís Carrilho da Graça, 2008) la ruda roccia nel cui terreno è stata incassata l’aula liturgica alla ricerca di un radicamento in forze ctonie ricorrente anche in altre realizzazioni, non ultima la premiata17 cappella del Ritiro a Santuario de Auco (Regione di Valparaiso, Chile, Cristian Undurraga, 2009). Altrove e sovente è l’elemento naturalistico e paesaggistico il veicolo emozionale, come accade nella celebre Chiesa sull’Acqua (Tomamu, Giappone, Tadao Ando, 1996), nella cappella di Decio Tozzi a Fazenda Veneza ( San Paolo, Brasile, 2008) o ancora nella recentissima Seashore Chapel (Vector Architects, 2016). Si tratta in tutti i casi di opere magistrali, ascrivibili però più alle eccellenti emersioni di un’architettura emozionale piuttosto che a quelle dell’architettura cristiana. Manca nella maggior parte dei casi un percorso che riesca a sottoporre al talento creativo il ruolo, il significato e l’evoluzione che lo spazio liturgico e i suoi poli hanno avuto nella vicenda storica del cristianesimo d’occidente e che ora intercettano nuove ed urgenti sfide, in parte generali e già qui menzionate (quali il necessario e perpetuo aggiornamento del rapporto tra Chiesa e Mondo), in parte più specifiche ma non meno cruciali nella definizione 15

Il che pone evidentemente un problema relativamente al rapporto tra individualità ed ecclesia nello spazio della navata, anche in riferimento ad At 2, 1-13; Ger 1,4-5 16

Jean Vernette, “Il nuovo paesaggio religioso”, in Il Regno – Documenti, anno XLVIII, ed. Dehoniane, Bologna, n.920. 2003/5, p.18

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L’opera è stata insignita del Primo premio internazionale di Architettura Sacra della Fondazione Frate Sole nel 2012

2. La relazione tra Chiesa e mondo diventa un fatto estetico/percettivo tanto sulla frontiera dello spazio liturgico (ovve esso si confronta con la città), tanto nelle modalità espressive della spazialità liturgica interna (dalle diapositive del convegno)


L’adozione del più tipico profilo di una chiesa per un’opera d’arte denuncia un sorpasso definito nelle relazioni tra Chiesa e arte; infatti mentre per un lungo periodo è stata la Chiesa e particolarmente una colta committenza ecclesiastica ad interpellare gli artisti, oggi invece è il mondo degli artisti e dell’arte che interpella e interpreta il vasto deposito dell’arte e della figurazione religiosa per trarne libera ispirazione. 35 dello spazio liturgico, quali il ruolo del sacerdote in relazione alla Comunità e alla Liturgia; gli spazi del sacramento della Riconciliazione; il ruolo e la posizione della Riserva Eucaristica, del battistero e di tutte le strutture di mediazione con l’esterno che, in una società secolarizzata, sempre più dovrebbero evidenziare il loro valore introitale di cammino iniziatico. Si tratta insomma di mancanze conseguenti ad una difficoltà comunicativa nella committenza piuttosto che a carenze nel talento creativo. Questo, anzi, non avrebbe che vantaggi dall’esercitarsi su spazi dalla vocazione funzionale e simbolica più definita e sui quali si è avviato un tentativo di comprensione della stratificazione semantica conseguente all’ordo liturgico. Al contrario l’inattingibilità di simili contenuti18 lascia il talento creativo in balia di private intuizioni, capaci di plasmare spazi di volta in volta emozionanti o sensuali ma non per questo cristiani. “Reading between the lines” dimostra invece che della consolazione di uno spazio chiaramente riconoscibile nella sua connotazione religiosa, si ha quasi nostalgia, seppure tale sentimento sia connesso più al riferimento iconico che non al relativo sistema teologico-spirituale di riferimento. Resta il fatto che l’adozione del più tipico profilo di una chiesa per un’opera d’arte denuncia un sorpasso definito nelle relazioni tra Chiesa e arte. Infatti mentre per un lungo periodo è stata la Chiesa e particolarmente una colta committenza ecclesiastica ad interpellare gli artisti,

oggi invece è il mondo degli artisti e dell’arte che interpella e interpreta il vasto deposito dell’arte e della figurazione religiosa per trarne libera ispirazione. Anzi, si può osservare che le forme del sacro mantengono una maggiore aderenza al loro tipo (ossia maggiore riconoscibilità formale) quanto più i relativi significati e usi prescindano dal valore religioso tradizionale. Ancor prima che “Reading between the lines”, si pensi per esempio alla Cattedrale del Progresso di Lyonel Feininger apparsa sul manifesto del Bauhaus del 1919, o al frontone del Partenone utilizzato come maschera dei radiatori Rolls Royce sin dal modello 10 hp (1904-1906) o ancora al tempio corinzio in antis sede della borsa di Wall Street, e così via… La possibilità e le condizioni del transito di forme e stilemi sacrali tra ambiti religiosi distinti o addirittura da sacro a profano meriterebbero un’analisi più approfondita rispetto a quella che qui si può condurre. Nel panorama della contemporaneità, occorre però almeno porre una questione, ovvero: se forme, stilemi e modelli tipici e riconoscibili dell’architettura sacra vengono recuperati a nobilitare contenuti profani, come poi crearne di nuovi? La velocità e la molteplicità del mondo contemporaneo potrebbero consentire ancora processi di sedimentazione tipologica? Si tratta di una questione aperta, che reclama un aggiornamento all’architettura delle chiese del noto testo curato da Hobsbawm e Ranger, ovvero sull’invenzione della tradizione19.

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I documenti della Conferenza Episcopale Italiana relativi a “La progettazione di nuove chiese” (1993) e a “L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica” (1996) sono testi sintetici, ricchi di riferimenti ma redatti in un registro per iniziati, difficilmente attingibile a chi non abbia fondamenti di teologia, esegesi biblica e storia del cristianesimo.

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Eric J. Hobsbawm ,T. Ranger (a cura di), L’invenzione della tradizione, [The invention of tradition, Cambridge, 1983],Giulio Eiunaudi, Torino, 2002



CONSERVAZIONE E PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI LITURGICI Claudio Varagnoli

Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti e Pescara Profilo dell’autore Claudio Varagnoli è professore ordinario di “Restauro architettonico” presso la facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Chieti e Pescara dal 2001, dove ha diretto il master in “Conservazione e recupero dell’edilizia storica” e ha coordinato corsi di dottorato. Architetto, con studi specialistici nella storia dell’architettura e nel restauro, ha esordito con un saggio sulle tecniche costruttive in età barocca (1983). Del 1995 è la monografia su S. Croce in Gerusalemme a Roma, seguita da saggi su architetti, edifici, cantieri, interventi urbanistici, con una particolare attenzione all’architettura del Settecento, fra cui: La ‘riduzione alla moderna’ delle basiliche: Roma 1700-1750 (1992); Progetti e controversie intorno al “ristoramento” della chiesa di S. Eustachio in Roma (1992); La casa di Carlo Rainaldi (1998); La città degli eruditi: restauri a

Il tema dell’adeguamento liturgico non è certo nuovo nell’ambito della Chiesa cattolica: Ecclesia semper renovanda1. Lo testimonia il dibattito che accompagnò il Concilio di Trento, la cui ricaduta sulla conformazione architettonica e decorativa, nonché sullo stesso modo di intendere i rapporti tra arte e religione, fu di vasta e profonda portata. Un recente convegno2 ha provato a fare il punto sul fenomeno degli adeguamenti liturgici sei-settecenteschi nei paesi dell’Europa cattolica. Le varie relazioni hanno mostrato come i nuovi orientamenti, non solo liturgici, ma anche storiografici e artistici, abbiano innescato un processo di rilettura e di nuova interpretazione degli spazi chiesastici prevalentemente orientato a nuove configurazioni, ma con significativi tentativi di mediazione tra le testimonianze storiche e le esigenze del presente. Da molti punti di vista, la situazione attuale ripropone mutazioni tensioni, conflitti che si verificarono dopo la chiusura del concilio tridentino. Eppure, il diverso rapporto con il passato che ha istituito la modernità – nel quale la stessa Chiesa cattolica è immersa – fa sì che molte realizzazioni oggi visibili a seguito del Concilio Vaticano II appaiano tanto in contrasto con la preesistenza, quanto con l’attuale aspettativa artistica. Gli interventi tardo rinascimentali e barocchi puntavano a riconfigurazioni complessive, in cui la preesistenza veniva reinterpretata come “reliquia” da esporre ed esaltare, lavorando sui margini, con un intento spesso tra il devozionale e il didattico: il nuovo intervento era spesso concepito come un linguaggio nato per accompagnare la percezione – e la venerazione – del testo antico. Gli architetti che si trovano ad operare a seguito del Concilio Vaticano II non hanno compiti altrettanto pervasivi: ma forse proprio per questo, e per il carattere episodico che ne deriva, l’intervento contemporaneo finisce per giocare il ruolo di intruso in un contesto fortemente strutturato, secondo logiche che la progettazione contemporanea non può e non vuole penetrare. Il patrimonio ecclesiastico ha la caratteristica distintiva di essere vivo, cioè ancora funzionante non solo nei suoi aspetti di fruibilità e agibilità, ma anche nei suoi valori simbolici, condivisi e vissuti da una comunità di fedeli, che vivono e operano nel presente. É quindi del tutto comprensibile l’atteggiamento della Chiesa post-conciliare che ha voluto aprirsi con slancio e coraggio al confronto con il mondo moderno3. Al quale ha tuttavia richiesto una partecipazione e una condivisione che non poteva e non può essere quella dei 1

R. van Bühren, Architettura e arte al Concilio Vaticano II, in Il Concilio Vaticano II. Liturgia, architettura, arte, XI Convegno liturgico internazionale (Bose, 30 maggio – 1 giugno 2013), Magnano 2014, pp. 141-178. Su specifici casi regionali, v. A. Longhi, Cattedrali in Piemonte e Valle d’Aosta: processi storici di trasformazione e progetti di adeguamento liturgico, in Le cattedrali del Piemonte e della Valle d’Aosta. Antichi spazi per la nuova liturgia, Rovereto 2008, 81-109; Le cattedrali della Lombardia: ecclesia semper reformanda; l’adeguamento liturgico delle chiese madri nella regione ecclesiastica lombarda, a cura di T. Grisi, G. Lilli, Cinisello Balsamo 2011; Le cattedrali del Lazio: ecclesia semper reformanda; l’adeguamento liturgico delle chiese madri nella regione ecclesiastica del Lazio, a cura di F. Capanni, Cinisello Balsamo 2015.

2 Alla moderna. Antiche chiese e rifacimenti barocchi: una prospettiva europea/Old Churches and Baroque Renovations: a European Perspective, a cura di A. Roca De Amicis e C. Varagnoli, Roma, Editoriale Artemide, 2015. 3 R. van Bühren, Architettura e arte al Concilio Vaticano II, in Il Concilio Vaticano II– Liturgia, Architettura, Arte, XI Convegno liturgico internazionale (Bose, 30 maggio – 1 giugno 2013), Magnano 2014, pp. 141-178. Su specifici casi regionali, v. A. Longhi, Cattedrali in Piemonte e Valle d’Aosta: processi storici di trasformazione e progetti di adeguamento liturgico, in Le cattedrali del Piemonte e della Valle d’Aosta. Antichi spazi per la nuova liturgia, Rovereto 2008, 81-109; Le cattedrali della Lombardia: ecclesia semper reformanda; l’adeguamento liturgico delle chiese madri nella regione ecclesiastica lombarda, a cura di T. Grisi, G. Lilli, Cinisello Balsamo (Milano), 2011; Le cattedrali del Lazio: ecclesia semper reformanda; l’adeguamento liturgico delle chiese madri nella regione ecclesiastica del Lazio, a cura di F. Capanni, Cinisello Balsamo (Milano), Silvana Editoriale, 2015.

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secoli passati. Senza tenere conto, ad esempio, che gli spazi religiosi del passato si sono caricati di una valenza monumentale che in qualche caso è anche più forte di quella devozionale4. Gran parte del patrimonio artistico ecclesiastico ha oggi raggiunto una “sacralità” artistica, per gran parte del pubblica contemporaneo, che in qualche caso può competere con l’attualizzazione religiosa. In questo, la Chiesa post-conciliare non ha voluto – né poteva – tenere conto del processo di secolarizzazione, che era ben presente nei primi anni Sessanta, ma non con la forza che sta assumendo in questi anni. Probabilmente, un ascolto più attento del mondo laico e meno strumentale avrebbe permesso di inserire l’adeguamento liturgico all’interno della percezione “sacrale” della chiesa-monumento, e non contro di essa. Per gran parte del mondo secolarizzato, ma saldamente all’interno della fede cattolica, gli spazi liturgici del passato rappresentano un valore carico di una pietas che non ha bisogno dell’invadenza dei linguaggi contemporanei. Una basilica medievale o un presbiterio barocco presentano, agli occhi di molti cattolici, una sacralità intrinseca che non ha bisogno di ulteriori aggettivazioni: e spesso proprio dalla sua “in-attualità” trae maggior forza comunicativa. Il risultato è che molti degli adeguamenti richiesti dal Concilio Vaticano II assumono un valore secolare, in contesti che fino ad oggi avevano una forte carica simbolica. Questo conflitto tra le due sacralità emerge in molte delle polemiche che hanno fatto seguito agli adeguamenti liturgici post-conciliari. Né è raro il caso di vescovi e sacerdoti che si oppongono alla concezione della chiesa-museo, addirittura preferendo abbandonare luoghi di culto antichi e carichi di memorie storiche, ma anche di costosi oneri di manutenzione e restauro. Altra questione è quella che riguarda i rapporti con l’arte contemporanea, troppo vasta per poter essere affrontata in questa sede. Senza entrare nel merito delle diverse scelte - che si ritengono sempre stimolanti per il cambio di prospettiva che inducono - non si può non rilevare come una delle questioni sul tappeto riguarda la scala dell’arte contemporanea e la relazione che istituisce con lo spazio in cui è inserita. Né la questione sembra più semplice nel caso dell’arte figurativa, rispetto alla tendenza aniconica e concettuale che caratterizza tanta produzione contemporanea. Gli affreschi di Oleg Supereko, completati nel 2011 nella cupola della cattedrale di Noto, rientrano nei canoni della grande pittura classica, pur con una indubbia carica realistica. Tuttavia, il loro carattere gigantesco, il loro fuori scala di taglio cinematografico li rende inadatti ad assoggettarsi allo spazio raccolto e prospetticamente concepito di un presbiterio settecentesco, annullando l’effetto ascensionale della costruzione. Non dissimile la problematica integrazione tra i teleri di Giovanni Gasparro in San Biagio di Amiternum all’Aquila, restaurata a seguito del sisma del 2009, e lo spazio interno della chiesa, che già prima del terremoto aveva subito numerosi rimaneggiamenti. La figuratività frammentata e animata da un realismo vicino al giornalismo televisivo non crea un ponte con l’apparato decorativo esistente, regolato da convenienze e norme che ne assicuravano una comunicazione sovra-temporale (figg. 1, 2). L’arte figurativa più recente, riabilitata anche con l’intento di una migliore armonizzazione con gli ambienti monumentali, sembra aver smarrito la capacità di comunicare una dimensione di gioia e di quotidianità. Eppure non mancano esempi positivi, ad esempio nell’opera di Cândido Portinari (1903-1962), probabilmente il maggior pittore brasiliano del XX secolo, che colpisce per la sua capacità di elevare il quotidiano ad una dimensione sacrale. La decorazione che esegue per la chiesa di São Francisco a Pampulha, progettata da Oscar Niemeyer, è istruttiva. La figuratività di Portinari ritrova accenti di gioia terrena che ben si legano all’integrazione con la luce e con il paesaggio circostante. Ancora più sorprendente la cappella che Portinari decora (1941 ss.) al lato dell’abitazione della sua famiglia, nello sperduto borgo agricolo di Brodowski. La nonna del pittore richiese la costru-

Viterbo, 1870-1945 (1998); S. Maria in Gradi a Viterbo: dalla chiesa duecentesca al progetto di Nicola Salvi (2007).Gran parte della produzione scientifica più recente è rivolta agli sviluppi metodologici e operativi del restauro, con aperture a problemi contemporanei, sviluppati attraverso la partecipazione a convegni internazionali. Ha svolto attività di consulenza in interventi di restauro e di recupero in centri storici. Fra i libri più recenti, si segnalano Conservare il passato (2005), La costruzione tradizionale in Abruzzo. Fonti materiali e tecniche costruttive dalla fine del Medioevo all’Ottocento (2008), gli atti del convegno Muri parlanti. Prospettive per l’analisi e la conservazione dell’edilizia tradizionale (2009), Pescara senza rughe (Gangemi 2010); Alla moderna. Antiche chiese e rifacimenti barocchi: una prospettiva europea (Artemide 2015).

L’arte figurativa più recente sembra aver smarrito la capacità di comunicare una dimensione di gioia e di quotidianità.

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A. Marchesi, Adeguamento liturgico: cattedrali o monumenti?, in “Arkos”, 2003, 3, pp. 16-25.


1, 2. L’Aquila, S. Biagio di Amiternum, i dipinti negli altari laterali della chiesa restaurata dopo il terremoto del 2009. 3. Brodowski (Stato di São Paulo, Brasile), la “cappella della Nonna” di Cândido Portinari (foto dell’A.). 4. Arezzo, il nuovo presbiterio del Duomo nel giorno dell’inaugurazione (www. informarezzo.com). 5, 6. Penne, Duomo, la navata e il transetto nella ricostruzione postbellica (foto dell’A.). 7. Johannisberg, la chiesa dopo i restauri di R. Schwarz.


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zione di una cappella che onorasse le memorie della famiglia: Portinari dipinge una commovente rappresentazione di temi sacri introducendo ritratti, costumi e usi dei propri familiari, trasformando le memorie familiari in un motivo sacro, ricco di significati universali proprio per la sua struggente autenticità (fig. 3). Questo rapporto complesso con la figuratività contemporanea si riflette anche sulla conservazione degli edifici monumentali. Spesso i nuovi inserti liturgici nel presbiterio, fulcro dei moderni adeguamenti per le evidenti funzioni che assolve5, assumono valenze evocative proprio in funzione dell’isolamento che li circonda o di particolari condizioni di illuminazione. A questo si aggiungano scelte formali che vanno verso l’aniconismo o il minimalismo. Un caso clamoroso è quello del presbiterio del Duomo di Arezzo, concluso nel 2012 dove la nuova sistemazione si salda al tentativo di ritrovare la spazialità del presbiterio medievale, rimuovendo le trasformazioni subite a seguito del concilio tridentino, tra cui il coro ligneo attribuito a Vasari (fig. 4). L’imposizione di una forte carica simbolica, spesso prelevata senza alcun filtro filologico dalle Sacre Scritture, offre quindi lo spunto per operazioni di purificazione stilistica. Le nuove inserzioni, nel caso specifico di Arezzo, avvengono a spese della configurazione antica, sovvertendo metodi e posizioni teoriche che sembravano acquisite nella conservazione e gestione dei beni culturali. Né sono mancati esempi di altari sei-settecenteschi rimossi dalla loro posizione, in una tendenza perdurante, nella Chiesa italiana, di rifiuto del barocco. L’Abruzzo è noto per la campagna di purificazione stilistica negli anni Sessanta-Settanta, che probabilmente, in una forma meno clamorosa, si sta ripetendo nell’attuale stagione della ricostruzione post-sismica, in nome di un malinteso ritorno all’origine, che non è solo stilistico, ma anche simbolico e liturgico. Anche alcune ricostruzioni post-belliche non sfuggono a questa tendenza, come ad esempio il duomo di Penne (figg. 5, 6), privato della fase barocca e consegnato ad una nudità che non è nemmeno ascetica, ma solo sorda alla stessa storia dell’edificio. Questa tendenza, naturalmente con esiti differenti, si trova anche in uno dei più sensibili interpreti dell’architettura cristiana del dopoguerra, Rudolph Schwarz, la cui esemplarità è garantita dal sodalizio con Romano Guardini. Nell’abbazia di Johannisberg nei pressi di Magonza, Schwarz non esita a preferire la fase romanica della chiesa, riportata ad una sua coerenza planimetrica e figurativa (fig. 7). L’unità spaziale è garantita da una scialbatura bianca all’interno che non si accorda con la tradizione barocca tedesca, con un risultato visivo ricorrente nelle ricostruzioni post-belliche in Germania, come nelle opere di Hans Döllgast (fig. 8) e di Joseph Wiedemann. Spesso i recenti rinnovamenti liturgici attingono a questa esigenza di purezza stilistica. Un tentativo interessante in questa direzione, anche per i conflitti che portò alla luce, è la cappella della Parola, ricavata nel 2008 nell’antica cappella del Crocefisso nella chiesa giubilare di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, ad opera dell’abate dell’adiacente cenobio cistercense. L’ambiente programmaticamente si dava come luogo deserto e ascetico 5

M. Piacenza, Il centro dello spazio liturgico e il cuore della sacralità umana: 1. Presbiterio e Crocifisso, Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, XII Corso di Arte e Iconografia Cristiana, Loreto, 28 luglio 2006, in http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_commissions/ pcchc/documents/rc_com_pcchc_20060728_presbiterio-crocifisso_it.html.

nel cuore della città, dove ascoltare, in silenzio, la parola divina. L’arredo era ridotto a pochi oggetti fortemente simbolici, con l’esclusione di immagini legate alla storia secolare della chiesa: un tronco di olivo e una Bibbia appartenuta ad un religioso ucciso per la sua testimonianza di fede (fig. 9). A poche settimane dalla sua inaugurazione, la cappella fu chiusa, probabilmente per il riferimento ad una generica spiritualità che non recava traccia della tradizione cattolica legata alla manifestazione visibile del Divino. Questa difficoltà a rapportarsi con il mondo figurativo tradizionale può forse spiegare l’uso ricorrente delle icone, tratto dalle chiese orientali, che si sposano al gusto per la parete scabra e spoglia, spesso realizzata a spese di intonaci storici. Un caso di reinterpretazione dello spirito additivo e stratificato delle chiese cattoliche è nel noto intervento di Antoni Gaudí nella cattedrale di Palma de Mallorca (1901-1914). Anche in quest’opera, non si può parlare di rispetto integrale per le preesistenze, ma Gaudí non si limitò solo a spostare e a rimuovere: introdusse nuovi arredi, cambiò la coloratura delle vetrate per ottenere inediti effetti luminosi, e dette prova di una sensibilità non lontana dall’inventiva barocca nel fantasmagorico baldacchino sospeso in corrispondenza dell’altare (fig. 10). Uno spunto che è stato seguito in alcuni adeguamenti contemporanei, come nella cattedrale di Alba, in provincia di Cuneo. Qui si è rispettata la disposizione preconciliare, che risale ad un progetto ottocentesco di gusto neo-medievale, senza rinunciare ad introdurre un nuovo altare sovrastato da un singolare velario (fig. 11). L’altare e l’ambone non si danno come sculture, ma come micro-architetture essenziali e funzionali, inserendosi, come dichiarano i progettisti “in una trama già scritta”6 in cui la preesistenza assume il ruolo simbolico di “ultima soglia” visibile. Resta quindi la necessità di rileggere gli intendimenti del Concilio Vaticano II alla luce di una sensibilità progettuale che riesca a farsi carico della storia e a porsi al termine di un processo storico, cercando di cogliere soprattutto la “propria” storicità. É l’insegnamento di un poeta “anglo-cattolico” come Thomas Stearns Eliot, che può estendersi facilmente all’intera esperienza artistica e quindi anche all’architettura: “La tradizione non si può ereditare, e se la si vuole la si deve conquistare con grande fatica. Essa implica, in primo luogo, il senso storico, che è pressoché indispensabile per chiunque voglia continuare a dirsi poeta dopo i venticinque anni. E il senso storico implica non soltanto la percezione della qualità dell’essere ‘passato’ del passato, ma la percezione della sua ‘presenza’; il senso storico costringe un autore a scrivere non solo insieme alla propria generazione, di cui egli è la concreta incarnazione, ma lo spinge a scrivere anche con la sensazione che l’intera letteratura europea a partire da Omero (e in essa tutta la letteratura del proprio paese) ha una esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo.”7

6 G. Santi, Adeguamento liturgico della cattedrale di S. Lorenzo, Alba (CN) , in “Architetura di pietra. Journal”, 15 ottobre 2010, http://www.architetturadipietra.it/wp/?p=4501. 7

T.S. Eliot, Tradition and individual talent, in The Sacred Wood, 1920; trad. ital. Il bosco sacro. Saggi su poesia e critica (1922), in Engramma. La tradizione classica nella memoria occidentale, 135, aprile-maggio 2016, in http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=444.


8. Monaco di Baviera, chiesa di Sankt Bonifaz, ricostruzione postbellica di Hans Döllgast e successivo adeguamento liturgico.

9. Roma, Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, cappella della Parola, già del Crocifisso (2008).

10. Palma de Mallorca, cattedrale, il presbiterio nella riforma realizzata da Antoni Gaudí.

11. Alba (Cuneo), il “velario” e il nuovo altare nella Cattedrale.



L’ECLISSI DELL’ARTE LITURGICA. QUALI SFIDE NELLA CHIESA DI OGGI? Andrea Dall’Asta SJ

Direttore Galleria San Fedele, Milano e della Raccolta Lercaro, Bologna Profilo dell’autore Dopo aver studiato architettura a Firenze, entra nella Compagnia di Gesù nel 1988. Si laurea in filosofia a Padova, in teologia a Parigi e, sempre a Parigi, consegue il dottorato in filosofia estetica, dopo un anno di preparazione alla Columbia University di New York. Dal 2002 dirige la Galleria San Fedele di Milano e dal 2008 anche la Raccolta Lercaro di Bologna. La sua attenzione è rivolta sia al rapporto tra arte, liturgia e architettura, sia all’analisi dell’immagine come strumento di formazione dei giovani, di dialogo tra arte e fede e di promozione della giustizia. Insegna attualmente alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Innumerevoli sono i suoi articoli apparsi su Civiltà Cattolica. Scrive su alcune testate giornalistiche, come InsideArt. Tiene tra il 2012 e il 2013 una rubrica sul quotidiano Avvenire con il quale collabora

La liturgia: celebrazione di ciò che si crede e che si vive. Nella liturgia, in cui Cristo si fa presente nella Chiesa, celebrazione e vita sono chiamate a essere strettamente unite, attraverso un agire peculiare, quello celebrativo-simbolico. Se l’esistenza umana si svolge in un sistema di rapporti tra i diversi elementi e livelli di una cultura (etici, politici, spirituali, religiosi…), questa rete di relazioni permette all’uomo di orientarsi nel tempo e nello spazio, situandolo in un mondo «sensato». In questo edificio di carattere simbolico, le immagini, così diffuse nella tradizione cristiana, trovano la loro giustificazione nel mistero stesso dell’Incarnazione. In Cristo, Dio entra nella storia. Dio invisibile si rende visibile nella forma di un uomo. La storia di Dio diventa storia dell’uomo. L’immagine racconta la sua esistenza terrena, permettendo in questo modo di prolungare l’esperienza dei primi discepoli e di consegnarla alle generazioni future. Nella storia europea, il rapporto tra cristianesimo e arti visive si configura, pur attraverso vicende alterne, come il racconto di una stretta alleanza durata per molti secoli. L’«amicizia» tra arte e fede appare tuttavia sempre più allentarsi col passare dei secoli. In modo particolare, a cominciare dal secolo XIX, l’ispirazione artistica che si origina dalla fede cristiana perde progressivamente quella capacità creativa e propulsiva che era stata all’origine di realizzazioni pittoriche, scultoree e architettoniche straordinarie. Malgrado numerosi tentativi, questa frattura non sembra destinata oggi a colmarsi. Buona parte dell’arte contemporanea sembra avere dimenticato la dimensione religiosa, per intraprendere sentieri del tutto autonomi e indipendenti. Certo, papa Giovanni Paolo II afferma che la vera arte è una porta che getta un ponte verso il mistero, in quanto intrinsecamente religiosa. Tuttavia, l’esplicitazione della dimensione cultuale fatica a essere tematizzata in una seria riflessione o appare incapace ad esprimersi in realizzazioni che siano frutto di una vera ricerca estetica e teologica. Oggi si parla molto infatti del divorzio tra arte e fede. Di fatto, tutta l’arte del Novecento ha riflettuto sulle tematiche del sacro: da Klee a Kandinsky, da Rotkho a Klein, da Spalletti a Parmiggiani, tutti i maggiori artisti del Novecento si sono sempre interrogati sulla dimensione dell’invisibile, di ciò che vive al cuore del mondo, delle più profonde dimensioni spirituali dell’uomo. Alcune grandi istituzioni ecclesiali in Italia e all’estero, sin dagli ‘50, si sono spesso confrontate con quegli autori che hanno posto la loro ricerca sotto il segno di una continua ricerca di senso, interrogandosi sulle dimensioni più profonde dell’uomo. Le ricerche compiute dal Padiglione Vaticano alla Biennale di Venezia in questi ultimi anni non fanno che riprendere questo antico filo rosso, immettendolo in un imponente circuito

1.Claudio Parmiggiani - Corona di spine, 2014 - Filo spinato, nichel, oro, Ø 45 cm

A cominciare dal secolo XIX, l’ispirazione artistica che si origina dalla fede cristiana perde progressivamente quella capacità creativa e propulsiva che era stata all’origine di realizzazioni pittoriche, scultoree e architettoniche straordinarie.

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mediatico. Tuttavia, oggi, la sfida appare situarsi altrove. Non consiste tanto, infatti, in una riflessione sull’arte sacra, - ogni espressione artistica è infatti sacra, se è veramente arte – ma in un’attenta considerazione della dimensione liturgica. È questo un argomento più volte emerso negli ultimi anni. L’arte presente nelle nostre chiese, tranne alcuni sporadici casi, appare al di fuori dei dibatti culturali e spirituali di oggi. Di fatto, non si tratta certo di arte. Sono per lo più immagini devozionali, dalle forme artificiali che stancamente si ripetono in modo dolciastro e consolatorio. Si pongono come prodotti in serie, da consumare, come un qualunque altro prodotto immesso nel mercato, come testimoniato dalle chiassose «Fiere» dell’arte sacra, in cui le immagini sono poste in vendita quasi fossero mescolate tra i tanti oggetti ricordo che si acquistano dopo la visita di una città turistica. In realtà, nel passato della nostra tradizione ecclesiale non si parla di «arte», ma d’immagine cultuale, destinata alla liturgia o alla preghiera personale. Quando nel medioevo si produce un’immagine, l’intento non è dunque quello di realizzare un’opera d’arte, secondo il senso che noi oggi diamo a questo termine. Il concetto di belle arti sarà, infatti, tematizzato nel XVIII secolo dalla filosofia kantiana, in cui saranno elaborate le basi della ricerca estetica contemporanea. L’immagine sarà sempre più slegata dal contesto politico, religioso e simbolico, per diventare espressione di una ricerca puramente estetica. In questo senso, alcuni critici, come il francese Jean Clair, parlano di inverno della cultura dell’Occidente: l’immagine avrebbe dimenticato la sua vera sorgente, il divino, per mettere in scena il mondo della cultura, in un circolo autoreferenziale che parla solo di morte: l’uomo non farebbe che adorare il frutto del proprio lavoro, idolatrarlo, senza più sollevare il proprio sguardo verso l’alto, verso l’assoluto e il trascendente.

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L’immagine: espressione della fede L’immagine ha sempre rivestito nella riflessione teologica cristiana un ruolo fondamentale. Facendo memoria dell’incontro dei primi discepoli con Gesù di Nazareth, il Cristo, l’Unto del Signore, morto e risorto per la salvezza dell’uomo, l’immagine rende visibile l’invisibile, rende presente l’assente. Attraverso di essa, il rappresentato si manifesta alla comunità. Il fedele diventa in questo modo contemporaneo al mistero. L’aveva ben compreso Ignazio di Loyola, quando, nella preghiera, invitava il fedele non solo a immaginare la scena evangelica, ricostruendola con la sua immaginazione, in modo da trovarsi realmente davanti ai personaggi, ma a entrarvi direttamente, come se vi potesse partecipare. La preghiera non si esaurisce dunque in una riflessione, in un esercizio intellettuale. Nella preghiera, il fedele partecipa direttamente alla scena. «Vedere» diventa così «partecipare». In questo modo, il fedele si fa protagonista dell’episodio evangelico, in grado di dialogare con i singoli personaggi, come Maria, Cristo o i diversi santi, sentendo e gustando internamente quanto suggerito dalla scena. Alla fine della meditazione, potrà così intrattenere un colloquio con loro, cuore a cuore, come se si trovasse «realmente» in loro presenza. Spesso, si dice che

tuttora. Ha partecipato a importanti progetti come l’adeguamento liturgico della cattedrale di Reggio Emilia, la realizzazione dell’Evangeliario Ambrosiano. Ha fatto parte del comitato scientifico del Padiglione del Vaticano per la Biennale di Venezia (2013) e co-curatore della sezione Disegnare il sacro, alla Biennale di Architettura di Venezia (2014). Oltre numerosi saggi, ha scritto i libri: -La Croce e il Volto. Percorsi tra arte, cinema e teologia, Ancora, Milano 2015 -Pietro Favre, Tenerezza e misericordia. Testi scelti e presentati da A.D., Messaggero edizioni, Padova 2015 -Oltre. Le soglie dell’invisibile, a cura di Dall’Asta Andrea e di Francesco Tedeschi, Skira, Milano 2014 -Dio storia dell’uomo. Dalla Parola all’immagine, Messaggero edizioni, Padova, 2013 -Nascere, il Natale nell’arte, San Paolo edizioni, Cinisello Balsamo (MI) 2012 -Dio alla ricerca dell’uomo. Dialogo tra arte e fede nel mondo contemporaneo, Pozzo di Giacobbe edizioni, Trapani, 2009sacro presso la Facoltà di Architettura di Pescara. È docente ai corsi di aggiornamento professionale di Architettura per la liturgia ed adeguamento liturgico che il Centro Studi Architettura e liturgia svolge con la fondazione architetti Pescara - Chieti. È membro del comitato scientifico-redazionale della rivista on-line “Thema” www.thema.es. È stato nominato a componente di giuria di concorsi di architettura, correlatore di tesi di laurea, consulente liturgico in concorsi di architettura ed ha pubblicato articoli sul tema dell’architettura e la liturgia. Oggi è presidente del Tribunale ecclesiastico Regionale Abruzzese – Molisano.

2, 3. Mimmo Paladino Chiesa di San Fedele, Milano Senza titolo, 2002 Fusione in bronzo argentato


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4, 5. Jannis Kounellis Chiesa di San Fedele, Milano Senza Titolo (Svelamento), 2012 Sacco, ferro, corda, legno, dimensioni variabili - Installazione


l’arte ha una funzione pedagogica, soprattutto nell’Occidente. È innegabile che l’immagine abbia avuto la funzione di Biblia pauperum, di insegnamento per chi non aveva la possibilità di leggere le sacre scritture. La sequenza delle immagini diventava quindi il luogo di un apprendimento, molto simile a quello che oggi potrebbe essere una visione cinematografica. Tuttavia, sarebbe molto riduttivo limitare l’immagine alla funzione di semplice «illustrazione» dei misteri della fede. L’immagine è luogo simbolico, grazie al quale si costruisce l’identità del fedele. È questo un aspetto fondamentale. Non si comprenderebbero né si giustificherebbero le violenti lotte tra iconoclasti e iconofili, gli estenuanti dibattiti sulla liceità delle immagini, che si sono svolte a più riprese nei secoli. In un mondo in cui le immagini non erano molto diffuse, queste svolgevano un ruolo decisivo nella formazione delle coscienze, dell’immaginario individuale e collettivo. Per questo motivo, sono stati realizzati i fantastici e imponenti cicli di vetrate nelle cattedrali gotiche francesi o tedesche o gli affreschi nelle chiese italiane. Le immagini, perfettamente integrate nell’architettura, costituivano un organismo simbolico del tutto coerente con gli elementi dello spazio sacro. Oggi, diverse cose sono mutate. Viviamo in un mondo di rapida consumazione delle immagini. Con internet, la televisione, il cinema, i giornali, l’uomo è oggetto di un vero e proprio bombardamento di immagini fragili, effimere, superficiali, che tradiscono quell’universo simbolico e spirituale, in cui l’uomo ha abitato per tanti secoli. Il legame tra l’immagine e il senso più profondo dell’esistenza umana rischia di farsi esile e impercettibile. Si dimenticano i simboli della tradizione, le forme attraverso le quali l’uomo comunicava la propria storia e l’identità di una civiltà. L’immagine rischia di trasformarsi in uno spettacolo di effimera durata, celebrato nei riti di grandi eventi mediatici e trasformato in un facile e superficiale successo. L’immagine si fa allora pubblicità, audience, seduzione, cattura dell’attenzione. Idolo. È un’immagine votata al disimpegno, al vuoto. L’uomo trova allora nell’immagine un luogo di stordimento, un mezzo per una fuga dai problemi concreti del reale, un anestetizzante che sopisce e tranquillizza le coscienze. L’immagine diventa l’espressione della mancanza di coraggio, nell’assumersi una responsabilità etica verso il reale. È un’immagine svuotata della sua sedimentazione simbolica.

Il legame tra l’immagine e il senso più profondo dell’esistenza umana rischia di farsi esile e impercettibile. Si dimenticano i simboli della tradizione, le forme attraverso le quali l’uomo comunicava la propria storia e l’identità di una civiltà.

Un ritorno verso il passato Dal punto di vista ecclesiale, di fronte a questo atteggiamento di vera e propria «consumazione», tipico della nostra società, si assiste fondamentalmente a un triplice atteggiamento. Da un lato, c’è la riproposizione di un nostalgico ritorno al passato. L’immagine cultuale sembra incapace di fare riferimento al tempo presente, per ripresentare un mondo tanto glorioso, quanto superficiale e falsamente ingenuo. È questo un imbalsamato, fatto di immagini stereotipate prodotte in serie. Tutto sembra fare riferimento ai nuovi «neo»: «neo-

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bizantino», «neo-medioevale», «neo-rinascimentale», «neo-barocco», «neo-neo-classico». È come se la tradizione antica fosse chiamata a essere «riesumata», di fronte all’incapacità della comunità cristiana di riconoscere nell’oggi una fonte d’ispirazione, per creare nuovi linguaggi, nuovi simboli, così come ha auspicato papa Francesco nella sua nuova enciclica. Le immagini si presentano allora troppo spesso come caricature, goffe nella loro forzata ingenuità e artificiosità, o ambigue e contraddittorie, nella ripresa di un certo erotismo rinascimentale o barocco, o del tutto asettiche, nelle interpretazioni di un «francescanesimo» disincarnato e privo di vita. Questa «rinascita» appare ispirata più che dalla ricerca di un nuovo sguardo rivolto verso il futuro e le sue sfide, dalla nostalgia di rivivere una mitica età dell’oro, che si vorrebbe risuscitare e fare risorgere dalle sue ceneri. Molte chiese italiane sono letteralmente invase da questo ritorno al «neo», con risultati dubbi e interrogativi, anche grazie all’appoggio e al sostegno di «autorevoli» critici molto alla moda, veri e propri leader opinion dell’arte sacra commerciale come Vittorio Sgarbi, alla ricerca di nuovi spazi e di nuove vetrine grazie alle quali lanciare e promuovere suoi adepti. Ogni aspetto problematico dell’esistenza appare cancellato nella dolcezza vacua e inconsistente dell’immagine. Che si tratti delle opere di un Oleg Supereco, di un Francesco Mori o di un Stefano di Stasio, di un Piero Casentini o di un Roberto Ferri, o ancora di un Rodolfo Papa, solo per citare alcuni autori tra una selva intricata ma ben individuabile nel mercato del sacro, ci troviamo sempre di fronte per la maggior parte a rappresentazioni di cartapesta, di plastica, siano esse sculture, pitture o affreschi, a pallide ombre che vorrebbero ri-evocare le straordinarie testimonianze della nostra tradizione cristiana. Quando poi cerchiamo di comprendere come questa arte liturgica intende trasmettere i contenuti di fede, vale a dire gli aspetti più teologici, non possiamo che restare costernati nel constatare la superficialità delle immagini, che si presentano senza alcuna relazione con il mondo “ufficiale” dell’arte, pretendendo di farne a meno, considerandolo, con giudizi troppo perentori, inutile, morboso, provocatorio, difficile, sofisticato, elitario... E in parte è vero. Certo, un grande limite dell’arte contemporanea è quello di guardare all’uomo, senza riconoscere la possibilità di una redenzione, di un riscatto, per cui l’orizzonte della vita rischia di stagliarsi su di un fondo di non senso, di nulla, di indifferenza. Uno degli aspetti più imbarazzanti dell’immagine liturgica consiste invece nell’artificialità e nella banalità, nell’esaltazione tanto gloriosa quanto edulcorata di un mondo fatto di luci dorate e di eroi palestrati, di gesti retorici e di volti patetici. Irreali e insignificanti evocazioni della nostra tradizione spirituale. Universo completamente separato dalla vita reale. Di fatto, alla base, c’è una sostanziale sfiducia nel mondo contemporaneo e nella capacità del vangelo di potere animare dall’interno il mondo attuale. È questo un atteggiamento sospetto e pericoloso: il cristiano infatti crede fermamente nella capacità del vangelo di animare e di rinnovare le culture, di trasformarle. La Chiesa ha sempre adottato i linguaggi del proprio tempo, purificandoli e vivificandoli in base alle esigenze della fede. Attraverso queste immagini - e moltissimi pittori e scultori potrebbero essere citati - filtra invece una sfiducia e una diffidenza verso l’oggi, un senso di morte, per cui ci si rifugia in un passato che evita di interpellare e di richiamare il fedele alla responsabilità etica nella storia, a considerare come Dio si incarna nel quotidiano, nella vita reale delle persone, colte nei loro drammi e nelle loro lacerazioni. La vera immagine sacra assume invece il dolore della storia, per convertirlo in speranza, in fiducia, in desiderio di comunione e di fraternità. Non fa emergere alcun rimpianto verso un tempo perduto. Si rappresenta in questo modo un Dio disincarnato che non si contamina con la vita reale.

Certo, un grande limite dell’arte contemporanea è quello di guardare all’uomo, senza riconoscere la possibilità di una redenzione, di un riscatto, per cui l’orizzonte della vita rischia di stagliarsi su di un fondo di non senso, di nulla, di indifferenza.

Uno spazio minimalista, privo di immagini Dall’altro lato, si preferisce invece realizzare lo spazio, caratterizzandolo o per la totale assenza di immagini, vale a dire completamente spoglio, o per la presenza di immagini


6, 7, 8, 9. Nicola de Maria Chiesa di San Fedele, Milano Altare Maggiore, Sancta Sanctorum Gerusalemme Celeste, 2015 Tempera


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10, 11, 12. David Simpson Chiesa di San Fedele, Milano Gerusalemme celeste, Città della luce, acrilico su tela 182 × 182 cm, ciascuna tela Installazione

astratte, come per sottolineare che il divino non può essere ingabbiato o imprigionato in una forma precisa e determinata. L’architettura è chiamata a evocare la dimensione della trascendenza e dell’assoluto, soprattutto attraverso il chiaroscuro della luce, il rapporto dialettico luce/ombra. Nel XX secolo, si creano così ambienti che invitano alla preghiera, alla meditazione, senza l’inserzione di cicli iconografici o di immagini, come nella cappella di Nôtre-Dame du Haut a Ronchamp di Le Corbusier, o con immagini che non fanno alcun riferimento esplicito ai racconti biblici, come nella Rothko Chapel a Houston, magnifico esempio di come un artista può inserire la sua opera in uno spazio cultuale, anche se non si tratta in questo caso di una cappella cattolica. I dipinti del grande artista americano di origine ebrea mettono in scena un mondo di profonda carica espressiva, attraverso dipinti di colori cupi (come il nero opaco, il marrone, il viola scuro, solo un pannello fa emergere una zona rossa), in grado di creare uno straordinario spazio di silenzio, di pace. È questo un luogo che invita alla meditazione interiore, a fare il vuoto attorno a se stessi.... Anche Richard Meyer, a Tor Tre Teste a Roma, nella chiesa di Dio Padre Misericordioso realizza una chiesa semplice, rigorosa nelle sue linee architettoniche, spoglia. Minimalista, potremmo dire. È questa una struttura emblematica sotto diversi aspetti. Se da un lato è molto interessante – si presenta come un bellissimo edificio a tre vele, in grado di porsi come polo simbolico di tutto il quartiere della periferia romana -, dall’altro lascia affiorare alcuni dubbi sia dal punto di vista liturgico - per il suo impianto

fortemente longitudinale, per cui l’aula risulta molto stretta e allungata -, sia per l’ampia apertura del soffitto che, volendo riprendere idealmente lo sfondato barocco, non crea sufficiente filtro tra interno ed esterno, sia ancora per la pressoché totale assenza d’immagini. Meyer realizza uno spazio essenziale, ma che rischia probabilmente di essere «austero», «freddo», soprattutto in una città come Roma in cui l’immagine è sempre stata al centro del mondo simbolico dei fedeli. Improvvisazione e amatorialità… Altre volte, poi, assistiamo a un vero e proprio «fai da te» dell’immagine. Tutto appare all’insegna dell’improvvisazione e dell’amatorialità. Chiese storiche, frutto di una sedimentazione di secoli di storia che le ha trasformate in veri capolavori d’arte e di fede sono svilite e devastate da improbabili adeguamenti liturgici, realizzati all’insegna del cattivo gusto e del dilettantismo, da immagini semplicemente brutte, prive di qualità estetica e di spessore teologico. Molte volte si scimmiottano i linguaggi contemporanei per proporre immagini «aggiornate» e falsamente moderne. Troppo spesso assistiamo, anche nelle più belle chiese antiche, a interventi all’insegna del kitsch, di un frenetico desiderio di riempire tutti gli spazi vuoti disponibili, anche esterni, soffocandoli con opere veramente mediocri e prive di valore, devastando in questo modo la visione generale architettonica dell’insieme. Si dimentica, infatti, che questi spazi meravigliosi erano nati per fare emergere i chiaroscuri degli spartiti architettonici, la loro armonia

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13, 14, 15. Claudio Parmiggiani - Chiesa di San Fedele, Milano - Altare maggiore, Corona di spine, 2014


fatta di alternanza di pieni e di vuoti. È questo un modo goffo e distruttivo di entrare nella storia dell’arte, attraverso scempi inutili e… costosi… Per questi interventi, si fa qui riferimento a pseudo artisti, ad appassionati e ad amanti dell’arte, ma incapaci di produrre qualcosa di realmente significativo. Da Roma a Milano, da Firenze a Napoli, da Brescia a Catania, i casi in edifici di straordinaria importanza sono innumerevoli. Ci si chiede com’è possibile che tutto questo possa accadere, soprattutto in quegli spazi storici, in cui gli interventi feriscono quell’armonia che nasce da secoli di storia, dalla sedimentazione del lavoro di grandi artisti che hanno riflettuto in profondità sui misteri della fede cristiana. Dov’è finita la ricerca della bellezza di cui tanto si parla oggi? Quante volte, per esempio, entrando in una splendida chiesa antica, il nostro sguardo è colpito dagli interventi violenti e vistosi? La bellezza dell’architettura si mostra drammaticamente ferita, violata. È questo un segno di uno spazio sfregiato nella sua integrità. Quale arte liturgica? Ci sono tuttavia alcune realizzazioni nelle quali le immagini appaiono ben inserite nel contesto spaziale, tenendo conto di una visione d’insieme dello spazio architettonico. Un esempio tra i più riusciti è forse quello della Chiesa del Santo Volto di Gesù, alla Magliana, di Sartogo Architetti Associati (1998-2006), in cui intervengono diversi artisti, sia all’esterno che all’interno dell’edificio, come Eliseo Mattiacci, Carla Accardi, Mimmo Paladino, Chiara Dynis, Giuseppe Uncini. Non dimentichiamo poi a Roma le discrete porte della basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma, in cui Igor Mitoraj interpreta il mistero dell’Incarnazione nel contesto dell’antico edificio termale di origine romana poi trasformato in Basilica, oppure a Camaldoli la splendida Porta Speciosa del monastero, progettata da Claudio Parmiggiani. Altre ricerche sono state poi condotte nella chiesa di San Fedele di Milano, con interventi di Nicola de Maria, Claudio Parmiggiani, David Simpson, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Sean Shanahan, oltre alla realizzazione della Pala del Sacro Cuore, che risale a ormai tanti anni fa, di Lucio Fontana… Molti esempi potrebbero essere ancora citati… Artisti come Valentino Vago, William Xerra, Marcello Mondazzi, Stefano Arienti, si sono confrontati con temi liturgici numerose volte, realizzando opere tra le

più interessanti in Italia in questi ultimi anni. Si tratta, tuttavia, di casi troppo isolati, perché possano essere significativi in contesti più ampi. La strada per una riflessione sull’arte liturgica è ancora molto lunga. A poco valgono grandi eventi mediatici che si propongono di ricucire il rapporto arte e fede, se non c’è una consapevolezza della distanza tra un’immagine realizzata per un luogo museale o per una galleria d’arte, anche se ispirata da una dimensione religiosa, e un’arte destinata invece alla liturgia e alla preghiera. È questo davvero un tema su cui tutta la comunità ecclesiale deve cominciare seriamente a riflettere. Come scrive nel n. 167 dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium (2013): «167. È bene che ogni catechesi presti una speciale attenzione alla «via della bellezza» (via pulchritudinis). Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù. Non si tratta di fomentare un relativismo estetico, che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma di recuperare la stima della bellezza per poter giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto. Se, come afferma sant’Agostino, noi non amiamo se non ciò che è bello, il Figlio fatto uomo, rivelazione della infinita bellezza, è sommamente amabile, e ci attrae a sé con legami d’amore. Dunque si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede. È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo “linguaggio parabolico”. Bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali, e comprese quelle modalità non convenzionali di bellezza, che possono essere poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli altri». Quali saranno i nuovi segni, i nuovi simboli, le diverse forme di bellezza per il futuro? Quale sarà la nuova carne per la trasmissione della Parola?

È auspicabile che ogni Chiesa particolare promuova l’uso delle arti nella sua opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo “linguaggio parabolico”.

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ETTORE SPALLETTI

In una delle mie prime mostre nella stanza di una galleria a Roma avevo esposto una colonna di colore che si elevava sottile verso l’alto. Dopo quasi trent’anni Monsignor Ghirelli mi ha chiesto di progettare per la cattedrale di Reggio Emilia un candelabro pasquale. Ripercorrendo la storia del candelabro ho ritrovato ancora l’immagine della colonna. All’interno della chiesa ho pensato ad una colonna che si innalzasse per quasi quattro metri, tagliata a metà in senso verticale da una linea di luce ricoperta di foglia d’oro. Le due semicolonne accostate come l’alfa e l’omega. Ho voluto che la base della colonna sprofondasse nel pavimento della cattedrale e che una lamina specchiante la proiettasse verso il basso, moltiplicandone l’altezza all’infinito. Ettore Spalletti 1. Cattedrale di Reggio Emilia. Porta-cero. Per gentile concessione dello Studio Spalletti


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Comitato scientifico: Massimo Angrilli - Fabrizio Capanni - Emanuele Cavallini - Antonio De Grandis - Adriano Ghisetti Giavarina - Paola Renzetti - Claudio Varagnoli

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