architetture e luoghi della misericordia
www.thema.es ISSN 2384-8413
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Giorgio Agnisola - Paolo Bedogni - Enzo Bianchi - Mario Botta Andrea Dall’Asta - Bruno Forte - Adriano Ghisetti Giavarina Valerio Pennasso - Marco Petreschi - Claudio Varagnoli - Marcello Villani
THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI
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PROsystem
Accrescere il valore del patrimonio culturale... Il nostro obiettivo è valorizzare, preservare e custodire il grande patrimonio culturale con le sue immense bellezze che narra di uno splendore dal passato glorioso e presentare agli occhi di un pubblico sempre più attento e curioso la cultura e l’arte che esso ci tramanda e racconta. Con la tecnologia per l’eliminazione dell’umidità capillare PROsystem abbiamo fatto un passo avanti nella conservazione aumentando anche il valore dei monumenti storici e di architetture importanti come scuole, ospedali, chiese e palazzi con particolare attenzione agli edifici posti sotto la protezione dell’UNESCO come la Basilica Eufrasiana di Parenzo, perla del periodo bizantino ed il Palazzo di Diocleziano a Spalato, uno dei monumenti meglio conservati dell’architettura romana nel mondo. PROsystem è un sistema unico che si oppone al processo di risalita dell’umidità capillare e i cui risultati sono visibili in pochi giorni a seconda della struttura, dei materiali utilizzati nella costruzione e della porosità del suolo.
...aprendo porte chiuse già da molto tempo Questa è la storia di una prigione chiamata “Dragon”, situata nel magnifico Palazzo del Rettore nella città di Ragusa (patrimonio UNESCO). La prigione ha suscitato la curiosità dei numerosi visitatori che “sbirciavano” attraverso le sue inferriate. Con l’eliminazione dell’umidità di risalita capillare che, per la sua presenza nelle mura causava odori sgradevoli di muffe e di funghi, il sistema PROsystem ha reso possibile la riapertura della prigione al pubblico. Oggi, da più di dieci anni, le sue porte sono sempre aperte per tutti i visitatori della bellissima Ragusa.
DISTRIBUTORE PROSYSTEM: RESTAURI SPECIALI S.R.L. DI PAMBIANCO GEOM. MAURO CELL. 389 8380085 E-MAIL: RESTAURISPECIALI@LIBERO.IT
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DOVE Bologna Fiere Ingresso Sud Moro Padiglione 33
QUANDO 8/11 ottobre 2017
ORARI 8, 9, 10 ottobre: 9.30-18.00 11 ottobre: 9.30-16.00
INGRESSO gratuito su registrazione
ORGANIZZATO DA
yyyyyyyyy Tel. +39 0542 641731 - info@devotio.it
INTENTI CULTURALI
ESPOSIZIONE
▸ I sensi nella liturgia
▸ La produzione
È il tema della prima edizione di Devotio che sarà trattato attraverso momenti di confronto, incontri e mostre.
▸ Arte contemporanea
Opera di avvicinamento tra arte contemporanea, liturgia e devozione cristiana.
▸ Punto di consulenza
Servizio gratuito a disposizione di sacerdoti e collaboratori per l’approfondimento della gestione degli spazi e delle opere d’arte presenti nelle chiese.
CON IL COORDINAMENTO CULTURALE DI
Eccellenza produttiva, artigianalità creativa, made in Italy, design e tecnologia, arte e unicità. Un’occasione da non perdere per essere protagonisti.
▸ Il pubblico
Clero, collaboratori e rappresentanti ecclesiastici, negozianti e distributori, architetti e designer. Tutto in un unico appuntamento per scoprire le tendenze e le novità di un settore in continua evoluzione.
IN COLLABORAZIONE CON
THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI
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1.
Editoriale Francesca Rapini
THEMA 7/17 2017 periodico semestrale
3.
Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011 ISSN 2384-8413 Editore
Centro Studi Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Direttore Responsabile
Francesca Rapini
LA PARABOLA DEL FIGLIOL PRODIGO NELL’ARTE Giorgio Agnisola
7.
GESÙ, RACCONTO DELLA MISERICORDIA DI DIO Enzo Bianchi
11. UN EDIFICIO, CHIESA PER LA CITTÀ
Redazione
via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Emanuele Cavallini, Paola Renzetti Comitato Scientifico
Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Giuseppe Russo, Claudio Varagnoli Progetto grafico e impaginazione
Mauro Forte Hanno collaborato:
Giorgio Agnisola, Paolo Bedogni, Enzo Bianchi, Mario Botta, Andrea Dall’Asta, Bruno Forte, Adriano Ghisetti Giavarina, Valerio Pennasso, Marco Petreschi, Claudio Varagnoli, Marcello Villani Stampa
Lp Grafiche - Pescara
Valerio Pennasso
17. ARCHITETTURE E LUOGHI DI MISERICORDIA Bruno Forte
23. PROGETTARE LUOGHI DI CULTO IN UNA SOCIETÀ SECOLARIZZATA Mario Botta
47. VOLTI DELLA MISERICORDIA TRA PASSATO E PRESENTE Andrea Dall’Asta
Credits & Copyrights
nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta. www.thema.es themaes.editore@gmail.com
53. DALLA VERONICA IN SAN PIETRO AL VOLTO SANTO DI MANOPPELLO Adriano Ghisetti Giavarina
59. MANUTENZIONE, RIQUALIFICAZIONE, COMPLETAMENTO Modelli d’intervento architettonico ed artistico nei giubilei del seicento barocco a Roma Marcello Villani
67. CONSERVAZIONE E RINNOVAMENTO NELLE BASILICHE GIUBILARI: IL SETTECENTO Claudio Varagnoli
In copertina
Mario Botta, interno del nuovo complesso parrocchiale di San Rocco, Sambuceto - San Giovanni Teatino (CH). Foto di Enrico Cano. Per gentile concessione dello studio Mario Botta Architetti.
73. RIFLESSIONI SULLA COSTRUZIONE DI UNO SPAZIO SACRO Dal Giubileo del 2000 al Giubileo della Misericordia del 2016 Marco Petreschi
THEMA è patrocinata dal
79. RIDISEGNARE LO SPAZIO DELLA PENITENZA Paolo Bedogni
PONTIFICIUM CONSILIUM DE CULTURA
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Legge 22 aprile 1941, n. 633 Art. 70 1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. [...] 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei
Editoriale Architetture e luoghi della Misericordia Francesca Rapini
L
o scorso anno è stato indetto da Papa Francesco il Giubileo Straordinario della Misericordia celebrato in tutte le diocesi del mondo. Com’è noto, gli anni giubilari hanno rappresentato e rappresentano dei momenti importanti per la costruzione di nuovi edifici di culto o per il restauro e rinnovamento monumentale di opere preesistenti, spesso avviati in passato da grandi pontefici e consistenti in rifacimenti di facciate, decorazioni delle grandi cupole delle chiese e realizzazione di monumentali accessi ai luoghi di culto. Nella Roma seicentesca, ad esempio, in quel fervido periodo del barocco romano operarono grandi figure artistiche richiamate e sollecitate dall’imminenza del giubileo. Gian Lorenzo Bernini già architetto della Reverenda Fabbrica di San Pietro fu autore del colonnato che incornicia la Basilica, realizzato proprio in occasione dell’Anno Santo del 1675.
A
conclusione, quindi, dell’anno giubilare appena trascorso e alla luce delle riflessioni emerse in occasione del recente convegno svoltosi a Pescara lo scorso ottobre, si vuole offrire un contributo di arricchimento e riflessione sulla complessità della costruzione di uno spazio sacro anche “nella cultura di oggi, in un ambito globale che ha stravolto tutti i criteri logici di percezione del tempo e dello spazio” e con tutte le problematiche connesse al rapporto tra il valore cultuale e culturale. Ci si interroga quindi sul messaggio spirituale di cui lo spazio sacro sarà testimonianza e sulla figura dell’architetto “che rende la bellezza abitabile”. E “quanto più equilibrato sarà il rapporto che l’architetto-artista creerà fra la pesantezza della forma e la levità della luce, tanto più l’architettura si esprimerà in forme abitabili come luogo di bellezza”. Lasciando quindi la parola alle immagini, nelle opere progettate dall’architetto Mario Botta, sarà possibile scorgere esempi che potranno illustrare l’importanza di una connessione tra i luoghi di culto ed il contesto, in un dialogo serrato con la complessità dello spazio circostante. Si potrà leggere l’esperienza della misericordia come un servizio che la la comunità cristiana, attraverso la costruzione di una chiesa, riesce ad offrire alla città, al territorio e alla gente che lo abita. Ed è esattamente dal concetto di bellezza e del “bello cristiano” che si può giungere a vivere la misericordia in ambito artistico e architettonico.
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ono quindi molteplici le rappresentazioni di un tema che costituisce il nucleo centrale del pensiero cristiano e che è stato espresso in forme d’arte nelle opere che gli artisti ci hanno lasciato. I concetti di salvezza e perdono sono in stretta connessione con l’esperienza di misericordia e rappresentano i punti di riferimento di un dialogo espressivo che si traduce in testimonianze di grande valore. Il portale del battistero di Parma, Portale del Giudizio con la figura del Cristo Giudice che si mostra in tutta la sua umanità, oppure le raffigurazioni delle parabole del Figliol Prodigo celebre quella di Rembrandt o La partenza del figliol prodigo di Hieronymus Bosch, sono soltanto alcuni degli esempi che potremo rileggere quali declinazioni della misericordia in forme d’arte.
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LA PARABOLA DEL
FIGLIOL PRODIGO NELL’ARTE Giorgio Agnisola
Ai temi delle parabole gli artisti come è noto si sono ampiamente interessati, soprattutto a partire dal Cinquecento, e con svariate declinazioni interpretative. In particolare a quelli del “figliol prodigo”, parabola in cui forse più che in altre si palesa l’identità misericordiosa e misteriosa del Padre. Dalla analisi delle opere che la raccontano è possibile trarre suggestioni illuminanti riguardo alla sua esegesi. È soprattutto la dimensione umana che viene evidenziata. Una dimensione che nella lettura degli artisti può ampliare in modo sorprendente l’avvertimento dell’oltre, risultando un inoltro in ciò a cui teologicamente la parabola stessa allude. Attraverso l’espressione dell’abbraccio al figlio ritrovato o della partenza o dell’attesa, ad esempio, si interpretano i mille modi di sentire Dio. Il padre, quello rappresentato nell’opera, non è più un vecchio prima sofferente e poi gioioso: è quello avvertito nel profondo di noi, a cui tentiamo di dare un nome, una identità, essendo di fatto non rappresentabile, e che pure leggiamo nel vecchio di Rembrandt o nel padre misericordioso e aspettante di De Chirico. Noi percepiamo il divino attraverso lo sguardo. Del resto l’arte non spiega, lascia che ci si possa inoltrare direttamente nel mistero. Vari sono i momenti della pagina evangelica (Luca, 15, 11-32) che gli artisti hanno esplicitamente interpretato: la richiesta del figlio d’una indipendenza e la conseguente richiesta della parte spettante di eredità, la partenza e il distacco familiare, l’immersione nei piaceri della vita, la misera e drammatica cacciata del giovane ormai ridotto in miseria dai luoghi del divertimento, il tempo della crisi e del pentimento, la decisione del ritorno, l’incontro col padre che lo accoglie, la “gelosia” del figlio maggiore, la festa per il figlio ritornato. Come è noto la terminologia corrente della parabola, quella del “figliol prodigo” (che pure è il titolo della più parte delle opere d’arte riservate al soggetto ), è eccentrica e limitativa rispetto ai contenuti. Nel tempo sono state proposte altre titolazioni: “Parabola del figlio perso e ritrovato”, “Parabola del padre misericordioso”, “La parabola del padre che dialoga con i suoi figli”. Le prime due pongono l’accento sulla figura del padre, vero protagonista del racconto; la terza sottolinea la dinamica relazionale tra padre e figli. L’attenzione del padre non è infatti riservata solo al figlio minore; anche il figlio maggiore, come sappiamo, è destinatario del messaggio dell’accoglienza e della paternità. Uno dei più prolifici commentatori della parabola è stato il pittore spagnolo Bartolomé Esteban Murillo (16181682), che fu artista di profondi sentimenti religiosi. Di lui si conoscono numerosi dipinti che illustrano anche i momenti meno documentati della storia, come Il figliol prodigo riceve la sua spettanza o La partenza del figliol prodigo (facenti parte del ciclo “Il ritorno del figliol prodigo” (1667-1670). Come lui Jacques-Joseph Tissot, (1836-1902), artista e incisore francese, che dedicò al “figliol prodigo” numerose opere, oli e grafiche, attualizzate nel contesto borghese del suo tempo. Il figliol prodigo: La partenza, 1880-1882, di Jacques Joseph James Tissot è la prima di quattro tele realizzate dall’artista in età matura. Le altre tre riguardano: il tempo della evasione, “Nel Paese straniero” (dipinto ambientato in un singolare contesto esotico), “Il ritorno”, “Il vitello grasso” ovvero “La festa”. L’opera presenta una fine caratterizzazione psicologica dei personaggi1. Il contesto è un interno borghese della seconda metà dell’Ottocento. La scena è ambientata nel soggiorno di casa, un vano in semiombra, illuminato da una luce radente, proveniente da un’ampia finestrata oltre la quale si intravede uno specchio d’acqua con barche. L’anziano padre è seduto al tavolo, un tavolo apparecchiato con tovaglia, porcellane, posate e una teiera fumante. Si direbbe che è l’ora del the. La decisione della partenza del giovane sembra essere sopravvenuta d’improvviso, turbando un momento ordinario della vita familiare. Il giovane è seduto sul tavolo, domina la scena, in posizione centrale. Il punto di osservazione è lievemente soprae1 Di questa opera e delle altre tre che costituiscono il ciclo de “ Il figlio l prodigo” fa una felice analisi Marià Rattà. (Il ciclo pittorico“Il Figliol prodigo nella vita moderna” di James Tissot NPG) .
Hieronymus Bosch, Il figliol prodigo
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levato rispetto al piano del tavolo, sicché è possibile cogliere tutti i particolari che configurano l’ambiente e caratterizzano il momento. Il giovane volge le spalle al fratello maggiore, che a sua volta sembra disinteressarsi di ciò che sta accadendo e guarda fuori dalla finestra. La scena pare in effetti divisa in due parti: la prima, sulla destra, comprende il padre e il figlio minore. Quest’ultimo stringe nella mano destra il portafoglio con i denari che il padre gli ha consegnato. Di lato al tavolo si intravede una valigia pronta. Si tratta dunque del momento del distacco. L’atteggiamento del padre è premuroso, l’espressione del suo volto è trepida, preoccupata. Sfiora il giovane figlio con le dita. La mano sinistra in particolare interpreta le perplessità e l’angustia dell’anziano genitore. Viceversa il giovane è impassibile, egli guarda e non guarda, sembra rivolgersi altrove. L’atteggiamento del figlio maggiore, così apparentemente eccentrico rispetto al contesto, estraneo ed assorto nei suoi pensieri, ci consente di focalizzare la sua figura, in genere meno considerata nella esegesi biblica. Gli artisti invece vi si sono applicati variamente. Non sempre hanno letto in essa il figlio geloso e pio, come sovente viene descritto, che interpreta l’atteggiamento del padre nei confronti del fratello con un senso di umana e calcolata giustizia. Sovente esso appare invece nei dipinti pensoso, preoccupato, talora irriverente e iroso nei confronti del genitore, ma anche tormentato, preso da una sua condizione di incertezza e interiore dissidio. Tale variabilità interpretativa da parte degli artisti appare significativa proprio in relazione alla capacità del linguaggio artistico di spingerci oltre, nel momento della lettura dell’opera. Il fratello maggiore, quanto e più dello stesso minore, interpella, infatti, la nostra coscienza, il nostro modo di essere. L’opera ci invita ad essere parte dell’avventura ricognitiva, a condividere ciò che in essa viene mostrato non in senso passivo ma nel profondo del nostro esistere. Il tempo della dissolutezza viene descritto dagli artisti con ricchezza di particolari. Soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo è sovente pretesto per una descrizione di contesti erotici e lascivi. A ciò si associano sovente allegorie che hanno come soggetto i cinque sensi, ritenuti a quel tempo ambigui sul piano morale2. Tra i dipinti più conosciuti sul tema possono citarsi La mezzana
di Jan Vermeer, opera del 1656, Il figliol prodigo di Gherardo delle Notti (Gerard van Honthorst, 1592-1626), L’allegra coppia ( “Il figliol prodigo dilapida la sua eredità”) di Rembrandt, del 1636, Il figliol prodigo di Frans Francken il Giovane ( 15811642). Il dipinto La mezzana di Vermeer ( Dresda, Gemäldegalerie, Arte Meister, IV Meer, 1656) rappresenta un interno. Il giovane in abito rosso cinge voglioso la giovane donna che porge la mano a raccogliere la moneta che le viene offerta. La donna è in atteggiamento accondiscendente, ma l’espressione del suo volto rivela un certo torpore, forse lei è stordita dall’alcool. Reca infatti nella mano una grossa coppa forse di vino. La mezzana è al centro della scena, emerge dal fondo, il viso sinistro e insinuante. Il giovane è appena in ombra, non si riesce a decifrare completamente l’espressione del suo viso. Ciò sembrerebbe ridurre in parte il suo protagonismo e sottolineare piuttosto il contesto e in qualche modo spostare l’attenzione sulla malcapitata, vittima in definitiva della situazione. Ha un assetto fortemente didascalico il dipinto, pure splendido, di Frans Francken II, detto il Giovane (1581-1642), Il figliol prodigo, (1600-1620), contornato dalle illustrazioni dell’intero percorso della parabola. Si tratta, anche stavolta, di un interno. La scena è affollata di figure e di oggetti, vi si rappresenta un banchetto, che è di fatto un molteplice luogo di divertimento (la tavola è imbandita e sono presenti cibi erotici e a terra sono carte da gioco). Sulla destra è il giovane visibilmente lascivo, insinuato dalla mezzana. In ordine sparso sono rappresentati diversi piaceri, che possono essere interpretati come altrettante tentazioni della vita mondana. Si tratta di una composizione didascalica, come si è accennato, in cui il disordine materiale è allusivo del disordine morale. Fa seguito il tempo della crisi. Il giovane gaudente ha sperperato il suo patrimonio, è ridotto in miseria. Inutilmente chiede credito. Viene cacciato dagli stessi luoghi che aveva frequentato da protagonista. La cacciata è un momento emblematico; nella sua negatività costituisce il principio della svolta. Sono numerosi gli artisti che hanno rappresentato questo frangente del racconto evangelico. Albrecht Dürer, con celebri incisioni, tra cui il bulino datato frequentemente 1496, in realtà di datazione incerta tra il 1490 e il 1499, descrive il giovane prodigo tra gli animali, lacero, meditabondo e non di rado drammaticamente pensoso mentre prega, sfondo un tipico villaggio nordico dai tetti spioventi.
In epoca contemporanea il tema del padre misericordioso è stato più volte ripreso anche al di fuori del contesto religioso: come riferimento filosofico, metafora, condizione esistenziale, sottolineando in particolare la dimensione drammatica dell’attesa, che si lega al tempo, alla storia.
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I sensi venivano sovente classificati gerarchicamente in vista, udito, olfatto, gusto e tatto, associati ai quattro elementi: vista/acqua, udito/aria, olfatto/fuoco, tatto e gusto/terra. Il tema dei sensi prese corpo in età medievale per affermarsi soprattutto in età rinascimentale, particolarmente in area fiamminga.
Nell’incisione di Dürer l’orizzonte chiuso dalle case concentra lo sguardo sul primo piano. È il momento del ripensamento, ma anche della speranza. Ne La partenza del figliol prodigo (Venditore ambulante), anch’esso celebre dipinto di Hieronymus Bosch, la scelta è compiuta. I suoi passi sono risoluti, l’uomo guarda a ritroso pensando ai tempi e ai luoghi della dissolutezza e prova nello sguardo singolarmente invecchiato un senso di profonda amarezza. Il tema viene interpretato dall’artista fiammingo con una densa e partecipe allegoria simbolica, caratteristica del suo linguaggio polisemico. Nel dipinto, datato 1490-1510, di forma circolare, molto simile a quello di altro dipinto, Il cammino della vita, del 1502-‘04, facente parte del “trittico del fieno” e presente al Prado di Madrid, si rappresenta un uomo che incede risoluto. Di lato è un cancello, simbolo del recinto sicuro del pastore, luogo della rinascita. L’uomo volge, come si è scritto, un ultimo sguardo alla casa del piacere, con i simboli che la caratterizzano, tra cui l’insegna del cigno dal piumaggio bianco e della carne scura. Cammina indossando una scarpa e una pantofola, riecheggiando un detto fiammingo riguardo alla povertà, e recando nella misera bisaccia simboli più e meno oscuri, tra cui una pelle di gatto, mentre sull’albero che gli è di fianco sembra esservi una contesa tra la civetta e il picchio, che nel linguaggio simbolico raffigura il Salvatore. In epoca contemporanea il tema del padre misericordioso è stato più volte ripreso anche al di fuori del contesto religioso: come riferimento filosofico, metafora, condizione esistenziale, sottolineando in particolare la dimensione drammatica dell’attesa, che si lega al tempo, alla storia. In realtà si tratta di un tema supposto nella pagina evangelica, implicito. Il padre è infatti costantemente in attesa del figlio lontano. Proprio al tema dell’attesa (e del ritorno) Giorgio De Chirico si applicò più volte, ambientandolo anche in contesti differenti ( il più celebre dipinto sul tema è Il figliol prodigo, del 1922, conservato presso il Museo del Novecento di Milano). Quello del 1926 ha per titolo Il figlio consolatore. È sostanzialmente metafora di una dialettica culturale tra passato e presente (e tra presente
e futuro). Una metafora che si configura ed emblematizza nella condizione dell’attesa, ma anche del presagio e della premonizione. Il figlio, rappresentato come una statua classica, resta a fianco del padre nel momento della tradizione. Altrettanto metaforicamente, nella prospettiva dell’attesa, l’opera può leggersi come la turbata e pure vigile, quasi protettiva presenza del figlio alle spalle del padre che si consuma e si macera nel ricordo. La dimensione psicologica connessa con le scelte visive e le interpretazioni degli artisti può essere molto interessante. Alcuni suoi aspetti, come quello inerente alla fisionomia del figlio maggiore di cui s’è accennato o al tema dell’abbraccio tra il padre ed il figlio nel momento del ritorno (le modalità, le tipologie, i contesti, le reciproche espressioni etc.) possono dare avvio ad approfondimenti suggestivissimi. D’altra parte il ritorno del figlio è uno dei temi maggiormente interpretati dagli artisti. Un tema che ha rappresentazioni celebri. Basti citare Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, del 1668. Ne Il ritorno del figliol prodigo di Marc Chagall, del 1975-’76, l’abbraccio tra padre e figlio avviene sullo sfondo di un intero paese. Tutti gli abitanti vi partecipano. Una ragazza porta fiori in primo piano, la gente esulta. La prospettiva è tale che si domina la scena. Lo stesso colore uniformante del dipinto, un colore azzurro che inclina al viola, con piccoli inserti di rosso, sottolinea nell’intento dell’artista la coralità dell’evento. Nell’opera di Sieger Köder (Il ritorno del figlio prodigo) il padre accosta mirabilmente il suo volto a quello del figlio. È un gesto che significa condivisione oltre che vicinanza, come nel Compianto sul Cristo morto di Giotto. Qui il fratello maggiore non è risentito, non visto e pensoso mostra tutta la sua fragilità, stringendo le mani nervosamente. Infine la gioia. Se c’è un elemento che contraddistingue in finis le parabole della misericordia è la gioia, la festa (è il tema di una conosciuta opera di Pier Leone Ghezzi, del 1694). Lo spiega intensamente Papa Francesco commentando il capitolo 15 del Vangelo di Luca: “Qual è la gioia di Dio? la gioia di Dio è perdonare”.
Ebbene ciò che caratterizza la gran parte delle opere d’arte inerenti al ritorno è proprio, oltre alla commossa pietà del padre, questa sua felicità partecipe. Non è la sua solo la gioia del ritrovamento, ma l’accadere di un superiore compimento, di un progetto eterno di salvezza. A cui ci invita e che ci interpella.
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GESÙ,
RACCONTO DELLA MISERICORDIA DI DIO Enzo Bianchi
1. Exeghésato Alla fine del prologo del vangelo secondo Giovanni sta scritto in modo lapidario:
Dio, nessuno l’ha mai visto, ma il Figlio unigenito, rivolto verso il seno del Padre, exeghésato, lo ha raccontato, narrato, spiegato, rivelato (Gv 1,18). 7 Da parte sua un discepolo dell’Apostolo Paolo proclama che Cristo, “il Figlio amato … è l’immagine (eikón) del Dio invisibile” (Col 1,13.15), e nella Lettera agli Ebrei viene annunciato che “il Figlio è irradiazione della gloria di Dio e impronta (charaktér) della sua sostanza” (Eb 1,3). Per questo Ireneo di Lione può affermare che Gesù è “il volto visibile del Padre invisibile” (cf. Contro le eresie IV,6,6), perché chi vede Gesù vede il Padre (cf. Gv 12,45; 14,9): vede il Padre invisibile nel visibile Figlio umano, sárx perché Lógos fatto sárx (cf. Gv 1,14), carne, umanità. Exeghésato: Gesù ci ha raccontato il Dio invisibile attraverso la carne umana, un corpo umano che è nato, è vissuto, è morto come un figlio d’uomo tra noi umani, narrando Dio, il Padre dal quale proveniva e al quale ritornava, “en érgo kaì lógo”, “nell’agire e nel parlare” (Lc 24,19; cf. At 7,22: “en lógois kaì érgois”, detto di Mosè). Se dunque ci poniamo la domanda: che cosa soprattutto Gesù ha narrato del Padre?, siamo indotti dalla testimonianza convergente del Nuovo Testamento a dare una chiara risposta: “L’amore di Dio”. Proprio grazie alla rivelazione fatta da Gesù su Dio, è stato possibile giungere al vertice del Nuovo Testamento, la rivelazione giovannea: “Ho theòs agápe estín”, “Dio è amore” (1Gv 4,8.16). Sì, anche secondo la rivelazione neotestamentaria Dio è amore, perché per amore ha creato i mondi, per amore ha creato l’umanità, per amore ha scelto Abramo, per amore ha eletto il popolo di Israele; ma l’epifania dell’amore di Dio ci è stata data definitivamente nel dono del Figlio: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Questo amore di Dio, chesed-agápe, è stato vissuto da Gesù e
da lui raccontato soprattutto attraverso la misericordia, questo sentimento viscerale, intimo, profondo, che è reazione dell’amore di fronte al male, alla sofferenza; sentimento materno, che nasce dal grembo profondo, da quello spazio che è spazio di accoglienza, di amore, di cura dell’altro. C’è un soliloquio di Dio, testimoniato dal profeta Osea, illuminante su questo amore che si fa misericordia di fronte al popolo che ha tradito l’alleanza ed è diventato idolatra. Così pensa Dio tra sé:
Efraim (cioè Israele) è per me un figlio amatissimo, è il mio bambino prediletto. Quando devo minacciarlo, mi assale un affettuoso ricordo di lui. Per questo il mio cuore si rivolta contro di me, il mio intimo soffre di compassione. Non sfogherò l’ardore della mia ira, non distruggerò Efraim, perché sono Dio e non un uomo (Os 11,8-9).
È il testo ineludibile per comprendere l’amore di Dio, del nostro Dio, che si fa misericordia di fronte a noi. Qui il popolo ha peccato, ha rotto l’alleanza, dunque Dio deve prenderne atto e, di conseguenza, dovrebbe abbandonare Israele. Ma Dio è – per così dire – impedito anche solo di minacciare il suo popolo, a causa del ricordo amoroso che ha di lui, sicché sente nel suo cuore un sentimento di rivolta contro la giustizia, un sentimento che lo vince: il sentimento della misericordia. Per questo continua, nel suo soliloquio: “Sono il Santo in mezzo a te e non verrò a te nella mia collera” (Os 11,9). Basta questo testo per cogliere il legame tra amore e misericordia di Dio secondo l’Antico Testamento e per comprendere come Gesù abbia voluto raccontare (exeghésato) la misericordia del Dio invisibile. Non solo “la Parola si è fatta carne” (Gv 1,14), ma, come parafrasava il testo gnostico denominato Vangelo della verità, “l’amore si è fatto carne in lui” (n. 14).
2. En érgo kaì lógo Avendo scritto recentemente un libro su tale argomento (L’amore scandaloso di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016), vorrei qui brevemente sintetizzare come Gesù ha raccontato la misericordia di Dio en érgo kaì lógo.
a) En érgo Innanzitutto Gesù ha raccontato Dio en érgo, nell’agire visibile, umanissimo, fino alla morte. Si potrebbe dire che la misericordia è il tratto più evidente di Gesù, è il suo stile, cioè il suo agire eloquente. Com’è apparso Gesù tra di noi? Come ha fatto la sua epifania pubblica? I vangeli ce lo dicono concordi: il primo gesto pubblico compiuto da Gesù è e stato il mettersi in fila tra i peccatori per ricevere da Giovanni il Battista l’immersione in vista della remissione dei peccati. Lui che era senza peccato si è annoverato tra i peccatori! Questa condiscendenza del Figlio era talmente scandalosa che Matteo cerca di spiegarla con un rifiuto da parte del Battista e una parola di obbedienza da parte di Gesù (cf. Mt 3,14-15).
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Resta l’evento: Gesù si è annoverato tra i peccatori per solidarietà con gli umani tra i quali era venuto, diventando umano come loro. Occorre riflettere su questa epifania di Gesù: non un miracolo, non una predicazione, niente di glorioso, ma uno scendere nelle acque del Giordano insieme ai peccatori. Condiscendenza che è narrazione della misericordia di Dio Padre, il quale l’ha inviato in vista di questa solidarietà, come la sua voce dal cielo gli manifesta, al momento del battesimo: “Tu sei mio Figlio, l’amato; di te mi compiaccio” (Mc 1,11; Lc 3,22; cf. Mt 3,17). E alla morte ecco nuovamente Gesù annoverato tra i peccatori, come il vangelo si compiace di evidenziare: “E si compì la Scrittura che dice: ‘Fu annoverato tra i peccatori’ (Is 53,12)” (Mc 15,28, secondo alcuni manoscritti, che riprendono le parole di Lc 22,37)”. Davanti a Dio Gesù è stato solidale con i peccatori, dalla loro parte. Il commento più adeguato è quello di Paolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi” (2Cor 5,21). Dal battesimo al Giordano fino alla morte in croce Gesù ha raccontato la misericordia di Dio, proclamandosi “venuto per i malati, non per i sani, per i peccatori, non per i giusti” (cf. Mc 2,17 e par.), andando a cercare i peccatori, ad alloggiare presso di loro (cf. Lc 15,2), facendosi invitare da loro (cf. Lc 19,110). È significativo che i vangeli ci raccontino incontri di Gesù con malati e con peccatori, o ritenuti tali: pubblici peccatori (detti pubblicani), gente impura, preda di malattie segno di un peccato commesso e sanzionato da Dio, emorroisse, lebbrosi, donne peccatrici, prostitute…, insomma gli scarti morali della società dei giusti incalliti. Gesù ha una preferenza per loro, e infatti essi lo ascoltano e lo accolgono, perché sentono che la sua santità è contagiosa, sentono di averne bisogno per la loro liberazione. Perché egli ama queste compagnie moralmente riprovevoli? Perché nel loro peccato questi uomini e donne sentono il bisogno di Gesù, a differenza di quelli che, ritenendosi giusti, non hanno mai bisogno di altri per la loro vita di credenti. Va riconosciuto che questo racconto della misericordia di Dio fatto da Gesù scandalizzava: scandalizzava i giusti incalliti, gli uomini religiosi devoti, gli osservanti della Legge, quelli che si sentivano irreprensibili e immacolati, incapaci di riconoscere che “il giusto pecca sette volte al giorno” (cf. Pr 24,16) e che sempre gli umani hanno bisogno della misericordia di Dio. Gesù, “il Santo” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), non sta separato dai peccatori, perché è consapevole che la sua santità, se diventa misericordia, è contagiosa, si diffonde tra i peccatori. Chi invece sta separato dai peccatori per non contaminarsi, non solo non santifica gli altri ma neanche se stesso, preda dell’avere fiducia in sé come il fariseo della parabola, il quale “era giusto ma confidava in se stesso” (cf. Lc 18,9). Di fronte alla contestazione dei giusti nei suoi confronti, di fronte alla mormorazione di chi lo definiva “un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt 11,19; Lc 7,34), Gesù per due volte richiama una parola di Dio presente nel profeta Osea (6,6):
Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori (Mt 9,13). Se aveste compreso che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrifici”, non avreste condannato persone senza colpa (Mt 12,7). Chi vuole comprendere, comprenda (cf. Mt 19,12)…
b) En lógo Gesù ha vissuto la misericordia di Dio, l’ha mostrata con il suo comportamento quotidiano, nei giorni della sua vita terrena, ma l’ha anche annunciata con la parola. Mi vergogno di fare solo alcuni accenni al tema, perché occorrerebbe evocare almeno le parabole della misericordia di Lc 15, o quella del samaritano (cf. Lc 10,2937), o quella del debitore perdonato ma incapace di perdonare (cf. Mt 18,23-35), o quella degli operai inviati nella vigna nelle diverse ore del giorno (cf. Mt 20,1-16). Per ragioni di tempo mi soffermo solo su un’innovazione che Gesù, con autorevolezza, compie a proposito del comandamento rivolto a Israele come sintesi di tutti gli altri. I rabbini affermavano che molti sono i precetti, ma uno solo li riassume: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2; cf. 1Pt 1,16). Ebbene, è significativo che Gesù lo trasformi in: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36). Perché questa innovazione? Ovvero, perché la santità è misericordia? La aveva già rivelato Osea, come vedevamo all’inizio, mettendo in bocca a Dio l’affermazione: “Io sono il Santo, non un uomo” (cf. Os 11,9). Se poi la conoscenza di Dio è misericordia – secondo il parallelismo tra chesed e da‘at presente in Os 6,6 –, allora essere misericordiosi significa essere conformi alla volontà di Dio, partecipi della sua santità. Come già si è rilevato, la santità di Gesù è efficace, contagiosa, invade il peccatore, lo perdona, gli rimette i peccati. Gesù è stato la presenza di Dio nella nostra carne, è stato la santità di Dio in mezzo in noi, è stato l’inviato del Padre che ci ha donato “lo Spirito santo”, cioè il Soffio divino che “è la remissione dei peccati” (secondo un’orazione Super oblata del Sacramentarium Veronense, attualmente proclamata il sabato della VII settimana del tempo pasquale). Sì, Gesù ha raccontato la misericordia di Dio con azioni e parole: così ha portato “la conoscenza della salvezza nella remissione dei peccati” (Lc 1,77) e ci ha riconciliati con Dio (cf. 2Cor 5,18-21).
Conclusione: fare o non fare misericordia La conoscenza della misericordia di Dio raccontata da Gesù e da noi meditata, accolta, non può però restare semplicemente un accrescimento della nostra gnosi. Essa deve diventare un “fare misericordia”, secondo la risposta data dal dottore della Legge a Gesù al termine della parabola del samaritano (“ho poiésas tò éleos”: Lc 10,37). La misericordia va fatta, vissuta, deve diventare azione, non può essere solo un sentimento. E fare significa innanzitutto non fare omissioni. Tremo quando leggo la pagina del giudizio finale (cf. Mt 25,31-46), in cui Gesù afferma che la salvezza sarà decisa sulla base di un unico criterio, l’aver fatto o meno misericordia:
Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi … Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me (Mt 25,35-36.40). Sono azioni che sgorgano da un cuore misericordioso, ispirato da Gesù e dal suo Vangelo: azioni di prossimità, di cura dell’altro, di amore concreto. Va invece verso la morte chi non ha fatto queste cose: “Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,45). Sono i peccati di omissione, gli unici veri peccati, quelli contro la misericordia. Ancora un volta: chi vuole comprendere, comprenda…
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UN EDIFICIO
CHIESA PER LA CITTÀ Valerio Pennasso
Il Consiglio Episcopale Permanente della CEI ha voluto un nuovo ufficio a servizio delle diocesi, che mettesse insieme le due competenze maturate nel tempo: i beni culturali e la nuova edilizia di culto, per poter “vedere insieme” l’intero patrimonio, perché la ricchezza dell’esperienza dell’uno e dell’altro potessero offrire alle diocesi, agli uffici diocesani, alle commissioni di arte sacra e quindi ai Vescovi, l’opportunità di conoscere il patrimonio, di poterlo valutare, di capirne l’importanza, la funzionalità e il servizio che deve rendere alla missione principale della chiesa: l’evangelizzazione. Ne nasce l’opportunità per progettare e programmare, per superare la rincorsa alle urgenze o alle opportunità estemporanee. La riflessione che vorrei proporre cerca di mettere a valore non tanto la declinazione del termine misericordia, ma il servizio (misericordia) che la comunità cristiana, attraverso la costruzione di un edificio-Chiesa, riesce ad offrire alla città, al territorio e alla gente che lo abita. Alcune linee di contesto. Prendiamo in considerazione il crocifisso di Chagall.1 “O voi tutti che passate per via, fermatevi e guardate se c’è un dolore simile al mio dolore” (Lamentazioni 1,12) In questo crocifisso come leggiamo nella citazione delle “Lamentazioni” ritroviamo il senso del canone estetico cristiano. Che cos’è il “bello cristiano”? Il bello è colui che rivela non soltanto chi è Dio, ma chi è Dio per l’uomo, per me. Non è tanto la bellezza nel senso più ampio, che possiamo offrire, ma è quel Cristo che mostra il Signore che mi viene incontro. Lui mi viene incontro e io rispondo alla sua offerta. Questa chiamata per un incontro è la verità che risplende. Attraverso la croce traspare la bellezza del far parte di questa relazione proprio attraverso quella forma nella quale Dio stesso sembra aver messo fine al Bello. Si fa brutto per noi e si fa incapace di bellezza per rivelare la cosa più importante: che il Signore è affidabile! Nel percepire questo scarto e questa diversità, di questo Dio che mi viene incontro, si fa esperienza di misericordia. Una misericordia che supera il male, che conduce e trova delle responsabilità nell’agire degli uomini, una misericordia che è aperta, incondizionata, che è capace di dialogo, che è capace di accoglienza, che è capace di spingermi in una direzione, una misericordia che non può essere semplicemente un qualcosa
già predeterminato e precostituito, ma è l’oltre; oltre al quale cerco di andare, perché lì ho trovato un significato più importante. Nella dinamica di rapporti, di relazioni, di incontri si costituisce la comunità. La comunità deve avere quelle parole, quel lessico, quelle espressioni non solo verbali, non solo di atteggiamenti, che consentono alla salvezza di realizzarsi e in questo, la liturgia e l’arte possono essere decifrate come la forza che sana la fatica di vivere, l’opportunità che la comunità offre a se stessa e al mondo nel dialogo e nella relazione2.
È la comunità che costruisce La costruzione di nuove chiese, dicono i Vescovi (Introduzioni dei documenti della Commissione Episcopale della liturgia per la progettazione di nuove chiese del 1993)3, è un problema attuale dell’oggi, dell’oggi di allora, ma anche dell’oggi di sempre della chiesa, nel contesto della riforma del Vaticano II e nel cammino di fede delle comunità. Abbiamo così i canoni della liturgia che si rinnova e di una liturgia che non cambia solo a partire dai documenti, ma che si attua nel suo rinnovamento, ma anche i canoni di una comunità che si pone in cammino quando si tratta di costruire una nuova chiesa. Se dovessimo chiedere alle persone della nostra comunità come vorrebbero la loro nuova chiesa, direbbero che la vogliono come quella che hanno sempre visto e frequentato. C’è bisogno di camminare però. Nella chiesa di oggi e di domani, la forma della chiesa non può essere soltanto quella “che ho sempre visto”. C’è bisogno di crescere, di fare esperienze, perché la comunità possa diventare adeguata a quella liturgia che adegua anche la comunità. Se la liturgia fa la chiesa e la chiesa fa la liturgia è necessario trovare un cammino davvero di prospettiva. Per cui costruire una chiesa di pietre esprime una sorta di radicamento alla chiesa di persone. Posso costruire una chiesa di pietre se ho una chiesa di persone e viceversa. Si tratta di costruire la chiesa come comunità che si pianta, che mette le radici e si dà una forma, attraverso l’espressione di chi questa forma è capace di esprimerla. Il discernimento della comunità nella costruzione di una nuova chiesa diventa un’attività pastorale. In mezzo a noi ci sono due parroci che stanno costruendo una chiesa. Una domanda 2
1
P. Elia, Dire Dio con arte. Un approccio teologico al linguaggio artistico, Ancora, Milano 2003, 109.
Marc Chagall, Crocifissione bianca, 1938
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Ibid., 136.
Commissione Episcopale per la liturgia, La progettazione di nuove chiese. Nota pastorale, 1993.
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potrebbero porsi: “perché il mio Vescovo mi dice di andare in quella parrocchia e invece di fare il parroco devo costruire una chiesa e quindi fare l’impresario?” Noi sacerdoti non siamo degli impresari edili! Non immagino la parrocchia come una impresa che investe nel campo immobiliare. Costruire una chiesa può essere una grande occasione pastorale per la comunità. Se non cogliamo quest’opportunità rischiamo di perdere un pezzo, rischiamo di perdere un grande valore e una occasione unica. Già i vescovi nel 1993 facevano riferimento ad un processo che si innesca nel momento in cui è necessario costruire un edificio chiesa. Similmente nel 1996 in un altro testo4 i Vescovi, facendo riferimento all’adeguamento degli edifici chiesa secondo la riforma liturgica e parlando delle chiese esistenti, ricordano come la progettazione deve essere sollecita e controllata: non la affido a terzi e me ne disinteresso, fino a quando devo pagare le fatture o quando mi ritrovo qualcosa che non va, una porta stretta o un’aula diversa rispetto a quello che mi serve. Le chiese esistenti devono prestarsi alla promozione e al rinnovamento celebrativo, a creare uno stretto rapporto tra ciò che si costruisce e lo stile della celebrazione. L’architettura e gli spazi aiutano a cercare in modo adeguato, secondo l’adeguamento liturgico, il rinnovamento. Il modo in cui si celebra informa, dà delle informazioni, dei vincoli allo spazio. Se si parte solo dall’uno o dall’altro aspetto si rischia di non essere adeguati secondo il Vaticano II. Per cui è necessario un itinerario di progettazione dove ci si sente, ci si confronta, si delineano le necessità e le aspettative, si formulano dei progetti di massima, si prova, si sperimenta. Si collocano altare, ambone e sede su una stessa piattaforma piuttosto che dislocato in luoghi diversi della chiesa. Un po’ più in qua o in là, più avanti o indietro. Fa la differenza non solo dal punto di vista della celebrazione del parroco o del vescovo che celebra, ma anche della comunità. Ha bisogno di sperimentare, ritrovarsi per ulteriori occasioni per la formazione prima di arrivare al progetto esecutivo. Papa Francesco nella Lettera Enciclica sulla cura della casa comune Laudato Si’, sollecita a considerare il patrimonio naturale e costruito, quello storico e architettonico integrati tra loro, capaci di esprimere una identità originale, una identità che non si può in alcun modo dimenticare o disconoscere. Siamo invitati a fare attenzione alle culture locali, al dialogo tra linguaggio tecnico-scientifico e quello popolare, quello della gente5, che deve ritrovarsi nelle chiese contemporanee e potersi esprimere accendendo una candela di fronte all’immagine della Madonna o del Santo, dove ci si riconosce come a casa propria, seppure questa casa debba essere apprezzata. Questa capacità ha bisogno spesso di cammini di crescita.
Papa Francesco nella Lettera Enciclica sulla cura della casa comune Laudato Si’, sollecita a considerare il patrimonio naturale e costruito, quello storico e architettonico integrati tra loro, capaci di esprimere una identità originale, una identità che non si può in alcun modo dimenticare o disconoscere.
Progettare il cambiamento Carlo Ratti, architetto di Torino, in una intervista sulla rivista «IOArch»6 si confronta sul significato delle costruzioni dell’architettura contemporanea delle città. Le città sono intasate dal traffico, dalle macchine, dalle relazioni, dai flussi. “La città del ventesimo secolo non era basata sulla condivisione bensì sulla separazione. Nella Carta d’Atene all’inizio degli anni Trenta, Le Corbusier e il CIAM scrivevano che per migliorare le condizioni di esistenza nella città moderna, bisogna dividere e migliorare lo svolgersi armonioso delle quattro funzioni umane: abitare, lavorare, divertirsi e spostarsi. Quell’idea guida, figlia del sistema economico dell’era industriale, era assurda: significava costruire pezzi interi di città che sarebbero stati vuoti durante la notte o durante il giorno e creare notevoli flussi di traffico da una parte all’altra”. La sollecitazione è ad avere “un’attenzione a costruire invece città in cui tutto è condiviso, di conseguenza una città in cui usiamo lo spazio costruito in maniera più 4
Id., L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica. Nota pastorale, 1996.
5
Francesco, Laudato Si’, 2015 n. 143.
6
C. Ratti, «Progettare il cambiamento», in «IOArch» 10, (giugno 2016) 14.
efficiente”, eventualmente attraverso la valorizzazione del patrimonio costruito, oppure coinvolgendo i cittadini nei processi di trasformazione e magari attraverso l’utilizzo delle tecnologie, dell’internet delle cose. “Non ho nessun problema a dire che non dovremmo costruire più nulla di nuovo, almeno in quelle parti di mondo in cui già esiste uno sviluppo urbano elevato. Prendiamo il caso dell’Italia. In un Paese in cui la popolazione non cresce e gli standard abitativi non cambiano, non si può più pensare a espandere le aree urbane come nel secolo scorso: oltre a consumare inutilmente territorio vergine, ciò si traduce inevitabilmente nello svuotamento delle aree già edificate, esposte così al rischio del degrado. Tre sono le sfide per il futuro: 1. Valorizzazione del patrimonio costruito 2. Avvantaggiarsi delle tecnologie dell’Internet delle Cose 3. Coinvolgimento dei cittadini nei processi di trasformazione, grazie alle reti digitali “La meno conosciuta delle rivoluzioni urbane del ventesimo secolo iniziava esattamente sessant’anni fa, per caso, nel luogo più improbabile: un campo nomadi alla periferia di Alba, nelle Langhe. È li che Constant Nieuwenhuys, artista olandese noto come ‘Constant’, parcheggiando su un pezzo di terra di proprietà dell’amico pittore piemontese Giuseppe Pinot-Gallizio, ebbe un’intuizione che avrebbe cambiato il nostro modo di guardare alle città, al loro funzionamento, alla loro bellezza. In quelle settimane, nel terreno in riva al Tanaro, era alloggiato un gruppo di Sinti. Avvicinandosi alla comunità, e osservandone i ritmi, Constant intravide la possibilità di un’architettura del tutto nuova, con cui immaginare un’esistenza in movimento perpetuo. In altre parole, qual giorno di dicembre 1956 ad Alba è stato piantato il primo seme di New Babylon (la Nuova Babilonia), l’utopia urbana e umana su cui Constant avrebbe lavorato per quasi vent’anni”. Nei documenti accumulati nel tempo si presenta come un insediamento infinito, un campo per nomadi su scala planetaria, la vita si sarebbe svolta all’interno di spazi chiusi e rimodellabili. La New Babylon sarebbe stata abitata da un uomo nuovo, la cui vita flessibile avrebbe abbattuto ogni
distinzione tra lavoro e arte. La città si può rappresentare come una trama di flussi e la bellezza architettonica diventa anche una bellezza in movimento: architettura dinamica.7 Le relazioni tra le persone possono fare la differenza nella vita quotidiana, e questo non solo dal punto di vista del vicino di pianerottolo con cui si scambia la tazzina di caffè piuttosto che di zucchero. Le relazioni possono “costruire” spazi e edifici, una chiesa che si pone in dialogo ed essere un crocevia all’interno di una città e di un quartiere. L’esperienza del mondo inglese, non cattolico, mette a disposizione le chiese non più utilizzate al culto perché possano essere rigenerate da comunità anche differenti. Siamo in un ambito non cattolico di chiese dismesse ma non abbandonate, con l’intento di provvedere anche alla loro conservazione che non è solo materica ma anche di memoria, affinché le chiese possano diventare occasione per “usa la tua chiesa, usa le tue chiese non lasciarle vuote, usale per quel che ti servono, a cosa possono servire?”, per citare gli slogan delle campagne di valorizzazione (www. Visitchurches.org.uk - The Churches conservation trust). Le chiese sono significative all’interno di comunità o di quartieri. A Catania, quartiere Trappeto Nord un quartiere del tutto nuovo, ormai datato, ma che non ha spazi comunitari. L’unico spazio è un prato incolto, rimasto così da trenta anni, non ha piazze ma solo palazzi per dormirci e la vita si svolge altrove. Ora il comune ha iniziato collocarci qualcosa, cerca di realizzare una piazza perché la gente si incontri. Questa piazza potrebbe essere uno spazio in cui prossimamente una si costruirà una chiesa. Ma cosa vuol dire che una chiesa sarà un valore aggiunto per l’intero quartiere? Dal punto di vista della chiesa e della comunità cristiana lo conosciamo, e dal punto di vista delle relazioni sociali la progettazione non può prescindere da queste necessità e deve trovare delle modalità di incontro e comunicazione, di relazione con la stessa comunità perché il nuovo edificio possa esprimere esigenze e aspirazioni e rappresenti una occasione di riscatto e di valorizzazione dell’intero territorio. 7
C. Ratti, Città e Babilonia, 2016, 95
Progettare città per le persone In questo contesto e la CEI già dallo scorso anno, sollecitata dalla Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco, ha cercato di affrontare la costruzione di nuove chiese, cercando di progettare con le persone e per le persone affinché gli spazi pubblici, la qualità della vita, i costi economici, l’etica del lavoro e della progettazione e dell’utilizzo dei materiali di qualità affermino il primato della persona e della comunità. Quando si costruisce una chiesa non si costruisce una casa come tante altre, non si costruisce un edificio come tanti altri, lo sanno bene gli architetti. La CEI propone e promuove un patto tra i cittadini, le amministrazioni, i politici, i professionisti e le imprese. È un patto tra galantuomini, non c’è bisogno di sottoscriverlo con una firma dal notaio, ma cambia il rapporto tra le persone, le cose che si costruiscono e il loro contesto.
“Ogni realizzazione architettonica è un’incursione nel mondo della materia. Essa mira a trascenderlo introducendovi un elemento che non vi si trovava allo stato naturale. Nel rapporto tra uomo e natura, costruzioni come la torre di Babele o il miskan (tabernacolo) coinvolgono un terzo protagonista: Dio. Qual è il punto di vista di Dio sul rapporto uomo-materia, e sul ruolo dell’uomo nel mondo? Che senso deve avere una costruzione, e, più in generale, l’azione umana?”8 8
D.Banon, D.Derthy, Lo spirito dell’architettura, Qiqajon, Magnano 2014, 29.
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Tra la Babele che gli uomini hanno costruito, nel realizzare una città e che Dio ha imposto nella dispersione e il miskan che è nel tempio, il santuario che il popolo di Israele si portava nel deserto e che tutte le volte veniva costruito e smontato, questa relazione tra un dialogo che alla fine diventa dispersione delle lingue, i pezzi che si compongono e si scompongono per essere trasferiti, la relazione tra l’uomo e la materia ciò che vogliamo fare che sia eterno e ciò che invece è eterno, che si smonta e mi rimanda a qualcosa che viene dopo e non mi appartiene mai fino in fondo, il rapporto tra le costruzioni la materia e io stesso. Dio avrà ben qualcosa da dire? Sulle opere che facciamo, sui progetti che redigiamo, sulle intenzioni del senso e del valore dell’architettura e della nostra vita, Dio ha qualcosa da dire. Costruire in senso fisico diventa l’archetipo della costruzione sociale e del rapporto tra Dio e gli uomini. L’ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della CEI, utilizzando le risorse che i vescovi mettono a disposizione attraverso i fondi dell’8x1000 per i restauri piuttosto che per la costruzione di nuove chiese, continua la sua azione di ricerca, informazione e formazione dei tecnici delle diocesi affinché ci sia un approccio non determinato dalle emergenze o dalle occasioni, ma che emerga da una programmazione. Occorre avviare processi che partano dalla conoscenza. Le diocesi italiane in questi ultimi 20 anni stanno realizzando proprio in questa direzione inventari e cataloghi del patrimonio mobiliare e immobiliare, dei fondi bibliografici e archivistici. “È il processo che fa l’innovazione. Si tratta di innovazione di processi più che di prodotti. Qualsiasi problema affrontiamo in modo sistemico alla fine succede che facciamo proclami, piani, studi e dopo un po’ ci si scorda tutto. Ma l’innovazione va per vicoli, non per piazze”. Sono alcuni passaggi di Giuseppe De Rita in una intervista del 20 ottobre 2016. Si tratta quindi una questione di metodo non solo di proclami
o di intenzioni, ma di operatività di approccio. “Gestire” i processi significa utilizzare conoscenze, competenze, strumenti, tecniche e sistemi per pianificare, definire, visualizzare, misurare, controllare, raccogliere dati e per migliorare i processi, con l’obiettivo di soddisfare tutti i requisiti posti a monte. In altre parole lo stile che il Convegno ecclesiale di Firenze con forza ci spinge a perseguire è quello della sinodalità operativa. Per noi come chiesa è la base del nostro modo di vivere, ma nel contesto della contemporaneità è quella innovazione che non solo porta al cambiamento, ma soprattutto alla qualità. Il processo parte dalla partecipazione e pianificazione diocesana sulla base delle esigenze pastorali, con uno sguardo puntato sul futuro per evitare di rendesi conto che la chiesa appena costruita non vada più bene costruita in quel luogo, perché si era partiti tanto tempo fa, mentre invece ora serva altrove. Non dobbiamo inventare forse nulla di nuovo per fare. È sufficiente continuare a operare con gli strumenti che già abbiamo. Occorre semplicemente innovare i processi, cercare di far funzionare bene gli organismi che abbiamo nelle nostre diocesi: ufficio diocesano, commissione di arte sacra, consiglio per gli affari economici, attraverso un dialogo per poter far sì che questo nostro mondo cosi articolato non facilmente raggiungibile dai professionisti (spesso anche chi ci è vicino non distingue tra la diocesi, la parrocchia e il Vaticano, l’istituto sostentamento clero e chi debba dare le autorizzazioni, di chi sia la priorità) possa giungere veramente ad una progettazione di qualità. L’esperienza dell’Ufficio Nazionale per quanto riguarda la nuova edilizia rileva che il processo edilizio si sviluppa in questa modo: un piccolo tempo per la pianificazione e la programmazione, un tempo un po’ più lungo per la progettazione e un tempo lunghissimo (molti molti anni) per la realizzazione. Questo modo di operare comporta poi numerosi aggiustamenti in corso d’opera e spesso sostanziali varianti che provocano conseguenze sia dal punto di vista dei tempi che dei costi e talvolta i costi sfuggono dal controllo tanto da rallentare, interrompere o pregiudicare la realizzazione del progetto o la sua qualità. Un nuovo piano strategico è quello di cercare di rendere più equilibrati i tempi delle diverse fasi del processo edilizio, dedicando più tempo alla pianificazione e alla programmazione, affinché tutto ciò che poteva essere prevedibile venga previsto nel tempo opportuno senza dimenticare le problematiche della gestione e della manutenzione nel tempo. Costruita una chiesa, il parroco dice: “Siamo arrivati alla fine”, ma non sa che comincia soltanto da quel momento, perché l’edificio vive e come ogni organismo vivente ha necessità di cure continue.
Sulle opere che facciamo, sui progetti che redigiamo, sulle intenzioni del senso e del valore dell’architettura e della nostra vita, Dio ha qualcosa da dire.
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Il metodo cerca un approccio attraverso una tattica che cerca di raggiungere l’obiettivo: la pianificazione di tutto ciò che può servire nella progettazione da tutti i punti di vista, fino all’aspetto non marginale della modalità di gestione. Come già annunciato lo scorso anno nel convegno di ottobre sulla manutenzione, l’Ufficio Nazionale supporterà anche con una strategia e uno strumento informatico la manutenzione a partire dalla progettazione, perché non capiti che poi questa piombi addosso alla parrocchia facendo emergere criticità insormontabili. Nella fase preliminare occorre prendere in considerazione tutte le problematiche nei diversi ambiti: aspetti legali, economici, urbanistici, tecnici e altro. Così pure occorre coinvolgere tutte le parti interessate: la diocesi, la comunità parrocchiale, l’amministrazione pubblica e i gruppi di progettazione senza dimenticare gli enti culturali, i finanziatori, gli specialisti e le imprese. Occorre con molto anticipo porsi le domande strategiche in sede diocesana: È necessario? Quali sono le priorità? Quali sono i vincoli? Ho del tempo a disposizione e quali sono le risorse che possiedo? Sono sufficienti? La comunità parrocchiale è matura? Queste e altre sono le domande alle quali occorre dare risposte in un serio studio di fattibilità che ricomprenda anche un approccio prospettico. Sarà assolutamente indispensabile sia per la pianificazione che per l’ulteriore sviluppo del processo edilizio (DPP) nei termini di qualità, costi e tempi. Il fattore tempo si rivela sempre più una variabile importante non solo per le ricadute sugli aspetti economi, ma soprattutto sulla qualità della realizzazione. La redazione dello studio di fattibilità non può avvenire a tavolino pur coinvolgendo professionisti di alto livello, ma è l’occasione per la maturazione anche della consapevolezza a tutti i livelli. È il tempo dell’ascolto, della formazione e dell’adeguamento del desiderio al possibile prima ancora della progettazione. Dal “si può fare” occorre passare al “come si può fare”. La modalità con cui questo avviene ha un suo processo di sviluppo edilizio che cerca di comprendere la domanda, che nasce dalla comunità e dal territorio e cerca di dare delle risposte. Domande differenti: liturgiche, personali, artistiche, ecclesiali, di attrezzature, di edifici esistenti. Dalla attenzione alle domande della gente, delle comunità del territorio, di ciò che notiamo e dal coinvolgimento si generano pensieri nuovi, approcci nuovi, modalità nuove. Nel momento in cui ci relazioniamo con le comunità diocesane o parrocchiali del territorio, l’approccio progettuale non è più come prima, modifica e dà qualità. Il coinvolgimento è sempre generativo. Questo è un grande laboratorio, il laboratorio della committenza molto articolato: diocesi, parrocchia, amministrazioni pubbliche, esperti, società civile. Ci va del tempo, non bisogna scoraggiarsi e bisogna essere molto determinati. Stiamo realizzando alcune esperienze a livello regionale. Accompagnare le comunità è qualcosa di utile per tutti, ma l’Ufficio Nazionale non riesce a farlo sempre, per questo stiamo provando a seguire a livello regionale un caso studio con le diocesi di quella stessa regione perché ci possa essere una crescita comune. Occorre essere molto determinati con un calendario preciso, con una disponibilità a organizzare, ma soprattutto far sì che per il parroco e per la diocesi la costruzione di una nuova chiesa sia un’opportunità pastorale ed ecclesiologica, pastorale e liturgica, che può diventare anche testimonianza di carità, perché ascoltare le persone, accoglierle come sono, aiutarle a crescere, penso che sia una grande testimonianza di carità.
Dal si può fare occorre passare al come si può fare
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ARCHITETTURE
E LUOGHI DI MISERICORDIA Bruno Forte
Riprendo e sviluppo la riflessione proposta in: B. Forte, La bellezza di Dio, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2006, 374-380. L’architettura come scrittura della luce. In un testo, le cui conseguenze per la storia dell’arte difficilmente saranno esagerate, il Concilio Costantinopolitano IV nell’870 conferma la condanna dell’iconoclastia pronunciata dal Niceno II (787), affermando che “quanto il discorso (lógos) dice in sillabe (en syllabé) la scrittura in colori (è en krómasi grafé) lo annuncia e lo rende presente” (DS 654). Il collegamento fra il “sillabare del lógos” e la “grafia dei colori” non sorprende chi consideri come nella tradizione orientale l’iconografo non sia colui che dipinge, ma colui che “scrive” l’icona: la “scrive”, precisamente perché si serve di linee e di colori. Come la linea delimita lo spazio e circoscrive una forma, così fa la lettera dell’alfabeto o il disegno dell’ideogramma: la linea dà forma allo spazio, lo in-scrive. L’icona in quanto spazio “in-formato” è “scritta”. Il colore dà luminosità alla forma così definita, facendo emergere in essa dalla tenebra indefinita lo splendore della luce originaria. La linea - in quanto limita e circoscrive - è “kènosi”, il colore - in quanto illumina e irradia - è “splendore”. Mentre la linea definisce la separazione, il colore manifesta l’unità fra il Tutto ed il frammento: grazie alla loro combinazione, il Tutto può offrirsi nel frammento e il frammento ospitare la totalità evocandola. È così che la luce in-scritta assume forma e può offrirsi come evento di bellezza. In un simile evento il Tutto si fa presente nel frammento in un modo che non confonda i due termini, ma faccia dell’uno la cifra e dell’altro: in tal senso, la bellezza della forma è insieme “kenosi dello splendore” e “splendore della kenosi”, e l’architettura altro non è che scrittura della luce attraverso il gioco delle masse e dei vuoti.
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L’architettura come arte. La misura della non confusione di questi due elementi - nell’irrinunciabile non separatezza - è la misura dell’arte: questa misura può dirsi raggiunta non tanto quando non c’è più nulla da aggiungere, ma quando non c’è più nulla da togliere, sul confine della leggerezza della evocazione simbolica e non su quello della pesantezza della rappresentazione realistica. È precisamente a questo gioco di linea e di colore, di cifra e di simbolo, che si presta con singolare proprietà l’architettura: l’architetto scrive con la forma e il colore, con la delimitazione dello spazio e il gioco della luce, in una sorta di “trasgressione simbolica”, che dice tacendo e varca la soglia fra il finito e l’infinito senza violarla. L’architettura è veramente una “scrittura della luce”! Proprio così, gli architetti rendono la bellezza abitabile: abitare l’arte sarà per essi realizzare una forma dello spazio in cui la necessaria riduzione dell’infinitamente vasto si esprima come raccoglimento rispettoso del tutto, e conseguentemente come “kénosi dello splendore” e “splendore della kénosi”, come verbo abbreviato della bellezza (non a caso “bello” viene dal latino medioevale “bonicellum” = “piccolo bene”, “bene abbreviato”: e non a caso un teologo come Tommaso d’Aquino concepisce la bellezza a partire dal Cristo, il Verbo abbreviato nella carne!). Quanto più equilibrato sarà il rapporto che l’architetto artista creerà fra la pesantezza della forma e la levità della luce, tanto più l’architettura si esprimerà in forme abitabili come luogo di bellezza.
L’architetto scrive con la forma e il colore, con la delimitazione dello spazio e il gioco della luce, in una sorta di “trasgressione simbolica”, che dice tacendo e varca la soglia fra il finito e l’infinito senza violarla.
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La kénosi e lo splendore. L’architettura, forma dello spazio abitata dalla luce, proprio in quanto è tale si offre come una realizzazione singolare del gioco di contrazione e di splendore, con cui l’immaginario biblico concepisce l’atto creatore: nel racconto dell’opera dei sei giorni, culminante nel riposo divino dello Shabbat, lo spazio appare quale il risultato del “ritrarsi” del Creatore in se stesso perché la creatura esista, secondo la dottrina giudaico-cabalistica dello “zimzum”, o del divino contrarsi. Analogamente accade - secondo la fede cristiana - nell’annientarsi del Figlio sulla Croce, perché la Sua kénosi, abbreviazione dell’infinito amore, dia vita piena alle creature di Dio. Se
Mario Botta, parrocchia di San Rocco, Sambuceto (San Giovanni Teatino), Chieti, Italia (2006 - in corso) - Foto di Enrico Cano
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frutto della kènosi divina è lo spazio, lo splendore del Sabato ebraico - anticipo d’eternità, unica delle realtà create di cui è detto che è santa - e quello del Risorto a Pasqua segnalano nel dinamismo del tempo l’impronta della vita eterna: la forma dello spazio è fatta per essere abitata dallo splendore del tempo, riflesso umile dell’eterno divenire della vita divina. Proprio così l’architettura - intesa come l’opera volta a far “abitare lo spazio”, plasmando la forma nel suo rapporto con l’irradiarsi della luce ad essa impressa dagli abitatori del tempo - può costituire un singolare stimolo a ricordare come solo lo splendore originario vivifichi veramente lo spazio, pervadendolo col “gemito della creazione” per superarne la costitutiva caducità, e come dunque la grande sfida posta all’architetto - artista non sia quella di fuggire le forme che necessariamente delimitano, ma quella di abitarle portando in esse l’impronta, la nostalgia e l’attesa della bellezza eterna.
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Architettura sacra. In tal senso, l’architettura volta a far abitare la forma dello spazio con lo splendore della luce divina, l’architettura “sacra”, non è che preparazione e dilatazione della liturgia, intesa come l’evento in cui l’eternità viene a prendere dimora nel tempo. L’architetto, “scrittore” di un tale spazio, è una sorta di “pontifex”, di liturgo che realizza nelle forme contratte del mondo l’incontro fra il tempo e l’eterno: gli edifici che egli costruisce sono come dei “ponti per giungere alla Gloria” (“ponts per a arribar a la Glória”). Così affermava il grande artista dello spazio e scrittore della luce, Antòn Gaudí (cf. I. Puig Boada, El pensament de Gaudí. Compilació de textos i comentaris, Editorial La Gaya Ciència, Barcelona 1981: le frasi di Gaudì qui richiamate sono tratte da quest’opera), riconoscendo nell’opera dell’architetto nient’altro che un’umile collaborazione al Creatore, l’Artista eterno: “Coloro che cercano le leggi della natura per conformarvi nuove opere collaborano col Creatore ... Perciò, l’originalità consiste nel tornare all’origine”. La forma architettonica ideale, allora, è la più vicina allo sviluppo spontaneo dell’ambiente voluto dal Creatore del mondo: “La realizzazione di una cosa sta nel porne la legge in accordo con quella della creazione”. L’ambiente che ne risulta è veramente uno spazio per abitare l’arte: in esso tutto si corrisponde, perché la luce e la forma si incontrano armonicamente. “La luce deve essere giusta, né troppa, né poca, poiché tanto l’una come l’altra accecano”. I colori - come quelli della liturgia latina - devono essere “netti e inconfondibili, i meglio appropriati per essere distinti bene a distanza”. Chi entra in uno spazio creato dall’uomo secondo questi criteri dovrà poter assaporare la stessa armonia che c’è nello spazio originario plasmato da Dio, e la continuità fra l’ambiente interno ed esterno dovrà assicurare la qualità della vita per tutti, d’una vita che abiti il tempo gustando già qualcosa della bellezza dell’eternità.
Coloro che cercano le leggi della natura per conformarvi nuove opere collaborano col Creatore ... Perciò, l’originalità consiste nel tornare all’origine.
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Levità e pesantezza. Le forme dello spazio plasmato dall’uomo non dovranno allora catturare la luce, ma servirla: è la luce l’icona dello splendore, che deve pervadere e plasmare dal di dentro la forma. In architettura, un’opera d’arte è tale se in essa si esprime la forma senza vanificare il colore e il colore senza vanificare la forma, come avviene invece nella pesantezza del “kitsch”. Un’architettura “lieve” è quella capace di esprimere nel frammento l’intensità del Tutto, evocando la totalità senza catturarla nelle maglie del disegno: in essa la linea e il colore si inabitano in modo tale che la pesantezza dello spazio chiuso non impedisca alla luce di attraversare la forma, e la forza del colore non risolva in sé in una indebita confusione ogni determinatezza spaziale. Proprio così, un’opera di architettura può divenire riflesso della divina bellezza: e questo non in base al motivo più o meno “sacro” che essa voglia esprimere, ma in base alla levità dell’evocazione, alla sobrietà della forma, alla purezza della luce, combinate in un gioco di discrezione e di eleganza assolute. Un ambiente così plasmato è
Un’opera di architettura può divenire riflesso della divina bellezza: e questo non in base al
tutto e solo arte da abitare: un’arte che - in quanto anticipo d’eterno - non può essere privilegio di pochi. Anche i poveri hanno diritto alla bellezza: ecco perché non è solo lo spazio interno, ma anche quello che esternamente si offre sul pubblico e sul comune che va concepito secondo questi criteri. Abitare l’arte deve essere compito di tutti gli artisti e diritto di tutti gli abitanti della grande casa che è il mondo.
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motivo più o meno “sacro” che essa voglia esprimere, ma in base alla levità dell’evocazione, alla sobrietà della forma, alla purezza della luce, combinate in un gioco di discrezione e di eleganza assolute.
Il tempio, spazio tagliato per Dio. Nella concezione ebraico-cristiana spazio sacro sarà allora quello capace di evocare e invocare la bellezza di Dio, frammento in cui il Tutto si offre e rende possibile l’altrimenti impossibile passaggio dal linguaggio cifrato delle forme del mondo a quello silenzioso e indicibile della forma celeste. Tagliare nel teatro del mondo un simile spazio per la gloria di Dio, edificare il “tempio”, nel senso proprio e originario di luogo “tagliato” (tempio da “témno” = taglio), separato per Dio, sì da essere la cella della Sua bellezza, la casa dell’incontro, il santuario dell’adorazione che trascende ogni conoscere, è stata l’inesausta ricerca che ha ispirato l’invenzione delle architetture della fede. Frutto di questo tentativo incessante di tagliare uno spazio per il divino nella storia dell’arte occidentale è - come afferma Cesare De Seta nel suo bel libro Le architetture della fede (Bruno Mondatori, 2004) - “un lungo percorso alla fine del quale si perviene alla conoscenza e alla verità di Dio fatto uomo: lì, nel centro, c’è la luce e la verità”. Nelle opere di ieri e di oggi si lascia intravedere un ritornante movimento di trascendenza verso il Mistero, che nel silenzio delle forme educa a dire all’Eterno parole d’amore, e ad ascoltare negli spazi sacri, simbolo denso ed efficace degli spazi dell’anima, la Parola e il Silenzio di Dio. Su questa scrittura della luce, che è l’architettura, vale la pena di meditare a lungo, specialmente per una cultura come la nostra plasmata da secoli da opere belle nel campo dello spazio dedicato al culto, per imparare la lingua delle forme architettoniche come possibile e stupefacente lingua del Sacro, soglia che introduca all’evento capace di cambiare il cuore e la vita: l’incontro col fuoco divorante dell’eterno Amore, apparso nella storia una volta e per sempre in Gesù Cristo, l’Alleanza in persona, il Solo in cui il cielo è sceso in terra e vi ha messo radice, perché le forme della terra anticipassero gli spazi del cielo, e la scrittura dello spazio nel presente rinviasse allo spazio senza spazio e al tempo senza tempo in cui a scrivere nella luce dei cuori sarà per sempre la mano dell’Eterno...
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Architettura e misericordia: nel segno della custodia e della tensione verso la luce. In base alle riflessioni fin qui sviluppate, è possibile chiedersi quale rapporto possa esistere fra architetture e misericordia. In altri termini, ci chiediamo se uno spazio architettonico può essere più o meno adeguato di un altro ad evocare l’amore misericordioso del Dio cristiano. Un richiamo filologico può aiutarci a individuare una risposta. Nell’ebraico biblico il termine più frequente per indicare la misericordia è “rachamim”, espressione che designa propriamente le “viscere” materne, il grembo in cui ha inizio ogni vita. Sul piano delle relazioni che ci fanno umani l’immagine richiama il sentimento intimo di coappartenenza che lega il concepito alla madre, il legame originario dell’amore che fa vivere fra chi dà vita e chi la riceve: sentimento di tenerezza e perfino di commozione profonda (“Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono”: Sal 103,13; cf. Ger 31,20 e Gen 43,30). La misericordia evoca l’amore viscerale, non condizionato dalla reciprocità e dall’altrui corrispondenza, ma mosso unicamente dalla volontà di bene per l’altro: in questo senso San Bernardo può dire che “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama”, mostrando così qual è il volto del Dio della misericordia. L’idea evocata è dunque quella di una custodia primordiale che accoglie, nutre e protegge, e di un’oscurità ospitale in cui la creatura concepita vive in simbiosi con la madre e ne riceve alimento, impulso e custodia. Nell’architettura sacra questa duplice indicazione può essere fortemente evocata dalla forma sia esterna, che interna dello spazio, e dalla maniera in cui in esso le masse tagliano la luce. Ad esempio, le forme del romanico con l’arco a tutto sesto e la struttura basilicale delle chiese evocano un’armonia e una compiutezza
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ospitali, in cui la luce si diffonde come abbraccio materno che avvolge ogni cosa, mentre nel gotico è lo slancio dell’arco a sesto acuto e il gioco della penombra che tende verso la luce dal basso all’alto a scrivere una forma di custodia dinamica, che stimola lo slancio del cuore verso Dio e la ricerca dello splendore divino a partire dalle tenebre del tempo che passa.
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Architettura e misericordia: nel segno dell’armonia e della forma. L’altro termine che l’ebraico usa per rendere l’idea della misericordia è “chesed”: affine nel significato a “rachamim”, se ne differenzia per la sua genesi. Mentre l’amore viscerale è originario e spontaneo, “chesed” è frutto di una deliberazione e si colloca in un rapporto connotato da diritti e doveri: è il bene dovuto, o almeno quello che ci si aspetta come tale. È l’amore con cui l’Eterno si è liberamente destinato al suo popolo e per il quale il Salmista può dire “Ricòrdati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre” (Sal 25,6; cf. Sal 40,12 e Sal 103, 4). È l’amore che si basa sulla fedeltà a un impegno che comporta dedizione piena o in forza di vincoli di natura o per il ruolo esercitato o per un dovere liberamente assunto. In questo quadro si comprende come l’idea di misericordia nell’Antico Testamento si colleghi a quella di alleanza, di un amore cioè liberamente scelto e voluto fino in fondo nella realizzazione del disegno che esso comporta per il bene dell’amato. È quanto esprime ad esempio il profeta Osea: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (2,21s; cf Is 63, 7). Questa armonia del patto liberamente contratto è resa ad esempio dalle forme architettoniche del Rinascimento italiano, che riprendendo la proporzione del mondo classico come chiave costitutiva della bellezza architettonica realizzano spazi ariosi in cui lo spirito religioso è stimolato ad esprimersi nella sua relazione armonica col divino, per via di un legame di alleanza di cui le masse ben proporzionate risultano segno e richiamo.
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L’architetto scrive con la forma e il colore, con la delimitazione dello spazio e il gioco della luce, in una sorta di “trasgressione simbolica”, che dice tacendo e varca la soglia fra il finito e l’infinito senza violarla.
Architettura e misericordia: nel segno dell’incompiutezza formale. Una mescolanza di armonia e trasgressione simbolica, che prova ad unire i due significati biblici della misericordia, si ritrova in alcune delle migliori espressioni dell’architettura sacra moderna e contemporanea, quali ad esempio le realizzazioni di Le Corbusier (La Rochelle) o di Michelucci (Chiesa dell’autostrada presso Firenze) o di Mario Botta (ad esempio nella Chiesa di San Tocco a San Giovanni Teatino presso Chieti), anche se la difficoltà della combinazione di tensioni fra loro così diverse produce un numero elevato di risultati mediocri, incapaci di veicolare tanto l’accoglienza del grembo e della custodia divina, quanto l’armonia della forma umana abitata dall’Eterno. Quando lo spazio sacro moderno fallisce in questa evocazione dell’una o dell’altra anima della misericordia come è intesa dalla Bibbia o nel tentativo della loro coniugazione, l’architettura moderna del sacro diventa particolarmente arida, incapace di aiutare lo spirito di preghiera e la ricerca dell’ulteriorità del mistero santo. Anche grandi Autori rischiano così il fallimento della loro impresa, edificando opere che sarebbero perfette per altre finalità ma risultano inadatte all’esperienza liturgica e alla tensione spirituale. La Chiesa dedicata a Padre Pio realizzata dal pur grandissimo architetto Renzo Piano a San Giovanni Rotondo è da non pochi giudicata un esempio di questa incompiutezza, sia pur nella qualità elevata delle soluzioni formali che ne farebbero uno straordinario ambiente per finalità diverse da quelle sacre, come ad esempio quelle di genere teatrale o espositivo. L’auspicio da avanzare con convinzione è che nuovi percorsi formali, supportati da una valida committenza teologica e anche dall’ascolto dei semplici fedeli cui l’opera sarà destinata, possano invertire questa tendenza piuttosto diffusa.
“
Mon Dieu, - afferma l’Artista pour l’autre clarté Que tu as donnée à mon âme merci … Mon Dieu, la nuit est venue Tu fermeras mes yeux avant le jour Et moi je peindrai de nouveau Des tableaux pour toi Sur la terre et le ciel Una conclusione aperta… Una poesia di Marc Chagall, il grande
maestro dei colori, può servire da conclusione aperta a queste riflessioni: “Mon Dieu, - afferma l’Artista - pour l’autre clarté / Que tu as donnée à mon âme / merci / … Mon Dieu, la nuit est venue / Tu fermeras mes yeux avant le jour / Et moi je peindrai de nouveau / Des tableaux pour toi / Sur la terre et le ciel” (Pour l’autre clarté, 1965, in Marc Chagall 1887-1985, Editions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1998). Chagall intende qui la propria opera come un atto di restituzione, un movimento di gratitudine davanti al dono ricevuto dall’alto: la sua pittura non è che l’espressione di questo riconoscimento che si fa riconoscenza, glorificazione dell’Eterno. A tal punto egli avverte la profondità di questa vocazione da immaginare la vita eterna come la continuazione - sia pure al livello più alto - di un simile compito: anche nell’eternità divina egli dipingerà “di nuovo” - o meglio “in modo nuovo” - tavole per l’Eterno, sulla terra e nel cielo. La forza di questa poesia / preghiera - scaturita dall’anima di un Maestro del colore - fa comprendere come la scrittura della luce nelle forme delle arti figurative o dell’architettura venga intesa dall’artista come anticipo e splendore d’eternità. Volendo estrarne un principio ispirativo
si potrebbe dire che la forma tracciata ha bisogno di essere illuminata da uno splendore che non solo la raggiunga dall’esterno, ma in qualche modo si irradi dal suo interno, quasi luce che restituisce la luce, esperienza di misericordia che fa assaporare la bellezza di un altro, ultimo e definitivo abbraccio misericordioso. In particolare, la forma architettonica che corrisponda all’intuizione di Chagall non sarà quella che crea la luce, ma quella che le obbedisce, che si fa plasmare da essa, sì da lasciarsene trapassare, evocarla ed irradiarla con una levità che faccia dell’inevitabile pesantezza della struttura una sorta di scrittura, cifra che parla ed accoglie trasmettendo lo splendore dal profondo. Un ambiente così plasmato è tutto e solo arte da abitare in ascolto, invocazione e lode: un’arte che - in quanto anticipo della Gerusalemme eterna - non può essere privilegio di pochi, ma - com’è nello spazio sacro delle più belle delle nostre Chiese - casa di tutti, tenda d’alleanza del popolo di Dio, che noi siamo, con Lui e fra di noi, per la Sua gloria e la qualità della vita di tutti.
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PROGETTARE
LUOGHI DI CULTO
IN UNA SOCIETÀ SECOLARIZZATA Mario Botta
In occasione del Convegno “Architetture e luoghi della Misericor-
La seconda osservazione si riferisce alla dimensione storica: la
dia” che si è svolto a Montesilvano nell’ottobre del 2016 ho avuto
generazione di architetti alla quale appartengo è figlia di una lenta
modo di soffermarmi sul significato dell’architettura nel senso più
trasformazione avvenuta nel corso dei secoli. Fino ai primi de-
generale del termine e lo spunto è stato offerto dagli interventi di
cenni del secolo scorso non si sono verificate rivoluzioni epocali,
Don Valerio Pennasso e di S. E. Mons. Bruno Forte.
ma a partire dagli anni ’50 in poi la “cultura del fare” ha dovuto
Le parole di Don Pennasso hanno messo in evidenza come gran
fare i conti con le Avanguardie artistiche (Duchamp, Picasso, Gia-
parte della committenza cattolica sia tornata oggi ad avere idee
cometti, Klee …) che hanno radicalmente trasformato il nostro
chiare e precise circa il processo che deve sorreggere l’archi-
senso estetico e, di conseguenza, il nostro senso etico. Dopo
tettura. Potrei quasi parlare di una committenza illuminata che
queste esperienze il problema che si pone è quindi quello di come
per alcuni decenni si è mostrata latitante, ma che ora torna a
progettare un edificio sacro nella cultura di oggi, in un ambito glo-
far sentire la propria voce. Per molto tempo ho ritenuto che il
bale che ha stravolto tutti i criteri logici di percezione del tempo
Concilio Vaticano II avesse rappresentato il punto di cesura fra la
e dello spazio.
buona committenza del grande passato, grazie alla quale si sono
Anche la bella definizione ripresa da Bruno Forte dalle scritture
potute erigere delle opere d’arte belle, forti e straordinarie e una
mi permette di approfondire un tema a me molto caro, quello
committenza indifferente.
dell’importanza della luce come generatrice di spazio. Ma la luce
Mi devo ricredere. Probabilmente gli architetti devono assumersi
è soprattutto un’entità naturale che sussiste al di là del fatto ar-
una parte di responsabilità per le molte brutte chiese che con-
chitettonico e che, nel confronto con l’opera costruita, trova la
traddistinguono – ahimè – molte città. Mi sembra di poter parlare
propria ragione d’essere nello scorrere del tempo. Il tempo, o me-
di una confusione totale fra le idee, frutto di un processo raziona-
glio la durata nel tempo, che ha connotato per secoli la storia
le sorretto da un pensiero liturgico, e le realizzazioni, frutto invece
dell’architettura, è un valore sempre più raro. L’architettura è
di una sperimentazione acritica esasperata.
inevitabilmente anche il riflesso della fragilità del nostro esse-
Anche le osservazioni di Bruno Forte mi hanno impressionato
re oggi e la rapidità delle trasformazioni che stanno segnando
per la profondità dell’interpretazione teologica del fatto architet-
la nostra epoca è direttamente proporzionale alla velocità con
tonico. Un’opera di architettura è destinata a durare nel tempo
la quale tendiamo a dimenticare. Allora per l’architetto torna di
ed è in questa sua permanenza temporale che dobbiamo trovare
grande attualità un altro territorio, che va al di là dei confini ge-
le ragioni del bello e del logico, soprattutto per quanto riguarda
ografici: si tratta del territorio della memoria. Una bella citazione
le costruzioni di culto.
della quale non ricordo l’autore recita “esisto perché mi ricordo”,
La prima osservazione che voglio fare riguarda la mia convinzio-
mettendo così in evidenza l’importanza di un legame costruttivo
ne che l’architettura porti con sé l’idea del sacro perché, proprio
con il passato – il grande passato – grazie al quale poter resiste-
come un atto di creazione, trasforma una condizione di natura
re all’anarchia e alla forza destabilizzante della globalizzazione.
in una condizione di cultura; è in grado di trasformare un ele-
Riprendendo il concetto della “chiesa nella città” di Don Pennas-
mento naturale in un elemento di artificio. Il primo atto del fare
so: il tessuto cittadino, attraverso il suo continuo consolidarsi
architettura non è quello di posare pietra su pietra, ma quello di
nella storia, diviene inevitabilmente lo specchio delle vicende,
posare pietra sul suolo. Queste mie riflessioni sono avvalorate
delle lotte, delle dispute ideologiche via via consumatesi nel
anche dalle parole messianiche di Louis I. Kahn secondo il quale
tempo e che nella polis trovano una propria espressione for-
“l’architettura non esiste, ciò che esiste è l’opera di architettura”.
male.
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1, 2, 3, 4. Chiesa San Giovanni Battista, Mogno, Svizzera (1986-1996) - Foto 1/3 di Enrico Cano - Foto 4 di Pino Musi
La città, in quanto sistema di aggregazione umana resta, malgrado tutto, la forma più intelligente, più nobile, più flessibile e più bella che la storia dell’umanità abbia mai realizzato; rappresenta la forma costruita dall’uomo che meglio ha saputo interpretare il proprio territorio trasformandolo in testimone della propria storia. Tuttavia dobbiamo riconoscere che questo modello di vita collettiva si sta rapidamente modificando e che i valori tradizionali sono in profonda crisi. La città ha sempre avuto un centro così come ha sempre avuto un limite. Oggi queste due peculiarità sono in crisi; le città tendono ad avere più centri ma soprattutto stanno smarrendo la nozione di limite. Si parla sempre più spesso di città diffusa, nella quale il tessuto urbano si dissolve per lasciar posto ad un’agglomerazione senza controllo. Dopo queste considerazioni più generali vorrei tornare nello specifico della mia esperienza lavorativa che mi ha portato a confrontarmi in più occasioni con il tema dei luoghi di culto. Ho avuto modo di riflettere sul significato dell’altare in una chiesa cristiana partendo paradossalmente dalla costruzione di una sinagoga a Tel Aviv e da alcuni progetti di moschee. Ho infatti compreso come lo spazio di lettura della Torah o l’orientamento in direzione della Mecca non ha nulla dell’aura di sacralità che investe invece l’altare, sul quale avviene la trasformazione del pane nel corpo di Cristo, con la conseguenza che questo evento porta il fedele a vivere da protagonista il fatto originale in tempo reale. Questa condizione esige dall’architetto una forte caratterizzazione dello spazio, che non può essere semplicemente interpretato come luogo per una generica attività di incontro o rappresentazione. La serie delle mie esperienze inizia con una piccola chiesa, progettata a metà degli anni ’80 in un villaggio di montagna del Ticino, dove una valanga aveva distrutto la vecchia chiesa secentesca. Una volta liberata l’area dai detriti, è riemerso il tracciato del vecchio edificio di culto che mi ha suggerito il nuovo impianto planimetrico. Posizionata sull’asse di quella secentesca, la nuova chiesa ne riprende le dimensioni ma viene ruotata di 90 gradi. L’edificio ha pianta ellittica e questa invenzione tipologica va in buona parte addebitata a un calcolo di rischio per un’altra, seppur improbabile, valanga; nel qual caso la forma ellittica avrebbe permesso di far scivolare sui lati la massa di neve risparmiando la costruzione. È da queste semplici considerazioni che è nato il progetto di un’ellisse, di una figura geometrica con due fuochi. Tagliando infatti in diagonale il cilindro della chiesa sull’asse minore era possibile ottenere una lunghezza identica all’asse maggiore, così che a livello di copertura l’ellisse si sarebbe trasformata in un cerchio. La chiesa di Mogno è stata anche un modo per sottolineare il tema della luce che considero come la vera generatrice dello spazio. Nella chiesa di San Giovanni Battista la luce piove dall’alto, donando allo spazio interno una sensazione di solennità e leggerezza. Il dualismo tra il volume della muratura in pietra e la
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5, 6, 7. Chiesa Beato Odorico, Pordenone, Italia (1987-1992) - Foto di Pino Musi
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8, 9, 10, 11. Chiesa di San Pietro Apostolo, Sartirana di Merate, Italia (1987-1995) - Foto di Enrico Cano
12, 13, 14. Cattedrale della Resurrezione, Évry, Francia (1988-1995) . Foto di Pino Musi
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leggerezza della copertura testimonia la sopravvivenza del manufatto
studenti, a condizione che non fosse una struttura egemonica ossia
che si erge a baluardo del villaggio e diventa il legame tra l’uomo e
che non sbilanciasse l’immagine del campus universitario a favore
l’infinito.
della popolazione religiosa. Si decise quindi di costruire, accanto alla
Un’altra esperienza interessante è la chiesa parrocchiale Beato Odo-
sinagoga, un luogo che fosse un centro di lettura, una sala confe-
rico a Pordenone. Nel progettarla ho cercato di far sì che diventasse
renze e di incontro. Per rappresentare appieno questo bisogno di
un punto di riferimento riconoscibile e facilmente identificabile, un
equilibrio “ideologico” all’interno del campus universitario, proposi
elemento di connessione all’interno di un tessuto periferico frantu-
la costruzione di due spazi identici. Ne è così risultato un progetto
mato e privo di peculiari caratteristiche.
che mostra in pianta due quadrati che, innalzandosi, diventano due
Anche la geometria rigorosa dell’impianto della chiesa di San Pietro
volumi cilindrici per accogliere rispettivamente il luogo di preghiera e
Apostolo a Sartirana – generata dalla compenetrazione di due soli-
il luogo di incontro laico. Dall’iscrizione delle due figure geometriche
di regolari: il cubo all’esterno e il cilindro all’interno - costituisce un
si formano quattro lunette da cui penetra la luce zenitale: entrando
elemento di dialogo e confronto con la presenza contigua del nucleo
dal comune atrio centrale, chi si rivolge in una direzione percepisce
antico del villaggio.
un’illuminazione di un certo tipo (in ragione del ciclo solare) e nella
Un altro progetto che ho affrontato ormai vent’anni fa è la cattedrale
direzione opposta un altro totalmente diverso. I due luoghi si replica-
di Evry in Francia. Evry è una ville nouvelle a trenta chilometri da
no nella configurazione geometrica ma gli spazi si diversificano nella
Parigi, un grosso nucleo costruito con tutti i pericoli della nuova urba-
luce. A connettere i due volumi vi è uno zoccolo condiviso, destinato
nizzazione, con il rischio di diventare un deposito delle attività umane
a funzioni espositive e proposte culturali, proprio per rimarcare l’equi-
senza quella stratificazione storica che è propria della città stessa. Il
librio fra le due componenti sociali, entrambe invitate a confrontarsi
progetto è organizzato attraverso una struttura a pianta centrale con
in uno spazio comune.
una corona circolare che diventa un giardino pensile grazie all’aureo-
La cappella funeraria di Azzano di Seravezza sorge appena sotto
la verde costituita dagli alberi sul tetto. Il cilindro del volume principale
le pendici del monte Altissimo, famoso per le impressionanti cave
è tagliato in diagonale e si innalza al di sopra del rettangolo residen-
di marmo di cui si servì anche Michelangelo Buonarroti. L’edicola
ziale fino a raggiungere, nella sua quota massima, la zona centrale
funeraria si trova sull’asse d’entrata dell’ampliamento novecentesco
della piazza. La riproposta di uno spazio unitario, circolare di base,
del cimitero, appoggiata contro il muro di cinta verso il monte. Di
va a confluire nel triangolo equilatero di copertura, lasciando filtrare
forma estremamente rigorosa, la cappella è posta su un basamento
tre spicchi di luce zenitale che si diffonde lungo le pareti interne. Nel
dal quale fuoriesce l’altare sul fronte anteriore. Su tre lati è definita da
volume dell’aula si evidenzia la gerarchia tra il vuoto centrale illumi-
setti murari che si ergono imponenti da terra e che, con l’innalzarsi,
nato – lo spazio destinato ai fedeli – e la corona circolare che diventa
s’inclinano verso monte, come a seguirne la pendenza. La coper-
zona di servizio e di relazione fra i differenti livelli.
tura è formata da una leggera struttura a forma di lente in metallo
L’ingresso della cattedrale attraverso la piazza superiore è scavato
inossidabile. La struttura portante è in calcestruzzo armato, rivestito
nel volume delle abitazioni civili che corre come un elemento di base
in marmo levigato locale, il Bardiglio Cappella, usato anche per l’al-
rettangolare e perimetrale del sedime.
tare. Lo scultore Giuliano Vangi ha ricavato nel rivestimento lapideo
Un’altra occasione per progettare un luogo di culto è stata la piccola
del muro di fondo un bassorilievo raffigurante Giobbe nel deserto,
cappella di Santa Maria degli Angeli sul Monte Tamaro. L’aspetto più
valorizzato dalla luce radente che penetra attraverso due fenditure
affascinante di questo progetto è l’impatto emozionale che esso rie-
verticali nei muri laterali.
sce a stabilire nei confronti del territorio. Il manufatto sembra fuoriu-
Il modello ligneo del San Carlino a Lugano risale al 1999, in occasio-
scire dalla montagna tracciando un percorso costruito, un passaggio
ne del quarto centenario della nascita di Francesco Borromini, e ha
orizzontale verso un belvedere affacciato sulla valle, che poi prose-
caratterizzato il lungolago cittadino fino al 2003, quando ne fu deciso
gue all’interno di due muri fino ad arrivare all’ingresso della chiesa.
lo smantellamento.
All’interno lo spazio circolare è strutturato in tre navate. Quella
Il progetto prese spunto da un’affermazione sorprendente del lette-
centrale è ribassata e, contrassegnata da due poderose colonne,
rato comasco Carlo Dossi che, nelle sue “Note Azzurre”, afferma: “Le
confluisce nella piccola abside che fuoriesce dal volume primario,
architetture in generale prendono il motivo dominante dalla confor-
illuminata da un’intensa luce zenitale che sottolinea il segno di pre-
mazione della natura (paesaggio) che circonda l’occhio dell’artista”.
ghiera delle due mani disegnate sulle pareti da Enzo Cucchi. L’artista
Insieme all’Accademia di architettura di Mendrisio, si è voluta veri-
italiano ha anche affrescato l’intradosso della passerella e realizzato
ficare questa possibile “equazione”. Esiste una diretta relazione fra
la serie di ventidue tarsie di tema mariano negli squarci delle aperture
lo spazio del paesaggio vissuto dal giovane architetto e la realtà di
poste lungo il perimetro interno.
un’opera di architettura come il San Carlino? In che modo ha matu-
La sinagoga nel campus della Tel Aviv University è invece nata dalla
rato e poi modellato i suoi primi sguardi fra montagne e lago? Come
volontà del senato accademico di costruire un luogo al servizio degli
ha vissuto le sue prime emozioni? Come è giunto a definire i rapporti
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15, 16, 17, 18, 19. Cappella Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro, Svizzera (1990-1996) Foto di Enrico Cano
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20, 21, 22, 23. Sinagoga Cymbalista e centro dell’eredità ebraica, Tel Aviv, Israele (1996-1998) - Foto di Pino Musi
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spaziali fra i volumi pieni e gli spazi vuoti?
spessore del rivestimento lapideo, una scena
Il fascino di questa operazione di decontestualiz-
della crocifissione.
zazione (in questo caso da Roma a Lugano) ha
Un intervento molto significativo è la chiesa del
presentato una palese ambiguità in quanto, da
Santo Volto di Torino, frutto di un programma di
un lato si configurava come una vera e propria
riqualificazione pensato per reintegrare all’inter-
rappresentazione (il San Carlo alle Quattro Fon-
no del tessuto urbano l’insieme delle aree indu-
tane, riprodotto filologicamente partendo dal ri-
striali dismesse negli anni Settanta. La chiesa e
lievo, diventa un modello, una rappresentazione),
il complesso parrocchiale sorgono sull’area un
mentre dall’altro si costituiva come una nuova
tempo occupata dalle ex acciaierie della FIAT.
realtà che, costruita in scala 1:1 con un’altezza
Il volume principale della chiesa è a pianta cen-
di circa 33 metri, diventava un elemento reale di
trale con sette torri radiali che si trasformano in
confronto con il paesaggio circostante.
nicchie-cappelle al piano terra e fanno da cornice
La chiesa dedicata a Papa Giovanni XXIII, a lato
allo spazio centrale unico. L’interno si presenta
della bella chiesetta settecentesca di San Ales-
come una superficie ininterrotta con divisioni “vir-
sandro Martire, si trova a Seriate, in provincia di
tuali” dettate dalle pareti delle torri soprastanti. Il
Bergamo. Nei dintorni si è consolidato, nei de-
disegno del soffitto mostra la geometria compo-
cenni scorsi, un insediamento urbano sparso
sitiva dell’impianto con le sette torri che filtrano
con villette e residenze ai lati della strada che
la luce dalla copertura vetrata e le pareti inclinate
collega Bergamo a Seriate.
di quarantacinque gradi. La conservazione della
Nella composizione planimetrica del nuovo im-
vecchia ciminiera è stata una delle prime scelte
pianto la chiesetta esistente definisce il lato
progettuali perché legata alla memoria del lavoro
nord-ovest di uno spazio rettangolare antistante
operaio. La ciminiera che s’innalza per oltre ses-
la nuova chiesa mentre sull’altro lato un corpo
santa metri è anche una presenza significativa
edilizio allungato ad un solo piano contiene l’a-
nel profilo della città e meritava, al di là dei va-
bitazione del parroco e altri servizi che si con-
lori simbolici, un’attenzione particolare. Ultimato
cludono oltre la chiesa verso la campagna con
il progetto della chiesa, restava da trovare una
l’oratorio e le aule di catechesi organizzate nei
soluzione per il fondale del presbiterio, una sorta
due piani superiori.
di profonda abside dietro l’altare, illuminata dal-
La chiesa a pianta quadrata è al centro della
la luce zenitale presente sopra l’intera parete di
composizione, presenta un lato di circa 25 metri
fondo. Dopo molti incontri con il Cardinal Poletto
ed una altezza sul fronte di 23 metri e si offre
è scaturita l’idea di ricostruire l’immagine del vol-
quale fondale allo spazio antistante. Costruita
to della Sindone attraverso una sapiente tessitu-
con una struttura portante in calcestruzzo arma-
ra di tasselli di pietra di Verona.
to all’esterno, presenta un muro di rivestimento
Accenno brevemente anche alla Chiesa di Santa
in pietra di Verona trattato a spacco e all’interno
Maria Nuova a Terranuova Bracciolini, formata da
pannelli di legno a bande orizzontali ricoperti con
un semplice impianto bi-absidale che definisce
foglie d’oro. Lo spazio interno si offre al visita-
un unico spazio interno, attraversato da un lu-
tore con un unico volume disegnato dalle pareti
cernario longitudinale che separa le due navate.
perimetrali, lungo le quali scende l’intensa luce
L’idea progettuale è stata quella di sottolineare la
zenitale proveniente da quattro lucernari a livello
permanenza dei corpi absidali e, nel contempo,
del tetto.
di azzerarne le navate. Presenta un rivestimento
La pietra di Verona che dà immagine a tutta la
esterno in muratura di mattoni di cotto faccia a
composizione architettonica è riproposta all’in-
vista e l’interno in stucco lucido bianco. Lungo
terno della chiesa con una superficie levigata per
il lucernario longitudinale, una serie di formelle
realizzare il pavimento, l’alto zoccolo che corre
dell’artista Sandro Chia delinea virtualmente una
lungo il perimetro e gli arredi liturgici.
terza navata.
Due absidi anch’esse rivestite in pietra di Vero-
Di dimensioni più modeste, anche la cappella
na completano lo spazio del presbiterio dove lo
funeraria per la famiglia Pozza, nel cimitero di
scultore Giuliano Vangi ha realizzato, dentro lo
Lòngara a Vicenza, rappresenta un luogo di si-
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24, 25, 26. Cappella funeraria, Azzano di Seravezza, Italia (1999-2001) - Foto di Pino Musi
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27, 28, 29, 30. San Carlino, Lungo lago di Lugano, Svizzera (1999-2003) - Foto di Pino Musi
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31, 32, 33, 34, 35. Chiesa Papa Giovanni XXIII, Seriate, Italia (1994-2004) - Foto di Enrico Cano
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36, 37, 38, 39. Chiesa del Santo Volto, Torino, Italia (2001-2006) - Foto di Enrico Cano
40, 41, 42. Chiesa Santa Maria Nuova, Terranuova Bracciolini, Italia (2005-2010) - Foto di Enrico Cano
43, 44. Cappella funeraria Neri Pozza, cimitero di Lòngara, Vicenza, Italia (2005-2011) - Foto di Enrico Cano
45, 46, 47, 48, 49. Cappella Granato, Penkenjoch (Zillertal); Austria, 2011-2013 - Foto 45 di Franz Dengg - Foto 46 di Mario Krupik - Foto 47/49 di Enrico Cano
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lenzio e di meditazione. Si presenta come un parallelepipedo rivestito di pietra grigia, vuoto all’interno. La facciata principale è caratterizzata da due piani inclinati che dirigono l’attenzione sui due sarcofagi gemelli posizionati verso il vialone principale: quello del poeta Neri Pozza e di sua moglie Lea Quaretti. Voglio chiudere queste mie riflessioni con un progetto che mi aiuta a chiarire che, sebbene costruita in luoghi isolati o difficili da raggiungere, un’opera di architettura non può esistere come realtà a sé stante, come espressione autoreferenziale; al contrario (e forse anche in misura maggiore) trova la propria ragione d’essere nel serrato confronto con il contesto, nel dialogo con la complessità dello spazio circostante. Queste premesse sono importanti per comprendere la genesi della Cappella Granato che ho costruito su una montagna nella Zillertal, in Austria. Il nuovo edificio, con l’immagine di un dodecaedro (dalla struttura della pietra cui deve il nome) a forma di rombo appoggiato su uno zoccolo in calcestruzzo, presenta una 44
struttura in legno rivestita all’esterno con lastre di acciaio corten. Dallo zoccolo in calcestruzzo una scala conduce all’interno, dove è possibile cogliere con un solo sguardo la regolarità dello spazio geometrico. Una sola fonte zenitale irradia dall’alto la luce che anima le superfici regolari dei rombi, rivestite con listelli di legno di larice. Non posso però terminare il mio intervento senza spendere due parole sulla chiesa, ancora in cantiere, a Sambuceto. La forma a monolite del nuovo edificio di culto fa riferimento alla memoria millenaria delle tipologie ecclesiali, quali forme emergenti rispetto al tessuto edilizio. Nell’attuale panorama mi è sembrato giusto far sì che il nuovo insieme riaffermasse con forza valori simbolici e metaforici oltre a quelli funzionali, e rivendicasse una presenza in grado di trasmettere i propri obiettivi di spiritualità. La chiesa, ruotata rispetto all’intero sistema parrocchiale, è concepita come un unico volume che sfiora i 30 metri di altezza, inclinato di 30° rispetto al suolo, proteso verso il sagrato e intagliato alla sommità solo da una grande apertura a forma di croce. Il sagrato, delimitato dalla chiesa, dai portici del centro parrocchiale e del colonnato coperto, diventa luogo di aggregazione sociale oltre che religiosa, ed elemento centrale dell’intero complesso.
50. Parrocchia di San Rocco, Sambuceto (San Giovanni Teatino), Chieti, Italia (2006 - in corso) - Foto 50 di Enrico Cano
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VOLTI DELLA
MISERICORDIA
TRA PASSATO E PRESENTE Andrea Dall’Asta
La misericordia: un’immagine dell’identità di Dio In che modo il tema della misericordia è stato elaborato dalle immagini della fede cristiana? Qual è il suo rapporto con la giustizia? È questo un interrogativo centrale per la fede cristiana. Se tutta la vita di Cristo è all’insegna dell’amore del Padre e della sua misericordia che si manifesta sino al perdono rivolto a ogni uomo, non sorprende che le immagini della tradizione cristiana abbiano profondamente riflettuto su questo soggetto, strettamente connesso all’identità di Dio e alla sua rivelazione nella storia. Anche quando il soggetto non è esplicitamente dichiarato, rimandando a precisi brani biblici – come nella parabola del Figliol Prodigo di Rembrandt, nella tela de Le Sette opere di misericordia di Caravaggio o ancora nell’episodio di Cristo e l’adultera di Lorenzo Lotto – costituisce di fatto la trama di fondo delle diverse immagini liturgiche. Se il mondo antico conosceva la pietas, vale a dire quel legame di profondo rispetto verso i genitori, la famiglia, la patria e gli dèi – la pietas si identificherà con l’humanitas – la misericordia cristiana affonda invece la propria origine nella perfezione del Padre che è nei cieli: “Siate misericordiosi come il Padre vostro nei cieli”, dice Gesù nel Sermone della Montagna. Dio è origine e fonte della misericordia. Nella misericordia, Dio rivela la sua perfezione. C’è tuttavia un’iconografia che, forse più di altre, esprime bene questa riflessione teologica. È quella del Cristo Giudice o Redentore che nasce nell’Ile de France – splendido è il portale Sud della cattedrale di Chartres (XII sec.) – per poi diffondersi ben presto in tutta Europa. Dal battistero di Parma a quello di Firenze, dalla cattedrale di Ferrara alla cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova, il “Cristo Giudice”, sia pure nelle diverse varianti e differenze, è ancora oggi di un’attualità sconcertante. In questo breve saggio, analizzeremo soprattutto da un punto di vista teologico il portale Ovest del battistero di Parma, chiamato Portale del Giudizio, scolpito dallo scultore Benedetto Antelami (1196-1216?), per comprendere come il tema della salvezza si strettamente legato a quello della misericordia.
Il battistero di Parma: tre portali Il programma iconografico del Portale di Cristo Giudice del battistero di Parma va inserito nel contesto più ampio dei tre portali dell’edificio, che riprendono aspetti tipici della tradizione spirituale cristiana medioevale. Nella lunetta del portale Nord, detto della Vergine Incoronata, riconosciamo a sinistra la Venuta dei magi, a destra il Sogno di Giuseppe. Sotto, nell’architrave, sono narrate le Storie del Battista, con gli episodi de Il battesimo di Cristo e Il banchetto di Erode ed Erodiade con Salomè che si accinge a chiedere la testa del Battista, consigliata da un diavolo. Chiude il racconto la Decollazione di Giovanni che sporge dal secondo piano di una torre, mentre l’arcangelo Michele, con un turibolo, si getta dalla finestra del terzo piano. Al centro, campeggia la solenne statua di Maria in trono. Se con la mano destra tiene un fiore, con quella sinistra la Vergine sorregge il bambino benedicente. Maria è qui Sedes Sapientiae, sede della Sapienza, e rimanda Caravaggio, Sette opere di misericordia, 1606-1607
La misericordia cristiana affonda la propria origine nella perfezione del Padre che è nei cieli: “Siate misericordiosi come il Padre vostro nei cieli”, dice Gesù nel Sermone della Montagna. Dio è origine e fonte della misericordia. Nella misericordia, Dio rivela la sua perfezione..
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Il portale sembra qui alludere alla fragilità della vita umana, soggetta al trascorrere del tempo e continuamente minacciata dalla presenza del male. Con questa consapevolezza, solo all’insegna di Cristo, Agnello immolato, prefigurato dal Battista, è possibile entrare nel battistero.
al trono su cui siede Salomone. Tuttavia, Maria tiene in braccio ora la vera Sapienza, Gesù Cristo. Dal suo trono eterno, che è il seno del Padre ove trova la sua dimora divina, il Figlio di Dio viene ora nel trono temporale che è il seno benedetto di una donna, Maria. Gli stipiti del portale accolgono, infine, due alberi genealogici, con la storia della discendenza del Messia: quello di Giacobbe termina con Mosè, prefigurazione di Cristo, e quello di Jesse si conclude con Maria, madre di Gesù. La ghiera esterna mette in scena i profeti aventi in mano i clipei con i ritratti degli Apostoli, a simboleggiare la continuità tra le sacre scritture, tra l’Antico e il Nuovo Testamento. In questo portale si fa dunque emergere la centralità dell’Incarnazione. Cristo è al centro della storia. Il portale Meridionale è denominato Portale della vita. La porta, adibita all’ingresso dei catecumeni, presenta un episodio tratto dalla Leggenda di Barlaam, trasposizione cristiana di una leggenda orientale attribuita a San Giovanni Damasceno e poi inclusa nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine1. È la storia del principe Josaphat che, grazie al vecchio eremita Barlaam, si converte al Cristianesimo. Al centro della lunetta campeggia un albero ricco di fronde, simbolo della vita, su cui siede un giovane che raggiunge un favo di miele, simbolo della dolcezza dei beni terreni. Il giovane appare tuttavia inconsapevole della presenza, ai piedi dell’arbusto, di un drago, simbolo della morte, che sta cercando di ucciderlo, sputando fiamme. Nella parte inferiore, due roditori, simboli del tempo che inesorabilmente tutto distrugge e divora, rosicchiano le radici dell’albero. La scena è completata dai due carri del Sole e della Luna che incombono sull’albero della vita. La lunetta è sormontata da una ghiera con decorazioni vegetali. Sull’architrave sono inseriti tre clipei con l’Agnus Dei, il Redentore e il Battista. Il portale sembra qui alludere alla fragilità della vita umana, soggetta al trascorrere del tempo e continuamente minacciata dalla presenza del male. Con questa consapevolezza, solo all’insegna di Cristo, Agnello immolato, prefigurato dal Battista, è possibile entrare nel battistero.
Il portale del Giudizio Il Portale Ovest è quello del Giudizio o del Redentore, il cui complesso apparato scultoreo ripercorre il tema dell’Ultimo Giorno e della Risurrezione. Nella lunetta sopraporta è rappresentato un solenne e maestoso Cristo Giudice, circondato dagli angeli che sorreggono i simboli della Passione. Se nella ghiera è raffigurata la teoria dei dodici apostoli seduti su di un ininterrotto tralcio vegetale, in chiave d’arco, questa è spezzata dalla presenza di due Angeli che suonano le trombe dell’Apocalisse. Nell’architrave, sotto la lunetta, è scolpita la scena della Risurrezione dei morti. Al centro, due angeli suonano le trombe del Giudizio. Se sulla sinistra campeggia un sepolcro da cui fuoriescono le schiere degli eletti, sulla destra è invece presente un altro sepolcro da cui si risvegliano i condannati al fuoco eterno. I due cortei si distinguono infatti dal diverso atteggiamento: se i primi procedono esultanti con le mani rivolte verso il cielo, con gesti di lode e di preghiera, i secondi invece incedono a pugni chiusi, coprendosi le nudità, mostrando sconforto e desolazione. Con un linguaggio semplice ed efficace, di grande potenza ed immediatezza espressive, l’apparato scultoreo prosegue sugli stipiti del grande portale. La fascia scultorea di destra accoglie la scena de La parabola della vigna (cfr Mt 20, 1-16): Dio chiama ogni uomo a ope1
Giovanni Damasceno, Barlaam et Josaphat, a cura di G.R. Woodward, H. Mattingly, D.M. Lang (Loeb Classical Library, 34), London 1967.
rare in mezzo al suo popolo, dalla prima all’ultima ora. Tutti sono chiamati alla salvezza, che è dono di grazia. La fascia di sinistra, in sei riquadri, illustra invece Le opere di misericordia (cfr Mt 25, 31-46). Perfettamente attinente al senso evangelico, il portale si propone di mostrare ai fedeli il cammino per presentarsi santi davanti a Dio, il giorno del Giudizio. La salvezza dell’uomo sarà misurata sulla responsabilità etica, sulla carità verso il fratello colto nel bisogno. Il giudizio di Dio si gioca sul prendersi cura della fragilità e della vulnerabilità dell’altro. Nell’incontro col fratello, incontriamo Cristo stesso. Nello stipite di sinistra, il protagonista è il Beatus, l’uomo caritatevole, il buon samaritano, pronto ad aiutare il prossimo nelle difficoltà. La sua figura è associata a Cristo, intento a mostrare le opere di misericordia. Il fedele è così invitato a imitarlo, re-
staurando in sé l’originaria immagine e somiglianza con Dio. Le sei formelle sono da leggersi dal basso verso l’alto e sono accompagnate da un’iscrizione in latino. La prima formella è quella dell’ospitalità (Peregrinis hostia pandas). Qui, il Beatus, avvolto in un ampio mantello, accoglie lo straniero, che veste una tunica che cade sino alle ginocchia. Questi tiene tra le mani il bordone, attributo tradizionale del pellegrino. Cristo è colui che accoglie. La seconda formella mostra la scena “curare gli infermi” (cum multa cura lavat hic egro sua cura). Il Beatus, in ginocchio, è qui raffigurato intento a lavare i piedi a un ammalato. La scena rimanda al gesto di Gesù la sera del Giovedì Santo: “Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto” (Gv 13, 5). Cristo è un re che si fa servo.
La terza formella esemplifica l’opera di misericordia del “dar da mangiare agli affamati” (escam larga manus hec porrigit esurienti). Il Beatus offre allora una ciotola di cibo a una coppia affamata, seduta su due sgabelli. Dio offre se stesso, il proprio corpo, per la salvezza.
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La quarta formella rappresenta “dar da bere agli assetati” (hic quod quesierat sicienti pocula prestat). Il Beatus sta qui porgendo loro un bicchiere d’acqua. Entrambe le ultime formelle evocano il momento eucaristico che si celebra durante la Messa, in cui Cristo dona il proprio corpo e il proprio sangue. La quinta formella mette in scena “visitare i carcerati” (non spernens lapsus venit hic ad carcere clausum). Vediamo qui il Beatus recarsi in visita a un prigioniero. Questi, seduto a terra e con i ceppi ai piedi, solleva le braccia verso il suo benefattore, pronto a ricevere da lui la cesta del cibo che gli sta porgendo. La sesta formella illustra “vestire gli ignudi” (est hic nudatus quem vult vestire beatus). Il Beatus riveste un uomo seminudo posto di fronte a lui, donandogli una tunica. Cristo è colui che si prende cura dell’uomo. È interessante come l’accostamento delle due parabole faccia emergere una profonda tensione teologica. Se infatti nelle opere di misericordia si sottolinea l’ingiunzione per l’uomo ad assumersi la responsabilità del fratello, operando concretamente nella storia, nella parabola della vigna si fa invece emergere la gratuità del dono salvifico. L’invito a soccorrere il fratello e la gratuità del dono salvifico di Dio appartengono alla stessa logica della salvezza. La prima non può essere scissa dalla seconda. La gratuità del dono è accompagnata dalla messa in pratica delle opere di misericordia.
La lunetta del portale: l’apparizione di Cristo Giudice
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Nella lunetta del portale si rivela pienamente l’identità di Dio, in Cristo, che appare nella sua seconda venuta per giudicare gli uomini. Al centro della lunetta campeggia la figura di Cristo in trono, assiso su di un piano ondulato, immagine delle nubi sulle quali si presenta il Figlio dell’uomo, il giorno del Giudizio. Attorno alla sua figura, portati da un gruppo di angeli che gli fa da corona, sono i simboli della sua Passione, protetti con veli di lino, in segno di rispetto. Sono le “armi di Cristo”, grazie alle quali ha vinto la morte: la canna con la spugna del fiele, la corona di spine e il legno della Croce. Nell’archivolto della lunetta è presente il tribunale celeste, composto dai dodici apostoli, identificati dai loro nomi, incisi nel marmo: da Pietro e Andrea, in basso a sinistra, sino a Simone e a Mattia, alla destra. A loro, si aggiunge Paolo, alla sinistra della lunetta. Gli spazi del Paradeisos, del giardino della promessa, sono descritti con i due alberi dell’Eden, sui rami dei quali sono seduti gli apostoli, e con l’albero della vita al centro. In questa potente immagine, la rivelazione di Cristo appare alquanto diversa rispetto a quella di Cristo Pantocratore della tradizione bizantina, come si presenta, per esempio, a Monreale2. Nella cattedrale siciliana, collocato maestosamente nel catino absidale della chiesa, su di uno sfondo dorato, simbolo della trascendenza di Dio, il busto gigantesco di Cristo è avvolto in una tunica rivestita di un mantello. Il segno della sua sovranità è l’altezza. Con la mano destra alzata compie un gesto di benedizione, mentre con la sinistra regge il Vangelo aperto, simbolo della Rivelazione. Rappresentato frontalmente rispetto al fedele, si manifesta come il re dei re, Dio l’Onnipotente, l’Altissimo che siede nei cieli. Dalla sovrumana grandezza, il suo sguardo è nobile, severo e solenne. Sembra avere il potere di sospendere il tempo e lo spazio. La sua espressione esprime gravità e rigore. Cristo si presenta come un uomo barbuto che ispira saggezza, fermezza, solidità. I caratteri del suo volto, dai lineamenti severi e dalla espressione ferma e solenne, suggeriscono che il Verbo Incarnato è l’immagine del Padre. Come scrive Giovanni, “Dio nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Tuttavia, con il passaggio al gotico, Cristo, Signore dell’Universo, si fa sempre più umano, per presentarsi come un uomo reale, concreto. Si mitiga sempre più la dimensione soprannaturale e divina. Si rivela ora come un uomo tra gli uomini. Come nella lunetta parmense. Cristo non porta qui alcuna corona, dietro il suo capo non compare alcun nimbo, il libro scompare. La gravità del suo volto è attenuata. Nelle nuove teofanie, Cristo si fa sempre più uomo tra gli uomini. In Cristo, Dio si mostra nella sua umanità. Con un gesto grandioso, avvolto in un ampio mantello che lascia intravedere la sua nudità, Cristo solleva simmetricamente le due mani, i cui palmi sono rivolti verso il fedele. I suoi piedi sono nudi, il suo petto è ora scoperto, in modo da rendere visibili le piaghe della carne.
Si rivela ora come un uomo tra gli uomini
2 Per il commento alla figura di Cristo Pantocratore rimando ai testi: Andrea Dall’Asta, La Croce e il Volto. Percorsi tra arte, cinema e teologia, Ancora, Milano 2017, pp. 37-40; Andrea Dall’Asta, Dio storia dell’uomo. Dalla Parola all’immagine, Messaggero, Padova 2013, pp. 61-66.
Cristo è colui che mostra le ferite, con le quali ha redento il mondo. Solo chi è nudo può lasciarsi ferire dalla misericordia di Dio, per accogliere la salvezza. Solo chi si spoglia di se stesso, può lasciarsi avvolgere dall’abbraccio del Padre.
51 Se il libro in cui sono scritti i nomi degli eletti scompare, un nuovo testo emerge: quello della carne che mostra le nuove scritture, i segni delle cicatrici. Il suo corpo diventa ora il libro che si presenta come l’ultima rivelazione. I solenni mantelli imperiali della tradizione iconografica bizantina e romanica lasciano il posto alla carne, che porta i segni del peccato degli uomini, del male del mondo. Il giudizio finale sarà in questo modo pronunciato non di fronte a una legge prescritta, ma davanti a quel corpo ferito. Cristo è giudice, in quanto ha sofferto, è morto ed è risorto. Ha preso il peccato su di sé, fino a farsi lui stesso peccato, come ricorda Paolo di Tarso: “Colui che non aveva conosciuto il peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2Cor 5,21). Il giudizio si compie di fronte al dolore di quell’uomo, di quel corpo piagato. Certo, nella teofania, Cristo mostra sempre la sua signoria e la sua potenza. Il suo volto resta ieratico e frontale rispetto al fedele. Tuttavia, la sua sovrana maestà è mitigata dalla sua nudità, che non esita a presentarsi nelle sue fattezze anatomiche. Cristo è veramente Gesù, il Figlio di Dio, si è incarnato nella storia, è morto nudo sulla Croce. Quella stessa nudità si presenta ora al nostro sguardo. Se nelle luminose teofanie bizantine Cristo si manifestava nella carne trasfigurata del Figlio, nella straordinaria bellezza del risorto, ora si può contemplare nella sua palpitante umanità. Il messaggio teologico è chiaro: se da un lato il Figlio dell’uomo viene per giudicare gli uomini, dall’altro, mostrandoci le sue piaghe, ci rivela che è morto per noi, per la nostra salvezza. Cristo ritorna come giudice per giudicarci, ma al tempo stesso si rivela come colui che ci giustifica, con la sua morte e risurrezione. Quel corpo ferito ha assunto il nostro male, per liberarci dalla morte. Cristo è colui che salva. Il suo nome è Yeshu’a, IHS: Jesus hominum Salvator, Gesù Salvatore degli uomini. Il bisogno del fratello è inscritto in quel corpo ferito, la cui vita diventa ora il racconto che narra i drammi dell’uomo, le tragedie della storia. Quel giudice è il salvatore, il redentore, che conduce a contemplare il volto del Padre. La sua identità è misericordia.
DALLA VERONICA IN SAN PIETRO AL
VOLTO SANTO DI MANOPPELLO Adriano Ghisetti Giavarina
La cosiddetta Veronica, il tessuto con l’immagine di Gesù custodito nell’antica basilica di S. Pietro forse dal XII secolo, trae il suo nome dalla corruzione delle parole “vera icona”; ma Veronica è anche il nome della pia donna che, secondo una leggenda tardomedievale diffusa tanto da rappresentare una delle stazioni della Via Crucis, avrebbe deterso con il suo velo il volto di Gesù durante la salita al Calvario 1. L’immagine fu esposta ai fedeli dal XIII secolo e chi pregava davanti ad essa otteneva indulgenza. Allorché nel 1300 il Papa Bonifacio VIII proclamò il primo Giubileo, la reliquia fu mostrata pubblicamente divenendo una delle Mirabilia Urbis per i numerosi pellegrini che visitavano Roma, e per i successivi duecento anni essa fu considerata come la più preziosa delle reliquie cristiane, tanto da essere citata da Dante sia nel XXXI canto del Paradiso che nella Vita Nova, e da Petrarca nel sonetto Movesi il vecchierel… . Dall’Anno Santo del 1350 il tessuto fu collocato in un altare della
basilica di S. Pietro e, in base ad una descrizione delle meraviglie delle chiese di Roma del 1375, integrazione alle note Mirabilia, abbiamo conferma che esso era appunto oggetto di venerazione da parte dei pellegrini nella città eterna, i quali, entrando nella basilica di S. Pietro, sulla destra trovavano l’altare della Veronica al di sopra del quale era racchiuso il Sudario con il Volto di Cristo2. A testimonianza di quanto la Veronica attraesse i fedeli può essere citato un passo di Bernardo Gamucci, che riferisce come, nell’anno del Giubileo del 1450, il ponte di Castel Sant’Angelo “essendo per la frequentia del popolo che vi si raunò sopra, che con animo devoto ritornava da visitare il santissimo volto santo, sforzato dalla gravezza di quel peso, e dalla violenza dell’acqua che allora era assai grossa in fiume; non potendo interamente resistere, si mise in parte in ruina, e insieme con lui precipitarono molti, e molti che in quella moltitudine si ritrovavano”3 (Fig. 1). Fu anche per evitare il ripetersi di simili tragedie che, in occasione
1. Disegnatore anonimo del XV secolo. Roma, il ponte Sant’Angelo attraversato dai pellegrini diretti a S. Pietro (c. 1491 – Codex Escurialensis, fol. 26v. Madrid, Escorial, 28-II-12).
1
Cfr., tra i vari studi sull’argomento, almeno: The Holy Face and the Paradox of Representation. Papers from a Colloquium held at the Bibliotheca Hertziana, Rome and Villa Spelman, Florence, 1996, ed. by H. L.. Kessler, G. Wolf, Bologna 1998; Il Volto Santo in Europa. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Engelberg, 13-16 novembre 2000, a cura di M. C. Ferrari e A. Meyer, s. l. (ma Lucca) 2005; Il Volto di Cristo, a cura di G. Morello e G. Wolf, Milano 2000.
Historia et Descriptio Urbis Romae, J. Besicken e S. Meyer, Roma 1494, c. 20r.
2 Mirabilia Urbis Romae. The Marvels of Rome or a Picture of the golden City. An English Version of the medieval Guide-Book, with a Supplement of illustrative Matter and Notes of F. Morgan Nichols, London – Rome, 1889, p. 128. 3
B. Gamucci, Le Antichità della Città di Roma, Venezia 1569, cc. 186r. e v.
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del Giubileo del 1500, il Papa Alessandro VI fece riordinare il percorso di accesso a San Pietro. Il “Borgo Vecchio” fu infatti sostituito, in pochi mesi, dalla nuova “via recta”, che da Castel S. Angelo portava alla basilica Vaticana e che venne denominata via Alessandrina o anche, più popolarmente, “Borgo Nuovo”, consentendo alla maggior parte dei pellegrini di evitare quegli affollamenti che avevano provocato il grave incidente di mezzo secolo prima. Novità di quello stesso anno giubilare fu l’apertura della Porta Santa, rituale che sarebbe stato ripetuto in tutti i giubilei successivi. E in S. Pietro, per creare la nuova apertura destinata a Porta Santa, venne eliminata una cappella medievale ornata di mosaici, spostando l’altare che custodiva il tabernacolo del Sudario della Veronica che veniva mostrato ai pellegrini4.
La localizzazione della porta fu però il frutto di un equivoco: poiché infatti una tradizione antica, ma incerta, parlava di una “porta aurea”, si pensò di ripristinare quella, individuandola in una nicchia della cappella della Veronica. Ma quando i lavori iniziarono fu subito evidente l’infondatezza della notizia5.
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Quanto il culto della Veronica si identificasse con gli anni santi può desumersi anche da due portali pugliesi, entrambi datati 1500 e pertanto inaugurati in occasione di quel Giubileo. L’immagine del Sudario con il Volto Santo appare infatti scolpita tanto ad Otranto (Fig. 2), sull’architrave del portale laterale del Duomo (del 1500, ma ristrutturato al tempo di Papa Gregorio XIII), che sul portale della chiesa dei Domenicani a Galatone, ricostruita in forme barocche nel 1712 e dal 1830 dedicata a Sant’Antonio. Ma l’immagine del Volto Santo venne replicata anche nel 1532 sul portale della chiesa della SS. Trinità di Manduria. Evidentemente con l’apporre tale raffigurazione su questi ingressi si voleva evocare la Porta Santa del Giubileo e significare che si entrava in chiesa sotto la protezione della Veronica. Va inoltre osservato che sia la riproduzione dell’immagine del Sudario che la sua notorietà tra i fedeli rappresentano l’esito della diffusione delle numerose immagini xilografiche che, dalla metà del XV secolo, ne erano state fatte. Dopo il Giubileo del 1450, infatti, il successo degli Anni Santi fu favorito anche dalla diffusione delle pubblicazioni a stampa, grazie alle quali il numero dei pellegrini che giungevano a Roma aumentò notevolmente. E già alla fine dello stesso secolo, all’interno delle numerose edizioni delle Mirabilia Urbis Romae, apparvero anche illustrazioni che mostravano l’ostensione della Veronica ai fedeli. Così, ad esempio, in un’edizione tedesca di quest’opera stampata forse a Roma intorno al 1475, oltre ad esserci una xilografia che raffigura la Veronica portata da due angeli e un’altra con il momento dell’ostensione, si legge che “l’altra chiesa principale [di Roma] è il duomo di san Pietro e si trova su un monte chiamato Vaticano […] L’altare principale è santa Veronica perché lì si mostra il volto di Nostro Signore Gesù Cristo, e se si sa questo allora i romani guadagnano VII M anni di indulgenza”6. Ma una più dettagliata immagine dell’ostensione può osservarsi nella xilografia dell’edizione della Historia ed Descriptio Urbis Romae di Giovanni Besidem e Martino di Amsterdam del 14947 (Fig. 3). Tuttavia se le xilografie del Quattrocento, utilizzate anche nei primi decenni del Cinquecento, erano pur sempre approssimative, Albrecht Dürer in una stampa del 1510 (Fig. 4) fornì invece un’accurata ed espressiva rappresentazione del Sudario del Volto Santo, sorretto da Santa Veronica tra i Santi Pietro e Paolo, alla quale quindici anni più tardi, in occasione dell’Anno Santo del 1525, dovette ispirarsi Ugo da Carpi per un dipinto destinato ad antependium per l’altare della Veronica. E benché qui il consapevole arcaismo dello stile pittorico volesse suggerire l’origine miracolosa dell’immagine di Cristo, stando alla narrazione di Vasari ciò non valse all’autore di evitare un giudizio negativo di Michelangelo8. Nel 4
M. Sensi, Storia del Giubileo 1550. Anno Santo e Rinascimento, in vatican.va/jubilee_2000/pligrim/documents/ju_gp_05052000-6_it
5
S. Ravaglioli, Papa Borgia e l’anno Santo, in “30 giorni”, 12-1998.
6
Jtem in dem puechlein stet geschrieben wie Rome gepauet ward, s. d. n. l. [ma Roma c. 1475?], cc. 37r-v, 39v.
7
(Mirabilia Romae vel potius) Historia et Descriptio Urbis Romae, J. Besicken e S. Meyer, Roma 1494, c. 20r.
8
G. Vasari, Le vite… ecc. (1568), ed. a cura di G. Milanesi, vol. V, Firenze 1906, pp. 421-422; S. E. Reiss, Pope Clement VII and the Decorum of Medieval Art, in Rethinking the High Renaissance. The Culture of the Visual Arts in Early Sixteenth-Century Rome, ed. by J.
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2. Otranto, Cattedrale di S. Maria Annunziata. Particolare del portale laterale (1500 – Foto dell’autore).
3. Historia et Descriptio Urbis Romae, J. Besicken e S. Meyer, Roma 1494, c. 20r.
4. Albrecht Dürer. Santa Veronica regge il Sudario con il Volto Santo di Cristo tra i santi Pietro e Paolo (1510 – Xilografia della serie detta della Piccola Passione).
5. Maerten Van Heemskerck. La Basilica di S. Pietro in costruzione e (a sinistra) la parte superstite della basilica antica (c. 1532-1536 – Römisches Skizzenbuch I, fol. 15r. Berlin, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, 79-D-2).
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1513 Dürer aveva comunque eseguito una seconda incisione con il Sudario portato da due angeli, interpretando nel suo stile personalissimo una tipologia iconografica divenuta ormai tradizionale. Nel frattempo, ad iniziativa del Papa Giulio II, dal 1505 si era cominciata la costruzione della nuova Basilica di S. Pietro con la progressiva demolizione dell’antica struttura paleocristiana (Fig. 5). Nonostante le difficoltà di un così complesso cantiere, che comportò anche la costruzione di un tempietto a protezione dell’altare maggiore, l’altare della Veronica, collocato in prossimità della facciata preesistente, non ne dovette essere interessato, superando senza danni anche la triste vicenda del Sacco di Roma del maggio del 1527; così che Andrea Palladio poteva scrivere nella sua descrizione delle chiese di Roma del 1554 che in S. Pietro, “a mano dritta de la porta grande, vi è la veronica o vero volto Santo”, notizia più tardi confermata da Gamucci, che significativamente affermava come tra “le tante reliquie de’ Santi, che si conservano in detta Chiesa è dignissima quella del santissimo Sudario”9. Fu solo con l’elezione a Pontefice di Paolo V che, nel 1605, fu stabilito di concludere la pianta di S. Pietro ristrutturata da Michelangelo aggiungendovi un corpo longitudinale che la trasformasse da centrale in longitudinale, cosa che avrebbe comportato la demolizione della parte del corpo delle navate paleocristiano conservatosi sino ad allora. Tale lavoro era già in corso nell’anno successivo, e così il 21 marzo 1606, un martedì Santo alle otto di sera, il Sudario della Veronica chiuso in una teca d’argento venne collocato solennemente in una nicchia ricavata all’interno di uno dei pilastri di sostegno della cupola che, da quel momento, fu detto“della Veronica”. E una grande statua di S. Veronica fu eseguita da Francesco Mochi entro il 1640 e posta ad indicare ai fedeli il luogo dove si conserva la reliquia. In questa sede non è possibile elencare le motivazioni dei dubbi che sussistono sul fatto che il Sudario custodito oggi in S. Pietro non sia più lo stesso che fu oggetto di devozione nel Medioevo e nel Rinascimento10. È interessante tuttavia considerare che, secondo una relazione del 164011, il raro tessuto di bisso marino con l’immagine di Cristo noto come “Volto Santo di Manoppello”, sarebbe giunto in quella località “per mano angelica” nel 1506, affidato dapprima a mani private e, dal 1638, passato in custodia dei Cappuccini del luogo. E, a parere di Heinrich Pfeiffer12 e di altri studiosi, esso sarebbe per l’appunto l’antica Veronica, di cui tuttavia il Vaticano non ha mai ammesso la sparizione né tantomeno la sostituzione con l’attuale reliquia. Burke, Farnham, England, 2012, pp. 300-301. 9
A. Palladio, Descritione de le Chiese, Stationi, Indulgenze & Reliquie de Corpi Sancti, che sonno in la Citta de Roma, Roma 1554, p. 21; Gamucci, op. cit., c. 197v.
Ma, per quanto sopra esposto, è difficile poter credere a un furto avvenuto durante le fasi iniziali della costruzione del S. Pietro di Bramante e, ancor meno, durante il Sacco di Roma, come talvolta è stato ritenuto. Sembra invece più probabile, come ritiene anche Pfeiffer, che la preziosa reliquia sia stata trafugata in occasione dell’inizio dei lavori di demolizione che interessarono la zona della facciata dell’antico S. Pietro, e quindi negli anni 1605-1606 cui si è fatto cenno. Anni non troppo lontani, come si è visto, dal momento in cui la Veronica, al di là della narrazione leggendaria, sarebbe effettivamente ricomparsa a Manoppello, dove avrebbe cominciato una seconda fase della sua straordinaria storia e della devozione ad essa legata. La chiesa del Santuario dove essa oggi si trova si presenta con una facciata completata nel 1965 vistosamente simile a quella della Basilica di S. Maria di Collemaggio a L’Aquila (Fig. 6). E, recuperando di quest’ultima il disegno in bicromia, la facciata di Manoppello sembra ispirarsi ad una composizione originale abruzzese di alto valore simbolico.
Il 21 marzo 1606, un martedì Santo alle otto di sera, il Sudario della Veronica chiuso in una teca d’argento venne collocato solennemente in una nicchia ricavata all’interno di uno dei pilastri di sostegno della cupola che, da quel momento, fu detto“della Veronica”
10 Paul Badde ritiene che il tessuto con il Volto di Cristo conservato a Roma, in cui dell’immagine si intravede poco o nulla, non sia la Veronica, ciò che risulterebbe dalle diverse misure dell’antico contenitore in cui era conservata la reliquia sino al Seicento, attualmente nel Tesoro di San Pietro. Cfr. H. Pfeiffer, P. Badde, La seconda Sindone, Roma 2007. Di diversa opinione R. Falcinelli, The face of Manoppello and the veil of Veronica: new studies, in Proceedings of the Internatinal Workshop on the Scientific approach to the Acheiropoietos Images, Frascati, 4-6 May 2010, pp. 1-9 http://www.acheiropoietos. info/proceedings/FalcinelliManoppelloWeb.pdf 11 P. D. di Bomba, Relatione Historica (c. 1640-1646), ms. in Archivio Provinciale dei Cappuccini. Convento di S. Chiara, L’Aquila. 12
Il Volto Santo di Manoppello, a cura di H. Pfeiffer S. J., Pescara 2000, pp. 24-31.
6. Manoppello, Basilica del Volto Santo. Facciata (1965).
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MANUTENZIONE,
RIQUALIFICAZIONE, COMPLETAMENTO Modelli d’intervento architettonico ed artistico nei giubilei del seicento barocco a Roma Marcello Villani
Se diversi sono stati i Giubilei straordinari indetti nel corso del Seicento, non c’è dubbio come, dal punto di vista artistico ed in particolare architettonico, l’attenzione debba focalizzarsi a Roma soprattutto sugli Anni Santi del 1625, 1650 e 1675. Tre eventi decisamente diversi tra loro, innanzitutto per il diverso contesto storico, ma anche per le modalità d’intervento ed i concreti esiti realizzativi1; episodi comunque centrali nella storia della città barocca, tali da prestarsi ad essere interpretati come altrettante occasioni di riflessione critica. Sebbene in termini necessariamente sintetici, l’analisi verterà quindi su questi tre Anni Santi, riservando particolare attenzione a quello del 1675 che, sebbene forse meno noto, rappresenta per certi versi la conclusione ideale di un processo sviluppato nei decenni precedenti.
Il Giubileo del 1625 Non molto tempo ebbe a disposizione Urbano VIII Barberini (fig. 1), asceso al Soglio Pontificio nell’agosto del 1623, per programmare e, soprattutto, portare a compimento interventi architettonici e di riqualificazione urbana in vista di quel Giubileo che si sarebbe aperto meno di un anno e mezzo dopo. In effetti, l’opera di gran lunga più rappresentativa promossa dal Barberini, il monumentale Baldacchino della basilica di S. Pietro, sebbene deliberato presto (1624), non sarebbe stato completato che nel 1633. Principale operazione artisticoarchitettonica riconducibile ad una committenza papale in vista del Giubileo rimane dunque l’intervento di riqualificazione della chiesa di S. Bibiana, pure iniziato nel 16242 (figg. 2, 3). Il fortunato ritrovamento delle reliquie della Santa nei pressi dell’altare maggiore (marzo 1624) aveva infatti innescato un processo di aggiornamento stilistico e di abbellimento della chiesa: alla decorazione delle pareti della navata, affidata ad Agostino Ciampelli ed ad uno dei più promettenti giovani pittori di quegli anni come Pietro Berrettini da Cortona, si era affiancata la decisione di attribuire a Giovan Lorenzo Bernini l’incarico di realizzare il nuovo altare maggiore in marmo e la stessa facciata della chiesa (il suo primo, significativo incarico architettonico). Opera senz’altro rilevante, anche per il coinvolgimento di artisti destinati ad essere tra i protagonisti dell’età barocca, il ‘restauro’ di S. Bibiana riguardò tuttavia una chiesa di piccole dimensioni, preesistente e per di più localizzata in un’area decisamente periferica: intervento dunque ben lontano dalle ambiziose imprese promosse dai Papi precedenti. Piuttosto intensa fu invece l’opera di manutenzione in vista
Principale operazione artistico-architettonica riconducibile ad una committenza papale in vista del Giubileo rimane dunque l’intervento di riqualificazione della chiesa di S. Bibiana, pure iniziato nel 1624
1 Per un quadro di sintesi sull’arte e l’architettura in occasione dei Giubilei (fino al 1875) si rimanda all’ormai classico: Roma. La città degli Anni Santi, a cura di M. Fagiolo e M. L. Madonna, Milano 1985. 2
Su S. Bibiana si rimanda, nell’ambito della sterminata bibliografia berniniana, a: F. BORSI, Bernini Architetto, Milano 1992, pp. 255-257, 291.
S. Pietro. Navata centrale. È visibile la decorazione dei pilastri condotta su disegno di G. L. Bernini per l’Anno Santo del 1650
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dell’afflusso dei pellegrini, indirizzata soprattutto verso il ripristino e la manutenzione di strade, come quelle poste subito fuori le principali Porte d’accesso alla città (Porta del Popolo, Porta Pia, Porta Angelica, Porta Maggiore, etc.), interventi collegati alla selciatura di altri percorsi urbani di connessione, in particolare nei quartieri di S. Giovanni e dell’Esquilino. In realtà, gli sforzi maggiori del Papa furono concentrati nelle opere di difesa della città: una condotta giustificata dal difficile contesto politico, dal momento che proprio nella seconda metà degli anni Venti il conflitto che passerà alla storia come Guerra dei Trent’Anni finirà per interessare estesamente la penisola, colpita da eventi traumatici come il terribile Sacco di Mantova. Rientra in quest’ottica, che avrebbe portato al grandioso ampliamento della cinta muraria in corrispondenza delle aree del Gianicolo e di Trastevere, l’organico piano di rafforzamento, attraverso il potenziamento di baluardi e cortine, di Castel S. Angelo, ovvero della struttura tradizionalmente destinata alla sicurezza del Pontefice. Persino l’allargamento della piazza davanti al palazzo pontificio del Quirinale rappresentò un intervento giustificato, secondo una fonte dell’epoca, tanto da scopi rappresentativi quanto da esigenze di maggior sicurezza. Le linee operative di indirizzo pontificio per il Giubileo del 1625 si orientarono dunque essenzialmente verso gli interventi di manutenzione; qualora confrontato con i grandi lavori compiuti nel corso del pontificato di Paolo V Borghese (1605-1621) concluso da pochi anni, un approccio quindi decisamente pragmatico. Si consideri tuttavia come la forte personalità del Papa, amante dell’arte ed egli stesso raffinato poeta, si sarebbe pienamente dispiegata soprattutto negli anni successivi all’Anno Santo del 1625 e come le maggiori imprese artistiche ed architettoniche (a partire dal grandioso palazzo di famiglia alle Quattro Fontane) siano dunque posteriori al Giubileo: quest’ultimo, arrivò dunque, per così dire, troppo ‘presto’ per poter essere occasione di un esteso programma di interventi tali da imprimere un segno caratterizzante sulla città. Contrasta con la limitata azione papale, l’attivismo della committenza privata, nel cui ambito si segnala quella riconducibile ai due cardinali Nepoti Scipione Caffarelli Borghese (1577-1633) ed Alessandro Damasceni Peretti Montalto (1571-1623). Al primo, nipote di Paolo V Borghese, si deve la decisione di restaurare l’antica chiesa di S. Crisogono e di far realizzare la facciata in travertino di S. Maria della Vittoria: entrambi iniziati prima del Giubileo ed affidati a Giovan Battista Soria (in quegli anni architetto di fiducia dell’alto prelato), i due interventi si conclusero nel 1626, come testimoniato dalla data incisa nelle epigrafi dei rispettivi prospetti. Ancor più ambiziosa appare l’azione del Peretti: nominato cardinale alla giovanissima età di quattordici anni dallo zio Sisto V appena eletto Pontefice (1585), l’ecclesiastico aveva progressivamente acquisito una serie di cariche e prebende, tra cui la prestigiosa qualifica di Vice Cancelliere di Santa Romana Chiesa, che gli avevano permesso di accumulare uno dei maggiori patrimoni del tempo. Al 1608 data la sua decisione di assumere l’onore ed il peso finanziario del completamento della grande chiesa dei Teatini di S. Andrea della Valle: iniziata nel 1591 grazie al generoso sostegno economico del cardinale Alfonso Gesualdo, la realizzazione dell’edificio aveva conosciuto una serie di problemi e sospensioni dell’attività in cantiere, dovuti in parte alla nomina del Gesualdo ad arcivescovo di Napoli (1596), ma soprattutto a disparità di vedute in merito al progetto tra il cardinale, i Padri Teatini e lo stes-
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1. Pietro Berrettini da Cortona. Ritratto di Urbano VIII (ca. 1625) (Roma. Pinacoteca Capitolina) 2. Roma. S. Bibiana, interno. Alle pareti della navata centrale, gli affreschi di Agostino Ciampelli e Pietro Berrettini da Cortona; sullo sfondo, l’altare maggiore con la statua di santa Bibiana di G. L. Bernini 3. Roma. S. Bibiana, facciata (da G. B. Falda, Il Terzo Libro del Novo Teatro delle Chiese di Roma, Roma 16671669) Questa pagina
4. Roma. S. Andrea della Valle, cupola 5. D. Velázquez. Ritratto di Innocenzo X (1650) (Roma. Galleria Doria Pamphili) 6. S. Pietro. Navata centrale. È visibile la decorazione dei pilastri condotta su disegno di G. L. Bernini per l’Anno Santo del 1650 7. Roma. S. Giovanni in Laterano, navata 8. G. B. Gaulli, detto il Baciccio Ritratto di Clemente X (1670-1676) (Firenze. Galleria degli Uffizi)
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so architetto Giovanni Francesco Grimaldi3. La morte del Gesualdo (14 febbraio 1603) aveva di fatto portato ad un’interruzione dei lavori; già ventilato in quello stesso anno, il coinvolgimento di una figura d’eccezione come il cardinale Damasceni Peretti Montalto si concretizzò tuttavia non prima dell’aprile del 1608: l’impegno di spendere una cifra compresa tra 80.000 e 90.000 scudi erogandone tuttavia 5000 all’anno induce ad ipotizzare l’intenzione del cardinale di portare a termine la grande impresa proprio intorno al Giubileo del 1625. Il programma verrà in effetti quasi integralmente rispettato: sarà infatti solo la prematura morta (2 giugno 1623) del Peretti ad impedire il completamento della monumentale facciata, rimasta a livello del basamento, dopo che negli anni precedenti erano stati completate la navata e le cappelle, ed erano stati realizzati il transetto, la tribuna e, infine, la splendida cupola progettata da Carlo Maderno (la seconda della città per dimensioni, dopo quella di S. Pietro) (fig. 4). Ad eccezione quindi del prospetto, destinato ad essere compiuto solo nel corso del pontificato di Alessandro VII Chigi (1655-1667), i pellegrini in visita alla città in occasione del 1625 avrebbero ammirato una nuova, monumentale chiesa che, all’interno, si andava arricchendo dei celebri affreschi del Domenichino e di Giovanni Lanfranco, voluti dall’abate (successivamente cardinale) Francesco Peretti, nipote di Alessandro.
Il Giubileo del 1650 L’elezione al soglio pontificio di Innocenzo X (15 settembre 1644) (fig. 5) determina presto una decisa inversione di tendenza rispetto agli orientamenti politici del predecessore Urbano VIII (1623-1644). Già nunzio a Madrid (1626-1630), il nuovo Papa manifesta sin dall’inizio una sostanziale ostilità nei confronti 3
Su S. Andrea della Valle, vedi il pregevole A. COSTAMAGNA, D. FERRARA, C. GRILLI, Sant’Andrea della Valle, Milano 2003.
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disegno generale. degli interessi francesi e, in particolare, Innocenzo X concepisce per Ben diverso il discorso per quanto del potente cardinale Giulio Mazzaril’Anno Santo del 1650 una riguarda l’altra grande basilica cono, dimostrandosi invece più sensibile serie di interventi improntati stantiniana, quella di S. Giovanni in alle istanze spagnole. In quest’ottica va Laterano. Come ricordato dalle fonti, collocata anche l’offensiva nei confronti ad un chiaro spirito l’intervento trova la sua giustificaziodei Barberini, la ricchissima famiglia del decelebrativo: fondati, nel ne in una duplice serie di motivi: da funto Pontefice, accusata di malversazioni una parte, le condizione fatiscenti ed illeciti arricchimenti durante il papato complesso, su un’ambiziosa delle navate della chiesa costantiprecedente. La fuga del cardinale Antonio visione di rinnovo di alcuni niana, la cui struttura risaliva ad oltre Barberini (settembre 1645), presto seguita tredici secoli prima (già pochi anni da quella dell’altro cardinale Francesco e dei principali luoghi sacri prima, erano stati peraltro condotti del fratello Taddeo (gennaio 1646), segna della città. Due delle quattro nella chiesa lavori per “reparatione un clamoroso punto di rottura; ed appare basiliche maggiori di Roma in diversi luoghi che minacciavailluminante come i Barberini, presto privati no ruina”); dall’altra, la particolare dal Papa di gran parte dei loro averi, si (S. Pietro, S. Giovanni in affezione del Papa, in virtù anche rifugino proprio in Francia alla corte del loro Laterano) sono oggetto delle affinità con il nome proprio del protettore Mazzarino. Pontefice (Giovanni Battista)5. ScarSebbene teoricamente frenato dalle codi importanti opere di lossali spese affrontate dalla Santa Sede tata l’ipotesi di ricostruire ex novo riqualificazione, mentre per nella cosiddetta guerra di Castro, voluta la basilica, anche per la vincolante una terza (S. Paolo fuori nel 1643 da Urbano VIII e conclusasi in presenza del transetto riccamente modo fallimentare per le armi pontificie adornato pochi decenni prima da le Mura) si progetta un l’anno successivo, Innocenzo X concepiClemente VIII Aldobrandini (1592radicale intervento, sia pure sce per l’Anno Santo del 1650 una serie 1605), l’incarico affidato a Francedi interventi improntati ad un chiaro spirito sco Borromini si sarebbe incentrato destinato a rimanere sulla celebrativo: fondati, nel complesso, su sul rinnovo delle cinque navate, articarta. un’ambiziosa visione di rinnovo di alcuni colate originariamente da un sistema dei principali luoghi sacri della città. Due colonnare. L’idea dell’architetto, delle quattro basiliche maggiori di Roma valutabile attraverso una serie di ela(S. Pietro, S. Giovanni in Laterano) sono oggetto di importanti borati grafici conservati soprattutto presso la Biblioteca Apostolica opere di riqualificazione, mentre per una terza (S. Paolo fuori Vaticana e basata sull’inserimento di un sistema di pilastri giganti le Mura) si progetta un radicale intervento, sia pure destinato a intervallati da eleganti nicchie marmoree (fig. 7), determinerà la rimanere sulla carta. completa mutazione della facies interna della veneranda basilica. A S. Pietro, tra il 1645 ed il 1650, si rivestono i grandi pilastri della Al di là dell’eccezionale esito qualitativo, che deve comunque navata centrale4. L’apparato decorativo, che si sostanzia nella essere valutato alla luce del vincolo del grande soffitto ligneo cinquecentesco (che l’architetto avrebbe voluto sostituire con una virtuosistica combinazione di marmi pregiati ed inserti scultorei grande volta e che invece venne conservato per volere del Papa), (fig. 6), vede all’opera una nutrita schiera di artisti ed una ancor degna di nota è l’eccezionale rapidità dell’attività nel cantiere, che più numerosa massa di maestranze. La responsabilità viene portò in appena quattro anni (1646-1650) al sostanziale comaffidata a Giovan Lorenzo Bernini, in quei mesi al centro di una pletamento del grandioso lavoro. Al di là di rifiniture localizzate, delle più aspre querelles architettoniche del secolo: quella legata l’impegno assunto dall’architetto lombardo di condurre a termine alla demolizione, per motivi statici, del campanile meridionale della l’opera per il Giubileo del 1650 poteva dirsi rispettato. facciata della Basilica, realizzato alla fine del pontificato di Urbano Qualora si sommino agli interventi in S. Pietro ed in S. Giovanni in VIII ed imprudentemente immaginato di dimensioni colossali. Laterano la renovatio di piazza Navona, autentica corte di famiLungi dal rappresentare una sorta di riabilitazione, il coinvolgiglia - con il nuovo palazzo Pamphili (1645-1648), la Fontana dei mento del Bernini nei lavori della navata discende essenzialmente Quattro Fiumi (1647-1651) e, a partire dal 1652, la nuova chiesa dalla carica da lui rivestita da circa un quindicennio, cioè architetto di S. Agnese in Agone - ed altre opere come il completamendella Reverenda Fabbrica di S. Pietro: come tale responsabile dei to della sistemazione michelangiolesca del Campidoglio grazie lavori programmati nel complesso sacro vaticano. Considerato alla costruzione del palazzo Nuovo (dal 1645), si avrà la misura generalmente tra le opere meno riuscite del Bernini, l’intervento di dell’attivismo pamphiliano; che non esaurisce certo il ventaglio decorazione dei pilastri soffre in effetti di una non risolta frammendelle opere realizzate o completate per il Giubileo, in cui rientra la tarietà compositiva, in cui la ricchezza materica e la dispositio dei grande chiesa di S. Ignazio (inaugurata con la presenza del Papa motivi compositivi non approdano ad una fusione organica. Ne nell’agosto del 1650 e la cui tarda commemorativa in controfacconsegue un processo di addizione, più che di armonizzazione; e ciata menziona esplicitamente l’Anno Santo). Se si pensa infine la stessa enfasi attribuita alle grandi colombe con il ramo d’ulivo – il simbolo araldico dei Pamphili – appare poco integrata nel 5 4
Sull’intervento berniniano nella navata di S. Pietro: F. BORSI, Bernini Architetto, Milano 1992, pp. 313-314.
Sui grandi lavori in S. Giovanni in Laterano condotti sotto la guida del Borromini in vista dell’Anno Santo del 1650: A. ROCA DE AMICIS, L’opera di Borromini in San Giovanni in Laterano: gli anni della fabbrica (1646-1650), Roma 1995.
alla committenza privata di quegli anni - e non può non ricordarsi almeno la berninana cappella Cornaro in S. Maria della Vittoria, uno dei vertici assoluti dell’arte barocca europea o l’organica opera di decorazione a stucchi ed affreschi delle volte della chiesa oratoriana di S. Maria della Vallicella, iniziata nel 1647 ed affidata a Pietro da Cortona - si avrà un’idea dell’impressionante ventaglio delle iniziative promosse. Anche al di là delle stesse ambiziose iniziative papali, quello del 1650 può quindi essere considerato nel complesso il Giubileo dei grandi interventi e dell’ampiezza di vedute: una sorta di anticipazione dell’eccezionale visione urbana ed architettonica del successore del Papa Pamphili, quell’Alessandro VII Chigi (1655-1667) che in poco più di un decennio avrebbe impresso la sua impronta sulla città.
Il Giubileo del 1675 Se i Giubilei del 1625 e del 1650 si erano caratterizzati sostanzialmente per gli interventi di manutenzione il primo e per le grandi opere nelle basiliche maggiori il secondo, l’Anno Santo del 1675 potrebbe definirsi invece come il Giubileo dei completamenti. Ad indirlo fu Papa Clemente X (1670-1676) (fig. 8); di nobile famiglia romana, Emilio Altieri aveva percorso una parabola decisamente singolare: nominato cardinale da Clemente IX (29 novembre 1669) appena dieci giorni prima della morte di quest’ultimo, l’Altieri era asceso al Soglio pontificio dopo uno dei più lunghi conclavi della storia (oltre quattro mesi, dal 20 dicembre del 1669 al 29 aprile dell’ano seguente), all’età di quasi ottant’anni ed essendo cardinale appunto da meno di cinque mesi. Un Papa di transizione, dunque, almeno nelle intenzioni di una parte del Sacro Collegio; oltre ad una durata certo non lunga ma tutt’altro che effimera (poco più di sei anni), il pontificato Altieri vide invece qualche progresso verso il superamento di problemi maturati negli anni precedenti e rimasti irrisolti. Al di là dei Giubilei straordinari indetti dal Papa nei primi anni del pontificato, non c’è dubbio che le energie maggiori si concentrarono sull’Anno Santo del 1675. Di indole austera e personalmente lontano da particolari propensioni di tipo artistico, il nuovo Papa non diede in effetti l’impressione all’inizio di essere interessato ad opere edilizie; il 12 giugno 1670, ovvero un mese e mezzo dopo l’elezione, Carlo Cartari annotava nel suo diario: “E perciò si dice, che S. S.tà vada assai parco nelle spese del Palazzo, anco della propria mensa, e che non sia per mettersi ad alcuna spesa di fabrica considerabile per la scarsezza del denaro, in che si trova la Camera”6. Il pontificato Altieri avrebbe quindi 6
Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 82, ff. 281v.
potuto segnare una radicale inversione di tendenza rispetto a quelli dei predecessori, che avevano invece arricchito Roma di grandiose opere architettoniche ed ambiziose imprese artistiche: una svolta che, invece, si sarebbe effettivamente verificata solo con il successore di Clemente X, ovvero il rigido Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689). Contraddicendo per certi versi le voci circolate nelle settimane successive alla sua elezione, Clemente X permise, ad esempio, che lo storico palazzo di famiglia nei pressi della chiesa del Gesù venisse enormemente ampliato e riccamente decorato, pur rifiutandosi di andare a visitarlo quasi a marcare una sua sostanziale indifferenza. Il Papa Altieri sentì soprattutto il bisogno, di carattere morale più che artistico, di portare a termine i due principali interventi lasciati incompiuti dal predecessore, quel Clemente IX verso il quale nutriva sentimenti di rispettosa gratitudine, esplicitati anche dalla scelta di riprenderne il nome. In ordine di tempo, la prima impresa da completare riguardava la sistemazione monumentale del ponte Adriano o, come era stato ribattezzato in età moderna, ponte Sant’Angelo. Come è noto, non si trattava genericamente di uno dei peraltro non molti collegamenti tra le due sponde del Tevere: era infatti attraverso questo ponte che gran parte della massa dei pellegrini raggiungeva l’area vaticana e, quindi, la basilica di S. Pietro ed il palazzo Apostolico. Soprattutto per questo, Clemente IX Rospigliosi (1667-1669) aveva affidato all’ormai anziano Bernini il compito di riqualificare l’antica struttura: impostata progettualmente sulla spettacolare parata degli angeli con i simboli della Passione e sul recupero del rapporto visivo con il fiume ottenuto grazie all’ingegnosa idea di sostituire i parapetti pieni con elaborate inferriate metalliche, l’impresa era stata avviata ma, alla morte del Papa (dicembre 1669), non poteva certo definirsi conclusa7. Clemente X ordinò la sollecita ripresa dei lavori, come è possibile dedurre dal posizionamento di un angelo appena un mese dopo la sua elezione (25 maggio 1670), dalla realizzazione della “nuova selciata” del ponte, conclusa il 22 novembre dello stesso anno e dalla sistemazione di altre due statue di angeli (15 ottobre, 8 novembre 1671)8. Appare significativo come Clemente X, nonostante avesse contribuito non poco al completamento dell’opera, si rifiutasse decisamente, in segno di rispetto per il predecessore, di apporre propri simboli araldici, una volta conclusi i lavori nella primavera del 16729. Di gran lunga più impegnativo fu il secondo grande intervento di completamento deciso dal Papa, quello relativo alla tribuna di S. Maria Maggiore, una delle quattro basiliche maggiori della Città Eterna (fig. 9). Avviato anch’esso nel corso del pontificato
E perciò si dice, che S. S.tà vada assai parco nelle spese del Palazzo, anco della propria mensa, e che non sia per mettersi ad alcuna spesa di fabrica considerabile per la scarsezza del denaro, in che si trova la Camera
7 Sulla sistemazione berninana di ponte S. Angelo, si veda il classico: C. D’ONOFRIO, Gian Lorenzo Bernini e gli angeli di Ponte S. Angelo: storia di un ponte, Roma 1981. 8 Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 82, ff. 266r, 352v; 83, ff. 176r, 189r. 9 “Con somma modestia non volse, che si ponesse di lui stesso alcuna arme, o inscrittione, benche l’ornamento del Ponte suddetto fosse degno, che ne restasse memoria”: Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 83, ff. 28v, 29r.
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9. Roma. S. Maria Maggiore, prospetto posteriore (stato anteriore all’intervento barocco) (da P. De Angelis, Basilicae S. Mariae Maioris…, Roma 1621) 10. Roma. S. Maria Maggiore, tribuna, pianta. Nell’incisione sono riportati sia lo stato di fatto (tratto nero) che il progetto del Bernini (tratto grigio) con la nuova abside, il colonnato semicircolare e l’ampia scalinata (da D. de Rossi, Studio d’architettura civile, III, Roma 1721) 11. Roma. S. Maria Maggiore, prospetto posteriore secondo il progetto di G. L. Bernini (da D. de Rossi, Studio d’architettura civile, III, Roma 1721) 12. Roma. S. Maria Maggiore, prospetto posteriore (incisione di A. Specchi, 1702)
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di Clemente IX, che aveva rivestito per diversi anni la qualifica di canonico della basilica e che aveva disposto di essere qui sepolto, l’intervento, progettato dal Bernini, prevedeva la demolizione della vecchia abside e la sua ricostruzione in forma di gran lunga più grandiosa: uno spettacolare portico colonnato preceduto da una scenografica scalinata di venti scalini avrebbe qualificato l’esterno, armonizzato con le preesistenze, ovvero le due cappelle di Sisto V e di Paolo V10 (figg. 10, 11). L’opera, la cui prima pietra era stata posta nel settembre del 1669, aveva suscitato sin dalle prime fasi una certa opposizione, in virtù da una parte delle pesanti alterazioni previste per l’abside ed i suoi preziosi mosaici, dall’altra dei costi esorbitanti connessi all’ambiziosa soluzione studiata dall’architetto. A tutto questo si aggiungeva l’aperta ostilità dei parenti del Papa, timorosi di doversi accollare il completamento dell’opera in caso di morte del loro congiunto, le cui condizioni di salute non apparivano ottimali (e che sarebbe effettivamente morto meno di tre mesi dopo). Sebbene interessato a condurre a compimento l’impresa in virtù della profonda gratitudine nei confronti del predecessore, Clemente X si mostrò presto irremovibile nel rifiuto della colossale soluzione ideata dal Bernini, espressamente bloccata nel giugno del 1670, meno di due mesi dopo l’elezione del nuovo Papa. Il problema rimaneva comunque aperto, anche dopo l’allontanamento del Bernini dal cantiere; il coinvolgimento di Carlo Rainaldi, autore di un nuovo progetto improntato a caratteri di monumentalità e dignità architettonica, ma senz’altro più modesto rispetto alla soluzione berniniana assunse quindi il sapore di una soluzione di compromesso, finalizzata da una parte a condurre comunque in porto l’impresa (anche in vista del prossimo Giubileo), dall’altra a segnare esplicitamente una rottura con la contestata idea del Bernini. Il nuovo progetto rinunciò infatti allo spettacolare colonnato immaginato dal Bernini, replicando dalla parte della cappella di Sisto V il fronte posteriore della cappella Paolina ed inserendo, centralmente, nel rivestimento dell’abside preesistente, un’elegante scansione in travertino (fig. 12). Sebbene ovviamente meno scenografica dell’idea berniniana, la nuova tribuna del Rainaldi, anche grazie all’ampia scalinata, raggiunse un apprezzabile livello qualitativo. Nel complesso, la sistemazione della tribuna di S. Maria Maggiore rappresenta un nuovo, riuscito esempio di sistemazione barocca con valenze urbane, in linea con precedenti interventi. I completamenti voluti da Clemente X interessarono anche un’altra delle quattro basiliche maggiori di Roma, ovvero S. Pietro, peraltro già notevolmente arricchita durante il pontificato di Alessandro VII 10
Sull’intervento seicentesco nella tribuna di S. Maria Maggiore: A. ANSELMI, I progetti di Bernini e Rainaldi per l’abside di Santa Maria Maggiore, in «Bollettino d’Arte», anno LXXXVI, 117, luglio-settembre 2001, pp. 27-78.
Chigi (1655-1667) con la realizzazione della monumentale Cattedra nella tribuna e la grandiosa sistemazione della piazza con il Colonnato, entrambe su progetto di Giovan Lorenzo Bernini. Appare illuminante come gli interventi condotti interessassero sia l’interno che l’esterno: venne infatti realizzato il sontuoso pavimento in marmi colorati del Portico, compiuto nell’agosto del 1672, come ricordato da una nota del diario dell’avvocato concistoriale Carlo Cartari11. Se l’opera per il Portico può inserirsi nel filone dei vari interventi di abbellimento condotti nella Basilica vaticana nel corso del Seicento, del tutto improntata alla logica del completamento si configura l’azione svolta nella piazza, che portò innanzitutto allo spostamento della fontana realizzata in apertura di secolo per volontà di Paolo V Borghese (1605-1621) ed al suo ricollocamento in corrispondenza di uno dei centri geometrici dell’ovale berniniano (ottobre 1672)12, un’impresa già prevista da Alessandro VII Chigi, ma non realizzata per la morte del Pontefice nel maggio 1667. Quasi in contemporanea, verrà realizzata la seconda fontana, in posizione simmetrica rispetto alla precedente; opera tutt’altro che secondaria per dimensioni ed impegno economico, ma soprattutto indispensabile ai fini della compiutez11 Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 84, f. 101v. Già nel novembre dell’anno precedente, il Cartari aveva ricordato i lavori nel Portico (Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 83, f. 192r). 12
Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 84, f. 109v.
za dell’immagine della piazza stessa13 (fig. 13). Nella stessa ottica deve essere inserita la sistemazione, sulla balaustrata in travertino del Colonnato, delle ultime quattro statue ancora mancanti (15 marzo 1673)14. Particolare è invece l’opera di “imbiancatura del gran Colonnato”, iniziata nel luglio del 1674 proprio in previsione del Giubileo: un’operazione finalizzata a ravvivare cromaticamente la superficie delle 284 colonne della piazza, mascherando al tempo stesso le imperfezioni del travertino15. Coronamento dell’insieme degli interventi condotti in S. Pietro fu comunque la sistemazione del ricchissimo Tabernacolo berniniano nella cappella del SS. Sacramento, a sua volta adornata di stucchi e pitture: è significativo che questa impresa, artisticamente una delle più importanti nel pontificato Altieri, venisse ultimata alla vigilia di Natale del 1674, ovvero in concomitanza con l’apertura dell’Anno Santo16. 13
Ibidem.
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Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 84, f. 147v.
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Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 85, f. 39v.
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Archivio di Stato di Roma, Cartari Febei, 85, f. 82v (“La vigilia del SS. Natale si vidde il ricco, e maestoso Tabernacolo della Basilica Vaticana, per conservarvi il SS. Sacramento, composto di lapislazzuli, con ornamenti e statue di rame ben dorato, e dicono che la spesa ascenda a quaranta mila scudi”, così il Cartari). Sull’opera, si veda in particolare: L. FALASCHI, Il ciborio del Santissimo Sacramento in San Pietro in Vaticano, secondo i disegni e i progetti di Gian Lorenzo Bernini da Urbano VIII Barberini a Clemente X Altieri, in L’ultimo Bernini 1665-1680. Nuovi argomenti, documenti e immagini, a cura di V. Martinelli, Roma 1996, ma anche gli altri contributi inclusi nel medesimo volume.
I completamenti voluti da Clemente X interessarono anche un’altra delle quattro basiliche maggiori di Roma, ovvero S. Pietro, peraltro già notevolmente arricchita durante il pontificato di Alessandro VII Chigi (16551667) con la realizzazione della monumentale Cattedra nella tribuna e la grandiosa sistemazione della piazza con il Colonnato. 13. Roma, piazza S. Pietro. In primo piano, la fontana fatta realizzare da Clemente X in previsione dell’Anno Santo del 1675
Conclusione Dalla sintetica analisi condotta emerge un elemento significativo, ovvero la pluralità delle linee di intervento seguite in occasione dei diversi Giubilei. Se, come detto, questo dato deriva in parte dalle specifiche contingenze storiche, è indubbio come rifletta al tempo stesso anche concezioni non sovrapponibili, che poco hanno a che fare, cioè, con condizionamenti oggettivi. Si ricordi come i grandi lavori condotti per l’Anno Santo del 1650 siano messi in cantiere e completati in tempi stretti in un contesto economico e politico particolarmente difficile; in questo caso, appare dunque plausibile evidenziare il ruolo trainante del Papa e del suo entourage: tale da superare quegli ostacoli che, in presenza di altre personalità avrebbero costituito altrettanti fattori frenanti. Da qui, un implicito invito a pensare ai Giubilei del Seicento romano in termini di complessità ed articolazione delle chiavi interpretative, più che attraverso letture univoche: da qui, anche la conferma della ricchezza dei significati e delle stesse flagranti contraddizioni dell’età barocca, che rappresentano al tempo stesso uno dei principali motivi d’interesse di questa irripetibile fase storica.
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CONSERVAZIONE E RINNOVAMENTO NELLE BASILICHE GIUBILARI:
IL SETTECENTO Claudio Varagnoli
Architetti e teorici dell’Ottocento hanno orgogliosamente considerato il restauro una loro “invenzione”, ma la nascita di un atteggiamento conservativo ha radici più antiche: senza risalire troppo indietro nel tempo, e rimandando ad alcuni recenti contributi bibliografici1, si può osservare come dalla fine del Cinquecento si sviluppi l’attenzione per le antichità cristiane, e non solo quindi per la classicità greca e romana, ma in una forma peculiare che tiene conto anche delle esigenze del presente. Il restauro e la conservazione si confrontano con la creatività del progetto, raggiungendo un equilibrio instabile proprio durante il Settecento, e prima che nascano specifiche discipline incaricate di gestire le testimonianze materiali del passato. Il XVIII secolo è naturalmente un secolo molto complesso per il rapporto con la religione, per l’affermazione dei principi razionalisti e laici di opposizione alla chiesa, ma eredita anche la sensibilità nata con il Concilio di Trento e poi sviluppata dalla cultura barocca. Nel trattamento riservato alle chiese medievali, sistemate per ospitare fedeli e pellegrini non solo nelle occasioni particolari, possiamo distinguere grosso modo due modalità principali. Da un lato, il filone dell’abbellimento, della decorazione aggiunta in superficie, ma senza una radicale revisione dell’organismo preesistente, come nell’intervento berniniano di riconfigurazione della chiesa quattrocentesca di Santa Maria del Popolo a Roma; dall’altro, lo sforzo di reinterpretare l’edificio antico attraverso la realizzazione di un nuovo spazio, che però mantenga memoria materiale, formale o planimetrica dell’antico, come nel modello di Borromini a San Giovanni in Laterano per il giubileo del 1650. Borromini non soltanto rinnova la basilica fondata da Costantino e quindi Mater ecclesiarum, ma ne favorisce la sua conservazione, almeno in certi aspetti: nella radicale trasformazione non troviamo più la basilica con le sue stratificazioni storiche, ma sono comunque rispettate le caratteristiche planimetriche, mentre le nicchie contenenti le statue degli Apostoli esibiscono le colonne dell’antica basilica, così come gli ovali che Borromini plasma sulle pareti della navata erano pensati per far incorniciare i mattoni dell’antica chiesa, come il pontefice aveva richiesto. Va infatti tenuta presente l’importanza della reliquia 1 Rimando a C. Varagnoli New basilicas from Ancient Ones: Rome and Central Italy in the Eighteenth Century, in Alla moderna. Antiche chiese e rifacimenti barocchi: una prospettiva europea/Old Churches and Baroque Renovations: a European Perspective, Roma, Editoriale Artemide, 2015, pp. 245-269, saggio da cui deriva il presente contributo. Un originale punto di vista sulle “origini” del restauro è in A. Pergoli Campanelli, La nascita del restauro. Dall’antichità all’alto medioevo, Milano, Jaca book, 2015.
Roma. S. Cecilia in Trastevere, interno.
che testimonia l’antichità e il primato, se non altro temporale, di una devozione che si è mantenuta fedele a se stessa. In questo filone, nato attorno alle controversie dottrinarie suscitate dalla Riforma protestante prima e dal Concilio di Trento poi, si inserisce per esempio l’esplorazione sistematica delle catacombe condotta da Antonio Bosio, e pubblicata nel volume Roma sotterranea (1632). La veridicità e l’antichità delle reliquie era un nodo fondamentale nella discussione sui fondamenti della Chiesa di Roma condotta dalla Riforma Luterana: di qui, la risposta attraverso il Concilio di Trento e l’opera di storici, come Cesare Baronio, attenti alla conservazione e alla dimostrazione della continuità del culto attraverso testimonianze autentiche e verificabili da parte di tutti. È con questo spirito, ad esempio, che in S. Ambrogio a Milano, Federico Borromeo richiede il rispetto delle tessiture murarie della chiesa medievale agli architetti che si accingevano al suo rinnovamento.
Figura centrale per la cultura settecentesca italiana, Ludovico Antonio Muratori è il primo a costruire la storia non più su tradizioni non verificate, ma sulle fonti, soprattutto sui documenti vagliati attraverso l’esercizio filologico, attento a stabilirne l’autenticità e la veridicità:
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non è infatti un caso che Muratori si sia formato sui manoscritti conservati presso la Biblioteca Ambrosiana, fondata da Federico Borromeo. Intenti non diversi troviamo negli studiosi che si rivolgono alle testimonianze materiali come le architetture. Alla fine del Seicento, Giovanni Ciampini (1633-1698) studia sistematicamente gli edifici ecclesiastici costruiti dai tempi di Costantino, considerando le planimetrie, le decorazioni, le iscrizioni come fonti da esaminare filologicamente. Ciampini cerca di datare l’antichità di una chiesa dallo studio delle murature, proponendone una prima nomenclatura e per poter individuare così stratificazioni e ricostruzioni all’interno dei grandi palinsesti che sono le chiese medievali. Ugualmente moderno nell’impostazione è lo studio di un altro antiquario, Giovanni Marangoni (1673-1753), che esamina i materiali di spoglio – colonne, lapidi, lastre marmoree, elementi decorativi, capitelli – confluiti nella costruzione delle chiese paleocristiane e medievali, spesso provenienti da costruzioni pagane, che vanno analizzati proprio per comprendere meglio l’antichità e l’autenticità dei luoghi di culto. I monumenti che vengono rinnovati dopo il Concilio di Trento sono appunto edifici di questo tipo: grandi aule divise da navate costituite da lunghi muri paralleli sostenuti da semplici colonne e scarsamente collegati tra loro, quindi con frequenti problemi statici, connessi anche al deterioramento delle capriate (fig. 1). Le revisioni che si rendono necessarie nascono spesso da fenomeni di degrado per vetustà, ma anche da esigenze liturgiche, stante lo scarso uso delle navate laterali, o semplicemente per incrementare le fonti di illuminazione. Per questo, già durante il Seicento,lo schema basilicale classico viene riletto attraverso il filtro di un diverso sistema statico, basato sull’organica corrispondenza tra pilastri e volte, in una sequenza che garantisca un valido collegamento tra le parti e lo scarico delle forze secondo precise modalità: il modello poteva essere desunto dagli edifici termali o dalle basiliche pagane della tarda romanità come quella di Massenzio. Si può dire che nel corso del XVIII secolo, all’interno di questo modello strutturale e tipologico, si affermano le istanze di conservazione delle reliquie architettoniche messe in luce da Ciampini e Marangoni: un compito molto difficile, perché da un lato si cerca di dare unità formale e statica all’edificio; dall’altra occorre lasciare in luce elementi singolari, come colonne, pavimenti, arredi liturgici, mosaici, decorazioni, che non sempre si inseriscono nella nuova unità imposta dal progetto. Uno dei primi interventi che manifesta queste tendenze venne realizzato durante il pontificato di Clemente XI Albani, pontefice colto e attento al tema delle antichità cristiane, che indice tre giubilei straordinari nei primi venti anni del Settecento. Nel rinnovamento (1705 ss.) della basilica di S. Pietro in Vincoli, a Roma (fig. 2), Francesco Fontana non cancella l’antica pianta della chiesa, con la caratteristica dilatazione della navata centrale e delle colonne scanalate: ricerca
1. L’antica basilica di S. Clemente nella veduta pubblicata da G. Ciampini (1690). 2. Roma, S. Pietro in Vincoli, interno.
piuttosto un collegamento sintattico tra le parti – colonne, parete, copertura – organizzandole in una visione unitaria. La soluzione viene trovata con una volta a lacunari, con un orientamento anticheggiante, ma con un peso strutturalmente meno invasivo, in questo caso una grande volta di legno, che collega i due lati e conferma il canale visivo puntato sul presbiterio, connettendosi ai colonnati preesistenti e rafforzando il loro significato strutturale. Una tendenza molto frequente in altri eredi e allievi di Carlo Fontana, come si può evidenziare nella trasformazione (1713-19) di San Clemente, una delle basiliche esaminate da Ciampini, dove Carlo Stefano Fontana rilegge l’interno della basilica rispettando rigorosamente la schola cantorum, il baldacchino, il cero pasquale, e tutto il corredo liturgico medievale senza rinunciare all’esigenza tutta “moderna” di coerenza architettonica. Sui pilastri, che interrompevano fin dall’origine la sequenza di colonne, nasce un ordine di paraste binate che sostiene la cornice; i fusti delle colonne sono rispettati, con l’unificazione di capitelli e basi, così come il pavimento. L’apertura di grandi finestroni rettangolari rende l’interno luminoso, facilitando la lettura del nuovo ciclo pittorico sulle pareti e l’elaborato soffitto che copre la navata centrale. Troviamo l’uso di volte leggere – quasi sempre in tavole di legno o in camera canna o canniccio, talvolta in mattoni in foglio – in tutto il XVIII secolo. Nel grande rifacimento di Santa Cecilia in Trastevere (fig. 3), prossimo al Giubileo del 1725, domina il grande voltone ellittico, che rispetta anche le proporzioni dilatate tipiche dei tardi impianti basilicali, in questo caso del IX secolo, e introduce la visione del mosaico absidale, del baldacchino di Arnolfo di Cambio e della celebre statua che Stefano Maderno aveva creato per documentare il ritrovamento del corpo della santa, in occasione del Giubileo del 1600. Nella chiesa dedicata ai Santi Giovanni e Paolo (fig. 4), sempre a Roma, il rifacimento strutturale (1719-23) è molto invasivo, con la trasformazione dell’impianto a tre navate in un’aula con cappelle laterali passanti, ma tratti dell’antico colonnato vengono mantenuti all’interno di una nuova struttura a serliane, in un sistema che deriva da San Giovanni in Laterano. Sono infatti numerosi i casi di eliminazione delle colonne o del loro inglobamento dentro i nuovi pilastri, con l’intento di privilegiare la novità rispetto alla conservazione. Ma spesso, tra nuovi sostegni e colonne originarie si sviluppa una casistica di ritmi e alternanze. È il caso di Santa Anastasia al Palatino, dove si realizza (1721) una nuova struttura portante a pilastri davanti ai quali le colonne vengono riesposte come testimonianza dell’antichità e dell’importanza della chiesa (fig. 5). La struttura nuova trasforma quella preesistente senza annullarla, quasi mettendo in scena la nascita di un nuovo spazio da uno più antico, in un atteggiamento che può ricordare certi architetti contemporanei. I progetti che dopo la metà del secolo, per un concorso all’Accademia di San Luca (1758), sviluppano il tema di San Paolo fuori le Mura cercando di interpolare le colonne del IV secolo con nuovi pilastri, evidenziano la nascita di un nuovo edificio
69 3. Roma. S. Cecilia in Trastevere, interno. 4. Roma, chiesa dei SS- Giovanni e Paolo, interno (foto A. Zivas). 5. Roma, Chiesa di S. Anastasia al Palatino, interno.
6. G. Toma, progetto per il rinnovamento della basilica di San Paolo, 1758 (Accademia Nazionale di San Luca, Roma). 7. Viterbo, S. Maria in Gradi, l’interno di N. Salvi (distrutto dalla seconda guerra mondiale). 8. Roma, l’inteno di S. Maria Maggiore nella veduta di G.P. Pannini. 9. Roma, S. Croce in Gerusalemme, interno.
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dall’antico (fig. 6). È importante notare che in questi casi si cerca di rispettare sempre il perimetro della chiesa originale, che coincide con la terra benedetta durante il rito della prima consacrazione, testimonianza diretta dell’antichità e della continuità del luogo di culto. Le modalità a cui si è accennato sono particolarmente evidenti a Roma, dove il modello basilicale era rimasto costante per tutto il medioevo, spesso con l’impiego di colonne antiche e preziose. Ma troviamo tendenze analoghe in tutta Italia e in gran
parte dei paesi cattolici, insieme ad esempi che sembrano smentire l’orientamento conservativo. Un esempio è dato dal rifacimento di un grande edificio duecentesco, la chiesa domenicana di S. Maria in Gradi a Viterbo, radicalmente riprogettata negli anni Trenta da Nicola Salvi, con un’esigenza di rigore strutturale e formale che sembra andare al di là della sensibilità barocca (fig. 7). In questo caso, infatti, la riconfigurazione dello spazio non nasce dalla dissimulazione della configurazione esistente. La chiesa di Santa Maria in
Gradi viene quindi sopraelevata e rinforzata dal punto di vista statico, ma nel risultato finale scompaiono i pilastri e tutta l’architettura duecentesca. Il progetto disegnato da Salvi cancella le tre navate, sostituite da un’unica aula con cappelle laterali passanti, divise da nuove colonne binate: nel presbiterio, grandi pilastri sostengono una volta a vela a lacunari esagonali. La chiesa duecentesca resta solo come sedime e in alcune porzioni murarie visibili all’esterno. In sostanza, il nuovo ordine architettonico non include più i linguaggi
preesistenti, ma li annulla. Una tendenza che troviamo in altre che convergono sulla basilica. All’interno (fig. 9), nuovi pilastri città italiane, come nel caso della cattedrale di Foggia, che nella irrigidiscono le pareti della navata, chiusa in alto da una volta ricostruzione successiva al sisma del 1731 mantiene l’involuleggera in tavole lignee e configurata da una trabeazione piana cro medievale all’interno del quale viene costruita una nuova e nuova decorazione in stucco: le colonne originarie, accuratastruttura, con un’interessante organizzazione delle coperture non mente segnalate nel disegno di progetto, sono in parte inglobate, spingenti, tutte realizzate in canniccio. Soluzione analoga è quella in parte esibite nella nuova chiesa. Anche il ciborio cosmatesco della cattedrale di Ortona - prima delle distruzioni della seconda viene reinterpretato in una figuratività tutta barocca che ha il vanguerra mondiale e della incredibile ricostruzione - ridisegnata taggio di non ostacolare la lettura del grande affresco absidale ricavando un organismo centrale coperto da cupola all’interno che celebra le storie della vera Croce. dell’impianto tripartito originario. L’idea che si possano conserÈ ancora Benedetto XIV che difende l’integrità di monumenti “pavare le antiche murature, rivestendole e lasciandole all’interno gani”. Nel Pantheon, che anche oggi è la chiesa di S. Maria ad di teche di mattoni e stucchi, è all’origine dei tanti rifacimenti in Martyres, affida (1756) a Paolo Posi la risoluzione della mancata Abruzzo. È il caso di tante chiese aquilane e in primo luogo di corrispondenza dell’attico con l’ordine sottostante, che viene Santa Maria di Collemaggio, o di tanti casi nella regione, purtropeseguita, tutto sommato, intelligentemente, con una sequenza po persi a causa delle distruzioni effettuate soprattutto negli anni di riquadri decorativi che dissimulano e riassorbono il mancato Sessanta-Settanta del Novecento in omaggio ad una astratta allineamento. Ma l’edificio antico venne alterato nella sua autenidea di purezza stilistica. ticità, con un risultato che non dovette essere gradito allo stesso Un ulteriore avanzamento nell’attenzione per le reliquie architetpontefice. Questo concetto dovette guidare anche uno dei primi toniche è testimoniato dal pontificato di Benedetto XIV, uomo interventi con finalità strettamente conservativa. Di fronte ai timodi chiesa, ma anche di studi giuridici e filologici, formato sugli ri che la cupola di San Pietro potesse collassare, come paventato scritti e sul pensiero di Muratori. Durante il da molti tra ecclesiastici e tecnici, Benedetto XIV suo pontificato si svolse il giubileo del 1750, non accetta i propositi di radicale trasformazione forse l’ultimo dei grandi giubilei della Chiesa o di demolizione della lanterna, accusata di proCon l’affermazione Cattolica, in preparazione del quale furono rinvocare i dissesti. Affida ad un matematico come dell’atteggiamento novate e portate a compimento molte imprese Giovani Poleni e all’architetto della Fabbrica di S. architettoniche. Pietro, Luigi Vanvitelli, il compito di conservare scientifico... la In S. Maria Maggiore, su commissione dello l’opera di Michelangelo. Attraverso il rilievo e l’inreinvenzione del stesso pontefice, Ferdinando Fuga in fasi terpretazione delle lesioni, Poleni dimostra che la passato sarà diverse (1741 ss) rafforza l’impianto basilicale, cupola è sostanzialmente stabile. Con un sistema riportando il ritmo delle colonne nelle navate semplice quanto ingegnoso, insieme a Vanvitelli sempre meno laterali e nella scansione della parete supedispone (1743-48) una serie di cerchiature destipossibile riore (fig. 8). A conclusione dell’intervento, e nate a contenere le spinte radiali della cupola. In in ossequio a principi di rispetto filologico per questo caso, a pochi anni dal Giubileo del 1750, il documento, scherma la facciata medievale la conservazione di un monumento esemplare con un nuovo prospetto che non aderisce al grandioso ciclo che non porta ad una nuova soluzione formale, ma passa attraverso celebra il culto della Vergine, ancora leggibile. Malgrado la cura la comprensione e il consolidamento della sua struttura statica del progettista e la presenza di storici e antiquari, il papa critica e materiale. Questa vasta casistica viene recepita nella seconda l’opera di Fuga, di cui non è del tutto soddisfatto, perché ritiene metà del XVIII secolo. Nel 1763, Giovan Battista Piranesi progetta che la chiesa sia troppo abbellita. in S. Giovanni in Laterano, su commissione di Clemente XIII RezAttenzione analoga viene riservata ad un altro rifacimento (1740zonico, una nuova abside nello spirito del rifacimento borrominia45), quello di Santa Croce in Gerusalemme - già titolo cardinalizio no, ma fortemente invasiva nei confronti della preesistenza, che del papa e sempre in vista del giubileo del 1750 - una delle sette non verrà realizzata. Pochi anni dopo, gli fu affidato il rifacimento chiese giubilari e custodia di reliquie importanti e discusse nel della chiesa di S. Maria del Priorato all’Aventino, che risolse con corso dei secoli, come i resti lignei della Croce e dei chiodi. un elaborato rivestimento superficiale pensato per innovare proLa chiesa si presentava ancora con l’assetto del XII secolo, ma fondamente l’organismo esistente. si trattava di una lunga opera di reimpiego di un grande edificio, Ma con l’affermazione dell’atteggiamento scientifico anche nella residuo di una proprietà di età imperiale a sud della città. Un progettazione e con l’influenza sempre più decisa dell’archeolopalinsesto architettonico che richiedeva un’attenzione particolare, gia, la reinvenzione del passato sarà sempre meno possibile nella proprio secondo le indicazioni di Ciampini e Marangoni. Il progetcultura architettonica di fine secolo. Gradatamente, perde senso to - affidato a due allievi di Filippo Juvarra, Gregorini e Passala capacità tutta barocca di plasmarsi sulle preesistenze e la sua lacqua - studia una nuova facciata che, come nel caso di Santa capacità di includere linguaggi e strutture nel risultato finale. Sarà Maria Maggiore, non aderisce alla preesistenza, ancora visibile piuttosto la razionalità tipologica e costruttiva del neoclassico o nelle incisioni seicentesche. Viene riformato l’atrio medievale, i rigori del nascente restauro a determinare l’esclusività nel rapporto con il passato. E in questo passaggio fondamentale della riusando le colonne in un nuovo vestibolo ellittico che si interpone tra il nuovo prospetto e quello antico. La chiesa medievale è cultura occidentale, dal quale nasce la nostra sensibilità contemporanea, abbiano probabilmente perso qualcosa di più vitale e di quindi ancora leggibile dietro il paravento settecentesco, che allo più legato alle legittime attenzioni del presente. stesso tempo costituisce il fondale scenografico per le strade
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RIFLESSIONI SULLA COSTRUZIONE DI UNO
SPAZIO SACRO Dal Giubileo del 2000 al Giubileo della Misericordia del 2016 Marco Petreschi
Costruire uno spazio sacro, sia esso o meno di rito cattolico, è un compito di grande complessità. Le riflessioni che seguono, mi auguro potranno essere in parte di aiuto a chi dovrà impegnarsi ad affrontare un compito così arduo. Tali riflessioni sono derivate da esperienze di progettazione di architettura del sacro che ho accumulato nel corso di oltre quindici anni e che mi hanno condotto, tra l’altro, alla realizzazione a Roma della grande scenografia per la XV Giornata Mondiale della Gioventù a Tor Vergata, in occasione del Giubileo del 20001. Successivamente alla sistemazione degli arredi liturgici della chiesa di S. Margherita Maria Alacoque e di lì a poco alla progettazione del complesso parrocchiale di S. Tommaso Apostolo. Infine, lo scorso anno, alla costruzione della chiesa del Giubileo del 2016 dedicata alla Santa Teresa di Calcutta2. Pertanto, come si usava nell’antichità, mi permetterò di avanzare alcuni brevi ragionamenti teorici derivati dall’esperienza e non viceversa, come accade da alcuni decenni a molti studiosi di architettura che teorizzano metodologie progettuali senza aver avuto mai la minima esperienza sul campo. Cominciamo dal primo complesso problema che è quello, a mio avviso, di ricercare nella fase di concepimento progettuale, una sintesi tra idea formale, strutturale e regola liturgica, che sia in grado di tracciare linee fondative e, direi, addirittura invariabili per un edificio templare che comunichi atmosfere dense di valori religiosi e spirituali. Linee fondative e invariabili che dovranno resistere per conservare la concezione dell’idea simbolico spaziale originaria in quanto attorno ad esse sicuramente si apporranno nel tempo tante sovrastrutture decorative, di arredo o altro. È importante capire che per edifici di tal genere il lavoro dell’architetto non è altro che un lavoro iniziale. Sarebbe ingenuo pensare di realizzare qualcosa di immutabile. La storia ci insegna infatti che edifici sorti per celebrare un culto, nato in relazione a molteplici esigenze culturali, sociali, perfino politiche, è destinato a modificarsi parimenti alle comunità che si sovrapporranno in quegli spazi col trascorrere del tempo. Queste inevitabilmente ne trasformeranno l’assetto e la ritualità con conseguenti alterazioni che arricchiranno e, in alcuni casi, deterioreranno, le superfici e le membrature del manufatto originario. Dunque l’architetto che progetta uno spazio sacro deve partire dalla consapevolezza di essere un iniziatore, e sarà tanto più abile quanto più riuscirà a concepire uno spazio che conservi negli anni a venire gli elementi spaziali e strutturali fondativi della sua idea. Altro enorme problema nel costruire una chiesa è quello di individuare un metodo che consenta di porre in armonia il conflitto sempre in essere tra espressione architettonica formale (architetto) e rispetto assoluto della regola liturgica (liturgista). In sintesi come porre in equilibrio il valore culturale con quello cultuale. Questo problema è veramente il nodo della questione e rimane ancora oggi di difficile soluzione. Eppure l’epoca che attraversiamo ha visto la realizzazione da un paio di decenni di molte chiese in Italia, tante quante mai se ne erano costruite prima. Così 1
Marcello Fagiolo, “La scena della Instant City a Tor Vergata, Roma”, in L’Architettura, cronache e storia, n. 548, 2001, pp. 338-341. Franco Purini, “Palco per il Giubileo dei giovani a Tor Vergata, Roma: tre archetipi e una figura”, in L’industria delle Costruzioni, n. 353, 2001, pp. 52-59.
2
Marco Petreschi, Nilda Valentin, Chiese nella periferia romana 2000-2013, Electa, Roma, 2013.
Veduta dell’Aula liturgica della chiesa di S. Tommaso Apostolo, Roma. Foto di Andrea Jemolo.
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stando le cose è lecito domandarsi perché molti critici e liturgisti critichino giustamente la quasi totalità di questi interventi. Credo che la ragione principale di ciò dipenda dal fatto che gli autori di queste innumerevoli nuove costruzioni, rappresentino inconsapevolmente nelle loro opere quello che loro stessi provano intimamente o nel subconscio, ovvero, una sorta di contrazione dei valori spirituali e religiosi propri del nostro tempo. È forse questa la motivazione per la quale i nuovi manufatti, a differenza di altre epoche, stiano perdendo la capacità di comunicare quelle atmosfere che traducevano l’invisibile in visibile. Fenomeno caratterizzante l’odierna architettura di pari passo all’espressione artistica. Quanto sopra può portare alla conclusione che per studiare uno spazio sacro non sia preponderante il fatto di dar ragione a coloro che si ispirano al moderno o alla memoria del passato o a qualunque altra tendenza o movimento architettonico. Sono dell’avviso che le chiese possano dignitosamente rappresentarsi attraverso ogni stile, che saranno i posteri a giudicare. Il vero problema per la costruzione di uno spazio sacro dovrebbe essere quello di saper gestire la forma simbolico-spaziale con l’obiettivo di rivolgerla alla comunità in termini di sacralità liturgica-cristiana. In altri termini la regola liturgica e l’architettura debbono fondersi in un’unità inscindibile affinché la costruzione
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Gestire la forma simbolico-spaziale con l’obiettivo di rivolgerla alla comunità in termini di sacralità liturgica-cristiana.
1. XV Giornata Mondiale della Gioventù, agosto 2000, Tor Vergata, Roma 2. XV GMG, il giorno dell’evento a Tor Vergata, Roma. (Foto di Romano Siciliani) 3. XV GMG, pellegrini alla base della Grande Croce a Tor Vergata, Roma. (Foto di Romano Siciliani) 4. Veduta del campanile della chiesa di S. Tommaso Apostolo, Roma. (Foto di Andrea Jemolo)
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sia degna di definirsi casa di Dio. In sintesi non è tanto dunque lo stile, nonostante la sua indiscussa importanza, che conta nel giudicare la validità di uno spazio sacro, quanto la possibilità da parte del fedele e dell’officiante di sentirsi a proprio agio e di riconoscere il valore del rapporto tra culto e cultura architettonica. Il rischio infatti è spesso quello di interessarsi solo all’evoluzione architettonica della chiesa e non alla sua funzione religiosa e al messaggio spirituale che essa deve comunicare. Da questi contrasti di idee nascono infatti le incomprensioni. Infatti le chiese che sono sorte negli alcuni decenni, come molti hanno stigmatizzato, sono brutte. Ciò è in gran parte vero se ci riferiamo ai canoni stilistici del passato. C’è però una constatazione da fare rispetto a quanto ho potuto constatare nel periodo in cui operavo tanti sopralluoghi nelle periferie in qualità di consulente dell’ORPF, vale a dire che questi “orrendi” complessi parrocchiali ancora oggi costituiscono una barriera al consumismo speculativo sfrenato della periferia romana, ai cedimenti mass-mediatici e, in un certo qual modo, a quel fenomeno che uso definire nichilismo moderno. Con la loro presenza hanno infatti dimostrato di essere in grado di costruire delle vere e proprie stanze urbane che elargissero quiete e tranquillità ai convulsi aggregati edilizi e spesso a molti luoghi emarginati tra città e campagna. Una ulteriore riflessione ci conduce ad attribuire alla costruzione di uno spazio sacro una componente morale ed estetica che ne individua una particolare collocazione nel panorama architettonico. Analizzando infatti la questione anche da un punto di vista laico va rilevato che una seria architettura deve comunque assolvere a questo compito. A tal proposito, già negli anni ’30, Edoardo Persico rilevava la necessità di un compito etico per l’architettura; infatti ne constatava la carenza dal punto di vista etico-morale. “La mancanza di coerenza morale tra struttura e progetto ha condotto la struttura architettonica italiana ad asservirsi troppo spesso a suggestioni importate dall’estero”.3 Si badi bene che Edoardo Persico, a mio parere, non aveva alcuna intenzione di ricondurre la cultura architettonica italiana all’autarchia, bensì risensibilizzarla verso la necessità di proseguire una più stretta connessione tra ascolto della realtà, costruzione teorica e azione progettuale, questione quest’ultima da tempo oltremodo trascurata nelle scuole di architettura. Ottica attraverso la quale possiamo osservare la nostra attualità e attribuire un ulteriore valore rispetto a quanto detto alle architetture, oggetto delle nostre considerazioni. 3
Edoardo Persico, Profezia dell’architettura, Skira, Milano, 2012.
5. Veduta dell’Aula liturgica della chiesa di S. Tommaso Apostolo, Roma. (Foto di Andrea Jemolo) 6. Veduta d’insieme del complesso dedicato a S. Tommaso Apostolo, Roma. (Foto di Andrea Jemolo)
La mancanza di coerenza morale tra struttura e progetto ha condotto la struttura architettonica italiana ad asservirsi troppo spesso a suggestioni importate dall’estero
Infine non si potrà fare a meno di tenere conto del valore attribuito da due grandi Pontefici del Novecento, Paolo VI e Giovanni Paolo II all’azione di costruzione di uno spazio artistico nell’edificazione di una chiesa. Dai loro enunciati in sintesi si deve riconoscere che gli artisti, ovvero i pittori, gli scultori, gli architetti o chiunque in grado di esprimere significati iconici e simbolici che ornino didascalicamente e didatticamente uno spazio sacro, divengano portatori e strumenti di diffusione del messaggio spirituale del cristianesimo, attribuendo alle loro opere una dignità legata ai contenuti del messaggio e del significato specifico del luogo ove sorgono, e conferendo a questa identità e riconoscibilità. Ove possibile infine, come più volte enunciato nelle sue lezioni da un grande architetto del Novecento, Carlo Scarpa, ogni artista deve perseguire un corollario fondamentale, anzi un vero e proprio imperativo categorico, che è quello della bellezza “…ci pare logico provvedere alla bellezza, che del resto è un fatto insito nella natura dell’uomo, sin dalle origini… Sin dalla preistoria abbiamo exempla di meravigliose forme estetiche. Primi segni irrazionali, spontanei, istintivi, barbarici… Oggi per allora naturalmente. Segno che nasce senza tecnica dalla caverna, magari fatto alla cieca nell’oscurità della caverna… L’istituto della bellezza è dunque un fatto evolutivo lungo il cammino della storia, fino ai giorni nostri...”.4 Ed ancora le parole di Paolo VI “…la bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare...”. La bellezza dunque come veicolo di salvezza descritta mirabilmente da Fëdor Dostoevskij che era convinto, affermandolo più volte, che la bellezza avrebbe potuto salvare il mondo. Come pure l’estatico discorso dell’abate Suger di fronte all’altare della sua compiuta opera dell’abbazia di Saint Denis, descritta mirabilmente da Erwin Panofsky.5 L’architettura e l’arte divengono, secondo questa interpretazione, strumenti di esaltazione dal terreno al divino, veicoli che conducono l’animo umano dalla dimensione materiale a quella immateriale. Ecco dunque gli elementi per la costruzione dello spazio sacro, l’esortazione degli anni ’30 di Edoardo Persico, “ascolto della realtà”, “costruzione teorica”, “l’alleanza” tra Chiesa e artisti di Paolo VI, il “dialogo” di Giovanni Paolo II. E tutto questo ricordando Panofsky, Dostoevskij, Carlo Scarpa, l’aspirazione alla bellezza. 4
Franca Semi, A lezione con Carlo Scarpa, Cicero editore, Venezia, 2010.
5
Erwin Panofsky, Suger, Abate di Saint Denis, Novecento ed., Milano, 1995.
7. Veduta parziale della Chiesa di Santa Teresa di Calcutta da piazza A. Muggia, Roma. (Foto di Petreschi Architects) 8. Veduta aerea del complesso parrocchiale dedicato a Santa Teresa di Calcutta, Roma. 9. Veduta interna dell’Aula liturgica della Chiesa di Santa Teresa di Calcutta, Roma.
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RIDISEGNARE LO SPAZIO DELLA
PENITENZA Paolo Bedogni
Sintesi storica Il compito dell’architetto è costruire per altri perché sperimentino la bellezza dell’abitare i luoghi modellati in rapporto alla natura e alla loro storia. La costruzione dei luoghi nella bellezza collabora a farci “rimanere” con piacere in quei luoghi, nel misterioso intreccio tra l’azione misericordiosa di Dio e la nostra risposta. Questo connubio tra spazio e rito accompagnava nella storia dei primi secoli l’assemblea santa nel legame strettissimo tra Battesimo dei catecumeni e riammissione dei penitenti. che, scomunicati, avevano terminato il loro itinerario penitenziale. La riammissione, ad opera del Vescovo come ministro della penitenza, permetteva ai penitenti di colpe gravi (apostasia, omicidio, adulterio) di poter celebrare la Pasqua con la comunità unita e dalla comunità accompagnati. Non era un momento esclusivamente famigliare (battesimo) o personale (riammissione), ma veniva celebrato dopo un lungo percorso di conversione e secondo una pluralità di pratiche penitenziali (preghiere, carità e digiuno). Negli edifici antichi tale dinamismo liturgico corrisponde ad una specifica definizione degli spazi, come nel Nartece e Endonartece in S. Sofia, concepiti per il ruolo di ammissione e di riconciliazione. Così anche per le soluzioni decorative risolte dai pavimenti con sofisticati labirinti penitenziali, come nella Cattedrale di Chatres (Fig. 1). Il sacramento, fin quando non è stato ridotto nell’angusto spazio del confessionale e sicuramente fino al XII secolo, veniva celebrato con una azione liturgica che apparteneva al corpo stesso della chiesa (cfr. Benedizionale 1407). Dalle liturgie dei primi secoli del 4° sacramento si passò alla cosiddetta penitenza “tariffata”, con un percorso penitenziale sem-
pre più incerto, più privato, segreto e non più da richiedere “una volta in vita”, ma reiterabile. Dopo il XII secolo l’elemento centrale diventa l’accusa – confessione di peccati, dove ciò che conta è la vergogna che prova il penitente dei suoi peccati. La cosiddetta penitenza “tariffata”, “introdotta dai monaci irlandesi, prevedeva che il sacerdote si prostrasse davanti all’altare con il penitente per recitare i salmi penitenziali e preparare lo stato di conversione”. Il luogo viene confermato: è la chiesa. La sede è uno scranno per il ministro. Il gesto del perdono rimane l’imposizione delle mani o di una sola mano sul capo del penitente; una preghiera accompagnava questo gesto (Fig. 2). Nel XIV secolo esistono già i primi confessionali con struttura propria: si tratta di un seggio con inginocchiatoio posto sui lati; i primi esempi incassati nello spessore del muro delle pareti sono successivi e si trovano già nel duomo di Pisa. I confessionali vengono illustrati nelle loro fattezze essenziali e sembra che la motivazione non sia né liturgica né di gran spiritualità ecclesiale. Si prevede che siano in luoghi aperti e evidenti e che si costruiscano in tutte le chiese. Con Carlo Borromeo, vescovo di Milano si arriva a definire i minimi particolari di quella “costruzione lignea, convenientemente e decorosamente rivolta all’ascolto delle confessioni dei penitenti, che chiamiamo confessionali” (Fig. 3).1 Il problema di ridisegnare i luoghi della penitenza ha trovato quindi nella storia una soluzione facile che possiamo definire di tipo statico. Le microarchitetture pensate, conchiuse tra quattro assi di legno,
La costruzione dei luoghi nella bellezza collabora a farci “rimanere” con piacere in quei luoghi, nel misterioso intreccio tra l’azione misericordiosa di Dio e la nostra risposta
Rembrandt, Il ritorno del figliol prodigo, 1669.
1
C. Borromeo, Instructionum Fabrica et Suppellectilis Ecclesiasticae libri duo (tr. it. di L. Brioschi, Istruzioni intorno alle fabbriche ecclesiastiche, Milano, L. Grosselli, 1823, Istructionum Fabrica et Suppellectilis Ecclesiasticae libri duo, Milano, in Acta Ecclesiae Mediolanensis, 1983, pp. 561-638.
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più o meno decorate, rappresentano una “liturgia ridotta al minimo” dove poter accusareconfessare i propri peccati. Costruire queste “piccole chiese” per confessare i propri peccati ha significato riservare luoghi angusti, con posti di dimensioni inaccettabili (mq. 0,30 cadauno) in cui prevale il clima lugubre tipico del chiuso, poco finestrato, poco arieggiato e scomodo. Prevale inoltre una naturale selezione delle persone, ministri o penitenti, in grado di potervi accedere in base alle proprie condizioni fisiche (barriere architettoniche).
Approccio per nuove progettazioni Occorre allora ridisegnare “luoghi felici”, in una rinnovata fase di dialogo tra la Chiesa, popolo di Dio e il mondo, che implica l’arte del celebrare e del costruire con mestiere. Lo spazio del confessionale dovrà dilatarsi per percepire orizzonti nuovi da percorrere insieme con la Chiesa che, attraverso i suoi ministri, piange e gioisce in cammino verso la luce. Lo spazio del confessionale sarà orientato quindi dalla croce di Cristo unico maestro che insegna a risollevarci. Lo spazio del confessionale sarà luogo pulsante. Ridisegnare i luoghi della penitenza significa allora ritrovare l’ordine delle cose e delle reciproche connessioni. È impossibile infatti celebrare, e celebrare con arte, senza lo spazio trasformato in luogo simbolico. Vengono alla mente tante situazioni presenti in diverse chiese, dove i vari luoghi celebrativi non sono in grado di trasmettere una corrispondente comunicazione simbolica.
Fenomenologia: tre casi emblematici La cappella di Vence di Matisse rappresenta un mirabile riferimento per una concezione unitaria dello spazio architettonico e decorativo. L’artista ha voluto le superfici della piccola cappella tinteggiate di bianco per ottenere uno spazio immerso nella luce, rassicurante e stimolante come lui stesso affermava: “voglio che coloro che entrano nella mia cappella si sentano purificati e sgravati dal loro fardello” (Fig 4).2 2
Cit. Marc Chauveau, Spiritualità nell’arte: Matisse e la Cappella di Vence in Assisi lo spazio della chiesa: architettura e liturgia, in“Parametro”, n° 219, 1997, pg. 57.
1. Cattedrale di Chatres. Soluzioni decorative risolte dai pavimenti con sofisticati labirinti penitenziali. 2. Anonimo, Imposizione della mano da parte del ministro, Notre Dame d’Aarschot, Belgio, XVI. 3. San Fedele, Milano, confessionale. 4. Henri Matisse, Cappella del Rosario, Vence, 1947-1950. 5. Sant’Antonio, Padova. Ricerca dei materiali, delle finiture interne ed esterne alle sedi.
Non voleva il confessionale nero ed angusto della tradizione cattolica, ma un luogo di accoglienza, di vita e di grazia in cui si respirasse, si vedesse chiaramente e dai cui si uscisse vivificati. Luogo di gravità perché luogo di pentimento, di perdono, e quindi di amore e resurrezione; voleva un confessionale chiaro, nitido, luminoso con un’atmosfera di libertà
La porta del confessionale è d’ispirazione moresca in legno traforato. Attraverso la porta si vede l’interno del confessionale tutto bianco e illuminato da una finestra. Voleva “[…] che questo luogo fosse completamente diverso da un luogo delle tenebre. Non voleva il confessionale nero ed angusto della tradizione cattolica, ma un luogo di accoglienza, di vita e di grazia in cui si respirasse, si vedesse chiaramente e da cui si uscisse vivificati. Luogo di gravità perché luogo di pentimento, di perdono, e quindi di amore e resurrezione; voleva un confessionale chiaro, nitido, luminoso con un’atmosfera di libertà”.3 La porta del confessionale non a caso si trova in adiacenza al murale cosiddetto del cammino della croce, dove Matisse crea una processione di scene susseguenti. Le 14 stazioni, coinvolgono i presenti in prima persona verso la salita del calvario. Le linee sono orientate al punto centrale: il Cristo sulla croce attorno al quale tutto si organizza. Ogni cosa pensata per dare carattere alla cappella, un luogo che, per la sua bellezza, cambiasse il cuore di chiunque vi entrava: un luogo in cui le anime fossero purificate dalla purezza delle forme.
Il santuario di S. Antonio da Padova Oggi sembra che il problema dei luoghi della penitenza sia ad esclusivo appannaggio dei luoghi santuariali in quanto mete di enormi quantità di pellegrini. In Italia in alcuni di questi centri molto ricettivi sono state realizzate delle vere e proprie cappelle così dette penitenziali e/o della riconciliazione. Tra le ultime realizzazioni in S. Antonio da Padova è stata tentata una adeguata ricerca dei materiali, delle finiture interne ed esterne alle sedi, il tutto arricchito e orientato da un grande dipinto figurativo (Fig. 5). 3
Cit. Marc Chauveau, Spiritualità nell’arte: Matisse e la Cappella di Vence, in Assisi lo spazio della chiesa: architettura e liturgia, in“Parametro”, n° 219, 1997, pg. 60.
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Il Santuario del Miracolo Eucaristico di Lanciano
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La nuova cappella della Riconciliazione di Lanciano, rappresenta uno spazio ritrovato, grazie a una coraggiosa rimozione di tutte le superfetazioni, che vuole innanzitutto ritornare ad essere “luogo”. Il luogo riprogettato si concretizza in alcuni elementi che diventano “segno” riconoscibile in cui fare memoria di esperienze celebrative. Una lunga trave di legno, di sezione rilevante, attraversa longitudinalmente il nuovo spazio penetrando nei quattro confessionali e divenendo il segno ricorrente tra il “dentro” e il “fuori” e tra il “prima” e il “dopo” la riconciliazione (Fig. 7). Trave che direziona, che sorregge un “cammino” simboleggiato da un ballatoio superiore che si intravede e che ci orienta alla grande croce, collocata in fondo al camminamento, in alto, anche essa appesa e leggermente inclinata proprio con dei tiranti in ferro, struttura analoga a quella presente nell’affresco del Presepio di Greccio del programma giottesco. La grande croce è sovrapposta alla scala. Questa scala nasce dal “luogo della Parola”, che origina e dà senso a tutto il percorso. La direzionalità dello spazio riprogettato si rafforza con alcuni banchi, orientati dalla presenza del Santissimo “custodito” in profondità nella piccola cappella adiacente il campanile (Fig. 8); cappella accessibile e riservata per piccoli gruppi in adorazione; vi è collocato il seicentesco scrigno in ferro battuto già utilizzato per la custodia del Miracolo Eucaristico. Il “carattere del luogo” è meglio identificabile con le opportunità percettive che esso offre; a lato del “luogo elevato” creato per la proclamazione della parola è stato progettato un piccolo spazio dove potersi appartare in silenzio proprio ai piedi della grande croce (Fig. 9); i quattro confessionali sono a coppie creando una compenetrazione di volumi che intendono suggerire ulteriori percorsi; le porte di ingresso dei confessionali sono anch’esse caratterizzate nel desiderio di indicare il valore di ciò che è interiore; sono lavorate con arte artigianale in legno sgorbiato e finito con fondi oltremarini e croci con giallo dorato. Il muro antico del fianco della chiesa è stato riscoperto nella sua facies storicizzata e il soffitto voltato rimanda ad antiche finiture di colore oltremarino tipico delle strutture gotiche con cielo stellato. Il tutto è pensato in un’ottica gioiosa di riconciliazione in cui, dopo avere partecipato alla Passione, cogliamo la grazia della Resurrezione. Ciò che conta non è l’esteriorità di tutti questi segni, ma l’interiorità che in essi riusciremo a cogliere nella composizione complessiva della Cappella della Riconciliazione.
7. Miracolo eucaristico di Lanciano, Chieti, 1997-2000. Piccolo spazio dove potersi appartare. 8. Miracolo eucaristico di Lanciano, Chieti, 1997-2000. Ciò che conta non è l’esteriorità dei segni, ma l’interiorità. 9. Miracolo eucaristico di Lanciano, Chieti, 1997-2000. Il tema della croce caratterizza il luogo della riconciliazione.
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