Thema 8|18

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www.thema.es ISSN 2384-8413

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costruire la comunitĂ : l'architettura dei centri parrocchiali Alessandro Bellini - Giorgio Corbetta - Isabella Daidone - Andrea De Sanctis Corrado Gavinelli - Fabio Guarrera - Lorenzo Grieco - Laura Lazzaroni Claudia Manenti - Alice Mattia - Alessandro Tognon

THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI





Un viaggio lungo mezzo secolo Cinquanta pagine per cinquant’anni. Da mercoledì 7 febbraio Avvenire propone ai suoi lettori di partire insieme per un viaggio settimanale lungo il mezzo 5 secolo della sua storia, che si compie quest’anno. Un percorso attraverso i grandi fatti che hanno 1968 segnato il profilo del Paese, del mondo e della Chiesa ripercorsi secondo lo stile informativo di Avvenire. Con «50 anni da rileggere» ritroveremo, ogni settimana e sino a fine anno, eventi, punti di svolta, grandi tendenze, personaggi, parole selezionati e proposti con lo stesso criterio che li ha portati nelle pagine del quotidiano: un temaMercoledì 7 Febbraio 2018

ANNI

ODA RILEGGERE

Inizia oggi il viaggio lungo 50 anni di storia: quella di «Avvenire», che taglierà il traguardo il 4 dicembre, e quella del mondo che su queste pagine è stato raccontato da un punto di vista inconfondibile. È l’impegno che consegnò il beato Paolo VI quando pensò un quotidiano nazionale per i cattolici italiani, punto di incontro vivo tra le loro voci e luogo di dialogo con tutte le anime della società italiana. «Il nostro diario» ripercorrerà ogni mercoledì questa avventura informativa spalancata sul futuro.

“Avvenire”, il sogno di Paolo VI così i cattolici parlano al futuro

Scritto ieri

UMBERTO FOLENA

E

d eccolo finalmente in edicola, Avvenire, quotidiano nazionale in un’Italia che di quotidiani diffusi davvero in tutto il suo territorio, allora, non ne aveva. Un quotidiano di e per tutti i cattolici italiani; ma quanti lo avevano voluto sul serio? Esordio non facile, quel 4 dicembre 1968. Avvenire raccoglie l’eredità del bolognese L’Avvenire d’Italia e del milanese L’Italia. La sede è a Milano, con una redazione a Roma. Il direttore, Leonardo Valente, scrive: «Sceglieremo di essere uno strumento comune di ricerca, di proposta e di partecipazione che tenga conto, con umiltà della pluralità reale del mondo cattolico». Un mondo plurale, spinto e strattonato di qua e di là, tanto da far scrivere al Temoignage Chretien: «Questo nuovo dinosauro avrà, apparentemente, assai poca possibilità di muoversi». Leonardo Valente, dunque. Ex Popolo, Giorno e Rai di Milano, 39 anni; come vice Gian Luigi Degli Esposti, 42 anni, dal Mulino di Bologna; vice a Roma Angelo Narducci, già al Popolo e alla Gazzetta del popolo. C’è anche un Comitato editoriale con Giuseppe Lazzati dell’Università Cattolica, Vittorino Veronese del Banco di Roma e Luigi Pedrazzi del Mulino (in via riservata, anche il gesuita padre Tucci e Guglielmo Zucconi, già candidato per la direzione). Il primo numero apre con gli scontri tra braccianti e polizia ad Avola, nel Siracusano; l’attenzione al mondo del lavoro, alle dure condizioni di molte fabbriche, alle proteste operaie e infine allo Statuto dei lavoratori sarà una costante del primo anno di vita. Quel 4 dicembre si legge della conferenza di pace di Parigi (guerra nel Vietnam); Angelo Pittau scrive da Saigon e Vittorio Magli dal Biafra. Mario Gozzini apre le danze sul post-Concilio: «Troppo pochi i consigli presbiterali. Remore psicologiche ad accettare il dialogo». Il motu proprio Ecclesiae Sanctae rendeva obbligatori i

Il 4 dicembre debutta il nostro quotidiano, voluto da Papa Montini. Il segno della pluralità. Il primo numero sui fatti di Avola

consigli presbiterali e raccomandava vivamente i consigli pastorali: «Bisogna francamente riconoscere che le sperimentazioni non sono andate molto avanti». Gozzini doveva aver ragione, ma non era un bel metodo per farsi benvolere dalle gerarchie. Sul numero 1 c’è una sola firma presente anche oggi, mezzo secolo dopo: quella di Cesare Cavalleri, che nella rubrica "Fuori video" scrive di televisione stroncando lo Sherlock Holmes («un tantino ridicolo») di Anton e Morandi, severo nei confronti di Nando Gazzolo, che «non è riuscito a essere né saccente, né distaccato, né freddo, né sicuro di sé». In coda si presenta MilanCeltic di Coppa Campioni. La Nei saluta riconoscendo a se stessa «una responsabilità grande e delicata nei confronti della nostra comunità ecclesiale e civile». Eufemismo. La sensazione è che Avvenire, in quel dicembre 1968, lo volessero solo Paolo VI e pochissimi altri. A Milano, il cardinale Colombo aveva fatto di tutto per non far confluire la sua Italia, dai

1968

Un giornale aperto a molte voci LEONARDO VALENTE

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L’abbraccio di Paolo VI (Pepi Merisio)

2018

conti in ordine, con L’Avvenire d’Italia con un piede e mezzo nel baratro. Il commiato, sull’ultimo numero dell’Italia il primo dicembre, per la penna del direttore, monsignor Carlo Chiavazza, parla assai più di sofferenza che di speranza e gioia. Ma anche a Bologna, nonostante i conti in profondo rosso, sono stati a lungo riluttanti a chiudere con una lunga e gloriosa tradizione, almeno finché Poma non subentra a Lercaro. E la Cei? Il presidente Urbani, patriarca di Venezia, a un certo punto sembra spaventatissimo dall’impegno economico e chiude la porta; Paolo VI deve inviare il segretario della Cei, monsignor Pangrazio, a Venezia; al che Urbani china il capo e obbedisce, riluttante. Avvenire non nasconde gli infausti auspici sotto cui nasce. Ma fa raccontare il retroscena a Le Monde il 4 dicembre: «Valente e Degli Esposti sono già

riusciti, in ogni caso, in un punto: fare convergere sull’impresa un’impressionante varietà di ostilità. I loro avversari si trovano in tutti gli ambienti cattolici: le "vecchie glorie" (...); alcuni vescovi, che si lusingano di avere fogli locali o regionali (...); i notabili provinciali (...); i tradizionalisti, che giudicano che alcuni redattori dell’Avvenire odorino d’eresia; tutti coloro che paventano l’assenza di controllo dell’episcopato contro la contaminazione dello spirito del mondo; i militanti del dissenso e dei gruppi spontanei che irridono al patrocinio diretto della Santa Sede». Belle premesse davvero quella mattina per Avvenire, 130mila copie di tiratura, nato tra il «profondo dolore» di Lercaro e la «ferma contrarietà» di Colombo. Questa era la coscienza nazionale di una Chiesa italiana a cui Paolo VI impose, di fatto, un quotidiano unico, una voce unica. Leonardo Valente tiene duro per meno di anno e il 18 ottobre 1969 torna in Rai, da cui prudentemente si era messo in aspettativa. Gli subentra Angelo Narducci. Tenendo duro per dieci anni. Quanto a noi, Le Monde permettendo, siamo ancora qui, più vispi che mai. © RIPRODUZIONE RISERVATA

ANTIONIO GIORGI

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l 2 dicembre 1968 è un lunedì. A due passi dalla stazione centrale di Milano, al numero 8 di piazza Duca d’Aosta, in quella che era stata la sede del quotidiano L’Italia, testata di proprietà dell’arcidiocesi ambrosiana, arrivano alla spicciolata giornalisti usi a frequentare quei corridoi e altri che giungono da Bologna e sembrano spaesati. È come essere al primo giorno di scuola. Infatti un primo giorno lo è, comincia un’avventura che non si sa quali esiti potrà avere, che i presenti si augurano possa articolarsi felicemente nel futuro. Già, il futuro. Futuro e avvenire non sono forse sinonimi, non identificano un’unica entità immateriale? Nel segno di una grande apertura di credito al futuro va in scena quel lunedì 2 dicembre 1968 la prima riunione di redazione di un nuovo quotidiano che si chiamerà proprio Avvenire. Presiede l’incontro che getterà le basi del lavoro comune il direttore Leonardo Valente. Sono presenti giornalisti dell’Italia e del bolognese Avvenire d’Italia, le testate che si fondono in un quotidiano cattolico unico di caratura nazionale. Ragionando con senno di poi è facile arrivare alla conclusione che un giornale che vuole rappresentare una novità

chiave al centro della pagina, l’editoriale più significativo che ne ha accompagnato la lettura, e una rassegna argomentata di ciò che ha caratterizzato ciascun anno. Ogni mercoledì «50 anni da rileggere» permetterà di ritrovare firme che hanno fatto la storia di Avvenire insieme a una sintesi della nostra storia recente secondo l’inconfondibile sguardo di un quotidiano che dal 4 dicembre 1968 è una piazza aperta ogni giorno dai cattolici italiani all’informazione, al confronto aperto e al dialogo su ciò che la cronaca e la storia continuano a proporci. Sempre guardando a domani. Perché con Avvenire il futuro è ogni giorno.

DIRITTI Cronaca di un anno effervescente in cui giovani e lavoratori marciano uniti in tutta Italia. A sinistra, un corteo studentesco a Milano (Ansa)

Giovani contro, il senso della protesta

nel contesto italiano non poteva nascere che in anno di tumultuosa e tormentata effervescenza come il ’68. Anno di speranze e di violenze. Di aperture e di chiusure. Di passi avanti e di drammatici arretramenti, e si pensi solo a quel preoccupante ritorno al passato dopo tante illusioni rappresentato dall’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia per spegnere la primavera di Praga. L’invasione arriva il 21 agosto; l’Europa, distratta, si sta godendo gli ultimi scampoli di ferie. L’Europa, si diceva. Aveva le sue gatte da pelare, l’Europa. Le proteste giovanili di una stagione passata alla storia come – appunto – “il ’68” aveva-

no infiammato molte città, Parigi in primis, con scontri e barricate all’università di Nanterre e non solo. Era il “maggio francese”. Si afferma spesso che in Italia il ’68 è arrivato un pochino in ritardo, ma chi lo dice dimentica i pesantissimi scontri tra studenti e polizia avvenuti a Roma, a Valle Giulia, il primo marzo, con largo anticipo sui francesi. Sì, fu un anno di violenza cieca, quello. Violenza politica e non solo, ovunque nel mon-

do. Il 4 aprile a Memphis, nel profondo sud degli Stati Uniti, viene assassinato Martin Luther King, leader antisegregazionista. Due mesi dopo, il 5 giugno, l’America dal grilletto facile uccide Robert Kennedy, che poteva contendere per i democratici la presidenza a Richard Nixon, eletto alla Casa Bianca nel novembre successivo. Fu un anno – anche – di violenza della natura. Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio la ter-

Nelle piazze del Paese vanno in scena le speranze di una generazione. Ma anche le violenze, come a Valle Giulia In Sicilia, il terremoto del Belice

ra ha tremato con violenza nella Sicilia occidentale, colpita soprattutto la valle del Belice. Distruzioni o danni enormi in una dozzina di comuni, almeno 230 le vittime, migliaia i feriti, improvvisati i soccorsi, problematica la ricostruzione seguita da decenni di polemiche. E dire che il 1968 si era aperto con grandi speranze per il mondo e per l’umanità. Il primo gennaio era stata celebrata per volontà di Papa Paolo VI la prima Giornata mondiale della pace. L’iniziativa del Santo Padre aveva riscosso consensi generalizzati, di gran lunga superiori a quelli che incontrerà invece la sua enciclica Humanae vitae firmata il

25 luglio, contestata anche da settori del mondo cattolico. Muore intanto una figura cara al cuore degli italiani e non solo: Francesco Forgione, il cappuccino Padre Pio da Pietrelcina (23 settembre). Gli eventi che hanno segnato un anno difficile scorrono in flash back nella mente dei giornalisti della prima riunione di redazione del giornale che sta per nascere. Valente indica gli obiettivi, dà la linea, formula i suggerimenti operativi, dispone l’organigramma, dopo che domenica primo dicembre erano comparsi per l’ultima volta l’Italia e l’Avvenire d’Italia. Il 2 e il 3 dicembre si stampano due numeri zero di Avvenire, le prove generali, la messa a punto della macchina. Tutto a posto, tutto ok. Mercoledì 4 dicembre Avvenire è finalmente in edicola, l’avventura è partita. «Giornale aperto», è il titolo dell’editoriale del direttore. La testata della prima pagina è per i fatti di Avola, gli scontri tra polizia e braccianti, due morti. L’articolo firmato da Egidio Saracino è in realtà opera di Giorgio Bonelli, storico addetto stampa delle Acli nazionali. Bonelli non vuole comparire in prima persona, quindi assume come nom de plume quello di uno dei ragazzi di bottega del suo ufficio. Egidio Saracino alcuni anni dopo entrerà nella redazione del giornale. © RIPRODUZIONE RISERVATA

a oggi, giorno per giorno, seguendo le vicende alterne della cronaca, cercheremo di portare avanti un discorso che i cattolici italiani hanno iniziato ormai da più di cento anni. Un discorso uguale nelle finalità ma diverso nei metodi. Uguale per l’impegno a dare un senso e a riscoprire un valore nelle cose che accadono e per operare responsabilmente e coraggiosamente su di esse; diverso nel metodo perché crediamo che la verità sulla quale si fonda la ragione stessa della nostra presenza debba esprimersi nel linguaggio proprio del tempo e della società in cui viviamo. Una società che vuole, innanzi tutto, responsabilizzarsi, dopo che per più di un secolo, da parti tanto diverse, si è cercato di strumentalizzarla. Ed è per questo che cercheremo di metterci nella prospettiva nuova di un quotidiano che sia dei cattolici più che per i cattolici. Sceglieremo cioè di essere uno strumento comune di ricerca, di proposta e di partecipazione; uno strumento che tenga conto, con umiltà, della pluralità reale del mondo cattolico e che, nell’ambito di una libertà responsabile, si muova in avanti alla riscoperta dei temi fondamentali, dei lieviti più autentici, delle istanze più sofferte che compongono il panorama multiforme e, proprio per questo, vitale dell’unità di fondo del mondo cattolico italiano. In questa direzione l’«Avvenire» vuole essere un giornale aperto a molte voci, un quotidiano cioè che senza indulgere a posizioni cattedrattiche e di vertice verifichi i principi nella realtà in cui si muove e confronti quotidianamente le occasioni della storia con il grande patrimonio di verità della Chiesa. Ci sembra che sia così possibile salvare i valori della pluralità – che sembravano fino ad oggi legati alle dimensioni locali – anche in una prospettiva nazionale più adeguata alle esigenze ed alle realtà della presenza cattolica. (...) Noi crediamo che la presenza dei cattolici sia un impegno quanto mai attuale in un momento della storia del Paese in cui la crisi delle ideologie, la frattura tra società politica e società civile, la pressione livellatrice della società dei consumi e per contro l’esplodere della contestazione propongono l’urgenza di un discorso che sostanzialmente superi i contrasti di comodo alla ricerca di nuovi piani di incontro, di nuovi canali di comunicazione, soprattutto di nuovi valori e di più autentiche occasioni di rinnovamento. (...) In questo spirito la direzione e la redazione dell’ «Avvenire» iniziano il loro lavoro convinti di essere soltanto uno strumento a disposizione di una grande forza che agisce nella storia; nella speranza che il nome scelto come testata – lo stesso del primo quotidiano cattolico italiano – sia per i loro lettori e per loro un auspicio di presenza nei tempi che stanno per venire. Avvenire, 4 dicembre 1968

Ogni mercoledì con Avvenire “50 ANNI DA RILEGGERE”


DOVE

Bologna Fiere Ingresso Sud Moro Padiglione 33

QUANDO 17/19 febbraio 2019

ORARI

17, 18, 19 febbraio : 9.30-18.00

INGRESSO

gratuito su registrazione


THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

pg. THEMA 8/18 2018 periodico semestrale

1.

Editoriale

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011 ISSN 2384-8413

5.

IL CARATTERE E L’IDENTITÀ DEL COMPLESSO PARROCCHIALE

Editore

Centro Studi Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Direttore Responsabile

Francesca Rapini Redazione

via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Emanuele Cavallini, Paola Renzetti Comitato Scientifico

Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Claudio Varagnoli Progetto grafico e impaginazione

Mauro Forte Hanno collaborato:

Alessandro Bellini, Giorgio Corbetta, Isabella Daidone, Andrea De Sanctis, Corrado Gavinelli, Lorenzo Grieco, Fabio Guarrera, Laura Lazzaroni, Claudia Manenti, Alice Mattias, Alessandro Tognon

Andrea Longhi

Fabio Guarrera

13. I CENTRI PARROCCHIALI NELLA DIOCESI DI MILANO DAL 2000 AD OGGI. SPUNTI DI RIFLESSIONE

Giorgio Corbetta - Laura Lazzaroni

19. LE CHIESE DI BOLOGNA DEL CARDINALE LERCARO A CONFRONTO CON LA CONTEMPORANEITÀ

Claudia Manenti

25. UN’OCCASIONE MANCATA. IL COMPLESSO PARROCCHIALE DI SANTA MARGHERITA MARIA ALACOQUE A ROMA

Lorenzo Grieco

Credits & Copyrights

www.themaprogetto.it themaes.editore@gmail.com In copertina

Complesso parrocchiale della Pentecoste, Milano Foto di Carlo Colombo

31. IL MARGINE, NUOVA CENTRALITÀ “… AN INNER OPEN SPACE FOR THE INHABITANTS…” L. KAHN

Alessandro Bellini

37. IL PAESAGGIO URBANO E LE PARROCCHIE STORICHE ESPERIENZE DI ANALISI E DI PROGETTO

Andrea De Sanctis

41. LA NOSTALGHIA DI TARKOVSKIJ NELLA CHIESA DI SANT’ANTONIO A MENFI

Isabella Daidone

47. UNA BASILICA CHE IDENTIFICA UN QUARTIERE. LA REALTÀ DI DON BOSCO A ROMA

Alice Mattias

53. L’ORATORIO PARROCCHIALE COME LUOGO DI VARIA ACCOGLIENZA E ATTIVITÀ SOCIALE THEMA è patrocinata dal

57. CHIESA, COMUNITÀ, CITTÀ. L’ESPERIENZA DI RUDOLF SCHWARZ*

PONTIFICIUM CONSILIUM DE CULTURA

Corrado Gavinelli

Alessandro Tognon

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Legge 22 aprile 1941, n. 633 Art. 70 1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. [...] 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta.


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Editoriale Parrocchia, territorio, comunità: linee di ricerca Andrea Longhi

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ell’architettura ecclesiale, il totale non è pari alla somma degli addendi, e non vale nemmeno la proprietà commutativa tra gli addendi stessi. Un complesso parrocchiale deve infatti valere ben più della semplice giustapposizione delle sue singole componenti (chiesa, aule, uffici, salone, campi gioco, bar, abitazioni ecc.), e la successione spaziale e temporale con cui si costruiscono e si assemblano le componenti costituisce un fattore decisivo per la vita della comunità. Il processo di costruzione architettonica è infatti tutt’uno con il processo di costruzione comunitaria: la complessità delle competenze richieste (non solo tecniche, ma anche pastorali, sociali, culturali ecc.) ha consigliato la redazione di Thema di dedicare un fascicolo al tema dei complessi parrocchiali, con un taglio interdisciplinare ed esperienziale, che aiuti ad “uscire” dall’aula liturgica per affrontare in termini più ampi l’agire architettonico della Chiesa. Nella pratica professionale, diversi strumenti (dai singoli documenti preliminari alla progettazione, alle norme diocesane e nazionali) elencano i quadri esigenziali, i requisiti dimensionali, economici e funzionali, le superfici e i costi necessari per progettare e costruire un buon complesso parrocchiale, ma è evidente come la qualità del progetto non derivi dal semplice rispetto di tabelle o prestazioni attese. Un complesso parrocchiale non è una sommatoria di spazi funzionali e a basso costo, ma è al tempo stesso un pezzo di città e una casa per una comunità: le dinamiche urbane e sociali non sono fattori condizionanti “esterni”, ma costituiscono il cuore stesso del problema progettuale di un complesso parrocchiale. L’ottavo fascicolo di Thema cerca di verificare, in modo induttivo, quali attenzioni e sensibilità possano contribuire alla buona riuscita di un complesso parrocchiale. La raccolta degli articoli qui presentati è il primo esito di un appello a presentare contributi, lanciato tramite il sito di Thema a studiosi di tutte le discipline implicate nella progettazione e nella gestione di centri parrocchiali. Molte proposte sono giunte alla redazione, e il comitato scientifico ha accompagnato il processo di selezione e revisione dei contributi più pertinenti e argomentati, che ora vengono proposti all’attenzione e – speriamo – alle reazioni dei lettori di Thema. Tra le righe dei diversi contributi, emerge chiaramente il nesso inscindibile tra parrocchia e città, sancito dal termine stesso di parrocchia, il cui etimo rimanda alla prossimità con le abitazioni (dal gr. paroikía, ‘vicinato’, ‘presso le case’, derivato di paroikêin, ‘abitare presso’, da pará, presso, e oikos, dimora). Il cristianesimo, prendendo casa nelle diverse società in cui è stato annunciato, ha potuto sperimentare una pluralità di forme di radicamento, di plantatio, tra le quali la territorializzazione delle comunità è risultata la forma più pervasiva e convincente, almeno tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Era digitale. La struttura di base della presenza cristiana nel Mondo è infatti tuttora espressa dal legame con i territori, ossia dall’appartenenza giurisdizionale di ogni battezzato a specifiche porzioni di spazio geografico, definite in modo istituzionale: le diocesi innanzitutto e, in seconda istanza, le parrocchie. La parrocchia tuttavia non è solo un’istituzione, una porzione di territorio o un gruppo di edifici, bensì è soprattutto una comunità: ricorda il Codice di diritto canonico (1983) che «La parrocchia è una determinata comunità di fedeli e di persone, che viene costituita stabilmente nell’àmbito di una Chiesa particolare, la cui cura pastorale è affidata, sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore […]» (can. 515§1). Esistono altre forme di presenza cristiana nella società, legate a specifiche spiritualità e carismi (associazioni e movimenti), regole di vita (congregazioni e ordini religiosi), attività lavorative e sindacali (pastorali di ambiente), ma la parrocchia resta l’impianto fondamentale su cui è territorializzata e temporalizzata la vita di ogni cristiano, cui sono istituzionalmente e giuridicamente associati i riti di passaggio, quali l’avvio dell’iniziazione cristiana (il battesimo), le scelte di vita familiare (il matrimonio) e il congedo finale dalla vita terrena. Per secoli le parrocchie hanno detenuto le chiavi dell’ingresso e dell’uscita dalla vita sociale, oltre che della vita religiosa. Pietro Borzomati, ragionando sui “luoghi della memoria” del nostro Paese (1997), osserva che «il ruolo della parrocchia in Italia è stato importante non solo come istituzione quotidianamente protesa alla formazione delle coscienze, ma anche per aver reso salda la comunità attraverso una vigorosa opera di aggregazione che ha avuto riflessi profondi nella vita sociale e religiosa. […] Evoluzioni e limiti della parrocchia vivono nella memoria di tutti, credenti e non credenti». La diffusione dei mezzi di trasporto personali, dei nuovi media e – ora – di nuove spiritualità legate a una dimensione totalmente virtuale mettono in crisi tutti i sistemi di territorializzazione su cui le società occidentali si sono strutturate in età moderna, tra cui il sistema parrocchiale. La prossimità alle dimore, l’essere “casa tra le case”, non pare più essere l’unico modo di fare “comunità” e di vivere il cristianesimo: la vicinanza fisica e geografica dei fedeli si dematerializza in favore di comunità sempre più elettive (ci si può scegliere i

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propri “vicini”, sulla base di affinità spirituali, sentimentali, politiche, estetiche ecc.), sempre più virtuali (lo spazio è quello digitale, non quello materiale). I riti di passaggio vengono poi privatizzati, ridotti a una sfera individualista, restia verso l’assunzione di responsabilità pubbliche verso la società o verso la comunità. Periodicamente la Chiesa ha rimesso in causa le modalità della propria presenza e dei propri processi di territorializzazione: in parte il tema è già stato trattato dal numero iniziale di Thema, riferendosi in particolare agli anni Cinquanta, quando la Chiesa italiana ha preferito contrastare il comunismo e la lotta di classe non mediante strategie pastorali settorializzate e pericolosamente “classiste” (studenti, agrari, operai, quadri ecc.), ma tramite lo strumento delle parrocchie “interclassiste”, in cui – per prossimità geografica – erano obbligati a convivere borghesi e proletari, impiegati e braccianti. Del resto, già nel cahier di “L’Art Sacré” del 1945, dedicato alla ricostruzione delle chiese, l’urbanista Gaston Bardet segnalava che «la liturgia è il vero fattore di unificazione sociale» (p. 22). Tale istanza pastorale è registrata, vent’anni dopo, anche dai padri conciliari: «La parrocchia offre un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le diversità umane che vi si trovano e inserendole nell’universalità della Chiesa» (Apostolicam Actuositatem, 18.11.1965). Il modello della “cittadella” interclassista, posta a presidio delle periferie contese, ha segnato una stagione di fervente attivismo organizzativo, i cui limiti spirituali e pastorali erano già stati intravisti da don Primo Mazzolari nella sua Lettera sulla parrocchia (1936) e nel saggio La parrocchia (1957), che denunciavano il pericolo di clericalizzazione dei laici e di distacco della struttura organizzativa parrocchiale dalla realtà del territorio. La contestazione della fine degli anni Sessanta – associata al fermento post-conciliare e alla crisi del cosiddetto “collateralismo parrocchiale” del secondo Dopoguerra – ha proposto nuove sperimentazioni di presenza movimentista o “di base”, intesa come “sale” o come “lievito” nella pasta, ossia non separabile dal proprio contesto e non distinguibile in termini spaziali. Il ritorno di una politica della “presenza” più assertiva, sostenuta dal magistero wojtyliano, ha implicato negli anni Ottanta un “ritorno al monumentale”, che ha puntato su una maggiore riconoscibilità dei complessi ecclesiali; la questione delle periferie ha portato il ragionamento sugli aspetti sociali e caritativi delle parrocchie, centri di animazione di comunità non solo cristiane, organizzate anche su unità pastorali più vaste e meglio integrate; infine, la dimensione multiculturale, multietnica e multireligiosa – ormai affermata non solo nelle periferie metropolitane, ma anche in borghi rurali e cittadine di provincia – pone nuove sfide alle istituzioni parrocchiali, che devono saper accogliere cristianesimi molto diversi (africani, sudamericani, filippini, balcanici, medioerientali), in contesti non più esclusivamente cristiani, segnati da stili di vita individualisti, in cui il concetto stesso di comunità pare poco rilevante socialmente. In tale quadro complesso e sfaccettato, si pone anche il problema del riuso, del restauro, dell’aggiornamento e della trasformazione dei “contenitori parrocchiali” storici, o semplicemente vetusti, ormai inadatti agli stili di vita e alle esigenze pastorali, talora sovradimensionati, talora sottodimensionati. In tutte queste dinamiche, l’architettura gioca evidentemente un ruolo centrale. Non solo l’architettura dell’aula liturgica – fonte sacramentale della vita comunitaria – ma anche quella degli spazi per il primo annuncio, per la testimonianza della carità, per le relazioni sociali, per lo sport e lo svago ecc. Una parrocchia, tuttavia, non è una chiesa cui si aggiungono spazi “accessori”: le aule di catechismo non possono essere riproduzioni di aule scolastiche, l’oratorio non può essere assimilato alla sede di una società sportiva, gli spazi per la carità non possono ricordare la freddezza burocratica degli uffici dell’assistenza pubblica, e forse anche la casa del parroco non può essere un normale appartamento. Soprattutto, l’insieme di tutte queste cose non è una semplice sommatoria, ma deve generare una comunità organica e articolata, e a sua volta deve essere plasmato, trasformato e ridiscusso dalla comunità stessa. La progettazione, ma soprattutto la costruzione, la manutenzione e la continua trasformazione di un complesso parrocchiale sono il primo modo con cui la Chiesa si rende prossima e comunica la Buona Novella; per Severino Dianich (1996) «costruire e abitare una chiesa è un atto comunicativo che fa parte di questo processo complessivo e complesso della simbolizzazione attraverso la quale avviene la comunicazione ecclesiale». Ricorda la nota pastorale CEI sulla progettazione (1993) che «Il rapporto tra chiesa e quartiere ha valore qualificante rispetto ad un ambiente urbano non di rado anonimo, che acquista fisionomia (e spesso anche denominazione) tramite questa presenza, capace di orientare e organizzare gli spazi esterni circostanti ed essere segno dell’istanza divina in mezzo agli uomini. Ciò significa che il complesso parrocchiale deve essere messo in relazione ed entrare in dialogo con il resto del territorio, deve anzi arricchirlo» (n. 6). La complessità di tale dialogo, pur restando dinamica e talora imprevedibile, esclude improvvisazioni e dilettantismi; tra le indicazioni delle Chiese locali, ricordiamo ad esempio le norme del Vicariato di Roma (2007), secondo cui «la “Parrocchia” è un


complesso unico, articolato e funzionalmente diversificato in molti spazi specializzati e/o multifunzionali, che devono essere riconosciuti e progettati sin dalla fase iniziale di ideazione» (n. 2.2). Ricordava Giovanni Paolo II nell’esortazione post-sinodale Christifideles Laici (1988): «Se la parrocchia è la chiesa posta in mezzo alle case degli uomini, essa vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi» (n. 27), richiamando in chiave locale la condivisione delle gioie e delle speranze, delle tristezze e delle angosce degli uomini d’oggi espressa dal proemio della costituzione pastorale Gaudium et spes (1965). La possibilità di coltivare relazioni fraterne può verificarsi se la parrocchia resta «coerente alla sua originaria vocazione e missione: essere nel mondo “luogo” della comunione dei credenti e insieme “segno” e “strumento” della vocazione di tutti alla comunione; in una parola, essere la casa aperta a tutti e al servizio di tutti o, come amava dire il Papa Giovanni XXIII, la fontana del villaggio alla quale tutti ricorrono per la Gabriele De Rosa, La parrocchia nell’età contemporanea, in La parrocchia in loro sete» (ibidem). Italia nell’età contemporanea, a cura di Gabriele De Rosa e Angelomichele De Gli articoli qui proposti non affrontano il tema del complesso Spirito, Dehoniane, Napoli 1982, pp. 15-28. parrocchiale in modo sistematico, né tentano una periodizSeverino Dianich, Edificare una chiesa, abitare e celebrare in un luogo, come zazione del fenomeno, ma hanno l’obiettivo di registrare lo agire comunicativo della comunità cristiana, in Spazio e rito. Aspetti costitutivi “stato dell’arte” delle ricerche che attualmente studiano – con della celebrazione cristiana, CLV Edizioni Liturgiche, Roma 1996, pp. 25-48 tagli e obiettivi diversi – il ruolo dei complessi parrocchiali nello (ora in Id., Spazi e immagini della fede, Cittadella Editrice, Assisi 2015, pp. 189-216). spazio urbano italiano contemporaneo. Si tratta di riflessioni critiche, testimonianze e resoconti di attività di progetto. Pietro Borzomati, La parrocchia, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi La stagione della centralità del sistema parrocchiale – tra gli dell’Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 67-91. anni Cinquanta e Settanta – emerge in contributi sia di taglio Vittorio De Marco, La parrocchia, in La nazione cattolica. Chiesa e società in 3 generale (Guarrera), sia locale (Manenti, Mattias), secondo Italia dal 1958 a oggi, a cura di Marco Impagliazzo, Guerini, Milano 2004, pp. 181-203. una linea di lettura che cerca soprattutto di verificare l’attualità o meno di quel sistema, l’eredità attuale – a volte problemaEnzo Bianchi, Renzo Corti, La parrocchia, Qiajon, Magnano 2004. tica – di una fase di forte e fiduciosa progettualità urbanistica Sergio Tanzarella, La parrocchia: vita, morte, miracoli, in Cristiani d’Italia. e pastorale, le cui qualità e i cui limiti si sono manifestati nel Chiese, società, Stato. 1861-2011, 2 voll., a cura di Alberto Melloni, Istituto tempo secondo modalità che, tuttavia, resta difficile docudella Enciclopedia Italiana, Roma 2011, vol. 1, pp. 259-276. mentare e argomentare. Il clima della parrocchia e dell’oraDaniele Campobenedetto, Matteo Robiglio, Isabelle Toussaint, Costruzione torio “popolari”, luoghi di integrazione e coesione sociale, è ed esperienza contemporanea del sacro. Personalizzazione, comunità elettive e comunità territoriali, in “Humanitas” 68 (6/2013), pp. 957-965. invece richiamato dalla vivace testimonianza di Gavinelli. Il racconto per metafore, utile per spiegare la ricchezza di Paolo Cozzo, Parroci e parrocchie in Italia dal Concilio di Trento a papa Francesco, Carocci, Roma 2014. contenuti extrafunzionali di un complesso parrocchiale, è adottato da altri interventi (Daidone, Bellini), che mettono in Andrea Longhi, Sacro, cultura architettonica e costruzione della città conevidenza l’aspetto evocativo, identitario e culturale del valore temporanea: chiese nell’Italia del post-concilio, in “Historia Religionum. An international journal” 8 (2016), pp. 43-54. del centro parrocchiale. Il quadro di sintesi territoriale su Milano (Corbetta e Lazzaroni) affronta la questione dell’attualità del sistema di territorializzazione parrocchiale e dei suoi esiti architettonici recenti, giocati sull’antinomia tra riconoscibilità e omologazione, mente quello su Bologna (Manenti) ne verifica gli esiti e i limiti. L’invito a ragionare sull’aspetto processuale delle realizzazioni è stato colto nell’analisi di due complessi parrocchiali romani, il primo degli anni cinquanta (Mattias), il secondo molto recente (Grieco). In altri contributi emerge il tema del rapporto tra la struttura del complesso, il suo volto esterno e le trame urbane circostanti (De Sanctis, Bellini): la rilettura in chiave urbana delle notissime architetture di Rudolf Schwarz (Tognon) offre infine un’ulteriore riflessione sul rapporto tra società civile e comunità religiosa, tramite il valore simbolico della chiesa e il valore relazionale dei luoghi di transizione, che insieme rendono ogni complesso parrocchiale un pezzo di città.

Per l’approfondimento:



IL CARATTERE E L’IDENTITÀ DEL

COMPLESSO PARROCCHIALE

Fabio Guarrera

Appare sempre più diffusa l’opinione secondo cui la maggior parte delle chiese moderne e contemporanee si rivelano poco comprensibili sia alla comunità dei fedeli che le vive, sua ai singoli individui che sovente s’interrogano sul significato delle loro forme. Sorge dunque spontaneo chiedersi, in riferimento a questo dato, se la mancanza d’identificazione tra la comunità e lo spazio architettonico del complesso parrocchiale – inteso come spazio interno liturgico ed esterno di relazione con l’ambiente – possa incidere negativamente sulla spiritualità dei luoghi e sulla qualità della preghiera comunitaria. Il problema, in sintesi, è capire se l’assenza di una chiara identità architettonica, riconoscibile e oggettivamente condivisibile, possa ostacolare – così come denunciato da diversi appelli1 e testimonianze critiche – l’incontro con Dio. Evitando di addentrarsi troppo nei meandri della dottrina liturgica, ma rimanendo su un piano di analisi strettamente architettonico, si vuol tentare di dare risposta a tale quesito, offrendo un contributo che permette di riflettere sul valore del concetto di carattere e identità nel progetto architettonico dei complessi parrocchiali contemporanei. La mancanza di intelligibilità delle forme dello spazio sacro moderno – problema denunciato tra gli altri anche da Papa Francesco in occasione della XXI seduta pubblica delle Accademie Pontificie2 – affonda le sue origini nei principi del Modernismo. Con le avanguardie del Novecento, infatti, sulla scia delle teorie idealiste del XIX secolo, ha preso piede un’idea di arte intesa come campo di sperimentazione ed espressione dell’individualismo artistico, a discapito della tendenza all’oggettività cui la cultura “classica”, da millenni, ambiva. Attraverso le sperimentazioni novecentiste, che propongono una visione dell’arte “libera” di esaltare il sentire soggettivo degli artisti è venuta meno, in sostanza, sia quella tendenza al dialogo tra il carattere dell’architettura e l’ambiente in cui essa viene inserita; sia quella chiara ricerca della spazialità interna dell’edificio chiesa che non lascia dubbi sui ruoli, sulle gerarchie e sulle funzioni delle parti. Privilegiando l’esaltazione solipsistica del gesto creativo, trovando cioè nell’autoreferenzialità della forma il fine ultimo della propria ricerca, lo spazio sacro contemporaneo si è spesso posto in maniera inadeguata e paradossale rispetto a quel fenomeno di massima oggettività quale è la liturgia cattolica. Nel rito cattolico, infatti, stando a quanto affermato da Romano Guardini3, non può trovare luogo «lo stato d’animo singolare», e cioè «l’individuale». Secondo Guardini «è assai importante intendere [...] il carattere essenziale e oggettivo della liturgia», per cui: «la liturgia non ama l’esuberanza del sentimento», in quanto, «sentimento appieno dominato»4. Chi scrive è del parere che esiste un evidente paradosso – proprio

Nel rito cattolico non può trovare luogo «lo stato d’animo singolare», e cioè «l’individuale»... «la liturgia non ama l’esuberanza del sentimento», in quanto, «sentimento appieno dominato»

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Cfr. Appello a Sua Santità Papa Benedetto XVI per il ritorno a un’Arte sacra autenticamente cattolica (in: http://appelloalpapa.blogspot.it/).

Il 6 dicembre 2016, in occasione della XXI seduta pubblica delle Accademie Pontificie, Papa Francesco riferendosi alla necessità di ripensare adeguatamente lo spazio liturgico e l’estetica delle chiese contemporanee ha affermato: «É necessario che le nuove chiese parrocchiali [...], si propongano, pur nella loro semplicità ed essenzialità, come oasi di bellezza, di pace, di accoglienza, favorendo davvero l’incontro con Dio e la comunione con i fratelli».

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3

Romano Guardini, Lo spirito della liturgia, Brescia, Morcelliana, 2007.

4

Ibidem, p.25;

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1. Chiesa di Santi Pietro e Gerolamo a Pontelungo, arch. Giovanni Michelucci Courtesy: www.architettipistoia.it

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dell’arte e dell’architettura contemporanea – tra ciò che tende alla dimensione oggettiva e condivisa – vale a dire la forma liturgica con i suoi riti e i suoi significati – e ciò che tende invece al soggettivo e all’individuale – e cioè la tendenza alla costruzione autografa dell’architettura. Si tratta, in sostanza, di un rapporto estremamente labile che instaura un cortocircuito tra l’essenza stessa della liturgia e lo spazio che deve accogliere la comunità celebrante. Posto in questi termini il problema della costruzione del complesso parrocchiale permette di sviluppare due piani di riflessione: uno più interno relativo alla configurazione dello spazio della chiesa, che accoglie i segni della liturgia riflettendo la chiarezza della sua regola oggettiva; e uno esterno al complesso parrocchiale che identifica l’edificio nel contesto fisico e territoriale in cui è costruito, rendendo “familiare” alla comunità il luogo di culto. Nel primo caso lo spazio sacro interno, con la sua chiara comprensibilità delle forme, perfettamente aderenti al significato della liturgia, trasforma «ciò ch’è casuale» e singolare «in universale», in modo che «il necessario sarà emerso» e la «forma adeguata dell’atteggiamento religioso si sarà oggettivata»5. Che vale a dire: mediante un reciproco superamento delle particolarità individuali, la forma architettonica e quella liturgica si elevano in modo concorde a significazione universale. Lo spazio sacro, con la sua chiarezza e la sua adeguata rappresentazione del valore semantico delle parti esalta – appropriatamente – l’atto liturgico. Nel secondo caso il principio di decoro “esterno” del complesso parrocchiale permette invece di mettere in relazione i caratteri costitutivi del paesaggio con l’architettura che in esso viene costruita. La chiesa, intesa come tipo edilizio, ha sempre avuto un carattere di eccezionalità rispetto alla dimensione e alla scala comune delle architetture che compongono il corpo della città. Tale eccezionalità, tuttavia, non ha mai giustificato – prima della modernità – un approccio autoreferenziale alle forme dello spazio sacro. 5

Ivi, pp.16-17;

Nella storia dell’architettura la chiesa, il complesso parrocchiale, ha sempre manifestato una fenomenologica riconoscibilità grazie a quel principio che Cristian Norberg Schulz definisce «presa esistenziale dell’architettura»6. Adattandosi al genius loci e al carattere fisico dei luoghi, rispettandone cioè l’uso dei materiali, dei rapporti chiaroscurali e delle cromie, oltre che dei caratteristici motivi costruttivi e decorativi, secondo Norberg Schulz l’architettura – e dunque, nel caso in esame, il complesso parrocchiale – si sostantivizza e si identifica con l’ambiente esterno, rendendo familiari le proprie forme7. 6

cfr. Cristian Norberg Schulz, Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Milano, Electa, 1979, p.5;

Particolarmente significative in tal senso risultano le parole di Mons. Carlo Chenis (all’epoca Segretario della Pontificia Commissione Beni Culturali Ecclesiali) espresse in occasione del convegno sull’innovazione liturgica e la sperimentazione progettuale che si è tenuto a Trento tra marzo e aprile 2006. «L’invenzione architettonica – scrive Mons. Chenis – non procede dal nulla, ma è in continuità con le forme naturali e con quelle culturali. Ogni architettura avvia un processo di trasformazione, ponendosi in sintonia con la natura naturans, onde coglierne i dinamismi espressivi e con il genius loci, onde assimilarne lo specifico culturale». Chiarendo, poco più avanti, «La natura dell’architettura cultuale sospinge al rispetto del contesto ambientale e sociale, per garantire leggibilità, fruibilità, sacralità. Nel complesso il valore di una chiesa edificio risiede nella memoria storica, nel pregio artistico, nell’impatto ambientale, nel contenuto culturale, nel significato liturgico, nella destinazione universale. Di conseguenza, architetti, artisti, tecnici devono intuire gli archetipi dei destinatari e assimilarsi alla configurazione territoriale. Il linguaggio architettonico va derivato da quello corrente, rigorosamente “risignificato” e sacralizzato, per cui si devono evitare segni spazio-iconici equivoci o incomprensibili. Se è importante garantire la continuità tra chiesa e case, è altrettanto peculiare evidenziarne la separazione, poiché l’incontro con Dio è diverso da tutti gli altri incontri». Cfr. Carlo Chenis, Costruire e adeguare gli edifici di culto. Dall’impresa tecnica al ministero ecclesiale, in “Progetti di Chiese, Innovazione liturgica e sperimentazione progettuale. Esperienze europee a confronto”. Atti del convegno marzo-aprile 2006, Trento, TEMI Editrice, pp.47-59.

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2, 3. Chiesa S.Giovanni al Gatano a Pisa, arch. Saverio Muratori (esterno e interno) © Fotografo Xavier de Jauréguiberry

4, 5. Chiesa dell’Assunzione al Quartiere Tuscolano di Roma, arch. Saberio Muratori (plastico di studio e interno) - © Caterina Salvador (www.flickr.com/photos/ saverio_muratori/2128052061/)


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A lato 6, 7. Chiesa S.Vincenzo de Paoli al borgo La Martella, arch. Ludovico Quaroni (esterno e interno) Š Pierangelo Laterza In questa pagina 8, 9, 10. Chiesa S. Antonio Abate a Recoaro Terme, arch. Giuseppe Vaccaro (esterno e interno) Š Federico Padovani


Il principio di familiarizzazione risulta pertanto essenziale alla pienezza di spirito cui la liturgia tende, dal momento che l’animo comunitario, entrando in intimità con l’ambiente fisico che lo accoglie – perché lo riconosce e lo sente familiare – consente alla preghiera di esaltarsi nella sua potenza cosmica, avvicinando maggiormente la comunità a Dio.

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Sebbene queste considerazioni inducano a riflettere sulla distanza che può stabilirsi tra lo spazio sacro e l’azione liturgica, è opportuno chiarire che il gesto creativo dell’artista rimane una condizione inderogabile nella ricerca della qualità dello spazio sacro contemporaneo. Quale differenza si riscontra, allora, tra l’approccio alla figurazione architettonica antica e quella contemporanea, al punto da determinare chiese che costringono – oggi – a interrogarsi sull’efficacia della loro forma? Con ogni probabilità la differenza sostanziale va ricercata nel diverso atteggiamento mentale usato dai progettisti contemporanei rispetto a quelli del passato. Nei complessi parrocchiali antichi il progettista poteva alterare, modificare, spesso tradire lo spazio architettonico, senza mai rinnegare la sua oggettiva componente figurativa. Le chiese avevano un impianto tipologico stabile, sul quale l’architettoartista interveniva con la propria creatività, variandone la forma al cambiare delle condizioni stilistiche e culturali delle epoche, sulla spinta di un gusto consolidato e condiviso che si fondava sulla nobile pratica dell’imitatio. Nei complessi parrocchiali contemporanei risulta invece difficile riconoscere temi tipologici comuni – se non in riferimento alla sola disposizione della comunità liturgica8 – e alla imitazione/ invenzione delle caratteristiche figurative consolidate e condivise si preferisce, piuttosto, l’ideazione formale perpetua e arbitraria. Nonostante questo atteggiamento diffuso, durante il XX secolo, un approccio più attento al rapporto tra la forma dell’architettura e i caratteri dell’ambiente, attuato attraverso una sorta di ricerca dell’anonimato figurativo e autorale, ha caratterizzato il lavoro di alcuni importanti architetti italiani. Uno dei primi progettisti ad avere percepito l’esigenza di immaginare la chiesa come un luogo familiare per la comunità è Giovanni Michelucci. Nel progetto per il complesso parrocchiale dei Santi Pietro e Gerolamo a Collina di Pontelungo (1946-53), Michelucci realizza una «casa di tutti». L’articolazione discreta dei volumi, simili nella geometria e nei caratteri materici e figurativi alle case rurali dell’intorno, fanno di questa piccola chiesa uno dei massimi esempi di architettura perfettamente aderente al contesto in cui viene costruita. In essa si coglie una raffinata capacità di dialogo tra forme tipologiche e ambiente, corrisposta dalla delicatezza di uno spazio interno aggraziato da pareti intonacate di bianco e da una luce misurata che accentua i poli liturgici. Particolarmente riuscito, sia nella qualità poetica dello spazio interno, sia nell’alto grado di ambientamento esterno, è anche il complesso di San Giovanni al Gatano a Pisa (1947) di Saverio Muratori. Si tratta di una chiesa che riattualizza l’immagine

dell’architettura del romanico toscano e che ragiona sul valore semantico dello spazio di tipo basilicale. Una chiesa dal profondo lirismo che il progettista avrebbe potuto ripetere e forse superare nel poco più tardo progetto per il complesso dell’Assunzione di Maria Santissima al Tuscolano a Roma (1954-1970) se la costruzione dell’edificio non si fosse arrestata al livello della cripta. In questo secondo caso il tentativo di ambientare l’architettura al contesto romano ha spinto Muratori nella scelta di forme plastiche che richiamano certi temi figurativi sperimentati dal barocco. Sulla scia di Michelucci e Muratori anche Ludovico Quaroni ha dimostrato un sensibile approccio all’ambientamento dell’architettura, soprattutto nel progetto del complesso parrocchiale di San Vincenzo de’ Paoli nella frazione La Martella a Matera (1952-55). In questo caso il progettista ha avuto modo di configurare un intero quartiere di cui il complesso parrocchiale sintetizza i caratteri rustici e figurativi presenti nel resto del paese. La chiesa de La Martella, infatti, non appare come un brano eccezionale e fuori contesto ma è in perfetta sintonia mimetica con l’ambiente urbano circostante. Degli stessi anni sono anche i progetti per la chiesa di S.Antonio Abate a Recoaro Terme (1949-1951) di Giuseppe Vaccaro e quello per la chiesa di Nostra Signora al villaggio Eni di Borca di Cadore (1954-1961) di Edoardo Gellner e Carlo Scarpa. Nel primo caso un felice equilibrio figurativo risolve adeguatamente sia l’inserimento urbano della chiesa – con il suo carattere che richiama l’architettura del Trencento veneto – sia il poderoso spazio interno basato sul contrappunto tra la rugosità delle pareti laterali e il nitido candore della volta di copertura. Nel secondo caso il carattere “alpino” della costruzione permette al complesso parrocchiale di dialogare in modo armonioso con l’ambiente esterno; un progetto che trova grande vigore anche nella qualità e nel carattere dello spazio interno, analogo, per molti aspetti, a quello delle vecchie chiese delle montagne del Cadore. Un esempio relativamente più recente può essere individuato, infine, nel complesso parrocchiale di San Riccardo Pampuri a Peschiera Borromeo (1985-92), su progetto di Guido Canella. Un edificio che introduce una nota di caldo carattere rurale in un contesto ambientale sterile quale è quello dell’hinterland milanese. L’uso del legno e di sistemi costruttivi locali rimandano, in questo caso, alle architetture delle cascine della campagna lombarda e agli interni delle chiese romaniche milanesi9. Attraverso questi pochi esempi è possibile riconoscere una “strada” – che qui si rifà solo a casi italiani ma estendibile anche a progetti di autori stranieri10 – attenta alla costruzione dell’identità dell’architettura e del suo carattere ambientale. Una strada che tende al superamento dell’approccio formalista e autoreferenziale dello spazio sacro, e che poco concede all’eccesso espressionista del gesto creativo. Una strada, a giudizio di chi scrive, che è quanto prima opportuno rivalutare... 9

Si fa riferimento, soprattutto, all’uso del matroneo interno.

A questi esempi, infatti, potrebbero essere aggiunti i casi dei complessi parrocchiali progettati da Emil Steffan, Gisberth Hülsmann, Rudolf Schwarz, Theodor Fischer, Heinz Bienefeld, Otto Bartning, Peter Zumthor, Alvaro Siza e pochi altri. 10

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Ad esempio le chiese con impianto ad circumstantes proposte dopo il Concilio Vaticano II.


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11, 12. Chiesa di Nostra Signora al villaggio ENI di Borca di Cadore, arch. Edoardo Gellner e Carlo Scarpa (esterno e interno) - Courtesy: Archivio Storico ENI

13. Chiesa di San Riccardo Pampuri a Peschiera Borromeo, arch. Guido Canella - Courtesy: wikipidia



I CENTRI PARROCCHIALI NELLA DIOCESI DI MILANO DAL 2000 AD OGGI. SPUNTI DI

RIFLESSIONE Arch. Giorgio Corbetta - Arch. Laura Lazzaroni

Poco si è scritto finora sui nuovi centri parrocchiali realizzati nella Diocesi di Milano negli ultimi vent’anni. Il numero monografico proposto dalla rivista Thema su queste strutture è quindi occasione per riflettere e tracciare una prima mappa ragionata su quanto realizzato. Sotto la denominazione “centro parrocchiale” sono racchiusi funzioni diverse, approcci progettuali e tipologie edilizie differenti. Lo sguardo d’insieme permette di osservare sia la distribuzione sul territorio diocesano che l’evoluzione negli anni di tipologie e architetture. La Diocesi conta circa 1100 parrocchie, con un totale di circa cinque milioni e mezzo di abitanti distribuiti in sette province lombarde, in un territorio densamente popolato delimitato da Adda e Ticino, che varia dai laghi alle Alpi fino alla pianura. Data per acquisita e non riducibile la complessità spaziale e demografica dell’area, per delimitare il tema si è scelto di focalizzare l’attenzione sulle realizzazioni più recenti, partendo dal 2000. La scelta dell’anno 2000 come limite temporale è in parte dettata dal valore simbolico del cambio di secolo, ma ben si presta anche a descrivere un effettivo mutamento nell’uso e nelle funzioni presenti nei centri parrocchiali, cambiamento iniziato negli ultimi venticinque - trent’anni e ulteriormente mutato avvicinandoci alla contemporaneità. I centri parrocchiali costruiti in Diocesi dal 2000 ad oggi sono circa 120; il numero qui indicato comprende le realizzazioni ex novo, gli ampliamenti significativi e le demolizioni con ricostruzione, tralasciando le semplici ristrutturazioni e gli interventi di minore entità. Oggi nella quasi totalità i complessi parrocchiali diocesani sono costruiti nei pressi della chiesa e gli elementi di base che costituiscono l’insieme sono gli spazi dedicati alla catechesi, quelli ludico ricreativi e una parte residenziale. Questi sono gli elementi minimi a cui si aggiungono saloni polivalenti, attrezzature per il gioco e lo sport, scuole e asili, sale per conferenze e attività culturali. Le funzioni e gli usi variano nel corso del tempo, spesso anche con una certa velocità; se negli anni del secondo dopoguerra gli spazi parrocchiali erano i luoghi di incontro e riferimento per i giovani, oggi esistono molti altri luoghi di ritrovo e il “trovarsi in oratorio” non è una scelta così scontata. Ciò si riflette anche nelle strutture: schematizzando, si può dire che negli ultimi venti-venticinque anni il numero dei cineteatri e dei

1. Centro parrocchiale San Bernardo, Nova Milanese

grandi spazi di aggregazione è andato decrescendo in modo significativo, mentre attorno agli anni Duemila è stata in generale potenziata l’offerta di spazi per il gioco e le attività sportive. Oggi si assiste ad un maggior uso dei centri parrocchiali da parte soprattutto dei bambini e delle loro famiglie, molto più coinvolte di un tempo nelle attività di catechesi e dell’oratorio in generale. Contemporaneamente è cresciuto l’uso di queste strutture da parte di una nuova utenza, gli anziani, che spesso eleggono questi spazi a luogo di ritrovo. Il modello insediativo novecentesco delle strutture parrocchiali nel quartiere era prevalentemente policentrico, con oratorio maschile e femminile distinti tra loro, più o meno distanti dalla chiesa; scuole ed asili, cineteatri, si posizionavano nel territorio della parrocchia. Dagli anni Novanta ad oggi, complice la continua riduzione del clero attivo, il modello insediativo richiesto è quello di un unico polo che riunisca tutte queste funzioni vicino al luogo di culto e alla residenza. La distribuzione territoriale dei nuovi centri parrocchiali negli ultimi vent’anni non è stata omogenea sull’intera Diocesi, in quanto lo sviluppo accelerato di alcune aree del territorio rispetto ad

La distribuzione territoriale dei nuovi centri parrocchiali negli ultimi vent’anni non è stata omogenea sull’intera Diocesi, in quanto lo sviluppo accelerato di alcune aree del territorio rispetto ad altre ha introdotto cambiamenti sociali e nuovi bisogni, sollecitazioni a cui la Chiesa ha cercato di rispondere.

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2. Distribuzione dei centri parrocchiali realizzati dal 2000 ad oggi nella Diocesi di Milano

altre ha introdotto cambiamenti sociali e nuovi bisogni, sollecitazioni a cui la Chiesa ha cercato di rispondere. Una parte consistente dei nuovi complessi si è attestata nelle zone di maggior sviluppo demografico, quali ad esempio l’area metropolitana di Milano, con la istituzione di nuove parrocchie. Un’altra parte rilevante delle realizzazioni è andata a soddisfare in modo puntuale le esigenze delle comunità locali, agendo su

contesti urbanizzati di medio-piccola dimensione in cui storicamente esisteva già una struttura parrocchiale. In questi casi spesso sono stati ampliati-integrati edifici già esistenti. Risultano invece decisamente meno numerosi i centri costruiti nelle città capoluogo, già dotate in una fase storica precedente. La descrizione di alcuni interventi, scelti per la loro rappresentatività, può forse aiutare nell’analisi.


Il centro parrocchiale San Bernardo1 di Nova Milanese, la cui tipologia rispecchia l’attuale tendenza alla concentrazione in un unico polo delle diverse funzioni, è frutto di un progetto unitario che comprende la nuova chiesa sussidiaria e opere per il ministero pastorale: aule per la catechesi, salone, residenza per il sacerdote. La chiesa si pone su un lato del lotto, simmetrica come dimensioni all’edificio destinato ad aule per la catechesi e all’abitazione. Tra i due vi è uno spazio comune all’aperto, delimitato sul fondo da un portico e dal salone con gli spazi comunitari, quali il bar e la cucina comune, aree verdi per il gioco e le attività ricreative si sviluppano sul retro del complesso. Completato nel 2010, il centro parrocchiale sorge di fronte alla scuola elementare, in una zona residenziale ad alta densità abitativa (circa 4000 ab/kmq2), frutto della forte crescita urbana degli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, dove la costruzione delle attrezzature collettive arriva a chiudere la fase edificatoria piuttosto che a lanciarla. L’hinterland di Milano è costellato da moltissimi esempi simili, costruiti in generale a partire dagli anni Ottanta, in contesti di forte crescita urbana; in alcuni casi la chiesa e le opere parrocchiali vengono costruite prima dell’urbanizzazione della zona a marcare una presenza nel contesto, in altri casi sono arrivate a posteriori; tra di esse troviamo opere firmate da architetti di fama e altre frutto del lavoro quotidiano dell’architetto del luogo. Nella quasi totalità dei casi è la chiesa ciò che segna il complesso, rendendo riconoscibile la funzione degli spazi annessi. Ad Inverigo, alta Brianza, zona di ville storiche e insediamenti rurali disseminati nel territorio, il nuovo oratorio3 si attesta in un contesto storicizzato, a lato dell’antico Santuario di Santa Maria 1

Progetto dell’architetto Davide Friso

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Fonte dei dati statistici: Guida della Diocesi di Milano, 2017, ITL Milano

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Progetto dell’architetto Gianluigi Vitali

3. Centro parrocchiale San Bernardo, Nova Milanese

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16 della Noce. È un insieme ampio ed esteso quello che si realizza nel giro di alcuni anni, con più lotti consecutivi: prima si ingrandiscono gli spazi di ministero pastorale a servizio della comunità (aule e spazi comuni), a seguire si aggiunge la nuova sede della scuola elementare e media (esistenti, qui ricollocate), poi un nuovo corpo con la palestra infine la scuola materna, la mensa comune e un auditorium ipogeo. Sul retro i tradizionali spazi aperti per il gioco sono ridisegnati con impianti più strutturati per le diverse attività sportive. In questo caso tutte le attività della parrocchia sono state accentrate in un unico polo, vicino alla chiesa sussidiaria. Ogni corpo di fabbrica mostra caratteri riconoscibili, legati alla funzione che vi è insediata (edifici scolastici, palestra, auditorium).

4. Centro parrocchiale Pentecoste, Milano - Foto Cecilia Castelletti

Il complesso di Pentecoste a Milano4, progettato fin dal 2001 ma costruito tra il 2014 e il 2016, è insediato in una ex area industriale dismessa al margine nord nella città, oggi caratterizzata dalla presenza di grandi torri residenziali. La chiesa e i locali per il ministero pastorale sono pensati come un unicum, abbracciato e circondato dal sagrato e dalle aree per il gioco, uno spazio che dà respiro ad un quartiere ad altissima densità edilizia. Il volume della chiesa svetta, inquadrato da un imponente portale che delimita la facciata e la croce che si staglia contro il cielo; attorno ad esso si sviluppano in un “basamento” a due piani i locali per il ministero pastorale, che comprendono un salone, le aule, uno spazio multifunzionale, gli appartamenti per il parroco e per una famiglia residente. Progetto dell’architetto Boris Podrecca. Si veda: Boris Podrecca, Marco Castelletti, “Chiesa di Pentecoste”, in Chiesa oggi, n. 107, 2017, p. 27-33

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Pentecoste e il complesso dedicato a Madre Teresa di Calcutta, ancora in costruzione a Milano, saranno probabilmente davvero gli ultimi di una lunga serie di edifici di culto costruiti in questa città dagli anni Cinquanta ad oggi. In questo arco temporale i complessi parrocchiali e in particolare l’edificio chiesa sono stati laboratorio di ricerca e sperimentazione, banco di prova con cui si sono cimentati i grandi maestri. Le realizzazioni più recenti5 sono troppo vicine a noi temporalmente per poter esprimere un parere distaccato e oggettivo sulla bontà, qualità, effettiva compiutezza del singolo caso. Se però guardiamo l’insieme, anche con uno sguardo basato più sull’empirismo dell’osservazione personale che sull’analisi dettagliata di tutti i casi, possiamo riconoscere alcuni caratteri ricorrenti e trarre indicazioni di massima. Da un punto di vista morfologico gli elementi che più distinguono un oratorio dalle altre strutture sociali (quali scuole, centri civici…) sono gli ampi spazi porticati, l’uso del “fuori scala” o comunque di proporzioni maggiori rispetto all’edilizia residenziale, la definizione di un margine e l’evidenza dell’ingresso. La ricerca architettonica in questi anni non ha portato alla definizione di nuove tipologie spaziali per le strutture parrocchiali: il salone per la comunità, gli spazi per la catechesi e l’incontro, l’abitazione del parroco, non hanno cambiato le loro caratteristiche in modo significativo; in alcuni casi si assiste allo studio di nuove modalità di aggregazione di questi spazi, oppure si lavora sulle finiture e sui materiali della contemporaneità. Nei complessi più riusciti la fisionomia del nuovo centro è tale da essere un elemento riconoscibile nel contesto indistinto della crescita urbana; una buona parte dei nuovi edifici, però, sembra avvicinarsi più ad una omologazione con il quartiere e con l’edilizia circostante che all’essere motore del cambiamento, fino ad arrivare all’estremo della rinuncia progettuale. In generale, ad oggi, sembra che l’architettura dei centri parrocchiali realizzati nel nuovo millennio non riesca ad affermare la sua riconoscibilità e compiutezza, rischiando in molti casi l’anonimato; ciò è ancora più evidente quando questi edifici non sono accostati alla Chiesa, perché il luogo di culto fornisce comunque un segno distintivo ancora oggi riconoscibile. Questo articolo vorrebbe essere un punto di inizio di un percorso di analisi più ampio: la quantità delle realizzazioni sul territorio diocesano è tale che l’insieme contiene cose completamente diverse tra loro, la cui complessità è stata tratteggiata qui solo per sommi capi. Per le realizzazioni del periodo 1985-2000 si rimanda a: Giuseppe Arosio, Chiese nuove verso il terzo millennio. Diocesi di Milano 1985-2000, Milano, Electa, 2000

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In generale, ad oggi, sembra che l’architettura dei centri parrocchiali realizzati nel nuovo millennio non riesca ad affermare la sua riconoscibilità e compiutezza, rischiando in molti casi l’anonimato; ciò è ancora più evidente quando questi edifici non sono accostati alla Chiesa, perché il luogo di culto fornisce comunque un segno distintivo ancora oggi riconoscibile.

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LE CHIESE DI BOLOGNA DEL

CARDINALE LERCARO A CONFRONTO CON LA CONTEMPORANEITÀ Claudia Manenti

Era il 1955 quando l’Ufficio Nuove Chiese elaborò, per volere suddividere il territorio ‘fuori porta’ in aree parrocchiali, localizdel vescovo di Bologna Giacomo Lercaro la pianificazione della zando l’edificio ecclesiale secondo una logica insediativa che ne periferia sorta in poco più di vent’anni fuori dall’antica cerchia doveva garantire la centralità territoriale. Come dice l’architetto muraria della città storica, proponendo la creazione di venti Glauco Gresleri nell’articolo di Chiesa e Quartiere del 1956 nuovi centri parrocchiali come luoghi di riferimento per il sistema Come nasce una parrocchia: “..la forma planimetrica della parurbano ‘fuori porta’. rocchia viene ad avvicinarsi ad una ellisse in cui uno dei fuochi e La proposta dell’Ufficio Nuove Chiese fu guidata dall’intento precisamente quello posto verso il centro della città è occupato pastorale del Cardinale, il quale, fin dal suo ingresso nella diocesi emiliana avvenuto nel 1952, aveva compreso il disagio di quanti abitavano nei territori periferici creati sotto la spinta della speculazione edilizia post-bellica nei quali non esistevano luoghi dove svolgere una vita sociale, culturale e religiosa come, invece, avveniva nel centro città. Nelle periferie, infatti, non c’erano scuole, né luoghi di socializzazione e neppure chiese, così che circa 200.000 persone provenienti da diverse parti d’Italia (su 98.000 residenti in centro storico) erano confinate in un territorio urbano completamente privo di ser1. Immagine dell’articolo di Glauco Gresleri, ‘Come nasce una parrocchia’ (da Chiesa e Quartiere N.3-4-5 1956) vizi, che non veniva ancora considerato dai bolognesi residenti nel centro storico come vera e propria città tanto era stata veloce e impetuosa la dall’organismo parrocchiale, e in cui l’asse maggiore è spesso sua costruzione. materializzato da strada di grande comunicazione”2. In questa situazione la creazione di nuovi centri parrocchiali coMa nella realtà, anche a causa della scarsità di aree disponibili stituì un importante momento di organizzazione della periferia, nella già edificata periferia, quello che Gresleri definiva ‘l’asse configurandosi come una vera e propria opera di pianificazione maggiore dell’ellisse’ difficilmente coincise con un asse viario urbana1. L’Ufficio Nuove Chiese, infatti, per prima cosa andò a ben individuato e se l’intento generico fu quello di attualizzare la

“..la forma planimetrica della parrocchia viene ad avvicinarsi ad una ellisse in cui uno dei fuochi e precisamente quello posto verso il centro della città è occupato dall'organismo parrocchiale, e in cui l'asse maggiore è spesso materializzato da strada di grande comunicazione”.

1 Per approfondire il tema: G. Biffi, P.L. Cervellati, Gl. Gresleri, G. Guazzaloca, G. Salizzoni, E. Vecchi, Ha edificato la città: architettura e urbanistica nell’intuizione di Giacomo Lercaro, Edizioni Nautilus, Bologna 2002. G. Gresleri, M.B. Bettazzi, Gl. Gresleri, Chiesa e Quartiere: storia di una

rivista e di un movimento per l’architettura a Bologna, Compositori, Bologna 2004. G. Lercaro, La chiesa nella città. Discorsi e interventi sull’architettura sacra, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996. 2

Chiesa e Quartiere N.3-4-5 ottobre 1956

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2. Cathédrale Notre Dame de Créteil, Paris. Ampliamento terminato nel 2013, su progetto di AS.Architecture-Studio (foto Manenti)

tradizione urbana europea delle chiese al centro della città, la modalità di collocazione dei complessi parrocchiali rispetto alla trama del quartiere differì sostanzialmente dalla visione storica dell’insediamento; spesso, infatti, i luoghi di culto furono posti non al termine o lungo le principali vie di attraversamento delle aree, ma al centro degli isolati residenziali, nel dichiarato intento di preservarli dal rumore e di metterli al servizio dei residenti, permettendo a questi di incontrare il luogo di preghiera sulla strada che li portava a piedi verso il centro storico. Sicuramente una qualche influenza sull’approccio dell’Ufficio Nuove Chiese alla situazione urbana delle periferie l’ebbero i risultati della discussione tenutasi nel 1951 a Hoddesden, in Inghilterra, nell’ambito dell’VIII CIAM3 dedicato al tema del ‘cuore della città’; durante il Congresso i più importanti architetti internazionali proposero una riscoperta della centralità urbana come elemento costitutivo della città, intendendola come il luogo di massima socialità che doveva essere preservato dalla confusione della viabilità attraverso modalità di soprelevazione e un’accessibilità quasi esclusivamente pedonale. Di fatto questi principi organizzativi della centralità urbana, attuati soprattutto nelle nuove città edificate dalla fine degli anni ‘60 in Francia, si sono dimostrati fallimentari, dimostrando l’inadegua3

VIII Congresso Internazionale di Architettura Moderna tenuto nel 1951 a Hoddesden, in Inghilterra


Sicuramente la riorganizzazione del territorio bolognese in parrocchie fu un approccio unico nel panorama nazionale ed internazionale del periodo post-bellico e quella che Lercaro intese come la ‘pacifica conquista cristiana della periferia’ dette alle persone immigrate nel capoluogo emiliano l’occasione per uscire dagli stretti legami delle comunità di provenienza e prendere parte alla costruzione di una nuova sensibilità di appartenenza urbana. 21

tezza dell’idea astratta rispetto alla concretezza del vivere urbano. I nuovi centri organizzati con il principio delle centralità ‘introverse’, sono diventati, infatti, presto marginali e di scarso sviluppo sottraendo al costruito preziosi momenti di socialità urbana. Analogamente, la logica insediativa che fu posta alla base della localizzazione delle nuove chiese, il prevedere, cioè, i centri parrocchiali come centralità da collocare all’interno degli isolati e lontani dalle principali vie di comunicazione, si è rivelata difficoltosa, perché ha sottratto all’organizzazione della città la concatenazione spaziale di ‘percorsocentralità’, ormai riconosciuta come fattore costitutivo dello spazio architettonico e urbano4. Di fatto, i centri parrocchiali bolognesi sono difficili da trovare, spesso posti in stradine di cui solo i locali ne conoscono l’esistenza e, quindi, non di facile approccio per quanti ricercano un punto di riferimento fisico o spirituale. In particolare poi, il meccanismo individuato all’esordio dell’esperienza dell’Ufficio Nuove Chiese che verteva su una mobilità pedonale delle persone e sul loro convergere verso il centro storico, è venuto meno con l’utilizzo dell’auto privata e con l’organizzazione di una vita lavorativa e sociale non più legata al centro città, né alla stretta vita del quartiere. Sicuramente la riorganizzazione del territorio bolognese in parrocchie fu un approccio unico nel panorama nazionale ed internaziona4

Christian Norberg-Schulz, Esistenza Spazio Architettura, Officina Edizioni, Milano, 1982.

le del periodo post-bellico e quella che Lercaro intese come la ‘pacifica conquista cristiana della periferia’ dette alle persone immigrate nel capoluogo emiliano l’occasione per uscire dagli stretti legami delle comunità di provenienza e prendere parte alla costruzione di una nuova sensibilità di appartenenza urbana. Tuttavia, nel contemporaneo, se è evidente come i centri parrocchiali svolgano ancora un prezioso servizio in termini di sostegno sociale, di aggregazione e di preghiera, si rileva, però, come vengano diffusamente percepiti a livello di paesaggio urbano quali episodi marginali e poco influenti all’interno dalle modificate dinamiche relazionali. Infatti, da indagini e interviste fatte nel 2010 nel quartiere Savena5, è emerso come i centri parrocchiali siano oggi percepiti come dei luoghi di riferimento quasi esclusivamente da quanti ne frequentano e ne vivono gli spazi di liturgia e di servizi, mentre non sono intesi come elementi di importanza urbana per coloro che, arrivando da paesi lontani o semplicemente non praticando il culto cattolico, devono orientarsi in un paesaggio caotico e di difficile definizione come quello periferico. Oltre alla loro collocazione ‘introversa’ nei confronti delle principali vie di comunicazione, anche il dimesso profilo architettonico delle nuove chiese le ha rese poco visibili rispetto all’intorno e non ha 5 Sono state condotte interviste agli abitanti del quartiere Savena e gli esiti sono stati confrontati con quanto risposto ai medesimi quesiti dagli abitanti di contesti urbani di recente edificazione nelle periferie francesi di Parigi e Lione. Le considerazioni a cui si è giunti sono state raccolte nel volume Claudia Manenti, Luoghi di identità e spazi del sacro nella città europea contemporanea, Franco Angeli, Milano, 2012.


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permesso che divenissero degli elementi di riferimento spaziale per la città. La propensione all’edificazione di architetture poco visibili rispetto all’urbano, voluta, più che da una penuria di mezzi, dalla volontà di costruire la ‘casa di Dio’ immersa e non emergente rispetto alla case degli uomini, se ha risposto egregiamente in termini di costruzione della comunità cristiana al tempo dell’edificazione della periferia, più difficoltà incontra oggi nel soddisfare il rapporto dell’abitante nei confronti del paesaggio urbano. I centri parrocchiali, infatti, nella loro proposta architettonica, non si sono posti come elementi fisici di riferimento urbano, ma sono stati edificati seguendo la logica del ‘nascondimento’ all’interno dell’immagine della città, interpretando matericamente la parabola evangelica del lievito nascosto nella pasta che ne porta tutta la massa a lievitazione. Oggi appare però evidente come questa impostazione architettonica non abbia colto fino in fondo l’importanza del ruolo che l’edificio di culto ha nel ‘portare in presenza un mondo’6 e, quindi, nel dare indicazioni visibili e immediatamente percepibili della tensione escatologica propria della speranza cristiana. Sempre nelle banlieues francesi, in particolare, si è visto come la logica architettonica del nascondimento dei luoghi di culto cattolici sia risultata inefficace nel dare alle comunità urbane dei riferimenti spaziali e spirituali e come già a partire dalla fine degli anni Ottanta si sia iniziato a proporre una semplice ma efficace visibilità dell’architettura delle chiese rispetto all’intorno7. In questo modo i luoghi liturgici assolvono non solo un ruolo di orientamento spirituale aiutando l’abitante della città a rivolgere lo sguardo verso il mistero di cui l’esistenza terrena è circondata, ma anche un compito puramente fisicoorientativo, visto che è ormai noto come una chiara immagine urbana organizzata su percorsi facilmente identificabili e su figure architettoniche di riferimento, faciliti il senso di sicurezza in chi ne percorre gli spazi e aiuti lo sviluppo dell’appartenenza al luogo e alla comunità8. Il non riconoscere alle chiese un’eminenza sociale e simbolica all’interno del panorama urbano ne ha indebolito la possibilità di porsi anche oggi come poli orientativi di quella ricerca di senso che attraversa l’esistenza umana e che diviene espressione materica di una fede socialmente vissuta e proposta quando anche da piccole comunità minoritarie.

Le chiese del ‘laboratorio bolognese’ rimangono, comunque, dei centri di vita liturgica e sociale che manifestano come l’impegno profuso dal 1955 al 1968 sia stato di importanza fondamentale per la scena internazionale e testimoniano la ricchezza di una Chiesa che si interroga e sperimenta, in maniera colta e sensibile, per giungere alle più idonee modalità di presenza della comunità cristiana all’interno della città contemporanea; l’intensa attività dell’Ufficio Nuove Chiese e del Centro di Studi e documentazione sull’architettura sacra ha, infatti, lasciato in eredità alla contemporaneità un complesso pensiero sulla presenza dei luoghi liturgici all’interno della città e ha permesso la creazione di spazi di celebrazione di grande qualità architettonica nei quali poter riscoprire quella ricerca di rispondenza tra liturgia e architettura che è stata alla base del pensiero lercariano sull’architettura sacra. 6

Christian Norberg-Schulz, L’Abitare, Electa, Milano, 1984.

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Claudia Manenti, Luoghi di identità e spazi del sacro nella città europea contemporanea, Franco Angeli, Milano, 2012.

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Kevin Lynch, L’immagine della città, Marsilio Editori, Venezia, 2001.

3. Interno della chiesa di Sant’Eugenio. Progetto Luciano Lullini (foto Manenti)

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UN’OCCASIONE MANCATA. IL COMPLESSO

PARROCCHIALE DI SANTA MARGHERITA MARIA ALACOQUE A ROMA

Lorenzo Grieco

Tra le grandi condizioni che la modernità ha richiesto all’arte è quella di farsi sintesi degli stimoli del proprio tempo. Istanza fondamentale dell’architettura è invece quella di essere del proprio spazio, ovvero di rispondere alle specifiche forme del contesto locale. La risposta del progettista può avvenire per contrasto o per affinità, ma in ogni caso deve essere consapevole della dialettica che si instaura tra il progetto architettonico e l’ambiente geografico-sociale in cui è radicato. Ma cosa succede se l’architettura parla attraverso le forme di un codice che non è compreso dalla popolazione? All’arte capita spesso, soprattutto in ambito sacro. Ne sono tristi esempi le rimozioni della cattedra di Jannis Kounellis dal Duomo di Reggio Emilia, o della croce di Arnaldo Pomodoro dalla chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo. Nel campo dell’architettura religiosa il caso si arricchisce di implicazioni non secondarie. L’architettura è innanzitutto l’esito di contingenze funzionali, sociali e culturali: è quindi opportuno che l’architettura sacra, in quanto espressione di una comunità, sia in grado di offrire risposta alle esigenze di quest’ultima. “Voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio” è scritto nei testi sacri, ribadendo la stretta identificazione tra la comunità e l’edificio atto ad ospitarla1. Quando la congruenza tra i due momenti, quello architettonico e quello sociale, è mancante, si

“Voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio” è scritto nei testi sacri, ribadendo la stretta identificazione tra la comunità e l’edificio atto ad ospitarla. 1

1 Corinzi 3:9.

1. Complesso parrocchiale di Santa Margherita Maria Alacoque, vista del volume della chiesa dal giardino.

crea un distacco: sia l’architettura che la vita della comunità ne risultano allora compromesse. L’estensione dell’edificio ecclesiale in un complesso parrocchiale, quindi l’inclusione delle funzioni liturgiche in un contesto socio-ricreativo, non è di per sé sufficiente a ristabilire il contatto tra la comunità e lo spazio. A dimostrazione di tale tesi è la sorte toccata al complesso parrocchiale di Santa Margherita Alacoque a Roma, unico esempio di architettura per il culto cattolico nella produzione dell’architetto milanese Italo Rota. Disegnato nel 2000 e inaugurato nel 2005, il complesso sorge nell’area di Tor Vergata, in quella periferia romana scelta da Giovanni Paolo II (1978-2005) per l’incontro con i giovani della Giornata Mondiale della Gioventù del 2000. Quella immaginata da Rota è una chiesa per la comunità, ma i destinatari del suo discorso sono anzitutto i giovani che animano la vicina università. Riconoscendo nella cultura giovanile la necessità di un rinato connubio tra religione e scienza, l’architetto concepisce un complesso di edifici che indagano il ruolo dell’uomo nel suo rapporto con natura, riti e tecnologia. Tale intento emerge nella scelta di una francescana relazione con il paesaggio, di un linguaggio architettonico diretto, di materiali tecnologici, accese cromie, forme primitive e un’organizzazione ramificata dei flussi. Il rapporto tra i volumi del progetto e il tessuto urbano risulta chiaro ma articolato. Il complesso si dispone nella città come una proposizione formata da parti distinguibili: un semplice volume compatto con tetto a doppia pendenza per l’aula liturgica, un prisma triangolare per l’oratorio, un corpo parallelepipedo per la canonica. L’architettura parla un linguaggio logico, anzi ermeneutico, il che spiega in parte le difficoltà simpatetiche con il contesto della città spontanea2. La composizione è costituita da elementi riconoscibili, che si dissolvono nell’arbitrarietà delle sensazioni percettive. Così la forma della domus ecclesia si mimetizza nell’azzurro del cielo, la canonica si inabissa nel terreno mentre la guglia dell’oratorio appare trasparente e incorporea. La moltitudine dei volumi è unificata dalla pervasività dei flussi dei fedeli all’interno del lotto: la disposizione degli ambienti e la sistematizzazione dei percorsi risulta allineata secondo un chiaro intento iniziatico. I movimenti del visitatore tra gli spazi del com2 A tal proposito ben si addice la definizione di proposizione in Ludwig J. J. Wittgenstein, Werkausgabe, Band I, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1984, p. 105: “La proposizione è una configurazione con i tratti logici del rappresentato e altri tratti ancora, ma questi saranno arbitrari e diversi nei diversi linguaggi segnici”. Ringrazio Dario Zucchello per aver favorito la comprensione del filosofo tedesco.

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plesso parrocchiale riecheggiano il viaggio dell’anima nel processo di purificazione, tracciando un percorso taumaturgico che associa i due piani del viaggio reale e spirituale. Lo spostamento assume un valore progressivo, come sottolineato dalle pendenze dei percorsi e dalla disposizione di soglie visive e architettoniche da attraversare, strutturandosi secondo le sequenze tipiche delle esperienze mistiche. Tra queste si addice particolarmente a un paragone il viaggio descritto da san Giovanni della Croce (1542-1591) nella Salita al Monte Carmelo3. Secondo il mistico spagnolo, per raggiungere la vetta divina, l’animo umano deve attraversare due notti: nella prima, la notte dei sensi, si libera delle istanze sensibili; nella seconda, la notte dello spirito, si libera delle false credenze. Sulla base di un cammino salvifico era tracciato il diagramma dei flussi nel progetto originale del complesso di S. Margherita, il quale prevedeva che il credente accedesse all’aula liturgica mediante un percorso esterno che scendeva nel terreno, alla maniera di un moderno dromos4. L’inclinazione del percorso è oggi inesistente; ne rimane traccia solo nella pendenza del primo tratto di pavimentazione dell’aula. L’aula progettata da Rota riflette questo meccanismo di liberazione: il semplice minimalismo e l’iconoclasta mancanza di figurazioni rappresentano l’affrancamento dal sensibile, mentre il riscatto dai falsi assoluti dell’intelligenza è propugnato dai meccanismi architettonici, che contraddicono la loro stessa natura fisica. Contraddittorie risultano le quattro grandi colonne, realizzate non in materiale eterno come vorrebbe la tradizione architettonica (basti pensare alle teorie di colonne monolitiche di spoglio nelle basiliche paleocristiane), bensì con rocchi cavi in resina traslucida. Collocate sul perimetro delle due finestre zenitali delineando una configurazione a ciborio, le colonne risultano a una vista più attenta staccate dalla struttura. Non hanno valore strutturale, come denunciato dal vuoto che intercorre tra il capitello e la trabeazione che delimita il vano lucifero. Secondo il progetto primitivo, altri elementi avrebbero enfatizzato l’impressione di una esperienza mistica. La superficie interna dei lucernari avrebbe dovuto essere arricchita da pellicole dorate, trasformando la percezione dello spazio mediante l’aggiunta di vere e proprie “camere di luce” di stampo barocco. L’abside, che oggi appare piatto, avrebbe accolto una struttura fluttuante, configurata come un’apparizione. Questa porzione di calotta appesa avrebbe interpretato il tema architettonico dell’abside concavo, declinandolo nella forma di un manto celeste5. Fino pochi anni fa il pavimento dell’aula proseguiva il declino del percorso esterno, ma nelle parti laterali una leggera salita conduceva sino al livello del presbiterio, innalzato su di un podio di tre gradini. A oggi due pareti in cartongesso chiudono l’approdo delle rampe ai fianchi dell’altare per delimitare due cappelle semi-indipendenti, sopperendo all’assenza di spazi per il raccoglimento. L’altro fulcro della composizione è l’oratorio, il monte dove la divinità si rivela e l’uomo si incontra con Dio, materializzazione dei vari Oreb, Sinai e Carmelo6. Il basso volume dell’oratorio, che ospita la sala per gli incontri nonché ambienti destinati ad archivio e ufficio, è coronato da una struttura metallica bianca, reminiscenza dei vicini vigneti. Lo spazio superiore veniva concepito dal progettista come un giardino pieno di fiori, la Grotta della Vergine, in cui avrebbero trovato collocazione le campane, aprendosi sul cielo alla maniera di una potente ierofania atmosferica.

I movimenti del visitatore tra gli spazi del complesso parrocchiale riecheggiano il viaggio dell’anima nel processo di purificazione, tracciando un percorso taumaturgico che associa i due piani del viaggio reale e spirituale.

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Giovanni Della Croce, Salita al Monte Carmelo, trad. E. Bistazzoni, Roma, Fazi, 2006.

4

Ingresso scavato nel terreno che conduce all’ambiente di sepoltura nelle tombe ipogee.

L’abside celeste risulta evidente nella prospettiva pubblicata in Maria Giulia Zunino, “Complesso Parrocchiale Santa Margherita Maria Alacoque”, in Abitare n. 408, 2001, p. 82. È lecito un parallelismo iconografico con il manto delle Madonne della Misericordia.

5

In Eliade Mircea, Trattato di Storia delle Religioni, Torino, Boringhieri, 1976, p. 277: “Spesso la montagna è considerata punto d’incontro del cielo e della terra; quindi un ‘centro’, punto per il quale passa l’Asse del Mondo, regione satura di sacro, luogo ove possono attuarsi i passaggi fra le zone cosmiche diverse”. A proposito della simbologia del monte nell’opera di S. Giovanni della Croce si legga Federico Ruiz, “Introduzione alla Salita del Monte Carmelo”, in Rivista di vita spirituale n. 64, 2010, p. 360.

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2, 3, 4. Il complesso parrocchiale di Santa Margherita Maria Alacoque a Tor Vergata, Roma. - Vista dal giardino, interno del prisma campanario e giustapposizione tra il volume compatto della chiesa e quello traforato dell’oratorio/campanile.


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Le implicazioni simboliche dell’architettura risultano mediate da un’estetica moderna, influenzata dalle culture giovanili della tecnologia e dell’arte pop. Così le decorazioni che dovevano adornare i lucernari, o il mosaico rosso originariamente previsto per la pavimentazione, avrebbero parlato il linguaggio informatico dei pixel; le colonne, ancora più trasparenti, si sarebbero trasformate in lame di luce; il confessionale, come avveniva prima delle modifiche, avrebbe mostrato un impaginato ligneo vicino alle esplorazioni di Joe Tilson7. Diversa è la questione degli altri arredi in legno, nella maggior parte provenienti del palco papale progettato da Marco Petreschi per la Giornata Mondiale della Gioventù8. Le molteplici vocazioni di quest’architettura per la comunità sono state, come evidente da un rapido sopralluogo, troncate da elementi contingenti. Primo tra tutti quello economico, che ha impedito la realizzazione di una parte cospicua del progetto, dagli spazi sportivi sino alle apparecchiature liturgiche. Tra queste le campane, sostituite da una timida campanella esterna al prisma metallico, o il grande abside sospeso mai realizzato. Naturalmente la scarsa interazione in fase progettuale tra il committente (il Provveditorato per le Opere Pubbliche della Regione Lazio), il progettista e la Curia Diocesana hanno contribuito a creare l’attuale distanza tra la comunità e il suo luogo di culto. La reazione della comunità è stata quella di un’occupazione estetica dello spazio. All’interno della grande aula unica sono stati innalzati i muri delle cappelle; lo spoglio minimalismo dell’abside, che ospitava una semplice croce in legno, è stato intaccato dalla vista della Gerusalemme dipinta da un parrocchiano; la cornice in polistirolo di quest’ultima si sovrappone alle paraste della parete di fondo. Lo stesso effetto hanno statue in resina, drappeggi, piedistalli e balaustri in gesso, che si allontanano dalle intenzioni originarie. Sulla legittimità di tali interventi il discorso è aperto.

A lato 5, 6. Santa Margherita Maria Alacoque a Tor Vergata, Roma - Interno, presbiterio con le cappelle ricavate ai lati dell’altare e sistema di illuminazione zenitale. In questa pagina 7. Piero della Francesca, Madonna della Misericordia, Sansepolcro, Pinacoteca Comunale, 1460.

Forse l’aspetto del sacro risiede proprio in questa contrapposizione tra grammatica aulica e interpretazione vernacolare. Contrapposizione divenuta caratteristica in un tempo che “a differenza di quanto accadeva nella Roma antica, nella Grecia o nelle civiltà precolombiane, ha accanto all’arte una non-arte, che però è anche arte”9.

7

Artista britannico riconosciuto tra i padri della Pop Art.

8

Vedi Marco Petreschi, “Riflessioni sulla costruzione di uno spazio sacro”, in Thema n. 7, 2017, pp. 72-77.

9

Gillo Dorfles, “Il Kitsch, eterna costante dell’arte”, intervista di Valentina Tosoni, Exibart.com, 13 giugno 2012.

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IL MARGINE,

NUOVA CENTRALITÀ “… AN INNER OPEN SPACE FOR THE INHABITANTS…” L. KAHN Alessandro Bellini

Negli strati geologici profondi e nelle geografie del paesaggio “di superficie” può rintracciarsi tangibilmente la storia stessa delle città. Quando si perde il contatto con la geografia si perde spesso anche il “senso della storia”. Il paesaggio non è tanto un fenomeno da contemplare e, nel caso più estremo da tutelare, ma piuttosto un soggetto da ascoltare e dal quale è possibile ricavarne materia per il progetto. Ri-conoscere in senso letterale significa restituire evidenza fisica a quegli elementi che, nella contemporaneità, non sembrano più mostrare capacità di racconto, tanto da essere divenuti invisibili. Rendere dunque leggibile e motivata l’appartenenza di quella piccola porzione di paesaggio, in cui ci si andrà ad insediare, costituisce già una premessa al progetto. La ricerca di relazioni tra complesso parrocchiale e paesaggio, urbano o rurale che sia, è una ricerca della definizione del confine con la città. “Quello del percorso è dunque uno spazio anteriore allo spazio architettonico, uno spazio immateriale con significati simbolico-religiosi.” I pellegrinaggi hanno avuto un ruolo determinante nella strutturazione fisica del nostro continente e i tracciati lungo i quali si svolgevano non avevano solamente un’identità locale ma già un’identità europea ante litteram. Il percorso diventa pertanto elemento generativo, è la dimensione capace di appartenere sia alla civiltà errante che a quella insediata. Ecco allora che il recinto cerca di differenziarsi da mero elemento di recinzione o di chiusura. La ricerca del margine quale elemento “significante” dà unitarietà al lotto, non solo visiva ma anche di senso. Le funzioni diventano materiale di risulta, rispetto ai percorsi ed ai vuoti che scavano il complesso, in una continuità tra interno ed esterno ben rappresentata dalla pianta di Nolli (Roma 1748).

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1. Incisioni rupestri, Val Camonica, 10 000 a.C. 2. Recinzione di una chiesetta alla periferia di Foggia, atti vandalici. 3. G.B.Nolli, Nuova Topografia di Roma.


4, 5. Complesso parrocchiale di S. Maria del Carmine – Architetto: © AB/A Alessandro Bellini Architect. 6. S.Maria la Carità (NA)_Anno 2014 © Virginlemon

Il carattere monodimensionale della linea acquisisce un proprio spessore, mutando così il concetto di limite (limes) in soglia (limen), fra distinte realtà. Questo espediente aiuta a dare unitarietà al complesso e a generare quella preparazione necessaria al rito (riti di separazione nella distinzione che van Gennep ha teorizzato). La soglia segnala l’ingresso in una porzione di territorio che, non solo nell’aula, ma anche nelle altre sue parti, ritrova, un’idea di altro (differenza e non separazione) rispetto all’intorno, al contempo facendone parte. Il tema del limite, che nel caso specifico diventa recinto sacro, nella città contemporanea si pone spesso come sfida di riqualificazione o di definizione di senso per paesaggi, se non degradati, quantomeno marginali. La città storica può essere vista come un collante che tiene 32

7, 8. Complesso parrocchiale di S. Andrea Avellino – Architetto: © AB/A Alessandro Bellini Architect. 9. Francavilla in Sinni (PZ)_Anno 2014 © AB/A

10/13. St. Trinitatis Church - Architetto: © Schulz und Schulz _ Leipzig, Germany _ Anno: 2015


insieme le emergenze e i monumenti più rappresentativi; in essa si leggono compiutamente le relazioni espresse negli spazi pubblici (strade, piazze, portici) dunque dall’esterno. La città contemporanea, comunemente associata al concetto di periferia, sembra invece indurre una lettura dall’interno verso l’esterno dello spazio dell’abitare. Se la prima la chiesa-menhir viene assorbita e metabolizzata dal tessuto, nella città contemporanea, essa rischia di presentarsi come una “cattedrale nel deserto”. Varrebbe forse più la pena guardare e pensare al percorso più che al menhir e tornare all’idea di chiesa-domus, per una dimensione

14/17. Dominikus Zentrum - Architetto: © meck architekten _ München-Nord, Germany _ Anno: 2008 © Gunter Bieringer

domestica capace di ripensare a questi luoghi quali spazi di rifugio e di relazione, ma soprattutto come spazi dell’abitare. Abitare, che non significa solo occupare fisicamente uno spazio, ma anche prendersene cura. In questo tempo sono state messe a margine alcune fragili certezze del Novecento dal quale abbiamo sicuramente imparato che esperimenti di “ingegnerizzazione sociale della forma” sono falliti; lavorare con il tempo è lavorare con dei gradi di libertà, è lavorare partendo dal vuoto. In esso il bisogno della comunità cristiana, di costruire la propria “casa”, e la società, che cerca di costruire la propria città, trovano un punto di raccordo non tanto nelle funzioni, che sono fissate a priori (i pieni), ma nelle relazioni e frizioni che si generano negli spazi pubblici e semipubblici. I complessi parrocchiali, qui proposti, contengono spazi per il rito, relazionali, per lo sport, etc. che sempre più fanno convergere nel centro parrocchiale persone anche di diverse fedi e culture. Il complesso parrocchiale viene sempre più letto come centro civico oltre che come polo-riferimento per la cristianità. Lo studio indaga quali sono gli elementi archetipici e invarianti del sistema per arrivare alla definizione di una cellula base che ogni volta si plasma alle esigenze dell’intorno, facendosi ibridare e aprendosi a nuove possibilità. Sebbene sia pressoché impossibile definire un linguaggio mediterraneo univoco, risulta verosimile riconoscere elementi formali, tipologici e tecnologici che accomunano i manufatti

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civili realizzati nel grande bacino sin dalle prime antropizzazioni. I casi esposti in seguito raccolgono riferimenti tipici delle architetture del bacino del mediterraneo, influenzate principalmente da fattori orografici e climatici; questi hanno sviluppato e conservato nel tempo una serie di archetipi da cui non avrebbero potuto prescindere senza veder compromessa la propria essenza. Trovare le ragioni di questi modelli e i fattori che hanno portato variazioni, conduce ancor più a legarci con le ragioni dello scavo e ad una geologia urbana che ci riporta metaforicamente ad “un ritorno alla terra” nei suoi valori archetipici. Ricercare ibridando questi modelli in altre figure e memorie, unitamente ai bisogni contemporanei, restituisce una chiave di lettura sostenibile-culturale circa il percorso di ricerca che si sta perseguendo. Il volume satura il recinto. Il percorso, la processualità, la luce e altre istanze lavorano come scavo nella materia in rapporto quasi simbiotico, trovando nel disegno finale il loro punto di equilibrio. Verranno di seguito proposti due progetti di concorso dello studio AB/A dove, si sono costruiti i rapporti tra le parti: la città, il complesso parrocchiale, la chiesa, l’aula e il rapporto tra queste e la comunità provando a tradurre in forma alcune riflessioni precedenti.

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18/20. Don Bosco Church - Architetto: © Dans Arhitekti _ Maribor, Slovenia _ Anno: 2010 © Miran Kambič

Nel progetto di concorso per il complesso parrocchiale di S. Maria del Carmine, il primo tracciamento si è concentrato sulla definizione dei caratteri fondamentali: Il recinto e il percorso. Il recinto, quale archetipo fondativo e di differenza tra sacro e profano, si riferisce non solo alla sacralità dell’edificio chiesa, simbolo del Cosmo, di cui mantiene l’orientamento est-ovest, ma anche a quei valori propri della comunità in cui si inserisce, testimoniati dalle vicine domus. Le caratteristiche del sito di S. Maria La Carità. Il sito, posto in una zona periferica e degradata di Castellammare di Stabia, motivano il bisogno di chiudersi senza però rinunciare a relazionarsi con l’intorno. Il percorso, come processualità capace di scandire l’iniziazione e di stabilire la comunicazione tra questo mondo e un mondo altro, è pensato in leggera pendenza, per giungere “sulla cima del monte”, luogo in cui è posto l’altare cubico. Alla luce, materiale architettonico e simbolo religioso trascendente, è affidata la metafora dell’azione salvifica; essa è sempre proveniente dall’alto ed è espressione fisica della provenienza simbolica del “totalmente Altro”. Nel progetto di concorso per il complesso parrocchiale S. Andrea Avellino a Francavilla in Sinni (PZ), invece, è l’orografia articolata della val-


lata del Sinni ad identificare gli elementi generatori del percorso progettuale: il declivio naturale, il tema dello scavo e la presenza dell’acqua. Il progetto allora indaga e fa proprio il luogo e ne accentua le valenze attraverso due elementi che si affiancano, identificando due livelli e due funzioni: la chiesa con la casa canonica e il complesso parrocchiale. Il progetto è anche occasione di memoria, di ricucitura: la ferita dell’abbazia distrutta in epoca napoleonica, elemento regolatore e ordinatore del luogo, viene rimarginata dall’insediamento del nuovo complesso e quindi dall’atto contemporaneo di “restituire” al luogo le pietre che furono usate come materiale di spoglio per edificare la città. Pensare all’architettura e agli inserimenti dei complessi come sottrazione piuttosto che di addizione aiuta, come si evince da altri casi studio raccolti in Europa, nella definizione di spazi architettonici e urbani ancor prima che forme. Il caso della chiesa St.Trinitatis è un caso emblematico rispetto al tema della memoria, poiché vi sono dei rimandi al passato (campanile), senza però rinunciare ad una nuova ed interessante costruzione spaziale. Il complesso satura il lotto di forma triangolare e si apre ai percorsi generando un interessante spazio vuoto centrale che, oltre a fungere da sagrato, può accogliere anche funzioni o attività impreviste o non prevedibili. Nel Dominikus Zentrum, il limite contiene le funzioni liberando lo spazio interno in un cortile capace di accogliervi una dimensione più intima. Interessante è l’aula con la parete opposta all’altare, che può aprirsi ed estendersi sulla soglia. Nel complesso della chiesa di Don Bosco, il volume satura ancora il recinto, nonostante tra esso e la città vi sia un parco a fungere da filtro. Lo scavo avviene con forme ellittiche irregolari, riprese anche per l’aula, trattata anch’essa come vuoto/scavo. Questi riferimenti ci mostrano come la chiesa e l’aula diventano spesso parte di un sistema più unitario: il complesso parrocchiale. I complessi parrocchiali funzionano come delle placche, citando Guy Debord, all’interno del liquido amniotico della città contemporanea. Gli interventi prima esposti ricercano, nei loro spazi pubblici nei vuoti, di generare delle “utopie”, ovvero luoghi di cultura, accettazione e relazione rispetto ai luoghi dello sterile consumo.

21. British castle floor plan, schizzo di L.Kahn. 22. Concept di concorso S.Maria del Carmine di A.Bellini. 23. Guide psychogeographique de Paris, G.Debord

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IL PAESAGGIO URBANO E LE

PARROCCHIE STORICHE.

ESPERIENZE DI ANALISI E DI PROGETTO Andrea De Sanctis

La soglia come spazio dell’incontro. L’esperienza del restauro della Cattedrale di Sant’Agapito Martire a Palestrina. La vicenda del restauro del sagrato e della facciata della Cattedrale di Sant’Agapito Martire in Palestrina è rappresentativa del modo in cui un progetto architettonico, anche di dimensioni contenute, sia in grado di incidere sulle dinamiche d’uso dello spazio collettivo e sui processi sociali di integrazione tra i diversi soggetti che animano la scena urbana, nel caso specifico in riferimento al rapporto tra città e spazio sacro. Il progetto è il risultato dell’esperienza concorsuale promossa dal Capitolo dei Canonici in occasione del IX centenario dell’intitolazione della Cattedrale. Nel concorso è stato richiesto ai progettisti di confrontarsi con il restauro della facciata e con la trasformazione del sagrato: il fine dell’operazione è la ridefinizione del medium tra spazio sacro e città. Uno spazio attualmente esclusivo e marginale, per il quale si immagina una vocazione di apertura alla vita urbana che preservi contemporaneamente il valore simbolico e rappresentativo del suolo consacrato. La Cattedrale di S. Agapito Martire è situata in una posizione privilegiata nel tessuto consolidato della città, subito a ridosso delle pendici del Santuario della Fortuna Primigenia e in asse rispetto al suo ingresso. Ciò che risulta problematico è il rapporto che il complesso parrocchiale intrattiene con la strada e con la vicina Piazza Regina Margherita situata lungo il fianco est della basilica. La competizione progettuale ha richiesto la risoluzione del rapporto con il contesto urbano attraverso un intervento architettonico di piccola scala ma in grado di confrontarsi con i vincoli imposti dal valore monumentale della preesistenza e dai differenti strati archeologici su cui essa insiste1. L’attuale sistemazione dell’area del sagrato, realizzata in seguito alla demolizione della Loggia delle Benedizioni, avvenuta nel 1957, si è dimostrata negli ultimi decenni inadeguata all’uso e alla fruizione della comunità che frequenta la Cattedrale. La collocazione del sagrato su un podio in posizione sopraelevata rispetto alla quota della strada e accessibile solamente attraverso la porzione centrale, in asse con il portale, rende l’accesso Gli studi a oggi più completi e sistematici sulla storia della Basilica-Cattedrale di Sant’Agapito Martire sono probabilmente quelli compiuti dall’archeologo Orazio Marucchi: Guida archeologica dell’antica Preneste. Pubblicata a cura della commissione per il restauro della Cattedrale di S.Agapito. Roma, Cuggiani, 1885; Memorie storiche della Cattedrale di Palestrina raccolte in occasione dell’ottavo centenario della consacrazione fatta dal Papa Pasquale II nel 1117, Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1918; Nuovi studi sull’antichissimo orologio solare di Palestrina, in Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, VI, 1927-29, Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana, pp. 77-84.

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esclusivo ed estraneo allo spazio della piazza, obbligando i visitatori a seguire una direttrice innaturale rispetto ai flussi di ingresso e uscita dall’edificio. Nella configurazione attuale, il percorso obbligato della scalinata per accedere alla Cattedrale, insieme alla rigida configurazione planimetrica, produce un effetto di barriera, condannando le due pur vaste porzioni laterali a una indeterminatezza tanto spaziale quanto funzionale. Un ulteriore proposito del bando di concorso ha posto al centro la questione relativa alla rappresentatività dell’ente attraverso l’intervento di riorganizzazione dei livelli di lettura e rimando della facciata, la cui principale criticità è allo stesso tempo il valore più significativo. Essa è infatti la rappresentazione di numerosi quanto disorganici interventi realizzati nel corso degli ultimi due secoli: la sopraelevazione del tetto risalente alla fine dell’ottocento e i controversi interventi di restauro del dopoguerra a cura di Furio Fasolo che riguardano la chiusura del fornice sovrastante l’ingresso e il rifacimento in cemento armato della copertura. Alla luce di quanto premesso, il primo premio del concorso è stato assegnato al raggruppamento, con capogruppo Daniele Frediani2, che ha saputo meglio interpretare il rinnovato rapporto tra l’edificio e il contesto urbano denso del centro storico. L’esclusività dello spazio prospiciente alla cattedrale è stata disinnescata ed è stato prefigurato un luogo aperto alla vita della comunità dei fedeli senza compromettere la necessaria leggibilità funzionale e simbolica dell’edificio. Il problema dell’isolamento dello spazio esterno dell’edificio di culto è peraltro un tema ricorrente che emerge nel momento in cui viene associato a spazi vuoti e indisponibili ad accogliere usi alternativi nel tentativo di conferirgli sacralità. Questo spazio atto a sottolineare la distanza dell’istituzione religiosa nei confronti dei suoi devoti soffre oggi di un disallineamento tra la forma rappresentativa e il mutato sentimento nel rapporto con la comunità. L’intervento premiato è riuscito a interpretare questo cambiamento con una proposta progettuale capace di ripensare il dispositivo di dialogo tra gli spazi sacri della spiritualità e la città. Il luogo delle celebrazioni si apre alle relazioni del quotidiano 2 Il gruppo vincitore del concorso, affidatario della progettazione definitiva ed esecutiva, è composto dagli architetti Daniele Frediani, Martina Morino, Raffaele Sciascia e dall’ingegnere Ulderico Sisinni, con l’architetto Gilda Magni (progettista illuminotecnico) e Andrea Rinaldi (artista). Attualmente risultano concluse la progettazione definitiva e l’acquisizione delle autorizzazioni previste.

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contemplando anche specifiche occasionalità d’uso nel corso delle stesse celebrazioni e processioni.

Tradizionalmente la sacralità di un edificio di culto è stata intensificata da questo spazio di discontinuità tra l’interno e la strada3. Il culmine di questo tentativo di impedire un uso pratico dello spazio esterno degli edifici di culto si è verificato nel medioevo come conseguenza di un rapporto con l’istituzione religiosa fondato sulla grande distanza tra il sacro e il profano 4.

1. La riconfigurazione del sagrato con la gradinata continua verso il corso e la piazza. 2. La facciata con gli interventi di restauro. 3. Prospettiva degli interventi di restauro sulla facciata.

Oggi i termini della questione sono profondamente cambiati: il rapporto degli enti religiosi con i fedeli e la comunità laica ha subìto una profonda trasformazione con una marcata tendenza verso l’apertura e l’integrazione con conseguenze inevitabili nella concezione spaziale e funzionale dei luoghi. I progettisti hanno interpretato lo spazio del sagrato come il luogo di incontro dei diversi attori che costituiscono la comunità religiosa definendo lo stesso come una soglia abitata, un limite sensibile: chi si presenta alla porta delle chiese deve sentirsi ospite gradito e atteso5. Pur insistendo sul basamento e sulle fondazioni del tempio di età repubblicana attribuito al culto di Giove6, l’intero intervento non interferisce con la quota archeologica posta poco al di sotto della superficie stradale. Da ciò Cfr. Richard Sennett, La coscienza dell’occhio. Progetto e vita sociale nelle città, Milano, Feltrinelli, 1992 pp. 19-31 (The Conscience of the Eye: The design and social life of cities, London, Faber and Faber, 1991).

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Ivi, p. 29.

Conferenza Episcopale Italiana. Conferenza Episcopale per la Liturgia, L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica. Nota Pastorale, Roma 31-05-1996. p. 25. 5

6 Fausto Zevi, Note di archeologia prenestina. Il Santuario della Fortuna e il tempio di Giove sotto la Cattedrale di S. Agapito, in Urbanistica e Architettura dell’antica Praeneste, atti del Convegno di Studi, a cura di B. Coari, Palestrina, Comune di Palestrina, 1989, pp. 33-46.


deriva la scelta dei progettisti di non operare ribassamenti e di mantenere la quota di rilevato esistente. La ridefinizione morfologica è contenuta nei limiti del perimetro che si interfaccia con la quota stradale rendendo il sagrato permeabile lungo tutta la sua estensione. La nuova pavimentazione del sagrato è realizzata in lastre di basalto di dimensione 30x60 cm, mentre i gradini sono costituiti da blocchi monolitici in travertino. Il numero di gradini asseconda il dislivello naturale della strada, aumentando verso Corso Pierluigi da Palestrina e diminuendo verso piazza Regina Margherita da un massimo di undici unità a un minimo di sei al piede della torre campanaria (Fig. 1). La scultura in bronzo di San Giovanni Paolo II, attualmente nell’angolo nord-occidentale, verrà posizionata su un podio allineato al filo stradale esistente e posta su una base rettangolare in travertino rilevata rispetto al piano del sagrato da un intaglio in sottosquadro. Nel restauro della facciata è stato privilegiato il significato delle stratificazioni come manifestazione sincronica della permanenza, come testimonianza della trasformazione dell’habitus rappresentativo dell’istituzione religiosa nel rapporto con la comunità nel tempo. Per queste motivazioni la proposta di restauro della facciata si configura come un intervento poco invasivo, volto ad armonizzare i segni e a ottimizzare la lettura e la comprensione delle fasi storiche e archeologiche che hanno interessato la fabbrica nel corso della sua storia. La scelta di lavorare per sottrazione e per consonanza è denunciata dall’opera di selezione rispetto ai molti segni presenti sulla facciata (Fig. 2). Con la demolizione della loggia delle benedizioni è emersa la struttura muraria in blocchi di tufo della cella del tempio repubblicano7, poi integrata dal restauro del Fasolo con lastre di peperino curiosamente ordinate e in accentuato rilievo.

Il rapporto tra materia storica e risarcimento ha guidato il progetto, conducendo alla ricomposizione dell’unità della facciata attraverso l’imposizione di una continuità materica e di orditura, accordando cromaticamente il nuovo con l’antico e assegnando alle partiture murarie il compito di caratterizzare piani architettonici di età differenti. Con lo stesso principio si è operato per il taglio e la sagomatura dello sporto sommitale in calcestruzzo armato e per la conseguente riconfigurazione degli spioventi del tetto (Fig. 3). La chiusura del finestrone posto sopra il portale d’ingresso ha privato la facciata del suo punto di luce e ancora più importante dell’elemento di sfondamento prospettico. Questo ha impoverito il rapporto con il sistema urbano del centro, in principio sostenuto attraverso il finestrone in asse con l’ingresso e in seguito ribadito dalla struttura della loggia delle benedizioni (Fig. 4). Nel progetto è stato proposto di rievocare questo rapporto prospettico attraverso la smaterializzazione della tamponatura di chiusura del varco finestrato grazie alla realizzazione di un mosaico iconografico in tessere di pasta vitrea applicato direttamente sul paramento murario. L’opera dichiaratamente contemporanea si inserisce nel partito architettonico come l’ulteriore livello di stratificazione dei tempi nel rapporto dei segni e sarà in grado di riflettere e rifrangere la luce riuscendo a conferire un valore rinnovato all’edificio sia sul piano percettivo che simbolico (Fig. 5). I corposi studi sulle testimonianze archeologiche emerse a Palestrina in seguito alle demolizioni degli anni Cinquanta sono emblematiche del ruolo preponderante che gli studi archeologici hanno avuto in quel periodo rispetto alle istanze architettoniche. La scarsa documentazione sulle vicende trasformative della Basilica-Cattedrale di Sant’Agapito Martire per tutta la seconda metà del XX° secolo è stata in parte raccolta e sistematizzata da Roberta Iacono durante le fasi di istruzione del Concorso di Idee e presentata in occasione del workshop preparatorio svoltosi il 14/11/2015 presso il Museo Archeologico Nazionale di Palestrina.

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4. Loggia delle Benedizioni da piazza Garibaldi, cartolina, anni ‘20. 5. S. Agapito Martire, Andrea Rinaldi: bozzetto per il nuovo mosaico da inserire nel fornice murato.



LA NOSTALGHIA

DI TARKOVSKIJ NELLA CHIESA DI SANT’ANTONIO A MENFI Isabella Daidone

Questo testo vuole svelare come lo sguardo melanconico e il singolare intreccio allegorico, narrato da Andrej Arsenevič Tarkovskij nell’opera cinematografica Nostalghia,1 ha accompagnato fedelmente tutto il percorso progettuale della Chiesa di Sant’Antonio a Menfi;2 elaborato da Vittorio Gregotti con la collaborazione di Mauro Galantino.3 Tale inedita lettura costituisce una ricostruzione critica fondata, qui narrata per la prima volta, suggerita da una breve intervista di chi scrive allo stesso Galantino.4 Come fra i due protagonisti del film, Gorcakov e Domenico, si instaura un intenso colloquio che cerca di risolvere la complessa questione di quale sia il ruolo dell’uomo sulla terra e di come sia possibile la sua espiazione; nel progetto il forte componimento dialogico fra Gregotti – progettista dell’opera – e Galantino – collaboratore al progetto – fa emergere l’interesse per una concezione olistica dell’architettura, nella quale una parte è legata al tutto. Il riferimento al dualismo tra spirito e materia si può sintetizzare nella famosa frase che Tarkovskij fa recitare al protagonista Domenico: «una goccia più una goccia, fanno una goccia più grande, e non due». A ben guardare questa dualità è presente in maniera velata nella Chiesa di Sant’Antonio – progetto 1993, realizzazione 1999/2004 – che è dislocata nella piazza principale del centro storico di Menfi (AG) lungo la costa sud occidentale della Sicilia, tra l’area archeologica di Selinunte e quella di Eraclea Minoa. Su tre lati la piazza è definita dal Castello Svevo, dalla torre Federiciana, dal Palazzo Pignatelli e dalla Chiesa. Il quarto lato si configura come una terrazza aperta sul paesaggio verde della campagna irrigua, offrendo la vista del più lontano orizzonte del mare. Il progetto ne ricompone i margini, proponendo la ricostruzione – con approccio non filologico – della torre e della Chiesa, crollate durante il terremoto del Belice nel 1968. Entrambe le architetture, pur mantenendo l’impianto volumetrico preesistente, esibiscono – grazie all’opportuno intervento di Gregotti – un linguaggio contemporaneo, e si configurano come volumi puri, caratterizzati dalla prevalenza del pieno sul vuoto, rivestiti interamente da un paramento in mattoni. L’ingresso della Chiesa – come nel progetto di Giovanni Michelucci per la 1 Il film Nostalghia (1983) di cui Andrej Tarkovskij fu sceneggiatore e regista, vinse il Grand Prix du cinéma de création al festival del cinema di Cannes, ex æquo con L’Argent di Robert Bresson.

Riguardo il progetto della Chiesa di Sant’Antonio a Menfi Cfr. Joseph Rykwert, Vittorio Gregotti & Associates, Rizzoli, Michigan 1996, p. 281 / Gregotti Associati, La costruzione dello spazio pubblico, Alinea, Firenze 2002 / Guido Morpurgo, Gregotti & Associates. The Architecture of Urban Landscape, Rizzoli, Milano 2014 / Isabella Daidone Chiesa e quartiere. Spazi sociali per la comunità, in Andrea Sciascia, Gaetano Cuccia, Emanuele Palazzotto, Adriana Sarro (a cura di), Architettura cultuale nel editerraneo, Franco Angeli, Milano 2015, pp. 31-38.

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3 Progetto: Gregotti Associati International (Vittorio Gregotti, Augusto Cagnardi, Michele Reginaldi con Mauro Galantino, Piero Carlucci, Agostino Cangemi, Cristina Calligaris). / Calcolo strutture: Antonio Cangemi Leto. / Restauro: Serena Bavastrelli, Mario Bonicelli, Bernardo Percassi, Luca Zigrino. / Dimensioni: mq 3000, numero sedute aula 160. / Cronologia: progetto 1993, costruzione 1999-2004. Cfr. http://www.dibaio.com/chiesa-oggi/materiali/redazionale/ilmanto-odierno-e-la-navata-del--700.aspx (03.01.2018). 4

Ci si riferisce all’incontro con Mauro Galantino del 30.09.2017 a Palermo.

Piero della Francesca, Madonna del parto, 1960

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Il riferimento al dualismo tra spirito e materia si può sintetizzare nella famosa frase che Tarkovskij fa recitare al protagonista Domenico: «una goccia più una goccia, fanno una goccia più grande, e non due»


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Banca di Pistoia – rappresenta un nodo significativo. Al di là della funzione, la soglia diviene parte di un percorso che conduce verso la meta; nel caso specifico inoltre, costituisce una risposta alla liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II in cui tutta la comunità diventa celebrante già dal varco.5 La scelta di ruotare l’asse liturgico e di orientarlo in modo ortogonale rispetto alla preesistenza qui incorporata – nonostante i forti dubbi del Parroco, abituato a celebrare in direzione del mare – ha trasformato i resti della navata nel nuovo abside. I progettisti esplicitarono in maniera chiara che, se la nuova Chiesa avesse avuto la stessa disposizione della precedente, nessuno si sarebbe accorto e avrebbe apprezzato la preesistenza a cui, difatti, tale rotazione ha dato nuovo significato. Un secondo ingresso avviene sempre dalla piazza grazie a uno svuotamento dello spigolo del nuovo volume che consente di accedere direttamente dal vecchio portale d’ingresso, rispetto al quale l’altare è posto sulla destra, al centro di quella che era la parete laterale. Poi, su richiesta esplicita del Parroco venne aggiunto un ulteriore ingresso centrale in direzione dell’altare, situato lungo la strada laterale, dalle cui ampie porte vetrate si mostra, di fronte, il presbiterio sopraelevato rispetto al livello dell’aula. Alle spalle dell’altare fanno da sfondo le antiche arcate della chiesa settecentesca.6 Le tre differenti altezze interne – la minore in corrispondenza dell’ingresso, quella intermedia dell’aula, la maggiore presso l’altare – producono la percezione di uno spazio in dilatazione. Le due chiese surreali del film Nostalghia – la Chiesa nell’acqua di San Vittorino e la Chiesa senza tetto dell’Abbazia di San Galgano – ritornano nel percorso ascensionale: una scala esterna7 collega direttamente la piazza al tetto che si rivela come uno spazio sacro in contemplazione, per la meditazione, per le celebrazioni liturgiche all’aperto e per svolgere altre funzioni legate alla comunità religiosa. Il progetto prevedeva, inoltre, un organo posto nel piano superiore funzionale sia alla Chiesa sottostante che a quella sine tecto in copertura. Il luogo della Chiesa/comunità,8 all’interno del tessuto complesso delle trame urbane, tende a proporsi come espressione di una forte centralità, la cui costituzione, in

Il luogo della Chiesa/ comunità, all’interno del tessuto complesso delle trame urbane, tende a proporsi come espressione di una forte centralità, la cui costituzione, in quanto tale, gioca un ruolo determinante nella definizione di parti di tessuto urbano consolidato o in formazione e, allo stesso tempo, intesse relazioni con la città.

5 «Il rapporto tra chiesa e quartiere ha valore qualificante rispetto a un ambiente urbano non di rado anonimo, che acquista fisionomia (e spesso anche denominazione) tramite questa presenza, capace di orientare e organizzare gli spazi esterni circostanti ed essere segno dell’istanza divina in mezzo agli uomini». Nota pastorale della Commissione episcopale per la Liturgia CEI, in La progettazione di nuove chiese, n. 6, 18 febbraio 1993 (PNC). La Nota pastorale citata – che sintetizza e chiarisce la normativa liturgica, riformata dal Concilio Vaticano II, e precisata con documenti ufficiali delle varie diocesi – sottolinea le esigenze prioritarie per la costruzione di nuove chiese anche in rapporto alla definizione di quegli elementi (il sagrato, il giardino, il cortile) destinati ad assolvere il ruolo di mediatori urbani nel rapporto con la città. Infatti, secondo la riforma liturgica, l’edificio della chiesa, in quanto luogo privilegiato di aggregazione delle comunità insediate celebranti, deve rispondere efficacemente alle necessità del progetto pastorale e culturale.

Alcune ipotesi suggeriscono che anche la chiesa settecentesca avesse inglobato, a sua volta, la preesistente chiesa della Madonna del Rosario. Cfr. Giuseppe Antista, Domenica Sutera (a cura di), Belice 1968-2008: Barocco perduto, barocco dimenticato, Edizioni Caracol, Palermo 2008. 6

7 Questa scala riecheggia, per forma e proporzione, la scena cruciale del film in cui Domenico dalla statua equestre di Marco Aurelio a piazza del Campidoglio, davanti un’ampia folla recita il suo monologo: «Quale antenato parla in me? Io non posso vivere contemporaneamente nella mia testa e nel mio corpo. Per questo non riesco a essere una sola persona. Sono capace di sentirmi un infinità di cose contemporaneamente. Il male vero del nostro tempo è che non ci sono più i grandi maestri. La strada del nostro cuore è coperta d’ombra. Bisogna ascoltare le voci che sembrano inutili. […] Bisogna riempire gli orecchi gli occhi di tutti noi di cose che siano all’inizio di un grande sogno. Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi. Non importa se poi non le costruiremo, bisogna alimentare il desiderio. […] Se volete che il mondo vada avanti dobbiamo tenerci per mano. Ci dobbiamo mescolare […]la società deve tornare unita e non così frammentata. Basterebbe osservare la natura per capire che la vita è semplice. E che bisogna tornare al punto di prima. In quel punto dove voi avete imboccato la strada sbagliata». 8

Cfr. nota n. 5.

1. La chiesa San Vittorino (Rieti, 1613) in un fotogramma del film Nostalghia. 2. Chiesa dell’Abbazia di San Galgano (Chiusdino, SI, 1288) in un fotogramma del film Nostalghia. 3/6. Chiesa di Sant’Antonio (Menfi, AG, 2004). Progetto di Vittorio Gregotti, collaboratore Mauro Galantino. Prospettiva, planimetria e interno.

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7/10.Chiesa di Sant’Antonio (Menfi, AG, 2004). Progetto di Vittorio Gregotti, collaboratore Mauro Galantino. Esterno, plastico, sezioni. A lato

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11, 12. Chiesa di Sant’Antonio (Menfi, AG, 2004). Progetto di Vittorio Gregotti, collaboratore Mauro Galantino. Pianta. 13. Piazza del Campidoglio, Roma, in un fotogramma del film Nostalghia.


quanto tale, gioca un ruolo determinante nella definizione di parti di tessuto urbano consolidato o in formazione e, allo stesso tempo, intesse relazioni con la città. La Chiesa è concepita come luogo di preghiera e di aggregazione sociale, perseguendo una molteplicità di funzioni attraverso i propri spazi, i suoi pieni e i suoi vuoti raggiungono efficacia e forza espressiva, riescono dunque a ridisegnare e a riqualificare contesti ben più ampi di quelli di più immediata pertinenza. L’articolazione volumetrica organizza su livelli diversi gli spazi per le funzioni di servizio: la biblioteca, la canonica, le aule parrocchiali e, attraverso l’espediente del tetto piano, offre altresì un luogo per scoprire e contemplare il paesaggio. Il dualismo fra spirito e materia è qui trasposto come la ricerca di un ideale equilibrio. A tal proposito, nel 1963 Ernesto Nathan Rogers, di cui Gregotti fu allievo, aveva affermato «l’operazione creativa viene influenzata da due azioni della memoria, o meglio dal rapporto dialettico di due tensioni opposte: la prima azione si rivolge al passato, trae alimento cosciente o subcosciente dalle esperienze già consumate per crearne di nuove. È il senso dei ricordi ancestrali […] del ripensamento; la rielaborazione per cui le cose già fatte continuano in noi, determinano una tradizione, cioè si portano avanti tramite noi, s’inverano nell’oggi, gli danno stabilità con fondamenta più ampie di quel che avrebbero se nascessero solo da noi. La memoria conferisce alle cose dello spazio la misura del tempo: di tutto quel tempo che è prima di noi. Ma è il tempo di coloro che ci hanno preceduti e in gran parte è il tempo dei morti, riuniti in consorzio per ammonirci di essere vivi, come essi sono stati nel loro momento».9 Il valore della memoria è chiaro negli ultimi fotogrammi del film Nostalghia dove si legge «Dedicato alla memoria di mia madre», non solo del regista, madre di tutti, La Madonna del parto di Piero della Francesca, già illustrata da Tarkovskij nei primi fotogrammi del film, ritorna nel finale in modo metaforico; pur sembrando dapprima contraddittorio, si rivela perfettamente concatenato. È un valore che, nella «composizione architettonica [come scrive Ernesto Nathan Rogers] si identifica in una metodologia e non in uno stile definito: ogni problema si risolve nell’espressione di forme storicizzabili; nell’immagine creata e non desunta per analogia di una precisabile realtà».10 Un tratto saliente che individua un possibile monito dove lo sguardo del progettista va al di là delle cose e «il tutto è qualcosa che va oltre la somma delle sue parti».11

ogni problema si risolve nell’espressione di forme storicizzabili; nell’immagine creata e non desunta per analogia di una precisabile realtà

Ernesto Nathan Rogers, Invenzione e memoria, in ID, Gli elementi del fenomeno architetnico, (a cura di Cesare De Seta), Marinotti, Milano 2014 (I° ed. 1963), pp. 72-73.

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10 Ernesto Nathan Rogers, Il dramma dell’architetto, in ID., Esperienza dell’architettura, (ultima ed. a cura di Luca Molinari), Skira, Milano 1977 (I. ed. 1958), p. 171. 11

Kurt Koffka, Principi di psicologia della forma, Bollati Boringhieri, Torino 1970 (I. ed. 1935).

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UNA BASILICA

CHE IDENTIFICA UN QUARTIERE. LA REALTÀ DI DON BOSCO A ROMA1 Alice Mattias

“Ecco, vedi? Tutta sta roba è venuta su dopo la guerra. Quando sono arrivato a Roma qui era tutto prato”. È così che Natale, il protagonista del film Il tetto di Vittorio De Sica2, si rivolge alla moglie Luisa durante la ricerca della loro casa nel quartiere Don Bosco di Roma. L’aperta campagna degli acquedotti romani, tanto decantata dagli artisti che compivano il loro Grand Tour3, ormai sta sparendo. Un regolare «alveare in cemento»4 sta sorgendo tra la zona storica e popolare del Quadraro, i recenti stabilimenti cinematografici di Cinecittà e l’ex aeroporto militare di Centocelle. Perno dell’intero quartiere e seme originario di questa imponente saldatura urbanistica è la basilica di Don Bosco. Il tempio votivo, nato a ricordo del padre fondatore dei Salesiani, è opera dell’architetto Gaetano Rapisardi (1893-1988), vincitore del concorso nazionale, bandito dalla Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia5. Se nel 1852 San Giovanni Bosco inaugurava la sua prima chiesa a Torino, sorta accanto all’area dell’oratorio, nel 1951 i Salesiani – divenendo i proprietari a Cinecittà di un terreno di 17.000 mq – vogliono creare uno spazio per i giovani, mediante l’articolazione delle diverse strutture necessarie a farlo vivere. Si crea così un’imponente costruzione architettonica, che trova nella chiesa l’elemento di cerniera tra la piazza antistante, aperta verso il «nuovo borgo che sta sorgendo»6, e l’oratorio retrostante, racchiuso tra gli edifici della scuola (ora residenza universitaria), del cinema, della palestra, degli uffici, della residenza per gli stessi Salesiani7. 1 Ringrazio il parroco di Don Bosco, Don Giancarlo Manieri, per la disponibilità accordatami, sia nel racconto dell’attuale organizzazione della comunità parrocchiale, sia nell’avermi aperto le porte dell’archivio, da cui provengono le immagini e le notizie storiche contenute in questo articolo.

Il film Il tetto (1956), diretto da Vittorio De Sica, documenta – tramite il racconto delle vicende della giovane coppia di Natale e Luisa – il fenomeno dei baraccati e dell’autocostruzione a Roma, molto diffuso in quegli anni.

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Nota è la definizione data agli acquedotti romani da J.W. Goethe nel suo Viaggio in Italia: «una successione di archi di trionfo».

4 Italo Insolera definisce «alveari di cemento» le zone romane costituite da edifici di otto, dieci, dodici piani e, quindi sottoposte alla legge del massimo sfruttamento edilizio (Italo Insolera, Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica 1870-1970, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1993, p. 194-195). 5 Per un approfondimento sulla costruzione della chiesa dedicata a San Giovanni Bosco nella zona di Cinecittà – Roma si rimanda al testo integrale del bando di concorso contenuto in Ruggero Pilla, La basilica di S. Giovanni Bosco in Roma, Società Editrice Internazionale, Torino, 1969, pp. 23-27. 6 L’espressione è tratta dalla lettera che l’Economo Generale dei Salesiani, Don Fedele Giraudi, invio il 25 marzo 1951 a S.E. Mons. Giovanni Costantini, Presidente della Pontificia Commissione Centrale per l’Arte Sacra in Italia (Ruggero Pilla, op. cit., p. 21).

Si sottolinea come, nella tradizione salesiana, l’oratorio è visto come casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola che avvia alla vita e cortile per giocare e fare amicizia.

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Basilica S. G. Bosco, Roma. Interno - Archivio parrocchiale di Don Bosco

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1. La chiesa di S. G. Bosco dall’alto Archivio parrocchiale di Don Bosco.


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2. La prima processione con la chiesa in costruzione - Archivio parrocchiale di Don Bosco. A lato 3. Gaetano Rapisardi, pianta della chiesa di S. G. Bosco - Archivio parrocchiale di Don Bosco. 4. Gaetano Rapisardi, sezione della chiesa di S. G. Bosco - Archivio parrocchiale di Don Bosco. 5. Veduta del quartiere - Archivio parrocchiale di Don Bosco

La chiesa è costituita dalla sovrapposizione del blocco rettangolare dell’aula liturgica (45x78 m) con i volumi delle cupole e delle torri campanarie posteriori, raggiungendo così un’altezza complessiva di 73 m8. In particolare, la parte alta è costituita da due tamburi cilindrici – uno di diametro di 40 m, l’altro di 18,40 m – e su entrambi sono impostate due calotte emisferiche. L’interno, invece, si presenta ricco di marmi, opere d’arte, vetrate colorate e si contrappone fortemente al candore dell’esterno9. Infatti, è il rivestimento in travertino ad accentuare la grandezza dimensionale della chiesa, contribuendo così a imporla quale monumento identitario di quartiere, tanto da darne il nome. Non è un caso che a Gaetano Rapisardi, oltre al progetto della chiesa, sarà affidato quello della stessa piazza10. Si crea così una continuità tra l’edificio religioso e le vicine abitazioni, riprendendo una sequenza urbanistica (chiesa-piazza-viale) derivata dall’esperienza mussoliniana nell’apertura di via della Conciliazione11. Inoltre, nel bando di concorso del 1951 8 La rilevante altezza dell’edificio farà incorrere in numerosi problemi con la vicina aeronautica militare insediata nell’ex aeroporto di Centocelle. In alcune lettere conservate nell’archivio parrocchiale di Don Bosco, l’aeronautica si lamentò in particolare della costruzione della cupola, poiché era localizzata troppo vicina alle piste di decollo e atterraggio dell’ex aeroporto di Centocelle. 9 Per un approfondimento sulle diverse opere d’arte presenti nella chiesa si rimanda a Ruggero Ciuffetti, La Basilica di San Giovanni Bosco in Roma, Tipolitografia Istituto Salesiano Pio XI, Roma, 2009.

Nel 1955 è il Comune di Roma ad affidare a Gaetano Rapisardi il progetto della piazza (Gaia Remiddi, Antonella Greco, Antonella Bonavita, Paola Ferri, Il moderno attraverso Roma. 200 architetture scelte, Palombi Editori, Roma, 2000, p. 130). In questo modo «(…) la chiesa diventa il fulcro, il riferimento di un complesso molto più articolato, di un sistema insediativo che dialoga con la città e che presenta elementi formali e funzionali interessanti e ricchi di implicazioni e risvolti sociali» (Donatella Forconi, Il sacro e l’architettura: materiali per il progetto della chiesa contemporanea, Kappa, Roma, 2005, p. 79).

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11 L’eliminazione della Spina di Borgo, iniziata nel 1936, è conclusa in occasione del Giubileo del 1950, quindi pressoché in contemporanea con l’avvio del progetto della chiesa di Don Bosco a Roma.


è specificato come la nuova costruzione debba assumere «quel nobile carattere che ha distinto in tutti i tempi l’architettura sacra ed ha costituito una delle glorie della Chiesa»12, pertanto non stupisce la scelta di Rapisardi a riprendere, in forme moderne, il tempio sacro per eccellenza, ovvero San Pietro. La chiesa di Don Bosco, nominata parrocchia nel 1953 e consacrata nel 1959, diventò il punto di riferimento spirituale dell’intero quartiere, tanto da accogliere nei primi anni ben 100.000 abitanti frequentanti. I 2.000 posti interni si presentavano gremiti dai giovani frequentanti l’Istituto Salesiano e dalle ragazze dell’adiacente Istituto delle Suore di Maria Ausiliatrice, nonché dalla popolazione che iniziava ad instaurarsi nelle nuove case limitrofe. Ancora oggi, l’articolazione interna della chiesa rispecchia l’iniziale suddivisione specificata nelle note esplicative dello stesso bando di concorso del 1951: «La Famiglia Salesiana raccoglie grandi masse di giovani nei suoi istituti, e questi giovani […] non possono essere sparsi e collocati comunque nel posto disponibile in mezzo al popolo. Sono invece raccolti nel braccio destro e sinistro del grande transetto, convenientemente separati dal pubblico e in condizioni di poter vedere l’altare e ascoltare la parola di Dio»13. La chiesa, quindi, nasce non come una comune parrocchia, ma come una comunità dalle esigenze più complesse, essendo connesse alle necessità scaturite dall’organizzazione della vita educativa dei giovani. Infatti, gli stessi spazi adibiti alle attività parrocchiali sono stati ricavati – come richiesto all’interno del bando di concorso – nella cripta della chiesa, lasciando l’istituto retrostante esclusivamente per i giovani. Questa è stata probabilmente una delle cause – insieme all’aumento della popolazione e all’estensione del quartiere – che ha portato il Vicariato di Roma a modificarne i confini e a istituire altre parrocchie, raggiungendo le odierne sei chiese di quartiere14. Tuttavia, la chiesa di Don Bosco non ha perso la sua importanza di prima istituzione religiosa della zona e nel 1965 è nominata basilica minore. Per le sue forme monumentali non sembra essere una chiesa di periferia, e negli anni si è evoluta passando da una parrocchia molto giovane, dove 200-250 chierichetti servivano abitualmente alla messa domenicale, ad una comunità sempre più anziana15. Il 27-30% 12

Ruggero Pilla, op. cit., p. 29.

13

Ivi, p. 30.

Alla chiesa di Don Bosco si aggiunsero progressivamente le parrocchie di Santa Maria Regina Mundi, San Bonaventura da Bagnoregio, San Gabriele dell’Addolorata, San Stanislao, Santa Maria Domenica Mazzarello.

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15 Come già specificato nella nota 1, le notizie relative all’attuale organizzazione parrocchiale sono state illustrate dal parroco Don Manieri direttamente alla scrivente.

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di frequentanti è ora rappresentato dai nonni del quartiere, che trovano in questa chiesa il luogo dove sono cresciuti. Anche per questo motivo i Salesiani hanno rielaborato le loro attività educative, mantenendo sempre l’oratorio per i giovani, ma introducendo dei laboratori, ad esempio d’informatica, proprio per gli anziani. L’evoluzione demografica del quartiere ha comportato anche la chiusura della scuola dell’Istituto Salesiano e la sua trasformazione in una residenza universitaria. Oltre al catechismo per i più piccoli, proposto sempre nello spirito di Don Bosco, sono nati numerosi gruppi e corali nel tentativo di coinvolgere le 40.000 persone residenti nei confini della parrocchia, senza contare gli stranieri sempre più presenti nel quartiere. Infatti, la moderna società industrializzata, che vede il sacro come un settore della vita prettamente individuale, distinto dalle altre attività dell’uomo, ha comportato il progressivo allontanamento dalla comunità religiosa16. La chiesa di Don Bosco geograficamente è rimasta una centralità di quartiere, ma si è trasformata per molti in un «luogo sociale dei grandi passaggi di vita» (nascita, matrimonio, morte)17. Ecco perché non dovrebbe stupire se da una parte ha fatto scalpore il funerale del 2015 di Vittorio Casamonica – trasformato in uno show con tanto di cavalli, Rolls-Royce, l’elicottero e la musica del Padrino – mentre dall’altra parte, all’abituale benedizione delle case per la Pasqua, non tutti sono disposti ad aprire il loro uscio di casa ai sacerdoti e volontari mandati dal parroco. Per tentare di ovviare a tale situazione la basilica di Don Bosco ha creato la sua “parrocchia digitale”, tentando così di comunicare con i mezzi ora più diffusi. La chiesa, quindi, non si ferma più all’interno dei suoi confini murari, ma cerca di arrivare alle persone in maniera apparentemente impersonale, per poi invitarle all’incontro18. Un incontro che inevitabilmente avviene sempre in un luogo, in un punto riconoscibile, noto alle persone coinvolte, distinguibile dagli altri e, quindi, inconfondibile, così come la chiesa di Don Bosco per il suo quartiere.

6. La chiesa vista dal viale S. G. Bosco Archivio parrocchiale di Don Bosco. A lato

Federica Rosy Romersa, Il rinnovamento della parrocchia nella Chiesa italiana dal Concilio ad oggi: esperienze, valutazioni, prospettive, Pontificia università lateranense, Roma, 1999, p. 28. 16

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Egidio e Mariella Barghiglioni, Luciano Meddi, Il futuro della parrocchia. Guida alle trasformazioni necessarie, Paoline, Milano, 2006, p. 40.

Papa Francesco, in occasione della 48esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (2014), ha affermato come non basti passare lungo le ‘strade’ digitali, e quindi essere semplicemente connessi, ma serva che la connessione sia accompagnata dall’incontro vero.

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7. L’esterno della chiesa visto dall’Istituto Salesiano - Archivio parrocchiale di Don Bosco. 8. Il fronte principale visto dalla piazza innevata nell’Epifania del 1983 - Archivio parrocchiale di Don Bosco.


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L’ORATORIO

PARROCCHIALE COME LUOGO DI VARIA ACCOGLIENZA E ATTIVITÀ SOCIALE Corrado Gavinelli

Secondo la mia esperienza di ragazzo vissuta nell’immediato Secondo Dopoguerra Mondiale in una località di paese in Piemonte dalla caratteristica condizione democristiana di quell’epoca, negli Anni Sessanta soprattutto, la mia giovinezza è trascorsa - in mancanza di altre possibilità di distrazione e attività collettive - nella esperienza comunitaria dell’Oratorio parrocchiale: dove, oltre alle pratiche religiose di consueta effettuazione rituale (messe, ritiri spirituali, riunioni sociali della gioventù cattolica; ma anche eventi teatrali specifici e feste occasionali), ho potuto sperimentare altre eccezionali esperienze giovanili, soprattutto sportive, ma anche culturali e comunitarie, altrimenti impossibili da ritrovare altrove e in altre forme aspetti sul luogo e a quei tempi. É un aspetto questo, che molti compagni e colleghi cosiddetti impegnati hanno poi rifiutato e criticato, anche aspramente (nonostante vi avessero partecipato e goduto dei vantaggi) quali condizioni di eccessivo servizio politico-clericale; ma che, per molti come me (un poco sospeso rispetto ai fatti importanti del mondo circostante, e con una forte tendenza alla indipendenza ed alla partecipatività cautelata, che inten-

devo non del tutto integrativamente impegnata ma attuata dall’esterno), ha offerto una opportunità unica di sviluppo: a me (e dunque agli altri) quale giovanotto in maturazione, ed a tutto l’insieme propositivooperativo delle attività svolte nell’Oratorio. I cui contenuti intrinseci (estranei al solo riferimento di rapporto con la situazione religioso-ideologica, ed anche al di fuori di una contingente referenzialità al periodo storico), se opportunamente sviluppati anche adesso nella loro opportuna adattazione alle esigenze attuali, possono offrire (ovviamente al pari ed insieme ad altre istitutività specifiche, civili e laiche, praticate altrove) alla vitalità dei luoghi urbani - non soltanto minori o paesani - una più completa ed allargata disponibilità effettuale, di propositività ed effettuazione. Il cinematografo e le pratiche sportive (calcio, tennis, pallacanestro, pattinaggio a rotelle e relativo hockey, calcio-balilla come veniva allora chiamato senza assurde reminiscenze fasciste - e il ping-pong o altri simili passatempi) erano l’attrattiva sostanziale dell’Oratorio, che molti tendevano a chiamare però anche Ricreatorio, per la parte notevole di divertimento che comportava quel luogo.

Un posto determinato e sicuro nel paese, riconoscibile ed unico, dove al passatempo piacevole si innestava anche la conoscenza multipla di reciprocità tra ragazzi Complesso parrocchiale della Pentecoste, Milano - Foto di Carlo Colombo

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di origine e consistenze sociali disparate (figli di contadini e impiegati, di professionisti, di emigrati dal Polesine, dalle varie condizioni di condizione povertà o benessere), che si incontravano e fraternizzavano in una attività collettiva condivisa e spensierata (senza barriere e ostilità; e -devo dirlo - priva di forzati incentivi di indottrinamento). 54

Devo confessare che quella situazione di accettazione dei ragazzi alla vita del Ricreo (questa era la dizione consueta usata da noi per riconoscere quello specifico sito oratorialricreatorio) indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa o ideologica, poteva apparire strana e incongrua nei confronti di una eterogeneità ideologico-politica che affondava nelle diversità di collegamento alle idee portanti dei partiti dell’epoca, era - in quella località di pochi abitanti che si conoscevano tutti personalmente e non avevano particolari velleità di contrasto e litigio se non in normali, e quieti, scambi di opinioni personali - una sorta di ideale condizione di integrazione differenziata, basata sulla amicizia innanzitutto, e sul rispetto reciproco (e sulla passione di solidarietà giovanile e sportiva). Un adeguato ripensamento di questa desueta istituzione ormai storica, e per molti versi abbandonata o altrimenti trasformata, contribuirebbe a nuove possibilità di interrelazione quartierale e cittadina con le organizzazioni diverse della società odierna, nelle indicazioni cui versa la ampiamente mutata situazione della vita e della cultura di epoca contemporanea (come similmente è avvenuto più avanti nella analoga istituzione dei Centri Sociali creati dal Partito Comunista, poi altrimenti evoluti verso altri ideologici intenti e programmi). Devo sinceramente dichiarare che non riesco adesso a specificare meglio gli aspetti tipici e minuti di tale reinvenzione operativa del Ricreo quale luogo di opportunità promozionale delle attività giovanili e cittadine, riconoscendo la non facile omogeneizzazione dei programmi istitutivi di questa istituzione cattolica con le altre più ampie esigenze culturali e politiche della restante popolazione. Ma per rendere più attuabile tale ipotetica mia utopia comunitaria, forse lo sviluppo di quanto avveniva all’Oratorio-Ricreatorio può

porgere qualche riferimento concreto di proposizione e operatività più collettivistico. Perché, oltre ai due perni edilizi di intrattenimento religioso e culturale composti rispettivamente dalla Cappella per le funzioni di culto (tuttavia non obbligatorie) e del Cinema, intorno ai quali si aggregavano gli impianti sportivi e i locali dei preti e chierici con i locali del Bar e le stanze disponibili di vario genere per giochi al coperto e attività di incontri interrelazionali, comprendenti una piccola Libreria ed altre attrezzature tecniche, era stata installata anche una Tipografia minima per la stampa e l’emissione (gratuitamente distribuita a tutte le famiglie del paese: e quindi di importante capillarità comunicativa) di un periodico settimanale a ciclostile, dall’inevitabile titolo Il Ricreo. Il quale pubblicava notizie e articoli locali - o commenti di altra importanza, italiana e internazionale non necessariamente (e scarsamente, devo dire) incentrati sulla condizione religiosa - prodotti dagli stessi ragazzi del Ricreatorio, che si ingegnavano così - a seconda delle loro capacità personali e attitudini scolastiche - a gestire le varie parti del giornale (di cui io mi ero preso, in riferimento alle mie inclinazioni artistiche, la pagina delle vignette disegnate, che componevo con laboriosa fatica esecutiva perché le figure - e le parole - dovevano venire incise, senza trapassarli, sui fogli della ciclostilatura: ottenendo così un soddisfacente successo e notorietà). Componevo a volte anche qualche saggio critico sull’arte, e perfino ottenni il secondo premio in un concorso indetto dal settimanale per un racconto inedito (il vincitore assoluto fu invece una mia collega ancòra studentessa come me - come si poteva immaginare - di indubbia fede cattolica praticante). Quella esperienza grafica marginale e localizzata, mi diede una certa destrezza di bulinatura, che poi riapplicai nella ancora più difficile creazione delle mie prime serigrafie d’arte (prodotte nel 1970


per la Galleria d’Avanguardia Sincron di Brescia), che personalmente disegnavo ed indicevo con il taglierino sulla pellicola trasparente (anch’essa da mantenere intatta da irrimediabili incisioni trapassanti). L’attività sportiva poi portò alla costituzione della prima squadra di calcio del paese, che arrivò a classificarsi nel girone piemontese della Quarta Divisione (prima della Serie C), e di cui sempre noi giovani partecipanti al Ricreatorio prestammo le prime candidature di atleti, debitamente tesserati ma scarsamente forniti, all’inizio di quella impresa pionieristica, di debito materiale sportivo agonistico (soprattutto le scarpe da calcio, elemosinate - già usate e scartate - dalla squadra della vicina città). Riuscimmo anche ad organizzare egregi

spettacoli teatrali e di giochi a quiz (che allora avevano un incredibile successo sulla scia dell’indimenticabile programma televisivo Lascia o Raddoppia) cui massicciamente partecipava tutta la popolazione con entusiasmo e riconoscenza. Era una attività molteplice e disparata, che procurava a noi attuatori un impegno sportivo-culturale pubblico serio e anche soddisfacente, in una occasione unica di intesa non soltanto per solidarietà reciproca tra noi ragazzi che la effettuavamo, ma anche per la esterna partecipazione cittadina, che coinvolgeva intensamente - e indistintamente - tutta una comunità urbana nelle sue eterogenee componenti culturali ed economico-sociali (assolutamente autogestite e al di fuori da ogni sospettabile ingerenza clericale).

Esistevano poi le adunanze più varie, imposte dall’alto della istituzione clericale o stabilite dai ragazzi con propria indipendente impostazione, dalla più differenziata qualità e consistenza: a partire dalle riunioni della Azione Cattolica, e del suo settore giovanile degli Aspiranti (verso cui avevo una decisa ritrosia di partecipazione, e scarsezza di interesse, a causa non soltanto della mia esplicita indipendenza ma anche per una dichiarata condizione laica: di quella organizzazione mi piaceva soltanto il distintivo! Anche se la presenza della croce la ritenevo eccessivamente esuberante), per giungere alle più spontanee associazioni da noi create (tra cui il Circolo del Libro, per il reciproco acquisto e scambio di volumi e riviste, o i Pomeriggi di Lettura e di discussione su tematiche varie).

Al di là pero di tali contingenze, era il legame di amicizia che si formava tra noi partecipanti, insieme ad una sorta di spirito di iniziativa a determinare interessanti e curiose opportunità reciproche - estendibili anche ad altri che ne volevano usufruire - di crescita culturale collettiva e di maturazione personale: la cui più ampia evoluzione su disparati attivismi ed argomenti ulteriori, ha condotto poi ognuno di noi alle proprie singole, o aggregate, incombenze individuali, nel settore del lavoro e della professione, e degli scambi umani.

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CHIESA, COMUNITÀ, CITTÀ. L’ESPERIENZA DI RUDOLF SCHWARZ*

Alessandro Tognon

Il teologo francese Louis Bouyer nel suo libro Architecture et liturgie definì la liturgia come “… nient’altro che il radunarsi dell’umanità nella casa del Padre.”1 Ma cosa si intende per “casa del Padre”? Che valenza può avere l’interno di questa particolare casa e in che modo invece il giungere verso essa assume uno specifico significato urbano? Soffermandoci su alcuni aspetti che l’architetto tedesco Rudolf Schwarz (1897-1961) espresse in una architettura che ancor prima di essere disegnata fu pensata e descritta (pensiero e materia direbbe Giordano Bruno), è possibile illustrare una delle molteplici risposte che un quesito come questo può generare. Molti interessi e persone hanno influenzato il pensiero teorico di Rudolf Schwarz: il rapporto tra l’uomo e il mondo inteso come metafora del proprio credo deriva dalle letture del filosofo a lui contemporaneo Ernst Cassirer, la ponderata accettazione delle novità tecnologiche applicate alle costruzioni fu oggetto di profonde discussioni con Romano Guardini, le esperienze progettuali con i Maestri Hans Poelzig, Dominikus Bohm, e con i colleghi Emil Steffann, Hans Schwippert e Johannes Krahn, il rapporto di amicizia che generò una prolungata corrispondenza con Mies van der Rohe allontanatosi dalla Germania dopo l’esperienza come Direttore del Bauhaus di Weimar. Grazie alla dimensione artistica unita ad una profonda fede Schwarz riuscì a esprimere la potenza evocatrice dell’arte nel mistero del sacro, stabilendo i principi di una propria teoria del progetto. Sulla questione si sofferma il liturgista Walter Zahner2, il più indicato a evidenziare quanto nelle chiese di Schwarz il sottile equilibrio tra le necessità di uno spazio sacro e la ricerca di una identità architettonica intellegibile predisposta ad accogliere le funzioni rituali liturgiche, debbano coesistere senza che né l’uno né l’altra smarriscano la loro componente simbolica. Walter Zahner chiarisce il delicato rapporto esistente tra architettura e liturgia, illustrando i momenti più decisivi della formazione di Schwarz in linea con le indicazioni impartite da Romano Guardini. L’esperienza editoriale comune come redattori della rivista Die Schildgenossen, le seguenti teorie di studio sulle figure di progetto come possibili configurazioni spaziali, sino alla stesura dei primi progetti, evidenziano una particolare attenzione su queste tematiche sino a generare una sorta di adesione morale a principi generatisi con la ricostruzione post bellica di una comunità, ancora prima che di un Paese. A Schwarz interessarono le potenzialità dell’architettura: a tal proposito è descritto un episodio dal suo allievo Dieter Baumgarten3 in merito alla questione della luce, quando viene descritto che più volte il suo Maestro pernottò all’interno di alcune basiliche per cogliere la presenza mediatrice ierofanica della prima luce del giorno. Rudolf Schwarz affermò che nei confronti del luogo su cui una chiesa è eretta, nel conservare il valore sacro di quel determinato spazio circoscritto, l’indipendenza dello stesso dalla sua futura funzione consente il mantenimento di un carattere di permanenza della forma che risulta necessaria perché ne sia riconosciuta una significativa valenza urbana. É con l’esclusività dell’architettura intesa come atto costruttivo nonché costitutivo che si attesta una 1

Louis Bouyer, Architettura e liturgia, Magnano Biella, Edizioni Qiqajon, 1994, p.14. (Architecture et liturgie, Paris, Bibliotèque du Cerf, 1967).

Walter Zahner, Rudolf Schwarz - Baumeister der Neuen Gemeinde. Ein Beitrag zum Gespräch zwischen Liturgietheologie und Architektur in der Liturgischen Bewegung, Altenberge, Oros-Verlag, 1992.

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Thomas Hasler, Architektur als Ausdruck - Rudolf Schwarz, Zurigo, gta, 2000, pp. 50,51.

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1. Cappella 1928, Cappella 1931, Cappella JI 1932, Chiesa provvisoria Hürtgenwald-Gey, 1946-49. Ridisegni

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Questo scritto è una sintesi di alcuni argomenti che sto trattando all’interno della ricerca di Dottorato, in corso presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna (XXXI° ciclo) dal titolo “Rudolf Schwarz. La costruzione dello spazio sacro” (Relatore Gino Malacarne).


É con l’esclusività dell’architettura intesa come atto costruttivo nonché costitutivo che si attesta una permanenza, che si stabilisce il rapporto che la stessa ha con la memoria di un particolare luogo, chiesa tra le case e punto di riferimento della comunità di fedeli che in essa si identifica

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2. a. Frauenfriedenskirche, progetto Opfergang, Francoforte sul Meno 1927 b. Chiesa parrocchiale Heiliggeist, progetto Mauer, Aquisgrana 1928 c. Chiesa parrocchiale St.Fronleichnam, Aquisgrana Rothe Erde 1929 d. Chiesa parrocchiale St.Mechtern, Colonia Ehrenfeld 1947-54 e. Chiesa parrocchiale St.Anna a Düren 1951-56 f. Chiesa parrocchiale St.Josef, Colonia Braunsfeld 1952-54. Ridisegni

A lato 3, 4. St.Anna a Düren, viste esterna e interna. Fotografie di Alessandro Tognon

permanenza, che si stabilisce il rapporto che la stessa ha con la memoria di un particolare luogo, chiesa tra le case e punto di riferimento della comunità di fedeli che in essa si identifica. Seguendo questa linea teorica di Schwarz, l’aspetto urbano di un luogo di culto oltre ad assumere un valore simbolico, diviene nel tempo parte di città, autonoma e indipendente, caratterizzata nel suo complesso dall’aula liturgica e da altri volumi che si erigono attorno agli spazi dell’accoglienza, esterni e interni, intesi come luoghi di transizione tra società civile e comunità religiosa. Nel 1938, tra le righe della sua più importante e incisiva pubblicazione Vom Bau der Kirche4- un libro che l’amico Mies van der Rohe commenterà dicendo che “avrà il potere di trasformare il nostro modo di pensare”- Schwarz mise a punto, in un periodo di grande innovazione tecnologica, una personale teoria del progetto di ispirazione teologica, prezioso contributo al dibattito degli anni ’30 e ’40 sull’adeguamento liturgico dello spazio sacro. La sua dimensione artistica unita alla conoscenza della storia della religione cattolica, strutturano l’enunciato cardine del suo pensiero: “La forma architettonica può essere concettualmente pensata con il solo disporsi di una comunità raccoltasi per pregare”. Un tale luogo può essere definito chiesa o, appunto, “casa del Padre”. L’analogia con l’affermazione di Bouyer (quest’ultimo pone come soggetto la liturgia mentre Schwarz si riferisce alla forma architettonica) fa intendere che il rapporto tra architettura e sacro, si potrebbe dire del delicato equilibrio che sottende queste due sfere, trova pur nella loro distanza dimensionale (l’architettura è un fatto concreto, il sacro una dimensione altra) un punto di incontro che si annuncia nella rappresentazione di una comunità che, unita in preghiera, partecipa al rito. Schwarz antepone il significato dello spazio che si vuole dedicare al culto, all’opera stessa: «La liturgia non è l’obiettivo, ma il soggetto del costruire chiese, e questo soggetto stesso non ha nessuno scopo.»5 Certi luoghi sacri vanno quindi, seguendo queste Rudolf Schwarz, Costruire la chiesa. Il senso liturgico nell’architettura sacra, Brescia, Morcelliana, 1999. (Vom Bau der Kirche,

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Würzburg, Werkbundverlag, 1938). Rudolf Schwarz, „Liturgie und Kirchenbau“, in Baukunst und Werkform, n.8, 1955, p.4.

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indicazioni, intesi come la mera rappresentazione della collettività che in essi si identifica. Al fine di esaltare il significato dello spazio sacro che si definisce nell’azione liturgica, nei simboli e nei segni che la contraddistinguono, Schwarz sancì l’indipendenza della forma architettonica dalla sua funzione, sino a enunciare che non esiste, di fatto, un’architettura liturgica. Esiste la liturgia che ha un compito ben preciso: accogliere il rito dal quale non può prescindere. Il rito è una azione che evoca e nutre il ricongiungimento con il mito: nel ripetersi di una azione si rinnova al fine di esaltare la singolarità originaria di un evento mitico6. Attorno a questa azione si costituisce tutta la liturgia e, di fatto, si costruisce il lŏcus che la accoglie. La liturgia quindi genera spazi. Tanto più la composizione degli spazi interni di una chiesa è coinvolta attraverso il suo apparato simbolico nella celebrazione dei santi misteri, nelle azioni e nei movimenti dei presbiteri e dopo il secondo Concilio anche dei laici, quanto più è definito il significato del dialogo tra l’uomo e il suo credo.

“Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama della umana esperienza”7. In merito alla valenza dei principi che hanno innescato la grande e prolifica discussione che a partire dagli anni ’30 ha animato il rinnovamento liturgico in Germania, è significativo citare quanto Schwarz scrisse nella relazione di progetto per la chiesa di St. Anna a Berlino del 1936 e progettata assieme a Emil Steffann: « L’azione di rinnovo liturgica deve partire dall’interno, come necessità di una nuova valutazione della comunità stessa, nel suo spirito di sacrificio. La costruzione viene dopo». Queste affermazioni viste in chiave urbana evidenziano una distanza tra aspetto formale e funzionale, tra valenza urbana e simbolica, che nel tempo trasforma una certa architettura in parte di città. Allo stesso tempo, mentre una chiesa o un complesso religioso, entità reali e visibili, divengono elementi urbani, la potenza evocatrice dell’arte ne rappresenta una invisibile realtà spirituale. Esiste un esempio concreto che estremizza questo concetto. Nel 1956, in occasione del LXXVII Congresso dei Cattolici Tedeschi, Schwarz progetta una grande Corona Sacra, in acciaio dorato, da sospendere sopra il prato dello stadio di Colonia, luogo scelto per l’incontro. Questa azione istituì di fatto un luogo liturgico, un luogo sacro, senza costruire nulla, ma circoscrivendo idealmente un grande spazio precedentemente privo di valenza, se non quella paesaggistica. Nel volume Kirchenbau. Welt vor der Schwelle8 pubblicato nel 1960 un anno prima della sua morte, Schwarz inserisce la Sacra Corona nell’elenco delle sue opere costruite: egli considerò quindi questa grande installazione provvisoria come un vero e proprio luogo Difatti l’origine della Messa è una azione, la fractio panis, designazione del rito dell’Eucaristia utilizzata da S. Paolo prima tra una ristretta comunità per poi divenire il momento più elevato del rito nella Messa come noi lo conosciamo oggi.

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7 Ernst Cassirer, An Essay on Man-An introduction to a philosophy of human culture, Yale University Press, New Haven, 1944 (tr. It. Saggio sull’uomo, Armando Armando, Roma, 1971, p. 80). Ernst Cassirer (18741945) è l’autore de La filosofia delle forme simboliche (1923-29): Schwarz, conoscitore della sua opera, coglie e sviluppa alcune sue teorie sulle forme simboliche, quali il linguaggio, l’arte, il mito e la scienza, che a suo dire strutturano il modo di vedere il mondo, creando alterni mondi di significati. In altre parole, la forma simbolica è un codice mediante il quale si esprime lo spirito umano. 8

Rudolf Schwarz, Kirchenbau. Welt vor der Schwelle, Heidelberg, F.H. Kerle, 1960, pp. 247-253.

La forma architettonica può essere concettualmente pensata con il solo disporsi di una comunità raccoltasi per pregare

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Quindi la presenza della navata laterale arricchisce il cammino dei fedeli di un’altra componente e di ulteriori significati, così come il nartece delle basiliche paleocristiane. Il percorso sacro giunto all’interno della chiesa si caratterizza di alcuni aspetti non immediatamente percepibili, allo scopo di accrescere il desiderio di conoscenza del mistero divino. Thomas Hasler12, parlando della chiesa di St.Fronleichnam ad Aquisgrana, evidenzia come il luogo sacro dell’altare non sia direttamente percepibile appena varcata la soglia dell’edificio. Questa attenzione alla percezione interna dei fedeli è un tema costante, come dimostra lo studio di altri progetti e la già citata chiesa parrocchiale di Düren, caratterizzata da due ingressi posti agli estremi opposti della navata laterale.

liturgico, una “casa del Padre”, evidente nel suo significato simbolico, senza l’utilizzo di muri, tetto, portali, finestre e altri elementi architettonici che solitamente compongono l’edificio-chiesa. Un luogo aperto immerso nella natura, dove il rito eucaristico, che per Schwarz non è solo commemorazione di un evento sacro bensì messa in scena di un’azione, riattualizza il “Tempo dell’origine”9 rinnovandone il mistero. Va rilevato che Schwarz, cattolico praticante dotato di una profonda cultura cristiana, personalmente operò con gratuità cristiana nella pienezza del tema con un “metodo partecipativo”10 che gli permise di mantenere sempre come soggetto principale la sacralità dello spazio, ispirazione per il raggiungimento della miglior forma architettonica.

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L’esempio della chiesa di St. Anna a Düren, una delle chiese più note di Schwarz, rivela altri aspetti che interessano il rapporto tra la chiesa e il ruolo urbano e sociale che essa assume. Già dai primi progetti per alcune piccole cappelle, si intravede questo interesse di Schwarz per uno spazio interno a supporto del principale. Queste piccole navate mantengono l’altezza del corpo principale, spazi a dimensione d’uomo, in cui ospitare gli arredi sacri posti lungo questi ambienti ribassati dove è possibile compiere atti religiosi (preghiera, confessione, via crucis) indipendentemente dal grande spazio dedicato alla celebrazione. Questa caratteristica, in particolare nell’esempio di Düren, assume un grande significato: l’intero complesso diviene metafora di una piccola città, composta di piazze, strade, muri, monumenti. Un fatto urbano complesso ma allo stesso tempo compiuto, caratterizzato dalla varietà della sua forma. Questi oggetti di pietra se intesi come elementi costitutivi di uno spazio pubblico, assumono una valenza che ricorda i monumenti urbani, figure di riferimento su cui orientarsi e con cui stabilire un rapporto che va oltre la propria funzione, quale attingere all’acqua benedetta o sostare per una preghiera di fronte alle spoglie di Sant’Anna. Allo stesso tempo, questi oggetti, dice Schwarz, non devono servire a una liturgia, ma essere liturgia, rappresentativi di una memoria ecclesia espressione di una tradizione millenaria: in questo concetto si delinea la questione del simbolo, di ciò che un oggetto rappresenta, di ciò che evoca. In particolare la religione, così come il linguaggio, il mito e l’arte, “fanno parte di questo universo [ci si riferisce all’universo simbolico], sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza”11. La navata laterale che Schwarz propone in alcune sue chiese del primo periodo, assume quindi un significato che va oltre l’aspetto formale che si definisce tra le proporzioni e nel ruolo che assume tra interno ed esterno: essa funge da elemento di transizione tra la chiesa e la città, costituendo un rapporto città/aula liturgica che a Düren è congiunto da una forma che si modifica lungo uno sviluppo longitudinale. In questi spazi i principi di trascendenza divina e di immanenza dell’uomo suggeriscono ulteriori interessanti considerazioni.

La particolare attenzione al percorso interno come prosecuzione di quello urbano negli spazi sacri eretti da Rudolf Schwarz, la mediazione visiva di attesa presente all’ingresso, il percepire il luogo sacro prima ancora della luce divina che si manifesta avvicinandosi all’altare, sono tutti elementi caratteristici che evidenziano il rapporto tra la città e l’edificio chiesa, tra architettura e sacro e molto più chiaramente tra l’uomo e Dio.

Sul tema del “Tempo dell’origine” vedi Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Gravellona Toce, Bollati Boringhieri, 2013, p.55. (Mircea Eliade, Le sacré et le profane, Paris, Gallimard, 1965).

9

Sul “metodo partecipativo” e auto-implicativo vedi Aldo Natale Terrin, introduzione a: Rudolf Otto, Il sacro. Sull’irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto con il razionale, Brescia, Morcelliana, 2011, pp.19-23 (Rudolf Otto, Das Heilige, 1917).

10

11 Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo, Roma, Ed. Armando Armando, 1971, p.80. (Ernst Cassirer, An Essay on Man - An introduction to a philisophy of human culture, New Haven, Yale University Press).

12

Thomas Hasler, Architektur als Ausdruck - Rudolf Schwarz, Zurigo, gta, 2000, p.141.


COSTRUIRE LA COMUNITÀ: L'ARCHITETTURA DEI CENTRI PARROCCHIALI HANNO SCRITTO PER THEMA 8I18 Alessandro Bellini. Architetto, la sua attività spazia tra architettura, urbanistica, design, grafica e arte. Collabora dal 2013 con il movimento di scultura Resilienza Italiana e dal 2014 con DeltArte, dal 2015 dirige e coordina il workshop di autocostruzione e fotografia canPO nel Delta del Po. Giorgio Corbetta. Architetto, dal 1989 lavora con l’Ufficio tecnico della Diocesi di Milano seguendo il coordinamento progettuale dei nuovi complessi parrocchiali del “Piano Montini”. Attualmente è il coordinatore della Sezione tecnica dell’Ufficio amministrativo diocesano. Isabella Daidone. Dottore di ricerca in Composizione architettonica e urbana presso l’Università di Palermo. Ha collaborato presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Palermo nell’ambito delle ricerche condotte da Marcello Panzarella e Andrea Sciascia. Andrea De Sanctis, architetto, dottorando di ricerca in Architettura, teorie e progetto (DiAP, Sapienza). Si occupa di indagare il rapporto tra architettura contemporanea e patrimonio esistente. Corrado Gavinelli. Architetto e Professore Associato di Storia della Architettura Contemporanea alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e Professore Straniero (Gaikoku-jin Kiyoshi) di Storia della Architettura alla School of Art and Design della Università di Tsukuba (Giappone). Medaglia all’UIA di Sofia (Bulgaria) nel 1985, e Targa CRUSM della Università Statale di Milano nel 2000. Si occupa prevalentemente di ricerca e insegnamento della Storia della Architettura, del Design, e delle Arti Visive. Fabio Guarrera, architetto, collabora alla didattica nei corsi di Composizione Architettonica presso la SDS di Architettura dell’Università di Catania. Ha conseguito nel 2007 il Master di 2° livello in Progettazione Architettonica degli Edifici per il Culto (IUAV –UniTN). Attualmente è in procinto di discutere la tesi di Dottorato in Composizione Architettonica presso lo IUAV di Venezia.

Lorenzo Grieco. Phd candidate in Storia dell’Architettura presso l’Università di Roma Tor Vergata. Le sue ricerche comprendono l’architettura contemporanea e la sua costruzione, in particolare l’evoluzione dell’edificio ecclesiale nel XX secolo in Italia e Svizzera. Laura Lazzaroni. Architetto, collabora con l’Ufficio Beni culturali, Arte sacra ed edilizia di Culto della Diocesi di Milano dal 2008 e partecipa alla Commissione d’arte sacra diocesana. È membro della Commissione Beni culturali e Paesaggio dell’Ordine degli Architetti di Monza e Brianza dal 2014. Claudia Manenti è architetto, docente a contratto presso le Facoltà di Architettura di Ferrara e di Cesena. Dal 2008 è direttore del Dies Domini Centro Studi per l’architettura sacra e la città della Fondazione Lercaro di Bologna e membro della Commissione di arte sacra della Diocesi di Bologna e di Ravenna. Dal 2008 è docente di Introduzione all’architettura liturgica presso il Pontificio Seminario Regionale di Bologna. Alice Mattias, svolge attività di didattica integrativa per la cattedra di Storia dell’architettura 2, di cui è titolare il prof. Saverio Sturm, presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre. Alessandro Tognon. Architetto, collaboratore con la Facoltà di Architettura di Venezia e Cesena su temi di architettura dell’edificio pubblico e la residenza. Dal 2011 è Presidente dell’Associazione Culturale Di Architettura e dirige la collana “Progetti di Architettura” (Il Poligrafo, Padova). Dal 2015 è PhD Student (ICAR 14) presso il Dipartimento di Architettura della Scuola di Ingegneria e Architettura con una ricerca sulle teorie compositive nella costruzione delle aule liturgiche di Rudolf Schwarz.


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