Thema 9|19

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+ biennale di venezia

vatican chapels

www.themaprogetto.it ISSN 2384-8413

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Giorgio Della Longa - Caterina Gattuso - Gaetano Ginex - Andrea Jasci Cimini Claudio Mazzanti - Valerio Pennasso - Luigi Prestinenza Puglisi - Carlo Pozzi Francesca Storaro - Claudio Varagnoli - Andrea Zonato

THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI




I CINQUE SENSI NELLA LITURGIA

Liturgia e accoglienza: rendere accessibile l’inaccessibile. Domenica 17 Febbraio 2019

ore 14:30 Le braccia aperte del Crocifisso

Lunedì 18 Febbraio 2019

ore 10:00 Spazi del commiato e riti per le esequie cristiane in una società multireligiosa ore 14:30 Rinati dall’acqua e dallo spirito: arte e catechesi - percorsi battesimali

Martedì 19 Febbraio 2019

ore 10:00 Liturgia e disabilità negli spazi ecclesiali ore 14:30 Il riscaldamento delle chiese storiche

La bellezza del Crocifisso I Spazio Mostra Liturgia e accoglienza I Spazio Mostra Percorsi di Riavvicinamento I II edizione

Artisti contemporanei a confronto con il mistero cristiano: la bellezza del Crocifisso

Punto di consulenza

BOLOGNAITALY 17/19FEBBRAIO2019

A supporto dei sacerdoti e degli operatori pastorali che vogliono confrontarsi su casi concreti di gestione degli spazi liturgici.

Due padiglioni per una ampia esposizione di articoli religiosi, arte sacra, oggetti e paramenti liturgici, arredamento, tecnologia al servizio della Chiesa. Tre giorni dedicati alla produzione e servizi per il mondo religioso.

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ISCRIZIONE AI CONVEGNI GRATUITA

INFO

17/19 Febbraio 2019 [da domenica a martedì] 9:30 - 18:00 Bologna Fiere, Ingresso Sud Moro Viale Aldo Moro, Bologna Padiglioni 33+34

Per operatori del settore, sacerdoti e collaboratori Registrazione obbligatoria su www.devotio.it o in fiera Registrazione obbligatoria su www.devotio.it o presso lo Spazio Arena [Padiglione 33]

È stato richiesto il riconoscimento di crediti formativi all'Ordine degli Architetti di Bologna. Esonero MIUR dalle attività scolastiche per frequentare i convegni. Segreteria Organizzativa T. +39 0542 641731 info@devotio.it - www.devotio.it


THEMA RIVISTA DEI BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

pg.

1.

Editoriale

3.

L’UFFICIO NAZIONALE PER I BENI CULTURALI ECCLESIASTICI E L’EDILIZIA DI CULTO DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA. UN PO’ DI STORIA.

Pubblicazione registrata presso il Tribunale di Pescara, con autorizzazione del 15/6/2011, registro di stampa 10/2011 ISSN 2384-8413 Editore

Centro Studi Architettura e Liturgia via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe)

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Direttore Responsabile

Francesca Rapini Redazione

via della Liberazione 1, Montesilvano (Pe) Emanuele Cavallini, Paola Renzetti, Stefano Cecamore Comitato Scientifico

Luigi Bartolomei, Goffredo Boselli, Fabrizio Capanni, Andrea Dall’Asta, Antonio de Grandis, Renato Laganà, Andrea Longhi, Giuseppe Pellitteri, Claudio Varagnoli

Mauro Forte Hanno collaborato:

Giorgio Della Longa, Caterina Gattuso, Gaetano Ginex, Andrea Jasci Cimini, Claudio Mazzanti, Valerio Pennasso, Luigi Prestinenza Puglisi, Carlo Pozzi, Francesca Storaro, Claudio Varagnoli, Andrea Zonato Credits & Copyrights

Legge 22 aprile 1941, n. 633 Art. 70 1. Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali. [...] 3. Il riassunto, la citazione o la riproduzione debbono essere sempre accompagnati dalla menzione del titolo dell’opera, dei nomi dell’autore, dell’editore e, se si tratti di traduzione, del traduttore, qualora tali indicazioni figurino sull’opera riprodotta. _____

Don Valerio Pennasso

IL TEMPO E LO SPAZIO DEL PATRIMONIO ECCLESIASTICO: IL CONVEGNO DELLA GREGORIANA SULLA DISMISSIONE DEGLI EDIFICI DI CULTO Claudio Varagnoli

13. L’USO DELLA CERAMICA NELL’ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL MODERNISMO CATALANO

Progetto grafico e impaginazione

Stefano Cecamore

Claudio Mazzanti

19. DALLA CERAMICA ALLA CITTÀ. TRE CHIESE DI GIO PONTI

Carlo Pozzi

27. LA SACRALITÀ DELLE VETTE. IL MONTE ROCCIAMELONE E I SUOI EDIFICI DI CULTO

Andrea Zonato

35. CUPOLE MAIOLICATE IN CALABRIA

Caterina Gattuso

41. I DOLCI INGRANAGGI DELLA RECIPROCITÀ CHIESA CATTOLICA ALL’AJA PASTOOR VAN ARS

Gaetano Ginex

51. IDEAZIONE LUMINISTICA COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN BERNARDINO, L’AQUILA

Dove non esplicitamente indicato negli articoli, il materiale fotografico è di proprietà dell'autore del testo o scaricabile liberamente da internet.

Francesca Storaro

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57. TRA SACRO E PROFANO

In copertina

Chiesa Pastoor Van Ars a Loosduinen. Foto Peter de Ruig

Andrea Jasci Cimini

60. VATICAN CHAPEL REPORTAGE FOTOGRAFICO

PONTIFICIUM CONSILIUM DE CULTURA

Giorgio Della Longa

59. INTERVISTA A LUIGI PRESTINENZA PUGLISI

THEMA è patrocinata dal

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THEMA 9/19 2019 periodico semestrale

Alessio de Lazzari - Andrea Cimini Jasci


MAGAZINE DI ARCHITETTURA, ARTE SACRA E BENI CULTURALI ECCLESIASTICI

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CENTRO STUDI ARCHITETTURA E LITURGIA

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Editoriale Editoriale

Stefano Cecamore

I

l Centro Studi di Architettura e Liturgia di Pescara pubblica il nono numero della rivista dei Beni Culturali Ecclesiastici “Thema”, proponendo una serie di contributi maturati durante l’anno appena trascorso che ha assistito al debutto della Santa Sede alla Mostra Internazionale di Architettura di Venezia e si è chiuso con l’importante convegno“Dio non abita più qui? Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici”, organizzato a Roma dal Pontificio Consiglio della Cultura, dall’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto e dalla Pontificia Università Gregoriana. Come evidenziato da Claudio Varagnoli nel suo articolo, il mondo ecclesiastico, oggi più che mai, si pone domande sulle prospettive future del proprio patrimonio, frutto di secolari dinamiche di aggregazione territoriale e urbana delle comunità locali e nazionali. Di fronte alla crisi degli usi degli spazi cultuali e della riconoscibilità in essi della società, appare fondamentale riscoprire e ripercorrere gli innumerevoli significati e declinazioni che il sacro può assumere nel suo concretizzarsi in architettura e nel suo rapporto col paesaggio e le realtà urbane. Da questo presupposto nasce la volontà di individuare diversi filoni d’indagine del patrimonio ecclesiastico raccogliendo in questa miscellanea dei “percorsi a thema” che offrano vari spunti di lettura utili ad ampliare il panorama dei contenuti già proposti nei precedenti numeri della rivista. Alle riflessioni proposte sulla dismissione degli edifici di culto e a quelle di Don Valerio Pennasso sull’ordinamento e la gestione dei beni culturali e sulla nuova edilizia ecclesiastica, si aggiungono, quindi, oltre al report sulla Biennale di Architettura di Venezia, i contributi sull’uso di elementi e superfici ceramiche in architettura di Carlo Pozzi, Caterina Gattuso e Claudio Mazzanti, quelli di ideazione e progettazione luministica di Francesca e Vittorio Storaro e quello incentrato sullo stretto legame tra devozione e paesaggio di Andrea Zonato. L’articolo di Gaetano Ginex sulla chiesa Pastoor Van Ars a Loosduinen rinnova, poi, l’interesse e l’attenzione da sempre posti dal Centro Studi verso il progetto di architettura e la sua capacità di fondere in un elemento tangibile la chiesa intesa come edificio e come comunità. Thema 9 apre, allora, il nuovo anno confermando una linea editoriale già consolidata, aggiungendo elementi di riflessione e nuove questioni utili a stimolare il dibattito in corso e apporti innovativi sullo stretto legame tra arte, architettura e liturgia. La formula della raccolta miscellanea sarà adottata anche nel prossimo numero senza però trascurare la possibilità di realizzare nuovi pubblicazioni attraverso atti di convegno o call for papers, proposti su specifici temi di ricerca o accogliendo contenuti editoriali reperiti tramite il sito, ora in corso di aggiornamento.

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L’UFFICIO NAZIONALE PER I BENI CULTURALI ECCLESIASTICI E

L’EDILIZIA DI CULTO

DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA. UN PO’ DI STORIA. Valerio Pennasso

La Chiesa gestisce le proprie risorse finanziarie e immobiliari per conseguire la sua missione. Non è lecito infatti alla Chiesa possedere beni temporali per fini diversi da quelli che le sono propri o in una misura eccessiva rispetto alla necessità del loro conseguimento. Il Concilio afferma che «la Chiesa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede» (GS 76). Certamente tra i fini caratterizzanti la missione della Chiesa rientra l’ordinamento del culto (cf. PO 17 e can. 1254 § 2); sappiamo quanto sia importante disporre di edifici e beni destinati al suo esercizio, quanto siano necessarie le chiese ma anche i locali destinati alla catechesi, alla carità, a contribuire alla socialità delle persone. Nell’esperienza plurimillenaria della Chiesa, l’ordinamento degli edifici e arredi destinati al culto è sempre stato considerato tra i fini prioritari della gestione dei beni temporali. Papa Gelasio nella Lettera ai vescovi di Lucania, dei Bruzi e di Sicilia dell’11 marzo 494: «Sia delle rendite che delle offerte dei fedeli, secondo quanto consente la disponibilità di ciascuna Chiesa, come da tempo è stato stabilito ragionevolmente, conviene fare quattro parti: una per il pontefice, una seconda per i chierici, una terza per i poveri, una quarta da utilizzare per gli edifici».

1. Un po' di storia La necessità di provvedere alle esigenze di culto della popolazione italiana ha trovato modalità anche diverse, che si sono strutturate nel tempo. Ne ripercorriamo i tratti essenziali relativamente alla nuova edilizia di culto e al restauro degli edifici storici.

Edilizia di culto In attuazione degli Accordi di palazzo Madama del 18 febbraio 1984, sulla base della legge n. 222 del 20 maggio 1985, alla Conferenza episcopale italiana è stato affidato il compito di determinare annualmente le destinazioni delle somme provenienti dall’8 per mille (art. 41) da utilizzare per “esigenze di culto della popolazione, sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo” (art. 48). Fra queste somme anche le quote per la costruzione di nuove chiese in Italia. In precedenza la legge attribuiva alla Pontificia commissione centrale per l’arte sacra il compito di curare sia il profilo funzionale e liturgico sia quello architettonico e artistico con la specifica funzione di promuovere e razionalizzare tutta l’attività riguardante l’edilizia di culto in Italia. Chiesa S. Maria della Pietà - Calascio (AQ). Foto di Nicola De Camillis Baiocchi

Certamente tra i fini caratterizzanti la missione della Chiesa rientra l’ordinamento del culto; sappiamo quanto sia importante disporre di edifici e beni destinati al suo esercizio, quanto siano necessarie le chiese ma anche i locali destinati alla catechesi, alla carità, a contribuire alla socialità delle persone. Nell’esperienza plurimillenaria della Chiesa, l’ordinamento degli edifici e arredi destinati al culto è sempre stato considerato tra i fini prioritari della gestione dei beni temporali.

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La Pontificia commissione centrale per l’arte sacra viene costituita da Papa Pio XI il 1° settembre 1924 come superiore organo consultivo ed esecutivo. Tra i principali compiti vi erano quelli della tutela e dell’incremento dell’arte sacra. Solo dopo la seconda guerra mondiale estese la sua competenza sulle nuove chiese. Essa fungeva da tramite tra le diocesi italiane e il Ministero, aveva il compito di approvare i progetti inviati dai vescovi secondo il profilo funzionale, liturgico, artistico e architettonico con la specifica funzione di promuovere e razionalizzare l’attività riguardante l’edilizia di culto.

tuisce la Consulta Nazionale per i beni culturali ecclesiastici, con il compito di approfondire i problemi connessi alla loro promozione, valorizzazione, tutela e conservazione, in accordo con gli orientamenti proposti dalla Pontificia commissione per la conservazione del patrimonio artistico e storico della Chiesa. La Consulta nazionale propone ai vescovi italiani una bozza di documento rielaborato successivamente attraverso una larga consultazione. Il testo definitivo, I beni culturali della Chiesa in Italia, è stato approvato dalla XXXVI Assemblea generale del 2629 ottobre 1992.

Al fine di provvedere alla costruzione di nuove chiese la XXXII Assemblea generale della CEI del 14-18 maggio 1990 disciplina la materia relativa all’edilizia di culto, adottando Norme: Disposizioni e Regolamento applicativo, approvato dalla Presidenza della CEI il 21 settembre 1990. L’istruttoria delle pratiche di finanziamento, vista la derivazione concordataria della materia, viene sottoposta, per un primo tempo, alla competenza dell’Ufficio Nazionale per i problemi giuridici coadiuvato da una “Commissione per l’edilizia di culto”. Il Consiglio episcopale permanente del 28 settembre 1999 istituisce il Servizio per l’edilizia di culto, attribuendo le competenze relative alla nuova edilizia di culto. Successivamente la LI Assemblea generale della CEI svoltasi a Roma dal 19 al 23 maggio 2003 modifica le Disposizioni relative agli interventi in materia di edilizia di culto e la denominazione della “Commissione per l’edilizia di culto” in “Comitato per l’edilizia di culto”.

Il Consiglio episcopale permanente del 27-30 marzo 1995 approva la costituzione presso la segreteria generale della Conferenza Episcopale Italiana dell’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici. “Si tratta di uno strumento specifico e stabilmente costituito che intende aiutare la Chiesa in tutto ciò che riguarda la tutela e la valorizzazione, l’adeguamento liturgico e l’incremento dei beni culturali ecclesiastici. L’opportunità e l’urgenza di un simile Ufficio derivano dalla situazione concreta in cui si trovano in questo campo le diocesi italiane, dalla necessità di stabilire corretti rapporti tra gli enti ecclesiastici e quelli pubblici e dall’esigenza di attuare intese dell’art. 12 degli Accordi di revisione del Concordato”. La XLI Assemblea generale della CEI del 6-10 maggio 1996 emana le Norme per la concessione di contributi finanziari della CEI a favore dei beni culturali ecclesiastici costituendo una Commissione per la valutazione dei progetti. La LI Assemblea generale della CEI svoltasi a Roma dal 19 al 23 maggio 2003 modifica le Disposizioni concernenti l’erogazione di contributi alle diocesi finalizzati alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali e la denominazione della “Commissione per la valutazione dei progetti di intervento a favore dei beni culturali ecclesiastici” in “Comitato per la valutazione dei progetti di intervento a favore dei beni culturali ecclesiastici”. La LII Assemblea generale della CEI il 26 novembre 2003 modifica delle Disposizioni concernenti l’erogazione di contributi alle diocesi finalizzati alla conservazione e valorizzazione dei beni culturali ecclesiastici e stabilisce che: a. sono di competenza dell’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici le richieste di intervento riguardanti le strutture edilizie per le quali ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: 1. Siano opere di autori non viventi; 2. La loro esecuzione risalga a oltre cinquant’anni; b. tutte le fattispecie, comprese le richieste di intervento già avviate, sono di competenza del Servizio nazionale per l’edilizia di culto. Gli edifici di autori deceduti, aventi più di cinquant’anni, per i quali le competenti soprintendenze abbiano esplicitamente escluso ogni interesse storico-artistico, restano di competenza del Servizio nazionale per l’edilizia di culto. Si è provveduto altresì a elevare la misura massima dell’intervento finanziario dal 30% al 50% della spesa ammissibile a contributo.

Il Consiglio episcopale permanente del 10-13 marzo 1997 nel contesto del “progetto culturale” ribadisce l’impegno della CEI per qualificare l’edilizia di culto, modifica le Disposizioni e avvia i “Progetti pilota”. Le nuove chiese rispondono davvero alle esigenze pastorali e liturgiche se vengono progettate e realizzate con grande cura da persone veramente esperte. Il Consiglio episcopale permanente del 25-28 gennaio 1993 ha espresso parere favorevole alla pubblicazione della nota pastorale La progettazione di nuove chiese, curata dalla Commissione episcopale per la liturgia in collaborazione con la Commissione della CEI per l’edilizia di culto e la Consulta nazionale per i beni culturali ecclesiastici. La Nota è stata pubblicata il 18 febbraio 1993. Il documento si riferisce esclusivamente ai progetti e alle costruzioni di nuove chiese parrocchiali e risponde all’urgenza di offrire criteri e regole sugli aspetti tecnici e organizzativi, che non possono essere disgiunti dalle esigenze pastorali della chiesa quale “casa del popolo celebrante. La Nota si pone come riferimento normativo per la valutazione dei progetti ai fini di un esito positivo e dell’eventuale finanziamento previsto dalla CEI.

Beni culturali Il Consiglio episcopale permanente del 16-19 giugno 1989 isti-


2. Il nuovo Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto L’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e il Servizio Nazionale per l’edilizia di culto negli ultimi anni hanno sviluppato e consolidato tante buone pratiche, relativamente ai propri ambiti di lavoro. Si tratta di metodiche di studio e di analisi della gestione sia dei beni culturali che della nuova edilizia. Essi hanno, altresì, utilizzato al meglio le nuove tecnologie informatiche sviluppando sistemi a sostegno della conoscenza del patrimonio delle diocesi, a servizio degli Istituti culturali (Musei, Archivi e Biblioteche), oltre che per supportare le richieste dei contributi e la gestione delle numerosissime pratiche. Lo sforzo innovativo è ritenuto esemplare anche dalla pubblica amministrazione. Le Disposizioni concernenti la concessione di contributi finanziari della Conferenza Episcopale Italiana e il Regolamento applicativo, ciascuno per la propria parte, si sono arricchiti nel tempo di indicazioni e di procedure al fine di raggiungere una sempre più adeguata trasparenza e semplicità di accesso alle risorse. Le normative di ciascun ufficio hanno cercato nel tempo di uniformare le modalità di lavoro e di accesso alle risorse economiche, nonché alla organizzazione territoriale, ma non sempre questo è avvenuto in modo organico e complessivo.

Le necessità delle diocesi si sono altresì modificate: crescono le necessità di interventi su edifici esistenti, storici e/o recenti; si pone maggiore attenzione alla valorizzazione dei beni come occasione pastorale e culturale; si impone il miglioramento delle modalità di gestione e controllo degli aspetti economici di sostenibilità; aumentano le opportunità di integrazione del patrimonio immobiliare con i beni mobili di carattere storico ...

Le necessità delle diocesi si sono altresì modificate: crescono le necessità di interventi su edifici esistenti, storici e/o recenti; si pone maggiore attenzione alla valorizzazione dei beni come occasione pastorale e culturale; si impone il miglioramento delle modalità di gestione e controllo degli aspetti economici di sostenibilità; aumentano le opportunità di integrazione del patrimonio immobiliare con i beni mobili di carattere storico (Musei, Archivi e Biblioteche); cresce l’interazione a livello regionale nel rapporto con le amministrazioni regionali (MiBAC e Regione) e per favorire l’accesso ai fondi UE; si impone una più stretta collaborazione a livello nazionale e locale con la pastorale del Turismo (patrimonio immateriale e cammini).

All’interno di queste prospettive la Segreteria Generale della CEI ha avviato un percorso che la costituzione di un nuovo ufficio. Nel 2015 unifica la direzione dell’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e del Servizio Nazionale per l’Edilizia di culto. Il Consiglio episcopale permanente del 27 settembre 2016 costituisce un nuovo ufficio presso la Segreteria Generale della CEI denominandolo Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, lo dota di uno specifico Regolamento, della Consulta Nazionale e provvede alla costituzione di un nuovo Comitato. L’Assemblea Generale della CEI del 21-24 maggio 2018 esamina e approva il nuovo testo delle Disposizioni relative alla concessione di contributi finanziari per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto e il Consiglio episcopale permanente di maggio ne approva il Regolamento attuativo.

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3. Il nuovo Ufficio: compiti e struttura Possiamo sintetizzare ora i compiti dell’Ufficio come proposto nel suo nuovo Regolamento:

1. consulenza e orientamento nelle materie di competenza anche nel contesto più ampio delle esigenze di programmazione: beni culturali (conoscenza del patrimonio storico artistico, tutela, conservazione, valorizzazione, promozione) edilizia di culto (qualità della progettazione e gestione del processo edilizio);

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2. predisposizione della proposta del piano annuale dei finanziamenti sulla base delle risorse annualmente stanziate dall’Assemblea Generale della CEI e delle richieste delle diocesi, gestione delle pratiche e delle problematiche ad esse collegate; 3. attività di ricerca anche attraverso corsi sui contenuti nelle materie specifiche a servizio delle diocesi sugli aspetti tecnici e gestionali; 4. formazione, animazione e consulenza, assistenza agli enti ecclesiastici e civili, anche attraverso relazioni stabili con le Consulte regionali e le diocesi nei campi diversi di interesse; 5. relazione con gli organi del Ministero per i beni e le attività culturali, le associazioni ecclesiali di settore, i movimenti ecclesiali, il mondo universitario e i consigli nazionali degli ordini professionali.


Uno dei compiti principali dell’ufficio è quello di sovrintendere e promuovere la conoscenza del patrimonio documentale, librario, mobile e immobiliare delle comunità cristiane, fondamentale per comprendere il valore dei beni, che la hanno ricevuto in dono dalle generazioni precedenti, perché possa continuare ad assolvere il suo compito essenziale: l’evangelizzazione. Da sempre le parrocchie e diocesi hanno redatto elenchi e inventari non solo patrimoniali, perché la cura dei beni potesse offrire le risorse indispensabili per il sostentamento del clero, la cura dei poveri e dei deboli, la formazione, la missione evangelizzatrice e la promozione dell’uomo. In questi ultimi anni gli strumenti informatici permettono alle diocesi e alle parrocchie di censire l’intero patrimonio in modo scientifico all’interno di un unico grande progetto nazionale secondo canoni condivisi e univoci, che permettono non solo la conoscenza, ma la sua accessibilità per fini più diversi. L’intera banca dati è accessibile sul portale www.beweb. chiesacattolica.it Ora la banca dati diventa il luogo ideale per comunicare il grande lavoro che le comunità stanno realizzando per la tutela e la valorizzazione dei beni, luoghi di cultura, di accoglienza e di relazione. D’ora innanzi racconteremo la storia delle persone e delle comunità a partire dai beni, dai documenti, dai luoghi e dalle feste dei nostri santi.

Ora la banca dati diventa il luogo ideale per comunicare il grande lavoro che le comunità stanno realizzando per la tutela e la valorizzazione dei beni, luoghi di cultura, di accoglienza e di relazione. D’ora innanzi racconteremo la storia delle persone e delle comunità a partire dai beni, dai documenti, dai luoghi e dalle feste dei nostri santi.

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IL TEMPO E LO SPAZIO DEL PATRIMONIO

ECCLESIASTICO: IL CONVEGNO DELLA

GREGORIANA SULLA DISMISSIONE DEGLI EDIFICI DI CULTO Claudio Varagnoli Ha suscitato grande attenzione in tutti i mezzi di informazione il convegno “Dio non abita più qui? Dismissione di luoghi di culto e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici”, organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura, dall’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto, e dalla Pontificia Università Gregoriana, svoltosi nella sede della stessa Università a Roma, il 29 e 30 novembre 2018. Secondo gli intendimenti del pontefice, che è stato promotore dell’incontro, il convegno è stato organizzato in sessioni parallele: mentre al mattino specialisti e operatori discutevano dei grandi temi, nel pomeriggio, vescovi e direttori di uffici culturali dibattevano di specifici provvedimenti, lavorando a linee guida per la dismissione e il riuso degli edifici di culto. Con coraggio e lungimiranza, la chiesa di papa Francesco pone sul tappeto la questione del futuro del patrimonio ecclesiastico, di fronte ad una società multiculturale e secolarizzata o a comunità nazionali indebolite da una demografia in declino. Lo stesso papa, nel messaggio di saluto letto dal cardinale Gianfranco Ravasi, affronta il tema senza ansietà, riconoscendo la ‘superiorità’ del tempo sullo spazio e accettando l’inizio di un processo destinato ad evolversi in futuro, più che puntare al possesso degli spazi. Sullo stesso tema è tornato il cardinale Ravasi in un suo articolo per “L’avvenire” di presentazione del convegno, prendendo ad esempio il Pantheon e il suo carattere inclusivo - prima tempio, poi chiesa, oggi luogo dai molti significati - ben diverso nella sua storia a quelle chiese sacre ormai solo per l’arte, ma prive di fedeli, che si offrono come “conchiglie vuote” ai turisti. La prospettiva appare comunque sconcertante: non si pensi solo alla quantità del patrimonio ecclesiastico coinvolto, ma soprattutto alla qualità e al ruolo di tale patrimonio. Chiese, conventi, monasteri, cappelle costituiscono nei paesi europei elementi forti di aggregazione urbana e territoriali. Luoghi e spazi che hanno generato nei secoli le comunità che si sono andate aggregando, dando vita a paesaggi e città come ancora oggi li cono-

1. La chiesa di San Giovanni Battista a Colonia nella ibridazione di spazi e “tempi” differenti.

Con coraggio e lungimiranza, la chiesa di papa Francesco pone sul tappeto la questione del futuro del patrimonio ecclesiastico, di fronte ad una società multiculturale e secolarizzata o a comunità nazionali indebolite da una demografia in declino.

sciamo. Non va dimenticato, naturalmente, il patrimonio storicoartistico, fatto di dipinti, sculture, decorazioni, suppellettili, arredi, che rischia lo smembramento, con la conseguente perdita di senso complessivo, oltre che di rischi per la conservazione e la fruizione. Ed è singolare che lo stesso Ravasi, nel suo articolo, abbia ricordato la renitenza di molti non credenti ad accettare la dismissione di uno spazio cultuale, che è spesso punto nodale di un tessuto sociale, nonché artistico e urbanistico.

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Uno scenario che si è già presentato da molti anni nelle nazioni dell’Europa settentrionale: il Regno Unito, l’Olanda, la Germania hanno visto chiese anche illustri per età e qualità architettonica trasformarsi in spazi aperti alla comunità con varie destinazioni funzionali, non escluso quella commerciale o abitativa. Su questa strada si sta muovendo anche la Commissione Europea – in questo anno 2018 dedicato al patrimonio architettonico – con conferenze e gruppi di lavoro dedicati al tema dell’adaptive reuse, pratica destinata in primo luogo a tre categorie di immobili: patrimonio ecclesiastico, archeologia industriale e insediamenti militari. La questione, dal punto di vista soprattutto degli specialisti nord-europei, non va inquadrata nell’ambito delle tradizionali “istanze” del restauro, ma secondo parametri funzionali o riferiti alle esigenze identitarie e memoriali delle comunità di appartenenza. L’atto del conservare si inserisce in un processo dal basso verso l’alto, cercando di aggregare su nuovi valori gli obiettivi della tutela, nati in contesti profondamente differenti.

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2. Il museo di arte contemporanea nell’ex chiesa di San Rocco a Trapani.

Il convegno della Gregoriana ha proposto tuttavia un ventaglio di ipotesi piuttosto ampio. Non si tratta di liquidare un patrimonio che costituisce l’anima più profonda della cultura occidentale, ma forse di trovare nuove declinazioni. Quindi piuttosto aprire i patrimoni ecclesiastici a nuovi fruitori, renderli motivo e fulcro di una partecipazione più ampia, accettando e ricercando forme di ibridazione con culture diverse.


Una visione d’insieme del patrimonio che deve puntare ad una “valorizzazione integrata”, attraverso le comunità. La prima giornata si è incentrata sul tema della dismissione di chiese, ponendo al centro la questione del patrimonio architettonico. Dopo i saluti da parte del cardinale Ravasi, del Rettore della Pontifica Università Gregoriana Nuno da Silva, e del Segretario Generale della C.E.I Stefano Russo – sensibile al tema in quanto laureato in architettura - gli interventi di Luca Diotallevi, Paveł Malecha, Thomas Coomans si sono soffermati sul tema della dismissione delle chiese, mentre Maud de Beauchesne-Cassanet ha puntato l’attenzione sul patrimonio mobile in disuso. Nella seconda giornata, Valerio Pennasso, Direttore dell’Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici ha rivendicato la stretta dipendenza del concetto di patrimonio dalla comunità che lo vive, in definitiva dalle persone che ne fruiscono. Non basta quindi la bellezza nel progetto, ma conta l’armonia tra le persone. Di qui l’idea che la programmazione per un progetto culturale dei beni diocesani è un processo collettivo: una visione d’insieme del patrimonio che deve puntare ad una “valorizzazione integrata”, attraverso le comunità, recependo così alcune delle proposte avanzate dalla Convenzione di Faro del 2004, che aveva provveduto a rovesciare l’ottica della conservazione ponendo in primo piano la comunità di riferimento. La valorizzazione dei patrimoni diocesani è stata esemplificata in più interventi, a cominciare dall’operazione capillare con forti risvolti didattici della diocesi di Padova, incentrata sulla conoscenza di un patrimonio storico artistico di grande spessore, presentato da Andrea Nante non solo nei suoi aspetti contemplativi, ma come motore di crescita e di sperimentazione individuale. Un concreto atto di restauro è quello offerto dalla diocesi di Trapani, esposto dal delegato vescovile Liborio Palmieri, con la graduale riconquista della ex chiesa di San Rocco, importante costruzione seicentesca, trasformato in tempi moderni in edificio per uffici e poi letteralmente dimenticato in una delle piazza più degradate della città. Riemerge così, in un’opera di restauro “dal basso”, un’opera affascinante nelle sue infinite lacerazioni e nell’inevitabile compresenza di altre strutture. Trasformato in

museo d’arte contemporanea, ma anche in luogo di aggregazione per la cittadinanza, il complesso edilizio è motore di un programma di rigenerazione urbana e sociale, anche attraverso la riproposizione di un moderno “oratorio” sul modello ideato da san Filippo Neri. Anche il contributo di Josep M. Riba Farrès, sull’esperienza della rete di musei diocesani della Catalogna, puntava a staccare il patrimonio ecclesiastico da una visione finalizzata alla sola catechesi, per aprirlo alla comprensione del pubblico: e su temi analoghi, si è svolto anche il contributo di Sandra Costa Saldanha per il Portogallo. Il significato del palinsesto architettonico come luogo di accumulazione e generazione di significati nuovi è al centro dell’attività di Albert Gerhards, teologo e liturgista dell’Università di Bonn. La ricostruzione postbellica di Colonia, impostata sul piano redatto da Hans Schwarz, non è motivo di cancellazione, ma un contesto vivo, nel quale rientra un’opera magistrale, come il Kolumba Museum di Peter Zumthor: non un restauro in senso accademico, ma una Wiederaufbauung che incorpora e reintepreta i valori della preesistenza. Altro esperimento, sempre a Colonia, è la KunstStation Sankt Peter, chiesa gotica ricostruita dopo la guerra e utilizzata come spazio aperto a manifestazioni artistiche contemporanee. Dalla distruzione nasce un nuovo inizio, come recita il titolo del libro dedicato ad un’altra opera clamorosa concepita sotto l’egida di Gerhards, la riconversione della chiesa di St. Johann Baptist, suggestivo esempio di commistione tra conservazione della residua navata centrale di una chiesa medievale, riletta attraverso l’addizione di spazi e funzioni per la comunità attuale. E proprio in questi “spazi ibridi” che la trascendenza può manifestarsi in forme nuove, come vuole Gerhards, per via empatica ed emotiva, come accordo dissonante tra strutture e culture diverse. In questo risiede forse il significato profondo del convegno, particolarmente significativo per chi opera da architetto nel vasto mondo del patrimonio culturale.

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L’USO DELLA CERAMICA

NELL’ARCHITETTURA RELIGIOSA DEL MODERNISMO CATALANO Claudio Mazzanti

Alla fine del xix secolo, in Catalogna si diffusero gli stilemi formali del movimento artistico modernista, con esiti davvero singolari: pittura, scultura, architettura si intrecciarono alla colorata composizione di vetrate, mosaici e superfici in maiolica, con una speciale esuberanza ornamentale influenzata dall’antica arte mudéjar dei cristiani in Spagna durante la dominazione mussulmana; perciò, con elementi che mantenevano memoria della cultura araba. Come per l’architettura civile, alla fine del xix secolo anche le opere sacre furono caratterizzate da una certa vivacità compositiva, sia pure in continua antitesi fra modernità e tradizione; il desiderio d’innovazione insito nell’emergente classe borghese, però, non appassionava allo stesso modo i committenti delle costruzioni religiose, meno propensi ad accettare cambiamenti sostanziali nei loro programmi funzionali e simbolici. Infatti, l’architettura sacra tradizionale continuò ad essere la più importante fonte d’ispirazione per gran parte delle nuove costruzioni. Un’interessante sintesi tra la produzione edilizia civile e quella religiosa fu proprio l’utilizzo di elementi ceramici con finalità decorative. Tra i personaggi più importanti del Modernismo catalano si segnalano Lluís Domènech i Montaner e Antoni Gaudí; così come alcune delle forme architettoniche del primo possono essere considerate il prodotto di una ricerca collettiva, ugualmente l’opera di Gaudí non fu il risultato di un genio isolato, ma di un importante lavoro di gruppo all’interno dell’atelier da lui diretto: svolse un ruolo di guida e riferimento, dando origine, quasi, ad una ‘scuola’ di architettura, dove tanti giovani s’impegnavano a provare colori e ideare fantasiosi elementi decorativi, molti dei quali eseguiti con l’uso della ceramica. Le prime manifestazioni del Modernimo Catalano si possono far risalire ad una fase di poco precedente, grazie all’opera di alcuni architetti, in particolare Joan Martorell i Montells: la fama raggiunta con le sue prime realizzazioni venne confermata da un nuovo pre-

Come per l’architettura civile, alla fine del XIX secolo anche le opere sacre furono caratterizzate da una certa vivacità compositiva, sia pure in continua antitesi fra modernità e tradizione; il desiderio d’innovazione insito nell’emergente classe borghese, però, non appassionava allo stesso modo i committenti delle costruzioni religiose, meno propensi ad accettare cambiamenti sostanziali nei loro programmi funzionali e simbolici.

1. Antoni Gaudí, cripta della chiesa nella Colonia Güell.

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2. Lluís Domènech i Montaner, chiesa dell’Hospital de Sant Pau, a Barcellona, ultimata da Pere Domènech i Rourà. 3. Joan Martorell i Montells, chiesa di San Francesco di Sales -les Saleses-, Barcellona.

La chiesa di les Saleses a Barcellona, iniziata nel 1877 su progetto di Martorell, fu il primo edificio sacro pienamente modernista: presenta un sapiente utilizzo dei materiali, pietra e laterizio, cromaticamente alternati, intervallati dal colore vivace e brillante del rivestimento ceramico.

stigioso incarico professionale per il complesso monumentale che, a partire dal 1878, venne realizzato a Comillas, località della Cantabria nella parte settentrionale della Spagna; qui riunì un gruppo di validi e promettenti giovani artisti conterranei, per innalzare un imponente palazzo con un’annessa cappellapantheon, nonché una grande sede collegiale per i Gesuiti, che avrebbe svolto anche la funzione di Seminario, voluto dal papa Leone xiii, da pochi mesi salito al soglio pontificio e desideroso di perfezionare il livello degli studi ecclesiastici in Spagna. La prima parte ad essere completata di tutto il complesso di Comillas fu la cappella-pantheon; quest’opera, rispetto alla coeva architettura tardogotica, non presenta elementi particolarmente innovativi circa l’organizzazione e il lessico formale del suo spazio interno che, però, si segnala per l’elevata qualità dei materiali impiegati e l’estrema cura nella realizzazione dei dettagli. Le strutture realizzate a partire dal 1878 in questo piccolo centro costiero costituiscono una specie di laboratorio sperimentale; all’ideazione della cappella partecipò anche il giovane Gaudí, che creò in modo autonomo alcuni elementi accessori. Tra il 1883 e il 1892, Domènech i Montaner fu responsabile del completamento dello spazio sacro, coadiuvato da Antoni Maria Gallissà, soprattutto nella realizzazione degli elementi ceramici che rivestono le pareti dell’aula; tali principi progettuali furono in seguito ripresi da Domènech per ideare la chiesa dell’Hospital de Sant Pau a Barcellona, ultimata dal figlio Pere Domènech i Rourà, che subentrò a partire dal 1914. La chiesa di les Saleses a Barcellona, iniziata nel 1877 su progetto di Martorell, fu il primo edificio sacro pienamente modernista: presenta un sapiente utilizzo dei materiali, pietra e laterizio, cromaticamente alternati, intervallati dal colore vivace e brillante del rivestimento ceramico. I risultati straordinari poi raggiunti da Gaudí attraverso l’uso di questo materiale sono ampliamente noti e possono essere esemplificati nelle sofferte superfici dell’incompiuta Cripta della Colonia Güell; risulta altresì interessante analizzare le opere dei suoi principali collaboratori del grande artefice catalano, a cominciare da Francesc Berenguer i Mestres, che prediligeva i materiali tipici della tradizione catalana: il mattone, il ferro battuto, il trencadís ceramico e la tecnica dell’esgrafiat, dimostrando notevoli doti decorative nelle realizzazione di delicate composizioni dove compaiono serpentine, fiocchi e volute stilizzate. Ad esempio, all’interno della chiesa di Sant Joan a Barcellona, nella cappella del Santissimo tutte le superfici della copertura, così come quelle delle pareti verticali, sono integralmente rivestite da mosaici in maiolica, che riproducono immagini devozionali e frasi in latino dei testi sacri, realizzati su disegno di Berenguer dall’italiano Mario Maragliano. Fuori Barcellona, un’opera significativa, iniziata nel 1896, è la parrocchiale di Sant Esteve e Santa Maria, a Cervelló, piccolo centro urbano; venne progettata da Antoni Maria Galissà i Soque con la collaborazione di Josep Font i Gumà, più vicini a Domènech i Montaner. Le superfici interne, non intonacate, manifestano l’articolata struttura del muro in laterizio, con l’inserzione di diversi elementi ornamentali in maiolica. Ulteriori esempi notevoli s’incontrano in altre piccole località, come a Lloret de Mar, dove Bonaventura Conill i Montobbio,

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4. Francesc Berenguer i Mestres, cappella del Santissimo nella chiesa di Sant Joan, Barcellona. 5. Bonaventura Conill i Montobbio, cappella del Sacramento nella chiesa di Sant RomĂ , Lloret de Mar.


altro collaboratore di Gaudí, ristrutturò l’antica chiesa del xvi secolo, prevedendo nuovi muri perimetrali con paramento in pietra alternato a tasselli ceramici. Costruì anche la nuova casa parrocchiale, la Rectoria: nei fronti esterni, intonacati, sono inseriti spartiti architettonici in laterizio, nonché fasce in maiolica; risaltano alcune decorazioni con colori brillanti sulle pareti della cappella, con azulejos variopinti; ad esempio il portale d’ingresso, con un arco nella cui lunetta c’è un mosaico fatto con piccoli pezzi ceramici, riproducendo la figura del calice circondato da spighe di grano e grappoli d’uva. Nel 1906, all’interno della chiesa nel monastero di Montserrat fu allestito un nuovo altare, dedicato alla Mare de Déu de la Inmaculada, di Josep Maria Pericas i Morros. La statua della Vergine è fiancheggiata da altre due sculture, il tutto con una colorazione molto chiara che contrasta rispetto alla parete di fondo, rivestita con variopinti azulejos che insieme danno forma a motivi floreali.

6. Josep Maria Pericas i Morros, altare della Mare de Déu de la Inmaculada, nella chiesa del monastero di Montserrat.

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DALLA CERAMICA ALLA CITTÀ.

TRE CHIESE DI GIO PONTI Carlo Pozzi

Nessuno slogan come “dal cucchiaio alla città” (Ernesto Nathan Rogers, Carta di Atene 1952) si è consumato sull’altare degli iper-specialismi contemporanei. Eppure, per parlare del lavoro di Gio Ponti ed in particolare dei suoi progetti di edifici per il sacro, diventa inevitabile rispolverarlo: architetture e ceramiche camminano ancora insieme nell’opera del grande architetto e designer milanese, fondatore della rivista Domus. Una ricerca tenace e paziente dell’architetto che tutto disegna e che proprio nel progetto per le chiese affianca alla riflessione spaziale e volumetrica l’approfondimento attraverso il disegno degli arredi, dei pavimenti, dei rivestimenti. Questi ultimi, inoltre, vengono riscattati dal solo ruolo decorativo, per diventare parte integrante della costruzione di architetture della città. La città è prevalentemente Milano, caratterizzata come è dall’unitarietà del rivestimento in pietra con Ceppo di Grè, recentemente ripreso dalle Grafton per l’ampliamento della Università Bocconi. Ponti vara i prospetti delle “sue” chiese con un tessuto di ceramiche che hanno verso la classicità il tributo di un mini-bugnato, verso il Ceppo il colore grigio-azzurro, pur con riflessi luminosi accentuati sia dallo specchiarsi nel cielo della città, meno nebuloso della sua fama, che nel dischiuderne il colore attraverso una trama di bucature geometriche (dalla chiesa nel quartiere Fopponino alla concattedrale di Taranto). Il lavoro dell’architetto sul tema “ceramica” non si limita ai rivestimenti delle sue architetture, ma si traduce nel disegno di piastrelle, vasi, elementi di arredo per la casa moderna, in particolare nel periodo di direzione della Richard Ginori (Firenze 1923-1933): la sfida interpretata da Ponti è di ibridare tradizione artigiana e nuove proposte artistiche, guardando sia a Occidente che a Oriente. Profonde analogie sono riscontrabili tra questo modo di lavorare a tutto campo di Ponti e quello della sua allieva Lina Bo Bardi, trasferitasi in Brasile nel primo dopoguerra, che parte dall’artigianato bahiano e dai gioielli con pietre semi-preziose per arrivare alla maestosità delle sue architetture pauliste, come il CESC Pompeia e il museo MASP. Ma nell’opera di Gio Ponti è ancor più interessante verificare la coppia chiese-ceramiche, che risulta particolarmente valorizzata nei tre esempi milanesi che seguono, permettendo di escludere

da questa trattazione altri suoi capolavori di architettura sacra come Il Carmelo di Bonmoschetto a Sanremo (1957-1959) e la Concattedrale di Taranto (1970), quest’ultima, con la sua vela traforata, assurta al ruolo di landmark di una città squinternata. Vengono presentate, invece, quelle tre chiese milanesi, pres-

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Una ricerca tenace e paziente dell’architetto che tutto disegna. soché coeve (1955-1964), la cui architettura viene esaltata dal rapporto tra le pieghe dei volumi e la tessitura delle piastrelle, che dapprima si apre a ospitare il “fuori scala” delle croci di Gerusalemme (San Luca), poi si “smaglia” con i ritagli che connotano prospetti e quinte (San Francesco), cedendo il passo di fronte alle sottolineature della struttura a vista (SS Maria Annunciata). Questo processo di progressiva rarefazione dell’impaginato dei prospetti culmina nella “smaterializzazione” della vela della chiesa tarantina.


Chiesa di San Luca Evangelista, Milano 1955-1960

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L’area a disposizione per la chiesa, nel quartiere Lambrate, presentava dimensioni piuttosto ridotte: questo limite viene interpretato architettonicamente dal progettista con la realizzazione, direttamente sul marciapiede di via Ampère, di un sagrato sopraelevato che ha accesso da una gradinata e viene incorniciato da due quinte laterali, sormontate dalla pensilina superiore leggermente aggettante. La sopraelevazione dello spazio sacro permette di ricavare nel piano seminterrato, senza eccedere nello scavo di sbancamento, i locali parrocchiali, migliorandone la ventilazione e la vivibilità, con qualche problema solo per la sala giochi, posta sotto il sagrato. La facciata con gli ingressi non attacca direttamente alle quinte laterali ma tramite una sottile asola a sviluppo verticale in vetrocemento: il rivestimento è realizzato con piccole piastrelle bugnate in ceramica, tra le quali si inseriscono croci di Gerusalemme realizzate con piastrelle lisce dello stesso colore grigio-azzurro. Su una mensola in cemento armato è collocata la statua in bronzo del Redentore, opera dell’artista Carlo Paganini. L’ingresso centrale presenta un portale a due ante caratterizzate dalle doghe in legno poste in diagonale, che appare come sospeso grazie allo stacco costituito dalle vetrate laterali. Gli ingressi laterali sono costituiti da alte vetrate ospitate da volumi prismatici che ruotano dal piano della facciata, avanzando verso la gradinata. Tra gli elementi che disegnano la facciata le tre croci in alluminio e le due finestre a nastro orizzontale poste a fianco degli ingressi, anch’esse segnate da una croce metallica aggettante. Lo spazio interno vede la danza armoniosa della struttura sotto i fasci di luce magistralmente irreggimentati dal progettista. La struttura è in cemento armato con pilastri rastremati all’attacco con il piano pavimentato in pietra e travi, anch’esse rastremate sul lato inferiore, sulle quali il solaio di copertura appoggia con la di-

screzione di elementi puntuali, in un raro esercizio di leggerezza che ricorda il “far cantare il punto di appoggio” di Perret, ereditato dalla scuola brasiliana di Vilanova Artigas e Mendes da Rocha. Sui fianchi le pareti perimetrali sono “staccate” tramite navatelle: su di esse sono le vetrate policrome a nastri verticali e orizzontali, le formelle in ceramica della Via Crucis, i confessionali in legno. Le cappelle laterali alloggiano organo e fonte battesimale. L’altare è in marmo di Carrara. Anche il pavimento è in marmo. Le pareti sono state successivamente tinteggiate a fasce orizzontali bi-crome, con un evidente riferimento all’architettura di alcune chiese italiane del Medioevo. Degli arredi disegnati da Gio Ponti rimangono solo i confessionali e le panche, le cui “strutture” presentano analogie con quelle che sorreggono l’intero impianto dell’aula sacra. Il grande fondale del presbiterio presenta un crocifisso ligneo di tiglio parzialmente policromo di epoca rinascimentale; forse, proprio perché splendidamente bagnato dalla luce naturale, meriterebbe un’opera d’arte di differente ruolo e dimensione, di un artista contemporaneo che la realizzasse con un intervento “site specific”.

Lo spazio interno vede la danza armoniosa della struttura sotto i fasci di luce ...


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A lato e in questa pagina. 1/6. S.Francesco al Fopponino. Milano.


L’ingresso principale è racchiuso in uno scrigno di legno e oro ...

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Chiesa di San Francesco d’Assisi al Fopponino, Milano 1964

7/12. S. Luca Evangelista. Milano.

Del progetto di Giovanni Muzio (1958), non realizzato, resta un modello. La realizzazione su progetto di Ponti venne resa possibile dai fondi del piano “Ventidue chiese per ventidue concili”, varato nel 1961 dal cardinale Montini. Il gesto insediativo del complesso ecclesiale, quello della facciata della chiesa che “prosegue” nelle due quinte laterali, è evidentemente un tributo alla più bella chiesa della città, la basilica di Sant’Ambrogio, seconda per importanza solo al Duomo. Lo spazio che si determina è quello di un sagrato di dimensioni significative, che genera una sospensione spaziale nella continua edificazione lungo le strade del denso quartiere che deve il suo nome a uno dei cimiteri minori della città, sorto dopo una pestilenza cinquecentesca e rimosso circa un secolo fa. Il sagrato è in leggera pendenza ascensionale in direzione della scalinata di ingresso alla chiesa, liberando spazi seminterrati. Il volume della chiesa, che si incunea all’interno dell’isolato, si protende verso via Giovio con i due edifici parrocchiali trattati da Ponti con le stesse modalità della facciata principale: un mix di tessere di ceramica bugnate e tagli a forma di diamante che dischiudono finestre di differente orientamento e dimensione, alcune con piccolo balcone aggettante, o aprono direttamente sul cielo creando un appoggio per gli angeli, come amava dire l’autore. Al visitatore che osserva questo sistema di facciate, sulla destra appare una vera e propria quinta sovrapposta, un involucro che si accosta - senza modificarlo - all’edificio che prospetta sulla strada. L’ingresso principale è racchiuso in uno scrigno di legno e oro, rimandando alla grande tradizione della chiesa, in particolare al periodo bizantino. L’interno è connotato dalla sequenza trilitica di singolari cavalletti strutturali, sorretti da pilastri in cemento armato strombati verso l’attacco a terra e sormontati da travi che si rastremano nello sbalzo verso la leggera congiunzione centrale, rimandando anche qui a temi architettonici del passato, l’arco in primis e le costole di volte in pietra. Si assiste così a una progressione di “cornici” al fondo della quale compare il grande dipinto sul fondo del presbiterio. La grande pala absidale dal titolo “Il Cantico delle Creature” (12x8 metri) è del pittore Francesco Tabusso. L’opera si raccorda con 8 trittici posti lungo il perimetro interno e illustranti episodi della vita di San Francesco. Percorrendo lo scuro pavimento di mattonelle in klinker a spina di pesce, si arriva al basamento del presbiterio che dischiude artisticamente un sistema di finestrelle. L’accesso alla cappella feriale è sormontato da false finestre con pannelli fissi (che schermano la luce artificiale interpretandola come una fonte naturale), rammemorando da un lato la “Torre delle Ombre” in cui Le Corbusier sperimentava nel campidoglio di Chandigarh i differenti orientamenti dei brise-soleil, dall’altro gli scuri in pietra della basilica dell’isola veneziana di Torcello, tanto amati e citati da Carlo Scarpa. Tra gli elementi di arredo disegnati da Ponti emergono le scritte in ferro battuto nei 14 pannelli della via Crucis e i 20 lampadari in ottone sospesi, recentemente restaurati con l’inserimento di apparecchi con luce a led.

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Un vascello-arca dove si possono incontrare l’uomo e Dio 24


Chiesa Maria SS Annunciata nell’Ospedale San Carlo Borromeo, Milano 1964-1966 Per Gio Ponti il progetto doveva svolgere il tema di “un vascello-arca dove si possono incontrare l’uomo e Dio“, nell’ottica, ancora una volta confermata, di opera d’arte totale, caratterizzata dal disegni dei dettagli architettonici e degli arredi, con il controllo della aderenza del linguaggio delle opere d’arte all’architettura della chiesa. La chiesa viene disegnata come cappella dell’ospedale, ma con tutta l’indipendenza di un volume autonomo, accessibile anche da utenti esterni. Un volume con la pianta a esagono allungato (cifra dell’architetto che ritorna nella pianta del Grattacielo Pirelli), attraversata al centro da un percorso con doppio accesso rialzato sui due fronti. L’area delle panche da un lato è in leggera pendenza, come fosse una cavea teatrale; dall’altro anche il presbiterio è sopraelevato. Sul lato lungo, quasi un retro, sono incastrati volumi “parassiti”, che ospitano la cappella di San Carlo e il battistero. La gradinata di accesso dal lato dell’ospedale conduce a un piccolo quadruplo pronao cuspidato che emerge dalla facciata lavorata al traforo con una sequenza di finestre esagonali: quella che sormonta l’ingresso, sfalsata e incassata, alloggia la statua dell’Annunciazione. Le facciate sono rivestite con piastrelle di ceramica bugnate a punta di diamante, a meno delle strutture in cemento armato lasciate a faccia vista e delle fasce di vetrocemento. Il top dell’edificio è costituito da una carena nautica rovesciata in rame che scende e si appoggia sulle facciate. Lo spazio interno è connotato dal suo allungarsi con la sottolineatura del passo strutturale costituito dalle coppie di pilastri in cemento armato che sporgono dalle lunghe pareti perimetrali verso l’interno e sono sormontati da capriate in vista, anch’esse in cemento armato. Tra un pilastro e l’altro si aprono le finestre e i vani che alloggiano le numerose opere d’arte: eccetto le ventidue pale in quercia policrome raffiguranti i cosiddetti Santi ospedalieri, realizzate da Padre Costantino Ruggeri, le altre derivano tutte da disegni di Gio Ponti, come la “caratteristica” Via Crucis con le sue scritte in ferro battuto. La scuola d’arte Beato Angelico ha realizzato il fonte battesimale “a imbuto”, il tabernacolo in metallo dorato e cristalli di rocca, il leggio e altri arredi; la vetrata policroma è opera della celebre ditta Venini di Murano. Il pavimento è in lastre di marmo apuano che proietta nel luminoso spazio interno il verde della copertura. Il presbiterio è sopraelevato con accesso gradonato: lo spazio dell’altare presenta un fondale con pannelli che schermano la sagrestia e balcone del coro, ospitando il tabernacolo; in alto compaiono tre croci, analoghe a quelle sulla facciata principale, e la scritta in ferro del Padre Nostro in latino, eseguito con le stesse modalità della Via Crucis. Al capolavoro di Antonello da Messina, esposto mirabilmente da Carlo Scarpa in Palazzo Abatellis a Palermo, si va a affiancare un altro fastoso monumento dedicato all’Annunciazione. A lato e in questa pagina 13/18. SS. Maria Annunciata Milano

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LA SACRALITÀ DELLE VETTE.

IL MONTE ROCCIAMELONE E I SUOI EDIFICI DI CULTO Andrea Zonato

Per la Valle di Susa, incastonata nel cuore delle Alpi Occidentali, le montagne rappresentano non solo un elemento spaziale connotante, ma anche uno degli elementi cardine del vissuto culturale e spirituale del territorio. Nel corso dei secoli, infatti, le sommità delle montagne sono state rivestite sotto vari aspetti di sacralità: ne sono testimonanza i depositi di vasellami con iscrizioni dedicate al dio celtico Albiorige (equivalente del romano Apollo) rinvenute sulle pendici del monte Genevris, le incisioni rupestri o gli altari dedicati a Ercole sulle pendici del Rocciamelone, le cappelle edificate sulle vette del monte Tabor e del Roccasella, la stessa Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte che ingloba, alla base di un pilastro della chiesa abbaziale, la vetta del monte Pirchiriano. Tra le vette sacre, la preminenza spetta però al Rocciamelone: sulla sommità del monte, a 3538 metri di quota, veglia infatti dal 1899 la statua della Vergine realizzata con il contributo di 130.000 bimbi d’Italia, mentre risale al 1916-1923 la costruzione del Santuario – Rifugio Santa Maria, uno dei più alti d’Europa. Datano invece al 1798 e al 19581961 gli altri due edifici sacri legati al Rocciamelone: la Cappella della Madonna della Neve a Ca’ d’Asti e il Santuario Diocesano della Madonna del Rocciamelone. La devozione mariana legata al Rocciamelone ha però radici molto più antiche, che affondano nel Medioevo. L’origine del culto a Maria sulla sommità del monte è infatti collegata all’impresa di Bonifacio Roero, aristocratico banchiere astigiano che il 1° settembre 1358 recò sulla vetta un trittico in ottone di fattura fiamminga, tutt’oggi conservato presso il Museo Diocesano di Arte Sacra di Susa, in adempimento ad un voto. La leggenda entrata nella tradizione legava tale voto alla liberazione da una prigionia di Bonifacio seguita ad una sua partecipazione ad una crociata, tuttavia i più recenti studi hanno stabilito la non veridicità di tale interpretazione, collegando piuttosto l’impresa di Bonifacio ad un ringraziamento alla Vergine per la liberazione della città di Asti dalla dominazione viscontea. La scelta del Rocciamelone quale meta per l’adempimento del voto è da individuare in diversi elementi: l’antica sacralità di quella montagna, già rilevata nella leggenda del re Romolo e del Mons Romuleus riportata nel Chronicon Novaliciense (la cronaca dell’Abbazia di Novalesa, redatta attorno al 1060); la posizione del monte lungo il percorso commerciale abitualmente frequentato dai mercanti astigiani fin dall’XI secolo nel loro itinerario verso le fiere del nord Europa; il legame dei Roero con i Savoia, nei cui territori il Rocciamelone era collocato e di cui fu per lungo tempo considerato come la più alta vetta. Non sono al momento note testimonianze tardomedievali sul culto tributato alla Vergine dopo l’impresa di Bonifacio, tuttavia esso si dovette sviluppare in tempi relativamente brevi in quanto fin dal Cinquecento sono attestate sia la presenza di una cappella in legno sulla vetta, sia processioni di fedeli intenzionati a veneravi l’icona mariana lì conservata. Quattro sono le attestazioni particolarmente degne di nota: la prima, datata al 1578, è costituita dal diario del viaggiatore orléanese Nicolas Audebert che, nel narrare del suo attraversamento del colle del

Sulla sommità del monte, a 3538 metri di quota, veglia dal 1899 la statua della Vergine realizzata con il contributo di 130.000 bimbi d'Italia

1. Il monte Rocciamelone

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Moncenisio, riportò quale elemento curioso la presenza sulla sommità del Rocciamelone di una cappella, accessibile nei soli mesi di luglio e agosto per la costante presenza di neve e ghiaccio, alla quale accorreva una gran quantità di genti soprattutto nella festa dell’Assunzione di Maria per celebrarvi una messa votiva. La seconda testimonianza data al 1584 ed è costituita dalla relazione di visita pastorale dell’abate commendatario di San Giusto di Susa, card. Guido Ferrero, nella quale si rileva sulla sommità del Rocciamelone la presenza di una cappella verso la quale vi era una forte devozione popolare: nella relazione viene infatti segnalato che “in cacumine cuiusdam montis de altioribus regionis illius extare capellam quam data valde devotam”, alla quale si accedeva, come già segnalato da Audebert, nei soli mesi di luglio e agosto. La terza, forse la più interessante di tutte, è quella del bretone Jacques de Villamont che, obbligato ad una quarantena a Novalesa a causa dell’imperversare della peste a Torino, assoldò alcuni marrons (guide alpine ante litteram) per recarsi sulla vetta del Rocciamelone a visitare la cappella lì edificata; il viaggiatore compì l’impresa dell’ascesa alla vetta lasciandone memoria nel proprio diario di viaggio. La quarta attestazione è infine rappresentata dall’VIII capitolo delle costituzioni sinodali dell’arcivescovo di Torino Carlo Broglia (alla cui giurisdizione erano sottoposte alcune chiese della Valle di Susa), risalenti al 1608: in esse l’arcivescovo stabilì delle sanzioni per tutti i sacerdoti che, recatisi a celebrare sulla vetta del Rocciamelone e trovando l’altare della cappella già occupato da altri celebranti, si fossero adattati a utilizzare rocce e anfratti quali altari posticci, segno questo del grande afflusso di popolo registrato sulla vetta in occasione delle celebrazioni principali. La presenza della cappella è poi attestata da alcune cartografie antiche, tra le quali spicca la carta dello Stato del Piemonte redatta a cavallo tra XVI e XVII secolo dal geografo patavino Giovanni Antonio Magini, il quale la incluse all’interno del suo Atlante geografico d’Italia. Una data importante per la devozione mariana sul Rocciamelone è poi quella del 6 agosto 1673: in quel giorno un tale di Novaretto (un villaggio della bassa Valle di Susa, frazione del Comune di Caprie), Giacomo Gagnor, avendo saputo che la duchessa di Savoia soggiornava a Rivoli con la corte e conoscendone la devozione verso la Madonna del Rocciamelone, sottrasse di nascosto il Trittico di Bonifacio dalla cappella e lo portò proprio a Rivoli, presso la corte, perché la duchessa potesse venerarlo. Dieci giorni più tardi, dopo la celebrazione di una novena, il Trittico fu riportato a Susa e fu consegnato dal governatore della Città al curato della parrocchia di San Paolo, dalla quale dipendeva la cappella della vetta del Rocciamelone. In tale occasione fu dato ordine di non riportare più stabilmente l’antico altarolo sulla vetta del Rocciamelone ma di conservarlo nella chiesa parrocchiale di San Paolo, tuttavia, onde evitare l’abbandono di una devozione popolare molto radicata e

In questa pagina 2. Il Trittico del Rocciamelone, Bruges, 1358 3. Incisione su disegno di C.A. Rana raffigurante Susa e il Rocciamelone, 1770 c.a. 4. La Cappella dei Rotari a Ca’ d’Asti A lato 5. Le cappelle di vetta, ante 1923 6. Statua bronzea della Vergine eretta con le offerte dei Bambini d’Italia


sentita, si sviluppò la prassi di recare il Trittico in vetta il 5 agosto di ogni anno e di lasciarlo esposto alla pubblica venerazione per i 15 giorni successivi. Tale prassi fu infine abolita dal primo vescovo di Susa, mons. Giuseppe Francesco Maria Ferraris di Genola, il quale ritenendo la salita alla vetta troppo pericolosa per il popolo trasferì a Susa tutte le celebrazioni legate alla Madonna della Neve e all’Assunta. Solo la costruzione della cappella della Madonna della Neve in località Ca’ d’Asti, edificata nel 1798 da maestranze biellesi e posta lungo il percorso di ascesa alla vetta, consentì la ripresa delle celebrazioni in quota. La piccola cappella, tutt’oggi presente e restaurata a partire dal 1975, è un edificio rustico in pietrame, a pianta rotonda e decorata da pochi semplici arredi in legno. Il radicamento popolare del culto alla Vergine sulla vetta comportò successivamente una ripresa della processione annuale della Madonna della Neve, attestata nel 1867 dal canonico Giuseppe Pugno che descrive l’uso di effettuare la salita al monte in due giorni, con partenza da Mompantero e sosta presso le cappelle del Trucco e di Ca’ d’Asti prima di giungere alla vetta. Qui, anche nel periodo di abbandono della prassi della salita annuale in occasione della festività del 5 agosto, infatti, fu manutenuta la piccola cappella, della quale lasciò una descrizione nel 1820 il conte Luigi Francesetti di Mezzenile. Essa risultava interamente in legno, a foggia di una grande garitta e fuori piombo, la cui apertura era orientata a sud-est, in direzione della Comba della Pala attraverso la quale avviene l’accesso alla sommità del Rocciamelone. Al suo interno vi erano l’altare, un crocifisso ligneo, una statua bronzea della Vergine datata al 1657 e alcuni ex voto. Tale cappella, ormai rovinata dagli agenti atmosferici, fu adibita a semplice ricovero di fortuna e sostituita da un nuovo edificio, sempre in legno, fatto realizzare nelle sue adiacenze nel 1895

dal prevosto della Cattedrale di San Giusto, don Antonio Tonda. Questi è da considerare come uno dei principali artefici della rivitalizzazione del culto della Vergine del Rocciamelone registrato a fine Ottocento, sulla cui onda lunga si colloca anche la costruzione dell’attuale Rifugio Santuario Santa Maria avvenuto tra il 1917 e il 1923. Fu infatti proprio su sollecitazione di don Antonio Tonda e dell’allora vescovo di Susa, mons. Edoardo Giuseppe Rosaz, che nel 1896 il direttore del giornale illustrato per bambini L’Innocenza, Giovanni Battista Ghirardi, lanciò l’idea di erigere una statua bronzea della Vergine dedicata ai Bambini d’Italia. I piccoli lettori de L’Innocenza avrebbero personalmente dovuto farsi promotori dell’iniziativa, raccogliendo offerte a partire da 10 centesimi presso le proprie famiglie, i compagni di scuola, i conoscenti. Le firme degli offerenti, raccolte su moduli prestampati o su semplici quinterni, sarebbero successivamente state rilegate in un volume da porre nel basamento della statua. L’iniziativa ebbe un grande successo e nell’arco di tre anni raccolse l’adesione di oltre 130.000 bambini da tutta Italia. Il progetto della statua fu affidato allo scultore Giovanni Antonio Stuardi e dopo l’approvazione del bozzetto definitivo, avvenuta nel febbraio 1899, la sua realizzazione fu affidata alla fonderia artistica Strada di Milano. L’opera, alta circa tre metri e del peso di 650 kg, fu portata sulla vetta divisa in sei pezzi. Il trasporto fu affidato ad un battaglione di Alpini che provvidero in tale occasione anche ad aprire l’attuale sentiero di salita alla vetta lungo le pendici della Comba della Pala. La rivitalizzazione del culto per la Vergine sulla vetta del Rocciamelone portò nuovamente in evidenza una necessità già segnalata nell’ultimo quarto dell’Ottocento: quella della presenza di un rifugio che potesse fungere da ricovero per i numerosi pellegrini che si apprestavano alla salita del monte. Fin dal 1875 il CAI di Susa aprì una sottoscrizione per edificare un

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A lato 7-8-9. Trasporto della statua bronzea della Vergine ad opera del battaglione di Alpini 10. Rifugio Alpino “Ca’ d’Asti” In questa pagina 11. Bozzetto per il Rifugio - Santuario Santa Maria sulla vetta dell’ing. Paolo Reviglio 12. Bozzetto per il Rifugio - Santuario Santa Maria sulla vetta dell’arch. Natale Reviglio,

ricovero a Ca’ d’Asti, mentre risale all’anno successivo la richiesta del CAI di Torino inoltrata al Capitolo della Cattedrale di Susa per poter edificare una cappella sulla vetta, rimasta però inascoltata. L’iniziativa della costruzione dei rifugi, ritenuta naturale compimento alla posa in opera della statua della Vergine, fu ripresa dal Comitato Promotore per la costruzione della medesima, che fin dal 1899 si attivò in tal senso proponendo la costruzione di un vero e proprio piccolo santuario. La morte del professor Ghirardi nel 1900 comportò purtroppo una tappa d’arresto nel progetto del santuario di vetta, mentre fin dal 1902 la Parrocchia della Cattedrale di San Giusto di Susa affidò all’architetto Paolo Saccarelli quello per l’edificazione di un rifugio a Ca’ d’Asti. Ottenuta la concessione dell’area da parte del Comune di Mompantero, la costruzione iniziò nel 1903 e proseguì tra numerosi rallentamenti e vicissitudini fino al 1942. Durante il periodo bellico il rifugio, appena terminato, fu occupato alternatamente da truppe italiane, tedesche e partigiani e subì ingenti danni. Al termine della guerra fu lasciato in progressivo abbandono fino a ridursi pressoché a rudere e solo l’impegno e la costanza di numerosi volontari, attivatisi fin dal 1977 sotto la guida di Fulgido Tabone, ancora oggi gestore della struttura, ne hanno consentito il completo recupero e la perfetta funzionalità. Ebbe invece un cammino diverso la costruzione del Rifugio - Santuario Santa Maria sulla vetta: come anticipato l’idea iniziale lanciata nel 1899 dal prof. Ghirardi fu temporaneamente bloccata dalla prematura morte del promotore, avvenuta nel 1900. Essa fu ripresa nel 1915, anche in considerazione del fatto che un incendio scoppiato per disattenzione alcuni anni prima aveva comportato la completa distruzione della cappella

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lignea edificata nel 1895. Su impulso del vescovo di Susa Giuseppe Castelli nacque un nuovo Comitato Promotore che affidò una prima progettazione all’ing. Vincenzo Pasquale di Susa, il cui progetto fu però abbandonato perché ritenuto troppo grandioso ed eccessivamente costoso. Con il coinvolgimento del Consiglio Regionale della Gioventù Cattolica Italiana fu avviata una raccolta fondi, mentre la Giovane Montagna, sodalizio torinese nato nel 1914, si attivò per studiare, con la collaborazione di alcuni soci architetti, le migliori soluzioni per la costruzione dell’edificio. I primi bozzetti furono realizzati dall’ing. Paolo Reviglio nel giugno 1916, il quale concepì un edificio che non fosse solo Santuario, ma anche un vero e proprio rifugio alpino a supporto dei celebranti e di coloro che si trovassero a pernottare sulla vetta. Al primo progetto ne seguì un secondo sempre a firma dell’ing. Paolo Reviglio e un terzo dell’arch. Natale Reviglio, il quale divenne, con successive modifiche, operativo nel 1920. Parallelamente alla progettazione proseguì la raccolta fondi, che raccolse l’adesione di papa Benedetto XV e del successore Pio XI e il patronato della regina Margherita. I lavori furono conclusi in tre anni e la solenne inaugurazione si tenne il 12 agosto 1923 alla presenza del nuovo vescovo di Susa, mons. Umberto Rossi, del duca di Pistoia e di numerose altre autorità. L’edificio, realizzato sbancando parte della vetta del Rocciamelone, fu realizzato con un corpo centrale con prospetto a capanna adibito a cappella, cui si affiancano due corpi laterali di uguale dimensione con profilo ad unico spiovente rivolto a sud, adibiti rispettivamente a ricovero per i celebranti e a rifugio alpino. Quest’ultimo presenta un accesso indipendente, così da poter essere utilizzato in caso di necessità anche quando il Santuario è chiuso. L’avvento

In questa pagina 13. Il Santuario Santa Maria sulla vetta del Rocciamelone 14. Santuario Diocesano Madonna del Rocciamelone A lato 15. Veduta aerea della vetta del monte Rocciamelone


della Seconda Guerra Mondiale comportò anche per il Santuario – Rifugio Santa Maria ingenti danni e solo a partire dal 1975 si è proceduto ad un recupero complessivo terminato nel 1998. Al giorno d’oggi il piccolo Santuario, certamente uno dei più elevati d’Europa e posto in un luogo straordinario, si presenta ad aula unica con tetto a capriata, interamente rivestita all’interno di legno. Al di sopra di un rustico altare è collocata una copia del Trittico di Bonifacio Roero mentre numerosi ex voto e altri oggetti devozionali affollano le pareti laterali. Il santuario accoglie ogni anno migliaia di pellegrini alpinisti ed è costantemente manutenuto grazie all’impegno di Fulgido Tabone, gestore del rifugio Ca’ d’Asti. Un ultimo edificio completa il panorama dei luoghi sacri posti alle pendici del Rocciamelone: il Santuario Diocesano Madonna del Rocciamelone. Già nel 1858, V centenario della posa del Trittico, si era provveduto ad edificare una piccola cappella nel punto di partenza della mulattiera che da Mompantero risale le pendici del monte sino alla vetta. Nel 1958, in occasione del VI centenario fu intrapresa la costruzione del Santuario Diocesano, un luogo dove potessero comodamente radunarsi tutti coloro che, per vari motivi, non potessero intraprendere l’erta salita alla

vetta. La posa della prima pietra avvenne il 1 settembre 1958 e i lavori, progettati dall’arch. Emanuele Godone ed eseguiti dalla ditta Croce di Giaveno, iniziarono nel medesimo anno e proseguirono per tre anni: la consacrazione dell’edificio avvenne infatti l’8 luglio 1961. Il santuario si sviluppa secondo un impianto portante a navata unica in cemento armato, mentre i confessionali, ai lati della navata, hanno pareti in pietra a vista. La facciata dell’edificio è a capanna, con i montanti degli spioventi che arrivano fino al piano di calpestio; un’ampia pensilina suddivide la facciata che nella parte superiore è realizzata in vetro e legno, mentre quella inferiore è caratterizzata da un grande portale ligneo aperto su una parete in pietra. Il portico d’ingresso è accessibile attraverso un’ampia scalinata e sulla zona absidale si imposta il campanile, caratterizzato da una lunga fenditura che lo taglia per quasi tutta la sua altezza; sulla sommità della torre campanaria è inserita una copia della statua della Madonna del Rocciamelone. Con esso si completa il trittico di edifici sacri (Santuario Diocesano, Cappella della Madonna della Neve, Santuario – Rifugio Santa Maria) che caratterizzano una devozione alpina tutt’oggi molto viva e sentita.

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CUPOLE MAIOLICATE

IN CALABRIA Caterina Gattuso

Introduzione La cupola è uno degli elementi architettonici che maggiormente contraddistingue un edificio religioso; a prescindere dal luogo, dall’epoca storica, dalle forme, dagli stili e dalle culture, infatti, conferisce alle costruzioni visibilità ed attrazione. In Italia non sono rari i casi in cui si è fatto ricorso alla maiolica, nel passato, per proteggere e decorare edifici di valore storico-monumentale, soprattutto edifici di culto, con applicazioni particolari poste a copertura di cupole o campanili. Le superfici decorate con piastrelle in maiolica presentano caratteri comuni, ma ognuna assume una propria specificità ed identità. Oltre alle valenze cromatiche dal rilevante impatto percettivo, le cupole policrome rivestite in maioliche sono spesso di riferimento e di orientamento nell’ambito del tessuto urbano in cui si collocano. I colori delle squame contribuiscono a creare un paesaggio di grande suggestione, la cui atmosfera è in continuo mutamento essendo variabile l’effetto della luce nelle diverse ore del giorno e delle stagioni. In Italia le ceramiche smaltate traggono origine dalla cultura islamica che giunge in Sicilia sul finire del X secolo e si diffonde poi in tutta la penisola. Nell’Italia Meridionale, la ceramica smaltata, rintracciabile prevalentemente sotto forma di squame maiolicate policrome, è stata utilizzata soprattutto per rivestire le cupole di edifici monumentali. Esse spiccano vistosamente al di sopra dei tetti dei centri storici, catturando l’attenzione, per la loro conformazione, ma anche per i loro caratteristici cromatismi che definiscono oltre all’edificio a cui appartengono l’intero contesto urbano.

Le cupole in maiolica in Calabria

Le cupole policrome rivestite in maioliche sono spesso di riferimento e di orientamento nell’ambito del tessuto urbano in cui si collocano

1. Le cupole in maiolica in Calabria; chiese con cupole nel versante Alto Tirrenico Nonostante vi sia in Calabria una diffusa presenza di chiese con cupole maiolicate, non esistono delle catalogazioni complete. Data la frammentarietà delle informazioni, riconducibile allo sviluppo di ricerche circoscritte e concentrate su singoli monumenti, si è reso necessario uno studio finalizzato ad una prima classificazione e ad un primo censimento ordinato1. In Calabria si riscontra una notevole diversità sia formale che estetica di cupole maiolicate; ciò rende arduo individuare una vera e propria scuola stilistica con caratteri ben definiti2. In una prima indagine è stata rilevata la presenza diffusa di cupole, di pinnacoli, di cuspidi, di campanili di varie forme e fattura in edifici di culto. La ricerca è stata poi circoscritta ad un’area della regione, il versante

1

Frangipane A., Valente C., La Calabria Istituto italiano d’arti grafiche, Univ. of California 1929; Liverani G., La maiolica italiana, Electa, Milano, 1957.

2

Paolucci A., Sampietro E., Cattedrali e Basiliche in Italia, G. Mondadori, 1998.

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Alto Tirrenico, nel quale sono state individuate undici chiese dotate di cupole e non di rado anche campanili maiolicati meritevoli di approfondimento. A titolo rappresentativo si riporta l’attenzione su due chiese che si distinguono per forma, orditura e tecnica costruttiva, nonché per il loro valore estetico ed in particolare per le composizioni cromatiche degli elementi maiolicati delle proprie cupole. La prima è la Cattedrale di Nicastro nel comune di Lamezia Terme, che presenta una cupola ricoperta con maioliche monocromatiche di colore giallo. La seconda Chiesa è situata nel comune di Morano Calabro ed è denominata “Collegiata di Santa Maria Maddalena”. Essa è caratterizzata dal possedere la cupola e la cuspide del campanile entrambe ricoperte con maioliche policrome di colore verde e giallo oro. La cupola di Lamezia Terme è composta da spicchi, costituiti da embrici quadrati monocromatici dalla forma regolare, delimitati da costoloni anch’essi di un solo colore. La cupola di Morano Calabro presenta spicchi composti da squame, formelle rettangolari con due lati dal profilo lievemente rastremato verso l’alto e con una base semicircolare posizionata verso il basso. In entrambi i casi, squame ed embrici sono accostati mediante una parziale sovrapposizione così da realizzare superfici prive di discontinuità e tali da garantire una protezione nei confronti delle azioni atmosferiche. Man mano che il loro montaggio procede verso il colmo della cupola gli elementi vengono chiodati su una base di calce, in modo da determinare corsi sfalsati e concentrici la cui giustapposizione permette di dare forma a trame di notevole attrattiva visiva.

La Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Lamezia Terme

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La Cattedrale di Lamezia Terme è situata nel centro del quartiere Nicastro su un’altura, in un’area collocata tra la Piana di Sant’Eufemia e la zona della Pre-Sila catanzarese3. La fabbrica di fondazione normanna, ricostruita poi in stile romanico e dedicata ai SS. Pietro e Paolo si affaccia sul corso principale della cittadina, alla confluenza dei torrenti Piazza e Canne4. Distrutta da un violento terremoto nel 1638 la chiesa venne poi riedificata nel 1640. Alla fine dell’Ottocento il prospetto seicentesco venne rimodellato in stile neoclassico

3

Mazza F., Lamezia Terme – storia, cultura, economia, Rubbettino Editore, 2001, p.119

4

Masci F., Lamezia, Rubettino Editore, 2002

2. La Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Lamezia Terme; veduta prospettica della Cattedrale 3. La Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo di Lamezia Terme; la cupola della Cattedrale


e dotato di due nicchie con i busti dei santi Pietro e Paolo5. L’attuale configurazione della cattedrale è quella riconducibile al 1925 alla quale seguì nel 1935 la costruzione della cupola rivestita con maioliche e a metà del Novecento la realizzazione della scalinata anteriore6. La Cattedrale dei SS Pietro e Paolo ha un impianto planimetrico a croce latina con tre navate scandite in quattro campate con transetti terminali a semicerchio. La cupola, realizzata con maioliche monocromatiche, poggia su un tamburo ottagonale, impostato su quattro robusti pilastri con ampi archi. I costoloni della cupola, anch’essi monocromatici, a sezione costante con andamento vagamente iperbolico, vanno a confluire alla base di una lanterna centrale, abbellita da pilastrini, che sostiene una croce. Gli spicchi, compresi tra gli otto costoloni poggianti in asse alle lesene del tamburo, sono composti da embrici quadrati dai bordi smussati di colore giallo, disposti in filari inclinati con andamento diagonale regolare.

La Collegiata di Santa Maria Maddalena La Collegiata di Morano, intitolata a Santa Maria Maddalena, venne edificata nel 1097 come cappella suburbana. Posta in origine fuori dalla cinta muraria medievale, con l’espansione urbana, venne progressivamente inglobata nel centro storico7. Più volte sottoposta a lavori di rifacimento, a metà del XVI secolo ha acquisito una dimensione monumentale tale da essere in grado di accogliere degnamente un rilevante numero di fedeli e poter assumere nel 1737 il titolo di collegiata8. Dal punto di vista architettonico, alla fine del secolo XVIII, la Chiesa acquisì uno stile tardobarocco tendente al rococò. Attualmente presenta l’impianto planimetrico del Cinquecento, a tre navate e a croce latina; la navata centrale, con volta a botte, è caratterizzata da cinque grandi arcate, poggianti sui grossi pilastri, che la dividono da quelle laterali articolate anch’esse in cinque campate laterali, con cappelle ricoperte da piccole cupole9. 5

La Scala R., Il terremoto del 1638 a Nicastro, in Soricittà, aprile1994, pp. 132-135.

6

Bonacci P., (1993), Scritti storici lametini, Fratelli Gigliotti Editori.

Scorza G., Notizie storiche sulla città di Morano in Calabria Citra, Ed. Arnaldo Forni, Napoli, 1987; Salmena A., Morano Calabro e le sue case illustri, Milano, 1882

7

8

Mele M., Passeggiate in luoghi d’arte, Comune di Morano Calabro, 1997

9

Tozzi S., La collegiata dei Santi Pietro e Paolo a Morano Calabro, Florence Art Edizioni, Firenze, 1996

37 4. La Collegiata di S. Maria Maddalena di Morano; veduta prospettica 5. La Collegiata di S. Maria Maddalena di Morano; le cupole


6. La Collegiata di S. Maria Maddalena di Morano; le cupole

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All’incrocio del transetto con la navata centrale, poggiante su quattro pilastroni che danno forma quadrata al presbiterio, si innalza su un tamburo a base ottagonale la cupola a calotta. Arretrato rispetto alla chiesa, in posizione laterale, si trova un campanile di epoca medioevale sormontato da una piccola cupola; in origine distaccato dal corpo di fabbrica della chiesa, il campanile è poi reso comunicante col resto della fabbrica attraverso la costruzione di un vano interposto. La cupola, prevista probabilmente già nel progetto originario, ma terminata soltanto nel 1869, è composta da 8 spicchi e presenta un diametro di circa 11 m, pari a quello del tamburo che la sostiene, ed ha un’altezza di circa 8 m10. L’intradosso della cupola, realizzato con una struttura in muratura, è ricoperto all’esterno da uno strato di squame in maiolica verdi e gialle disposte a spina di pesce e sovrapposte quasi a formare una corazza. Analogo rivestimento caratterizza il lanternino alto 5,4 m, disposto alla confluenza degli spicchi, al di sopra del quale si erge una croce metallica. Le squame di colore giallo e verde provenienti dall’area di Vietri, in Campania sono posizionate, sulle cupola con la parte curva rivolta verso il basso, in modo da creare un ordito a spina di pesce a colori alterni. La cupola del campanile, impostata su una base di forma quadrata presenta una superficie rivestita in maioliche verdi e gialle, e si conclude in sommità con un lanternino la cui superficie è rivestita da piastrelle quadrate.

Analisi esplorative di laboratorio sul cromatismo delle cupole Lo studio delle cupole prevede l’analisi cromatica degli elementi con l’individuazione dei colori maggiormente caratterizzanti. È possibile costruire un abaco che contenga i dati identificativi dei singoli colori di una cupola e ricavare elementi utili sulle tecniche di realizzazione delle formelle al variare delle località. Tra le altre, l’indagine colorimetrica può fornire informazioni interessanti sui cromatismi delle maioliche identificandone in modo scientifico la gradazione cromatica che può essere pertanto riproducibile in modo preciso; ed ancora, può dare indicazioni sul loro stato di conservazione orientando interventi di restauro qualificati11. Un’analisi colorimetrica è stata svolta sulle squame verdi e gialle della Chiesa di Morano utilizzando uno spettrofotometro portatile (colorimetro) che permette letture puntiformi ed a contatto diretto; è stato quindi possibile ottenere misure quantitative del colore che non si potrebbero ottenere con una semplice osservazione visiva12. Spinelli P., WondermasonryWorkshop on design for rehabilitation of masonry structures-Tecniche di modellazione e progetto per interventi sul costruito in muratura Ed. Wondermasonry ed. Polistampa, Firenze 2006.

10

Gattuso C., An Advanced Model to Represent and Manage Knowledge in Cultural Heritage. Atti del XII Forum Internazionale di Studi, Vie dei Mercanti, ed. la scuola di pitagora Napoli, 2014

11

12

AIES CUPOLE Gattuso C, Pizzi A. Chiese con cupole maiolicate e identità culturale. Atti del terzo Convegno Internazionale. Ethos Edizioni, Napoli 2012


7. Analisi esplorative di laboratorio sul cromatismo delle cupole; analisi colorimetriche

Il sistema colorimetrico assoluto traduce su un grafico tridimensionale (spazio dei colori CIE, definito matematicamente dalla Commissione Internazionale sull’Illuminazione nel 1931) i colori primari rosso, verde e blu, trasformandoli in coordinate, che identificano un colore univoco e definito per praticità in grafico bidimensionale perché di più agevole lettura dei dati e che rappresenta tutte le cromaticità che l’occhio umano può percepire13. A titolo rappresentativo sono di seguito presentati alcuni risultati ottenuti svolgendo delle analisi su due squame appartenenti alla cupola della Collegiata di Santa Maria Maddalena a Morano, recuperate in occasione dei lavori di restauro. In particolare si possono osservare nei due campioni, le letture dei dati sullo spettroforomo e i diagrammi di cromaticità. L’indagine colorimetrica svolta sulle superfici maiolicate appartenenti a due squame, una di colore giallo (Cattedrale di Lamezia) ed una di colore verde (Collegiata di Morano) è stata preceduta da una osservazione visiva ad occhio nudo, necessaria per valutare omogeneità cromatica delle superfici esaminate, e solo successivamente attraverso l’uso del colorimetro, poiché la significatività di misure di parametri colorimetrici non dipende solo dalla risposta dello strumento di rivelazione, ma anche dalla corretta impostazione di tutto il complesso di misurazione. Le informazioni ottenute e raccolte rappresentano un utile supporto in quanto sono di orientamento nelle scelte dell’intervento che il restauratore deve effettuare permettendo non solo la verifica della compatibilità dei materiali, ma anche della gradevolezza visiva.

Conclusioni In Italia, l’uso delle ceramiche smaltate riconducibile alla cultura islamica, si è diffuso in particolare nelle regioni meridionali dove si è espresso con la presenza di squame volte a rivestire le cupole di edifici monumentali. Esse catturano l’attenzione, non solo per la loro conformazione e per i loro caratteristici cromatismi, ma anche per l’atmosfera che riescono a conferire al contesto urbano. L’interesse posto al patrimonio culturale permette di accrescere la conoscenza culturale della collettività ma anche di indirizzare ed operare con una logica di valorizzazione ancor più rilevante se riguardante monumenti aventi forti caratteristiche identitarie. Tale consapevolezza è accentuata dalla singolarità dei monumenti studiati; le cupole realizzate con maioliche acquistano, infatti, rilievo in quanto distribuite sul territorio come nel caso della regione Calabria, caratterizzata dalla presenza di molte chiese con cupole rivestite con ceramiche colorate e smaltate disposte in modo da determinare un paesaggio suggestivo, ricco di fascino, derivante proprio dalla loro particolare collocazione.

Rossi M., Colore e colorimetria, Maggioli Editore, Rimini 2011; Oleari C., Misurare il colore, Hoepli ed., Milano. 2008.

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I DOLCI INGRANAGGI DELLA RECIPROCITÀ CHIESA CATTOLICA ALL’AJA PASTOOR VAN ARS Gaetano Ginex

Nel presentare la chiesa Pastoor Van Ars a Loosduinen, un quartiere nella zona nord occidentale dell’Aja1, vorrei porre l’attenzione sul concetto di “elemento fondativo” inteso come valore intrinseco della solidarietà che si viene ad istituire tra chiesa intesa come edificio e chiesa intesa come comunità. Ciò è per me necessario per narrare le vicende architettoniche di questo edificio perché intendo analizzare il rapporto che si istaura tra lo spazio esterno e quello interno della chiesa al fine di mostrare i principi di elaborazione del progetto intesi come “meccanismi della reciprocità”2 in cui il dare e il ricevere rappresentano principi di coesione sociale. Una narrazione, quindi, del ciclo ideativo della sua forma e della sua spazialità che mette in evidenza le regole, spesso invisibili, che le governano e principalmente il principio oltre che formale, ideativo, che le caratterizza. Il ‘processo di scavo’, la ‘sovrapposizione’ coerente di due strutture differenti e il ‘trattamento ad intreccio della superficie architettonica’ sono i temi che più caratterizzano i progetti di Aldo Van Eyck ed in modo particolare il progetto della chiesa Pastoor Van Ars. Sia l’esterno dell’edificio che il suo interno risultano essere “collegati” e quasi solidali tra loro attraverso elementi che definiscono una reciprocità esterna ed interna che lo rende unico nel suo genere. I muri, i lucernai, le masse architettoniche differenti per altezza e consistenza materica, svelano un interno complesso in cui le diverse altezze dei volumi esterni, il sistema di sottili salti di quota del pavimento, i leggeri gradini interni disegnano una sequenza morbida e ondulata del suo percorrere fin dentro l’intimità mistica e religiosa del luogo, espressa dalla comunità dei fedeli. Esterno ed interno quindi come un ciclo di un unico sistema proiettato alla sacralità. Non si può prescindere nel raccontare questa architettura dal considerare la figura di Aldo Van Eyck, architetto olandese tra i più rappresentativi del panorama mondiale dell’architettura del ‘900. Ciò per rendere evidente un procedimento progettuale che ha le sue radici in modelli arcaici, antichi, archetipici. Ogni sua opera esprime una grande ricchezza di associazioni e possibilità formali che spesso è difficile vedere immediatamente poiché richiedono una particolare attenzione per intuire le tracce di un percorso i cui rimandi, le memorie e i ricordi di luoghi lontani vengono richiamati continuamente3. La chiesa Pastoor Van Ars è segnata nella sua origine da tracciati e percorsi che portano ad individuare un principio di insediamento che è mediato da un procedere dal 1 Nel 1963 il vescovato di Rotterdam ha formalizzato la richiesta ad Aldo van Eyck di progettare e costruire una chiesa a L’Aja, imponendo solo come supervisore un “mentore”, Hans van der Laan monaco benedettino e architetto. La chiesa risulta terminata alla fine del 1969. Anche se non è né cattolico né di altro credo, Aldo van Eyck ha conosciuto innumerevoli chiese e luoghi sacri di ogni tipo in varie parti del mondo. Da queste esperienze di viaggio scaturisce la progettazione sia della chiesa in oggetto, che di una chiesa protestante non realizzata (“Wheels of Heaven, Le ruote del cielo”) che una chiesa per la comunità del popolo Molucco a Deventer. 2 F. Strauven, Un luogo di reciprocità, in Lotus International n° 28, 1980 pagg. 22- 39. […] Gli elementi che agiscono nel progetto sono indipendenti e si equivalgono senza che nessuno predomini. I volumi sono distribuiti secondo una “grandiosità” che si percepisce sulla base dei rapporti reciproci che le forme istaurano tra di loro. I corpi circolari dell’impianto della chiesa contrastano con il grande corpo di base, il rettangolo. Il motivo predominante è il contrasto tra le due forme elementari, il grande rettangolo e i cerchi che si integrano in un rapporto reciproco […] G. Ginex, in Architettura del Bello Architettura del Sublime: le risposte del disegno. Palermo 1987. 3 Il museo immaginario di Aldo Van Eyck può essere considerato come una riserva inconsapevole di conoscenze collettive, nella quale l’architetto trova le forme per mezzo delle quali egli può compiere il suo lavoro di progettista. Un’opera di architettura è l’interpretazione personale di due campi di conoscenze collettive, uno materiale e l’altro immateriale. Da una parte si tratta di interpretare il comportamento archetipico dell’uomo nella collettività, e dall’altro di interpretare l’immenso museo immaginario ovvero l’esperienza costruttiva globale dell’umanità […] H. Hertzbergher, Aldo van Eyck, in Spazio e Società n° 24 1983, pagg. 80-97

1. Vista dell’interno (foto Peter de Ruig)

Una narrazione del ciclo ideativo della sua forma e della sua spazialità che mette in evidenza le regole, spesso invisibili, che le governano ...

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A lato 2. Conceptual sketches del progetto della Chiesa Pastoor Van Ars a l’Aia 1963. Disegno di Aldo Van Eyck (particolare) 3, 4. Piante e sezioni orizzontale e verticale (1. Spazio per i fedeli; 2. Ampliamento e spazio pluriuso; 3. Altare; 4. Cappelle; 5. Fonte battesimale; 6. Confessionali.). Tratto da: R. Mc Carter, Aldo van Eyck, Yale University Press, London 2015. 5/8. Assonometrie della configurazione spaziale e strutturale della chiesa. Disegni tratti dalla Tesi di Dottorato: Aldo Van Eyck’s Human Dimension Of Architecture. Written and Built: Recognition of his ideas and Study of his church in The Hague. Tesi di Dottorato di D. Jose Fernández-Llebrez Muñoz Universidad Politècnica de Valencia Escuela Tècnica superior de architectura. Valencia, Febbraio 2013 Nelle quattro assonometrie è evidente la configurazione strutturale che poi determina l’architettura dell’interno e dell’esterno. Tutto appare chiaro: la struttura orizzontale, la struttura verticale con la Via Sacra, ritmata dai “costoloni” in mattoni, dalle architravi con aperture orizzontali disposti in sequenza lungo la Via Sacra. I cilindri posizionati sul tetto divisi in due entità nella parte bassa perché attraversati dalle travi, ed in ultimo la copertura divisa in quattro aree di cui due alla stessa altezza che contengono i grandi tamburi circolari. É evidente il grande spazio verticale della Via Sacra con i quattro piccoli lucernai.

9. Schemi dell’impianto planimetrico con il contesto e il parco circostante con il canale d’acqua. Sono evidenti gli ingressi. 1. Schemi pianta strutturale, 2. della distribuzione interna, 3. sezione delle parti più alte della copertura. Tratto da. G. Ginex, I disegni di Aldo Van Eyck: quadrati ‘magici’ e cerchi ‘incantati’, in “Ikhnos” 2010.

fuori al dentro e viceversa in cui concorrono molti fattori quali il Luogo, la Forma architettonica come principio insediativo, gli Elementi che la costituiscono, la Luce che la illumina, i Materiali con cui è costruita, ed in ultimo la Circolazione, ovvero come il progettista propone una circolazione trasversale al piano della chiesa capace di collegarsi a tutte le aree esterne con particolare attenzione alle aree verdi e all’acqua del fiume che attraversa il sito. Aldo Van Eyck inventa nuovi rapporti tra le forme reinterpretando i processi della liturgia e gli spazi della celebrazione al fine di concepire un organismo il cui significato va oltre la rappresentazione liturgica, mantenendone comunque i suoi significati canonici. L’idea di uno spazio sacro inteso come archetipo da tradurre in spazio architettonico, ma con la particolare ottica “ [...] di mitigare l’antica irreversibilità della gerarchia (del sacro) inducendola a divenire reversibile o relativa...ovvero introducendo la sua memorabile fede nei …dolci ingranaggi della reciprocità [...]”4. Aldo Van Eyck concepisce il progetto 4 […] lungi da me il voler secolarizzare (cioè neutralizzare e banalizzare) ciò che per gli altri è sacro ho cercato di mitigare l’antica irreversibilità della gerarchia inducendola a divenire reversibile o relativa. Solamente i dolci ingranaggi della reciprocità potevano aiutarmi, in questo (progetto)… Aldo van Eyck, Lotus n° 11. 1976. pagg. 109-115

10,11. Suddivisione e consistenza planimetrica degli spazi interni: 1. Casa parrocchiale; 2. Zona di estensione del culto, un quadrato usato come spazio di incontro dei fedeli; 3. Spazio a grande altezza “navata centrale” o Via Sacra; 4. Spazio della celebrazione religiosa. Tratto da: Jose Fernández-Llebrez Muñoz Febbraio 2013

Aldo Van Eyck inventa nuovi rapporti tra le forme reinterpretando i processi della liturgia e gli spazi della celebrazione ...

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12. Sezione della Via Sacra e area delle funzioni religiose (Disegno di Aldo Van Eyck) 13. Assonometria (disegno e foto di D. Jose Fernández-Llebrez Muñoz), vista dell’area esterna 14,15. Viste dell’esterno

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come un sistema di elementi o di parti compiute in cui la composizione non è più l’idea di una funzionalità specifica a cui attribuire un volume, ma diviene un meccanismo articolato attraverso un insieme di eventi progettuali tutti interagenti tra loro che disegnano un’immagine di chiesa dove contenuto e forma hanno una forte identità architettonica, materica, simbolica e funzionale contemporaneamente, rafforzata dalle diverse specifiche soluzioni che caratterizzano la forma compiuta finale. Un approccio che ruota attorno allo spazio sacro e alla sacralità dello spazio al tempo stesso laica e religiosa. Van Eyck adotta un utilizzo diffuso di forme e geometrie semplici con l’intento di comunicare la forza primordiale che esse esprimono. Comunque per lui la planimetria e la pianta di un progetto rappresentano da subito l’origine e l’ordine dello spazio5. Come all’interno di un’antica basilica, i percorsi sacri assumono un ruolo maieutico dell’incontro, infatti, interpretandoli in una nuova ottica, essi si incrociano e nel contempo si separano secondo le parti “istituzionali” della liturgia (navate, transetto, coro, cappelle, altare) in un complesso gioco di relazioni gerarchiche colmo di metafore spaziali dove ogni luogo ha la vocazione di essere rimando ad altri luoghi dentro un’unica storia che comprende anche la città e la comunità tutta. L’esterno richiama una fortezza medioevale dove gli ingressi si caratterizzano e si mostrano al fedele vicino a forme semicircolari che invitano ad entrare, differenziandosi iconicamente dalla massa uniforme della forma compatta del volume esterno. Infatti i semicerchi delle cappelle che escono dalla massa muraria rompono la rigidezza delle pareti laterali congiungendosi materialmente e idealmente agli altri cerchi interni che rappresentano ognuno una funzione specifica, come i confessionali, il fonte battesimale, i lucernai sul tetto. Il volume è racchiuso in un unico rettangolo quasi monolitico differenziato nelle altezze, frammentato e ritmato in copertura da una serie regolare di grandi lucernai cilindrici che illuminano lo spazio interno dove si svolgono le funzioni religiose e dove i fedeli si riuniscono. Questo volume è costruito in blocchi di calcestruzzo e apparentemente mostra una tettonicità volumetrica materialmente inviolabile. Non vi sono elementi emergenti come un campanile, ma solo volumi a differente altezza della stessa larghezza del rettangolo basamentale. La chiesa è divisa in spazi chiaramente identificabili in cui il verde esterno che 5 Il manifesto disegnato da van Eyck per questo progetto rappresenta chiaramente un lavoro configurazionale (tipico del Maestro) dalla sua fase concettuale alla fase realizzativa che mette in atto un programma intriso di eventi formali interni ed esterni sempre più profondi.


16. Vista prospettica della Via Sacra (foto Peter de Ruig) 17. Vista interna (foto G. Ginex) 18/21.Viste dell’esterno della Pastoor Van Ars (foto G. Ginex)

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A lato 22/26. Vista dei cilindri posizionati sul tetto divisi in due entità nella parte bassa e attraversati dalle travi. (foto Peter de Ruig)

la circonda la accoglie morbidamente nel suo ambiente come il canale d’acqua che scorre parallelamente all’edificato oltre che il parco urbano in cui la chiesa assume il ruolo di centralità. I 15 tamburi circolari posizionati nelle diverse quote del tetto ne danno una caratterizzazione architettonica che la rende identificabile e fortemente iconica nell’ambiente circostante. L’edificio è costituito da quattro momenti fondativi: 1° Una parte dell’edificio a due livelli, costituita dalla casa parrocchiale; l’unico primo piano. 2° Uno spazio a grande altezza, la navata centrale della chiesa (la via sacra) che consiste in un rettangolo verticale stretto ed allungato, simile a quello della casa parrocchiale, situato al centro della pianta, illuminato da quattro lucernai posizionati in sequenza per tutta la lunghezza dello spazio sacro. I lucernari in questo caso pur mantenendo il passo con i loro contigui, sono più piccoli e sono a livello più alto del piano di coperta e quindi non visibili dall’esterno. 3° Un’area di estensione del culto illuminata da due lucernai principali; una sorta di quadrato dove si trova la zona riservata al culto (usato anche come spazio di incontro tra i fedeli). 4° Uno spazio di celebrazione religiosa che contiene l’altare principale illuminato da otto lucernai che danno luce dall’alto allo spazio sottostante, l’esterno che entra dentro. Quest’area si caratterizza per la grande dimensione e la minima altezza e contiene le sedute per i fedeli e gli spazi per il coro e per la musica. Dalla sezione orizzontale si può chiaramente leggere lo spazio a grande altezza che configura la navata centrale e le due aree situate su entrambi i lati: a sinistra l’area destinata al culto e all’incontro tra i fedeli con i due lucernai in copertura e a destra lo spazio della celebrazione religiosa con i suoi otto lucernai. Sono evidenti nella sezione, i salti di quota e le differenti altezze, (larghezza generosa e bassa altezza come dive Van Eyck) generate da piccoli gradini che disegnano un pavimento ricco di situazioni emozionali che portano il fedele a salire e scendere continuamente in un rapporto quasi mistico con il contesto interno. I cilindri posizionati sul tetto oltre ad essere di forte impatto visivo e materico hanno la caratteristica di essere “attraversati” dalle travi che hanno una funzione strutturale e che dividono la luce sullo spazio sottostante contribuendo a rendere la luminosità rarefatta e contemporaneamente concentrata in due parti distinte. Garantiscono infatti un ritmo costante e un ordine nella divisione dello spazio interno. I tamburi lucernai situati sopra le travi dividendosi in due parti si riuniscono al contempo in un cilindro più in alto sopra le travi. La struttura portante così viene messa in risalto dalla luce che scende dai tamburi, il tetto diventa un unico sistema, un’unica cupola che occupa lo spazio della copertura. Anche le travi assumono in questa ottica oltre che una funzione tecnica una specifica funzione figurativa. Architravi scanditi da aperture orizzontali situati in successione nell’area della “via sacra” che sembrano “capitelli allungati” che allargano l’orizzonte della via sacra accentuandone l’aulicità come spazio di grande qualità, spazio di contemplazione che, attraverso un linguaggio attuale, interpreta una storia millenaria. L’approccio progettuale di Aldo Van Eyck è fondato essenzialmente sulla duplice interpretazione di spazio sacro e di sacralità dello spazio dando voce così a quanto di arcaico e di moderno si è accumulato nel profondo della memoria collettiva. Tutto questo nella convinzione evidente che “una chiesa è un luogo vivo per uomini vivi” che partecipa attivamente alla memoria degli abitanti e della comunità. I diversi spazi interni comprendono vari momenti emozionali quali: lo spazio dell’azione e della riflessione, del rito e del dogma, dell’aggregazione e dell’isolamento, ed infine dell’elevazione al trascendente tutto questo attraverso l’utilizzo di forme e geometrie semplici, affidan-

L’approccio progettuale di Aldo Van Eyck è fondato essenzialmente sulla duplice interpretazione di spazio sacro e di sacralità dello spazio dando voce così a quanto di arcaico e di moderno si è accumulato nel profondo della memoria collettiva.

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A lato 27, 28. Vista delle architravi con le aperture orizzontali posizionate lungo la Via Sacra (foto Peter de Ruig) 29/31. Viste interne (foto G. Ginex) Nota. Le foto 16, 22/26, 27 e 28 sono liberamente tratte da: Josè ten Berge-de Fraiture en Annemarie van OorschotDracht, Pastoor Van Ars, Monument van Aldo van Eyck, Ars Architectuur Comitè, 2015. Testo e fotografia: Peter de Ruig

dosi solo alla forza comunicativa primordiale espressa dagli elementi stessi. La “strada sacra” è uno degli spazi più significativi della chiesa inverte il concetto di navata centrale ma anche delle navate laterali che vengono dilatate nei due spazi laterali alla via sacra quest’ultima di 11 metri, quindi molto alta rispetto al volume sottostante ritmata da alti costoloni che scandiscono lo spazio attraverso intervalli di piccoli luoghi allineati trasversalmente, rispetto a chi assiste alla funzione religiosa. I cerchi e i semicerchi deformano la sagoma esterna originaria, evidenziando una compenetrazione degli spazi e del “movimento” in una reciprocità tra esterno visibile nelle varie altezze dei volumi sia in altezza che attraverso le diverse quote del terreno e il movimento interno invisibile se non attraverso i salti di quota e il salire e scendere di piccoli gradini. Lo spazio ecclesiale si configura con più centri, non esiste una unica centralità ma al contrario essa migra in più direzioni. Il concetto di luogo resta comunque il protagonista assoluto. Il rettangolo di base assume all’interno una forma fluida e dilatata mentre i tamburi cilindrici rompono questa linearità. Sia il tema del rettangolo che i temi del cerchio e dei semicerchi sono esplorati in maniera approfondita. Si assiste alla rottura del rettangolo come entità geometrica autonoma ma contaminata dai semicerchi degli elementi interni e dai tamburi circolari della copertura, una geniale soluzione quasi ‘magica’ in cui è evidente la volontà di uscire da schemi geometrici rigidi e canonici, molto in linea alle idee ed ai riferimenti arcaici sempre presenti nell’opera di Aldo Van Eyck6. Elementi intesi come componenti, come forme non superficiali, come strutture significanti, ma principalmente come riferimenti, come citazioni, come “momenti elementari” del processo progettuale. Un collegamento tra il micro e il macrocosmo dell’Universo. Una geometria che ha un carattere strutturante, come fondamentale parametro di razionalità con cui è possibile leggere il processo progettuale. Questa chiesa dalla costruzione apparentemente austera rivela tutta la sua complessità spaziale interna ed esterna solo ad una attenta analisi proiettata a comprendere le forme attraverso un’interpretazione archetipica del concetto di chiesa inteso come istituzione ma anche come edificio. L’intelaiatura di travi e pilastri definiscono di volta in volta spazi diversi pur all’interno di una rigida struttura che solo perché tale può consentire una nuova proposta avanzata nello spazio e nel tempo di un rinnovamento liturgico che mantiene comunque un carattere e una modalità ben consolidate.

Aldo Van Eyck è come se giocasse con le forme, attraverso il suo talento compositivo, il processo di fondazione della chiesa acquista un particolare significato perché allude ad un cosmo il cui centro è la sacralità come principio fondativo. Questa sacralità è diffusa e permanente in tutto lo spazio progettato diventando sostanza di ogni essenza laica e religiosa al tempo stesso. In questo senso la chiesa Pastoor van Ars rappresenta la formalizzazione ma anche la dichiarazione di un sistema consolidato ed “eterno” di liturgia che si materializza in forme architettoniche il cui segno distintivo è solo una evidente “semplicità celeste”.

6 Che la scelta per chi dovesse costruire la chiesa cadesse su Aldo van Eyck, fu in parte dovuto a “Wheels of Heaven”, il suo progetto di concorso del 1962 per una chiesa protestante nella tenuta De Horst a Driebergen. La sobrietà e il linguaggio elementare di questo progetto hanno entusiasmato, tra gli altri, gli architetti cattolici Nico e Dom Hans van der Laan. Il consiglio di amministrazione dell’Aja assegnò a Nico van der Laan il ruolo di supervisore e Van Eyck fu scelto come architetto.

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IDEAZIONE LUMINISTICA

COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN BERNARDINO, L’AQUILA Francesca Storaro

La facciata rinascimentale in pietra della chiesa di San Bernardino è stata edificata su progetto di Cola dell›Amatrice tra il 1524 ed il 1542. La ripartizione in tre diversi ordini ricorre nell’apparato decorativo frutto della sovrapposizione di dorico, ionico e corinzio. Quattro file di doppie colonne suddividono verticalmente l’impaginato creando un suggestivo ed armonico disegno di nove specchi quadrangolari disposti su tre file. L’illuminazione della facciata è caratterizzata da un doppio registro cromatico. Il primo, morbido, diffuso, di tonalità bianca neutra, illumina tutta la facciata dal basso verso l’alto mettendo in risalto gli elementi orizzontali attraverso un’ombra proporzionata, raggiungendo la giusta evidenziazione tridimensionale. Tanto l’ombra rimarca gli elementi orizzontali, quanto la luce caratterizza gli elementi verticali. Equilibrio ed armonia quindi, formati, come nell’architettura michelangiolesca a cui si ispira il progetto della facciata, da tensioni interne generate dal contrasto di elementi di uguale intensità, come le linee orizzontali e verticali della facciata. Una luce d’accento, di tonalità bianco calda come il sole del cristogramma JHS di San Bernardino, sottolinea quindi le ventiquattro colonne, andando a rivelare i nove quadrati di cui la facciata è composta. Gli stessi basamenti del piano terra delle colonne sono illuminati per rimarcare l’attacco a terra. L’illuminazione d’accento di tonalità bianco calda mette in risalto anche i tre oculi che caratterizzano la facciata ed il portale principale con la rappresentazione della Madonna e di San Bernardino, formando la sottolineatura di quattro elementi, a simbolo del quadrato e della croce. La trifora sopra il portale principale, essendo un elemento settecentesco, è illuminata in controluce, mentre della cupola retrostante si pongono in evidenza solo le parti più significative, i costoloni e la lanterna; per il campanile, invece, la scelta è quella di una fonte di luce interna visibile dalle arcate delle bifore. L’interno della chiesa, ricostruito nel settecento sull’impianto quattrocentesco, appare come la celebrazione ed esaltazione attraverso la luce della figura di San Bernardino. Al centro del meraviglioso soffitto ligneo, esattamente in asse con il mausoleo del santo, troviamo il cristogramma JHS simbolicamente rappresentativo della figura del Sole e di Cristo stesso. Il trigramma fu disegnato da Bernardino stesso e consiste in un sole raggiante in campo azzurro; al centro del cerchio le sole tre lettere JHS che sono le prime tre del nome Gesù in greco. Ad ogni elemento del simbolo 1. S.Bernardino. l’Aquila

L’illuminazione della facciata è caratterizzata da un doppio registro cromatico. Il primo, morbido, diffuso, di tonalità bianca neutra, illumina tutta la facciata dal basso verso l’alto mettendo in risalto gli elementi orizzontali attraverso un’ombra proporzionata, raggiungendo la giusta evidenziazione tridimensionale.

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Bernardino applicò un significato: il sole centrale, chiara allusione a Cristo, ha dodici raggi che si riferiscono ai dodici apostoli, la fascia che circonda il sole rappresenta la felicità dei beati che non ha termine, il celeste dello sfondo è simbolo della fede, mentre l’oro evoca l’amore. Una luce bianca di tonalità calda avvolge il soffitto ligneo ed espandendosi come i raggi del sole avvolge di luce indiretta anche le volte delle navate e delle cappelle laterali. Gli effetti di luce derivano dall’uso diffuso di corpi a LED la cui luce non presenta componenti di raggi ultravioletti o infrarossi e non è quindi dannosa per gli oggetti illuminati, elemento molto importante in merito alle indicazione previste dai Beni Culturali. Sono stati quindi rispettati i livelli di illuminamento medio di esercizio di 150 lux per “materiali moderatamente sensibili alla luce”. Il ritmo compositivo legato ai grandi pilastri sui quali poggiano le lesene che scandiscono lo spazio della navata principale attraverso ampie arcate è sottolineato da una luce bianca neutra. Lo stesso espediente caratterizza anche le arcate di entrata delle cappelle laterali, creando un sapiente gioco prospettico trasversale. Nelle cappelle le volte ottagonali sono trattate con luce indiretta, mentre un proiettore d’accento illumina l’opera d’arte che si trova al centro di ogni pala d’altare; la fonte di luce puntuale evita che lo spettatore venga abbagliato e gli permette di leggere le opere d’arte nella loro piena tridimensionalità. Il soffitto della cappella contenente il mausoleo di San Bernardino con l’affresco del Cenatiempo è messo in risalto con un’illuminazione morbida ed uniforme di tonalità bianco calda, mentre il mausoleo realizzato da Silvestro Dall’Aquila nel 1505 è illuminato con una luce d’accento di tonalità bianco neutra utile ad esaltarne ulteriormente il candore della pietra. Il prezioso organo di Ferdinando Mosca in controfacciata e l’altare maggiore settecentesco, sono illuminati con una luce d’accento di tonalità bianco calda. La volta dell’abside contenente l’altare ed il coro è invece bagnata da una luce indiretta proveniente dalla vetrata principale di tonalità bianco neutra in contrasto con la tonalità calda dell’altare stesso, come se la luce venisse dalla vetrata stessa, come prodotta da

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una fonte divina che si espande verso l’interno della chiesa. E’ la poetica del difetto (Bernini): “l’abilità dell’architetto si conosce principalmente in convertire i difetti del luogo in bellezza”.

Tutto l’impianto di illuminazione della chiesa si basa, quindi, sul contrasto fra luce bianca calda e luce bianca neutra, un sapiente gioco di cromie che permette di evidenziare, sottolineare, distinguere i vari elementi architettonici, pittorici e decorativi della chiesa stessa, donando equilibrio ed armonia.

5/8. S.Bernardino. l’Aquila

Ad eccezione di alcuni corpi illuminanti a ioduri, necessari per le grandi potenze, comunque anch’essi considerati a risparmio energetico, tutti i corpi illuminanti utilizzati per l’esterno e l’interno della chiesa sono corpi illuminanti a LED della ERCO. La luce bianca dei LED non presenta componenti di raggi ultravioletti o infrarossi e non è quindi dannosa per gli oggetti illuminati. I LED vantano una durata di vita estremamente elevata di 50.000 ore, pari a circa venti anni. Inoltre i LED offrono un rendimento energetico superiore rispetto a molte altre sorgenti luminose. Si avrà quindi una razionalizzazione ed un risparmio energetico del sistema illuminotecnico previsto, dovuti alla riduzione dei consumi e delle manutenzioni nel tempo. Sono stati utilizzati tutti corpi illuminanti a LED di altissima qualità tecnologica con particolari caratteristiche illuminotecniche con sistemi ottici brevettati dalla ERCO come i collimatori e le lenti SPHEROLIT. I proiettori selezionati garantiscono quindi un efficiente confort visivo ed una vastissima gamma di ottiche: narrow spot, spot, flood, wide flood, wallwasher con diverse classi di potenza, che permettono un’altissima precisione progettuale.

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TRA SACRO E PROFANO Giorgio Della Longa

Bravi i professori americani che portano gli studenti, con carta e matita, a studiare al vero l’architettura. Chapeau alla loro tenacia in un mondo votato al virtuale che ha preso le distanze dalla realtà delle cose. Entro a San Giorgio Maggiore, non sono ancora le nove, e gli studenti sono già lì, bianchi neri e gialli, col naso in su a tradurre sulla carta quella macchina dalla grammatica perfetta, che ti viene voglia di curiosare nei taccuini per valutarne la mano. Pochi minuti alle dieci e all’unisono, ogni studente chiude il blocco da disegno, ripone tutto nello zaino, esce dalla basilica e si dirige verso l’ingresso ai Giardini.

Comprendo allora che quello non era che l’antipasto mentre la portata principale è costituita dal Padiglione della Santa Sede, la prima e acclamata partecipazione SPECIALE VATICAN CHAPELS

del Vaticano alla Biennale veneziana d’architettura. L’occasione è ghiotta non solo perché la Santa Sede si affaccia sul palcoscenico della Mostra ma lo fa con l’architettura al vero e non con dei simulacri. Qui ti potrai confrontare con l’idea realizzata, concreta, tangibile. In questo anomalo Padiglione potrai - finalmente! - vivere al vero l’emozione dell’architettura senza alcuna delega mediatica. Si tratta di cappelle, così si sente ripetere dal momento in cui il cardinale Gianfranco Ravasi ha lanciato l’iniziativa nello spazio

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mediatico. Se non intesa come una sottoparte di un tutto, la cappella è una architettura declinata in molteplici modalità. Non certo un tipo definito, forse anche ambiguo, quello della cappella. Per il curatore Francesco Dal Co “La richiesta rivolta agli architetti invitati a costruire il Padiglione della Santa Sede ha implicato una sfida inusuale, poiché ai progettisti è stato chiesto di confrontarsi con un tipo edilizio che non ha precedenti né modelli”. Ma è il cardinale Ravasi che precisa: “Nel culto cristiano esse sono veri e propri templi, sia pure in forma minore rispetto alle cattedrali, alle basiliche e alle chiese. In esse sono inserite due componenti fondamentali della liturgia, l’ambone (o pulpito) e l’altare, cioè le espressioni della Parola sacra proclamata e della Cena eucaristica celebrata dall’assemblea dei credenti.” Ne deduco che si è inteso proporre, per quanto di piccole dimensioni, luoghi di culto. Il curatore ha preso spunto dalla Cappella nel Bosco di Gunnar Asplund, capolavoro tra i capolavori del Skogskyrkogården di Stoccolma. Tra poco la piccola, primitiva cappella del maestro svedese - una cappella funeraria per la precisione - compirà i suoi primi cento anni. Luogo di orientamento, incontro, meditazione, la definì il suo artefice. Un microcosmo, quindi, un approdo in quel labirintico percorso della vita metaforicamente rappresentato dal bosco. Cappella come rappresentazione dell’accoglienza, precisa il curatore. L’attesa ci sta tutta anche quando cerco di evitare la massa dei visitatori, gran parte studenti, che si accalcano ai blocchi di partenza. Le cappelle sono dieci. I visitatori tanti, tanti di più, impegnati in un percorso a tappe ognuno con lo smartphone in mano a fermare il momento. Dieci cappelle, non una. Con tutta la buona volontà non riesco a ritrovarmi in un accogliente luogo, in un bosco, ma nell’ordinaria kermesse di una esposizione, anche e nonostante il bosco, la laguna, il vicino monastero, lo spirito del luogo. Qui si incontrano i talenti provenienti dai quattro angoli del globo, Esposizione Universale di architetti con le loro idee ben poco imbrigliate, per precisa volontà, dal curatore. Pochi paletti, pochi vincoli, quasi in caduta libera.

Forse dovrei studiare con maggior attenzione la domanda posta

dal curatore, ma più che questa, che possiamo riascoltare nei vari video sul web, mi chiedo dove sia finita la domanda posta dal committente, con la C maiuscola, che ha voluto confrontarsi - ed è una bella cosa - nuovamente con l’universo dell’architettura. Perché, sono sincero, non sono riuscito a comprendere quale fosse la domanda di fondo, la sfida proposta. Non certo - mi auguro - quella di confrontarsi con la tecnica che supporta la manifestazione artistica o con le aziende, che hanno realizzato le proposte e sostenuto la manifestazione, la cui presenza a me è parsa davvero troppo ingombrante. Mi sono chiesto se il fruitore che si aggirava tra le cappelle, così come lo studente con il suo blocco e la matita, siano riusciti a “riscoprire la bellezza, il silenzio, la voce interiore e trascendente, la fraternità umana…” e se almeno qualcuno - ma credo sia pretendere troppo - si sia ritrovato in preghiera. Ho avvertito invece troppo presente, anche in maniera fastidiosa, il profumo della Comunicazione.

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INTERVISTA A LUIGI PRESTINENZA PUGLISI Andrea Jasci Cimini

D. Il rapporto tra l’architettura e lo spazio sacro, nasce agli albori della civiltà, ed è testimonianza fondamentale della storia dell’uomo. Pensa che l’architettura sacra riesca ancora da essere rappresentativa della società contemporanea?

R. Tutta l’architettura, religiosa e non, ha un carattere sacro. I costruttori di spazi si pongono sempre, infatti, in relazione con il mondo nella sua interezza: quindi fisico e metafisico. Tante volte, purtroppo, la tensione si tramuta in parodia. Ed ecco allora che l’architettura scimmiotta una profondità che non riesce a scandagliare, e mostra solo un’aspirazione irrisolta a superare i propri limiti. Il fallimento diventa ancora peggiore quando il flop interessa le opere destinate al culto. Nei rari casi in cui avviene il miracolo, di trovare una chiave per comunicare con le parole dell’oggi il problema del nostro esistere, l’opera sacra riesce certamente ad essere rappresentativa della società contemporanea. D. Quest’anno la Santa Sede Partecipa per la prima volta alla biennale di Architettura di Venezia. La Chiesa, come committente, sembra cercare e sollecitare una risposta dal mondo dell’architettura. Crede che i progettisti possano tornare ad essere parte attiva di un dialogo che riporti lo spazio sacro ad essere un importante tema di ricerca?

R. L’intelligenza della Chiesa è stata sempre di lasciare libertà agli artisti e agli architetti. Capendo che a volte un ebreo, un ateo o un mussulmano (sono stati mai chiamati i mussulmani?) possono essere interpreti più interessanti del tema del sacro di un credente praticante la religione cattolica. La risposta dunque è: credo di si, se come si è fatto, li si lascia liberi. D. IL tema delle Cappelle è stato declinato in maniera molto libera dagli architetti invitati. Questa varietà espressiva e simbolica rispecchia la complessità e molteplicità delle società contemporanee o denota un processo in corso, iniziato con il Concilio Vaticano II, di riscrittura dei canoni architettonici degli spazi liturgici?

R. Si, aggiungerei però che i risultati non sono stati in questa tornata particolarmente entusiasmanti. Alcune

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-non tutte- sembravano esercitazioni stilistiche poco ispirate. Idee superficiali o di maniera gettate giù velocemente. D. Non è possibile passeggiare tra le cappelle sull’ isola di S. Giorgio senza percepire una forte relazione, a volte involontaria, con uno spettacolare contesto. È una caratteristica di molti spazi sacri fin dalla preistoria. È quindi la scelta del luogo la prima fondamentale azione progettuale, o come suggerito da alcune cappelle la temporaneità è un valore fondativo di una mutata sensibilità?

R. Pensare che l’Edificio sia l’oggetto e basta e non il sistema di relazioni che intesse con lo spazio e quindi con l’ambiente circostante sarebbe un grave errore. Direi però che non ci sono regole: si possono fare meravigliose opere chiuse in sé stesse e altrettanto meravigliose immerse nel paesaggio. Sicuramente un bel panorama aiuta. Ma può rendere l’opera melensa e sdolcinata. Buona solo per scattare belle foto. D. La storia dell’architettura testimonia come negli spazi sacri sia inscindibile l’ambito architettonico da quello artistico. La presenza della Santa Sede a Venezia potrebbe portare in futuro ad un collegamento più interattivo tra la biennale d’arte e quella di architettura? Pensa che l’arte sacra possa tornare ad essere uno spazio di avanguardia artistica?

R. Sarebbe una bella idea rompere i confini tra arte e architettura, con manifestazioni ad hoc. Credo però che alla fine una disciplina abbia una propria autonomia che si autodefinisce continuamente. Quindi ok a smantellare gli steccati, ma attenzione a non cadere nell’indistinto. Bisogna poi sempre ricordarsi che fare una poesia senza rima è più difficile che costruire una quartina in rima baciata. E fare un’architettura senza muri è più complesso che farne una con tutte le pareti al loro posto. Non credo però che l’arte sacra, intesa in senso stretto come le opere d’arte a soggetto religioso, possa avere oggi un ruolo di avanguardia. Una cosa è lasciare una certa libertà agli artisti, come fa la Santa Sede, altra è stimolarli sui temi della trasgressione, della libertà senza confini, della sperimentazione.

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VATICAN CHAPELS REPORTAGE FOTOGRAFICO

Alessio de Lazzari - Andrea Cimini Jasci.

Andrew Berman

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Francesco Cellini


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Javier Corvalàn

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Ricardo Flores - Eva Prats


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Norman Foster

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Terunobu Fujimori


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Sean Godsell

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Carla Juaรงaba


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Smiljan Radic

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Eduardo Souto de Moura


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Francesco Magnani - Traudy Pelzel

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THEMA 9 HANNO SCRITTO PER THEMA 9I19 Claudio Mazzanti. Dottore di ricerca in Storia dell’Architettura presso l’Università di Chieti-Pescara. Studia il patrimonio storico architettonico in Italia e in ambito ispano-americano, con particolare interesse per la costruzione sacra antica, moderna e contemporanea Giorgio Della Longa. Architetto, è autore in particolare di interventi di adeguamento e valorizzazione di significativi edifici religiosi e complessi ecclesiastici. È autore di ricerche e pubblicazioni sia sulla nuova architettura ecclesiastica che sull’adeguamento e valorizzazione di quella esistente. È membro del Comitato scientifico del Congreso Internacional de Arquitectura Religiosa Contemporánea e del Comitato scientifico della Fondazione Frate Sole di Pavia ed è membro della Consulta dell’Ufficio Liturgico Nazionale della CEI. Luigi Prestinenza Puglisi. Critico di architettura. Collabora abitualmente con IoArch, Artribune, Edilizia e territorio, The Plan, A10. È stato direttore scientifico della rivista Compasses e dirige la rivista on line presS/Tletter. È presidente dell’Associazione Italiana di Architettura e Critica (www.architetturaecritica.it). È il curatore della serie ItaliArchitettura (Utet Scienze Tecniche). Da non perdere la sua Storia dell’architettura del 1900 che si può scaricare su www.presstletter.com. Andrea Jasci Cimini. Architetto. Ha collaborato con diversi studi di architettura in Italia e all’estero. Soprattutto in Svizzera e su progetti in Africa e Medio Oriente. Attraverso master class, concorsi e workshop, le aree di ricerca spaziano dalla progettazione architettonica al tema della trasformazione urbana e del territorio. È stato tra i progettisti selezionati per il padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2018, 16. mostra internazionale di architettura. Attualmente vive e lavora in Svizzera. Gattuso Caterina. Dopo la laurea in Architettura ha conseguito poi quella in Storia e Conservazione dei Beni Architettonici e Ambientali ambedue presso la Facoltà di Architettura di Reggio Calabria. Svolge attività di docenza e di ricerca a Rende (Cosenza) presso il Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra, all’Università della Calabria. Le attuali ricerche riguardano soprattutto la gestione della complessità della conoscenza finalizzata al restauro, alla tutela e alla valorizzazione dei Beni Culturali Ginex Gaetano. Insegna all’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, afferente al Dipartimento d’ArTe, Architettura e Territorio. Ha partecipato a comitati editoriali di riviste di architettura nazionali, ha svolto incarichi di insegnamento presso Atenei esteri, ha partecipato a progetti di ricerca e a comitati scientifici nazionali. Svolge una costante attività di ricerca nel campo dell’architettura ecclesiastica con la partecipazione a master di Progettazione e Riqualificazione di Architetture per il Culto. Nel 2012 ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale a Professore Ordinario (08/E1-1^Fascia-Disegno)

Andrea Zonato. Laureato in Storia, archivista e presidente di Culturalpe s.c. Da quasi vent’anni si occupa di beni culturali, con attenzione alla tutela e salvaguardia del patrimonio documentario, librario e storico artistico in campo sia ecclesiastico che civile. Svolge attività di inventariazione presso gli Archivi Diocesani di Susa e Ivrea. Claudio Varagnoli. Professore ordinario di Restauro architettonico presso l’Università “G. d’Annunzio” di Chieti –Pescara. Da molti anni si occupa degli aspetti metodologici del restauro e della loro ricaduta nella gestione del patrimonio architettonico. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni sul rapporto tra conservazione e progettazione contemporanea, insieme a studi sulle tecniche costruttive tradizionali e sull’architettura vernacolare, in particolare abruzzese. Valerio Pennasso. Direttore Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’Edilizia di Culto della Conferenza Episcopale Italiana Carlo Pozzi. Professore Ordinario in Progettazione Architettonica nella Università “G. D’Annunzio” di Chieti e Pescara; svolge ricerche nel Dipartimento di Architettura, di cui è stato direttore dal 2012 al 2014, specialmente sul tema dell’urban sprawl lungo la linea di costa medio-adriatica, sul ruolo importante delle infrastrutture e sull’individuazione di nuove centralità. Negli ultimi anni ha costituito il Laboratorio Città Informale, applicando didattica e progetto alla rigenerazione urbana di favelas brasiliane e dello slum di Kibera (Nairobi). Ha lavorato a numerose ristrutturazioni nei Sassi di Matera, vincendo il premio INARCH. Francesca Storaro. Lighting Designer AIDI, IALD, CLD dopo la laurea in architettura segue un perfezionamento in Scienza dell’Illuminazione. Dal 2007 e’ docente e membro del consiglio direttivo dell’Accademia della Luce ,membro della PLDA, Professional Lighting Design Association, e da novembre 2007 è membro della IALD, International Association of Lighting Designers. Ha insegnato al master FSE di 2° livello per esperti in illuminotecnica architettonica e artistica alla Facoltà di Architettura di Venezia. Nel 2009 la rivista di illuminazione architettonica internazionale “Mondo Arc” in occasione della sua 50° edizione ha inserito Francesca Storaro tra i 50 studi di Lighting Design più prestigiosi del mondo.


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