tesi di laurea davide trequadrini

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TERAMO FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE CORSO DI LAUREA IN MANAGEMENT E COMUNICAZIONE D’IMPRESA

Tesi di Laurea In Semiotica della Comunicazione d’Impresa

Tra moda, consumi, cultura. Riflessioni semiotiche sull’evoluzione dello stile Mods

LAUREANDO Davide Trequadrini

RELATORE Ch.mmo Prof. Stefano Traini

ANNO ACCADEMICO 2009/2010 3


Agli Original Mods Teramo, autentico bagliore in una città purtroppo in decadenza

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INDICE INTRODUZIONE........................................................................................................7 CAPITOLO 1 .............................................................................................................10 DAGLI ABSOLUTE BEGINNERS AL BRITPOP: STORIA DEL MODERNISMO.........................................................................................................10 1.1 LA PRIMA ONDATA: GLI ABSOLUTE BEGINNERS E GLI ORIGINAL MODS ...........10 1.1.1 UN MOVIMENTO ESTETICO ...................................................................................12 1.1.2 I RIOTS DI BRIGHTON DEL 1964............................................................................14 1.2 LA SECONDA ONDATA: GLI HARD MODS E GLI SKINHEAD ..................................15 1.2.1 UNA QUESTIONE POLITICA ...................................................................................16 1.3 LA TERZA ONDATA: IL MOD REVIVAL .................................................................17 1.3.1 IL PENSIERO MODERNISTA: UN REVIVAL INCOMPIUTO .........................................19 1.4 LA QUARTA ONDATA: IL BRITPOP E LA NUOVA SCENA INDIE ..............................20 1.4.1 LE NUOVE GENERAZIONI: LA CONTROVERSA SCENA INDIE ...................................21 1.5 IL MODERNISMO COME OGGETTO SEMIOTICO .....................................................23 CAPITOLO 2 .............................................................................................................27 UNA QUESTIONE DI STILE: L’EVOLUZIONE DEL TOTAL LOOK MODERNISTA ..........................................................................................................27 2.1 IL TOTAL LOOK .....................................................................................................27 2.1.1 ZOOT SUITS..........................................................................................................29 2.1.2 LA RIVOLUZIONE SKINHEAD ................................................................................33 2.1.3 UN BREVE RITORNO ALLE ORIGINI........................................................................35 2.1.4 GLI ANNI RECENTI: IL TRIONFO DEL CASUAL ........................................................36 2.1.5 RIEPILOGO DELL’EVOLUZIONE STILISTICA DEI MODS ..........................................38 2.2 MODS: TRA SOTTOCULTURA DI CONSUMO E COMUNITÀ PLURI-MARCHE ...........39 2.2.1 TRA IDEALI E NECESSITÀ: IL CONSUMATORE MODERNISTA ..................................41 2.2.2 VIVERE PULITO IN OGNI CIRCOSTANZA: IL PUNTO IN COMUNE .............................43 CAPITOLO 3 .............................................................................................................45 CARNABY STREET: UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE STRATEGIE COMUNICATIVE ATTUATE ALL’INTERNO DEGLI SPAZI DI CONSUMO ......................................................................................................................................45 3.1 IL CONTROLLO SEMIOTICO DELLA COERENZA COMUNICATIVA ..........................45 3.2 NASCITA E CRESCITA DEI BRAND BRITANNICI OGGETTO DI ANALISI ...................47 3.2.1 MERC LONDON ....................................................................................................48 3.2.1.1 Merc London: lo stile non muore mai..............................................................49 3.2.2 DALL’INGHILTERRA ALL’AMERICA E VICEVERSA: BEN SHERMAN ......................53 3.2.2.1 Ben Sherman: l’immagine è tutto ....................................................................54 3.2.3 DA CAMPIONE DEL TENNIS A RE DELLA MODA: FRED PERRY ...............................59 3.2.3.1 Fred Perry: uno stile senza tempo ....................................................................60 3.2.4 MOTIVAZIONI DIVERSE, STESSO SUCCESSO ..........................................................63 3.2.5 PRETTY GREEN: IL NUOVO CHE AVANZA ..............................................................64 5


3.2.5.1 Pretty Green: temporaneo o permanente?........................................................65 3.3 IL PUNTO VENDITA MODERNISTA: UN PROTOTIPO IDEALE ..................................69 3.3.1 SIMBOLOGIE, IDEALI E STORIE DA RACCONTARE: UN CONCEPT DA CUI PARTIRE ..70 3.3.2 VALORI DI CONSUMO: TRA L’UTOPICO E IL LUDICO ..............................................71 3.3.3 DAI TONIC SUITS ALLE FELPE: UN MAGAZZINO INFINITO ......................................72 3.4 IL PUNTO VENDITA MODERNISTA: LA “BOZZA FINALE”.......................................73 3.5 UN RIEPILOGO DELLE STRATEGIE DI COMUNICAZIONE PER IL TARGET MODERNISTA ................................................................................................................75 3.6 RIFLESSIONI CONCLUSIVE .....................................................................................78 RINGRAZIAMENTI.................................................................................................81 BIBLIOGRAFIA........................................................................................................83 SITOGRAFIA ............................................................................................................85

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INTRODUZIONE

Oh dandy, dandy When you gonna give up? Are you feeling old now? You always will be free You need no sympathy A bachelor you will stay And dandy you’re all right (Raymond Douglas Davies, da Dandy, 1966) Se ci fermassimo a parlare assieme a famigliari o conoscenti dei fenomeni di costume degli anni Sessanta, le prime cose di cui discuteremmo sarebbero sicuramente i Beatles, i Rolling Stones, gli hippy e la loro summer of love del 19671, o anche i movimenti studenteschi. Pochi, anzi pochissimi, si ricorderebbero dei Mods: figli del boom economico del secondo dopoguerra, furono anch’essi tra i principali protagonisti dell’emancipazione socio-economica degli adolescenti inglesi nell’era della swinging London2. A differenza di altri movimenti giovanili, però, i modernisti furono in grado di creare una sottocultura capace di resistere nel tempo e di essere immune al frenetico meccanismo delle mode (Hewitt, 2002, p.66) grazie a poche e semplici regole che tutt’oggi rappresentano un vademecum essenziale per chi ancora è rimasto e/o per chi vuole entrare a far parte della tribù. Ve ne diamo una breve anticipazione: •

vivere pulito in ogni circostanza, ovvero restare sempre sé stessi di fronte a qualsiasi cambiamento (anche negativo e/o drastico) che avviene nel mondo circostante;

adotta adatta e migliora, una massima che è simbolo della multi-culturalità presente nel modernismo, la cui peculiarità sta nella capacità di fondere diversi stili per crearne uno nuovo ed innovativo;

moving and learning, significa mai fermarsi, muoversi e continuare ad imparare e a migliorare il proprio stile e la propria attitudine;

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Cfr. Allyn (2001) Cfr. Augias (2003) 7


azione, creazione e reazione, ovvero attraverso l’azione, dare vita a qualcosa

di rivoluzionario, esteticamente innocuo e sobrio, ma che fondamentalmente rappresenta una reazione contro la società dominante. Nonostante le divisioni che sono maturate nelle decadi successive, questi principi sono rimasti saldi, e consentono ancora oggi la sopravvivenza della sottocultura mantenendone intatta la sua originalità. Sulla scorta di precedenti ricerche condotte da giornalisti come Paolo Hewitt (uno dei più autorevoli critici musicali del Regno Unito nonché ex-mod) o da studiosi del calibro di Dick Hebdige (autore di Subculture), nel primo capitolo della tesi procederemo ad una ricostruzione storica del modernismo, facendo anche affidamento sugli strumenti della semiotica generativa del senso3 per comprenderne i meccanismi di sviluppo che hanno condotto alla nascita di varie sotto-correnti. Una delle caratteristiche fondamentali dei mods è inoltre il loro interesse maniacale per l’abbigliamento (che ne rappresenta il principale tratto distintivo), il che diede vita (o anche nuovo slancio) ad un settore economico e merceologico sempre

più

specializzato:

per

questo

nel

secondo

capitolo

ricostruiremo

dettagliatamente non solo i cambi di look avvenuti nel corso degli anni, ma anche i cambi a livello di approccio al consumo, e ci avvalleremo in particolar modo del mapping di Semprini (Traini, 2008, pp. 58-62) per effettuare una panoramica sulle pratiche di consumo della tribù per cercare anche di trarne un profilo tipico del consumatore modernista. Nel terzo capitolo, sempre grazie agli strumenti della semiotica, ci addentreremo nella celebre Carnaby Street ed effettueremo un’analisi della comunicazione (ibidem, pp. 115-123) messa in atto da parte dei marchi più apprezzati dai mods all’interno dei propri punti vendita maggiori (saranno presi in analisi i brand Merc London, Fred Perry, Ben Sherman e Pretty Green). Il lavoro, così concepito e sviluppato, delinea una nuova prospettiva di studio: come ho accennato in precedenza, del modernismo hanno scritto tanto e bene autori del calibro di Hebdige, Hewitt e MacInnes (il cui Absolute Beginners rappresenta una sorta di Bibbia dei mods), ma nessuno si è mai soffermato a dovere su un’analisi che contemplasse la comunicazione di marketing (intesa nelle sue diverse manifestazioni) 3

Cfr. Traini (2010) 8


delle aziende che proprio grazie alla fedeltà dei modernisti hanno conosciuto la loro fortuna: eppure è una componente quasi fondamentale, vista la passione quasi ossessiva che avevano, e che hanno tuttora, i mods per il proprio vestiario. Lo scopo ultimo di questa tesi, dunque, è cercare di spiegare in che modo marche e sottocultura siano arrivati ad esistere gli uni grazie all’altra, gli uni in corrispondenza e in funzione dell’altra, creando una sorta di nuovo sistema dei discorsi sociali, caratterizzato da un profondo rapporto socio-semiotico bidirezionale tra sfera del consumo e modernismo. “Sorgi insieme al sole di Londra. Il meglio d’Europa e d’America fusi insieme. Nessuno sa esattamente da dove vieni, ma nessuno ti dimenticherà tanto facilmente: il primo autentico Modernista, un esempio di stile, un modello per il futuro” (Hewitt, 2002, p.39).

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CAPITOLO 1

DAGLI ABSOLUTE BEGINNERS AL BRITPOP: STORIA DEL MODERNISMO

People try to put us down Just because we get around The things they do look awful cold I hope I die before I get old This is my generation (Pete Townshend, da My Generation, 1965) Con il termine Mod ci riferiamo ad una sottocultura nata nelle periferie londinesi sul finire degli anni ’50, poi sviluppatasi nelle successive decadi fino a sopravvivere ai giorni nostri. Per capire meglio il modo in cui essa si è andata modificando e trasformando nel corso degli anni, in questo capitolo ne ripercorreremo le tappe fondamentali suddividendole in ondate.

1.1 La prima ondata: gli Absolute Beginners e gli Original Mods Se la cultura fosse una tranquilla sonata di Beethoven, la sottocultura si infiltrerebbe in essa come un potente assolo di chitarra distorta, ma non prima di aver ricevuto la giusta ispirazione. Da questo punto di vista la sottocultura rappresenterebbe un rumore, un disturbo, un fastidio che interferisce col normale scorrere degli eventi, come afferma d’altronde Dick Hebdige (noto sociologo nonché ex mod) nel suo Subculture del 1989, ma essa non nasce se non per merito, o spinta, della cultura stessa. Nel secondo dopoguerra, nel Regno Unito, fu infatti introdotta un’importante novità che dette ai giovani di tutto il Paese l’opportunità di crescere professionalmente e socialmente, ovvero l’abolizione del servizio di leva obbligatorio. Può sembrare una piccolezza ma possiamo vederla, in quest’ottica, come la goccia che fece traboccare il vaso: se prima, a tutti gli effetti, i giovani non mostravano interesse in nulla, se non 10


nell’attendere di diventare adulti, il nuovo scenario venutosi a creare subito dopo il secondo conflitto mondiale contribuì ad assegnare loro una identità socio-economica ben precisa, creando posti di lavoro, permettendogli di essere semi-indipendenti, di coltivare le proprie passioni senza restrizioni, di far sentire la loro voce. Furono probabilmente i teddy boys (movimento giovanile ispirato allo stile Edwardian4) i primi ad incarnare una volontà di riscatto dell’universo adolescenziale nei confronti di una società che fino ad allora aveva tentato di tenere ai margini le nuove leve senza concedere loro alcuna opportunità, alcun compito responsabile, alcuna possibilità di evadere. Questo nuovo ordine sociale comportò una sostanziale modifica dei ritmi quotidiani: il giorno apparteneva ancora alla cultura dominante, alle ferree regole della società, al lavoro, alla famiglia; la notte era territorio ancora quasi inesplorato, ma da quel momento sarebbe diventato territorio esclusivo dei giovani. La rivoluzione cominciò dalla musica, ma soprattutto dal significativo incontro, e conseguente trasferimento di conoscenze, tra la middle class bianca e la working class nera. Scrive sempre Hebdige che “esiste una tradizione ben documentata dell’incrocio di razze presente nel jazz. Molti musicisti bianchi hanno suonato insieme nelle jam session con artisti negri, mentre altri ne hanno ripreso la musica traducendola e trasferendola in un contesto diverso” (1989, p.50). Questa convergenza portò i giovani bianchi ad avvicinarsi alla cultura afroamericana, vista come veicolo di nuovi valori, con tutte le sue contraddizioni e le sue tensioni. Nel passaggio dall’America al Regno Unito, però, solo i beatnik sopravvissero (perché più avvicinabili dai bianchi, per il loro stile maggiormente sobrio e apparentemente pulito), mentre gli hipster5 non ebbero gloria. La convivenza con i teddy boy comunque non fu possibile, data la xenofobia e l’aggressività che caratterizzava questi ultimi, e che sfociarono nei tumulti razziali del 19586. 4

Il termine Edwardian riporta direttamente agli anni del regno di Re Edoardo VII nel Regno Unito, anni che vanno dal 1901 al 1910, durante i quali si diffuse l’usanza di indossare eleganti abiti piuttosto larghi e lunghi, una moda, questa, riproposta dagli stilisti di Savile Row subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale. 5 Lo hipster era un prototipo del beatnik. Li separava la provenienza sociale, perché mentre gli hipster erano normali lavoratori e/o normali cittadini, il movimento beatnik ebbe origine nelle scuole americane: entrambi però condividevano la volontà di evadere da una società fortemente conservatrice, e per farlo ricorrevano frequentemente all’uso di droghe e alcol; la loro ribellione era tuttavia celata dietro uno stile piuttosto serio ed elegante. 6 Il 30 Agosto 1958 nel quartiere londinese di Notting Hill un folto gruppo di teddy boy unito a bande neonaziste, cominciarono ad organizzare ronde di quartiere per danneggiare le proprietà delle famiglie di colore ed aggredendone alcune. I riots continuarono fino al 5 Settembre, quando la polizia vi mise fine con l’arresto di 140 persone. 11


Fu proprio con l’avvento dei mods che il contagio tra bianchi e neri raggiunse il suo apice: i primi mods erano ragazzi del West End londinese, originari di famiglie operaie, a costante contatto con la comunità nera indo-occidentale. Come consentiva la nuova norma, appena finita la scuola dell’obbligo molti di questi ragazzi cominciavano a lavorare, creandosi un proprio spazio indipendente da coltivare e da espandere, e mentre i teddy boys erano aggressivi e provocatori di proposito, i mods erano all’apparenza più sottomessi e ambiziosi, e sottovoce ingrandivano il loro movimento. Il rapporto tra il mod e il nero era di carattere puramente emotivo, trasferito poi nella musica (The Who su tutti) e nello stile personale. Per dirla ancora con parole di Hebdige “era stato il Negro che aveva reso possibile tutto ciò […] anche come entertainer rimaneva, allo stesso modo dei mod, al servizio dell’Uomo e tuttavia era un maestro del passato nelle arti cortesi dell’evasione e dello stravolgimento” (ibidem, p.57). Lo stile dei precursori, ribattezzati da MacInnes absolute beginners, era ancora poco definito, nonostante si notasse da subito una preferenza per i vestiti stretti, soprattutto made in Italy, per la Vespa come mezzo di trasporto, ed anche l’insolita presenza di un leggero trucco (non solo al femminile); i loro gusti musicali spaziavano dal modern jazz al soul fino al primo rhytm’n’blues, una musica quindi tecnicamente eccelsa ma dalle tematiche sociali molto forti e sicuramente vicine alla loro realtà. Nel 1962 il movimento cominciò ad assumere connotazioni più rilevanti e, sulla base del motto moving and learning (letteralmente “muoversi ed imparare”), i mods operarono alla continua ricerca della novità, con l’obiettivo di adottare, adattare e migliorare (adopt adapt improve era un altro motto che sintetizzava il pensiero modernista). Era uno stile che andava praticato con dedizione ed abnegazione, in modo da non rimanere mai indietro rispetto agli altri: “per la prima volta i mods misero in pratica uno stile di vita 24 ore su 24 che ruotava attorno a moda, musica, pillole e stile” (Hewitt, 2002, p.66).

1.1.1 Un movimento estetico Il modernismo basava la sua esistenza sull’estetica, intesa come valorizzazione del sé e della propria immagine. Era possibile vedere i mods riuniti in gruppi, 12


accomunati dall’interesse per la musica ed i vestiti, ma se ad esempio avessimo voluto osservare un’immagine di un raduno brightoniano datato 1964, su cento di loro non ne avremmo trovati due con le stesse identiche caratteristiche. Al contrario di molte altre tribù in cui l’elemento in comune è quello preponderante, nei modernisti l’individualismo restava un fattore di spicco e di unicità, che conferiva la possibilità di venire ammirato come The Face, di essere un modello da imitare (o da provare a “sconfiggere” sempre in termini di stile). Esemplari sono alcune scene del film Quadrophenia del 1979, diretto da Franc Roddam e tratto dall’omonima rock-opera dei The Who del 1973: il film, che tra l’altro contribuì alla diffusione del Mod Revival in quegli anni, mostra alcune significative scene di vita modernista come i giri per le boutique di Carnaby Street alla ricerca del vestito più sgargiante; l’ammirazione per Ace (interpretato da un giovane Sting), il the face della situazione; l’immersione nella vasca da bagno con tanto di Levi’s 501 incorporati, una pratica che serviva a farli restare più stretti in vita e lungo le gambe. Quelli conosciuti come original mods videro la loro massima espansione e visibilità mediatica verso la metà degli anni ’60: dal 1963 la sottocultura fu al centro del programma televisivo Ready Steady Go!, format che lanciò gruppi musicali del calibro di The Beatles, The Who, The Kinks, Rolling Stones e The Small Faces. Per molti (tra cui Hewitt e Paul Weller) questo fu l’inizio del declino: una tale esposizione, unita alla capacità dei media di “alimentare, come un tempo, pettegolezzi e conversazioni correnti”7, contribuì soltanto a travisare la vera identità del movimento, in favore di una distruzione pubblica programmata, un tentativo denigratorio che mirava, secondo alcuni, a mantenere lo status quo.

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F.Dumont, sulla genesi della nozione di cultura popolare, in Cultures populaires et sociétés contemporaines, Presses de l’Université du Québec, Québec 1982 13


Figura 1: Poster del film Quadrophenia del 1979. Da notare l’abbigliamento dettagliato, curato e, soprattutto, differente dei protagonisti. Ognuno con il proprio stile, la propria identità, la propria originalità, la propria interpretazione del concetto di modernismo

1.1.2 I riots di Brighton del 1964 Francesco Gazzara ci racconta con straordinario dettaglio i fatti di Brighton del 18 Maggio 1964: già da tempo si vociferava della rivalità tra mods e rockers (i ragazzi con i giubbotti di pelle e le Triumph), ma era qualcosa che si esauriva con semplici scontri verbali o poco più; entrambe le fazioni conoscevano i propri limiti e le proprie zone di competenza e quasi mai si spingevano oltre. Con le vacanze pasquali del 1964 le cose cambiarono radicalmente: i mods, in sella ai loro scooter e con gli enormi Parka a protezione dei preziosi vestiti, si riversarono in massa nella piccola Clacton, che a dire il vero non offriva particolari attrattive, e lì i numerosi modernisti (annoiati e infreddoliti) ebbero qualche piccolo screzio con un paio di proprietari di locali e nulla più. La presenza di alcuni reporter sul luogo del “misfatto” non fece altro che creare un caso assolutamente inesistente: in poche ore essi montarono una storia su violenti scontri tra mods, polizia, ed in seguito anche rockers. Da precisare che la polizia c’era, ma solo per controllare che i mods si comportassero in maniera decorosa, per limitare i “furtarelli” e per alcune contravvenzioni al codice della strada; ma la cosa che più incuriosisce è la quasi totale mancanza dei rockers al bank holiday di Clacton: alcuni di loro erano lì, ma non ci furono assolutamente scontri fisici, come invece lasciava intendere il titolo del Daily Mirror: “I selvaggi invadono la costa. 97 arresti”. Come si può facilmente intuire, tutto ciò non fece altro che alimentare l’odio tra le bande giovanili, che si scontrarono, stavolta per davvero, il 18 Maggio del 1964 14


sulle spiagge di Brighton, episodio reso celebre dalla sentenza del giudice di Margate – Dr George Simpson – che in un processo per direttissima multò quarantacinque tra mods e rockers per un totale di quasi duemila sterline di ammenda, esprimendosi su di loro in questi termini: “questi capelloni, mentalmente instabili, questi piccoli e meschini teppisti, questi eroi di cartapesta8 che sono solo capaci di trovare il coraggio di andare a caccia in gruppo come topi” (Gazzara, 1997, p.34). Il furore non si spense: i riots continuarono fino al picco del 1966. Sia i mods che i rockers aumentavano il proprio numero di “partecipanti”. Entrambe le sottoculture stavano perdendo il proprio senso originario, e fu così che gli originals si staccarono dal movimento; e mentre in Inghilterra impazzava la rabbia del rhytm’n’blues bianco dei The Who, gli originals, fedeli ai valori fondanti del modernismo, abbandonarono Carnaby Street e Ready Steady Go per riprendere il soul ed il modern jazz più soft di matrice nera. La spaccatura fu completa nel 1967: se gli originals avevano già abbandonato la grande scena, per coltivare in silenzio la loro passione, i mods rimasti nel cuore di Londra si scissero in due fazioni ben distinte: da una parte, i più dandy abbracciarono il movimento hippy, seguendo la moda della Summer of love; dall’altra, i più puri e duri restarono fedeli alla loro origine operaia.

1.2 La seconda ondata: gli Hard Mods e gli Skinhead Gli hard mods comparvero sul finire degli anni ’60: la differenza sostanziale che emergeva, rispetto agli originals, era non tanto la loro volontà di ritornare ai valori originari, quanto il fatto di portarli all’esasperazione, a volte anche in maniera rude e “scorbutica”. Se la volontà degli originals, infatti, era quella di partire dalla loro condizione operaia per puntare quantomeno ad uno stile altolocato e distinto, quella degli hard mods era di esplorare sempre più a fondo la condizione della working class, rappresentandone lo zoccolo duro e provocatorio. Ancora una volta, fu fondamentale l’influenza della cultura afroamericana, specialmente, in questo caso, dei rude boys giamaicani, che portarono in Inghilterra i nuovi generi musicali ska, rocksteady e reggae. La fusione tra hard mods e rude boys 8

La vera requisitoria diceva sawdust caesars, che può significare sia ‘eroi di cartapesta’ che, letteralmente, ‘Cesari di segatura’. 15


dette vita al movimento skinhead, conosciuto, spesso ed erroneamente, per le sue ambigue posizioni politiche e la sua particolare tendenza all’aggressività delle persone di razze e/o credi diversi. In realtà gli skinhead erano, come la maggior parte dei mods, operai nelle periferie londinesi, non schierati politicamente, e contrari ad ogni forma di razzismo. I loro segni distintivi e caratterizzanti erano: •

la testa rasata ed i pesanti boots della Dr Martens, necessari per il lavoro: gli stivali erano resistenti e protettivi, la testa rasata era una precauzione contro la diffusione di pidocchi causata dalla scarsa igiene dei loro luoghi di lavoro usuali;

i Levi’s 501, anch’essi indumento usato prevalentemente durante le giornate lavorative, e le bretelle utilizzate per sostenerli;

una ragnatela tatuata sul braccio, solitamente all’altezza del gomito: questa pratica si diffuse tra i membri del movimento per simboleggiare la protesta dei disoccupati della working class che, riuniti nei pub, solevano dire “ci cresceranno le ragnatele addosso” proprio a causa della disoccupazione.

Figura 2: Gruppo di Skinhead, da notare anche la presenza di un Mod e di un Rude Boy

1.2.1 Una questione politica Il movimento skin, in definitiva, pareva mosso da sentimenti multirazziali ed antifascisti, ma negli anni ’70 le cose cominciarono a cambiare radicalmente: alcuni nuovi adepti, infatti, portarono agli estremi il loro amore per il calcio e le rispettive squadre del cuore, diffondendo con inaudita aggressività il verbo degli hooligans, ed è anche per questo che “la moda degli Skinheads si era diffusa più rapidamente di 16


quella Mod perché approfittò dell’aumento del pubblico calcistico provocato dalla vittoria dell’Inghilterra ai campionati del mondo del 1966” (Hewitt, 2002, p.83). In generale, anche nella madre patria, cioè il Regno Unito, c’era aria di cambiamento: i partiti della nuova destra britannica (tra cui British Nazi Party e National Front) cominciarono a reclutare giovani ed ingenui skinhead, ed è da qui che la loro apoliticità giunse al capolinea. Nacquero e crebbero a dismisura i Naziskin (detti anche boneheads in gergo), e per far fronte a tutto ciò (ma soprattutto per rivendicare le vere origini della sottocultura) cominciarono a proliferare una serie quasi infinita di schieramenti politici skin, tra i più importanti ricordiamo: •

SHARP (Skin Head Against Racial Prejudice), ovvero gli skin anti-razzisti;

RASH (Red and Anarco Skin Head), fazione che si divide tra estremisti di sinitra ed anarchici. In sintesi, si è andato perdendo quel “sincero, appassionato ritorno alle teorie e

ai principi della prima ora dei mod” (ibidem, p.14), in favore di un confuso sgretolamento politico, sicché ancora oggi nessuno riesce a comprendere la vera identità di questa sottocultura. Da una parte quindi gli originals avevano “traslocato” verso il nord del paese, mentre dall’altra gli skins si erano politicizzati: tutto sembrava finire miseramente nell’ombra, ma ancora una volta una nuova ondata musicale riportò in auge lo stile mod e, complice anche l’avvento del punk, dette il via ad un inaspettato revival.

1.3 La terza ondata: il Mod Revival I tardi anni ’70 potremmo anche chiamarli, in senso generico, anni di “riscoperta”: erano infatti molteplici i tributi ad artisti e personaggi pubblici delle decadi passate, in un’epoca in cui ormai non v’era più spazio per la creatività e l’originalità. Infatti i The Who (band simbolo della prima ondata modernista) da qualche anno avevano fatto loro il motto “rock is dead… long live rock!”9 (letteralmente “il rock è morto… viva il rock”), sintomo quantomeno di una sfiducia nelle nuove generazioni: se nel 1967 usciva Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 9 Long

Live Rock è una canzone dei The Who scritta da Pete Townshend nel 1973, pubblicata come singolo solo nel 1979 per il lancio del film biografico della band The Kids Are Alright. 17


disco eccelso e raffinato, nel 1977 era la volta di Nevermind The Bollocks dei Sex Pistols, una band senza dubbio sporca e volgare di proposito. Il punk saliva alla ribalta (c’è addirittura chi sostiene che anche i punk siano “imparentati” con i modernisti, e rappresentino un’evoluzione degli hard mods, ma ciò è sempre stato smentito da chi in prima persona visse quei cambiamenti), ma parallelamente alla sua ascesa, si assisteva anche a quella dei The Jam, l’ultima scoperta delle periferie inglesi: il suo leader, Paul Weller, nacque nel 1956 proprio nella città operaia di Woking, e trascorse gli anni della gioventù a cavallo tra i ’60 e i ’70. Quasi come un predestinato, Weller da subito si mise in testa di riportare in auge il modernismo e la musica che lo raffigurava, e fu così che in breve tempo egli divenne una figura di culto per i mods di tutto il paese, tanto da essere soprannominato The Modfather10. Nel 1979 qualcos’altro ancora bolliva in pentola: uscì infatti, nelle sale cinematografiche di tutto il mondo, il film Quadrophenia, diretto da Franc Roddam e tratto dall’omonimo disco dei The Who del 1973. Il film era un’autentica celebrazione degli originals: il Mod Revival era ormai cominciato. Il fervore mediatico faticò a spegnersi: centinaia di mods tornavano ad invadere Brighton e il 100 Club di Oxford Street; le band musicali fiorivano a dismisura (ricordiamo i Secret Affair, i The Specials, i Merton Parkas e tanti altri ancora); persino i big del rock mondiale rendevano omaggio ai mods e ai loro precursori (come Van Halen che incise una cover di You Really Got Me dei Kinks). La sottocultura non sembrava avere più confini: grazie soprattutto al film Quadrophenia, i mods arrivarono ad affascinare anche tedeschi, spagnoli, francesi, italiani ed americani: il “tempo dell’azione”, come cantavano i Secret Affair, era giunto un po’ ovunque.

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Astuto gioco di parole: da Godfather (il padrino) a Modfather 18


Figura 3: I The Jam, trascinatori del Mod Revival

1.3.1 Il pensiero modernista: un Revival incompiuto Con il disappunto, però, di chi nei mods ci credeva ancora e per davvero, il revival si spense nel giro di pochissimo tempo, e già nei primissimi anni ‘80 le spiagge di Brighton erano di nuovo vuote: la sottocultura tornò ad essere cosa per pochi eletti, nascosti e lontani dagli occhi dei media. Per essere mod non bastava farsi vedere in giro per Carnaby Street con un abito tonic suit a tre bottoni, un parka e una Lambretta: essere un mod voleva dire condividere uno stile di vita, sia esteriormente che interiormente, questo è quello che la working class londinese imparò dalla comunità nera indo-occidentale: di giorno ligi alle regole della cultura dominante, di notte imbattibili entertainer, senza rinunciare ad un motto rivoluzionario mirante a cambiare i dettami della società in cui si viveva: adopt adapt improve, ovvero – come abbiamo visto – adotta, adatta e migliora. In questo modo ci si voleva impossessare dei simboli della classe dominante, farli propri, e cambiarne completamente il significato, stravolgerlo: un esempio può essere l’abito elegante, tipico tratto distintivo dei “bombetta” che lavoravano nel cuore dell’economia londinese, ovvero la City, reso un abito da ballo, con forme più sinuose e colori sgargianti; oppure la Vespa, semplice scooter italiano, modificato con specchietti aggiuntivi, porta-vinili in pelle, Mod Target a decorazione e quant’altro; ed infine il parka, non più indumento militare simbolo della guerra, ma giaccone invernale ideale per proteggere i preziosi vestiti nei viaggi fino a Brighton. La maggior parte dei nuovi adepti, però, non riusciva a comprendere la vera anima del modernismo, il perché della sua essenza e del suo persistere in qualsiasi contesto: “troppa acqua era passata sotto i ponti del Tamigi […] La sovraesposizione 19


mediatica riduce le sottoculture a caricature di se stesse e l’immacolata sensibilità estetica dei primi mod, il loro gusto per l’eleganza minimale e rarefatta, sarebbe stata messa a dura prova dagli eccessi successivi”11.

1.4 La quarta ondata: il Britpop e la nuova scena Indie Sul finire degli anni ’80 nella città industriale di Manchester, nel nord dell’Inghilterra, cominciarono ad avere popolarità gruppi musicali che, per atteggiamenti, o anche semplicemente per i concetti espressi nelle canzoni, tornavano a far parlare di modernismo, anche se in un’accezione completamente diversa: mentre nel Nuovo Continente cominciava a spopolare il grunge, nel Regno Unito, in risposta ad uno stile definito “sporco”, si ritornava alla filosofia mod del “vivere pulito in ogni circostanza”12. Gli Stone Roses di Ian Brown e gli Smiths di Morrissey incarnavano le due facce della nuova ondata modernista che stava nascendo: da un lato gli Stone Roses erano più diretti, a volte “grezzi”, con atteggiamenti da vere rock star; dall’altro lato c’erano gli Smiths con la loro musica ben suonata e le loro malinconiche poesie. Negli anni ’90 due gruppi raccolsero la loro eredità e ne fusero le caratteristiche: gli Oasis e i Blur. Tornava in auge il Britpop, il genere inaugurato e reso celebre dai Beatles e dai Kinks, e così anche il modernismo, che però subiva qualche ritocco dettato dall’inevitabile mutare dei tempi: vestire sì in modo “riconoscibile”, avere sì degli atteggiamenti idonei, ma mai sembrare troppo dandy o benestanti. In questo modo i mods passavano più inosservati, ben lontano dagli occhi dei media, diffondendo all’interno del proprio nucleo lo stile “casual”.

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Cfr. Pedrini (1997) Fu Pete Meaden, scopritore dei The Who, a dire nel 1964 “Mod is a metaphore for clean living under difficult circumstances”. 20

12


Figura 4: i Blur di Damon Albarn (in primo piano). Da notare lo stile casual dei membri della band: Graham Coxon (primo a sinistra) con la classica polo Fred Perry, o lo stesso Albarn con la camicia Tartan e l’Harrington Jacket

Appare significativo il fatto che questa nuova ondata abbia avuto origine dal nord del paese: lì dove dai tardi anni ’60 gli originals si trasferirono per continuare indisturbati nel coltivare la propria passione, lì dove erano nati i più famosi club di Northern Soul. C’è da dire, però, che i nuovi mods si rifanno ad una filosofia totalmente diversa, più dedita alla finzione dell’apparenza che al culto vero e proprio, come ci rivela d’altronde Francesco Gazzara: “dell’imprevedibilità e del carattere sfuggente dei mod working class non è rimasto nulla, la rivendicazione della propria identità all’interno del gruppo è scomparsa a favore di una visione più morbida e personalizzata dello stile mod” (Gazzara, 1997, p.53).

Figura 4: Liam Gallagher, ex cantante degli Oasis, indossa un tipico parka durante un concerto. Di recente ha inaugurato una propria linea d’abbigliamento ispirata ai mods, la Pretty Green

1.4.1 Le nuove generazioni: la controversa scena Indie Nel primo decennio degli anni 2000 proliferano etichette discografiche indipendenti alla ricerca di gruppi con un’enorme potenziale in grado di ripetere l’exploit di Oasis e Blur durante gli anni ’90: accade così che centinaia di musicisti 21


con i vestiti stretti, a volte piuttosto dozzinali, le Converse, ed i capelli a caschetto, comincino ad essere accomunati con il termine indie. Tra i tanti che vengono strappati ai piccoli locali col tentativo di farli diventare i nuovi Rolling Stones, ce ne sono alcuni che hanno dimostrato di potercela fare, e di aver assorbito ottimamente gli insegnamenti dei “maestri”: tra questi ci sono gli Arctic Monkey, i The Enemy (il cui look e il cui sound ricordano tantissimo i The Jam di Paul Weller), i The Strokes, i Kaiser Chiefs o addirittura gli svedesi The Hives. Viene però da chiedersi, come è giusto che sia, se questa trovata sia solo una mera questione di marketing, oppure se ci sia una volontà di fondo: in molti esprimono dubbi sul considerare la generazione indie degna dell’etichetta di modernista. Sono molte infatti le differenze che risaltano dopo un primo sguardo, ma anche dopo un primo ascolto: dai vestiti (molto poco curati nei dettagli e nella scelta dei brand) alla musica (più simile al primo punk che al soul e al rhytm and blues) e quant’altro. Ci atteniamo ai fatti, ovvero ci sono dei piccoli gruppi di giovani che tentano di emulare uno stile nato negli anni ’60, attualizzandolo nel look e nelle sonorità, anche se con cospicue difformità che fanno avanzare numerose incertezze.

Figura 5: The Hives

In sintesi, dalla fine degli anni ’50 ai giorni nostri, la sottocultura modernista è sopravvissuta tra rumore e silenzio, tra scissioni e tentativi di riunione, tra alti e bassi, ritagliandosi una preziosa nicchia all’interno della nostra società. Come afferma, d’altronde, lo stesso Paul Weller (il cosiddetto Modfather): “i vestiti cambiano, le droghe anche, e così la musica. È l’attitudine che resta immutata!”. 22


1.5 Il modernismo come oggetto semiotico Il modernismo è forse tra le sottoculture più variegate del secolo scorso, tra quelle con le caratteristiche più particolari, che ha risentito maggiormente dei cambiamenti del contesto socio-economico modificandosi di conseguenza, creando delle ramificazioni all’interno di se stessa. La peculiarità del modernismo sta nella sua longevità: che si tratti di originals, skinhead o revivalists, parliamo sempre di una corrente unica, che ha sentito il bisogno di imboccare strade differenti in precisi momenti inquadrati precedentemente. Da questo punto di vista, è evidente lo stretto rapporto che si è creato tra la sottocultura, la società, la moda, il consumo ed anche il campo musicale: sono questi i fattori che hanno da sempre contribuito all’evoluzione ed alla ridefinizione dei caratteri distintivi del movimento modernista. Si delinea dunque un sistema dei discorsi sociali13 i cui componenti sembrano inclini ad espandere sempre di più i loro confini e ad influenzarsi vicendevolmente in quello che potremmo chiamare un rapporto socio-semiotico bidirezionale. È questo il motivo che fa del modernismo un’interessante oggetto di studio della semiotica, ed in particolare della sociosemiotica, più che della normale sociologia, perché “laddove quest’ultima si rivolge ai fenomeni empirici presenti nelle forme collettive di vita vissuta, la prima (la sociosemiotica n.d.r.) si dà il compito di ricostruire le procedure di senso attraverso cui esiste qualcosa come una socialità, una vita vissuta, un’empiria dei fenomeni istituzionali e collettivi. Per la semiotica il sociale non ha nulla di evidente, di immediato, se non il fatto che è esso stesso a costruire la sua presunta evidenza, la sua immediatezza, facendo apparire come ovvio, normale, naturale ciò che in effetti è l’esito manifesto di processi immanenti di significazione”14. Difatti, uno dei connotati peculiari del modernismo è sempre stato il processo di risemantizzazione dei segni della cultura dominante (ed in seguito anche dei suoi stessi simboli) sulla base dei motti che precedentemente abbiamo avuto modo di spiegare. Ed è forse proprio la massima del moving and learning a far sì che questo movimento sia sempre uguale e diverso allo stesso tempo: uguale nei valori, diverso nell’imprevedibilità dello sviluppo di eventuali sotto-correnti, dovuto al mutare dei tempi e alla costante 13

Cfr. Boero (2010) pp. 72-78 Tratto da un articolo di Nicola Dusi consultabile http://www.culturalstudies.it/dizionario/lemmi/sociosemiotica_b.html

14

al

seguente

link: 23


tendenza all’innovazione e alla ricerca del nuovo. C’è anche, però, chi tiene a ribadire la propria appartenenza alla corrente originaria, e cerca di tenere vivo lo stesso spirito dei ’60 anche oggi. Da questi primi due assunti possiamo intuire che la corrente modernista si è sviluppata e diramata in base all’appartenenza degli stessi o alla categoria conservatori o alla categoria innovatori. Possiamo allora sviluppare un quadrato semiotico15, a partire da questa semplice opposizione, come nell’immagine sottostante.

Figura 6

In questo modo è possibile avere un quadro più chiaro della situazione, ed è anche facilmente intuibile come: •

i conservatori corrispondano agli original mods;

gli innovatori corrispondano agli hard mods, la cui nascista rappresenta la prima grande scissione interna al movimento;

i non innovatori sono i revivalists, che tendono a replicare la corrente originaria;

i non conservatori appartengono al britpop, d’altronde essi riprendono la filosofia modernista introducendo piccoli ma importanti cambiamenti dettati dal nuovo contesto che li circonda. Sempre grazie a questo quadrato possiamo tracciare più facilmente la storia

della sottocultura, di cui proponiamo un breve riassunto: •

dal 1958 al 1967 è la volta degli originals, noti anche come absolute beginners

della sottocultura, i quali, come già accennato, nei tardi anni ’60 abbandonano 15

Cfr. Traini (2010) 24


la grande scena per coltivare, lontano dagli occhi accusatori dei media, la propria passione, restando fedeli ai valori fondanti, a volte portandoli anche allo stremo, usandoli come “barriera all’entrata” per nuovi adepti evidentemente non abbastanza degni dell’etichetta di originals; •

dal 1967 fino alla seconda metà degli anni ’70 assistiamo alla nascita degli hard mods e degli skinhead. La strada della politica, imboccata da buona parte di questi ultimi, farà perdere, di fatto, ogni contatto con la corrente modernista, creando un primo netto distacco;

nel 1979 c’è il Mod Revival, spinto soprattutto dalla musica e dall’erorme risvolto mediatico conseguente al successo del film Quadrophenia e dei The Jam di Paul Weller;

dalla fine degli anni ’80 ad oggi il Britpop prima, e l’Indie poi, fanno tornare in auge il concetto di modernismo, seppur con qualche dubbio da parte dei militanti di lunga data. Quindi lo schema è il seguente (Figura 7): da conservatori a innovatori; da

innovatori a non innovatori; ed infine da non innovatori a non conservatori.

Figura 7

In sintesi, in questo primo breve capitolo abbiamo ripercorso insieme le tappe fondamentali della sottocultura mod, e successivamente abbiamo tentato un primo approccio semiotico allo studio di essa. Innanzitutto bisogna dire che la suddivisione in “ondate” del modernismo è una cosa voluta e strategica, in quanto l’analisi, in questo modo, scorre in maniera più schematica ed intuitiva: ciò infatti ci ha aiutato dapprima a trovare facilmente la divisione fondamentale all’interno del movimento (ovvero quella fra conservatori ed innovatori), ed in seguito a strutturare il quadrato semiotico. Quest’ultimo poi ci 25


tornerà utile anche nei capitoli successivi, nonostante rappresenti solamente un primo timido tentativo di approccio della semiotica verso questa sottocultura. Nelle prossime pagine cominceremo a parlare del tratto distintivo dei mods, ovvero il look, lo stile, la passione per l’abbigliamento: cercheremo così di arrivare ad una corretta descrizione del cosiddetto total look, riferendoci anche alle pratiche di consumo degli stessi modernisti; successivamente parleremo dell’evoluzione del mercato di riferimento, del nascere e crescere di grandi brand, di come essi si siano adattati ai cambiamenti interni alla stessa sottocultura, di come, ancora oggi, rappresentino un must per i membri di questa particolare tribù.

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CAPITOLO 2

UNA QUESTIONE DI STILE: L’EVOLUZIONE DEL TOTAL LOOK MODERNISTA

My jacket’s gonna be cut slim and checked Maybe a touch of seersucker with an opened-neck I ride my GS Scooter with my hair cut neat I wear my wartime coat in the wind and sleet (Pete Townshend, da Quadrophenia, 1973) Più sofisticati dei teddy boys e più puliti dei beatnik, i mods erano alla continua ricerca della perfezione stilistica: di settimana in settimana cambiavano e/o rinnovavano il proprio guardaroba con le novità provenienti dall’NME16 (New Musical Express), da Ready Steady Go, o dalle boutique di Carnaby Street. In questo secondo capitolo parleremo della cosiddetta “immagine totale” e faremo una panoramica dell’estetica modernista dagli albori sino agli anni più recenti: tutto ciò per cercare di capirne anche e soprattutto i comportamenti di consumo e per delineare una sorta di profilo del tipico consumatore mod.

2.1 Il Total Look Come abbiamo potuto vedere già nel capitolo precedente, le prime avvisaglie di una spaccatura generazionale quale mai vista prima si erano già avute sul finire degli anni Cinquanta: la possibilità data ai giovani (in prevalenza teenager) di avere denaro contante in tasca alla fine di ogni settimana segnò una svolta nella loro percezione di un’autonomia che li slegava finalmente dai rigidi obblighi familiari e sociali17. Non è difficile immaginare cosa successe ai primi mods con uno stipendio all’attivo: essi “trasformarono l’attenzione ossessiva al dettaglio nell’abbigliamento dei teddy boy e il senso minimalista dello stile […] dei beatnik in qualcosa di 16

L’NME è un settimanale britannico dedicato al mondo della musica fondato nel 1952. Dà ampio spazio alle scene indipendenti e alle sottoculture giovanili. 17 Cfr. Hewitt (2002) pp. 39-40 27


originale, unico ed esteticamente pulito” (Gazzara, 1997, p.75). A ciò contribuì, in particolare, la trasformazione dei costumi nell’Inghilterra dei primi anni ’60, con il diffondersi del look dei Beatles e dei Rolling Stones, o delle minigonne di Mary Quant: lo stile modernista, sebbene di diversa matrice, era riconducibile a tutto ciò, e percorreva dunque la stessa strada della rivoluzione sessuale giovanile in corso in quegli anni18. Uno dei cambiamenti maggiori fu proprio l’eccessiva precisione con cui i mods curavano il proprio aspetto: se prima erano le donne a passare lunghe ore davanti allo specchio, ora questo ruolo toccava al maschio, la cui ossessione per l’abito perfetto sfiorava il narcisismo estremo19. Dal canto loro, le ragazze si allontanavano dal ruolo che socialmente veniva imposto alle donne in quegli anni (come, ad esempio, quello della moglie e madre dedita solamente alla famiglia20) in favore di un atteggiamento più competitivo e provocante. I ruoli si scambiavano, i mods erano a volte considerati effeminati, le ragazze invece delle “poco di buono”, o nel caso delle rocker (con i loro vestiti di pelle e in sella alle Triumph) dei veri e propri “maschiacci”. Nel corso degli anni e dei decenni successivi, poi, i ruoli sociali si sono continuamente andati modificando, e molte sottoculture, con differenti rivendicazioni, sono nate, cresciute e morte (o perlomeno cadute nel dimenticatoio). Il modernismo non aveva particolari rivendicazioni, forse è sempre stata questa la sua caratteristica principale, che gli ha permesso di convivere senza problemi con la cultura dominante: i mods, nella maggior parte dei casi, accettavano lo stato delle cose, ne prendevano atto, e mutavano di conseguenza. Se negli anni Sessanta il boom economico aveva infatti permesso un rinnovamento stilistico notevole, fatto di abiti costosi provenienti dall’Italia o dagli Stati Uniti, la recessione degli anni Ottanta diede il via ad un look più casual e meno dispendioso, fino ad arrivare al terzo millennio, dove oramai affermate imprese interne commerciano vestiti “esterni”, ovvero dove aziende inglesi commerciano vestiti fabbricati in casa e con un ottimo rapporto qualità-prezzo prima ricercati nelle costose boutique italiane o allo Squire Shop di stampo americano di John Simon. Un connubio, questo, che lascia presupporre una soddisfazione della filosofia modernista, impressa nei primi versi della canzone Going Underground scritta da Paul Weller e cantata dai suoi Jam: “alcune persone dicono 18 19 20

Cfr. Allyn (2001) Cfr. Fabris (2003) Cfr. Duby, Perrot (1993) 28


che la mia vita sia una consuetudine / ma sono contento con ciò che già ho / altri dicono che dovrei lottare per avere di più / ma sono così felice che non riesco a capire dove sia il problema”21. Ciò che più conta dunque – e torniamo ad una citazione già fatta precedentemente – è il vivere pulito in ogni circostanza, saper plasmare lo stile a seconda del cambiamento dei tempi, mantenendo la propria integrità e senza essere distrutti dal “meccanismo della moda”.

2.1.1 Zoot Suits Due dunque le caratteristiche principali: l’attenzione al dettaglio e una particolare “miniaturizzazione” dello stile. I modernisti traevano chiara ispirazione dal look dei musicisti jazz e soul di colore degli anni ’50 e ‘60, dall’Ivy League22, ed erano particolarmente interessati agli stilisti italiani. Essi operavano comunque significative modifiche che miravano a personalizzare e/o migliorare di volta in volta quanto appreso da altri: da qui la filosofia del “adottare, adattare e migliorare” tipica dei mods.

Figura 8: Lo stile dei membri della Ivy League e, a fianco, un giovane Stevie Wonder nel suo periodo da cantante per la storica etichetta discografica Motown

21

Traduzione di un estratto di Going Underground, brano scritto da Paul Weller e pubblicato dai The Jam come singolo nel Marzo 1980. 22 Ivy League è il nome di una fondazione che accomuna le otto più prestigiose università private degli Stati Uniti. Ne fanno parte, ad esempio, Harvard, Columbia e Brown University. 29


Nel tempo, dopo una serie di tentativi di combinazioni e di ritocchi (partiti dagli absolute beginners), i mods sono arrivati a delineare una sorta di “codice non scritto” da seguire per potersi fregiare del titolo di modernista a tutti gli effetti: queste regole a volte sfioravano un fanatismo eccessivo sul che cosa modificare o lasciare inalterato nel proprio abbigliamento, sul come indossare un determinato capo, come mostrarlo e così via. Le pratiche di consumo23 dei modernisti assumevano, in questo modo, diversi significati e sono tuttora di difficile definizione e delimitazione: se da un lato la loro creatività per lo stile portava i modernisti ad essere imprevedibili e a fare scelte nuove e sorprendenti di settimana in settimana, dall’altro il loro aggirarsi per Carnaby Street e il loro continuo sfidarsi a “colpi di vestiti” assumevano la forma di un comportamento somatico ben organizzato, ovvero niente più che un monotono rituale24. Ciò che li rendeva particolarmente imprevedibili ed originali era soprattutto la loro capacità di miscelare diverse culture e fonderle in un unico stile, sempre pronti ad accogliere qualsiasi novità: “se è buono, prendilo, non importa da dove viene” (Hewitt, 2002, p.66). L’Europa e l’America bianca provvedevano all’abbigliamento, l’America nera forniva la musica e l’attitudine: così i completi italiani venivano modellati secondo lo stile della Ivy League ed in seguito ristretti ed ornati; la musica soul e il rhytm’n’blues vennero introdotti in Gran Bretagna e diventarono presto, data la grande richiesta e fama, i generi che ispirarono i gruppi inglesi di maggior successo negli anni a venire, a partire dai Beatles. La “miniaturizzazione” cui abbiamo accennato prima partiva anzitutto dalla composizione del cosiddetto zoot suit (il “vestito sgargiante” degli originals): •

i modelli principali di vestiti, su cui si apportavano delle modifiche, erano il mohair e il tonic;

la giacca, solitamente a tre bottoni, veniva stretta in vita e leggermente arrotondata in basso, ed aveva degli spacchi laterali che non superavano i tre pollici di lunghezza (7,62 cm per l’esattezza);

23

Per pratica di consumo intendiamo il comportamento d’acquisto del consumatore: anche questo, infatti, può essere visto come una successione significante di comportamenti somatici organizzati. Si veda la definizione di pratica semiotica presente nel Dizionario ragionato della teoria del linguaggio di Greimas e Courtés (or. 1979) 24 Cfr. Boero (2010) pp. 94-96 30


i pantaloni, rispetto agli Ivy, venivano allungati, togliendo la piega finale, ed anch’essi ristretti;

le camicie erano quasi sempre button down e slim fit, a volte con il colletto arrotondato piuttosto che a punta, non abbottonata fino in cima, e con la cravatta modello skinny tie con il nodo lasciato un po’ largo;

anche per le calzature la cura era molto particolare: invece delle semplici scarpe a punta dei teddy boys, si provarono inizialmente le winklepicker shoes (con una punta più stretta lunga circa quattro centimetri e dotate, il più delle volte, di grandi tacchi) fino ad arrivare ai famosi chelsea boots (ribattezzati, più in avanti, beatle boots).

il colore prediletto per i suits era il blu scuro, ma non si sdegnavano a volte qualche gessato o tessuti in stile “principe di Galles”.

Figura 9: Il tipico completo modernista per il weekend

L’eleganza modernista non si limitava però al solo vestito: i teddy boys sembravano “intrappolati” all’interno dei loro completi, mentre i mods trovarono ben presto un’alternativa casual (che con gli anni si è andata sempre più consolidando) davvero unica e ben congeniata. L’indumento principe, che subito attirò la loro attenzione, era la polo della Fred Perry, un capo originariamente utilizzato dai giocatori di tennis (lo stesso ideatore, Frederick John Perry, era stato un grande campione in questo sport, vincendo per ben tre volte il famoso torneo di Wimbledon), 31


ed entrato nel guardaroba modernista in virtù del suo stile smart con il colletto ornato da strisce parallele e colorate, il collo a due o tre bottoni, e la famosa coroncina di alloro cucita sul petto sinistro. Solitamente la polo veniva indossata sopra i classici Levi’s 501, rendendo clean anche un semplice look sportivo, e accompagnata dai desert boots in pelle di camoscio. A volte essa veniva anche a sostituire la camicia sotto il completo, creando così un’immagine che ben presto verrà riproposta in molti cataloghi di moda. Non scordiamoci inoltre che i mods adoravano girare in Vespa o Lambretta, e questo, specialmente nei mesi più freddi, poteva essere un problema per i loro preziosi abiti, che rischiavano di sgualcirsi e rovinarsi. Tra i tanti soprabiti provati, ce ne fu uno che soddisfava appieno le loro richieste: il parka. Tipico giaccone “da battaglia”, disegnato nel 1951 e fabbricato per la prima volta nel 1953 dalla Vanderbilt Shirt Company negli Stati Uniti, esso fu pensato esplicitamente per i soldati americani come uniforme da combattimento adattabile ad ogni stagione dell’anno. Il parka all’inizio veniva utilizzato dai mods, per l’appunto, solo per la sua utilità nel proteggere i completi nei lunghi viaggi in scooter, ma ben presto divenne un simbolo e segno distintivo della sottocultura. Naturalmente subì delle piccole modifiche: venivano sovente cucite piccole strisce di pelliccia sull’orlo del cappuccio; poteva, poi, anche essere ornato con spillette o toppe che andavano a sostituire (ma non sempre) i gradi militari presenti sulle maniche (questo soprattutto a partire dal revival del 1979).

Figura 10: il Parka M51 modello Fishtail, cioè a “coda di pesce”

32


2.1.2 La rivoluzione Skinhead L’avvento degli hard mods prima, e degli skinhead poi, provocò una spaccatura forte e netta nei confronti del movimento originale ed un cambiamento di stile ed attitudine radicale. Significativo è il quadro della situazione fatto da Paolo Hewitt: “non bisogna dimenticare che i Mod provenivano dal proletariato e possedevano tutta la furbizia di chi nasce per strada. Non si opposero alla società. Si limitarono a ignorarla. […] Anche senza esporsi troppo, condizionarono la società che a parole dicevano di ignorare. La loro richiesta di abiti e di musica gettò le basi per la nascita di un’industria musicale e d’abbigliamento” (2002, p.66). E ancora, a proposito degli skinhead: “Il vero battesimo del movimento si celebrò il 3 settembre del 1969, quando il Daily Mirror, in un articolo dal titolo No Love From Johnny usò per la prima volta l’espressione Skinhead. Da quel momento l’originalità dello stile venne progressivamente inquinata da elementi più funzionali e populisti […] Anche stavolta, come in occasione dell’esplosione modernista dei primi anni sessanta, i media si svegliarono quando il movimento era già in fase calante. Il risultato fu che gli aspetti positivi del fenomeno Skinheads non vennero considerati, ma ci si limitò a mettere in luce i torbidi risvolti di violenza, i comportamenti razzisti e la delinquenza di alcune frange” (ibidem, p.70). Se i mods, dunque, decisero di immedesimarsi nella società, e modificarne silenziosamente i simboli che la costituivano (l’elegante completo segno distintivo dei “bombetta” della City, la Lambretta, il parka ecc.), gli skinhead si fecero portatori del disagio sociale dei giovani della working class, inizialmente in maniera apolitica, poi schierandosi, chi con l’estrema destra e chi con l’estrema sinistra. Questo disagio non poteva, però, non riflettersi nello stile: quello che indossavano rappresentava quello per cui stavano protestando; ed attraverso il loro look mettevano in mostra la condizione in cui viveva un’intera generazione che, passato il boom degli anni ’60, cominciava una parabola discendente arrivata all’apice durante l’era Tatcher. Il classico look skinhead (anticipato in precedenza, lo riproponiamo ora) comprendeva: •

anzitutto la testa rasata, un’usanza dovuta alle scarse condizioni igieniche in cui versavano i loro luoghi di lavoro;

gli indumenti da lavoro più ricorrenti, ovvero i Levi’s 501 e i robusti stivali della Dr Martens, riproposti nel vestiario giornaliero; 33


le camicie (sia a maniche lunghe che a maniche corte, in base al clima) prevalentemente di marca Ben Sherman, con temi a quadri o tartan;

le bretelle, utilizzate al posto della cinta per sostenere i jeans. Una delle novità maggiori fu la diffusione dell’utilizzo di giubbotti Harrington,

già in commercio nei primi anni ’60 ma ancora poco diffusi tra i mods data la loro preferenza per il parka: l’Harrington era un giacchetto corto con chiusura lampo e interno in lana o cotone (sempre a seconda della stagione) a fantasie scozzesi. Secondo Richard Barnes (autore del famoso libro fotografico MODS!) il nome di questo capo deriva da Rodney Harrington, celebre personaggio del film e della soapopera Peyton Place (la seconda trasmessa sul piccolo schermo a partire dal 1964), il quale indossava spesso giacche dello stesso taglio dell’Harrington, anche se in pelle. Tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70 si ebbe dunque un repentino cambiamento di direzione nello stile della sottocultura modernista: scomparivano i tonic suits, prendeva forma lo stile casual, e nascevano contemporaneamente altre sottoculture le cui caratteristiche si andavano a miscelare con le precedenti (ad esempio i punk ripresero vari elementi dai teddy boys, come affermava il cantante dei Sex Pistols Johnny Rotten, e dagli hard mods), sicchè nel momento del revival del 1979, molti nuovi modernisti non avevano ben chiaro il vademecum estetico di quindici anni prima.

Figura 11: Un Hard Mod e un classico Harrington 34


2.1.3 Un breve ritorno alle origini Il 1979 segnò il “tempo dell’azione”: i mods tornarono in pista con il successo sorprendente riscosso dal revival. Inevitabilmente, però, i tempi erano cambiati e così la filosofia della sottocultura e il modo di approcciarsi al consumo: il Regno Unito era in piena recessione, la disoccupazione giovanile aveva raggiunto livelli record, e in quei giorni Margaret Tatcher diventava la nuova inquilina di Downing Street. Se negli anni ’60 gli adolescenti potevano permettersi un abito italiano fatto su misura da un sarto, durante il revival partiva la caccia ai capi di abbigliamento in vendita nei mercatini dell’usato (celebri sono tutt’oggi quelli di Camden Town), frequentati sovente anche dai punk: andavano a ruba giacche a tre, quattro bottoni o con il collo “alla coreana” (ovvero dritto, senza risvolti); i pantaloni sta prest (cioè con la piega) delle marche Levi’s e Lee; le giacche modello bomber di colore verde militare (più economiche del parka), ed altro ancora. La contemporanea diffusione del punk contribuì ad ampliare i confini del modernismo verso orizzonti mai provati prima: i The Jam di Paul Weller ne erano l’esempio perfetto. Il Modfather, partendo dall’originario total look dei ’60, apportò consistenti modifiche sia sugli eleganti completi che sul guardaroba più casual: •

le wincklepicker shoes venivano sostituite dalle jam shoes, le scarpe bianche con la punta nera indossate negli anni ’50 da Jerry Lee Lewis, musicista ascoltato dai rocker, quindi una variazione che sembrava impensabile solo una decina di anni prima;

nel look casual, si impongono le felpe della Lonsdale, marca che vestiva gli atleti di pugilato (ancora una volta un abbigliamento sportivo adattato allo stile modernista, come con le polo Fred Perry), e un vasto assortimento di T-Shirt, la maggior parte delle quali raffiguranti il classico Mod Target, simbolo del modernismo preso in prestito dalla RAF (la Royal Air Force, ovvero l’aviazione inglese).

35


Figura 12: il logo dei Jam “intrappolato” all’interno di un Mod Target

Detto ciò, durante il revival le caratteristiche del movimento originale si riconoscevano a fatica, per questo nella parte finale del primo capitolo abbiamo parlato di “non innovatori”. Sebbene la loro volontà fosse quella di tornare allo spirito e allo stile degli inizi, ciò non era possibile per via di un contesto totalmente opposto che non lo rendeva avverabile. Quindi cambia la fruizione dei prodotti, il modo in cui questi vengono scelti ed acquistati (e specialmente il luogo in cui ciò avviene), il valore che gli viene dato e così via: questo fa sì che i nuovi mods si approccino al consumo in maniera più critica, rovesciando l’ossessione ed il fanatismo che regnavano nei primi anni.

2.1.4 Gli anni recenti: il trionfo del casual La musica ha sempre avuto un ruolo di primo piano25: tra i ’50 ed i ’60, ad esempio, in America ed in Europa essa ha dato il via a diverse sottoculture, a partire proprio dai mods, o anche dai rockers. E così tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 partiva una nuova “battaglia delle band”, o anche “battaglia tra stili” e addirittura culture: la rapida diffusione planetaria del grunge (per intenderci, il genere dei Nirvana di Kurt Cobain) obbligava i sudditi di sua maestà a trovare un’alternativa che riportasse la musica inglese in cima alle classifiche di vendita. Dopo il breve ma intenso successo degli Smiths e degli Stone Roses, e dopo la lunga gavetta dei Blur, 25

Per un approfondimento sull’argomento è interessante il punto di vista del collaboratore de La Repubblica Corrado Augias che nel suo libro I segreti di Londra. Storie, luoghi e personaggi di una capitale (Mondadori, 2003) parla soprattutto nel terzo capitolo del fenomeno di costume dei Beatles e dell’influenza che quel tipo di musica ebbe sulla crescita della generazione della cosiddetta swinging London. 36


furono gli Oasis a conquistare, al primo colpo, il cuore della gente, e lo fecero con l’attitudine tipica dei modernisti: nel 1994 ormai il Britpop era “legge”. Questa nuova tipologia di modernismo non rappresentava un’evoluzione del look, semmai cercava di focalizzarsi su determinate caratteristiche piuttosto che su altre: •

scompariva lo zoot suit, il quale era sempre più raramente ricercato, se non dagli originals ancora rimasti, o da qualche nostalgico;

veniva enfatizzato e sviluppato sempre più l’abbigliamento casual;

il modernismo era visto come sottocultura tutta inglese, per questo venivano cercati abiti esclusivamente di brand inglesi, come Fred Perry, Ben Sherman, Merc London;

si diffondeva l’uso di comode scarpe da tennis come le Adidas Samba, utili per le lunghe camminate o per “pogare” durante i concerti;

questa nuova ondata, infine, era più silenziosa delle precedenti, distinguerla dalla massa non era cosa facile, cambiavano i luoghi di ritrovo (il 100 Club di Oxford Street è addirittura vicino al fallimento), mutavano i gusti musicali (più verso un rock distorto e dalle tematiche che spaziano dall’evasione procurata dallo “sballo” ai veri problemi dei giovani); lo stile era sì distinto, ma molto meno curato e sofisticato. L’ondata Britpop, e più tardi quella indie, segnarono un nuovo distacco dal

movimento originario: essi ne riprendevano la filosofia ma decidevano di applicarla a sprazzi; inoltre, se lo stile degli anni ’90 era ancora vicino al loro, e soprattutto fortemente patriottico, quello indie (seppur somigliante) causò una nuova rottura, dovuta all’emergere di capi “camaleontici”, del tutto simili ad una prima occhiata a quelli delle marche più celebri di Carnaby Street, ma di fatto di qualità un po’ più scadente ed in vendita in molte catene a basso costo (come H&M, Pull and Bear, Topshop e così via). Quest’ultima caratteristica la possiamo ricollegare a due diverse opzioni: •

da un lato, la nuove e forte crisi economica, acutizzatasi di recente, sicuramente non permetteva di acquistare sempre e soltanto il top della gamma, e non solo i modernisti si sono riversati in massa nei negozi con i prezzi minori; 37


dall’altro, anche nel revival del ’79 c’era una grande crisi, ciononostante i ben forniti mercatini dell’usato, lungi ancora oggi dall’essere scomparsi, offrivano delle alternative di marca, ben tenute e a prezzi ancora inferiori, in modo da poter continuare a perseguire quello stile e non farlo scomparire. Da questo punto di vista, quello del ricorrere a catene d’abbigliamento low cost non è soltanto un fattore dettato dalla poca moneta in circolazione, quanto un vero e proprio cambio di direzione. Le nuove generazioni privilegiano dunque la praticità, a volte il rapporto

qualità/prezzo, acquistano sempre più raramente in funzione di un’identità da rimarcare e da rivendicare.

2.1.5 Riepilogo dell’evoluzione stilistica dei Mods Nella parte finale del primo capitolo abbiamo utilizzato il quadrato semiotico di Greimas26 per individuare qual era stata la frattura principale che aveva causato le plurime divisioni interne al movimento mod (conservatori vs innovatori) ed in seguito lo abbiamo sfruttato, a livello dinamico, per ripercorrere le tappe fondamentali nella storia della sottocultura (Figura 15). È proprio a questo livello che esso può tornarci più utile, perché “dal punto di vista dinamico (sintattico), il quadrato è in grado di prevedere dei percorsi e delinea le condizioni embrionali della narratività” (Traini, 2010, p.59): possiamo quindi usarlo per ricostruire schematicamente non solo la storia dei mods, ma anche il loro percorso stilistico (Figura 16).

Figura 13

26

Cfr. Traini, La teoria semiotica di Greimas, paper 38


Figura 14

Il look distinto e pulito degli originals (conservatori) ha subito una sostanziale modifica con l’avvento degli skinhead (innovatori), più propensi ad un abbigliamento che rappresentasse la working class; il revival del 1979 (non innovatori) ha poi rilanciato il commercio dei tonic suits ma ha contemporaneamente dato il là allo stile casual, che si è imposto definitivamente con l’ondata brit pop (non conservatori). Notiamo il progressivo venir meno dell’eleganza degli absolute beginners in favore di un look meno appariscente (e magari sfoderabile quotidianamente): ciò è dovuto sia alla costante ricerca del nuovo tipica dei modernisti, sia ai diversi contesti in cui le differenti ondate hanno visto la luce, ma soprattutto è dovuto al mutare delle pratiche di consumo, ovvero del modo con cui essi acquistavano i capi di loro interesse: dall’ossessione e dal fanatismo tipico degli inizi si è passati allo stile come status symbol (l’abbigliamento “operaio” degli hard mods), per poi proseguire con un approccio più critico e pratico che idealista. Al contempo, numerose aziende hanno cercato di soddisfare le quasi infinite richieste di questa particolare sottocultura, nel corso del prossimo capitolo andremo ad individuare quelle che meglio si sono adattate ai cambiamenti e che sono riuscite a sopravvivere fino ad oggi.

2.2 Mods: tra sottocultura di consumo e comunità pluri-marche Il modernismo è una tribù multi-culturale senza confini: capire come giovani dandy, movimento operaio, e comunità nera siano riusciti a creare un movimento suburbano così forte e capace di resistere a qualsiasi moda potrebbe risultare fondamentale per le aziende di settore che si apprestano a programmare prodotti ed offerte apposite, in modo da garantire un’esperienza di consumo unica e sensazionale: 39


“il Modernismo è rimasto il più inossidabile culto giovanile perché i suoi fondatori elaborarono un progetto abbastanza robusto da sfidare il tempo […] I Mods non hanno mai sofferto gli attacchi del tempo perché hanno sempre avuto un che di speciale. I dettagli erano tutto […] Ciò dipendeva dal fatto che i Mods non avevano problemi ad accogliere altre esperienze al loro interno. Potevano anche sembrare arroganti, o esserlo veramente, sdegnosi, crudeli, fanatici, ma sicuramente erano tolleranti e molto ambiziosi” (Hewitt, 2002, p.66). Bernard Cova, nel suo libro “Il marketing tribale” (2003, p.23), arriva a distinguere due tipologie di tribù, ovvero le sottoculture di consumo (come i fan di Star Wars, o il più classico esempio dei guidatori di Harley Davidson) e le comunità di marca (consumatori uniti dalla fedeltà ad un unico marchio, come gli Alfisti per la casa automobilistica Alfa Romeo); facendo riferimento alle categorie individuate da Cova, non risulta possibile inserire i mods in nessuna di queste due classi, e questo perché: •

accomunarli ad una sottocultura di consumo è troppo riduttivo per i diversi settori merceologici e commerciali interessati (locali jazz e soul, negozi di dischi periferici, sofisticate boutique e tanto altro ancora) e per il continuo ridefinirsi dei loro gusti e delle loro esperienze di consumo;

non sono una comunità di marca in quanto mostrano fedeltà a più marche, per questo potremmo invece affermare che sono una comunità pluri-marche, con una attuale percentuale di interesse maggiore per i brand casalinghi (Fred perry, Ben Sherman ecc.) che saranno oggetto di analisi nel terzo capitolo. D’altro canto, però, anche Hebdige in qualche modo insiste sul concetto di

sottocultura di consumo, dato che “il rapporto tra la sottocultura spettacolare e le varie industrie che la servono e la sfruttano è notoriamente ambiguo” (1989, p.104); ma sottolinea, non senza un velo di malinconia, che nel momento della mercificazione e della massificazione, la sottocultura, come originariamente intesa, viene a morire: “gli stili culturali giovanili possono cominciare con l’emettere sfide simboliche, ma devono inevitabilmente finire con la costituzione di un nuovo apparato di convenzioni” (ibidem, p.105). Quale che sia la verità, essa va innanzitutto subordinata al concetto di “stile”, da cui i modernisti di certo non possono prescindere: lo stile è presente esteriormente, nel 40


loro look, ed interiormente, nel loro credo giornaliero, nel modo con cui ambiziosamente tentano la carriera sul proprio posto di lavoro, nella minuziosità con cui comprano i loro vestiti e nella cura con cui li indossano. Per Gazzara è la “rivolta dello stile” (1997), per Hewitt (2002) lo stile è lo specchio della loro anima, per Hebdige esso assume i contorni di una pratica significante (1989, p. 131), in quanto le differenze tra sottocultura e cultura dominante non sono espresse solamente tramite i simboli che caratterizzano la sottocultura stessa, ma anche e soprattutto dalle pratiche che gli conferiscono significato.

2.2.1 Tra ideali e necessità: il consumatore modernista Proprio per via del diverso modo di usare, e quindi acquistare, i capi di abbigliamento (pratiche di consumo) possiamo provare a classificare le diverse ondate moderniste ricorrendo ad uno strumento semiotico: il mapping dei valori di consumo di Semprini27. L’ideazione di questo mapping prendeva spunto dal quadrato semiotico sviluppato da Floch28 in base alla contrapposizione tra valori d’uso e valori di base, il che gli permise di individuare le seguenti quattro categorie: •

valori pratici, ovvero quelli che fanno leva sull’utilità dell’oggetto in quanto tale;

valori utopici, valori in questo caso di carattere più “esistenziale” che rimarcano e si collegano all’identità del soggetto;

valori ludici, rappresentano la negazione dei valori pratici e sono legati al piacere che l’oggetto procura;

valori critici, ovvero la negazione dei valori utopici, un modo cioè più razionale di approcciarsi al consumo, facendo attenzione al rapporto qualità/prezzo, costo/innovazione e via dicendo.

27 28

Cfr. Traini (2008) pp. 59-65 Cfr. Traini (2008) pp. 54-58 41


Figura 15: Il quadrato semiotico di Floch e il mapping di Semprini a confronto

In breve, Semprini ha come “tradotto” il quadrato di Floch in un mapping dei valori di consumo che oppone, incrociandole, le categorie utopico vs pratico e critico vs ludico: “il mapping così configurato è una struttura logica distribuita su di un piano bidimensionale, e può quindi essere considerato come un sistema semio-topologico che assegna un senso particolare a ogni zona che organizza” (Traini, 2008, p.59). Proviamo ora a proiettare le pratiche di consumo di tutte le ondate moderniste all’interno di questo schema, per darne poi una spiegazione dettagliata.

Figura 16

Gli originals si trovano vicini alla zona ludica ma a stretto contatto con quella utopica: ciò vuol dire che il forte piacere individuale che provavano nella propria esperienza di consumo, e nell’indossare i loro vestiti, era strettamente legato alla loro identità e ne rappresentava una proiezione. Questo era evidente dal modo in cui essi 42


indossavano i loro completi: il nodo della cravatta un po’ lasciato andare, il primo bottone della camicia slacciato, erano i piccoli grandi segni di un netto distacco dal classico look dell’elegante uomo d’affari tipicamente inglese; era un modo di porsi, una particolare “arroganza”, che i mods impararono direttamente dalla cultura nera. Gli skinheads si posizionano nella zona utopica, e ciò è evidente dal fatto che il loro stile e il loro credo erano simboli del movimento operaio negli anni in cui stava per iniziare la nuova crisi economica, mentre gli appartenenti al mod revival si trovano a metà strada tra il critico e l’utopico: la loro voglia di essere i nuovi face doveva sottostare a particolari condizioni economiche, del tutto opposte a quelle dei primi anni Sessanta: una identità, quindi, che rimaneva intrappolata all’interno delle esigenze di risparmio, arrivando a delineare così il profilo di “non innovatori”. La generazione britpop, come abbiamo visto poco fa, è più silenziosa delle altre e tende a non manifestare platealmente la propria “distinzione”: i “non conservatori” sembrano mossi più da bisogni primari29 ed individualisti che altro (ad esempio, soprattutto tra gli originals, il comprare e l’indossare certi vestiti erano pratiche rituali utili per entrare a far parte della tribù, e c’erano una serie di regole indispensabili da seguire). Domina quindi la praticità e la valorizzazione dell’oggetto in quanto tale più che rappresentativo di un qualcosa di specifico.

2.2.2 Vivere pulito in ogni circostanza: il punto in comune Kevin Pearce, giornalista di stampo musicale, anni fa in un suo famoso libro (Something beginning with O del 1993) scrisse che i mods erano come delle “gazze ladre della cultura”, capaci di adottare ed adattare al meglio qualsiasi cosa li circondasse, riuscendo di volta in volta a perfezionarsi ed a creare qualcosa di incredibilmente nuovo ed affascinante. La progressiva diffusione di sotto-correnti è una logica conseguenza di tutto ciò, ma non va vista come elemento di disgregazione della comunità, in fondo ciò che i mods cercano di fare tuttora è “vivere puliti in ogni circostanza”: anche se ciò richiede dei cambiamenti netti e/o inaspettati la motivazione di fondo rimane la stessa. Questo è quello che le aziende hanno bisogno di capire per colpire nel cuore della 29

I bisogni primari sono quei bisogni la cui soddisfazione è indispensabile per la vita di tutti i giorni: vi si annoverano il mangiare, il bere, il vestire e così via. 43


sottocultura: i mods sono uguali e diversi allo stesso tempo, e così devono esserlo i marchi che vogliono vestirli. In definitiva il mod rimane, anche come consumatore, uno spirito libero, difficile da catturare in maniera permanente grazie alla sua volatilità e alla sua eccentricità stilistica: per potervi comunicare adeguatamente bisogna essere in grado di creare uno spazio “a tutto tondo”, dove siano messe in scena tutte le caratteristiche accumulate in più di quarant’anni di storia, stabilire la giusta connessione a livello emotivo, e soprattutto seguire con incessante scrupolosità ogni evoluzione e cambiamento. Questo capitolo ci è servito, in sintesi, per comprendere la singolare evoluzione stilistica dei mods: lo stile nel tempo ha conosciuto un’evoluzione, ma questa evoluzione è stata condizionata dal diverso modo di relazionarsi con il consumo (le pratiche di consumo). È stato l’uso, in definitiva, a orientare il cambiamento e in questo ha avuto un ruolo importante la componente culturale. Nel terzo capitolo ci soffermeremo invece sui marchi protagonisti di questa evoluzione, analizzando nello specifico il punto vendita: l’obiettivo sarà vedere se e come, i brand in questione, riescano a comunicare i propri valori all’interno dei propri punti vendita attualmente più rappresentativi, attraverso un’accurata analisi degli spazi di consumo.

Figura 17: Welcome to Carnaby Street. L’ingresso di una delle più celebri vie della capitale della Gran Bretagna

44


CAPITOLO 3

CARNABY STREET: UN’ANALISI SEMIOTICA DELLE STRATEGIE COMUNICATIVE ATTUATE ALL’INTERNO DEGLI SPAZI DI CONSUMO

They seek him here They seek him there In Regent Street And Leicester Square Everywhere the Carnabitian Army marches on Each one an dedicated follower of fashion (Ray Davies, da Dedicated Follower Of Fashion, 1966) Nella prima parte di questo lavoro abbiamo ripercorso le tappe principali della storia della sottocultura modernista; successivamente abbiamo osservato l’evoluzione dello stile mods, mostrando come le pratiche d’uso abbiamo profondamente influito su questa evoluzione. In questo capitolo ci concentreremo invece sui brand Ben Sherman, Fred Perry, Merc, Pretty Green: l’obiettivo sarà effettuare un controllo della coerenza comunicativa di ciascuna delle quattro marche attraverso l’analisi di alcuni punti vendita rappresentativi.

3.1 Il controllo semiotico della coerenza comunicativa Nell’ambito della comunicazione d’impresa la semiotica, con i suoi metodi ed i suoi strumenti, può essere utilizzata per effettuare un controllo della coerenza comunicativa dell’immagine di un marchio rispetto ai valori alla base dell’identità aziendale: “l’idea risale a Floch” il quale “specifica che, a partire da questo assetto valoriale (il quadrato dei valori di consumo) il semiotico può analizzare i testi concentrandosi sui livelli narrativi e discorsivi per vedere in che modo sono state sviluppate le assiologie profonde” (Traini, 2008, p.116). Bisogna dunque ripensare il percorso generativo del senso di Greimas30 in chiave di marketing31, quindi: 30

Cfr. Traini (2010) 45


il livello assiologico corrisponde alla brand identity, ovvero ai valori su cui si fonda l’identità di una data azienda;

il livello narrativo ci mostra il modo in cui questi valori vengono tramutati in racconti;

il livello discorsivo è il livello in cui questi racconti vengono messi in scena. Quest’ultimo livello è senza dubbio il più sensibile ai cambiamenti del contesto socio-culturale perché “mentre i livelli più profondi sono relativamente stabili e permanenti, il livello più superficiale si trasforma in modo più rapido” (Traini, 2008, p.117). Per poter effettuare il controllo, oltre alla pubblicità – testo su cui sono state

fatte più analisi semiotiche32 – l’analisi semiotica può concentrarsi anche sugli spazi di consumo: “è proprio nei luoghi, più che negli altri canali di comunicazione, che è possibile rilevare l’evoluzione delle strategie comunicative delle marche […] all’interno di questi luoghi spesso si abbandona la quotidianità per vivere un’esperienza prima, durante e dopo l’acquisto: essi diventano quindi macchine per la costruzione del senso” (Boero, 2010, p.51). Possiamo pertanto intendere il punto vendita come luogo in cui vengono espressi i valori su cui si fonda l’identità di marca: nel caso della sottocultura modernista questo tipo di analisi è particolarmente significativa perché il punto vendita è lo spazio che più di tutti simboleggia il legame tra azienda e clientela. Sebbene l’obiettivo primario della ricerca sia constatare se l’immagine aziendale dei quattro marchi espressa tramite il punto vendita sia coerente o meno con i valori dell’identità33, ci preme anche capire che tipo di rapporto queste marche riescono ad instaurare con il consumatore, e quali sono le differenze tra i vari spazi in termini di organizzazione, accoglienza, atmosfera e così via34. 31

Cfr. Semprini e Musso in Lombardi (2001) Per un maggiore approfondimento si vedano anche Floch (1992) e Marrone (2001) 33 Cfr. Traini (2008) pp. 115-123 34 L’analisi semiotica dei punti vendita di Merc, Fred Perry, Ben Sherman e Pretty Green ha avuto luogo a Londra nei giorni che vanno dal 22 al 27 Settembre 2010. Il metodo di studio utilizzato è stato quello dell’osservazione partecipata (Boero, 2010, pp. 41-44): ho quindi assunto un ruolo attivo immedesimandomi nella parte del consumatore modernista. Ho proceduto alla raccolta dei dati prevalentemente mediante appunti e scatti fotografici, concentrando la mia attenzione sul modo in cui i simboli della sottocultura venissero usati per veicolare i valori aziendali e per creare un particolare legame con i membri della tribù. 46 32


3.2 Nascita e crescita dei brand britannici oggetto di analisi Parallelamente alla crescita del movimento modernista, in tutto il Regno Unito si diffusero dei punti vendita appositamente dedicati a loro, specialmente per quanto riguardava l’abbigliamento: “già dal 1962 His Clothes era la mecca del mod originale e il suo proprietario, John Stephen, non conosceva rivali poiché i suoi materiali erano i migliori” (Gazzara, 1997, p.78). Il successo di questo primo punto vendita era dovuto a tre fattori: •

l’invenzione delle camicie button down e delle asole nascoste sotto una sottile striscia di stoffa;

la cordialità con cui il proprietario, scozzese di Glasgow, accoglieva i suoi clienti, e la cura con cui confezionava i loro abiti;

l’espandersi della sottocultura mod, il che permise (ma soprattutto richiese) di aprire più punti vendita, che diventarono ben sei nella sola Carnaby Street nel giro di pochissimi anni. La concorrenza non tardò ad arrivare: la boutique di John Michael era quella

che cercava di offrire i prezzi più ragionevoli; Bilgorri di Bishopgate si specializzò nella vendita di giacche per i face; Vince in Newburgh Street commercializzava gli abiti più stravaganti in circolazione. La crescita così rapida di questo mercato attirò subito l’attenzione dei media, tant’è vero che la rivista Town nel 1962 pubblicò un lungo articolo riguardante lo stile modernista, condito da un’intervista al quindicenne Mark Feld, che qualche anno dopo divenne celebre, con lo pseudonimo di Marc Bolan, come cantante della band glam rock dei T-Rex. Proprio le celebrità della musica erano un punto di riferimento imprescindibile per i mods: i maglioni con le frecce stilizzate indossati dai The Who divennero ben presto molto ricercati in tutti i negozi di Londra; i barbieri continuavano a fare tagli di capelli come quelli dei Beatles o di David Jones (ovvero il giovane David Bowie). In breve tempo l’impatto della sottocultura sulla vita di tutti i giorni fu così forte che lo stesso termine “modernismo” divenne sinonimo di qualsiasi forma di arte innovativa, che fosse una giacca, una canzone, una poesia, un quadro, o addirittura un mobile: “se ricordo bene, il primo negozio della catena Habitat aprì a Chelsea nel 1962 e fu una specie di rivelazione. Disegnatore di mobili, Terence Conran era stato un Mod della prima ora e fu lui a creare mobili di una forma mai vista prima in 47


Inghilterra, all’incirca quelli che Elizabeth David descriveva nei suoi libri di cucina. I prodotti di Conran apparvero da Habitat e andarono a ruba” (Hewitt, 2002, p.43). Tornando al fulcro del nostro discorso, ovvero l’abbigliamento, verso la metà degli anni ’60 i mods avevano solo l’imbarazzo della scelta: oltre alle prime storiche boutique come quella di John Stephen, cominciarono a venire fuori i primi brand “casalinghi” come Ben Sherman e Fred Perry, ed inoltre nel 1965, a Richmond, vide la luce lo storico Ivy Shop di John Simons e Jeff Kwintner, specializzato nella vendita dei vestiti tipici dell’Ivy League americana a cui i mods si sono sempre ispirati: il successo fu immediato, e tale da garantire l’apertura di un secondo punto vendita, lo Squire Shop, in Brewer Street. Il modernismo, così, ha dato vita ad una spietata concorrenza nel campo dell’abbigliamento e della sartoria, ed ha fornito più di un ragionevole motivo per la nascita di un settore appositamente specializzato nel Regno Unito, divenuto oggi uno dei pilastri dell’economia britannica grazie a brand di fama ormai internazionale.

Figura 18: I simboli dei quattro marchi su cui si concentrerà la Tesi

3.2.1 Merc London Nei gloriosi sixties Londra era l’epicentro di tutto, dalla moda alla musica fino agli stili di vita. Carnaby Street divenne il simbolo di tutti i cambiamenti che velocemente si susseguivano: fu qui che nel 1967 Mr Javid Alavi decise di aprire la sua prima boutique. Non è difficile immaginare qual era il suo intento, ovvero scavalcare qualsiasi barriera all’entrata35 ed essere da subito protagonista: Alavi cominciò confezionando particolari camicie button down, ma il business ebbe subito una buona impennata e l’offerta della piccola ditta si ampliò sempre di più fino a 35

Cfr. Grant (2006) 48


sbocciare definitivamente nel 1975, a cavallo tra l’ondata skinhead e il revival, quando il marchio Merc era ormai una realtà ben affermata: “mentre Mr Ben Sherman è dovuto emigrare in America per poter cominciare l’attività, e mentre Fred Perry confezionava inizialmente divise per tennisti, Merc è nata direttamente nel cuore della moda inglese, e li è rimasta, vivendo da vicino ogni singolo cambiamento, adattandosi di conseguenza, diffondendosi nel mondo ma mai rinnegando le proprie radici, che restano il suo segno distintivo e un motivo d’orgoglio” (Trequadrini, 2010, p.12). Proprio per questo, ancora oggi, la sottocultura modernista rappresenta il target più importante dell’azienda, un punto di riferimento imprescindibile che ribalta, a mio modo di vedere, il concetto di fidelizzazione: in questo caso, infatti, è l’azienda che resta fedele nei confronti dei propri consumatori, più di quanto non facciano essi stessi, quasi come fosse un “atto di riconoscenza” per averla accompagnata da sempre nella crescita e nello sviluppo.

3.2.1.1 Merc London: lo stile non muore mai “Qui alla Merc abbiamo un motto: lo stile non muore mai. Il look Merc è elegante, acuto e distinto. In costante evoluzione ma inconfondibilmente Merc”36 . Già dalla sua mission Merc stabilisce una chiara connessione con il moving and learning modernista: dal 1967 infatti (l’anno della creazione del marchio) l’allora piccola boutique di Carnaby Street, come abbiamo anticipato poco fa, anche e soprattutto grazie alla fedeltà dei membri della sottocultura, è cresciuta fino a diventarne un punto di riferimento ed una vera e propria icona. Tutto perciò lascia intendere che al suo interno ogni dettaglio si ricolleghi ai mods ed alle loro grandi passioni. Il flagship store37 (fino a pochi mesi fa unico monomarca al mondo di Merc) è sviluppato su due piani e dispone di un’ampia vetrina ad angolo che invade, per buona parte, Broadwick Street. Le scelte riguardanti lo spazio esterno sono da subito indice di distinzione: le mura sono di colore rosso bordeaux, in tinta con il classico interno dei tonic suits prodotti dall’azienda; delle lampade illuminano la bianca insegna con il 36

http://www.merc.com/Heritage/ I flagship store sono letteralmente i “negozi bandiera”: essi assumono soprattutto funzione istituzionale per i brand e sono dunque volti a dare loro grande risalto. Anche per questo, solitamente, sono situati in posizioni strategiche nelle maggiori città del mondo. 49

37


logo Merc; nella parte centrale è infine posizionata la Merc crown, una M che assume le classiche sembianze di una corona, il copricapo cerimoniale utilizzato dai monarchi, che potrebbe simboleggiare sia il prestigio ed il potere ormai riconosciuti all’azienda, sia la raffinatezza e l’esclusività dei capi prodotti.

Figura 19: Merc Flagship Store: lo spazio esterno

Lo spazio interno è a sua volta suddivisibile in due parti: il primo piano, se osservato velocemente, sembrerebbe disattendere le aspettative del cliente data la sua piccola superficie, la scarsa luminosità e le poche merci esposte (soprattutto abbigliamento in saldo o casual). In realtà l’intento è chiaramente quello di indirizzare (e quindi manipolare38) il soggetto verso il piano seminterrato, al quale si accede tramite una scalinata capeggiata da un gigantesco Mod Target ed impreziosita, ai lati, da autentici vinili e copertine di magazine autografate da artisti quali The Jam, Blur e Ramones: la sensazione che si ha è quella di incominciare da lì la vera visita, e di entrare in un mondo a parte, dove è possibile ripercorrere gli oltre 40 anni che l’azienda ha vissuto a fianco della sottocultura mod.

38

Cfr. Traini (2010) 50


Figura 20: La pittoresca scalinata che porta al piano seminterrato

Per spazio interno preferiamo intendere quindi il piano seminterrato, caratterizzato anch’esso da un doppio ingresso: si può scegliere se entrare da destra o da sinistra, e decidere in questo modo di effettuare un determinato percorso anziché un altro. Da qualsiasi parte vi si decida di accedere, la prima cosa che si nota è la Lambretta (mezzo di trasporto tipico dei mods) targata Merc, ed i due manichini che la affiancano, uno in perfetto stile hard mod con il suo Harrington, i suoi jeans e la sua camicia tartan, e l’altro vestito da original, con il completo, i desert boots ed il parka: gli abbinamenti di ciascun manichino, quindi, non sono scelti a caso per un cliente generico, ma sono studiati appositamente per determinati target, il cui punto in comune sembra essere l’assetto valoriale originario dei primi anni Sessanta, qui rappresentato tramite la Lambretta (nonostante le divisioni, essa è sempre rimasta il mezzo di trasporto prediletto). In sottofondo, inconfondibili, scorrono le note del revival: The Jam, Specials, Secret Affair e Madness riempiono le nostre orecchie e le nostre menti con le loro melodie ed i loro testi. Da questo punto dello store prende avvio ciò che io chiamo il “percorso Merc” (Figura 21): •

partendo da sinistra, il cliente entra in contatto prima con le calzature (posizionate all’interno di suggestivi cubi retro-illuminati che ricordano per forme e colori l’arredamento delle discoteche riprese per Quadrophenia), poi con i soprabiti, i pantaloni, le giacche, le camicie e gli accessori (quindi un percorso più “ricercato”);

partendo da destra, invece, si incontrano dapprima le t-shirt, poi le polo, le felpe, i jeans e gli Harrington (un percorso “casual”). 51


In entrambi i casi il cliente converge verso la cassa, dove è possibile documentarsi sulla tipica vita modernista tramite appositi dvd e riviste specializzate.

Figura 21: Ricostruzione approssimativa del seminterrato del Merc’s flagship store

Risulta piuttosto evidente come Merc cerchi di indirizzare il proprio cliente verso particolari azioni, ma nel farlo lascia comunque la possibilità di scegliere in autonomia e libertà: la gamma di prodotti è infatti sviluppata ad hoc per poter soddisfare qualsiasi ondata modernista, anche se nell’organizzare lo spazio si è dato certamente più risalto alla prima grande spaccatura (conservatori vs innovatori), inglobando le altre categorie (non innovatori e non conservatori) all’interno delle prime due, ed unendole in base alle caratteristiche condivise (quindi da un lato conservatori e non innovatori, e dall’altro innovatori e non conservatori), delineando in questo modo uno spazio in cui dominano i valori utopico e ludico39.

39

Per un approfondimento si veda la sezione apposita nel capitolo secondo o anche Floch (1992) 52


Possiamo anche vedere questo piano del punto vendita come spazio narrativo, ove è la marca stessa a cercare di far vivere ai propri consumatori una determinata storia. Parliamo quindi di uno spazio topico40 così suddivisibile: •

l’ingresso/uscita (ovvero la scalinata con il Mod Target e la doppia entrata) è lo spazio eterotopico dove avviene prima la manipolazione e poi, nel finale, la sanzione;

gli espositori (posizionati ai lati dell’area centrale con la Lambretta Merc) rappresentano lo spazio paratopico dove il soggetto acquisisce la competenza;

la cassa è lo spazio utopico dove avviene la performanza, ovvero, in questo caso, l’acquisto o meno dei vestiti41. Possiamo quindi affermare che la mission Merc (“lo stile non muore mai”) è

perfettamente riproposta all’interno dello store, dove le atmosfere degli anni ’60 e ’70 vengono fatte rivivere ogni giorno attraverso una particolare miscela di moda, musica e società. In questa maniera si tiene vivo il ricordo di un’epoca piena di cambiamenti e di novità, il cui fascino sembra essere davvero immortale. Naturalmente, come insegnano proprio i mods, l’azienda cerca sempre di rinnovarsi (“in costante evoluzione ma inconfondibilmente Merc”) sia per mantenere alto l’interesse della clientela, sia per non tradire il legame instaurato con la filosofia e con il popolo modernista da ormai parecchi decenni.

3.2.2 Dall’Inghilterra all’America e viceversa: Ben Sherman Alfred Benjamin Sugarman voleva un destino diverso da quello del resto della sua famiglia, non voleva accontentarsi di lavorare al solito Rocco’s Gift Shop, per questo a soli 20 anni (nel 1945) si imbarcò per il Canada, piccolo punto di sosta prima della sua destinazione finale: gli Stati Uniti d’America. Qui, dopo due matrimoni falliti, conosce nella caotica Los Angeles colei che diventerà la sua terza sposa: Ruth Minken. Il padre di Ruth, Aaron, possedeva una ditta che confezionava abiti ben avviata, e così decise di lasciare il testimone ad Alfred insegnandogli tutto ciò che sapeva sul suo lavoro: Alfred ne fece tesoro, e provò a rinnovare l’immagine 40 41

Cfr. Boero (2010) p. 63 Cfr. Boero (2010) pp. 63-66 53


dell’azienda (da lui ritenuta troppo conservatrice) partendo dalla linea di camicie Lancia. Il suo tentativo fallì, e così la nuova famiglia Sugarman nel 1962 decise di tornare in Gran Bretagna, precisamente a Brighton. Ben presto anche il rapporto con Ruth giunse al termine, e così, mentre la moglie e i figli tornavano in America, Alfred decise di non darsi per vinto e continuare nel tentativo di rinnovare l’industria dell’abbigliamento, soprattutto ora che, in piena era swinging London, il terreno era quanto mai fertile. Egli acquistò una vecchia industria a Brighton in Bedford Square, cambiò nome legale in Ben Sherman (temeva che qualcuno potesse giudicarlo per le sue origini ebree) e dette così vita al suo omonimo marchio: era il 1963. Solamente un anno dopo apriva il punto vendita di Carnaby Street, e nel 1968 venne inaugurata la linea femminile: il successo fu enorme e rapidissimo, i mods non potevano non apprezzare l’unicità delle camicie Ben Sherman, con il loro colletto un po’ largo, il bottone in più rispetto alle camicie normali, l’inconfondibile firma di Ben sul taschino all’altezza del cuore. Non solo cultura giovanile, anche uomini d’affari e ben distinti erano alla continua ricerca del design di Ben Sherman. Era un brand per tutti, che non conosceva più confini: le continue richieste (anche oltreoceano) costrinsero Ben a trasferire la produzione dalla vecchia fabbrica di Brighton in una più grande nell’Irlanda del Nord. A rimarcare, però, la vicinanza con il modernismo, ed in generale le sottoculture nate nel Regno Unito dagli anni ’60 in poi, ci sono le plurime collaborazioni con i nomi più importanti della musica del passato, che come sappiamo hanno contributo più di ogni altri al rinnovamento socio-culturale: nel 2007 fu Paul Weller, il Modfather, a disegnare la sua collezione speciale, così come nel 2010 è toccato prima ai Beatles e poi ai Madness diventare partner del brand.

3.2.2.1 Ben Sherman: l’immagine è tutto Secondo Ben Sherman “avere un bell’aspetto non è importante: è tutto!”42. È quindi chiaro che anche questo marchio stabilisca una particolare congiunzione con i mods: ciò è anzitutto intuibile dalle pagine del sito internet del brand (www.bensherman.com), dove la sua storia è raccontata in parallelo a quella delle sottoculture giovanili, ed accompagnata dalle foto dei più grandi artisti musicali di 42

http://brand.bensherman.com/about/ 54


ogni decennio, dagli anni ’60 ai giorni nostri (ancora una volta, ritorna l’importanza del sistema dei discorsi sociali). Furono proprio i mods, con la loro immediata fedeltà verso i prodotti della ditta, a convincere Ben Sherman a sbarcare su Carnaby Street nel 1964: da allora il negozietto di camicie button down si è ampliato sempre di più sino a diventare il punto vendita più grande e maggiormente in vista di tutta la via. Come il flagship store di Merc, anche Ben Sherman ha a disposizione due piani (oltretutto i due marchi si trovano l’uno di fronte all’altro), ma ha anche a disposizione una superficie molto più vasta: cominciamo con lo spazio esterno che, oltre a sboccare su Carnaby con la grande vetrina, circonda anche tutta Kingly Court (piccola e suggestiva via interna a Carnaby Street che dà su una piazzetta con bar, vari empori vintage ed alcuni uffici, conferendo quindi una maggiore visibilità). Lo spazio esterno può essere di difficile interpretazione: la modernità dell’insegna sembrerebbe scontrarsi con i capi tipicamente anni ’60 esposti in vetrina, e soprattutto con il Mod Target che fa da maniglia al portone dello store. Quanto emerge dall’analisi testuale è che evidentemente l’azienda vuole comunicare ai propri clienti di essere “universale” e di non voler accogliere solo determinati target (come invece sembra comunicare Merc London), ma di voler essere moderna e all’avanguardia, elegante e distinta, tuttavia sempre con un occhio di riguardo verso la clientela da anni più fedele (il Mod Target usato come “ingresso”).

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Figura 22: Lo spazio esterno di Ben Sherman

Questo è ancora più intuibile dall’organizzazione dello spazio interno: il primo piano presenta un arredamento piuttosto moderno, luce soffusa, e le hit musicali più recenti mandate in onda ad un volume piuttosto alto. Le merci sembrano esposte senza seguire un determinato percorso logico e troviamo perlopiù abbigliamento casual e giovanile.

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Figura 23: Lo spazio interno: il primo piano

Se il cliente modernista è quindi alla ricerca di un certo ambiente e di certi prodotti, non potrà far altro che provare a scendere e recarsi anche qui al piano seminterrato, a cui si giunge tramite scale trasparenti retro-illuminate e gigantesche indicazioni che ci introducono alla sezione tailoring (cioè gli abiti): appena si arriva, magicamente scompare la musica del piano superiore, si comincia ad udire piano piano un vinile di soul music, tutto è arredato come se fossimo negli anni ’60, la Vespa è lì, accanto al suo manichino, i commessi sono eleganti e gentili, ricordano a tratti il modus operandi di John Stephen: il modernismo prende vita. Sebbene, però, Ben Sherman riesca a creare l’atmosfera giusta, esso pecca di nuovo nei dettagli: il piano è sì dedicato ai completi, ma non a quelli che intendono semplicemente i mods con i loro classici tre bottoni e i pantaloni stretti con la piega; c’è infatti una grande varietà di vestiti tra cui scegliere, e molti di questi sono anche dedicati ai gentlemen della City, da sempre espressione di quella società e di quella cultura dominante che i mods criticavano e miravano a modificare. Ancora una volta, le merci non sono esposte in funzione di una qualche successione logica (ad esempio camicia, giacca, pantalone, scarpe) ma in maniera 57


piuttosto casuale, il che ci porta a pensare che questo store (sebbene sia li da più di 40 anni e sebbene si trovi in un posto strategico) non sia il veicolo primario tramite il quale trasmettere la propria identità di marca, ma più semplicemente un espositore di eccellenti vestiti (al limite potremmo intendere questi ultimi come specchio della mission aziendale). Sono diverse infatti le differenze con il flagship store di Merc: •

prima di tutto, l’arredamento moderno contrasta con l’arredamento più da 100 Club43 (quindi più “di concetto”) di Merc;

possiamo poi affermare che Ben Sherman è sì coerente con la propria brand identity, ma è una coerenza che non viene trasmessa tramite il punto vendita come per Merc, ma più semplicemente tramite i propri prodotti;

Merc dimostra un maggiore feeling ed una maggiore riconoscenza verso la tribù modernista, mentre Ben Sherman sembra voler guardare avanti e mirare ad una clientela più altolocata e moderna (anche se è sempre disposto a riservare un piccolo spazio ai suoi primi fedelissimi customers).

Figura 24: La Vespa ed il manichino con il suo zoot suit nello store Ben Sherman

Come avevamo già accennato ad inizio capitolo, è al livello discorsivo e della “messa in scena” che si evidenziano i cambiamenti più evidenti, e Ben Sherman ne è un caso lampante: sebbene i valori fondanti siano sempre gli stessi, col passare del tempo il livello discorsivo si è venuto a modificare in conseguenza dell’enorme 43

Il 100 Club è uno storico club Mod situato lungo Oxford Street a Londra 58


espansione dell’azienda e dei cambiamenti socio-culturali che si sono susseguiti; così la boutique di camicie è diventata un enorme punto vendita moderno, pieno di ottimi e costosi capì di ogni genere, dal casual al ricercato, per giovani ed adulti, d’altronde avere un bell’aspetto – in qualsiasi occasione – non è importante: è tutto.

3.2.3 Da campione del tennis a re della moda: Fred Perry Frederick John Perry è stato il numero uno al mondo nello sport del tennis dal 1934 al 1938. Le sue numerose vittorie e la sua grande fama lo hanno certamente agevolato quando, sul finire degli anni ’40, decise di sviluppare una linea di abbigliamento adatta allo sport che tanta gloria gli aveva dato: la storica polo Fred Perry fa il suo esordio al torneo di Wimbledon del 1952. Amico di René Lacoste, trasse ispirazione proprio dal capo principe dell’imprenditore francese per il design della sua polo, eccezion fatta per il tessuto traspirante (elaborato assieme al footballer australiano Tibby Wegner), e per i simboli che contraddistinguono i due marchi: mentre il coccodrillo transalpino è cucito sopra la stoffa, la coroncina d’alloro britannica è rimarcata sulla shirt. Successivamente alla diffusione dell’uso di questo indumento tra i primi modernisti, l’azienda decise di cavalcare l’onda e diversificare l’offerta: verso la metà degli anni ’60 cominciarono ad essere disegnati ed in seguito commercializzati alcuni cardigan in cotone e gilet in lana. Le richieste di indumenti nuovi e sempre più sgargianti aumentavano di volta in volta: fu così che cominciò uno dei più lunghi sodalizi tra una sottocultura giovanile e un marchio, cioè quello che Cova definisce brand community (2003, p. 24): Fred Perry ha così accompagnato tutte le ondate del modernismo, introducendo le novità del caso quando opportune, come ad esempio l’Harrington Jacket e le camicie button down durante l’ondata hard mod e skinhead. Solo da pochi anni, però, l’azienda ha deciso di sbarcare a Carnaby Street (luogo simbolo dello shopping per i mods), mantenendo comunque intatta tutta la sua particolarità: ogni suo punto vendita è infatti dedicato ad una collezione specifica (ad esempio a Carnaby c’è la Laurel Wreath Collection), gli spazi sono sempre piccoli ed accoglienti, in modo tale che il consumatore sa già dove trovare ciò che vuole, senza disperdersi in lunghi giri che potrebbero risultare superflui ed infruttuosi: in questo

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modo si abbracciano diverse tendenze, ed ognuna di loro viene fidelizzata con un’offerta apposita e del tutto unica.

3.2.3.1 Fred Perry: uno stile senza tempo Per un attimo ci stacchiamo da Carnaby Street ed andiamo ad esplorare un’altra area della capitale britannica: gli Old Spitalfields Market sono situati vicino alla City, e rappresentano anch’essi una delle attrazioni principali di Londra con il loro misto di mercatini in stile vittoriano44 ed architettura contemporanea. È qui che dall’aprile del 2010 ha aperto il concept store45 di Fred Perry: l’azienda da sempre si contraddistingue sul mercato per la sua attenzione nell’organizzazione dei propri punti vendita (come già abbiamo accennato nel paragrafo precedente) e nella sola Londra ne abbiamo ben sei, ognuno dei quali focalizzato su una precisa tipologia di prodotti: c’è chi vende capi generici, chi la collezione disegnata da Laurel Wreath, chi l’abbigliamento sportivo e così via. Con lo store degli Old Spitalfields Market il brand intende rilanciare il made in UK: Fred Perry vuole quindi dissociarsi dalle altre grandi firme che declinano la produzione a consociate estere di basso costo, e per farlo non c’è modo migliore se non dare il giusto risalto ai grandi stilisti (Raf Simons su tutti) e alla grande sartoria inglese che fecero la fortuna del paese negli anni ’60. Per questo, all’interno del punto vendita, tutto deve essere riconducibile all’epoca che lanciò definitivamente il marchio, dai vestiti all’arredamento sino all’atmosfera, cercando di rispecchiare quella che è la propria brand identity: “le mode vanno e vengono, ma lo stile è senza tempo!”46. Lo spazio esterno presenta delle pareti in legno bianco candido che fanno da cornice ad una vetrina composta da vetro riciclato e ridipinto in modo tale da oscurare 44

Con l’aggettivo vittoriano si fa riferimento al regno della Regina Vittoria durato dal 1837 al 1901, un’epoca piena di cambiamenti caratterizzata dalla rivoluzione industriale prima e dall’espansione coloniale poi. In questi anni ebbero un grande sviluppo attività culturali come la pittura (si ricordano soprattutto i prefratelliti) e la letteratura (Charles Dickens, Joseph Conrad e Oscar Wilde tra gli altri). 45 I concept store nascono per garantire ai clienti-consumatori una particolare esperienza di consumo attraverso una pluralità di suggestioni, che vanno dai prodotti esposti all’organizzazione dell’ambiente: l’obiettivo è di trasformare il classico punto vendita in un vero e proprio vissuto personale dei clienti. Il primo concept store fu quello aperto dalla Ralph Lauren a New York nel 1986 e la cui analisi, condotta da Patrick Hetzel e chiamata L’approccio esperienziale nei negozi di Ralph Lauren è riportata nel libro di Semprini Lo sguardo sociosemiotico. Comunicazione, marche, media, pubblicità, Franco Angeli, Milano, 2003. 46 http://www.fredperry.com/heritage/ 60


l’interno e riflettere maggiormente il panorama circostante della City. Come tutti gli altri esercizi commerciali della via, inoltre, anche Fred Perry dispone di un’insegna particolare, molto vintage, che pende dall’estremità superiore dell’edificio: essa è di color verdone con bordo bianco e non presenta il nome del marchio, ma soltanto il suo famoso simbolo della corona d’alloro.

Figura 25: Mentre tutti gli altri negozi inseriscono il nome dell’attività sull’insegna, Fred Perry si “limita” ad inserirvi solo il proprio logo. Naturalmente ciò è indice della sicurezza dell’azienda per quanto riguarda la brand awarness, ovvero la notorietà del marchio

Se dall’esterno il concept store fa tornare alla mente le prime boutique londinesi frequentate dai mods, come ad esempio l’Ivy Shop di John Simons (Figura 26), entrandovi la sensazione di essere tornati indietro nel tempo è ancora maggiore grazie, ad esempio, alla suggestiva pavimentazione in cemento con, incastonate, autentiche botole in legno dell’era vittoriana risalenti alla prima rivoluzione industriale (Figura 30): il concept su cui è sviluppato il punto vendita, dunque, non è solamente quello del rilancio del made in UK (comprensibile dal fatto che vengono messi in vendita solo capi prodotti “in casa”), quanto il tema stesso della manodopera, dell’industria di una volta, come quella del boom economico del secondo dopoguerra. A tal proposito non poteva esserci posizione più strategica degli Old Spitalfields Market, dritti nel cuore della City, ovvero lì dove oggigiorno si concentrano le maggiori attività economico-finanziarie del Regno Unito. 61


Figura 26: Lo spazio esterno. Fred Perry e John Simons a confronto

Anche i capi di abbigliamento riportano al primissimo stile adottato dalla ditta: se negli ultimi anni i prodotti sono stati modernizzati e quasi “generalizzati” (la polo diventata a due bottoni o i maglioncini in cotone monocolore senza disegni particolari o specifici) per soddisfare le esigenze di una pluralità di target completamente differenti tra loro, in questo punto vendita si torna a concentrare l’attenzione sul look sobrio e distinto tipico dei modernisti, anche loro, in origine, provenienti dalla working class: i capi sono sgargianti, di qualità, e situati all’interno di uno spazio che va sempre incontro a modifiche e innovazioni: molti degli elementi che lo compongono sono infatti removibili ed intercambiabili, rendendo perciò la configurazione dell’ambiente circostante molto più versatile e pronta ad accogliere con sorpresa anche il cliente fedele che si reca nel punto vendita in più occasioni (moving and learning). Fred Perry, in sintesi, mette in scena una sorta di revival degli anni ’60 e lo fa attraverso un sistema di segni ben definito che punta soprattutto sul passato, sulla nostalgia per una determinata fase socio-economica del Regno Unito: il negozio dall’esterno evoca le piccole ed accoglienti boutique di maestri come John Stephen, e dall’interno ricorda l’industria di un tempo, le innovazioni e la ricchezza del paese che ormai sembrano non esserci più.

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Figura 27: Fred Perry. Lo spazio interno

Pur non essendo rintracciabili in un primo momento, i valori dell’azienda sono presenti in ogni parte del punto vendita ed esso stesso ne rappresenta una concretizzazione: per Fred Perry, infatti, “lo stile è senza tempo”, e questa tipologia di stile non riguarda soltanto l’abbigliamento (che ovviamente rispecchia perfettamente la brand identity), ma anche un certo modo di fare le cose che è andato ormai perduto, e che l’azienda vuole omaggiare e ricordare affinché non vada dimenticato del tutto. Come per i modernisti, anche per Fred Perry lo stile è presente dappertutto e in ogni cosa che facciamo.

3.2.4 Motivazioni diverse, stesso successo Fred Perry e Ben Sherman sono due brand molto singolari, che da decenni ormai percorrono la stessa strada, anche se imboccata da direzioni opposte: il primo ha infatti raggiunto i modernisti un po’ per caso, e sono stati quasi sempre loro, dal momento in cui è cominciato il “legame”, a dettare le regole stilistiche del marchio, 63


aiutandolo a capire quali erano le loro necessità, cosa e come lo volessero, come doveva essere fatto e così via. D’altronde parliamo di una ditta inaugurata da un ex atleta, che poco sapeva di moda, e forse mai si sarebbe aspettato un tale successo. In questo frangente parleremmo, secondo Von Hippel, di lead users, ovvero di “utenti esperti e competenti in merito a uno specifico dominio che hanno tutto l’interesse affinché quest’ultimo evolva nella direzione che meglio risponde alle loro esigenze e attese” (Cova, 2003, p.45). Per Ben Sherman la situazione appare differente: egli si appassionò da subito all’industria della moda, e ciò che più desiderava era dargli una “svecchiata”, introdurre qualcosa di smart, innovativo, che al tempo stesso fosse elegante e di qualità. La sua volontà venne premiata dai mods, che subito lo misero su un piedistallo, e da subito ne rappresentarono la clientela più fedele e dal ritorno economico maggiore: anche in questo caso l’interazione e la collaborazione con il proprio target di riferimento sono stati importanti; nonostante tutto, la maggiore esperienza e conoscenza del settore da parte della proprietà hanno sempre permesso di mantenere una propria autonomia, e di non essere mai sovrastati, nel momento in cui bisognava prendere una decisione considerevole, dal potere dei propri consumatori: da questo punto di vista Ben Sherman adotta un approccio consumer empowerment (ibidem, p. 47), il quale mira, di volta in volta, a ridefinire ed analizzare l’equilibrio di poteri nella relazione consumatore-produttore.

3.2.5 Pretty Green: il nuovo che avanza A partire dalla nascita della sottocultura modernista sono stati moltissimi i marchi adottati dai protagonisti della stessa, ed altrettanti quelli creati appositamente: a partire dai primi piccoli negozi degli anni ’50 specializzati in abiti italiani e/o americani; passando poi per la crescita dei tre “colossi” dell’industria specializzata (ovvero Fred Perry, Ben Sherman e Merc); deviando per agli anni parsimoniosi del revival dove cominciarono a diffondersi anche brand come Gabicci Vintage, Fila Vintage e Sergio Tacchini; fino a giungere ai decenni più recenti (ovvero quelli a cavallo tra i due secoli), che non mancano certo di particolarità, potremmo citare ad esempio Three-Stroke o Mods London 1959, linee italiane e giovanissime nate da stilisti che precedentemente lavoravano per i maestri inglesi, ed una volta acquisita la 64


knowledge hanno deciso di mettersi in proprio, diventando subito tra i più richiesti nel panorama del Bel Paese, il cui movimento ha oggi assunto dimensioni rilevanti, specialmente nelle città di Torino, Genova, Verona, Roma, Rimini e Teramo. Pretty Green ha una storia a sé, ed è la perfetta dimostrazione di come musica e stile abbiano percorso lo stesso cammino in tutti questi anni: l’idea viene a Liam Gallagher, ex frontman della band mancuniana47 degli Oasis (protagonisti principali dell’era Britpop), il quale nel 2009 decide di inaugurare la sua linea d’abbigliamento, dandogli lo stesso nome, non a caso, di un famoso brano composto da Paul Weller nel 1980. La fama internazionale che accompagna Gallagher assicura un sereno futuro fin da subito al suo marchio, il cui successo (che sembrava all’inizio andare anche aldilà della bellezza e dell’originalità effettiva dei vestiti commercializzati) è stato sancito nel novembre 2010 con il premio Menswear brand of the year da parte di Drapers, uno dei più importanti e longevi magazine di moda del Regno Unito. L’immediata e solida disponibilità economica, ottimi materiali, una crew di primordine, il fatto di essere già una celebrità, il tutto unito ad una personale passione (da autentico modernista) per l’abbigliamento, hanno contribuito a fare da subito di Pretty Green un brand pronto al grande salto: Carnaby Street. Il temporary store apre al fianco di Ben Sherman il 30 luglio 2010, con l’intento di chiudere i battenti a fine anno, ma l’incredibile popolarità e l’ottimo riscontro di vendite hanno convinto Liam a tenere aperte le porte ancora per qualche mese, consegnando nelle mani dei propri clienti e fans il destino del punto vendita.

3.2.5.1 Pretty Green: temporaneo o permanente? Torniamo quindi su Carnaby Street per l’ultima tappa del nostro viaggio: il temporary store48 di Pretty Green. Il marchio della rock star Liam Gallagher ha goduto da subito di una notevole popolarità, forte della fedeltà dei suoi fans traslata dalla musica all’abbigliamento. Egli comunque, interrogato su quale fosse lo scopo ultimo del brand nella conferenza stampa di presentazione dello stesso nel marzo 2009, sostenne di “non farlo per soldi o per sbaragliare la concorrenza” piuttosto “lo

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Con l’agettivo mancuniano ci riferiamo a persone nate nella città di Manchester. Il temporary store è letteralmente un negozio temporaneo, aperto cioè a tempo determinato. 65


faccio per riempire un grosso vuoto e perché non riesco mai a trovare i vestiti che mi piacciono”49. Il successo è stato immediato e tale da consentire quasi subito il grande passo dell’ingresso su Carnaby Street in qualità di temporary store, ovvero una volta esaurita la novità (o più semplicemente le scorte) il punto vendita avrebbe chiuso: per loro fortuna ciò non è successo, e quello che una volta era il pubblico degli Oasis ora è diventata la clientela più fedele di Pretty Green, e forse da temporaneo questo store diventerà permanente. Da sempre, inoltre, l’ex band di Liam Gallagher si è resa nota di omaggi (e a volte plagi) verso i grandi musicisti del passato, e questa caratteristica è da subito riscontrabile nello spazio esterno del punto vendita: in vetrina regna la gigantografia di Gallagher avvolto nella Union Jack, chiaro riferimento ad una foto molto simile dei The Who, forse la band modernista per eccellenza.

Figura 28: Pretty Green. Lo spazio esterno a confronto con i The Who

Lo spazio interno è anch’esso pieno di segni che rimandano direttamente all’identità ed alla filosofia di vita del cantante. Anzitutto il colore bianco, che domina lo spazio e che “porta energia e rivitalizza tutto l'organismo. Quando si indossa il colore Bianco il messaggio che si invia al mondo è quello di mostrarsi dei tipi giovanili, gioiosi, sinceri e aperti alla comunicazione”50: la scelta del bianco 49 50

http://www.facebook.com/PrettyGreenltd?v=info http://www.beliceweb.it/ricerca/index.php?art=scienza_e_tecnologia/colori.htm 66


rappresenta quindi un débrayage enunciazionale51, ovvero Liam Gallagher proietta se stesso e la sua identità nel testo attraverso l’uso del colore bianco, simbolo della sua vivacità, della sua spensieratezza, del suo sentirsi ancora giovane. Altro fattore fondamentale è la musica, che naturalmente non manca: il best di John Lennon è in onda quasi sempre, altro omaggio ad un altro artista, forse il più apprezzato in assoluto da Gallagher.

Figura 29: La passione di Liam Gallagher per John Lennon non è solo musicale.

Lo spazio interno, come per Merc e Ben Sherman, è suddiviso in due piani: al primo piano troviamo una ricca esposizione di merci di vari generi mischiati tra di loro: si va dai jeans casual alle camicie psichedeliche, dai maglioncini e polo moderniste alle giacche di pelle da rocker e così via. Lo stile eccentrico da rock star di Gallagher è riscontrabile anche nella scelta dei capi da disegnare e produrre: nonostante si professi un autentico modernista, il suo guardaroba abbraccia più filosofie, o più semplicemente mira ancora una volta a modificare i confini della sottocultura, ed a “adottare, adattare e migliorare” anche vestiti provenienti da altre correnti. Scendendo al seminterrato, troviamo ancora una volta la Lambretta e, al suo fianco, un parka verde militare, il tutto davanti ad una grande foto di Liam in sella a quella stessa Lambretta sulle strade di Brighton, esattamente lì dove fu girato il finale di Quadrophenia. 51

Cfr. Traini (2010) 67


Figura 30: Lo spazio interno. La Lambretta

Anche in questa parte domina il colore bianco ma non sembrano esserci sostanziali differenze con il piano superiore: se in Merc e Ben Sherman il seminterrato era dedicato interamente al modernismo (ed era arredato ed organizzato in modo totalmente differente rispetto alla superficie sovrastante), qui il distacco è minimo: notiamo solo piccole cose, come ad esempio la presenza di fotografie scattate a Brighton, o di puff per la prova dei vestiti raffiguranti il Mod Target (Figura 31); addirittura i vestiti in vendita sono quasi tutti in saldo o a fine scorta. Certamente l’intento non era quello di dedicare questo piano ai mods, ma di rappresentare anche in questo caso una parte dell’identità del cantante, una delle sue passioni: essendo il modernismo uno dei suoi interessi maggiori, ciò ha quasi occupato un intero piano, sebbene in maniera quasi soffusa e non troppo eclatante.

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Figura 31: Pretty Green. Lo spazio interno

In definitiva, il temporary store è utilizzato come veicolo dell’immagine della rock star: egli stesso rappresenta in toto il marchio e la sua mission, ed il fatto che il punto vendita sia coerente con le sue idee lascia pensare che il brand non tradisca i suoi valori. Non scordiamoci però di quel “non lo faccio per soldi” che contrasta decisamente con quanto si può osservare sia sul sito e-commerce di Pretty Green (www.prettygreen.com), sia dal vivo nello store: l’indiscussa qualità dei capi, le grandi firme che collaborano (come la Clarks per le calzature), obbligano a vendere i prodotti a prezzi decisamente troppo elevati (molto più alti rispetto ai concorrenti presenti sulla stessa Carnaby per intenderci), e il recente scioglimento degli Oasis aumenta i dubbi in proposito: lo fa per passione o si crea un’alternativa di guadagno? Quale che sia la verità, Pretty Green ha dimostrato di poter essere da subito un valido concorrente dei big del settore, ed il suo punto vendita ora mira ad abbattere un altro muro, quello del temporary, per sistemarsi permanentemente nella “Mecca della moda”.

3.3 Il punto vendita modernista: un prototipo ideale Alla luce delle analisi svolte siamo in grado di indicare degli elementi fondamentali per quello che dovrebbe essere il punto vendita modernista ideale52. Il nostro tentativo di “costruzione” di questo immaginario spazio di consumo prevede tre passaggi: l’individuazione di un concept di base che faccia leva sui simboli e gli

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La semiotica non si occupa della progettazione degli spazi di consumo, tuttavia grazie alle sue analisi può fornire suggerimenti utili per tale scopo: per un approfondimento si può consultare Boero (2010, pp. 85-86). 69


ideali della sottocultura, uno studio sui valori di consumo specifici, ed un adeguato sviluppo di una particolare gamma di prodotti. 3.3.1 Simbologie, ideali e storie da raccontare: un concept da cui partire Cominciamo con gli elementi in comune che abbiamo trovato nelle analisi precedenti, precisamente dalla simbologia: il Mod Target è una presenza importante e costante ed assume la funzione di aiutante del soggetto53 (nello store Merc ci indirizza al seminterrato, in Pretty Green incuriosisce ed invoglia alla prova degli abiti); la Lambretta (il mezzo di trasporto tipico dei mods tramandato, in parte, anche agli hard mods) è un altro elemento fondamentale da cui non si può prescindere, e lo dimostra l’attenzione con cui si cura la sua esposizione ed anche il grande spazio che gli viene concesso. Altro fattore da considerare, anche se secondario, è la presenza dei due piani, solitamente un primo piano generico ed un piano seminterrato dedicato appositamente alla sottocultura cui si giunge di solito tramite una manipolazione. Infine anche la musica ha un ruolo essenziale: stimola l’udito ed è anch’essa veicolo degli ideali modernisti. Diversi discorsi sociali (Marrone, 2001) entrano in contatto: società e cultura (il Mod Target come esempio della rivalsa modernista), musica e consumo (la Lambretta) si influenzano vicendevolmente e ridefiniscono i propri confini in un rapporto sociosemiotico estremamente dinamico: “il dinamismo delle componenti semiotiche della cultura si riallaccia, evidentemente, al dinamismo della vita di relazione della società umana […] per l’uomo la mobilità dell’ambiente è la condizione normale dell’esistere: è norma, per lui, la vita in condizioni che mutano, il variare del modo di vivere” (Lotman, Uspenskij, 1975, p.60). In una città come Londra, da sempre, assieme a Parigi, faro della moda europea (Boero, 2010, p. 77), possiamo inoltre applicare il concetto di consumosfera elaborato da Ferraresi “per indicare uno spazio globale e composito, non omogeneo, all’interno del quale confluiscono diverse realtà da analizzare con metodo semiotico. L’incontro tra il linguaggio del consumo e quello cittadino determina l’emergere di nuove logiche spaziali, che non si limitano alla diffusione dei nuovi spazi commerciali, perché il consumo si insinua totalmente nelle trame urbane stravolgendo i paradigmi tradizionali che hanno da sempre caratterizzato lo spazio moderno” (ibidem, p.77). 53

Cfr. Traini (2010) 70


Carnaby Street è un esempio perfetto di consumosfera in cui confluiscono naturalmente linguaggio del consumo, della città, ed anche della moda: difatti, i punti vendita analizzati non mettono soltanto in mostra i propri valori di marca, ma propongono un’esperienza di consumo unica, riportandoci in parte indietro nel tempo, e facendoci rivivere i cambiamenti socio-culturali susseguitisi nella capitale inglese dagli anni ’60 ai giorni nostri. Dunque bisogna, in primis, avere piena coscienza delle tematiche connesse alla sottocultura e delle simbologie su cui fare affidamento per poterle sviluppare all’interno dello spazio di consumo, per poterle richiamare adeguatamente nella mente del cliente e creare così un ambiente a lui consono, quasi domestico e familiare, d’altronde “il legame conta più della merce” (Cova, 2003, p.39).

3.3.2 Valori di consumo: tra l’utopico e il ludico Utilizzando il mapping dei valori di consumo di Semprini (2003), già nel secondo capitolo abbiamo potuto collegare il comportamento di consumo dei diversi tipi di consumatori modernisti ad alcune valorizzazioni predominanti: in altre parole abbiamo osservato il modo in cui i modernisti, tramite le pratiche di consumo, valorizzano i beni di loro interesse. Riproponiamo lo schema in figura 32.

Figura 32

Nell’analisi del flagship store di Merc abbiamo anche visto come questi valori siano in gran parte presenti nella struttura spaziale, in particolare quelli ludici ed 71


utopici, che corrispondo perfettamente alle due ondate moderniste principali (rispettivamente original mods e skinhead). La scelta del marchio di Mr Javid Alavi è sicuramente la più vicina alle mie considerazioni in merito: in mancanza di uno spazio adeguatamente ampio, è preferibile concentrarsi sui target storicamente più importanti e numerosi, inglobando le restanti ondate all’interno delle prime due in base alle caratteristiche condivise: quindi, i revivalists con gli originals e il brit pop assieme agli skinhead (anche se si nota una considerazione leggermente maggiore per il brit pop da parte di Merc, probabilmente perché più recente ed ancora in divenire). Ormai conosciamo il fanatismo e l’ossessione per la qualità dei mods, così come la loro voglia di comunicare il proprio credo attraverso l’abbigliamento. Aggiungiamo anche il fatto che nel punto vendita cui stiamo pensando riveste un ruolo importante l’identità modernista espressa attraverso i suoi simboli più importanti, indi per cui un’organizzazione spaziale basata su valori utopici e ludici sembra essere la scelta più accurata.

3.3.3 Dai tonic suits alle felpe: un magazzino infinito Non solo simbologie e valori di consumo. Se, come dice Cova, il legame è più importante della merce, è altrettanto vero che senza merce un punto vendita non avrebbe motivo di esistere. Il modernismo è una sottocultura dinamica, soggetta a continui rinnovamenti, ed il cui guardaroba si è ampliato sempre di più nel corso dei decenni. Proviamo però quantomeno ad immaginare uno stock di base di prodotti che dovrebbero essere esposti sugli scaffali di questo negozio fittizio. Per farlo torniamo ad usare il quadrato semiotico sviluppato sia nel primo che nel secondo capitolo (Figure 33 e 34).

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Figura 33

Figura 34

In questo modo un’azienda è sempre al corrente delle evoluzioni stilistiche della sottocultura e può, di conseguenza, adeguare la sua offerta54. In sintesi, per poter essere un punto vendita “a tutto tondo” bisogna essere in grado di garantire un assortimento di prodotti davvero elevato che va dal casual più sportivo delle polo e delle t-shirt, a quello un po’ più sobrio e distinto delle camicie e dei cardigan, fino all’eleganza ricercata degli abiti fatti su misura come nelle sartorie di un tempo. Il tutto, però, senza mai rinunciare a rinnovarsi e a guardare avanti (moving and learning).

3.4 Il punto vendita modernista: la “bozza finale” Una volta scoperte le caratteristiche essenziali che il nostro punto vendita deve avere, non ci resta che tentare di metterle insieme e farle convivere all’interno di uno spazio unico. Se si esclude la musica (la cui presenza è scontata ma la cui 54

Per una spiegazione più dettagliata dei quadrati presentati nelle figure 36 e 37 si vedano le apposite sezioni nei capitoli 1 e 2 73


riproduzione è logicamente impossibile su di una qualsiasi piantina) ci rimangono la Lambretta, il Mod Target, ed i valori di consumo associati dagli stessi consumatori ai beni di loro interesse che saranno oggetto di vendita nel negozio. All’interno di questo spazio i clienti dovranno essere in grado di vivere un’esperienza di consumo in grado di soddisfare quantomeno le loro aspettative: ciò vuol dire creare non solo un’abile miscela di simbologie, musica e prodotti, ma anche creare un percorso itinerante che guidi il cliente (a seconda del target, o in questo caso ondata, di appartenenza) verso le scelte per sé più appropriate. La “bozza finale” cui sono arrivato (Figura 35) può essere considerata una valida alternativa affinché tutto si realizzi nel migliore dei modi: •

il Mod Target, data la sua immediatezza e al contempo la sua semplicità, è posizionato all’ingresso, che sarebbe lo spazio eterotopico. Esso funge quindi da manipolatore;

all’interno abbiamo il consueto spazio centrale con l’esposizione della Lambretta e degli eventuali manichini “a tema”. Ai lati di quest’ultima abbiamo lo spazio paratopico (dove si acquisisce la competenza), suddiviso secondo le valorizzazioni delle macro-ondate originals e hard mods (o skinhead che dir si voglia), quindi spazio ludico per i primi e utopico per i secondi;

la cassa è lo spazio in cui avviene la performanza e in cui, dunque, si conclude la storia-percorso.

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Figura 35: Disposizione ideale degli elementi nell’idealtipo di negozio Mods

È impossibile non notare le numerose somiglianze con il flagship store di Merc: è evidente che è questo il brand che più di tutti ha saputo rappresentare non solo la sua identità, ma quella di un’intera tribù, dimostrandosi a tutti gli effetti un esempio da seguire per coerenza ed anche originalità.

3.5 Un riepilogo delle strategie di comunicazione per il target modernista Le strategie comunicative messe in atto dai quattro brand all’interno dei propri store sono tutte molto simili tra loro e sono fedeli allo schema tracciato da Cova (2003) per il retro-marketing tribale: l’autore sostiene che “per le aziende, oggi uno dei problemi sembra essere proprio la novità dei prodotti: posti sul mercato, essi diventano merci, e solo di rado hanno la qualità degli oggetti autentici. Il degrado semantico e la conseguente perdita di senso fanno sì che, ad avere migliore fortuna commerciale, siano soltanto i prodotti in grado di diventare oggetti autentici” (ibidem, p. 156). La pensava così anche Giampaolo Fabris (2008), che nel descrivere il consumatore post-moderno sottolineava la crescente tendenza verso un recupero 75


selettivo del passato e verso la ricerca dell’autenticità, per questo “è necessario che l’azienda riesca a caricare il prodotto di senso, a legarlo al passato e al luogo già nella fase di progettazione e poi lungo tutto il suo percorso di interazione con l’attore” (Cova, 2003, p.156). Per fare ciò il primo passo da seguire è quello dell’ancoraggio endotico, ovvero ancorare l’offerta nello spazio e nel tempo (ibidem, p. 168): •

il primo passaggio è la socializzazione, vale a dire chiamare in causa la tribù, in questo caso i mods;

il secondo punto consiste nel tornare indietro nel tempo, evocare la storia e la particolare tradizione del prodotto (temporalizzazione). Ad esempio molte tshirt della Merc portano con sé l’anno di inaugurazione del marchio in bella vista per rivendicare la propria autenticità, inoltre abbiamo già visto come la Fred Perry abbia allestito il suo concept store;

successivamente avviene la spazializzazione, che consiste nel relazionare l’autenticità del prodotto alla storia del luogo in cui esso è nato. Nulla di più scontato in ambito modernista, con il forte legame venutosi presto ad instaurare tra la città di Londra, i movimenti culturali e le aziende (consumosfera);

infine la naturalizzazione, fase più particolare, in cui si fa riferimento ai materiali ed alle tecniche impiegate nella produzione. Per rendere autentica anche la manodopera basta un semplice richiamo al passato attraverso l’esposizione di vecchie foto in cui si mostrano i sarti al lavoro, o anche l’immagine del fondatore di fronte alla prima fabbrica (Figura 30). Il secondo step del retro-marketing tribale consiste anzitutto nell’individuare un

dettaglio significativo nel design dei prodotti tale da rendere immediato il collegamento al proprio brand: l’interno dei soprabiti Merc è sempre a tema tartan, così come quello degli abiti è sempre di colore rosso bordeaux (richiamato anche nello spazio esterno del punto vendita). Da questo punto di vista la Fred Perry ha avuto bisogno di un restyling completo, avvenuto grazie alla collaborazione di eccellenti firme come Laurel Wreath e Raf Simons: i capi della ditta avevano perso lo smalto e il fascino di un tempo, così come il loro legame con la sottocultura mod stava venendo meno in favore di una “globalizzazione” del prodotto principe, la polo: 76


per questo i due stilisti sopra-citati sono stati chiamati in causa per disegnare una collezione che rispecchiasse le origini del brand e lo stile dei primi anni ’60: un’autenticità dunque simulata ma senz’altro efficace nel richiamare l’attenzione della tribù. Inoltre l’azienda deve cercare di sviluppare narrative, ovvero deve riuscire ad essere insieme contenitore e creatore di storie, deve cioè essere “bacino di visioni, interpretazioni e significati plurimi e in continuo divenire” (ibidem, p. 184). In quest’ottica si collocano il concept store di Fred Perry, ancora Merc (con il suo “percorso” all’interno del flagship store e il suo vasto uso di simbologie) e Pretty Green: il brand di Liam Gallagher rievoca il passato (il set di foto a Brighton sui luoghi di Quadrophenia) ed è il teatro dei sogni che possono diventare realtà (incontrare la rockstar preferita che si mostra sovente nel suo punto vendita, o già soltanto immaginare di essere come lui), infine è soggetto ad ambigue definizioni che lo vogliono allo stesso tempo per mod, rocker o hippie senza che la questione fosse ufficialmente chiarita, alimentando il dibattito e lasciando un piccolo alone di mistero attorno alle proprie intenzioni. L’ultima fase riguarda la celebrazione di riti intorno al prodotto, riti che possono essere commemorativi (come i recenti festeggiamenti per i 50 anni di Carnaby Street), iniziatrici (come l’inaugurazione del temporary store di Pretty Green), occasionali e così via. Questi riti, o se preferiamo eventi, vengono celebrati per rafforzare il legame con la tribù, per tenere alto l’interesse e la curiosità, e per far vivere (o ri-vivere) la storia dell’azienda, della sua città e dei suoi più fedeli consumatori: può accadere allora che Merc festeggi i suoi quarant’anni con una settimana di concerti ed altre grandi iniziative55, o che Ben Sherman e Fred Perry si preparino in modo speciale per l’anniversario di Carnaby Street , o che Pretty Green inviti molti “vip” come dj nel proprio negozio (ed a volte affitti interi locali notturni per festeggiare le vendite assieme ai clienti)56. Purtroppo la mia ricerca non è avvenuta in un periodo di festeggiamenti e/o particolari celebrazioni, ciononostante le caratteristiche del retro-marketing tribale sono tutte riscontrabili all’interno dei luoghi oggetto d’analisi. Farei una piccola eccezione solo per Ben Sherman, che a tutti gli effetti ha dato l’impressione 55

A questo link è possibile vedere parte dell’esibizione di Little Barrie all’interno del flagship store Merc: http://www.youtube.com/watch?v=NtnF8hdQ1Ws 56 http://www.prettygreen.com/news/2010/11/27/listen-andys-set-pretty-green-club-night/ 77


(ripercorrendo la sua storia e vedendo il suo punto vendita) di distaccarsi gradualmente (ma mai del tutto) dalle proprie origini, e di non mettere in mostra in maniera coerente i propri core values. Pretty Green invece si è subito inserita bene nell’universo di Carnaby, e colpisce soprattutto la sua capacità di saper raccontare un passato che a conti fatti non ha vissuto. Merc e Fred Perry sono infine i “primi della classe” per la comunicazione modernista, il fascino e la cura dei loro store li posizionano sicuramente ad un livello più elevato rispetto ai concorrenti nella mente del consumatore, che può contare su un’esperienza di consumo più completa e peculiare, un’accuratezza necessaria anche perché “un Mod autentico è furbo” (Hewitt, 2002, p.48).

3.6 Riflessioni conclusive Nel corso del secolo appena passato abbiamo avuto modo di osservare svariati movimenti giovanili che si ribellavano alla cultura dominante stravolgendone completamente i paradigmi: gli hippy con il sesso libero, le promiscuità e il massiccio uso di allucinogeni, i punk con il loro stile “sporco” e le volgarità da palcoscenico, gli skinhead con moti di violenza sempre più incentrati su estremismi politici. Fin qui tutto “normale”, verrebbe da dire, perché l’idea forse comune è che i gruppi suburbani cerchino di portare ai limiti i tabù della società, generando rumore e facendosi in questo modo notare dalle masse. Quello che abbiamo invece imparato nel corso della tesi è che una rivolta può essere anche silenziosa e può essere “fatta con stile”: “interrompendo tranquillamente la normale sequenza che porta dal significante al significato, i mod minavano il significato convenzionale di ‘colletto, vestito e cravatta’ spingendo l’accuratezza nel vestire fino all’assurdo” (Hebdige, 1989, p.56). I modernisti capirono ben presto che sovvertire le regole era impossibile, e così si adattarono a “vivere pulito in ogni circostanza”: l’influenza degli afroamericani (con cui vivevano a stretto contatto nelle periferie londinesi) fu significativa nel creare la giusta attitudine ed il loro singolare modo di affrontare il mondo, i vestiti vennero subito dopo e furono una logica conseguenza dell’identità trovata: proprio come i neri, di giorno si lavorava al servizio del proprio “padrone”, di notte gli eleganti tonic suits erano esibiti in piccoli club di nicchia, dove il soul e il rhytm and blues (la musica dei neri) venivano suonati sino 78


all’alba. Vestirsi bene era un modo per sentirsi bene, vestirsi eccessivamente bene era un modo per non confondersi con i “bombetta” della city e per essere una reazione al loro conformismo e al loro conservatorismo, una reazione sobria ma allo stesso tempo innegabile. Il movimento cresceva, ben presto i media ne vennero a conoscenza, tv e stampa cominciarono a dare grande risalto al fenomeno (a volte con intenti denigratori, mirando a far perseverare proprio la cultura conservatrice), se ne accorsero anche giovani imprenditori inglesi che fiutarono l’affare e crearono un mercato ad hoc: se prima i vestiti potevano essere trovati solo di importazione, ora a Carnaby Street aprivano Ben Sherman, Fred Perry e Merc; cresceva esponenzialmente anche il mercato musicale e i negozi di dischi erano sempre di più e sempre più forniti. Cominciò un periodo frenetico, pieno di veloci cambiamenti che si arrestarono sul finire degli anni Sessanta con la prima grande scissione e l’entrata in scena degli hard mods. Da lì in poi tutto rallentò: ci fu un tentativo di ritorno alle origini (il revival) ma si tornò ben presto sulla strada presa precedentemente. Sebbene il modernismo sia sempre in divenire e possa sempre riservare delle sorprese, è indubbio che il suo epicentro e il suo maggiore sviluppo siano da ricollegare agli anni Sessanta, d’altronde, come afferma Paul Weller, “sembra che tutti gli anni ’60 fossero vissuti all’insegna di una velocità furiosa, con gli stili e i gusti musicali soggetti a cambiamenti rapidissimi […] ti serve solo osservare le foto dei Beatles dal ’63 al ’69 per prender nota di tutti i cambiamenti. Nel ’63 i loro volti erano freschi, da giovani ottimisti. Nel ’67 le menti si espandevano, da giovani uomini in cerca di conoscenza. Alla fine del decennio le espressioni erano più dure, da vecchi uomini disillusi” (in Gazzara, 1997, pp. 12-13). Le possibilità date dalla semiotica di studiare i fenomeni sociali57 ed il suo recente interesse per il campo del marketing e della comunicazione d’impresa58 mi hanno spinto ad analizzare il modernismo in un’ottica che contemplasse sia le dinamiche di sviluppo socio-culturali sia le dinamiche legate al consumo, essendo queste strettamente connesse tra di loro (come abbiamo osservato in precedenza). Non si possono tuttavia stilare delle conclusioni, perché il lavoro, così come la sottocultura e le tecniche del marketing, è in crescendo e necessiterà di ulteriori aggiornamenti nel 57 58

Cfr. Marrone (2001) Cfr. Traini (2008) 79


corso dei prossimi anni. Ciò che più conta è aver dato un’impronta sostanziosa alla ricerca, delineando un metodo di base riutilizzabile (anche ampliabile, modificabile e così via) per studi futuri, d’altronde “il segreto non è stato ancora svelato” (Hewitt, 2002).

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RINGRAZIAMENTI

Tante cose sono successe in questi ultimi tre anni trascorsi così velocemente. Le fatiche passate e le emozioni provate sono indescrivibili, mai avrei pensato di poter gestire tutto con l’ottimismo e la tranquillità che hanno scandito questo lasso di tempo. Forse è per questo che è stato tutto rapido e fugace: ancora non riuscivo a liberarmi del “peso” della prima laurea che subito si iniziava la magistrale, e mi sembrano altrettanto vicini il momento della verbalizzazione del primo esame del nuovo corso e il momento in cui mi dedico a scrivere quest’ultima pagina della tesi. Banali che vogliano essere i miei ringraziamenti, io non temo di cadere nei luoghi comuni, perché è indubbio che non ce l’avrei mai fatta senza il sostegno di un grande gruppo di studio, dei miei amici, di ottimi docenti e di una solida famiglia alle spalle. È per questo che il mio primo pensiero va ai miei genitori, il cui apporto è stato indispensabile: la loro cieca fiducia nei miei mezzi è quanto di meglio un figlio possa chiedere. Vorrei in secondo luogo ringraziare il Professor Traini e la Professoressa Boero per avermi dato la grande occasione di cimentarmi in questa tesi ed in questo campo di studio: da tempo mi professo autentico Modernista, ma è pur vero che è grazie alle ricerche effettuate durante la stesura di questo lavoro che sono riuscito a capirne le dinamiche fondamentali, ed è per questo che sono orgoglioso di aver goduto del loro sostegno, del loro benestare e soprattutto della loro autentica serenità. Volevo ringraziare tutti i miei amici, dai vecchi compagni di liceo che ancora si interessano a me, ai colleghi musicisti con i quali ho condiviso note memorabili, ai compagni di studio che mi hanno sempre aiutato e che ho sempre aiutato con estremo piacere, fino ai compagni di tutta una vita, indimenticabili entertainer dei miei giorni migliori. Naturalmente non mi sono dimenticato delle aziende londinesi (Merc, Fred Perry, Ben Sherman e Pretty Green) che durante il mio soggiorno inglese dello scorso settembre mi hanno dato il loro massimo appoggio per le mie preziose ricerche: senza di loro questa tesi non sarebbe neanche iniziata. Grazie di cuore e che lo stile sia sempre con voi. 81


Ringrazio poi Mario e Nicola Scurti per la possibilità che mi hanno dato di inserirmi finalmente nel mondo del lavoro, e ancora gli Original Mods Teramo per la loro stima e i loro splendidi eventi che fanno di Teramo una città ancora da amare, a dispetto di chi ne vuole minare la vitalità. Infine ci sei tu, il mio passato, il mio presente, il mio futuro. È per te e per noi che ho dato e che darò sempre il meglio di me. Condividere con te tutto ciò è una gioia infinita. Chi non vorrebbe essere colui che ami? The song is over I’m left with only tears I must remember Even if it take s a million years (Pete Townshend, da The Song Is Over, 1971)

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BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

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