Archeo n. 316, Giugno 2011

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nefertiti

etruschi a carmignano tullo ostilio

colonizzazione greca speciale nerone. una nuova immagine

Mens. Anno XXVII numero 6 (316) Giugno 2011  5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria  9,90; Belgio  9,90; Grecia  9,40; Lussemburgo  9,00; Portogallo Cont.  8,70; Spagna  8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 316 giugno 2011

L’affaire

• chi era, veramente, la celebre regina? • perché l’egitto rivuole il busto di berlino?

nefertiti

roma

la guerra come ragion di stato

etruschi

i signori di carmignano

speciale

nerone una nuova immagine

l’età della colonizzazione

grecia

 5,90



Sommario

Editoriale

L’uomo che amava l’Egitto

4

di Andreas M. Steiner

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di Sergio Pernigotti

Attualità notiziario

esclusiva Nefertiti. Regina dei misteri

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scoperte Dimenticato per anni nei depositi di un istituto universitario, uno scheletro trovato in Toscana nel 1962 si è conquistato un posto di primo piano fra i nostri antenati eccellenti 8

itinerari Principi di Carmignano

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di Stefano Mammini

le origini di roma/6

58

Tullo Ostilio

La guerra come ragion di Stato

parola d’archeologo I resti di una nave romana scoperti a Ostia offrono indicazioni preziose sull’assetto del territorio in epoca antica 10

di Daniele F. Maras

mostre Il Castello del Buonconsiglio di Trento propone uno straordinario viaggio alle radici della globalizzazione 14

di Fabrizio Polacco

storia dei GREci/6 Passaggio a Sud-Ovest

58

100

di Daniele Manacorda

Antichi ieri e oggi 86

Nelle alcove dei Cesari/1

Le carni deboli degli imperatori

104

di Romolo A. Staccioli

medea e le altre Il coraggio di una vergine

mostre L’immagine della donna è un tema universale, che ha radici antichissime. Come conferma la nuova esposizione allestita al Museo nazionale di preistoria di Les-Eyzies-de-Tayac 19

da atene Spiccioli di mitologia

Messaggi dal fronte

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di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia

Nelle spire del mito/1

Il buon serpente

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di Francesca Ceci

24

42

di Valentina Di Napoli

26

libri

storia

Usus equorum

Emergenza sicurezza

94

di Flavio Russo

speciale

Il ritorno di Nerone 64 di Marisa Ranieri Panetta, con contributi di Rossella Rea e Maria Antonietta Tomei

Rubriche il mestiere dell’archeologo

64

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Editoriale L’uomo che amava l’Egitto «Busto dipinto, a grandezza naturale, di una regina, alto 47 centimetri. Con la parrucca (la corona a elmo) blu tagliata di netto in alto e cinta da un nastro a metà altezza. I colori sembrano appena applicati. Opera davvero straordinaria. Inutile descriverla, va vista». Cosí, il 6 dicembre del 1912, Ludwig Borchardt annota nel suo diario una scoperta che segnerà la storia dell’egittologia: quella del ritratto di Nefertiti, moglie del faraone «eretico» Akhenaton e, secondo alcuni studiosi, madre dello stesso Tutankhamon. Del celebre reperto, e del personaggio che rappresenta, ci parla, in apertura di questo numero, Sergio Pernigotti. Ma chi era, veramente, Ludwig Borchardt (1863-1938)? Sono di questi giorni alcune rivelazioni che gettano una luce ambigua sul personaggio: l’uomo, inviato nel 1899 dall’Accademia Prussiana delle Scienze al Consolato generale del Cairo (in qualità di «addetto scientifico», ma con l’implicito incarico di salvaguardare gli interessi archeologici dell’impero e contrastare i successi ottenuti dalle missioni francesi e inglesi), agisce in maniera «scorretta», spia i colleghi stranieri, corrompe i fotografi per ottenere le immagini dei reperti scavati dalle altre missioni, si appropria di lettere e documenti privati. Inoltre Borchardt è un frequentatore del mercato antiquario clandestino del Cairo e lí apprende del rinvenimento di eccezionali sculture riferibili al faraone Akhenaton, provenienti dalla zona di Amarna. Dalla sua lussuosa villa sull’isola di Zamalek sul Nilo, l’archeologo trama per la licenza di scavo nel sito di Tell el-Amarna, che ottiene nel 1906, scalzando i «pretendenti» francesi e statunitensi, grazie anche al consistente impegno finanziario dell’industriale berlinese – e fondatore della prestigiosa Deutsche Orient Gesellschaft (la Società Tedesca per l’Oriente) – James Simon. Sei anni piú tardi vi scoprirà, in un ambiente identificato come lo studio dello scultore Thutmosi, il busto della celebre regina, oggi esposto a Berlino. Per assicurare alla Germania il prezioso reperto Borchardt usò l’inganno e, secondo quanto sostiene oggi lo studioso Rolf Krauss (vedi a p. 38), fece addirittura realizzare un falso da offrire alle autorità Ludwig Borchardt (1863-1938) negli anni Trenta del secolo scorso. Sullo sfondo: veduta delle rovine di Abusir.


egiziane come contropartita? O, come vuole un’altra ipotesi (vedi a p. 33) diffusa di recente ma assai meno verosimile, il busto stesso sarebbe opera di un falsario a servizio dell’archeologo tedesco? Un dato rimane incontrovertibile: Ludwig Borchardt rappresenta una delle piú brillanti figure della storia dell’egittologia. Nato nel 1863 a Berlino da una famiglia ebraica, visita la terra del Nilo per la prima volta nel 1895. Proprio in Egitto incontrerà la sua futura moglie, Emilie Cohen, originaria di Francoforte. Emilie partecipa attivamente a tutte le imprese del marito, con il quale vivrà al Cairo, per quarant’anni. Nella capitale sul Nilo Borchardt darà vita, con il supporto finanziario della famiglia di Emilie, all’Istituto Imperiale Tedesco di Scienze Egizie dell’Antichità. Dal 1907 intraprende i primi scavi ad Abusir dove scopre la tomba del «faraone dimenticato» Sahura (vedi «Archeo» n. 310, dicembre 2010). Fondamentale sarà il suo contributo per la realizzazione del Catalogo generale delle antichità egizie conservate al Museo del Cairo. Nel 1931 fonda, sempre al Cairo, un suo privato Istituto per l’Esplorazione delle Antichità e dell’Architettura dell’Egitto (che in seguito diventerà l’Istituto Svizzero per l’Esplorazione delle Antichità e dell’Architettura dell’Egitto, tuttora finanziato da una fondazione che Borchardt stesso istituí). È pensabile, considerando la sua intensa biografia, che lo scopritore di Nefertiti, piú che appassionato studioso e «uomo del suo tempo», fosse un truffatore disonesto? Riportiamo una voce al di sopra di ogni sospetto, quella di Zahi Hawass, l’archeologo nominato dallo scorso marzo ministro per le Antichità dell’Egitto e che da sempre chiede la restituzione al suo Paese del celebre reperto: «Tra i grandi egittologi stranieri – dichiara Hawass – che hanno offerto contributi impagabili alla nostra disciplina figura, senza ombra di dubbio, Ludwig Borchardt. A parte il suo ruolo svolto nella vicenda del trafugamento dall’Egitto del busto di Nefertiti, era uno dei piú importanti archeologi del XX secolo (…). Borchardt amava l’Egitto e i suoi monumenti. Dobbiamo a lui la conoscenza di alcuni tra i siti piú straordinari, non ultimo quello di Abusir e delle sue piramidi “dimenticate” (…). Tanto grande era il suo amore per l’archeologia e per questa terra, che nel suo testamento dispose di essere sepolto nel giardino dell’ Istituto Svizzero per l’Esplorazione delle Antichità e dell’Architettura dell’Egitto a Zamalek. È lí che ora riposa, sotto una semplice lastra di granito rosa di Assuan». Andreas M. Steiner

Dall’alto: Ludwig Borchardt con la moglie Emilie Cohen, nel 1903. La sede dell’Istituto Imperiale Tedesco di Scienze Egizie dell’Antichità al Cairo, in una foto del 1924.


n ot i z i ari o SCoperte Toscana

15 000 anni fa, nella città delle torri... oche settimane fa, rispolverando l’originaria funzione di ospedaP le, il Santa Maria della Scala di Sie-

na ha accolto un nuovo paziente, vittima di un forte trauma cranico, per il quale, però, non si è potuto far nulla... Si tratta, infatti, di un uomo vissuto intorno ai 15 000 anni fa, e che fu strappato all’oblio nel quale era finito, in senso non solo letterale, nel 1962, quando alcuni membri dell’Associazione Speleologica Senese ne ritrovarono lo scheletro nel territorio di Monteriggioni. I resti dell’individuo, appartenente alla specie dell’Uomo anatomicamente moderno, vale a dire quella dell’Homo sapiens di cui siamo anche noi esponenti, giacevano nella Grotta del Chiostraccio, una cavità carsica alla quale si accede attualmente attraverso un pozzo verticale profondo circa 20 m, che si apre in una zona boscosa nei pressi del borgo di Abbadia a Isola. Ma non vi erano finiti in seguito a una deposizione: il poveretto, infatti, cadde accidentalmente in fondo al pozzo, fratturandosi la testa in piú parti. Una perizia medico-legale ha evidenziato che il trauma non causò la morte immediata, ma l’individuo, in stato di semincoscienza, potrebbe essersi trascinato per alcuni metri prima di morire. Al momento della scoperta, lo scheletro era parzialmente coperto da concrezioni stalagmitiche che ne attestavano l’antichità, confermata dalle prime analisi effettuate da paleontologi di Siena e Pisa, i quali lo attribuirono in via ipotetica all’età neolitica, senza però riconoscergli una particolare importanza. Negli anni successivi dell’Uomo

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In alto: una fase degli esami di laboratorio effettuati sullo scheletro di un Homo sapiens rinvenuto nel 1962 nella Grotta del Chiostraccio, situata nel territorio del Comune di Monteriggioni (Siena; vedi ubicazione qui accanto). L’analisi radiocarbonica dei resti ossei ha permesso di datarli a 15 210-15 000 anni da oggi.

del Chiostraccio si persero le tracce finché, nel 2010, un dottorando dell’Università di Siena, Ivan Martini, si interessò nuovamente a quella scoperta. Curiosamente, nello stesso periodo, un antropologo dell’Unità di Ricerca di Ecologia Preistorica del Dipartimento di Scienze Ambientali «G. Sarfatti», Stefano Ricci, colpito dalla morfologia arcaica di quei reperti che giacevano dimenticati da piú di 40 anni nei magazzini, li aveva recupe-

rati e inseriti in bella mostra nella collezione antropologica del dipartimento. Queste fortuite coincidenze suscitarono nuovo interesse nei confronti dell’Uomo del Chiostraccio, tanto che fu deciso di datare il reperto radiometricamente. L’analisi 14C, effettuata nel laboratorio Beta Analytic di Miami, ha fornito la sorprendente datazione di 15 210-15 000 anni da oggi. Questo significa che si tratta dei resti di Homo sapiens piú antichi della Toscana e che l’Uomo del Chiostraccio si colloca fra i piú antichi individui di questa specie in Italia. (red.)


SCAVI Trentino-Alto Adige

...e in una grotta sull’altopiano n recente seminario svoltosi presso il Museo delle Scienze U di Trento ha fornito l’occasione per

divulgare dati inediti e di grande rilievo scientifico sul comportamento degli ultimi cacciatori paleolitici del Trentino. Le novità riguardano un progetto di ricerca, tuttora in corso, finalizzato allo studio e alla ricostruzione delle armi usate dai nostri antenati alla fine del Paleolitico (vale a dire tra i 15 000 e i 10 000 anni fa), con lo scopo di ottenere nuove informazioni sulle abitudini di vita e sul comportamento degli ultimi cacciatori paleolitici delle Alpi. Lo studio ha preso il via dall’analisi delle punte in selce rinvenute in siti preistorici trentini, primo fra tutti il Riparo Dalmeri (Grigno, TN, non lontano all’Altopiano di Asiago), vero e proprio scrigno di reperti risalenti a 13 000 anni fa Repliche di strumenti in selce (simili a quelli provenienti dal Riparo Dalmeri), montate come punte di freccia.

circa (fra cui un eccezionale insieme di pietre dipinte; vedi «Archeo» n. 234, luglio 2004). Questi oggetti, conservatisi grazie alla loro composizione inorganica, rappresentano oggi, nei siti italiani, l’unica testimonianza diretta delle strategie venatorie adottate dagli uomini preistorici che percorrevano le nostre montagne seguendo gli spostamenti stagionali della selvaggina secondo una costante ciclicità annuale. Dopo aver analizzato la funziona-

lità delle punte in selce e aver compreso le tecnologie impiegate per la fabbricazione degli strumenti, ipotizzando le modalità del loro impiego a scopo venatorio, i ricercatori hanno riprodotto le punte in selce e le hanno poi utilizzate con archi di tipo preistorico. Le punte, montate su frecce e scagliate contro carcasse di animali, sono risultate perfettamente efficienti, attraversando completamente la preda. Nei casi in cui le frecce intercettavano le ossa, queste si sono fratturate in maniera conforme a quanto riscontrato sui reperti della collezione archeologica del museo.

A destra e in basso, a sinistra: ricostruzioni di cacciatori paleolitici impegnati in una battuta, armati di archi e frecce.

Sulla base dei dati raccolti, l’ipotesi dei ricercatori è quella di un possibile utilizzo di strumenti in selce quali punte di freccia. Il che porterebbe a retrodatare la scoperta e l’impiego dell’arco di alcuni millenni. I ritrovamenti piú antichi di arco a oggi noti portavano a ipotizzare l’inizio del suo impiego a 8000 anni fa circa (esemplari di Stellmoor e Holmegaard, in Germania e Danimarca). Questi studi farebbero invece risalire la data fino alla fine del Paleolitico, almeno a 13 000 anni fa. (red.)

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Parola d’archeologo

di Flavia Marimpietri

Una nave sotto il ponte I suoi resti giacevano a pochi metri di profondità, sepolti da limi di origine marina: è una grande imbarcazione di età romana, una delle tante che operavano nella zona del piú grande porto dell’impero a Ostia. Una scoperta che offre importanti indicazioni anche sull’assetto del territorio in età antica

stata tenuta segreta per un mese, la scoperta, tanto è È straordinaria. Una grande nave

romana è emersa presso la foce del Tevere, nel territorio di Fiumicino (Roma), non lontano dal complesso portuale di Ostia Antica con i due bacini di Claudio e Traiano. Un ritrovamento avvenuto quasi per caso, nel corso

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degli scavi di archeologia preventiva per la costruzione del Ponte della Scafa che collegherà Ostia a Fiumicino. Della nave affiora in parte la fiancata destra dello scafo, per una lunghezza di 12 m. Il fasciame di legno e i cordami sono perfettamente conservati, poiché l’imbarcazione era «sigillata» da

uno spesso strato di limi marini che ha permesso ai fragili resti lignei di conservarsi, intatti, fino a oggi. Il ritrovamento è stato salutato con entusiasmo anche perché offre indicazioni preziose sul possibile andamento dell’antica linea di costa, che in epoca romana era arretrata (cioè piú all’interno) di alcuni chilometri rispetto a quella attuale. Ne parliamo con Paola Germoni, direttrice degli scavi nell’area di Isola Sacra, che vanno dalla città antica al porto romano. Come è avvenuta la scoperta? «Le indagini preventive – per le quali mi sono potuta avvalere della collaborazione di Alessandra Ghelli e Giampaolo Luglio – avviate in funzione dell’ampliamento della strada per l’aeroporto di Fiumicino e del costruendo Ponte della Scafa, sono partite due mesi fa: il ritrovamento è avvenuto appena siamo scesi a quota -4 m dal piano di campagna». Che cosa si conserva dell’imbarcazione? «Tracce dello scafo ligneo per circa 12 m di lunghezza e 4-5 m di larghezza. Quella che emerge, attualmente, è la parte superiore della nave: la prua e la poppa ancora non si vedono. L’imbarcazione deve essere ancora scavata, siamo appena agli inizi delle ricerche. Per ora abbiamo approntato le strutture di conservazione, al fine di


A destra: Ostia, piazzale delle Corporazioni. Particolare del mosaico pavimentale raffigurante una nave in procinto di attraccare, che possiamo immaginare simile a quella scoperta nel corso delle ricerche condotte nell’area del Ponte della Scafa, presso Fiumicino (Roma). Nella pagina accanto: affiorano i resti della nave romana localizzata nell’area del Ponte della Scafa, fra Ostia e Fiumicino.

proteggere i delicatissimi resti lignei e mantenerli sempre bagnati, in attesa di riprendere lo scavo». E cosa ci dice, questa scoperta, dell’antica linea di costa? «La nave indica il punto in cui, in epoca romana, è arrivato il mare, lambiva una riva costiera assai piú arretrata dell’attuale». Ma, al di là delle indicazioni di carattere topografico e geomorfologico, perché il luogo nel quale sono stati trovati i resti della nave è significativo? «L’ubicazione del sito è molto

interessante perché, finora, la parte meridionale di questo comprensorio aveva restituito testimonianze archeologiche di altra tipologia. L’imbarcazione è stata trovata nel territorio di Fiumicino, al di là del Tevere, rispetto alla città di Ostia Antica». In precedenza, dunque, non si erano mai scoperti resti archeologici nell’area? «Si conoscevano imponenti magazzini, emersi sempre sulla riva destra del Tevere, in zona Isola Sacra, e alcuni setti dell’antica via

di comunicazione tra Ostia e “Porto” (il centro urbano nato in funzione del complesso portuale), cioè la strada che all’interno della necropoli di Isola Sacra prende il nome di via Flavia. L’area nella quale è stata rinvenuta la nave romana rappresenta una cerniera fra due diversi sistemi di occupazione del territorio: quello ostiense, che fa capo alla città di Ostia, e quello portuale, che fa capo al complesso dei porti di Roma e alla città di Portus». Vi sono appigli sufficienti per


dal mare a roma, risalendo il tevere Indizi sul possibile andamento dell’antica linea di costa sono emersi anche in un altro settore di scavo, situato nel territorio del Comune di Roma. Ne abbiamo parlato con Angelo Pellegrino, direttore degli scavi di Ostia, che ha coordinato le esplorazioni, seguite sul campo dall’archeologo Michele Raddi. • Quali tracce sono venute alla luce in questa seconda area di intervento? «Abbiamo individuato una sorta di molo, una struttura di attracco. Nonché tracce della vegetazione che copriva l’antica duna e i resti di un piccolo pesce. La banchina è una scoperta importante, perché offre ulteriori indicazioni sulla posizione della linea di costa antica, che correva piú interna di 4 km rispetto all’attuale. Non è escluso che, oltre al molo, nel settore di Roma possa riemergere anche un’altra imbarcazione antica, come quella trovata a Fiumicino». • A proposito della quale, in quale contesto possiamo inserirne il ritrovamento? «Ci troviamo in un’area non lontana dal faro di Ostia, nei pressi della medievale Torre Boacciana, che, a sua volta, sorge su una struttura romana, cioè il faro del fiume Tevere. Non è detto che in quel punto vi fosse un porto: la nave, per esempio, potrebbe trovarsi lí perché abbandonata o trascinata dalla corrente. I bacini portuali di Ostia, quelli di Traiano e di Claudio, sono troppo lontani: qui siamo nel punto in cui il Tevere si gettava in mare. Dove le navi trasbordavano le merci su imbarcazioni fluviali di piccole dimensioni, che poi risalivano il fiume fino a Roma. Siamo lungo il flusso di navigazione tra il mare aperto e il Tevere». • E in quale periodo dell’epoca romana, questo flusso di navi era piú intenso? «Era piú forte nella prima età imperiale, poiché, in seguito, con i porti di Claudio e di Traiano, tutto il traffico veniva convogliato nei due bacini da cui poi, tramite il canale di Fiumicino, le imbarcazioni arrivavano direttamente a Roma. Le operazioni di carico e scarico delle merci presso la foce del fiume erano laboriose poiché avvenivano in mare aperto, in acque mosse e faticose. Perciò, a partire dalla

tentare un primo inquadramento cronologico? «La nave era completamente sigillata dagli strati superiori di terreno. Era coperta da uno strato databile al II secolo d.C. e, a quota piú alta, da uno strato riferibile al IV secolo d.C.». Quindi, presumibilmente, dovrebbe essere precedente al II secolo d.C.? «In teoria sí. Ma siamo in una fase ancora del tutto preliminare delle indagini, stiamo iniziando a conoscere solo adesso l’estensione del relitto che abbiamo individuato. La nave è molto piú

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prima età imperiale, i Romani costruirono i porti a mare, quello di Claudio e quello di Traiano: per meglio adeguare una città come Roma che, nel II secolo d.C., aveva già un milione di abitanti. Ma questo tipo di navigazione lungo il Tevere continuò anche dopo la costruzione dei due porti: eventuali imbarcazioni potrebbero essere anche successive. Per logica, è bene pensare che maggior parte delle operazioni presso la foce del fiume risalga all’età tardorepubblicana e alla prima età imperiale». • Quale futuro attende ora la nave? «Come ha detto anche la mia collega, il compito piú delicato è quello della conservazione, che impone di mantenere il legno in condizioni di umidità costante. La nostra filosofia di lavoro è scavare il meno possibile, poiché abbiamo molto da conservare. Le indagini preventive vanno fatte, ma la politica di programmazione della nostra Soprintendenza è questa: mantenere, piuttosto che scavare quello che non riusciremo mai a conservare. L’archeologia deve rimodellare se stessa e le sue idee, credo. Nel secolo scorso si è scavato molto, anzi troppo. Adesso dobbiamo pensare a lasciare ai posteri il frutto delle nostre ricerche, non solo un briciolo di macerie».

grande di quanto visibile in superficie e deve essere ancora scavata. Si tratta di un’operazione di particolare complessità e delicatezza: è necessario mantenere un microclima costante della sostanza organica lignea, evitando sbalzi di temperatura e di materia. Lo scavo dei limi marini che la contengono va fatto per piccoli settori, con tutte le tecnologie suggerite dalla nostra restauratrice, Laura Spada, esperta nella conservazione del legno. Al momento stiamo salvaguardando e documentando la parte individuata con disegni, foto e

Resti di strutture murarie riferibili a un molo, individuate in un’area prossima a quella in cui è venuta alla luce la nave. Entrambe le scoperte indicano la maggiore arretratezza della linea di costa antica rispetto a quella attuale.

fotogrammetrie, mentre con un sistema di “innaffiatura” manteniamo sempre bagnata la superficie di legno dello scafo, che è stato in precedenza trattato con biocidi. Poi ci sono i tempi: non possiamo perdere neanche un minuto, perché si tratta di un’opera pubblica».



n ot iz iario

MOSTRE Trento

Agli albori della globalizzazione l Castello del Buonconsiglio propone una nuova grande mostra Iarcheologica internazionale, che si

collega idealmente a quelle realizzate in precedenza dal museo sugli «Ori delle Alpi», sui «Guerrieri, principi ed eroi fra il Danubio e il Po» e sugli «Ori dei cavalieri delle steppe». Il tema del nuovo progetto è quello degli scambi, dei contatti e delle relazioni culturali intercorsi dalla preistoria all’epoca romana fra il Mediterraneo e il Nord Europa, con approfondimenti rivolti anche ad apporti dall’Oriente. Attraverso testimonianze riunite per la prima volta in un’unica sede, l’esposizione si propone di offrire una visione d’insieme sui diversi aspetti della diffusione a largo raggio di beni, innovazioni tecnologiche, modelli ed espressioni della sfera ideologico-religiosa. Materie prime, oggetti semilavorati e manufatti finiti – gioielli, armi, utensili, vasellame, opere d’arte ed elementi ornamentali – evidenziano la complessità dei percorsi degli influssi culturali, contaminazioni e circuiti di comunicazione che, in modo differenziato dal punto di vista della ricchezza e direzionalità, hanno scandito la storia delle relazioni fra il bacino mediterraneo e le regioni a nord delle Alpi e fra l’Oriente e l’Occidente. Sono interazioni ora dovute a esplorazioni delle zone di «frontiera», ora a ricerche di materie

prime e di beni di prestigio, ora ad alleanze e rapporti diplomatici, ora a razzie e conquiste, all’instaurarsi di rapporti di forza e di antagonismo. Senza pretese di esaustività, considerate le enormi vastità dei territori coinvolti e delle implicazioni storico-culturali, la mostra vuole stimolare l’interesse per questi «inIn alto: mosaico policromo con scena di caccia. II sec. d.C., Formia, Museo Archelogico Nazionale. A sinistra: balsamario in forma di leoncino. 619-590 a.C. Siracusa. Museo Archeologico «Paolo Orsi».

contri e scontri di civiltà» che hanno determinato l’affermarsi di elementi comuni che, talvolta, si traducono in «linguaggi» transculturali e multiculturali. Lo spostamento di persone, il trasferimento di beni «esotici» e il confronto pacifico o armato si accompagnano, in effetti, alla trasmissione di conoscenze tecnologiche, di modelli e idee che si esplicano nell’accoglimento o elaborazione di nuovi comportamenti sociali, gusti e mode. Contatti, traffici e scontri determinano interazioni che si riflettono pertanto in cambiamenti sia nella dimensione pratica della vita quotidiana, sia nella sfera ideologica e religiosa, in definitiva nello «stile di vita». (red.)

Dove e quando «Le grandi vie della civiltà. Relazioni fra il Mediterraneo e il Centro Europa, dalla Preistoria alla Romanità» Trento, Castello del Buonconsiglio fino al 13 novembre (dal 1° luglio) Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 chiuso i lunedí non festivi, il 15.08 e il 31.10 Info tel. 0461 233770; www.buonconsiglio.it

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rassegne Lazio

Adriano si fa impresario a residenza tiburtina di Adriano accoglie la V edizione di FestiL VAl, il Festival Internazionale di

Villa Adriana, il cui calendario si snoda fra concerti, coreografie e allestimenti scenici fino al prossimo 20 luglio. Anche quest’anno il grande palcoscenico all’aperto è allestito nell’area delle Grandi Terme e vedrà avvicendarsi performer provenienti da Cina, Russia, Stati Uniti, Israele, Belgio, Francia, Italia, Ro-

mania e Lituania. Grazie a loro, prenderà corpo un giro del mondo attraverso le suggestioni e i talenti delle diverse espressioni artistiche. Fra gli appuntamenti in programma, ricordiamo lo spettacolo della compagnia teatrale di Eimuntas Nekrosius e quello di Pippo Delbono insieme ad Alexander Balanescu; il Circo di Victoria Chaplin e JeanBaptiste Thierrée; la danza dei Ballets C de la B. e di Barak Marshall; Due immagini di Villa Adriana, trasformata in suggestiva scenografia degli spettacoli organizzati in occasione della IV edizione della rassegna FestiVAl.

la musica del pianista Zhang Haochen, di Vinicio Capossela e della cantante jazz Cassandra Wilson. Info: tel. 06 80241281; www.auditorium.com (il biglietto d’ingresso dà diritto all’utilizzo del servizio di navetta, al costo di 5 euro, che dal Parco della Musica di Roma permette di raggiungere Villa Adriana in pullman, con ritorno a fine spettacolo). (red.)

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roma

Nel nome del fondatore La casa editrice «L’Erma» di Bretschneider ha prorogato il termine per la partecipazione al XVI Premio per l’Archeologia. Istituito nel 1978, in onore di Max Bretschneider, fondatore nel 1896 della casa editrice e libreria, il concorso è rivolto ad autori di lavori accademici, che potranno concorrere con opere a carattere scientifico, sui seguenti argomenti di archeologia: preistoria, mondo classico, Oriente e Medioevo. Ogni autore potrà partecipare con una o piú opere inedite (monografie e non articoli brevi) in italiano, tedesco, inglese, francese o spagnolo, che dovranno pervenire in copia dattiloscritta alla segreteria del premio: «L’Erma» di Bretschneider, via Cassiodoro, 19 – CP 6192 – 00193 Roma, entro e non oltre il 31 agosto 2011. Ulteriori informazioni e il bando sono reperibili all’indirizzo: www.lerma.it

roma

Il Neolitico della Calabria Fino al 30 giugno, il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico «Luigi Pigorini» propone la mostra «Il Neolitico a Piana di Curinga. Laboratorio di archeologia sperimentale». Vengono presentati i materiali realizzati nel corso di un lavoro di archeologia sperimentale sulla ceramica stentinelliana di Piano di Curinga (fine VI-V millennio), importante insediamento lungo la costa tirrenica della Calabria meridionale, che ha ripercorso tutte le fasi della produzione dei vasi: dall’approvvigionamento dell’argilla, alla realizzazione delle forme, alla decorazione, fino alla loro cottura. La mostra osserva gli orari del museo: tutti i giorni feriali, 10,00-18,00. Info: tel. 06 549521.

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incontri Roma

Pagine di storia in vetrina di Daniele F. Maras

i è svolto a Roma il secondo Salone dell’Editoria ArcheoloS gica, punto di riferimento per gli

specialisti e appassionati del settore, che offre una vetrina per le iniziative scientifiche e divulgative. La manifestazione è stata ospitata dal Museo Nazionale Preistorico Etn og r a f i c o « L u i g i P i g o r i n i » all’EUR, attuando cosí a pieno la politica di mediazione propria di ogni museo tra la ricerca scientifica avanzata e la comunicazione al grande pubblico. Il ricco programma delle giornate ha visto succedersi quattro tavole rotonde (sul ruolo delle donne in archeologia, sul rapporto dell’editoria specializzata con i moderni sistemi comunicativi, sullo spazio mediterraneo e sulla divulgazione archeologica), un convegno internazionale di archeologia e antropologia a confronto, in memoria di Claude Lévi-Strauss, lezioni magistrali e la presentazione di libri e documentari. Non va dimenticata, inoltre, la componente fieristica del Salone, che ha messo a disposizione degli editori e delle istituzioni partecipanti stand espositivi per la distribuzione di materiale informativo e la vendita di prodotti editoriali. Il tutto è stato allestito negli spazi di

Frammento di pittura parietale con figura di Erote alato. I sec. d.C. Lanuvio, Museo Archeologico.

servizio del museo, consentendo ai partecipanti di approfittare dell’occasione per visitarne l’esposizione permanente. Elemento vincente dell’iniziativa è stata la comunicazione trasversale, che ha coinvolto tanto gli specialisti di archeologia e antropologia – fra i quali numerosa è stata la presenza di docenti universitari, soprintendenti archeologi e funzionari del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, nonché di giovani e meno giovani ricercatori e professionisti del settore – quanto un’ampia fetta di pubblico interessato e di famiglie, grazie anche ad alcuni eventi complementari di carattere gastronomico e alla presenza di associazioni di promozione culturale. L’organizzazione a Roma di un Salone dell’Editoria Archeologica può dunque essere considerata come una scommessa vinta da parte della neonata società Ediarché srl, e, soprattutto, da parte di Luciano Pasquali, che ne è il presidente. Infatti, nonostante la coincidenza con altri eventi del mondo dell’archeologia e con la ben piú nutrita fiera bibliofila «Roma si Libra», gli incontri organizzati in seno al Salone hanno attirato una buona affluenza di pubblico e – ciò che piú conta – di un pubblico selezionato in base all’interesse per l’archeologia, e ben intenzionato a non lasciarsi sfuggire l’occasione: quasi tutti i visitatori hanno approfittato delle offerte speciali e sono tornati a casa con libri sotto il braccio, con grande soddisfazione degli editori partecipanti.


mostre Germania

L’avventura di Tell Halaf ra il 1911 e il 1913 e poi nel 1929 l’archeologo tedesco Max T von Oppenheim condusse scavi nel

sito di Tell Halaf, località nella valle del fiume Khabur oggi compresa nei confini della moderna Siria. Le sue ricerche si concentrarono sul palazzo reale dell’antica città, risalente al X-IX secolo a.C., e portarono al recupero di numerose statue in pietra che, trasferite a Berlino, avrebbero dovuto arricchire le collezioni del complesso dell’Isola dei Musei, ma furono invece temporaneamente depositate in altri locali. Questi ultimi furono colpiti dai bombardamenti delle forze alleata nel corso della seconda guerra mondiale, e le statue di Tell Halaf furono in larga parte sbriciolate o comunque gravemente danneggiate. Ora, a cento anni dalle sue prime esplorazioni, il sogno di von Oppenheim si è finalmente realizzato, perché le preziose opere provenienti da Tell Halaf, dopo un lungo e impegnativo intervento di restauro, che ha richiesto ben nove anni di

In alto: il restauro della testa della grande statua di leonessa, rinvenuta all’ingresso del palazzo occidentale di Tell Halaf (oggi in territorio siriano). X-IX sec. a.C. Qui sotto: l’archeologo Max von Oppenheim (1860 -1946) posa accanto alla «dea seduta in trono», nel Tell Halaf-Museum, luglio 1930. In basso, a sinistra: statua di due figure sedute, da un ambiente di culto individuato nel settore meridionale della cittadella di Tell Halaf. X-IX sec. a.C.

lavoro, sono protagoniste di una grande mostra temporanea, allestita nelle sale del Pergamonmuseum, dunque propr io nel cuore di quell’Isola alla quale inizialmente non erano riuscite ad approdare. La mostra affianca alle sculture una ricca documentazione fotografica della loro travagliata storia, dal momento del ritrovamento fino alla conclusione dei restauri. Secondo gli studi piú recenti, le statue appartenevano alla decorazione della struttura che viene ora indicata come Palazzo Occidentale, che aveva come elemento principale un gruppo colossale composto delle divinità piú importanti del pantheon siro-ittita e collocato in corrispondenza dell’ingresso. A «guardia» dei percorsi di passaggio da un ambiente all’altro stavano sfingi e grifoni, mentre le mura esterne del complesso erano rivestite da oltre 200 pannelli, di varie dimensioni, decorati a rilievo. S. M.

Dove e quando «Gli dèi salvati dal palazzo di Tell Halaf» Berlino, Pergamonmuseum fino al 14 agosto Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 (giovedí fino alle 22,00) Info tel. +49 030 266424242; www.gerettete-goetter.de (anche in lingua inglese)

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lazio

I segreti delle tecnologie antiche Il Centro di Archeologia Sperimentale Antiquitates (Civitella Cesi-Blera, Viterbo), in convenzione con la Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici «Dinu Adamesteanu» e l’Università del Salento di Lecce, organizza, dal 22 al 31 luglio, il I Corso Estivo di Scienza dei Materiali Archeologici e Artistici. Il corso intende fornire una preparazione di base, teorica e pratica, sui principali materiali e sistemi produttivi utilizzati in antico, nonché sulle piú diffuse tecniche di diagnostica e di indagine archeometrica impiegate nello studio di reperti archeologici e opere d’arte. Ulteriori informazioni sul corso sono reperibili all’indirizzo: www.archeospecializzazione com (oppure rivolgendosi a: tel. 0761 415031).

aquileia

La via Annia passa nel Museo Il Museo Archeologico Nazionale di Aquileia ha aperto le nuove sale dedicate alla via Annia. Il nuovo allestimento arricchisce il patrimonio espositivo del museo e contribuisce a dotare di testimonianze storiche e archeologiche l’ampio progetto di recupero e di valorizzazione dell’antica via consolare che, da un capolinea meridionale, ipoteticamente individuato in Adria, attraverso i centri di Padova, Altino e Concordia, conduceva sino ad Aquileia, seguendo i confini delle lagune. L’esposizione si articola in filoni tematici: dalle testimonianze epigrafiche della strada e della gens Annia, ai materiali dallo scavo della Domus delle Bestie ferite, ai reperti dalle necropoli suburbane individuate lungo questa direttrice.

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mostre Piemonte

È sempre vino! di Stefania Romani

accontare il mondo del vino attraverso 350 reperti archeoloR gici riferibili alle antiche civiltà del

Mediterraneo: è questo l’obiettivo della mostra allestita a Materima, un cascinale di Casalbeltrame, in provincia di Novara, riconvertito in

In alto: lastra fittile a rilievo, di tipo Campana, raffigurante satiri intenti a vendemmiare. Fine del I sec. a.C.-inizi del I sec. d.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Qui sotto: cratere attico a figure rosse con tre satiri che pigiano l’uva al cospetto di Dioniso. Pittore di Firenze, 450 a.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

Dove e quando DiVino. Dall’antichità ad oggi Materima, Casalbeltrame (No), fino al 5 agosto. Orario ma-ve, 14,00-20,00, sa-do, 10,30-20,00, lu chiuso Info www.materima.it

una cittadella della scultura. La rassegna abbraccia un arco cronologico vastissimo, compreso fra il III millennio a.C. e i giorni nostri e si articola in quattro sezioni. Si comincia con la vinificazione e la viticoltura, testimoniate da reperti lapidei e pitture vascolari, spesso ispirati al culto di Dioniso: accanto a episodi di vendemmia e pigiatura figurano vivaci scene di banchetto. Tocca quindi al Vicino Oriente e alla Grecia, da cui provengono molti oggetti che evidenziano i legami con i poemi omerici. Poi è la volta dell’Etruria e di Roma, con utensili da banchetto e un importante nucleo di vasi in vetro provenienti da Damasco. Sono inoltre in vetrina boccali medievali o del Rinascimento, ai quali si aggiungono bottiglie e bicchieri riportati in salvo dai resti del Polluce, affondato con il suo carico nel 1841. La mostra, inserita in un progetto piú ampio, che la farà viaggiare a livello internazionale, presenta anche due percorsi sensoriali: il primo si svolge all’interno di una sala tricliniare, decorata da affreschi parietali, con «divani» sui quali sedersi e copie di materiali archeologici da toccare, per introdurre il visitatore a un banchetto romano collocabile a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.; in un’altra sala è stato invece ricostruito l’ambiente subacqueo, per rappresentare il ritrovamento di materiali archeologici in mare. In sottofondo, melodie «etrusche», ricreate da Francesco Landucci, musicista toscano specializzato in questo genere di sperimentazioni, e che ha firmato la colonna sonora del percorso espositivo.


mostre Francia

Eterno femminino ntorno ai 12 000 anni fa il continente europeo godette di un senIsibile miglioramento delle condi-

zioni ambientali, che favorí l’insediamento umano, determinando la notevole estensione delle aree occupate: in particolare, comunità di cacciatori-raccoglitori culturalmente affini si diffusero dalla Francia meridionale alla Polonia. L’omogeneità culturale di questi gruppi, ascrivibili al Maddaleniano – dal sito eponimo di Madeleine, a Tursac, in Dordogna –, è provata dall’uso dei medesimi tipi di strumenti in selce, dalle strategie di sussistenza, e dal repertorio delle espressioni simboliche, tra le quali spiccano le rappresentazioni della donna.Tema, quest’ultimo, sul quale è imperniata l’esposizione allestita a Les-Eyzies-de-Tayac, che presenta utensili, armi e una sessantina di capolavor i dell’arte preistorica realizzati con avorio, corno, selce e altri materiali, provenienti da alcuni dei piú importanti giacimenti paleolitici europei, tra cui Wylcyze (Polonia), Gönnersdorf e Andernach (Germania), nonché da numerosi siti preistorici francesi della Dordogna; testimonianze di arte mobiliare affiancate da repliche di raffigurazioni attestate in alcune delle grotte dipinte dell’area franco-cantabrica. (red.)

Dove e quando «Mille e una donna dalla fine delle ere glaciali» Les-Eyzies-de-Tayac, Musée national de Préhistoire fino al 19 settembre Orario tutti i giorni, 9,30-18,00; ma chiuso (giu e set) Info www.musee-prehistoireeyzies.fr

Archeofilatelia

a cura di Luciano Calenda

La «Gioconda» egiziana Tra i pochi volti e immagini dell’antichità che conservano intatto il loro fascino, si può senz’altro annoverare quello di Nefertiti, bellissima moglie del faraone Akhenaton, che emana un magnetismo e un’attrazione paragonabili alla dama di Leonardo! Nefertiti è oggi un’icona dell’antico Egitto, al pari di Tutankhamon o della Sfinge, ed è stata riprodotta molte volte sui francobolli di vari Paesi, riprendendo il busto dell’Altes Museum di Berlino, con l’unica variante della prospettiva: di profilo o di prospetto. La prima immagine dentellata si deve naturalmente all’Egitto, è del 1947 (1) e mostra la regina di profilo; la stessa immagine è stata quasi sempre utilizzata dalle Poste egiziane, come nel 1953 (2) o nel 2004 (3). La visione di prospetto è stata scelta, invece, dalle poste tedesche nel 1988 (4) e da quelle del Mali nel 1994 (5). Unica variante al busto di Berlino è una scultura in quarzite che 9 raffigura la testa della regina, opera incompiuta, come sul francobollo, ancora egiziano, del 1977 (6). Ma, come abbiamo piú volte dimostrato, la filatelia tematica ci consente di trattare un determinato argomento anche ricorrendo a materiale collegato; nel nostro caso si può raccontare di Nefertiti con i francobolli che riguardano il suo sposo, il faraone Akhenaton, come quelli emessi dall’Egitto nel 1977 (7) e del 1985 (8). L’ultimo in ordine di tempo è del 2009 e raffigura, a destra, Nefertiti con lo sposo (9). Le sole altre immagini di Nefertiti si trovano nelle molte incisioni che la ritraggono insieme al marito, spesso in scene di intimità domestica; una di queste è stata ripresa da un francobollo del 1964, emesso per celebrare la giornata della madre, ove la regina e il faraone giocano con tre delle loro figliolette (10).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

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Calendario Italia

Montefiore Conca (Rn)

Roma

Sotto le tavole dei Malatesta

Nerone

Colosseo, Foro Romano, Criptoportico neroniano e Museo Palatino fino al 12.09.11

Testimonianze archeologiche dagli scavi nella Rocca Rocca malatestiana fino al 30.06.12 orvieto

Ritratti. Le tante facce del potere

Il fascino dell’Egitto

Musei Capitolini fino al 25.09.11 bolzano

Ötzi20

Mostra per il ventennale del ritrovamento della mummia del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12 cagliari

Parole di segni

Iscrizioni fenicio-puniche dai musei della Sardegna Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.11

Ritratto femminile noto come Testa Fonseca. Inizi del II sec. d.C.

La valle del vino etrusco Lastra fittile a rilievo tipo «Campana». Fine del I sec. a.C.inizi I sec. d.C.

Goti e Longobardi a Chiusi

Storia di Clusium tra il VI e l’VIII secolo Museo Nazionale Etrusco di Chiusi fino al 21.08.11 cortona

Le collezioni del Louvre a Cortona Gli Etruschi dall’Arno al Tevere Palazzo Casali fino al 03.07.11

Piatto da parata in maiolica istoriata con scena di satiro a pesca. Inizi del XVI sec.

Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11

Villa Adriana, il Teatro Marittimo in una foto di Luigi Spina.

tivoli

Villa Adriana. Dialoghi con l’antico

Antiquarium del Canopo e area archeologica fino al 06.11.11

DiVino. Dall’Antichità ad Oggi

chiusi

Il ruolo dell’Italia pre e post-unitaria nella riscoperta dell’antico Egitto Orvieto, Museo «Claudio Faina» e Palazzo Coelli (Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto) fino al 02.10.11 scansano (GR)

Casalbeltrame (NO)

Materima fino al 05.08.11

Inserire ombra

vicenza Busto femminile in terracotta di Arianna, da Falerii Novi. III sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Restituzioni 2011

Tesori d’arte restaurati Gallerie di Palazzo Leoni Montanari fino all’11.09.11

Belgio

Lastra in calcare con il ritratto della regina Ty, XVII dinastia, 1543-1292 a.C.

Bruxelles

Tutankhamon

La sua tomba e i suoi tesori Brussels Expo e Musée du Cinquantenaire fino al 06.11.11

milano

Nutrire il corpo e lo spirito

Il significato simbolico del cibo nel mondo antico Cibarsi è l’atto primario legato alla sopravvivenza, ed è segno tangibile per l’uomo della sua condizione mortale: non c’è dunque da stupirsi che la scelta degli alimenti e le modalità del loro consumo rivestano in tutte le culture una forte valenza simbolica. Nell’antichità la consapevolezza della totale dipendenza della sopravvivenza

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umana dalla natura, madre e dispensatrice di ogni cibo, è alla base di un incredibile numero di riti sacri e cerimonie propiziatorie, tramite le quali evocare a sé il favore della natura «madre» di ogni alimento e contemporaneamente «lavare» la colpa per aver sottratto, falciato, raccolto i frutti della terra. Per l’uomo che anticamente osservava con estrema attenzione la natura e i suoi fenomeni, i cicli vitali delle piante e dei raccolti erano specchio e metafora della vita umana; il loro annuale

rigenerarsi rappresentava il mistero e la speranza al tempo stesso di rinascita dopo la morte anche per l’uomo. Ogni alimento determinante per la vita umana è quindi contraddistinto da un percorso materiale e da un significato simbolico e rituale. Non solo i singoli alimenti, ma anche la condivisione dei momenti segnati dal consumo di cibo e bevande codificano le relazioni del vivere sociale, sancendo l’unione tra chi vi partecipa, ribadendo l’appartenenza a un gruppo, sia esso


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Quando il corpo si fa parure

Gioielli e ornamenti di culture non europee Musée du Cinquantenaire (Musée pour Aveugles) fino al 28.10.12

Francia

Figurina femminile in terracotta. Cultura Chupicuaro, Messico. 300-100 a.C.

Usi, miti e simboli Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 26.09.11

The British Museum fino al 03.07.11

L’Egitto, l’Oriente e il modernismo svizzero

La collezione Rudolf Schmidt (1900-1970) Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 31.07.11

strasburgo

Strasburgo-Argentorate

Hauterive

Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.) Musée archéologique fino al 31.12.11

L’era del Falso

Quando le contraffazioni svelano i sogni e le speranze degli archeologi Laténium, Espace Paul Vouga fino all’08.01.12

Germania

Pergamonmuseum fino al 14.08.11

Afghanistan: crocevia del mondo antico

Basilea

La spada

Gli dèi salvati dal palazzo di Tell Halaf

londra

Svizzera

parigi

Berlino

Gran Bretagna

A sinistra: l’archeologo Max von Oppenheim accanto a una delle statue in pietra da Tell Halaf, detta la «dea in trono». 1000 a.C. circa.

colonia

Frammento di stele con Horemheb in veste di sovrano. 1314-1292 a.C. circa.

USA new york

Horemheb, generale e sovrano d’Egitto The Metropolitan Museum of Art fino al 04.07.11

Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 13.11.11

Divitia-Deutz

Dal castrum romano alla città moderna Römisch-Germanisches Museum fino al 24.07.11 monaco

La guerra di Troia

200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12

un clan familiare o una comunità religiosa. Nei comportamenti legati all’alimentazione si esprime il rapporto tra sfera umana e sfera divina, in quanto il cibo è ambito metaforico d’incontro tra l’umano e il trascendente. In questo senso il consumo o l’astensione da un cibo diventano prassi religiosa, legata a feste sacre, convinzioni filosofiche, riti e culti connessi ai momenti di passaggio nella vita: la nascita, il matrimonio e soprattutto la morte. Al valore simbolico del gesto si somma

quindi il valore simbolico di quanto viene consumato; il cibo diviene presenza e appartenenza al dio. dove e quando Museo Archeologico fino al 31.12.11 Orario ma-do, 9,00-17,30; lu chiuso Info tel. 02 884.45208; www.comune. milano.it/museoarcheologico

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Corrispondenza da Atene

di Valentina Di Napoli

Spiccioli di mitologia Una duplice esposizione, in corso ad Atene, indaga il ruolo delle monete al di là della loro funzione di strumento essenziale per i commerci hi di noi non si è entusiasmato leggendo C delle battaglie tra dèi ed eroi

nell’Iliade, seguendo Ulisse nelle sue avventure, o non si è commosso per le storie messe in scena nelle tragedie greche? E chi di noi non ha ammirato una statua di Posidone o un rilievo che raffigura Atena, una bronzetto di Zeus o un piccolo Eros dormiente? La mitologia greca, per chi abbia studiato o si sia interessato alla cultura classica, è, insomma, un dato di fatto. Nonché onnipresente: che si visiti un museo di antichità o una pinacoteca di arte moderna, che si prenda in mano una moneta o si guardi un film, farà capolino la figura di un dio o di un eroe, talvolta sotto mentite spoglie, a ricordarci che i miti greci permeano la realtà di noi Occidentali molto piú di quanto potremmo immaginare. Letta dagli storici e dagli archeologi come uno specchio delle istituzioni politiche e della società che di volta in volta l’ha prodotta, interpretata alla luce di teorie allegoriche o sincretistiche, la mitologia greca fu riscoperta in età rinascimentale e, da allora, non ha cessato di essere fonte di ispirazione per artisti e bacino culturale a cui attingere. Un argomento cosí centrale nella cultura europea è il tema di una mostra allestita ad Atene, frutto della collaborazione tra il Museo Archeologico Nazionale, il Museo

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In alto: testa colossale raffigurante Zeus, da Egira in Acaia. Metà del II sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. A sinistra: statuetta in bronzo di Posidone, da Atene. II sec. d.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Numismatico e la Collezione Numismatica della Alpha Bank, una delle prime al mondo, che vanta oltre 10 000 esemplari. Il titolo, «Il mito e la monetazione», chiarisce che a fungere da mezzo di trasmissione della mitologia greca sono, in questo caso, le monete, antiche e non. La mostra è dunque incentrata sulle rappresentazioni, l’uso e la circolazione del mito, a partire dal VII secolo a.C.


A ospitarla sono i due musei appena citati, ciascuno dei quali ha scelto un diverso sottotitolo proprio perché ognuno illustra un aspetto particolare del tema. Dèi ed eroi La mostra al Museo Archeologico Nazionale, «La raffigurazione del mito», presenta, per la prima volta al pubblico, 261 monete della collezione dell’Alpha Bank, 71 monete del Museo Numismatico e 79 opere scelte dalle collezioni del Museo Nazionale: sculture, vasi e oggetti in metallo. Le unità tematiche della mostra hanno per protagonisti i personaggi della mitologia greca, cosí come essi appaiono sulle monete: gli dèi del pantheon olimpio, gli esseri mitologici, Eracle, le divinità secondarie, le storie mitiche. «L’uso del mito», al Museo Numismatico, indaga invece gli usi e la diffusione del mito in quanto espressione dell’ideologia ufficiale; è una chiave di lettura molto interessante, esplorata grazie all’aiuto di 135

A destra: tetradramma in argento di Atene. 479-454 a.C. Collezione Alpha Bank. Qui sotto: statere in argento della Lega Arcade. 360 a.C. circa. Collezione Numismatica Alpha Bank. In basso: il Museo Numismatico di Atene.

monete, 22 medaglie e 15 banconote delle collezioni del Museo Numismatico, di 15 monete della collezione dell’Alpha Bank, di 14 opere dalle collezioni del Museo Nazionale e di 2 opere della Pinacoteca Nazionale. Le monete, per il loro stretto legame con l’autorità pubblica, offrono un terreno fertile per la propaganda ufficiale; basti pensare alle emissioni di Alessandro, che lo effigiano coronato dalla leontè di Eracle, oppure alle divinità poliadiche e ai miti di fondazione delle città antiche, oppure ancora all’uso del mito durante la dittatura dei colonnelli in Grecia o il fascismo in Italia. dove e quando «Il mito e la monetazione» Atene fino al 27 novembre «L’illustrazione del mito» Museo Archeologico Nazionale Orario lu, 13,30-20,00, ma-do, 8,30-15,00 Info www.namuseum.gr «L’uso del mito» Museo Numismatico Orario ma-do, 8,30-15,00 Info www.nma.gr

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esclusiva di Sergio Pernigotti

Nefertiti

Regina dei misteri Era la sposa di Akhenaton, il faraone protagonista della prima rivoluzione culturale dell’antico Egitto e, forse, anche la madre del leggendario Tutankhamon. Il suo ritratto – icona della bellezza femminile e simbolo dell’arte amarniana – è oggi esposto in un nuovo, spettacolare allestimento a Berlino. Dove vale la pena di andarlo a vedere. Anche perché…

N

ella storia dell’antico Egitto pochi personaggi possono vantare una fama paragonabile a quella della regina Nefertiti, sposa del faraone Amenhotep IV/Akhenaton (vedi «Archeo» n. 305, luglio 2010), che regnò per diciassette anni, dal 1351 al 1334 a.C. circa, e del quale condivise il destino in un periodo particolarmente tempestoso per il Paese. Per gli appassionati della civiltà egiziana e, in particolare, della sua storia dell’arte, Nefertiti si identifica quasi esclusivamente con la regina raffigurata in un bellissimo busto conservato al Museo di Berlino e in alcune teste incompiute, in granito rosso, che si trovano al Museo del Cairo e sono la testimonianza di uno dei momenti piú importanti della scultura egiziana. Opere che appaiono improvvisamente, senza precedenti, e che non avranno alcun seguito apprezzabile: capolavori irripetibili, che si devono a uno scultore del quale

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Sulle due pagine: il celebre busto di Nefertiti, in pietra calcarea e stucco dipinto, alto 47 cm, rinvenuto nel 1912 nell’atelier dello scultore Thutmosi, nel quartiere meridionale di Tell el-Amarna. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Dal 2009 la scultura si trova al Neues Museum di Berlino.



esclusiva nefertiti tutta la famiglia reale Dal 1391 al 1353 39 anni di regno

Amenhotep III

Tiyi

Dal 1353 al 1338 16 anni di regno

Kiya

Young Lady Amenhotep IV Akhenaton

Nefertiti

Dal 1338 al 1335 4 anni di regno

Dal 1335 al 1327

Smenkhara

9 anni di regno

Tutankhamon

eccezionalmente conosciamo il nome, Thutmosi (le opere d’arte egiziane sono perlopiú anonime), meteore che si sono salvate dal disastro generale e che l’archeologia ci ha restituito. Per gli storici la situazione è ben diversa, almeno in apparenza, perché i documenti che riguardano la regina sono numerosi, ma, fatto abbastanza paradossale, la sua figura rimane sfuggente e ben poche sono le certezze sui fatti che la riguardano. Cerchiamo dunque di mettere ordine in ciò che sappiamo. Nel 1351 a.C. salí sul trono d’Egitto il figlio del faraone Amenhotep III, che aveva regnato per 38 anni su un Paese ricco e felice, prendendo lo stesso nome del padre Amenhotep, e IV nell’ordine di successione della XVIII dinastia. 28 a r c h e o

Meritaton

Anchesenpaaton

Per i primi quattro anni non accadde nulla, almeno in apparenza; poi, nel quinto anno, avvenne un fatto rivoluzionario: il sovrano abbandonò Tebe, sede della corte e quindi capitale del Paese, e si recò in Medio Egitto dove, nella località che oggi si chiama Tell el-Amarna, su un terreno vergine, sulla riva destra del fiume, fondò una nuova città, che divenne la sua residenza e nella quale si trasferí con la corte e tutti i suoi funzionari piú importanti. Come se non bastasse, cambiò nome, da Amenhotep IV («Amon è soddisfatto») ad Akhenaton («Colui che è utile all’Aton»), e fondò una nuova religione centrata appunto sull’Aton, il dio sole come appare nel punto piú alto e luminoso del


suo percorso celeste: era la rivoluzione, opera del sovrano stesso, la prima e forse l’unica che possiamo documentare nella storia dell’antico Egitto. Negli anni che seguirono fu un succedersi di novità spesso sconvolgenti che riguardarono l’arte, la letteratura e tutti gli altri aspetti della civiltà egiziana, fino a quando, dodici anni dopo il suo traferimento ad Amarna e quindi nel diciassettesimo anno di regno, il faraone morí, lasciando una situazione successoria ancora piú intricata, dalla quale emerse, infine, Tutankhamon, ancora fanciullo, al quale toccò in sorte di restaurare l’ordine precedente in tutti quei campi che il suo predecessore, e quasi certamente padre, aveva cosí fortemente innovato.

Nella pagina accanto: testa incompiuta in quarzite bruna di Nefertiti, proveniente da Tell el-Amarna. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Il Cairo, Museo Nazionale Egizio. Qui sotto: coppia statuaria in calcare dipinto raffigurante Akhenaton e Nefertiti. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (13521334 a.C.). Parigi, Museo del Louvre.

Un puzzle durato 17 anni L’età di Amarna, secondo la definizione degli egittologi, ha avuto una durata brevissima: poco piú di diciassette anni, quasi come il battere di una palpebra nella storia plurimillenaria dell’antico Egitto; essa non ha avuto precedenti chiaramente percettibili ed è stata cancellata, dopo la morte di Akhenaton, dai suoi successori senza lasciare tracce visibili: una parentesi chiusa rapidamente. Eppure, il regno di Akhenaton è stato uno dei piú studiati di tutta la storia egiziana, forse il piú studiato: e nella soluzione dei numerosi problemi che esso presenta gli studiosi sono perlopiú nel disaccordo piú completo. È stato detto che la ricostruzione di questo periodo storico è come un gigantesco puzzle di cui abbiamo quasi tutti i pezzi: si tratterebbe solo di mettere ciascuno di essi al proprio posto. Ma cosí non è: non solo non abbiamo tutti i pezzi, ma l’interpretazione e la collocazione di ciascuno di essi pone una serie di problemi assai delicati, che vanno dalla pura e semplice lettura delle iscrizioni, spesso mal conservate, fino a complesse questioni di carattere ideologico, prima fra tutte quella se Akhenaton sia stato o no il fondatore di a r c h e o 29


esclusiva nefertiti

Tell el-Amarna, la nuova capitale

Carta dell’Egitto con l’ubicazione del sito di Tell el-Amarna, l’antica Akhetaton («Orizzonte di Aton») fondata da Akhenaton sulla riva orientale del Nilo, a nord di Luxor. I primi studiosi europei che visitarono il sito furono l’inglese Gardner Wilkinson nel 1824 e l’egittologo tedesco Richard Lepsius che, nel 1844-45, tracciò una delle prime planimetrie dell’antica capitale del regno di Akhenaton. Nel 1887 avvenne la celebre scoperta di circa 400 tavolette incise in caratteri cuneiformi, parte della corrispondenza diplomatica scambiata tra faraoni e sovrani asiatici vassalli. Dall’ultimo decennio dell’Ottocento si moltiplicarono le missioni archeologiche, da quelle di Flinders Petrie, nel 1891, presso il tempio di Aton e il palazzo reale, alle campagne di scavo dirette da Ludwig Borkard, che nel 1912 scoprì l’atelier di Thutmosi, scultore di corte, e autore del busto della regina Nefertiti, oggi conservato a Berlino. I lavori di scavo, interrotti a causa della prima guerra mondiale, ripresero nel 1921 sotto la direzione di Leonard Woolley e John Pendelbury, della Egypt Exploration Society, che scavarono a Tell el-Amarna fino al 1936. Dal 1977 l’area è in concessione all’Università di Cambridge, sotto la direzione di Barry Kemp.

una religione monoteistica, quella dell’Aton, e quindi, in definitiva, una specie di precursore dell’ebraismo e, di conseguenza, del cristianesimo: per altri, su posizioni opposte, si è trattato del «falso profeta» dell’Egitto antico. Una personalità cosí complessa e affascinante come quella di Akhenaton è ancora piú difficile da afferrare perché, accanto alla difficoltà di interpretare le fonti e di rispondere ai molti problemi che essa pone, si colloca l’attività, 30 a r c h e o

certo comprensibile e giustificabile, di quelle che potremmo definire le «anime belle», di coloro, cioè, che vedono nel faraone la proiezione dei loro ideali, spesso molto elevati, e lo considerano come una sorta di santo o profeta.

«La bella è giunta» Cosa del tutto legittima se si prescindesse dai documenti di cui possiamo disporre e che spesso, per non dire sempre, vanno in

tutt’altra direzione: a ciò si aggiunge l’opera degli scrittori di romanzi e bisogna riconoscere che l’età di Amarna si presta come poche altre a costruire vicende del tutto immaginarie. La fantasia si sostituisce a ciò che la storia non può dare. In questo quadro cosí complesso – e del quale fanno parte anche molti altri personaggi quasi sempre di assai dubbia collocazione nell’albero genealogico della famiglia regale – si colloca ovvia-


Akhenaton e Nefertiti. Rilievo, dotato di foro per essere appeso, realizzato da un maestro artigiano come modello per altri artisti. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). New York, Brooklyn Museum.

E, tuttavia, essa non sfugge al destino comune a tutti gli altri componenti della dinastia: di lei sappiamo in realtà pochissimo. La donna porta un nome «parlante»: in egiziano Nefertiti significa «La bella è venuta», il che ha spesso indotto a pensare che si trattasse di una principessa straniera; ma non è cosí, perché il nome corrisponde a uno schema onomastico ben noto in Egitto, e significa semplicemente «La bella (dea) è giunta», in cui la «bella dea» non è altro che Hathor, divinità con cui le regine egiziane normalmente venivano identificate. Tuttavia non sappiamo quale fosse la sua famiglia di origine: è possibile, ma non sicuro, che la pr incipessa Mutnedjemet, che in seguito Nella sposò il faraone pagina Horemheb e a accanto: sua volta fotodivenne regina d’Egitto, fosse sua satellitare sorella: ma, a parte ciò, null’aldell’odierno Iraq, tro possiamo dire dell’ambiente nei cui confini è compresoSappiamo il sito. da cui essa proveniva. solo che ha sposato il sovrano non appena egli salí sul trono e forse anche un po’ prima: non va dimenticato, infatti, che Amenhotep IV/Akhenaton non era destinato al trono, che sarebbe toccato a suo fratello maggiore, di nome Thutmosi, morto precocemente. mente Nefertiti. Il suo ruolo, almeno per i primi dodici anni di regno di Akhenaton, è molto chiaro. Essa era la «grande sposa regale», titolo che in Egitto veniva conferito dal sovrano stesso alla regina «principale», colei che costituiva la componente femminile della coppia regale e i cui figli in primo luogo avevano diritto alla successione al trono: almeno questo è del tutto chiaro e ben documentato. In realtà Akhenaton, cosí innovatore in tanti campi della

civiltà egiziana, in questo rientrava in pieno nella tradizione: oltre a Nefertiti aveva certamente altre spose secondarie, forse anche straniere, ma Nefertiti era la sola ad avere un ruolo di preminenza assoluta rispetto a tutte le altre e, proprio per questo, è la sola donna della corte di cui ci sia rimasta un’immagine cosí vivida, per essere stata raffigurata innumerevoli volte accanto al proprio sposo in tutto il suo splendore di regina d’Egitto.

Il mistero delle origini Possiamo ritenere che Nefertiti avesse piú o meno la stessa età del suo illustre sposo, ma noi, in realtà, non sappiamo a quale età Akhenaton sia diventato faraone; le opinioni degli studiosi sono molto discordi in proposito: egli era certo molto giovane, almeno secondo i nostri parametri, ma è difficile dire quanto. Se lo scheletro che è stato trovato nella tomba tebana KV 55 è il suo, non dovrebbe essere difficile staa r c h e o 31


esclusiva nefertiti

bilire la data del suo avvento al trono. Ma l’età dello scheletro è da sempre oggetto di discussione. Una coppia statuaria in calcare dipinto conservata al Museo del Louvre raffigura Akhenaton e Nefertiti con le insegne della regalità: è una rappresentazione impressionante, perché lo scultore ha raffigurato la coppia regale probabilmente come l’ha vista; cioè con le sembianze di due bambini e per di piú piuttosto piccoli. La cosa di per sé non deve sorprendere: di vari sovrani egiziani sappiamo che, per varie vicende ereditarie, sono saliti sul trono ancora bambini; basterà ricordare che il padre stesso di Akhenaton, Amenhotep III, era salito al trono all’età di otto anni, e la stessa cosa accadde anche a Tutankhamon. Ciò è confermato indirettamente dal fatto che Nefertiti ha avuto la prima figlia solo nel corso del 32 a r c h e o

secondo anno di regno del suo sposo, prova evidente che al momento del matrimonio non era ancora fertile.

Problemi di successione Nei primi dodici anni di matrimonio Nefertiti ha avuto sei figlie, ma nessun figlio maschio, circostanza che doveva inevitabilmente complicare il problema della successione al trono di Akhenaton, benché nell’antico Egitto anche le donne potessero accedere a pieno titolo alla regalità. Conosciamo molto bene le figlie della coppia regale: si sono conservati tutti i loro nomi e sono spesso raffigurate insieme ai loro genitori in scene di quotidianità domestica. È questo uno degli aspetti piú difficili da decifrare dell’età di Amarna: il faraone e la sua sposa sono colti spesso in atteggiamenti affettuosi a cui non di rado si aggiungono le

figlie della coppia. Prima di allora, nella già lunga storia dell’antico Egitto, non era mai successo che le porte del palazzo regale si aprissero per mostrare la vita familiare del re, della regina e dei loro figli, sia nei momenti lieti che in quelli dolorosi. I n una scena della tomba di Akhenaton ad Amarna, il faraone e la regina sono raffigurati mentre piangono una delle loro figlie, morta precocemente e deposta sul letto funebre. Mai si erano visti, e mai piú si vedranno, un sovrano e una regina egiziani in lacrime, sia pure per un lutto che li coinvolgeva cosí da vicino. Questa apertura del palazzo verso l’esterno in modo tale che la vita della coppia regale e delle figlie fosse a tutti visibile, pone naturalmente piú di un problema. Certo non si può interpretarla altro che come una delle sconvolgenti novità tipiche


Sulle due pagine: busto di Nefertiti (vedi alle pp. 26-27). XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Berlino, Neues Museum.

un bel manichino? Il busto di Nefertiti, capolavoro e icona della bellezza femminile dell’antico Egitto, è il protagonista del Museo Egizio di Berlino, dal 2009 allestito nel Neues Museum sull’Isola dei Musei nella capitale tedesca. Alle pagine 34-35 ripercorriamo la lunga storia della testa, dal suo ritrovamento, nel 1912 a Tell el-Amarna, fino alla collocazione attuale. Il manufatto, attribuito allo scultore amarniano Thutmosi, è oggi al centro di polemiche e rivendicazioni. Mentre l’Egitto ne reclama ormai ufficialmente la restituzione, lo scrittore e storico dell’arte ginevrino Henri Stierlin con il libro Le buste de Néfertiti: une imposture de l’égyptologie (Infolio, Gollion 2009), ha rilanciato l’ipotesi che il capolavoro sia in realtà un falso clamoroso. L’autore dell’opera sarebbe, secondo Stierlin, lo scultore tedesco Gerhard Marcks, che l’avrebbe realizzata su richiesta dell’archeologo Ludwig Borchardt al quale serviva un busto a cui far indossare una collana da poco rinvenuta negli scavi di Amarna. Perché poi il falso sarebbe arrivato in Germania? Stierlin racconta che Borchardt lo avrebbe donato a Johann Georg, un duca sassone in visita agli scavi che avrebbe «perso la testa» per la bella Nefertiti e al quale il Borchardt non ritenne opportuno rivelare che fosse, in verità, un‘opera «contemporanea». Cosí sarebbe andata secondo Stierlin, ma non certo per i Berlinesi, che rivendicano l’autenticità di uno dei capolavori dei loro musei, visitato ogni anno da oltre 700 000 persone. E neppure per gli Egiziani che, falso o vero che sia, lo rivogliono a casa. (red.)

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esclusiva nefertiti

Tra guerra e pace, la miracolosa sopravvivenza di un antico capolavoro È il 6 dicembre del 1912 quando a Tell el-Amarna viene recuperato il busto della regina Nefertiti. Nella foto qui sopra vediamo l’egittologo Hermann Ranke (a sinistra) che sorregge la testa appena rinvenuta. Nel 1913 il busto, con altri reperti provenienti da Tell el-Amarna, arriva in Germania per essere esposto in una mostra sugli scavi. Nel 1943, in pieno conflitto bellico, il busto viene messo in salvo, prima nella cassaforte della Reichsbank, poi (foto nella pagina accanto, in alto) nel bunker dello Zoo di Berlino e, infine, in una cava di sale in Turingia. Alla fine della guerra, gli Americani allestiscono in varie città tedesche depositi di raccolta delle opere d’arte – CCP (Central Art Collecting Point) – in gran parte trafugate 34 a r c h e o

dai nazisti nei Paesi occupati o messe in salvo dai bombardamenti, per procedere a un’opera di catalogazione, documentazione e restituzione ai legittimi proprietari. Il busto di Nefertiti resta in Germania grazie all’intervento dell’ufficiale statunitense Walter Farmer (foto nella pagina accanto, in basso), direttore del CCP di Wiesbaden, che ne impedisce il trasferimento a Washington. Fino al 1956 la scultura rimarrà al Museo di Wiesbaden, per poi tornare a Berlino, prima al Museo Dahlem, dal quale passerà all’Egizio nel 2005, all’Altes Museum, e, infine, nel 2009, al Neues Museum sull’Isola dei Musei. (red.)


dell’età di Amarna, ma è ben difficile darne una spiegazione piú precisa: escludendo che potesse trattarsi di un’apertura verso il «popolo» o, se si vuole, di una rivoluzionaria forma di «democrazia», non si può pensare altro che a un’esaltazione, oltre la figura del sovrano, della famiglia, o meglio della dinastia.

Illuminati dalla vita Akhenaton è figlio dell’Aton e quindi dio egli stesso, come divina è la regalità egiziana di cui egli è l’espressione: ma tale carattere, che del resto risaliva alle concezioni dell’antico Regno, non coinvolgeva solo il faraone, ma tutti i componenti della sua famiglia. Per questo solo essi e nessun funzionario o sacerdote erano illuminati dall’Aton e ricevevano la vita dalle manine con cui terminavano i raggi del sole. Fino all’anno dodici non sappiamo altro di Nefertiti: unico elemento nuovo è dato dal nome che viene elaborato per lei e che affianca quello di nascita: Nefer-NeferuAton, «Bella è la bellezza dell’Aton». Tale nome la colloca definitivamente all’interno della «riforma» religiosa elaborata dal suo sposo. Se non vi sono altri fatti nuovi, abbiamo però numerose sue raffigurazioni: nessuna di esse però ci conserva l’immagine della donna affascinante che vediamo nel busto di Berlino. Essa viene raffigurata secondo i canoni stilistici dell’arte amarniana del primo periodo, quando lo scultore Bek, dietro precise indicazioni dello stesso sovrano, aveva elaborato un linguaggio figurativo completamente nuovo rispetto alla tradizione artistica egiziana, che potremmo definire «sperimentale», perché intanto si configurava in negativo rispetto al passato, diretto cioè a non fare piú come fino ad allora si era fatto. Di qui le sconvolgenti immagini della statuaria di Akhenaton, nelle quali la figura umana viene scomposta e poi ricomposta secondo a r c h e o 35


esclusiva nefertiti moduli non naturalistici: un po’ come è accaduto nell’arte contemporanea durante il periodo cubista di Picasso. Nefertiti e le principesse non sfuggono a questa regola: i loro crani sono allungati fino a essere deformi, i loro ventri sono prominenti, le gambe esili e i lineamenti alterati. Come conciliare queste raffigurazioni con il busto di Berlino e con le teste del Museo del Cairo? Questa volta la risposta non è difficile, pur ricordando che si tratta di scelte stilistiche degli artisti e non, almeno nel primo caso, di uno spietato realismo. Ad Amarna è stato trovato l’atelier dello scultore regale che ha preso il posto di Bek, dopo che questi ha cessato la sua attività o è morto, e che si chiamava Thutmosi. Questi, pur non rinnegando del tutto il linguaggio figurativo del suo predecessore, ha di molto addolcito quanto esso aveva di piú estremistico, riconducendolo all’interno della tradizione: ma il cranio della Nefertiti del Cairo non è meno allungato di quello dei molti rilievi di Bek!

Il mistero del XII anno Nell’anno dodici del regno di Akhenaton, Nefertiti scompare dai documenti e, a partire dal quel momento, non abbiamo piú alcuna notizia della regina, la cui figura aveva in qualche modo dominato la scena. Che cosa è successo? Questo è davvero uno degli aspetti piú misteriosi delle già intricate vicende di questo periodo storico. Scartando le piú romanzesche, le ipotesi avanzate, nessuna delle quali, va detto, è realmente dimostrabile, sono le piú diverse. La piú semplice e anche la piú realistica è che Nefertiti sia scomparsa dalla scena perché morí di morte naturale. Ma tale soluzione non soddisfa neppure agli studiosi, perché non abbiamo la sua tomba e perché ben poco ci è giunto del suo corredo funerario: per una regina cosí importante ci saremmo aspettati molto di piú in fatto di sepol36 a r c h e o

tura e di onoranze funerarie. Secondo un’altra teoria, che ha avuto e ha un certo credito, benché appaia a prima vista alquanto fantasiosa, nell’anno dodici Nefertiti sarebbe caduta in disgrazia e sarebbe stata confinata nella parte settentrionale della capitale; secondo altri fu lei stessa ad abbandonare la corte, perché non condivideva piú le idee di Akhenaton, che giudicava troppo estremistiche. In tutte queste ipotesi vi è solo un dato sicuro: la regina scompare dai documenti che si sono conservati.

Il caso Tutankhamon Occorre tuttavia aggiungere che la fase finale dell’età di Amarna è quanto di piú intricato si possa immaginare, con personaggi che compaiono e scompaiono, e altri che ricompaiono sotto altre spoglie. In questa confusione vi è un caso molto interessante: quello di Tutankhamon che, salito sul trono ancora bambino e morto diciottenne, fu artefice della restaurazione politica e culturale dopo la caduta di Akhenaton. Egli era sicuramente un componente della famiglia regale, nessuna delle numerose

iscrizioni che lo menzionano specifica chi ne fosse il padre o la madre; l’opinione prevalente è che il padre fosse lo stesso Akhenaton: ora si sta facendo strada l’ipotesi – accettata da quasi tutti gli studiosi – che la madre sia la stessa Nefertiti: e Tutankhamon sarebbe il figlio maschio tanto atteso dopo sei figlie. Se cosí fosse, la regina non sarebbe morta nell’anno dodici e non sarebbe neppure caduta in disgrazia: al contrario, secondo alcuni, avrebbe non solo mantenute tutte le sue prerogative di «grande sposa regale», ma avrebbe ella stessa assunto il ruolo e le insegne della regalità diventando faraone. Tale ulteriore ipotesi attualmente non ha piú molto credito: è sicuro che una donna è stata il successore di Akhenaton, ma quasi sicuramente non si è trattato di Nefertiti, bensí di una delle figlie della coppia regale. Non sappiamo altro della regina, inghiottita dalle vicende del periodo finale dell’età di Amarna, che dovettero essere particolarmente difficili per i componenti della famiglia regale. La morte di Akhenaton non solo pose fine alla sua rivoluzione, ma scatenò la


sei figlie per il faraone Akhenaton e Nefertiti ebbero sei figlie, spesso raffigurate nei rilievi in compagnia dei genitori: Meritaton, la maggiore, nata prima dell’ascesa al trono del padre; Maketaton, che morí a soli 10-12 anni e fu sepolta nella tomba reale di Amarna, nella quale un rilievo mostra i genitori che ne piangono la scomparsa; Anchensenpaaton, nata dopo il trasferimento della corte reale di Tebe ad Amarna, che sposerà Tutankhamon, divenendo regina d’Egitto con il nome di Anchesenamun; delle tre figlie piú piccole rimangono poche raffigurazioni nei rilievi nelle tombe private di Amarna. A sinistra: rilievo raffigurante Nefertiti che bacia una figlia, forse Meritaton, sotto i raggi del dio sole Aton. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). New York, Brooklyn Museum.

A destra: Meritaton, la figlia maggiore di Akhenaton e Nefertiti, sotto i raggi del dio sole Aton, particolare di un rilievo da un tempio di Tell el-Amarna. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Collezione privata.

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esclusiva nefertiti Non è il busto a essere un falso, ma…

Risale a poche settimane fa l’ultima, clamorosa «rivelazione» sull’avventurosa vita del busto di Nefertiti. A scatenare una nuova polemica non è, questa volta, uno scrittore e storico dell’arte – per quanto competente – come Henri Stierlin (vedi box a p 33), ma un conoscitore tra i piú autorevoli, a livello mondiale, del periodo amarniano, l’egittologo tedesco Rolf Krauss. Che, in una comunicazione pubblicata dalla rivista di egittologia statunitense KMT esprime una tesi per certi versi ancora piú sconcertante di quella di Stierlin: il busto di Nefertiti sarebbe giunto in Germania grazie a un raggiro, messo in atto dal suo scopritore, Ludwig Borchardt. Il quale, per rispondere alla legge dell’Egitto di allora che prevedeva la spartizione «à moitié exacte» dei reperti archeologici emersi dai nuovi scavi, avrebbe offerto all’ispettore delle antichità egizie Gustave Lefébvre (un francese al servizio dell’autorità coloniale britannica) un reperto anche’esso appena emerso dagli scavi: il rilievo raffigurante 38 a r c h e o

Akhenaton, Nefertiti e le figlie sotto i raggi di Aton, oggi conservato al Museo del Cairo (vedi foto nella pagina accanto). Peccato che, secondo quanto sostiene Krauss, quel pezzo tanto famoso è niente piú che un miserabile falso, commissionato da Borchardt a uno dei tanti artigiani-falsari attivi al Cairo. A sostegno della sua tesi, Krauss ha analizzato in profondità il rilievo in oggetto, mettendolo a confronto con un’altra stele, altrettanto famosa, ma conservata al Museo Egizio di Berlino sin dal 1898 (vedi qui sopra). Quest’ultima avrebbe fatto da modello al rilievo del Cairo che, però, mostrerebbe tali e tanti incongruenze stilistiche da rendere assolutamente improponibile una sua autenticità: a partire dalla raffigurazione di una delle figlie di Nefertiti, quella seduta in grembo alla regina, assai poco consona ai dettami dell’arte amarniana e assai piú simile «a un brutto ranocchietto». (red.)


L’originale e la sua... brutta copia

Il rilievo raffigurante Akhenaton e Nefertiti conservato al Museo Nazionale Egizio del Cairo e, nella foto della pagina accanto, lo stesso soggetto rappresentato sulla stele conservata al Museo Egizio di Berlino. Mentre datazione e provenienza di quest’ultimo sono accertati (proviene da Tell el-Amarna ed è un prodotto del periodo amarniano, XVIII dinastia, 1352-1334 a.C. per l’egittologo Rolf Krauss il rilievo del Cairo è un falso.

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Rilievo raffigurante Akhenaton e Nefertiti sotto i raggi del dio sole Aten. XVIII dinastia, regno di Akhenaton, periodo amarniano (1352-1334 a.C.). Il Cairo, Museo Nazionale Egizio.

reazione forse anche violenta dei suoi oppositori. Akhenaton e Nefertiti non furono sepolti nella tomba che per loro era stata predisposta nella necropoli di Amarna. Il corpo del sovrano venne portato a Tebe e forse sepolto in una tomba improvvisata (KV 55) della necropoli tebana: è il misero scheletro che molti ritengono sia appartenuto al grande faraone.

La mummia scomparsa E Nefertiti? Nulla sappiamo di quello che è stato del suo corpo. Ogni tanto viene annunciato il ritrovamento della sua mummia (o quello che resta del suo corpo): ma fino a oggi manca la prova certa della sua identificazione, che non può aversi se non da un’iscrizione che ne dichiari l’identità. Neppure nella tomba del suo possibile figlio, Tutankhamon, vi è traccia della regina. Nel suo corredo funerario, tra le molte «stranezze», è stata ritrovata un ciocca di capelli, che però non appartiene alla madre del giovane re, ma alla regina Ty, moglie di Amenhotep III e madre di Akhenaton, e quindi sua nonna: un altro dei misteri di questo periodo storico cosí tormentato. Questo arido elenco di dati storici e archeologici porta ben poca luce su una delle piú note regine dell’antico Egitto e contrasta in maniera visibile con la fama di cui essa gode nel mondo moderno: nell’antichità nessuno la conosceva, a parte l’entourage del sovrano durante il suo breve regno. È lecito domandarsi le ragioni di una tale popolarità. Un primo motivo può ricercarsi nel ruolo che essa può aver svolto nella rivoluzione amarniana. Nel valutare la complessa opera di rinnovamento della società egiziana compiuta da Akhenaton, per molti, studiosi e no, non è

neppure pensabile che la regina che sedeva al suo fianco non sia stata in qualche modo partecipe della sua opera: non vi è alcuna prova che essa abbia collaborato in tale impresa gigantesca, ma la sua presenza costante a fianco del sovrano nelle raffigurazioni dimostra che proprio questo egli abbia tenuto a mostrare ai suoi sudditi, almeno fino all’anno dodici.

L’immortalità raggiunta Nessuna delle altre spose o concubine di Akhenaton ha goduto di tale onore, neppure Kiya che fu regina secondaria e che cadde in disgrazia e scomparve dalla corte; eppure anche questa dama ha avuto una posizione importante; tanto che, secondo alcuni, potrebbe essere stata la madre di Tutankhamon. Non sappiamo se e fino a che punto Nefertiti appoggiasse il suo augusto sposo nelle sue sconvolgenti novità, né se sia vero che a un certo punto (il fatale anno dodici!) essa abbia compiuto una clamorosa secessione: ma, fino a prova contraria, dobbiamo credere a ciò che Akhenaton ci fa vedere. La luce che circonda la figura del grande faraone ha illuminato anche questa figura femminile, che sembra avere avuto il solo merito di averlo seguito nella predicazione della sua dottrina. Un secondo motivo va ricercato nel fatto che nella fase finale della sua vita è stato oggetto dell’arte del già citato Thutmosi: le sue raffigurazioni della regina sono tra le maggiori creazioni della scultura egiziana. Non si dimentichi che il busto di Berlino (della cui autenticità si è dubitato senza alcun fondamento) era semplicemente un modello di scultura che veniva presentato agli altri scultori dell’atelier perché lo «copiassero». Ma le altre sculture, quelle vere – non i modelli –, incompiute, che raffigurano la regina e le principesse, sono altrettanti capolavori a cui, bisogna confessarlo, si aggiunge il fascino dell’incompiuto. È l’arte di Thutmosi che ha reso immortale Nefertiti. a r c h e o 41


etruschi parco archeologico di carmignano

Principi di CARMIGNANO

di Stefano Mammini; con un’intervista a Gabriella Poggesi

All’ombra delle grandi ville medicee, in un contesto paesaggistico tra i piú belli della Toscana, è nato il parco archeologico allestito sui colli del Montalbano. Partendo dal Museo Archeologico di Artimino, il nuovo percorso tocca i siti etruschi della zona, tra cui il Tumulo di Montefortini, uno dei principali monumenti della regione

L

e strade che da Prato portano verso i colli del Montalbano, appena fuori il centro storico del capoluogo di provincia, tagliano un lembo della piana di Bisenzio in cui si susseguono capannoni industr iali grandi e piccoli, che oggi inalberano insegne con nomi perlopiú cinesi. Un segnale che non sorprende, perché gli anni del boom economico di marca pratese sono ormai lontani, ma che tuttavia sembra volere accentuare il divario fra la realtà attuale e quella di un tempo in cui questa zona visse un non meno formidabile sviluppo, legato alla felice posizione strategica di queste terre. Accadde in epoca etrusca, quando la presenza della grande civiltà preromana interessò anche il settentrione della Penisola e l’ampia valle del Bisenzio divenne una delle aree di cerniera fra le città della regione tosco-laziale e quelle del comprensorio adriatico e padano.

Una grande città nella valle Indizi della prosperità di Prato in età etrusca erano venuti alla luce una quindicina d’anni fa, quando, in località Gonfienti, durante i lavori per la realizzazione dell’Interporto 42 a r c h e o

Incensiere in bucchero, dal Tumulo C della necropoli di Prato Rosello, scelto come emblema del Parco Archeologico di Carmignano. Terzo venticinquennio del VII sec. a.C. Questo e gli altri reperti illustrati nell’articolo sono conservati nel Museo Civico Archeologico «Francesco Nicosia» di Artimino. A destra: veduta dall’alto della camera sepolcrale della tomba a tholos (con copertura a falsa cupola) del Tumulo di Montefortini (Comeana). 625-575 a.C.


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etruschi parco archeologico di carmignano cento camini per ferdinando de’ medici La villa medicea «La Ferdinanda» fu voluta da Ferdinando I (1549-1609) come dimora dove soggiornare con i propri ospiti nei periodi di caccia, all’interno del Barco reale, la grande riserva creata da Cosimo I. Il progetto fu affidato all’architetto di corte Bernardo Buontalenti (1536-1608) e l’edificio fu completato in soli quattro anni, dal 1596 al 1600. Dopo alterne vicende, la villa, poco frequentata da Ferdinando I e dai suoi successori e pressoché abbandonata dai Lorena, fu venduta nel 1782 ai marchesi Bartolomei. Poi passò in eredità ai Passerini, che la cedettero nel 1911 ai Maraini, a cui si devono vari interventi di restauro. Alla fine degli anni Cinquanta, fu acquistata da Emilio Riva che la spogliò della mobilia interna, vendendola all’asta. Dal 1970 la villa è di proprietà della Artimino s.p.a. e ospita convegni, cerimonie e altri eventi; dal 1983 al 2011 nei sotterranei ha ospitato il Museo Archeologico Comunale, ora trasferito nelle ex tinaie del Borgo. L’esterno – con i quattro avancorpi angolari e la struttura estremamente semplice – ricorda un edificio

di carattere difensivo-militare, una sorta di castellofortezza. La pianta è rettangolare. Il piano terreno, con i suoi grandi portoni che si aprono sui lati lunghi (uno sulla attuale facciata principale e l’altro sul retro), consentiva l’accesso ai cavalli e alle carrozze. Qui si trovavano anche l’armeria e le cantine. Dal piano interrato un corridoio scavato nella roccia conduceva a un’uscita segreta lontana dalla villa. Lo scalone esterno – completato con le due rampe laterali a tenaglia soltanto nel 1930 sulla base dei disegni del Buontalenti – consente la salita al piano nobile e alla loggia sostenuta da quattro colonne tuscaniche (che a loro volta sorreggono un timpano in cui è inserito un busto di Ferdinando I) e decorata con affreschi rappresentanti le Allegorie, realizzati nel 1599 da Domenico Cresti, detto il Passignano (1559-1638), a cui si deve anche la decorazione di alcuni ambienti interni. L’interno della villa per volere di Ferdinando I non ricevette una decorazione eccessiva. Piuttosto preziosi e ricchi dovevano essere, invece, gli arredi. Tra gli ambienti interni sono da segnalare la piccola

In alto: il borgo di Artimino, l’esistenza del cui castello è documentata almeno a partire dal 1026. A sinistra: ricostruzione della cosiddetta «tomba a pozzo» del Tumulo C della necropoli di Prato Rosello, detta anche «del Guerriero» per la presenza di una lunga punta di lancia e di altri oggetti riferibili alla sfera militare. Fine dell’VIIIinizi del VII sec. a.C.

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della Toscana Centrale, furono intercettati i resti di un abitato che si stima dovesse estendersi per alcune decine di ettari (vedi «Archeo» n. 193, marzo 2001). Ma, ben prima di quella scoperta, prove altrettanto consistenti della presenza etrusca erano emerse a piú riprese in molte zone del circondario, prima fra tutte quella che oggi ricade nel territorio del Comune di Carmignano, e sulla quale è imperniato il progetto dell’omonimo Parco Archeologico, che ha fatto il suo debutto ufficiale con l’inaugurazione del nuovo Museo Archeologico Comunale di Artimino, intitolato a


Cappella, interamente decorata dal Passignano; il salone dell’Orso che conteneva le tele di Giusto Utens (1599-1601), collocate nelle lunette, riproducenti le diverse ville medicee; l’appartamento di Cristina di Lorena, costituito da tre ampie sale da una delle quali si accede allo Stanzino del Poggiale, una piccola stanza da bagno completamente affrescata. L’edificio è noto anche come «villa dei cento camini» per la presenza di numerosi comignoli sul tetto, uno diverso dall’altro, tanti quanti sono le stanze interne, riscaldate durante le cacce invernali. La villa comprende anche due strutture staccate dal suo corpo principale: un edificio che ospita oggi un ristorante, ma che era in origine l’abitazione del primo maggiordomo di Ferdinando I, tale Biagio Pignatta, e la Paggeria, dimora della servitú, oggi adibita ad albergo. (red.)

Francesco Nicosia, che, negli anni in cui era soprintendente archeologo della Toscana, fu uno dei piú entusiasti artefici e sostenitori delle ricerche condotte sul territorio.

I vitigni di Caterina E, risalendo dunque da Prato verso i colli, Carmignano si comincia presto a scorgerla, dominata dalla Rocca e affiancata dalla Ferdinanda, la villa medicea che chiamano «dei cento camini», impronta maestosa di una presenza signorile che anche qui fu uno dei principali fili conduttori della storia locale. Come nel caso del vino: alle origini del Carmignano DOCG, uno dei prodotti di punta dell’enogastronomia locale (insieme ai fichi secchi), ci sono infatti una Medici, la regina di Francia Caterina, che, secondo la tradizione, avrebbe fatto trapiantare dalla Francia i vitigni con i quali si prese a realizzare la nuova qualità di rosso, e un suo discendente, il granduca Cosimo III. Quest’ultimo, nel 1716, fissò norme severe in fatto di vendemmia, definí i limiti dell’area entro la quale le viti potevano essere messe a coltura, stabilendo, di fatto, la prima deno-

In alto: La Ferdinanda, la villa medicea edificata tra il 1596 e il 1600 per volere di Ferdinando I, che ne fece la dimora in cui soggiornare con i propri ospiti nei periodi di caccia. A destra: la villa medicea vista dall’ingresso principale al borgo di Artimino, dominato da una torre merlata di impianto due-trecentesco.

minazione di origine controllata della storia. E, in un continuo gioco di rimandi fra passato e presente, al vino si lega anche il nuovo Museo Archeologico, perché la struttura che lo ospita, al termine di un lungo e impegnativo intervento di ristrutturazione, è quella che, fino a tempi non lontani, alloggiava i tini del borgo di Arti-

mino (che di Carmignano è oggi una delle frazioni). Il nuovo allestimento (che ha sostituito e ampliato quello in precedenza ospitato in alcuni locali della già ricordata villa La Ferdinanda) si propone non soltanto come vetrina dei materiali piú importanti e significativi fino a oggi recuperati nel territorio di Carmignano, ma a r c h e o 45


etruschi parco archeologico di carmignano la memoria affidata alla pietra Due cippi funerari in arenaria, da Artimino. Noti anche come «pietre fiesolane», questi monoliti venivano collocati in corrispondenza delle grandi tombe a tumulo, a ricordare la presenza della sepoltura. Fine del VI-inizi del V sec. a.C. In basso: le ex tinaie di Artimino, che ora ospitano il Museo Civico Archeologico intitolato a Francesco Nicosia.

funziona anche come introduzione alla conoscenza della aree archeologiche comprese nei confini del neonato parco. Nel segno di una concezione dinamica dell’istituzione museo, che non è pensata come semplice contenitore, ma vuole agire come ele-

dal «ribollir dei tini» alle etruscherie Il nuovo Museo Archeologico di Artimino, intitolato a Francesco Nicosia (1939-2009), che è stato a lungo soprintendente archeologo della Toscana e ha avuto un ruolo di primo piano nella promozione delle ricerche nel territorio di Carmignano, si articola su due piani, sfruttando gli ambienti che un tempo funzionavano come tinaie. Il piano superiore è dedicato alle testimonianze restituite dal «mondo dei vivi» (insediamenti e aree di culto), mentre il piano inferiore è interamente dedicato al «mondo dei morti» (necropoli). Per quanto riguarda gli abitati e i luoghi del culto, la documentazione si basa soprattutto sui reperti provenienti dall’insediamento di Pietramarina: l’insediamento fortificato posto sulla sommità della propaggine meridionale della dorsale del Montalbano. Dal sito provengono numerosi reperti, di varia tipologia, che ne documentano la nascita e lo sviluppo, che ha uno dei suoi momenti piú significativi in età ellenistica, quando viene realizzata una cinta muraria urbana che definisce nettamente lo spazio abitativo della città è quindi l’identità politica della collettività. Scendendo al piano inferiore si passa al «mondo dei 46 a r c h e o


Per meglio precisare i contorni dell’affresco storico che la visita del museo e del parco sono in grado di restituire, abbiamo chiesto a Gabriella Poggesi, direttore per i territori della Provincia di Prato e del Comune di Grosseto, di metterne a fuoco alcuni degli aspetti piú interessanti e significativi. Visitando il nuovo Museo Archeologico di Artimino, i materiali ci parlano, soprattutto, di una élite principesca, che certamente disponeva di risorse economiche notevoli. È comunque pensabile che la realtà artiminese fosse quella di un centro ricco, ma piccolo, o può darsi che ricerche future – anche in considerazione dell’ampiezza dell’area interessata dalla presenza delle necropoli – rivelino l’esistenza di una grande città? mento «parlante», in grado di interagire con il pubblico. Un obiettivo che sembra senz’altro raggiunto: visitando gli spazi delle ex tinaie, la rassegna dei materiali, in molti casi di eccezionale pregio storico-artistico, non appaga soltanto la ricerca del bello, ma risulta funzionale a

un discorso storico che si sviluppa fluido di sezione in sezione. E che vogliamo qui riproporre, naturalmente con l’augurio che i nostri lettori vogliano vivere in prima persona l’esperienza della scoperta di un comprensorio archeologico di sicuro interesse.

morti», ovvero allo spazio dedicato alle necropoli etrusche. Come nella sezione precedente, il percorso è organizzato in base alla distribuzione topografia dei complessi presentati e della sequenza cronologica, partendo dalla necropoli piú antica di Artimino, quella di Prato Rosello, che ha restituito testimonianze che vanno dall’orientalizzante antico all’età arcaica. L’esordio è affidato alla ricostruzione della tomba «del Guerriero» di Prato Rosello, dalla quale prende avvio un racconto che si snoda attraverso le principali testimonianze a oggi recuperate. «Sfilano», dunque, i magnifici materiali rinvneuti nelle altre tombe della necropoli di Prato di Rosello (i tumuli C, H, D, X, Z, W e A) e quelli provenienti dai grandi tumuli di Montefortini e Boschetti. Dove e quando Museo Civico Archeologico «Francesco Nicosia», Artimino, piazza San Carlo, 3; info: tel. 055 8718124; orario estivo (fino al 31 ottobre): lu-ma-gio-ve, 9,30-13,30; sa-do e festivi, 9,30-13,30 e 15,00-18,00; me chiuso; www.parcoarcheologicocarmignano.it

«Gli straordinari contesti che la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana ha riportato alla luce e valorizzato in oltre cinquant’anni di ininterrotta attività costituiscono una ricchezza non comune. Eppure siamo ancora lontani dalla comprensione esaustiva dei modi e dei tempi dell’urbaniz-

In alto: la sala del Museo di Artimino nella quale sono raccolte le «pietre fiesolane». A sinistra: incensiere in bucchero con decorazioni a traforo, dalla necropoli di Montereggi. VII sec. a.C.

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etruschi parco archeologico di carmignano

nel bosco del guerriero Procedendo dal borgo di Artimino in direzione di Prato Rosello, dopo aver percorso un lungo sentiero che consente una piacevole immersione nella flora e nella fauna locale, si giunge a un’ampia radura, quindi a un sentiero appena segnato nella viva roccia dove inizia la discesa verso la necropoli. Dall’alto si ha una straordinaria visione di questo versante del colle, che digrada in direzione del corso dell’Arno e che doveva apparire, fin dalle prime fasi della storia etrusca, costellato da tumuli. Numerose sono le tombe identificate – in buona parte già devastate ed erose nel corso dei secoli –, alcune sottoposte a indagini archeologiche con esiti particolarmente felici: i casi piú eclatanti, per quanto concerne i risultati delle ricerche, sono quello della tomba a pozzo di un guerriero (fine dell’VIII-inizi del VII secolo a.C.) rinvenuta intatta all’interno del Tumulo B e quello del Tumulo C con una tomba a camera rettangolare a pareti monolitiche, preceduta da un piccolo vestibolo e da una scala, che ha restituito l’incensiere di bucchero (VII secolo a.C.). Altri monumenti visibili sono la tomba a camera rettangolare del Tumulo B, con lungo corridoio di accesso e area lastricata antistante; il Tumulo A, con una tomba a camera a pianta rettangolare con corridoio di accesso; il Tumulo X, con una tomba a camera a pianta quadrangolare, con pareti costituite da elementi monolitici uniti a incastro e pavimento a lastre irregolari. Dove e quando la necropoli è liberamente accessibile, ma i tumuli sono recintati; vengono però organizzate visite didattiche, per le quali ci si può rivolgere al Museo Archeologico di Artimino, tel. 055 8718124. (red.)

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Qui sopra: uno dei grandi tumuli della necropoli di Prato Rosello. A destra: necropoli di Prato Rosello, Tumulo C. La tomba a camera rettangolare a pareti monolitiche, preceduta da un piccolo vestibolo e da una scala splendidamente conservata. Proviene da qui il magnifico incensiere in bucchero scelto come emblema del Parco Archeologico di Carmignano (vedi foto a p. 42).

zazione del territorio artiminese, soprattutto per i periodi piú antichi. Possiamo ipotizzare che – almeno a partire dalla fine dell’VIII secolo a.C. e nel corso dell’orientalizzante – un nucleo insediativo occupasse il pianoro compreso fra la villa medicea e il borgo di Artimino, ma che vi fossero contemporaneamente nuclei insediativi ubicati in aree diverse, come del resto attestano le diverse collocazioni delle necropoli (quindi non un centro unico, ma una forma di insediamento sparso). Questo ci viene confermato anche dai risultati di una recente campagna di scavo, effettuata in corrispondenza del pianoro del cosiddetto Campo dei Fagiani, ubicato a breve distanza dalla necropoli di Prato Rosello, sulla strada che collega la zona della villa medicea con la necropoli e poi con il sito di Poggio alla Malva. Qui è emersa parte di un’area abitativa – con strutture


quecento dall’architetto fiorentino Bernardo Buontalenti (1531-1608). La porzione di una struttura muraria imponente è da tempo nota anche presso Il Fontino, forse costruita a delimitare e terrazzare la parte estrema dell’insediamento etrusco, in corrispondenza delle pendici sud-orientali della collina di Artimino». Negli ultimi anni, soprattutto in Toscana, sono state avviate numerose ricerche sulla coltivazione della vite in età antica e in particolare in epoca etrusca. Esistono, a oggi, prove che anche nel territorio di Carmignano si praticasse tale attività e che dunque uno dei prodotti di punta dell’enogastronomia locale abbia un predecessore cosí illustre e antico?

a secco e massicciate, che accoglie un complesso sistema di raccolta delle acque, con canalette e pozzetti di diversa conformazione –, che ha restituito materiali tipici dell’agro fiorentino-fiesolano nel corso dell’Orientalizzante recente e che pertanto documenta per quest’epoca l’esistenza di un’area insediativa poco lontano dalla necropoli e coeva ad alcune fasi di quest’ultima. Sarebbe importante trovare la stessa corrispondenza insediamento-necropoli anche a Comeana, dove i due grandi tumuli di Montefortini e di Boschetti stanno a testimoniare l’esistenza di famiglie principesche, che dovevano controllare capillarmente questa precisa porzione di territorio; allo stesso modo andrà individuato il nucleo abitativo a cui riferire le sepolture di Grumaggio (fra Artimino e Poggio alla Malva), dove la sepoltura del IV secolo a.C. (con il cratere a figure rosse di tipo

volterrano e il vasellame bronzeo) sembra aver riutilizzato parte di un grande tumulo orientalizzante. Sulla base dei dati di cui oggi disponiamo credo che si possa parlare di città solo a partire dal IV secolo a.C., quando i diversi nuclei insediativi sembrano aggregarsi nell’area del pianoro che collega il borgo di Artimino con la villa Medicea (sinecismo): lo provano la presenza di un importante edificio sacro, di cui si conserva porzione del podio, visibile dietro l’attuale Paggeria; l’esistenza di porzioni di edifici e canali di drenaggio, emersi lungo la dorsale collinare a monte dell’attuale via papa Giovanni XXIII, che sembra ricalcare in parte una viabilità interna all’abitato etrusco; le tracce di una vera e propria cinta muraria etrusca di prima età ellenistica, individuate sotto il muro di terrazzamento della villa medicea realizzato alla fine del Cin-

«Negli ultimi anni si è spesso parlato del vino e del simposio nel mondo antico, riconoscendo un ruolo culturale importante alla viticoltura, per quanto concerne la produzione, la tecnica, i rapporti commerciali e culturali che ne derivano, l’uso e l’ideologia del vino. Inoltre, l’identificazione di vinaccioli prima di vite selvatica e poi di vite domestica in contesti archeologici dell’Italia centro-settentrionale documenta la diffusione generalizzata della pratica di questa coltivazione. Credo che questo valga anche per l’area artiminese – seppure a oggi manchino prove concrete derivanti da analisi paleobotaniche – e che il paesaggio non fosse troppo diverso da come si presenta oggi; il vino doveva essere assai apprezzato, come del resto dimostra lo splendido servizio da banchetto in bronzo da Grumaggio (una grande situla stamnoide con anse mobili decorate, un’olpe ornata sull’orlo da una serie di ovuli e palmetta sull’ansa, una taglia, un colino e tre piccoli kyathoi a rocchetto), il cui pezzo forte è senz’altro costituito dalla kelebe ceramica a figure rosse, attribuita a un artista del Gruppo Clusium-Volaterrae e databile intorno al 330-320 a.C.), sulla quale sono a r c h e o 49


etruschi parco archeologico di carmignano Un’altra immagine della «tomba a pozzo» o «del Guerriero», ricostruita nel Museo Civico Archeologico di Artimino. Il sepolcro, in realtà, si presentava come una cavità, profonda 3 m e del diametro di 3 m, rivestita da un cassone e poi coperta da una sorta di tumuletto cilindrico. Fine dell’VIII-inizi del VII sec. a.C. Nella pagina accanto: Pietramarina. La formazione rocciosa nota come Masso del Diavolo.

rappresentati non a caso personaggi a sostenere tale rango, riportando indietro all’incirca di mezzo secolo di un corteo dionisiaco». l’esistenza nel territorio artiminese Montefortini, Boschetti e gli al- di una classe di principes, che nella tri grandi tumuli sono strutture piena età orientalizzante (VII seconaturalmente riferibili alle classi lo a.C.) troverà le massime espreselevate; per quanto riguarda le sioni nelle tombe di Prato Rosello sepolture della «gente comune», e nei tumuli di Boschetti e sopratse a oggi individuate, dove sono tutto di Montefortini a Comeana. ubicate e quali sono le tipologie Le sepolture a oggi note sono tutte di livello alto, anche per quanto architettoniche piú diffuse? riguarda quelle riferibili al VI e V «A oggi sono attestate soltanto se- secolo a.C., con significative impolture di personaggi di alto rango, portazioni dal mondo greco: anzi, con strutture monumentali e rela- credo che la comunità artiminese tivi corredi, che indicano l’apparte- fosse assai conservatrice e attenta nenza dei defunti esclusivamente al alle tradizioni, come dimostra il fatto che i defunti venissero qui ceto egemone del territorio. Questo è evidente già nella strut- sistematicamente cremati – quando tura piú antica che conosciamo, altrove al rito dell’incinerazione si la cosiddetta «tomba a pozzo» del affianca quello della cremazione –, Tumulo B di Prato Rosello (fine che si continuasse a seppellire nella dell’VIII-inizi del VII secolo a.C.), stessa necropoli (Prato Rosello), dove la presenza del pettorale bron- che addirittura si ribadisse il legame zeo e delle armi di ferro – una lan- familiare all’interno di uno stesso cia dalla lunga asta e una spada cor- contesto monumentale inglobando, ta – identificano il defunto come senza arrecare danno, una sepoltura guerriero e come detentore di una e un tumulo - realizzati circa cinforte autorità, naturalmente basata quant’anni prima – nell’ambizioso sui presupposti economici necessari progetto di una importante tomba 50 a r c h e o

a camera, come accade nel Tumulo B di Prato Rosello». Oltre ai costanti arricchimenti che vengono dallo scavo di Pietramarina, quali potrebbero essere le direttrici lungo le quali indirizzare le ricerche future, per giungere a una sempre migliore definizione del contesto storico in cui inquadrare le realtà comprese nei confini del Parco? «La straordinaria fioritura che caratterizza il territorio artiminese in piena età orientalizzante – facilmente apprezzabile attraverso le strutture monumentali dei tumuli e i corredi funerari di pertinenza, che annoverano produzioni locali e importazioni di lusso, con ceramiche di particolare originalità, metalli e avori in quantità e di qualità eccezionale, vetri, ambra, gusci di uova di struzzo – è strettamente connessa all’esistenza di una classe egemone, che detiene il controllo delle terre, delle attività che vi si svolgono e soprattutto delle strade che le attraversano, dove transitano gli uomini,


la micene del montalbano L’insediamento fortificato di Pietramarina è ubicato sulla sommità della propaggine meridionale del Montalbano, a 585 m slm, in uno dei luoghi piú affascinanti del Montalbano. La posizione elevata e strategica, al confine occidentale del territorio di Artimino, consentiva di controllare una vasta area ed era un riferimento per chi utilizzava i percorsi di pianura o proveniva dai passi appenninici; fronteggiando Artimino, Fiesole e Volterra, permetteva di mettere in comunicazione con una triangolazione visiva questi grandi centri, e il retrostante medio Valdarno con la costa livornese, oggi visibile in condizioni atmosferiche ottimali (da cui il toponimo «Sasso Marino» ricordato già alla fine del Cinquecento). Dobbiamo inoltre supporre che Pietramarina fosse inserita all’interno di un sistema di comunicazioni a piú ampio raggio, che doveva varcare gli Appennini. Probabilmente in virtú di questa posizione strategica, il sito – all’interno del quale non doveva mancare un’area di culto – è stato occupato per un lungo arco di tempo, che al momento attuale è documentato almeno del VII al I secolo a.C, con tracce di frequentazioni medievali. Le ricerche sistematiche nella zona sono state avviate dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici della Toscana negli anni 1991-1996; dal 1999 sono state riprese dal Comune di Carmignano, in regime di Concessione, e sono tuttora in corso. La sommità del colle è racchiusa da una cinta muraria che ha uno sviluppo lineare approssimativamente calcolabile di 360 m circa, oggi visibile per un tratto sui lati ovest e sud. È larga 2,90 m circa, ha un paramento esterno e uno interno in opera poligonale con un apparecchio

di piccole dimensioni e, in diversi punti del tratto indagato, si conserva per circa 2 m di altezza. La sua costruzione si colloca in un orizzonte post-arcaico. L’area interna è estesa poco meno di un ettaro ed è occupata da diversi edifici, parzialmente indagati. Il piú imponente finora individuato (16,80 x 11,30 m circa) ha i lati lunghi orientati approssimativamente in senso Est-Ovest, con murature larghe oltre 1 m. È sorto nel punto piú elevato, precedentemente occupata da un insediamento capannicolo e da un primo impianto stabile, verosimilmente di età arcaica, e ha subito diversi interventi di ricostruzione presumibilmente fino all’età tardo-ellenistica. Dimensioni e continuità di uso dell’area fanno supporre una destinazione di carattere pubblico. In prossimità del lato meridionale della cinta muraria, subito all’interno di essa, sono stati messi in luce una bella struttura rettangolare lastricata e un vanomagazzino adiacente a essa nel quale alloggiavano ancora tre grossi orci (destinati al nuovo museo di Artimino), originariamente coperti da una tettoia distrutta da un incendio che ha lasciato tracce molto evidenti. Lungo questo fronte, dove giungevano presumibilmente i tracciati viari che provenivano da Artimino o direttamente dal corso dell’Arno tramite il guado controllato da Montereggi, sono evidenti i segni di una ristrutturazione di carattere monumentale dell’area di ingresso, che palesa un forte impegno della comunità che l’ha messa in opera. Dove e quando gli scavi sono visibili da maggio a novembre. (red.)

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etruschi parco archeologico di carmignano

le merci, le idee, le opportunità di conoscenza e di apertura culturale. Credo che in questa direzione debba andare la ricerca futura: è necessario comprendere meglio le dinamiche del popolamento del territorio nel senso piú vasto del termine, chiarire meglio la possibile viabilità antica, in particolare i collegamenti con la Valle del Bisenzio, dove nel VI secolo viene fondato e urbanisticamente pianificato il centro etrusco di Gonfienti, che

costituisce – a mio avviso - uno dei contesti piú interessanti della ricerca archeologica di questi anni, anche in relazione al ruolo che Artimino può avere svolto in questa importante scelta politica. Il territorio artiminese beneficia, infatti, di una posizione strategica rispetto a importanti assi stradali: da Artimino si poteva seguire una viabilità pedemontana, utilizzando anche il crinale del Montalbano, per indirizzarsi verso Pistoia e verso

carmignano e il suo territorio dopo l’età dei principi Nel territorio del Parco Archeologico di Carmignano sono comprese numerose località di grande interesse storico-artistico, a testimonianza di una vivacità culturale che ha segnato le tappe piú importanti della storia di questo comprensorio. Qui di seguito, proponiamo un itinerario che tocca alcune delle mete di maggiore rilievo. Nella stessa Carmignano una tappa da non mancare, situata sulla strada provinciale che dalla piazza Vittorio Emanuele corre in direzione EmpoliCapraia-Limite, è la pieve di S. Michele. Il complesso di S. Michele appartenne al convento di S. Francesco, fondato da Bernardo di Quintavalle, e dalla fine del XVII

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la valle dell’Ombrone e raggiungere la valle del Reno e l’area bolognese tramite i passi appenninici (per esempio il passo di Collina), o per guadagnare il corso dell’Arno passando dall’etrusca Montereggi. Un punto di riferimento per i collegamenti artiminesi doveva essere il vicino sito di Pietramarina, la cui sommità risulta occupata per tutta l’età etrusca – almeno dal VII secolo a.C. – fino all’età imperiale; Pietramarina, ubicata in prossimità

secolo soppresso. La chiesa di S. Michele, costruita nel 1349 nello stile gotico corrente, nel corso dei secoli ha subito varie trasformazioni, 1 come la facciata, a cui fu aggiunto un porticato rinascimentale, con archi a tutto sesto su colonne in pietra serena. L’interno è a un’unica navata; di notevole bellezza il chiostro, posto sulla destra, caratterizzato da colonne tuscaniche. All’interno è possibile ammirare notevoli opere pittoriche realizzate da alcuni tra i piú famosi pittori del Rinascimento Fiorentino, tra i quali spicca il nome di Jacopo Crucci, noto come il Pontormo, al quale si deve la Visitazione (1), dipinto commissionato


Comeana. Il vialetto che conduce al Tumulo di Boschetti (qui sotto) e la camera sepolcrale del momumento funerario (a sinistra). VII sec. a.C. In basso: cartina del territorio di Carmignano, con i siti archeologici e delle località citate nell’articolo.

In prossimità dell’ultima curva della strada d’accesso al paese di Comeana sorge il tumulo dei Boschetti, con breve dromos in discesa, sbarrato da una grande lastra in pietra serena che delimita l’accesso a un piccolo vestibolo rettangolare. Da qui si raggiunge la cella funeraria, chiusa da un lastrone, con pareti costituite a loro volta da elementi litici di notevoli dimensioni, accuratamente connessi a incastro, in modo da conferire tensione e stabilità all’intera struttura, che dobbiamo immaginare in origine coperta dalla terra del soprastante tumulo emisferico. La cella è pavimentata da lastre irregolari e accoglie, in corrispondenza della parete di fondo, una piccola teca quadrangolare, forse utilizzata per contenere una sepoltura a incinerazione. I reperti recuperati sembrano suggerire la presenza di almeno due sepolture a incinerazione, databili nell’ambito della prima metà del VII secolo a.C.; fra gli oggetti di maggior pregio, esposti nel Museo di Artimino, si ricordano quelli in avorio; fra i metalli, oltre alle armi, sono presenti fibule in ferro e una presa bronzea conformata a fiore di loto; fra i reperti ceramici sono attestate forme di notevole originalità. Dove e quando il Tumulo di Boschetti si trova in via Lombarda (Comeana) ed è sempre visibile. (red.) Agli Agl Ag g ana gli gl an n

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della cima meridionale del Montalbano, a poco meno di 600 m slm, in direzione ovest controlla il Valdarno inferiore, mentre sull’altro versante si apre sulla piana Firenze-PratoPistoia, garantendo il collegamento visivo rispetto ad Artimino e rispetto a Fiesole e a Volterra. Artimino poteva raggiungere facilmente l’area bolognese e i mercati dell’Adriatico anche attraverso quella parte di piana oggi nota come Gonfienti. Con un percorso di

un sepolcro piccolo, ma ricchissimo

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Tumulo dei Boschetti Tumulo di Montefortini Museo Archeologico di Artimino Villa medicea Sig Si Sign S ign ig gna La Ferdinanda

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dalla famiglia dei Pinadori e Vinc inc ncci n realizzato tra il 1537 e il 1538. Vito to olini lini n Dalla chiesa di S. Michele, si può Sant’Ans Sant ant’Ans An nsano n n proseguire in direzione EmpoliCapraia-Limite e, prendendo la prima strada a destra, via Chiti, e poi imboccando via di Castello si giunge alla Rocca di Carmignano (2). Costruita nel XII secolo, la Rocca è stata teatro di numerosi scontri per il controllo definitivo del territorio. Oggi, si conservano alcuni resti della struttura fortificata, risultato delle molteplici trasformazioni subite dall’antico castello, tra cui i muri di recinzione esterni, realizzati nel XIV secolo, e la torre con la campana (perciò chiamata «il campano»). Grazie

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alla sua posizione dominante, il castello offre ai visitatori una suggestiva veduta che abbraccia Firenze, Prato, Pistoia e le colline circostanti. Tornando verso il centro della cittadina, in piazza Vittorio Emanuele, è possibile visitare il Museo della Vite e del Vino (3). Inaugurato nel 1999, il museo mira a promuovere la qualità del vino di Carmignano e a r c h e o 53


etruschi parco archeologico di carmignano In basso: coppa in vetro turchese, dalla tholos del Tumulo di Montefortini a Comeana. È possibile che questo straordinario oggetto sia opera di artigiani siriani o fenici, piuttosto che assiri, e sia stato importato eccezionalmente in Occidente. Nella pagina accanto: l’ingresso al vestibolo della tomba a tholos del Tumulo di Montefortini.

e sotto la falsa cupola... un «giacimento» d’avorio Lo straordinario sviluppo culturale e artistico che interessa il territorio di Carmignano durante il periodo orientalizzante della storia etrusca, appare evidente soprattutto a Comeana, dove le due tombe monumentali di Montefortini e dei Boschetti suggeriscono l’alto livello raggiunto dalla committenza locale nel corso del VII secolo a.C. Il complesso monumentale etrusco di Montefortini (seconda metà VII secolo a.C.) è il punto di riferimento essenziale per la conoscenza dello straordinario sviluppo culturale del territorio di Carmignano in età orientalizzante ed è uno dei piú importanti monumenti archeologici della Toscana. La collinetta artificiale, alta

oggi 12 m e delimitata da un tamburo, ospita al centro una tomba a tholos, con vestibolo e cella circolare del diametro di oltre 7 m, con una mensola ricorrente prima dell’imposta della falsa cupola. La tholos – cui afferisce anche una terrazza-altare destinata alla prothesis del defunto, ortogonale al tamburo e delimitata da una pseudo-gradinata – ha restituito un ricchissimo corredo funebre, sottoposto a un complesso intervento di restauro oggi in fase di ultimazione, che annovera una rara coppa di vetro turchese, una serie di piatti su alto piede di bucchero caratterizzati da un repertorio assai vario di decorazioni incise, una quantità straordinaria di oggetti d’avorio scolpiti ad alto e basso rilievo, a tutto tondo, oppure incisi o lavorati a traforo: si tratta di placchette, piccole figure femminili e maschili, ma anche animali, elementi floreali, oppure pettini, che proiettano le

grandi famiglie etrusche del territorio in un vasto circuito di relazioni politiche ed economiche internazionali. Questi reperti sono ora compresi nel percorso espositivo del nuovo Museo Archeologico di Artimino. Alcuni anni dopo, a seguito di un crollo forse dovuto a un forte sisma, viene realizzata l’adiacente tomba a camera rettangolare, con monumentale corridoio d’accesso a cielo aperto in fondo al quale un grande portale trilitico consente l’accesso al vestibolo quadrangolare e quindi alla cella, con mensola ricorrente in corrispondenza della parte superiore delle pareti e copertura a lastroni aggettanti a falsa volta. I reperti pertinenti a questo secondo corredo, assai frammentari a causa dei ripetuti saccheggi nel corso dei secoli, attestano comunque la ricchezza della famiglia e le sue potenzialità di rapporti anche internazionali. I lavori di scavo, di restauro e di valorizzazione del complesso si sono svolti durante alcuni decenni a partire dal 1966, impegnando

2 raccontare come hanno fatto gli abitanti di questo fiorente Comune a portarlo ai livelli di oggi. Il percorso museale offre anche una postazione virtuale che illustra le tecniche di produzione vinicola e il percorso del vino dalla campagna alle cantine. Dalla Rocca di Carmignano, ripercorsa via di Castello e via Chiti, tornare sulla strada provinciale, proseguire in direzione Empoli-Capraia-Limite, attraversato il paese di Santa Cristina a Mezzana e superato un incrocio con semaforo in località Madonna del Papa, si trova l’abbazia di S. Giusto (4), in località Pinone, via Montalbano. Fondata tra l’XI e il XII secolo e designata come «canonica» nel XIII secolo, è ricordata

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dalla tradizione come sede di una piccola comunità monastica. La leggenda afferma che sia stata eretta in una sola notte da un monaco e contemporaneamente alla costruzione, da parte di un altro monaco, della chiesa di S. Baronato (distante 8 km). Si narra che i due religiosi si scambiavano l’unica mestola e il martello grazie all’allungamento del braccio dovuto alla fede. Fungeva da punto di sosta e riposo per i viandanti in pellegrinaggio. La sua struttura risente dell’influenza dell’architettura monastica cluniacense. Il portale e la bifora (finestra con due aperture) sulla facciata sono caratterizzate da inserti in marmo bianco e serpentino verde. Lungo il lato sinistro dell’edificio, uno stretto passaggio separa il campanile dalla struttura principale della chiesa; sul retro tre absidi si trovano


notevoli risorse finanziarie e umane della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Mentre questi lavori procedevano, è stato sempre possibile visitare la tomba a camera rettangolare, la piú recente delle due strutture funerarie accolte nel tumulo. I lavori del 2005 sono stati invece finalizzati all’apertura al pubblico anche della tomba a tholos e alla sistemazione interna ed esterna dell’area, con la realizzazione degli impianti di illuminazione - che consentono anche la fruizione

notturna del complesso -, degli accessi e delle rampe: in particolare è stata collocata una scala in acciaio, sospesa alle travature della copertura della tholos e corredata di servo-scala, che consente la visione dall’alto della tomba circolare. Dove e quando il tumulo si trova in via Montefortini (Comeana); orario: lu-sa, 9,00-14,00; possibilità di visite didattiche: info e prenotazioni presso il Museo Archeologico di Artimino, tel. 055 8718124. (red.)

fondovalle, che prendeva avvio da Comeana, si arrivava infatti nella valle del Bisenzio, dove – non a caso – in età arcaica viene fondato un nuovo centro presso Gonfienti - urbanisticamente pianificato sia all’interno dell’area urbana che nel circostante territorio a uso agricolo -, che deve la sua stessa esistenza alla evidente ubicazione strategica, essendo situato sulla principale via di transito fra il “territorio fiesolano” e l’Etruria Padana. Il Bisenzio segna infatti una via naturale verso il valico di Montepiano – facilmente accessibile per la moderata altitudine che supera di poco i 700 m – e quindi verso l’area bolognese; attraverso la val di Setta si raggiunge Marzabotto, il centro “gemello” di Gonfienti, con il quale fra il VI e il V secolo a.C. quest’ultimo condivide la vocazione di controllo di ampi territori, delle relative reti viarie, degli scambi commerciali. Gonfienti appare nello stesso tempo punto di arrivo, da una parte della viabilità interna che univa l’Etruria Meridionale a Chiusi e alla val di Chiana, a Firenze (con il guado dell’Arno)-Sesto Fiorentino, a Calenzano-Travalle, dall’altra della via fluviale che dalla costa tirrenica risaliva il corso dell’Arno, e infine punto di partenza dell’attraversamento transappenninico e del raggiungimento della costa adriatica, a salvaguardia degli interessi di Fiesole, di Artimino e delle rispettive ampie reti di collegamento, che

3 a conclusione dell’unica navata, con semipilastri alle pareti, di cui è composto l’interno caratterizzato da un’elegante sobrietà. La chiesa è attualmente visitabile soltanto dall’esterno. Dall’abbazia di S. Giusto, tornando indietro in direzione Carmignano, si può raggiungere la località Madonna del Papa, e, di lí Bacchereto, che fu uno dei castelli a cui il Comune di Pistoia rinunciò nel 1329 a favore dei Fiorentini, a condizione che vi potessero abitare tranquilli guelfi e ghibellini. L’abitato si trova a una quota di 232 m. Fin dal Medioevo, Bacchereto ha costituito un importante centro di produzione della ceramica, cosí come

testimoniato da numerosi reperti individuati negli scarichi delle fornaci. A Bacchereto è inoltre possibile visitare la pieve di S. Maria con a fianco l’Antiquarium delle Maioliche. La pieve conserva ancora, nella loro forma originaria, l’impianto originale e la massiccia torre campanaria, che ricorda l’antico fortilizio qui costruito. L’attuale aspetto neo-classico della chiesa è frutto della ristrutturazione del 1835. L’Antiquarium conserva i materiali che provengono dallo scavo di una discarica di fornace scoperta in località Novellato nel 1974 e che testimoniano l’esistenza a Bacchereto di una fiorente produzione di ceramiche tra il Medioevo e il Rinascimento. Sono stati rinvenuti frammenti di maioliche appartenenti a

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etruschi parco archeologico di carmignano Qui sotto: placchetta in avorio scolpito a bassorilievo, con l’immagine di un personaggio armato di una lancia corta e di un grande scudo ovale. Dalla tholos del tumulo di Montefortini a Comeana. Metà del VII sec. a.C.

A sinistra: placchetta in avorio raffigurante il cosiddetto Principe dei Gigli, dalla Tomba di Montefortini. Seconda metà del VII sec. a.C.) A destra: centauro in avorio sul cui dorso sta un cerbiatto.

privilegiano le valli fluviali, in particolare in direzione di Volterra e verso la costa grossetana». Le «meraviglie» esposte nel Museo – mi riferisco in particolare agli incensieri e agli avori – sono riconducibili a maestranze locali o potrebbero essere frutto di importazioni o dell’intervento di maestranze «straniere» chiamate a soddisfare le richieste della committenza locale?

diverse classi ceramiche (maiolica arcaica, caratterizzata dal colore rosso mattone dell’impasto e dal rivestimento di smalto bianco decorato con verde ramina e bruno manganese, con punte di giallo nella cosiddetta 4 «famiglia verde»; la maiolica arcaica blu e la zaffera a rilievo caratterizzate dall’impasto chiaro rivestito di smalto bianco decorato con motivi in blu cobalto e in bruno manganese, con gocce di colore a rilievo nella zaffera; la «famiglia tricolore» nella quale la decorazione è realizzata in blu, verde e bruno; la maiolica italo-moresca, caratterizzata da un impasto chiaro molto depurato, coperto con smalto bianco e decorato in blu cobalto associato, in una fase

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«Alcuni prodotti documentano arrivi diretti di oggetti dal Vicino Oriente (mi riferisco alla coppa di vetro azzurro restituita dalla tholos di Montefortini o ad alcuni esemplari in avorio, dove le caratteristiche del volto di alcuni personaggi ivi raffigurati richiamano fortemente i caratteri somatici ancora tipici di quelle popolazioni) o comunque realizzati da artigiani di formazione orientale trasferiti in Etruria, padroni di raffinate tecnologie e di alte specializzazioni. Ma nei prodotti

avanzata della produzione, al bruno, al giallo o all’arancio e talvolta al verde; maioliche rinascimentali monocrome; maiolica ingabbiata e graffita, caratterizzata da un impasto rossoarancio rivestito di smalto bianco dipinto, con decorazioni incise a punta, oltre a vasellame difettoso, a ceramiche acrome grezze di uso domestico e altri reperti illuminanti circa la tecnologia della fornace, come alcuni distanziatori cilindrici che servivano per separare i vasi impilati uno sull’altro durante la cottura. Da Bacchereto, proseguendo fino a Seano, è possibile visitare la pieve di S. Pietro, che conserva al suo interno un crocifisso e un tabernacolo quattrocenteschi oltre a


di lancia di ferro della «tomba a pozzo» del tumulo B di Prato Rosello. È, infatti, un’arma di dimensioni particolarmente grandi e viene da chiedersi quale potesse esserne l’uso... «Alcuni frammenti di legno, recuperati in corrispondenza del punto di inserimento dell’asta e sottoposti a esame mediante microscopio elettronico a scansione (SEM), hanno dimostrato che la grande cuspide di lancia era collegata a un sostegno di frassino (Fraxinus excelsior). Il frassino, per le sue ottime capacità di resistenza alle sollecitazioni dinamiche, viene utilizzato proprio per la realizzazione di armi ad asta, come ci ricorda Plinio per il periodo romano (Naturalis Historia XVI, 43) e come narra Omero), descrivendo l’asta di frassino della lancia del Pelíde Achille (Iliade, XXII, 288), o quella di Aiace (Iliade, XVI, 159), in un periodo storico che dovrebbe in avorio si possono riconoscere degli artigiani/artisti, che operava- grosso modo coincidere con quelvarie “mani”, riconducibili anche no nelle botteghe del territorio e lo in cui viene costruita la tomba a botteghe che dovevano operare che sapevano coniugare profondi a pozzo del tumulo B. La lancia nel territorio e “servire” le famiglie bagagli di conoscenza con le esi- di Prato Rosello – che rammenpiú importanti, sia del territorio genze di una selezionata commit- ta da vicino questi rituali funeradi Artimino che della non lontana tenza locale, si coglie anche nel- ri di omerica memoria e proietta Sesto Fiorentino, dove gli oggetti la produzione degli incensieri di Artimino in un vasto mondo di d’avorio della Tomba della Mula e bucchero, pezzi unici realizzati in conoscenze e rapporti - per le sue della Tomba della Montagnola (VII Etruria e caratterizzati da motivi dimensioni eccezionali e per il peso secolo a.C.) mostrano chiare affini- decorativi che possiamo facilmente che doveva comportare, sarà stata funzionale a identificare un ruolo tà sia per la tecnica di realizzazione riconoscere anche sugli avori». in un contesto di parata, piuttoche per il repertorio ornamentale Fra i reperti esposti nel museo, sto che normalmente utilizzata in con gli esemplari artiminesi. La qualità e la vivacità intellettuale suscita curiostà la grande punta combattimento».

una tavola, opera di Domenico Frilli Croci. Oltrepassata la chiesa, girando nella prima strada a destra (via Pistoiese), dopo il ponte, si trova il Parco Museo Quinto Martini. Il Parco Museo Quinto Martini rappresenta, fin dal momento della sua ideazione, una fusione tra l’arte e il territorio. Il Parco si trova ai piedi delle colline di Carmignano e fu inaugurato nel 1998. Qui è possibile ammirare trentasei sculture in bronzo opera dell’artista Quinto Martini (1908-1990). Le statue costituiscono un’esemplificazione dell’evoluzione creativa dell’artista dal 1931 fino al 1987, attraverso la sua ricerca di una semplificazione formale, ispirata sia alla tradizione

classica che alle novità delle avanguardie francesi e italiane del XX secolo. Dal Parco, si può tornare verso Carmignano 5 quindi proseguire in direzione di Artimino, cosí da incontrare, lungo la strada, sulla destra, la pieve di S. Leonardo (5). Fu probabilmente eretta prima del X secolo e inizialmente dedicata a Santa Maria e San Giovanni, anche se la tradizione la vuole fondata nel 1107 da Matilde di Canossa. Recenti restauri hanno riportato alla luce il singolare impianto romanico dell’edificio: ben conservati sono i fianchi e la parte posteriore dove sono visibili le pregevoli absidi dotate di un ordine di monofore.

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storia le origini di roma/6

tullo la guerra come di Daniele F. Maras

ragion di Stato

La battaglia di Tullo Ostilio contro i Veienti e i Fidenati. Olio su tela del Cavalier d’Arpino (al secolo Giuseppe Cesari, 1568-1640). 1595-1598. Roma, Galleria Borghese.


ostilio

Dopo un lungo periodo di pace, Roma fu governata da uno dei primi artefici della sua espansione, perseguita con una politica aggressiva, basata sul ricorso alle armi. Della quale divenne simbolo il duello fra gli Oriazi e i Curiazi, che presto si trasformò in uno degli episodi fondanti della potenza capitolina

T

erzo re di Roma fu Tullo Ostilio, di origine latina, nel rispetto del criterio di alternanza che aveva segnato il succedersi della coppia Romolo-Tito Tazio e del sabino Numa. Il confronto con il suo predecessore venne accentuato dagli autori antichi, che attribuivano a Numa un’età di pace e prosperità e, per contrasto, assegnavano a Tullo il ruolo di capo militare aggressivo e bellicoso. Il re discendeva da un certo Osto (in latino Hostus), che era stato compagno d’armi di Romolo al tempo delle guerre contro i Sabini. E, in effetti, il rapporto tra il nome Hostus e il patronimico Hostilius – che ricalca quello tra Pompo e Pompilius già visto per il secondo re – è una conferma della nascita del nome gentilizio a partire dagli originari nomi personali individuali.

Contro la «città madre» La sete di conquista del nuovo re si rivolge verso i Latini e, in particolare, contro l’antica «città madre» di Alba Longa, con la quale nasce per Roma una questione di primato di autorità. Inoltre, da un punto di vista strategico, la sconfitta dei Latini o, perlomeno, il raggiungimento di un trattato di pace vantaggioso per Roma, era il punto di partenza indispensabile per poter avere le spalle coperte a sud e organizzare campagne militari nei confronti degli Etruschi verso nord, proseguendo le a r c h e o 59


storia le origini di roma/6 operazioni di conquista già iniziate da Romolo molti anni prima. Nel corso del VII secolo a.C., infatti (e in genere per tutta l’età arcaica), Roma si trova a confrontarsi con la sua potente vicina, Veio, che aveva consolidato il proprio possesso del territorio fino alle porte dell’Urbe. Tutta la riva destra del Tevere veniva definita senza mezzi termini «veien-

te», e nella sfera d’influenza della città etrusca rientravano anche i Falisci e i Capenati (stanziati a nord-est di Roma) e, sulla riva sinistra del fiume, la città latina di Fidene (presso l’omonimo quartiere che oggi si estende sulla via Salaria).

quindi, il re Tullo Ostilio voleva che lo scontro con i Latini di Alba Longa volgesse a vantaggio di Roma, senza sguarnire le sue difese e le sue potenzialità offensive. Racconta Tito Livio in proposito che «per caso c’erano nei due eserciti [degli Albani e dei Romani] due terne di gemelli, di forze ed età Gli Orazi e i Curiazi Avendo questo obiettivo in mente, comparabili, che si dice si chiamassero Orazi e Curiazi» (anche se lo storico non è sicuro di quali fossero i fratelli romani e propende per i il collegio dei feziali primi solo in base al numero magI cosiddetti «Feziali» costituivano un collegio sacerdotale depositario giore delle fonti al riguardo). degli atti di culto per le solennità e le formalità necessarie per stipulare Sebbene in un primo tempo avesun trattato o per dichiarare guerra in piena conformità al diritto. Il loro sero pensato di battersi essi stessi in portavoce era chiamato Pater Patratus (nome dal significato ancora non un duello,Tullo Ostilio e il re d’Alchiarito; il primo a essere ricordato dagli autori antichi è proprio Spurio ba Longa, di nome Mezio Fufezio, Fusio, che intervenne nelle relazioni con Alba Longa sotto Tullo Ostilio). trovarono ben presto un accordo, L’azione religiosa dei Feziali si svolgeva attraverso precise domande e rimettendo il possesso del ruolo invocazioni rituali, espresse secondo un formulario rigoroso, a cui dominante nel Lazio antico al ricorrispondevano alcune azioni simboliche: in particolare, il collegio era sultato di una sfida tra i due grupgarante del rispetto dei giuramenti nel caso di patti o trattati (per i quali pi di fratelli. L’aspetto favoloso delveniva invocata la testimonianza di Giove) e si occupava di intimare un vero e proprio ultimatum ai nemici contro i quali Roma intendeva muovere guerra: trascorsi trenta giorni dalla minaccia, il Pater Patratus avrebbe aperto le ostilità gettando oltre il confine un’asta con un puntale di ferro oppure un giavellotto di corniolo.

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la storia non mancò di stupire gli autori antichi, che insistevano sugli scherzi del caso (come Livio) oppure rinviavano tutto a un preciso disegno degli dèi (come Dionigi d’Alicarnasso), ma non osarono neppure insinuare che i fatti potessero essere andati diversamente. La sfida fu organizzata e i contendenti prestarono solenne giuramento di vincere o cadere per la patria: il patto sacro fu suggellato dal sacerdote Marco Valerio secondo il rito feziale, documentato in questa occasione per la prima volta (vedi box nella pagina accanto).

La cosiddetta Tomba degli Orazi e Curiazi, in realtà un sepolcro della tarda età repubblicana situato lungo via Stella, nei pressi di via Appia Antica, ad Albano Laziale (Lazio).

Sfida all’ultimo sangue Lo scontro fu subito aspro e cruento e, sebbene alcune fonti insistano sulla parentela tra i gemelli Orazi e Curiazi, che sarebbero stati cugini di primo grado e sarebbero addirittura cresciuti assieme, i terzetti non

I contendenti prestarono giuramento agli dèi: vincere o cadere per la patria Il giuramento degli Orazi. Olio su tela di Jacques-Louis David (1748-1825). 1784. Parigi, Museo del Louvre. Il soggetto del dipinto si riferisce a un episodio leggendario della tradizione romana, riportato dallo storico Tito Livio. Nel quadro i tre fratelli Orazi, rappresentanti della città di Roma, ricevono le armi dal padre, giurando di vincere o morire nel duello contro i tre Curiazi, cittadini della rivale Alba Longa.

uno spettacolo gladiatorio e un rituale religioso, era ormai conclusa con la vittoria di Roma, che, in festa, portava in trionfo il suo campione assieme ai corpi dei caduti e esitarono a colpire per uccidere, nel alle spoglie dei vinti. nome della patria e del voto fatto agli dèi. Ben presto sul terreno ri- Un delitto mai pagato masero due degli Orazi, mentre i tre A questo punto la storia, nel racCuriazi, benché feriti, erano ancora conto tramandato dalle fonti, prentutti in vita. L’ultimo campione del- de una curiosa piega giuridica, perla parte romana cercò allora di fug- ché l’ultimo degli Orazi, nel tornagire di fronte ai nemici, attirando su re a Roma da trionfatore, incontrò di sé grida di scherno e di ignomi- sua sorella che, invece di accoglierlo nia da parte degli spettatori di en- con gioia o rammaricarsi della trambi gli schieramenti. morte degli altri due fratelli, pianse Ma la sua fu una tattica vincente, sulle spoglie di uno dei Curiazi, che perché i Curiazi colpiti non riusci- era stato suo promesso sposo. Il frarono a correre affiancati e si sparpa- tello, allora, fu preso dall’ira per gliarono nel tentativo di catturare il l’insulto che, a parer suo, l’infelice Romano superstite, che poté cosí ragazza aveva portato alla stessa vitaffrontarli uno alla volta e ucciderli toria di Roma e, sguainata la spada, in duello. la uccise sul posto. Il significato religioso del massacro In perfetta coerenza con il rispetto viene ribadito dall’Orazio vincitore della legge, i Romani portarono nel momento in cui offre i primi immediatamente l’omicida in giudue nemici vinti ai «Mani» dei fra- dizio di fronte al re perché fosse telli morti (come a dire alla loro condannato in flagranza di reato; anima divinizzata) e sacrifica il ter- ma, a difesa dell’Orazio, si erse adzo alla causa della guerra, «perché il dirittura lo stesso padre, il quale in Romano regni sull’Albano». considerazione delle azioni comLa sfida, che si immagina a metà tra piute dal campione romano in noa r c h e o 61


storia le origini di roma/6

il colle che non c’è piú Nel 1924 il governo di Benito Mussolini decise la costruzione della via dell’Impero (l’odierna via dei Fori Imperiali), che doveva servire a congiungere piazza Venezia con il Colosseo. I lavori richiesero enormi movimenti di terra e demolizioni, terminati solo nel 1932. I giornali dell’epoca elogiarono l’operazione edilizia, che recuperava la vista del Colosseo, fino ad allora incassato nella vallecola in cui era stato costruito, alla città dei Sette Colli. Senza però rendersi conto, allora, del fatto che, in realtà, l’immenso sbancamento necessario per spianare la sede stradale stava letteralmente cancellando un pezzo di quei «Sette Colli»: una parte della cosiddetta Velia, che congiungeva le due alture del Palatino e del Fagutale, estremità dell’Esquilino, chiudendo verso nordovest la valle del Colosseo. Gli archeologi dell’epoca, come Antonio M. Colini e Antonio Muñoz, furono chiamati a seguire le demolizioni, documentando con quanta piú cura possibile i resti archeologici che per poco tempo venivano portati alla luce prima di essere definitivamente abbattuti. Agli scavi di via dell’Impero, nel 2009, è stata dedicata una mostra ai Musei Capitolini, «Via dell’Impero. Nascita di una strada» (vedi «Archeo» n. 294, agosto 2009), che attraverso le fotografie e i giornali di scavo dell’epoca ricostruiva le scoperte che si susseguirono in quei giorni, tra cui quella del cosiddetto Compitum Acilii, luogo sacro presso un incrocio stradale, vicino al quale si trovava il tigillum sororium. Il livello dell’originaria collina è oggi ancora apprezzabile se si guarda alle imponenti fondazioni del tempio di Venere e di Roma, sulla destra all’incrocio con piazza del Colosseo, che oggi si ergono ben piú in alto del piano di calpestio attuale, a testimonianza dell’altezza della Velia scomparsa.

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Qui sopra: Roma. I lavori di spianamento della Velia in una foto scattata dal Colosseo. Il colle, una sella che congiungeva il Palatino al Fagutale, fu tagliato negli anni Trenta del Novecento per l’apertura di via dell’Impero (oggi via dei Fori Imperiali). Nella pagina accanto: la Roma dei Sette Colli.

me del popolo, sollevò una questione di competenza giudiziaria tra il re e il popolo stesso di Roma nel caso in esame. Tullo Ostilio, in funzione di interprete della legge, rimise al popolo il giudizio, che commutò la pena capitale, prevista per l’omicidio, in una pena simbolica: l’imputato sarebbe dovuto passare sotto un travicello, il cosiddetto tigillum sororium, posto a memoria dell’evento in un luogo consacrato alla ragazza uccisa sulla collina della Velia (vedi box in questa pagina) e ancora visibile nel I secolo a.C., quando Tito


le puntate di questa serie • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio, un re voluto dagli dèi • Tullo Ostilio: la guerra come ragion di Stato • Anco Marzio e la fondazione di Ostia • Tarquinio Prisco e il tempio di Giove • Gli Etruschi a Roma • Servio Tullio e la riforma dello Stato • Tarquinio il Superbo • La nascita della Repubblica Livio scrisse la sua opera. Quanto i Romani credessero a questa storia – che, palesemente arricchita di elementi leggendari e religiosi, serviva a raccontare il mito delle origini del diritto feziale, del primato di Roma sui Latini e del santuario della Velia –, appare evidente se si considera che il delitto impunito dell’Orazio costituiva un valido precedente di assoluzione per un omicida reo confesso. Nel 52 a.C., lo stesso Cicerone, nel difendere Milone, colpevole di essere il mandante dell’omicidio del suo avversario politico Clodio, non esitò a richiamare il precedente dell’Orazio, la cui efficacia non fu messa in dubbio, anche se non fu sufficiente a scagionare Milone. E, in seguito, i trattati di retorica continuavano a citare il precedente leggendario come fondamento di un’intera casistica legale. Una volta garantitosi la sicurezza nel Lazio grazie al vantaggioso trattato con Alba Longa, Tullo Ostilio mise in atto la sua intenzione di aggredire Fidene, testa di ponte veiente nella riva latina, che impediva ai Romani il libero ac-

cesso al corso superiore del Tevere e quindi a un’importante via di commercio verso l’interno della Penisola italiana.

La fine di un traditore Tullo pianificò una battaglia campale contro le forze riunite dei Veienti e dei Fidenati, avendo al suo fianco l’esercito albano, condotto da Mezio Fufezio; ma quest’ultimo non prestò fede al giuramento e, una volta iniziato lo scontro, si ritirò con i suoi su una collina vicina, in attesa dell’esito della battaglia e pensando di schierarsi all’ultimo momento dalla parte del vincitore.

Il re di Roma non gradí l’operazione e, dopo aver sbaragliato rapidamente l’esercito avversario, raccolse le congratulazioni del monarca traditore e finse di perdonarlo. Poi, però, fingendo di voler rivolgere un messaggio ai due eserciti unificati,Tullo Ostilio fece circondare gli Albani a tradimento e ne decretò il massacro, condannando subito dopo Mezio Fufezio a essere legato a due cavalli lanciati al galoppo in direzioni opposte – verso Roma e verso Fidene –, come punizione per non aver saputo scegliere tra le due città. Nonostante le vittorie riportate, che

ampliarono in modo consistente il territorio della Roma delle origini, il regno di Tullo Ostilio fu ricordato soprattutto per la ferocia del re, il quale, pur rispettando le leggi e attenendosi scrupolosamente alle regole religiose della corretta guerra, non si guadagnò il favore degli dèi a causa del suo atteggiamento empio e spavaldo. In particolare, dice la tradizione, la fine di Alba Longa fu causa anche della sua rovina. Si narra, infatti, che, dopo avere distrutto l’esercito albano,Tullo Ostilio mosse verso la città di Alba, radendola letteralmente al suolo e deportandone i cittadini a Roma, dove furono sistemati sul colle Celio. Il trattamento loro riservato non fu quello di prigionieri di guerra, ma, anzi, essi vennero inseriti nel novero dei cittadini romani di pieno diritto, e prima di procedere alla devastazione della loro città, Tullo si era premurato di invocarne il dio protettore, Giove Albano, chiedendone la protezione. In segno di rispetto nei confronti del dio, il suo tempio fu risparmiato dalla distruzione, unico edificio nel mezzo di una città fantasma: Giove, tuttavia, puní il re per le devastazioni compiute fulminandolo con una folgore. Cosí, dunque, scomparve Tullo Ostilio: in ver ità, g ià nell’antichità, alcuni attribuirono la sua morte a una congiura ordita dal futuro quarto re, Anco Marzio; ma data la fama di re giusto e pio che quest’ultimo ebbe poi nella storia, non si diede credito a questa versione. (6 – continua) per saperne di piú Enrico Montanari, Roma. Momenti di una presa di coscienza culturale, Roma 1976 AAVV., Via dell’Impero. Nascita di una strada, demolizioni e scavi: 1930-1936, Catalogo della mostra, Roma 2009 a r c h e o 63


NERONE speciale

Il ritorno di

di Marisa Ranieri Panetta

Colto, politico riformatore, promotore delle arti e grande costruttore. È l’immagine dell’ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia quale emerge da una mostra in corso a Roma e dalle piú recenti indagini sul famoso personaggio. E che spiegano, anche, perché gli autori antichi non lasciano spazio a commenti positivi, insistendo invece sui delitti da lui perpetrati e sulle sue depravazioni

N

acque Lucio Domizio Enobarbo, poi, adottato, divenne Nerone Claudio Cesare: per tutti, ieri come oggi, è piú semplicemente Nerone, uno degli imperatori piú discussi della romanità. Un personaggio sul quale, da sempre, gravano non pochi pregiudizi; infatti, gli autori antichi lo hanno dipinto a tinte fosche e, in seguito, biografie, film e fiction televisive ne hanno fatto un istrione tout court. Anche l’aspetto fisico ha finito per coincidere con le descrizioni a lui ostili: scuro di capelli, tarchiato, col volto truce, mentre invece era biondiccio (subflavo capillo, al dire di Svetonio), pieno di lentiggini, e aveva gli occhi celesti. Le principali opere letterarie relative alla sua epoca – Nerone fu acclamato imperatore nel 54 e governò fino al 68 d.C. – si devono a tre scrittori: Svetonio Tranquillo, autore delle Vite dei Cesari; Cornelio Tacito, lo storico degli Annali e delle Storie; Dione Cassio, che scrisse in greco una Storia di Roma. Di essi, solo Tacito nacque sotto Nerone, ma quando questi morí era un adolescente; Svetonio ottenne i massimi riconoscimenti con Adriano (117-138 d.C.), mentre Dione Cassio ebbe importanti incarichi 64 a r c h e o

politici al tempo di Alessandro Severo (222-235 d.C.). Gli altri autori latini e greci – poeti, filosofi, storici minori (Plinio il Vecchio, Marziale, Giovenale, Stazio, Seneca, Plutarco, Giuseppe Flavio) – che fanno riferimento all’ultimo esponente dei Giulio-Claudii, possono contribuire all’acquisizione di particolari, di ulteriori notizie, ma non mutano – nella sostanza – la fama negativa che ha accompagnato Nerone ai nostri giorni. Nerone non fu un secondo Augusto (in realtà mai eguagliato da nessuno dei successori della sua dinastia), si macchiò di gravi delitti (non è stato il solo), ma fu, comunque, colto, amante dell’arte, autore di importanti riforme come quella

Nerone a Baia. Olio su tela di Jan Styka (1858-1925).1900 circa. Collezione privata.


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speciale nerone monetaria, grande e innovativo costruttore: aspetti poco evidenziati dai suoi biografi o riferiti in un’accezione negativa. Se il loro giudizio ha complessivamente influenzato quello dei posteri, sono stati però gli Annales di Tacito, grazie alle doti letterarie del loro autore, a fissare nel tempo gesta e comportamenti. Il resoconto tacitiano è un autentico capolavoro teatrale: dall’entrata in scena di Nerone, alla progressiva degenerazione morale, è un incalzare di avvenimenti che non lascia tregua e coinvolge i lettori nella trama avvincente. Eppure, le premesse dell’ultimo principato giulio-claudio erano state buone, gli inizi salutati da tutti con favore e non ignorati dagli storici: nell’ottobre del 54 d.C., quando alla morte di Claudio Nero Claudius Caesar Drusus Germanicus, nuovo imperator dei Romani, presentò le linee-guida del suo programma di governo, il consenso era salito alle stelle. Prendeva il potere, disse, con l’animo sgombro da sete di vendetta, il senato avrebbe mantenuto le sue prerogative, per ogni controversia le province avrebbero dovuto rimettersi ai tribunali consolari, il punto di riferimento sarebbe rimasto sempre Augusto, propugnatore di pace e legalità. Seneca, che lo seguiva come precettore e compilava i discorsi ufficiali, ne aveva già tessuto le lodi nell’Apocolocynthosis, quando Febo implora

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Un allievo sfuggito di mano Il padrone del mondo, a diciassette anni, prometteva una nuova Età dell’Oro.Tanto che Andrea Giardina, nel suo contributo al catalogo della mostra in corso a Roma (vedi box a p. 82), ipotizza che se Nerone fosse morto dopo i primi anni del suo regno, come accadde a Tito, «Forse non gli sarebbe stato tributato l’appellativo “amore e delizia del genere umano”, ma certamente lo ricorderemmo con epiteti favorevoli». Seneca voleva modellare, attraverso Nerone, il governante imbevuto di filosofia, saggio, clemente, capace di armonizzare un potere autocratico con la moderazione e la coltivazione

15 dicembre Primo anno del regno di Gaio Caligola: del nasce ad Anzio Lucio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone. È figlio di Gneo Domizio Enobarbo (console nel 38) e di Agrippina Minore, pronipote di Augusto. Lucio si trova orfano e privo della presenza materna: sospettata di aver partecipato a una congiura contro Caligola, Agrippina è relegata a Ponza. Viene accolto dalla zia paterna Domizia Lepida e come pedagoghi ha (secondo Svetonio) un barbiere e un ballerino. Caligola è ucciso nel palazzo imperiale sul Palatino; gli succede lo zio Claudio. Il nuovo imperatore fa rientrare a Roma Agrippina. Lucio studia con il filosofo

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cronologia

le Parche di non recidere la vita di Nerone «che è simile a me, e pari di grazia»; e sottolineava, rivolto a lui, nel De clementia: «Il fatto che tu abbia potuto vantarti di non aver sparso in tutto il mondo una sola stilla di sangue umano, è tanto piú grandioso e mirabile». Le prime misure, in verità, accontentarono le diverse categorie sociali: premi ridotti ai delatori, alleggerimento delle tasse piú gravose, distribuzione di 400 sesterzi pro capite alla plebe, stipendi annui per i senatori in difficoltà finanziarie, abolizione dei procedimenti giudiziari intra cubiculum principis, divieto ai governatori delle province di allestire giochi gladiatorii per non estorcere denaro ai sudditi.

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25 febbraio del

dell’arte. Sapeva bene che il giovane imperatore era appassionato di canto, musica, poesia, corse con i cavalli, e ne assecondava le performance in privato; ma non aveva tenuto in debito conto la personalità, e la coscienza del potere assoluto, che il suo pupillo stava maturando: i risultati si sarebbero visti di lí a poco. La società, dai tempi di Augusto, era profondamente mutata, e cosí l’amministrazione pubblica. Al tempo di Nerone, la vasta composizione sociale fatta anche di liberti, affaristi e nuovi ricchi, protagonisti dello straordinario Satyricon di Petronio, si accompagnava ai ruoli assunti nei quadri dirigenti, già da diversi anni, dall’élite dell’ordine equestre: erano cavalieri il prefetto dell’Egitto, il responsabile dell’annona e i comandanti dei pretoriani, gli unici armati in città alloggiati nei castra, a guardia del princeps. Ma la riuscita di un buon imperatore dipendeva dall’equilibrio dei rapporti instaurati col senato, che, pur indebolito nelle cariche e nei privilegi, si riteneva garanzia di continuità e custode delle glorie romane. Nei primi anni del principato i senatori si sentirono rassicurati dalle intenzioni moderate di Nerone che ne ribadivano l’autorità; avevano ricevuto pensioni e riconoscimenti (si tornarono a coniare monete con la legenda SPQR), e quando Nerone declamò alcune sue poesie («con tanto piacere di tutti», scrive Sveto-

greco-egiziano Cheremone di Alessandria, il filosofo peripatetico Alessandro di Ege e l’astronomo Trasillo. Valeria Messalina, moglie di Claudio, è uccisa negli Horti di Lucullo. Agrippina, rimasta anche lei vedova, sposa lo zio Claudio: un decreto del senato garantisce la legittimità dell’unione fra parenti cosí stretti. Nerone ha come precettori il filosofo Anneo Seneca (che Agrippina ha fatto rientrare dall’esilio in Corsica) e Afranio Burro, il prefetto del pretorio di origine gallica. Nerone, a tredici anni, viene adottato da Claudio col nome di Nero Claudius Drusus Germanicus. Nel quinto consolato di


gruppo di famiglia in un cammeo. Cammeo raffigurante l’imperatore Claudio e Agrippina Minore (a sinistra), e i genitori di lei, Germanico e Agrippina Maggiore (a destra). 48 d.C. circa. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nerone, figlio di Agrippina Minore e Gneo Domizio Enobarbo, fu adottato da Claudio, zio e secondo marito di Agrippina. Qui sotto: statua di Nerone bambino, da Gabii (o Anzio). I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Il futuro imperatore indossa la toga praetexta e la bulla, tipico costume infantile romano, sostituito dalla toga virile al momento dell’ingresso nella vita adulta.

nio), decretarono con entusiasmo un ringraziamento pubblico agli dèi, dedicando quei versi, scritti in lettere d’oro, a Giove Capitolino. Ma, dopo quattro anni di regno, il giovane monarca presentò una inaspettata riforma tributaria che segnò l’inizio dell’atteggiamento ostile della curia. L’imperatore dei Romani doveva intervenire in ogni provincia con opere pubbliche e, nella capitale, anche con elargizioni di beni alimentari, spettacoli, donativi ai pretoriani, senza contare le spese impreviste per carestie, incendi, naufragi:

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12 ottobre del 13 ottobre

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del

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soldati e alla corte, accanto alla madre e

ad Afranio Burro. Portato in lettiga al Castro, è acclamato imperator prima della ratifica da parte del senato. A 16 anni e dieci mesi sale sul trono Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus. Nerone recita l’elogio funebre di Claudio. Seneca elogia Nerone nel De clementia per la sua mitezza. Queste alcune delle misure dei primi anni di governo: stipendio annuo ai senatori in difficoltà economiche; 400 sesterzi a ogni cittadino; distribuzione mensile di frumento ai pretoriani; svolgimento pubblico dei processi giudiziari, non piú nel chiuso delle stanze imperiali (intra

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Claudio, è anticipato a Nerone il conferimento della toga virile per poter accedere al Foro. Nerone pronuncia le prime orazioni: una a favore di Bononia (Bologna), colpita da un incendio, per la quale fu stanziato un contributo di 10 milioni di sesterzi; le altre per accordare a Rodi una libera amministrazione e ai cittadini di Troia l’esenzione da ogni tributo. Nerone sposa la sorellastra Ottavia (12 anni), figlia di Claudio e Valeria Messalina. Morte di Claudio (con ogni probabilità avvelenato dalla moglie Agrippina). Mezzogiorno: Nerone compare davanti ai

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speciale nerone le donne del principe A destra: cammeo forse identificabile con Messalina (o con Agrippina), con il capo cinto da una corona d’alloro. Parigi, Bibliothèque nationale. Nell’ovale compare anche un giovane principe, forse Nerone o Britannico.

oneri dispendiosi, soprattutto quando non si poteva contare sui bottini derivanti dalle guerre di conquista. Nerone non volle aumentare i confini ereditati con campagne militari: la risoluzione dello Statocuscinetto dell’Armenia, dovuta alle imprese del valoroso generale Corbulone, e la vittoria riportata sull’insurrezione in Britannia, costata molte vite dei legionari, rientrano in una politica tesa a mantenere lo status quo. La sottomissione di popolazioni al di là del Danubio, l’ingresso nell’impero delle coste del Mar Nero e delle Alpi Cozie, sono stati infatti oggetto di trattative ben condotte e di lasciti testamentari, di doni, non di vittorie belliche.

Qui sopra: ritratto in marmo greco insulare forse identificabile con Nerone in età giovanile, dal criptoportico dell’area sacra del tempio di Apollo sul Palatino. 54/55-59 d.C. Roma, Museo Palatino. A destra: ritratto in marmo di imperatrice forse identificabile con Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone. Età neroniana. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme.

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cubiculum principis); divieto ai governatori delle province di organizzare giochi con animali o gladiatori, per evitare di estorcere denaro ai sudditi. Nerone inaugura il nuovo anfiteatro costruito in legno (almeno per la parte superiore) con giochi gladiatori ma, scrive Svetonio, non fa morire nessuno, nemmeno i combattenti condannati a morte. Nel terzo consolato, Nerone presenta una riforma tributaria, che prevede l’abolizione delle tasse indirette e propone l’introduzione di tasse dirette, tese a colpire i grandi patrimoni. Il senato si oppone. Nerone ottiene solo la pubblicazione della riscossione di ogni

In Oriente:

tassa e la punizione degli esattori rapaci e disonesti. Da questo braccio di ferro dal quale il principe esce sconfitto, ha inizio la posizione sempre piú ostile del senato. Nerone, che non ha mai amato la docile Ottavia, ha mantenuto il suo legame con la liberta Atte, ma tutto cambia quando a corte arriva Poppea Sabina, che seduce l’imperatore, trovando in Agrippina una ferrea nemica. Seneca e Burro approfittano di Poppea per mettere contro madre e figlio: non sopportano piú le ingerenze di Agrippina e le sue iniziative. Nerone toglie la guardia del corpo alla madre e la allontana dal palazzo imperiale. Durante il principato di Claudio, i Romani


ALBERO GENEALOGICO DEI GIULIO CLAUDiI Marzia, dei Regii

Caio Giulio Cesare Caio Mario Calpurnia

Sesto Giulio Cesare

3

Pompeia Sulla

Giulia

2

Cornelia Cinna

Gneo Pompeo 2

Caio Giulio Cesare

Giulia

Caio Giulio Cesare Ditt. 49-44 a.C.

1

Caio Ottavio

Giulia 1

1 2

Azia

C. Claudio Marcello

Scribonia Claudio Marcello Marco Vipsanio Agrippa

Marco Azio Balbo

Giulia

Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto 2 Imp. 27 a.C.-14 d.C.

3

2

Livia Drusilla

2 Augusta

Tiberio Claudio Nerone

Druso Agrippa Postumo

Lucio Cesare

Antonia

Giulia Livilla

Tiberio Gemello Agrippina

Drusilla

Marco Antonio

Caio Cesare

Giulia

Lucio Cassio Longino

Druso

Vipsania

Imp. 14-37 d.C.

Ottavia 2

Tiberio Claudio Nerone

1

1

1

Druso Cesare

Livia Giulia Messalina

Germanico

Giulia Livilla

Agrippina

2 1

4

Gneo Domizio Enobarbo

Tiberio Claudio Nerone Imp.41-51 d.C.

3

Nerone Cesare

Casonia

Poppea Sabina 2

Caio Cesare

Caligola

Tiberio Claudio Nerone Imp. 51-68 d.C.

Ottavia

Britannico

3

Imp. 37-41 d.C.

Statilia Messalina Giulia Drusilla

Figlio / figlia

avevano perso alleanze e amicizie. I Parti avevano incoronato re d’Armenia Tiridate. Con Nerone c’è una mobilitazione delle truppe: ai confini dell’Armenia vengono fondati principati nuovi e le legioni dell’Asia Minore sono divise tra Gneo Domizio Corbulone e Ummidio Quadrato, governatore della Siria. Con l’aiuto dei nuovi alleati (Iberi, Moschi e re Farasmane) Corbulone muove alla conquista dell’Armenia (dopo irruzioni dei Parti) e distrugge Artaxata. T. Plauzio Silvano Eliano, ex proconsole in Asia, stabilisce presidi romani sul Mar Nero. Il 4 marzo muore Agrippina a 44 anni, nella sua villa di Bacoli, vicino Baia. Dopo il

Matrimonio

1, 2... Numero del matrimonio

tentativo di procurare di notte un naufragio alla barca che la trasportava, Aniceto – prefetto della flotta di Miseno e tra gli educatori del piccolo Nerone – su comando imperiale, con un gruppo di armati irrompe nelle sue stanze e l’uccide. Il delitto viene considerato «di Stato», per la salvezza del res publica: per legge, chiunque attenti alla vita o all’autorità dell’imperatore, deve essere eliminato. Ludi Maximi Giochi indetti per onorare l’eternità dell’imperatore, con distribuzione di buoni-premio (missilia). Inaugurazione sul Celio del Macellum Magnum. Corbulone, nella sua avanzata, riceve la sottomissione di Tigranocerta, seconda

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Figlio adottivo

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speciale nerone

un imperatore sulla scena Sul piano culturale, il principato di Nerone, fu segnato dalla ripresa della vita intellettuale: un ritorno all’«Età dell’Oro», per la fioritura di tutti i generi letterari, in contrasto con il torpore dei decenni precedenti. Nerone stesso declamava tragedie, accompagnandosi con la cetra, secondo una tradizione consolidatasi in età ellenistica, ma che affondava le sue radici nella cultura greca di età classica, quando la musica era componente inscindibile dei testi tragici. Alle tragedie è legata la nascita, in età ellenistica, di una particolare forma di interpretazione da parte di solisti che si esibivano in veri e propri recital: agli inizi del II secolo a.C., durante i Giochi Pitici, un famoso suonatore di aulo, principale strumento a fiato della musica greca, tenne un recital con esecuzione di brani dalle Baccanti di Euripide. E fra le tragedie interpretate da Nerone le fonti indicano, tra le altre, proprio le Baccanti. Tra gli spettacoli piú in voga presso il pubblico romano fino alla tarda antichità furono il mimo e la pantomima, intrattenimenti in cui la musica accompagnava la danza: brani della poesia virgiliana costituirono soggetti per spettacoli di mimo, come i versi di Ovidio. La pantomima, di matrice greca, era stata introdotta a Roma alla fine del I secolo a.C. da due artisti orientali: un solista rappresentava, danzando, storie tratte dal repertorio mitologico, accompagnato da un canto

corale e dal suono di strumenti musicali, tra cui l’organo idraulico, inventato nel III secolo a.C. da Ctesibio. Lo strumento, considerato una delle meraviglie del mondo, era molto apprezzato da Nerone. Le motivazioni addotte da Nerone per giustificare le proprie esibizioni artistiche erano, sul piano culturale, saldamente fondate. L’affermarsi della musica come arte pubblica in età ellenistica era legata alle feste in onore delle divinità: la musica accompagnava le preghiere, i sacrifici e le processioni. Il numero dei concorsi artistici in onore degli dèi, gli agoni, aumentò nel tempo: si trattava di gare musicali, alle quali partecipavano suonatori di cetra e di aulo. Negli agoni musicali e drammatici si esibivano anche poeti, rapsodi, attori tragici e comici, coreuti. La diffusione degli agoni aveva contribuito in modo determinante alla diffusione internazionale della cultura greca e alla coesione tra le popolazioni elleniche. Gli stessi sovrani ellenistici promossero, attraverso le loro feste, le esecuzioni musicali, occasioni per cementare i rapporti tra il monarca e la sua corte. Nerone tentò, dapprima timidamente con gli Iuvenalia, piú decisamente con i Neronia, di diffondere in ambiente romano, attraverso gli agoni, la tradizione culturale ellenistica, anche aprendo apposite scuole per il popolo. Rossella Rea

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Fregio con riti bacchici, intonaco dipinto dalla Domus Transitoria sul Palatino. Età neroniana. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

città dell’Armenia. Tutta la regione è in mano ai Romani, e diventa un baluardo contro il potere dei Parti. Nerone non vuole però arrivare a uno scontro aperto con la grande potenza orientale, gli basta creare un regno vassallo. Ferma le ambizioni di Corbulone, che mira a creare una provincia romana, e insedia sul trono d’Armenia Tigrane V, principe della Cappadocia educato a Roma. Muore Ummidio Quadrato, Corbulone diventa comandante della Siria. In Occidente Scoppia una rivolta in Britannia, nel territorio degli Iceni (Norfolk), che in breve si estende sino alla foce del Tamigi, sotto la guida della regina Budicca. Nerone 70 a r c h e o

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invia il generale Gaio Svetonio Paolino. La ribellione è sedata con molte vittime romane. Budicca si uccide. Lungo la frontiera del Danubio, T. Plauzio Silvano Eliano ha obbligato i Daci e altre popolazioni a sottomettersi ai Romani e a pagare tributi. Nel bosco vicino al Tevere, di proprietà imperiale, si svolgono gli Juvenalia, i Giochi della Gioventú istituiti per festeggiare la prima rasatura dell’imperatore. È un altro motivo di contrasto con il senato. Costruzione delle terme vicino al Pantheon di Agrippa, con palestra annessa. Neronia. Prima edizione di Giochi su


Nerone e il cadavere di Agrippina. Dipinto di Antonio Rizzi (1869 1940). 1894. Cremona, Museo Civico Ala Ponzone.

Per coprire le spese ingenti, l’imperatore, sostenuto dai consiglieri, decise quindi di eliminare le tasse indirette che gravavano, innanzitutto, sui dazi imposti alle singole province, e introdurre quelle dirette, che colpivano in pieno i grandi appaltatori e i latifondisti della curia. L’intento era di favorire scambi e commerci, abbassando i costi delle merci in transito e, naturalmente, di recuperare risorse; ma i senatori opposero un netto rifiuto a questa sorta di «patrimoniale». Per Nerone fu uno smacco. Si dovette accontentare dell’approvazione di misure, sí, importanti

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L’opposizione del senato È questa la prima causa della frattura col senato, ma non l’unica. L’intento, perseguito con ostinazione, di riformare i costumi romani in uno stile di vita caro al mondo greco-orientale, trovò fieri opposi-

modello greco, divisi in musicali, equestri e atletici. Nerone non vi partecipa ma è premiato come citaredo. Distribuzione di olio a senatori e cavalieri. Spedizione in Etiopia (Meroitica) per nuovi sbocchi commerciali. Sono stabiliti rapporti con il re di Axum. Utilizzazione del porto di Assab. Muore il prefetto del pretorio Afranio Burro, sostituito da Fenio Rufo e Ofonio Tigellino. Seneca chiede di ritirarsi. Nerone ripudia Ottavia, che è esiliata. Il popolo insorge, si creano false accuse e Ottavia è uccisa a Pandataria (odierna Ventotene), dove era stata relegata. Nerone, in contrasto con l’opinione

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tori nella classe conservatrice, che cominciò a criticare la scomparsa della gravitas (austerità) nella vita di corte e il coinvolgimento dei piú alti ceti sociali nei ludi agonistici: iniziative, queste, che non nascondevano l’intento del principe a coinvolgere l’aristocrazia nel suo disegno riformatore. In realtà, il primo esperimento «alla greca», i giochi Juvenalia, istituiti per festeggiare la prima rasatura di Nerone, fu accolto con successo. Nella grande partecipazione, non suscitò particolare scalpore nemmeno l’esibizione del giovane Cesare in ruoli

pubblica, sposa Poppea Sabina, dopo aver mandato il precedente marito Salvio Otone in Lusitania come governatore. Vologese re dei Parti sconfigge a Randeia i Romani, guidati da Cesennio Peto, responsabile del settore armeno. Corbulone non arriva in tempo ma riesce ad aprire nuove trattative. Corbulone ribadisce il diritto di intervento sull’Armenia, come protettorato romano. Plauzio completa il controllo sulla costa settentrionale del Mar Nero, che assicura a Roma il grano proveniente dall’attuale Ucraina. Nasce Claudia, unica figlia di Nerone, che però muore dopo pochi mesi.

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– come l’abolizione delle soprattasse prelevate ingiustamente e l’istruzione immediata di processi contro gli esattori (publicani) disonesti –, ma non risolse la necessità di reperire gli introiti necessari a mantenere una monarchia basata su un largo consenso popolare.

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speciale nerone un precettore di ferro Qui sotto: testa in bronzo di Nerone, dalla Cilicia, regione storica dell’Asia Minore. Parigi, Museo del Louvre. A destra: cosiddetto Pseudo Seneca, ritratto maschile in bronzo da un originale del III-II sec. a.C., dal peristilio della Villa dei Papiri di Ercolano. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

il maÎtre À penser del giovane Nato a Cordova nel 4 a.C., Lucio Anneo Seneca studiò a Roma, manifestando subito interesse per la poesia, l’eloquenza, la filosofia e le scienze. Compí un viaggio in Egitto prima dell’anno 20 e tornò a Roma nel 31 dove iniziò la carriera politica. Ma incorse nell’odio di Caligola e, in seguito, nell’ostilità di Claudio, allorché su istigazione della moglie di questi, Messalina, fu coinvolto in un processo di adulterio contro Giulia Livilla, sorella di Caligola, e relegato in Corsica, nel 41. Rientrò a Roma nel 49, scomparsa ormai Messalina, e per intervento di Agrippina Minore, seconda moglie di Claudio, che si appoggiò a Seneca per favorire la

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Riforma monetaria: si coniano pezzi in oro,

argento, oricalco e rame. Viene abbassato il piede dell’aureus e del denarius per il prezzo aumentato del materiale prezioso, con una crescita della circolazione monetale e vantaggi per i ceti emergenti. Il regno del Ponto è annesso alla Galazia con il consenso del sovrano Polemone: il Mar Nero è romano. Iniziano i lavori per scavare un canale navigabile dal lago Averno, in Campania, fino a Ostia: deve assicurare il trasporto delle merci di prima necessità dal porto di Pozzuoli anche con il mare agitato. Inaugurazione del nuovo porto di Ostia, i cui lavori erano iniziati sotto Claudio,

affiancati dai primi magazzini (horrea). A Napoli, città di cultura greca, Nerone si esibisce in teatro per la prima volta. Notte tra 18 Scoppia un grande incendio mentre e 19 luglio: Nerone si trova ad Anzio. Sono distrutti dalle fiamme intere regiones e monumenti importanti. Inizia la ricostruzione a spese dell’imperatore e con incentivi ai privati. I cristiani «che hanno confessato» (secondo l’ambiguo racconto di Tacito) e coloro che sono coinvolti per delazione, sono condannati a morte con torture e crocifissioni. Iniziano i lavori per la Domus Aurea su progetto degli architetti Severo e Celere. Congiura dei Pisoni con il concorso di

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drammatici al suono della cetra. Ma Tacito scrisse a proposito: «Da allora l’impudicizia e la depravazione si diffusero senza alcun limite!». E fu questo il giudizio prevalente, anche se Nerone in un certo senso lo provocò, sempre piú proteso al raggiungimento di glorie in campi fuori dagli schemi tradizionali. Nel 60 istituí i Neronia, giochi quinquennali di atletica, musica, retorica, equitazione e poesia; a Napoli si esibí per la prima volta in pubblico, tra gli applausi di una claque ammaestrata e ben pagata; poi fu la volta di Roma e lo aspettava solo la Grecia, per i trionfi definitivi. A quanti sostenevano che per un Romano le vere palestre erano le basiliche, i campi militari e la curia, rispose costruendo un gymnasium e terme vicino al Pantheon. La pista per le corse, tra portici e giardini, fu

distrutta poco dopo da un incendio; ze lo zio Claudio, vedovo fresco di le terme, invece, resistettero, per la Valeria Messalina, divenne una vera felicità dei Romani. imperatrice e pretese onori e poteri come nessun’altra. Nerone, figlio del Le ambizioni di una madre primo marito Gneo Domizio EnoDue donne sono legate a Nerone barbo, fu una sua creazione: lo fece nella memoria e nell’immaginario adottare dal marito ed educare per popolare: la madre, Agrippina Mi- farlo salire sul piú alto gradino polinore, e la seconda moglie, Poppea tico, sicura che sarebbe sempre stato Sabina. Entrambe dotate di bellezza una pedina facile da manovrare. e intelligenza, influirono notevol- Aveva sottovalutato le reazioni degli mente sull’imperatore: in modo di- stessi precettori che aveva messo al fianco di Nerone e che mal sopporverso e con effetti devastanti. Agrippina Minore era ambiziosissi- tavano le sue ingerenze in ogni ma e, stando alla tradizione letteraria, questione; non poteva prevedere arrogante e superba. Pronipote di l’amore travolgente di suo figlio per Augusto, figlia del generale Germa- Poppea, che ruppe ogni remora. nico, sorella di Caligola, a contatto Nerone, a sedici anni, aveva sposato con i personaggi piú influenti del Ottavia, figlia di Claudio e Messalisuo tempo, era stata a conoscenza dei na; fu rispettoso del suo ruolo, ma segreti di palazzo e di tutte le guerre conobbe l’amore, prima, con la liprivate che si consumavano al suo berta Atte, poi con Poppea, moglie interno. Quando sposò in terze noz- dell’amico Salvio Otone.

enobarbo successione al trono del proprio figlio Nerone, a danno del figlio di Claudio e Messalina, Britannico. Nerone, dodicenne, fu affidato alle cure del filosofo; quando, nel 54, Claudio fu soppresso, Seneca si trovò a essere il consigliere del giovane sovrano, insieme ad Afranio Burro. In quegli anni indirizzò a Nerone alcuni dei suoi maggiori trattati, propugnando una monarchia illuminata e conciliatrice dei vari organi e ceti dello Stato. Ben presto, però, la situazione si aggravò. Nerone compí una serie di delitti, fra cui l’uccisione di Britannico e della madre, che coinvolsero in vario modo anche Seneca. Piú tardi vi furono il ripudio e poi

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Incoronazione a Roma di Tiridate. Il

viaggio del dinasta orientale è costato quanto il reddito annuale dello Stato romano (800 000 sesterzi al giorno, oltre ai regali). La carovana di familiari e di altri principi, composta anche da animali, e scortata da soldati armeni, partici e romani, impiega nove mesi per arrivare a Roma. Ai Rostri, nel Foro, Nerone pone la corona sul capo di Tiridate, inginocchiato davanti a lui in un tripudio di festeggiamenti pubblici. Nerone assume il titolo di imperator come prenome. Sono chiuse le porte del tempio di Giano, simbolo di pace per l’impero: è la prima

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cavalieri, senatori, pretoriani per uccidere Nerone ed eleggere al suo posto Gaio Calpurnio Pisone, di nobile famiglia. Vengono scoperti i partecipanti e molti sono uccisi (tra cui il prefetto Fenio Rufo e il poeta Lucano). Alcuni sono indotti al suicidio, come l’ex precettore Seneca e lo scrittore Petronio Arbitro; altri ancora sono mandati in esilio o perdonati. Rufo è sostituito da Ninfidio Sabino. Seconda edizione dei Neronia: per la prima volta a Roma, Nerone si esibisce in pubblico (poesia e canto con la cetra). Alla fine dei Giochi, muore Poppea Sabina che attendeva un altro figlio. Viene imbalsamata, divinizzata e onorata con un tempio.

l’uccisione di Ottavia. Seneca fu messo in cattiva luce presso l’imperatore; fu accusato di ammassare ricchezze e la sua influenza diminuí rapidamente, anche in seguito alla scomparsa di Burro, sostituito con Tigellino. All’incirca in quell’anno (62) il filosofo si ritirò a vita privata e attese ad altri suoi scritti. Nel 65, sospettato di avere preso parte alla congiura antineroniana dei Pisoni, fu accomunato nella loro condanna e ricevette l’ingiunzione di uccidersi: cosa che fece fermamente, dando ordine che gli venissero recise le vene e bevendo infine la cicuta. (red.)

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speciale nerone

cronologia

L’ingresso a corte dell’affascinante matrona di origine campana segnò la fine della sfortunata Ottavia. Nerone, pur frenato dai consiglieri e osteggiato dalla madre, non allontanò Poppea, prendendo invece le distanze da Agrippina. Tra il 59 e il 63 si consuma il periodo piú significativo del principato neroniano, provocato – a torto o a ragione – proprio dagli avvenimenti della vita privata. Sono gli anni dei giochi «alla greca», dell’inaugurazione di edifici pubblici come il Macellum Magnum e le terme, ci sono i conflitti in Armenia e in Britannia, muore Burro, si ritira Seneca e divengono prefetti del pretorio Fenio Rufio e Ofonio Tigellino; ma è anche il periodo in cui vengono uccise Ottavia e Agrippina, del matrimonio con Poppea e della nascita dell’unica figlia di Nerone, Claudia, che morirà dopo pochi mesi. L’assassinio esecrabile di Ottavia, mentre era relegata a Pandataria (oggi Ventotene), dietro false accuse, e quello della madre nella villa di Bacoli, vicino Baia, sono stati gli incubi che hanno sempre perseguitato Nerone. E anche il matrimonio con Poppea si concluse tragicamente: nel 65, al termine dei Neronia, la donna, in attesa di un altro figlio, morí. Svetonio e Tacito attribuiscono la fine prematura a un calcio infertole dal marito, mentre Dione Cassio non esclude la possibilità di un incidente. Certamente Nerone aveva amato

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Ottobre fine

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moltissimo Poppea e ne celebrò i funerali facendone imbalsamare il corpo con resine costose. In seguito, pur avendo contratto nuove nozze con Statilia Messalina (una presenza poco citata), non cessò di evocarne il ricordo: «sposò» l’eunuco Sporo, a lei molto somigliante, e le dedicò un tempio.

Gli ultimi anni Tacito, come gli altri storici, lega il precipitare del principato neroniano verso una monarchia tirannica e dissoluta all’ingresso a corte di Poppea Sabina. Però, già prima del matrimonio, Nerone è segnato nelle

volta dopo Augusto e l’evento è ribadito da emissioni monetali. Nerone sposa Statilia Messalina, piú grande di lui e di nobile famiglia: un matrimonio durato pochi mesi, se non è citata accanto a Nerone negli ultimi momenti. Sposata piú volte, è vedova del console Vestinio Attico, ucciso perché coinvolto (Tacito lo considera innocente) nella congiura pisoniana; dopo il 68 Messalina continuerà a occupare un posto di spicco nell’élite romana. Viaggio in Grecia. Nerone partecipa, da vincitore, ai Giochi Istmici, Pitici, Nemei, Olimpici. Lo storico Cluvio Rufo, ex console, lo accompagna come araldo. A

sue pagine: i delitti e le depravazioni non lasciano spazio ad alcun commento positivo. In un solo caso prende in qualche modo le distanze da quanto viene comunemente raccontato: a proposito del grande incendio scoppiato nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 64. A Roma, edifici pubblici e privati andavano in fumo periodicamente, e quasi ogni imperatore dovette preoccuparsi della ricostruzione di monumenti importanti, ma l’incendio del 64 fu particolarmente grave. Le fiamme, partite dal Circo Massimo, distrussero tre delle quattordici regiones in cui la città era divisa, con

Roma, il liberto Elio fa le veci di Nerone.

Congiura Viniciana, dal nome del genero

del generale Corbulone, Annio Viniciano, costituita da senatori, cavalieri e pretoriani. Corbulone, invitato a recarsi in Grecia dall’imperatore, sbarcato a Cencrea e ricevuta la condanna a morte, preferisce uccidersi. Scoppiano sommosse a Gerusalemme e a Cesarea. Viene inviato il generale Tito Flavio Vespasiano (futuro imperatore). Nerone proclama l’esenzione dalle tasse per l’Acaia. Inizia il taglio dell’istmo di Corinto, per evitare la circumnavigazione del Peloponneso alle navi provenienti dall’Oriente e dirette verso lo Ionio.


L’incendio di Roma. Olio su tela di Robert Hubert (1733-1808). Le Havre (Francia), Musée des Beaux-Arts «André Malraux».

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Marzo

Secondo la tradizione piú accreditata,

vengono uccisi a Roma i santi Pietro e Paolo. Gennaio. Rientro di Nerone a Roma e Trionfo per le vittorie negli agoni greci. 1800 sono le corone ricevute che vengono deposte nel Circo Massimo. La città è decorata con ghirlande, illuminata a festa, profumata d’incenso. L’imperatore, nelle acclamazioni, è paragonato ad Augusto, Apollo ed Ercole. Giulio Vindice, legato in Gallia, guida una rivolta contro la pressione fiscale di Roma. Invita Salvio Sulpicio Galba (successore di Nerone), governatore della Spagna Tarraconense, a sostituire l’imperatore.

Le province orientali restano fedeli. I

legati delle due Germanie, superiore e inferiore, si schierano con Nerone, che ha assunto il consolato unico. Il senato dichiara Galba nemico pubblico. Nerone decide una spedizione in Gallia: richiama i legionari inviati in una spedizione in Oriente, recluta i marinai della flotta di Miseno per formare una nuova legione; fa arruolare anche i migliori schiavi dei cittadini. Riunisce le truppe nell’Italia settentrionale sotto il comando di Petronio Turpiliano. Imposizione di tasse straordinarie. Le legioni delle due Germanie, guidate da Verginio Rufo, vincono i ribelli di Vindice a

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Nella pagina accanto: simulazione del propagarsi dell’incendio tra il 18 e il 27 luglio del 64 d.C.

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speciale nerone danni gravi in altre sette: i ritrovamenti di materiali combusti e delle tracce lasciate dal fuoco dopo quasi due millenni ne indicano l’entità. Tacito elenca i danni provocati, ma non si esprime sulle accuse che tuttora gravano su Nerone. A differenza di Plinio il Vecchio, Svetonio e Dione Cassio, che ribadiscono con decisione la reità dell’imperatore, premette di non sapere se l’incendio si fosse verificato per colpa (dolo) di Nerone o per caso (forte) e, riferendo di persone che «scagliavano torce ardenti e che dichiaravano a gran voce di aver ricevuto un ordine», ignora se ciò fosse avvenuto per eseguire un comando o per compiere rapine in piena libertà.

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Soccorso ai superstiti Nei fatti, l’imperatore rientrò subito da Anzio, dove si trovava, e soccorse gli scampati: aprí il Campo Marzio, i monumenti e gli Horti di Agrippa e vi fece allestire case improvvisate, facendo arrivare dai municipi vicini beni di prima necessità e abbassando il prezzo del grano. Sicuramente approfittò delle rovine per realizzare piú agevolmente la Domus Aurea; ma non avrebbe fatto attizzare l’incendio sotto casa (sul Palatino avvolse e distrusse la residenza imperiale, già sviluppata verso l’Esquilino con la Domus Transitoria) e nel Circo, il luogo in cui poteva misurare il consenso popolare con spettacoli fastosi (sarà rico-

8 giugno

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struito a sue spese). Il fatto che, dopo sei giorni, il fuoco che sembrava estinto riprendesse proprio nei giardini del nuovo prefetto del pretorio, Ofonio Tigellino, alimentò i sospetti su Nerone; ma la ricostruzione fu significativa e legata a uno dei fattori positivi del principato neroniano. Cosí lo racconta lo stesso Tacito: «Quello che rimaneva della città, all’infuori del palazzo, fu riedificato non come era avvenuto dopo l’incendio dei Galli, senza un piano regolatore, con le case disposte qua e là senza ordine alcuno, ma fu ben misurato il tracciato dei rioni dove furono fatte larghe strade, fu limitata l’altezza degli edifici, furono aperti cortili, ai quali si aggiunsero portici per proteggere la parte anteriore degli isolati. Nerone promise di consegnare ai legittimi proprietari quei portici, dopo averli fatti costruire a sue spese e aver fatto sgombrare i cortili. Assegnò premi a seconda della classe sociale e delle sostanze di ognuno, e fissò il tempo entro il quale le case dovevano essere finite, perché si potesse concorrere ai premi. Dispose di versare nelle paludi di Ostia le macerie e ordinò che le navi che portavano il frumento, risalendo il Tevere, ne ritornassero cariche di rottami; volle anche che gli stessi edifici in alcune loro parti fossero consolidati senza travi, ma con pietra di Gabi o di Albano, perché questa è refrattaria al fuoco.

Vesontio (Besançon). Vindice si uccide, Galba si rifugia a Clunia. La ribellione continua in Spagna. Galba, che aveva ottenuto precedentemente l’adesione di Otone, governatore della Lusitania, e di Alieno Cecina, questore della Betica, è acclamato imperator dalle truppe. A Nerone arriva la notizia che Verginio Rufo ha disertato e Turpiliano lo ha tradito. Clodio Macro, legato in Africa, sta organizzando una rivolta autonoma. I pretoriani tradiscono il principe: Tigellino scompare dalla capitale, Ninfidio Sabino trama con emissari di Galba. Informato delle defezioni e dei sostegni a Galba, Nerone lascia il Palatino e si

9 giugno

A destra: veduta aerea di Roma. Al centro si riconoscono, in sequenza, il Circo Massimo (monumento nel quale divampò l’incendio del 64 d.C.), i palazzi imperiali sul Palatino e la valle del Colosseo, che, prima della costruzione dell’Anfiteatro Flavio era in larga parte occupata dalla Domus Aurea di Nerone. Nella pagina accanto: Roma in età neroniana (elaborato di Heinz-Jürgen Beste e Margareta Schützenberger).

Pose guardie a vigilare che l’acqua deviata per abuso di privati scorresse piú abbondante e in piú luoghi a vantaggio di tutti e fece in modo che ciascuno tenesse in pubblici posti mezzi per estinguere gli incendi, disponendo anche che non vi fossero pareti in comune, ma ciascun edificio fosse circondato da muri propri. Tutti questi provvedi-

trasferisce negli Horti Serviliani. Progetta di andare in Egitto e fa preparare una flotta a Ostia. Ninfidio Sabino annuncia ai pretoriani che Nerone è fuggito ad Alessandria e promette, a nome di Galba, un cospicuo donativo. Il senato dichiara l’imperatore hostis publicus: chiunque può ucciderlo. Nerone si accorge che le guardie lo hanno abbandonato. Fugge per nascondersi nella casa di Faone, uno dei liberti che gli sono rimasti accanto, con altri tre. raggiunto da militari legati a Galba, Nerone si uccide (versione ufficiale) con l’aiuto di Epafrodito, il segretario addetto alle petizioni imperiali. M. R. P.


menti, graditi per la loro utilità, portarono anche ornamento e decoro alla nuova città». In realtà non tutte le macerie finirono a Ostia; gli scavi nella valle del Colosseo (condotti da Clementina Panella, Università degli Studi di Roma «La Sapienza») e sulle contigue pendici del Palatino hanno rivelato l’utilizzo di molto materiale per

la città al tempo di nerone limite dell ’ area edificata

1. Circo di Caligola 2. Anfiteatro 3. Terme. 4. Ginnasio 5. Saepta 6. Teatro di Pompeo 7. Arco onorario 8. Portici, Domus Aurea 9. Vestibolo, Domus Aurea 10. Stagnum, Domus Aurea 11. Padiglione sul colle Oppio, Domus Aurea 12. Domus Tiberiana 13. «Bagni di Livia» 14. Tempio del divo Claudio 15. Macellum Magnum 16. Circo Massimo

a r c h e o 77


speciale nerone A destra: ricostruzione virtuale del ninfeo della Domus Transitoria, articolato in nicchie e ornato da colonnine marmoree. Della fastosa residenza neroniana pre-incendio rimangono, sotto il triclinio della Domus Flavia, i resti di strutture comunemente denominate «Bagni di Livia». Qui sotto: Domus Transitoria, il cosiddetto criptoportico neroniano (a sinistra) e la ricostruzione virtuale del padiglione posto davanti al ninfeo e sorretto da 12 colonne di porfido (a destra).

livellare il terreno in vista della costruzione del lago artificiale e di altre fabbriche della Domus Aurea. E, comunque, i lavori della ricostruzione in questa parte della città interessata dalla reggia, procedettero con rapidità e precisione, realizzando i vari corpi edilizi simultaneamente. L’attribuzione della colpa ai cristiani per l’incendio può essere stata suggerita a Nerone per distogliere da sé le accuse, sapendo che gli aderenti a questa nuova fede erano malvisti, ma può anche attribuirsi a delazioni di tipo religioso, se non 78 a r c h e o

alle stesse dichiarazioni di alcuni di loro piú ferventi, che parlavano di bruciare la nuova Babilonia, cioè Roma. Le pene previste dalla legge furono in ogni caso terribili e divennero occasione di una mortespettacolo che è stata molto trattata nella letteratura e nell’arte.

Alla ricerca di un alibi A Nerone occorreva ogni alibi possibile perché gli venivano riferiti i rumores contro di lui che giravano in città, e dopo poco fu scoperta la prima, importante congiura, detta

«pisoniana» perché colui che era stato scelto a sostituirlo era l’aristocratico Gaio Calpurnio Pisone. Vi avevano aderito senatori, cavalieri, comandi della Marina, il prefetto del pretorio Fenio Rufo, intellettuali, e la reazione fu esemplare: tutti mandati a morte o invitati al suicidio, come il poeta Lucano, lo scrittore Petronio e lo stesso Seneca. Fu un bagno di sangue e anche una risorsa economica, dal momento che – come in altri casi di persone sospettate – vennero confiscati i beni di coloro che erano stati rite-


Domus Transitoria. Ricostruzione virtuale della volta affrescata del padiglione.

un gioiello architettonico senza confronti

nuti complici o protagonisti (piú tardi, a causa della congiura «viniciana», si suicidò anche il generale Corbulone). L’incalzare negli ultimi anni di comportamenti lascivi e dissoluti, evidenziato dagli storici antichi, sembra seguire un copione utilizzato anche per altri imperatori della dinastia, a cominciare da Tiberio; ma, nel caso di Nerone, si accompagnava alle sue esibizioni teatrali, ritenute indegne per il ruolo rivestito, ai progetti urbanistici «fuori scala», alla realizzazione di un princi-

Della domus neroniana pre-incendio, la «Transitoria», restano strutture importanti – comunemente denominate «Bagni di Livia» – scavate a piú riprese sotto il triclinio della Domus Flavia. Attraverso due scale di accesso, si scende a un ricco cortile con ninfeo articolato in nicchie; la cascata alimentava gli zampilli antistanti il pulpito ornato di colonnine di marmo colorato, con base a capitello corinzio di bronzo dorato; la struttura ripropone le forme architettoniche di una quinta teatrale. Sul lato opposto un padiglione a dodici colonne di porfido, era posto nell’asse della cascata-salone ed era destinato all’imperatore, sdraiato nella lettiga in corrispondenza della nicchia retrostante. Ai lati, ambienti riccamente decorati, con pavimenti intarsiati e pareti di marmo con scene figurate, erano affrescati con raffigurazioni epiche e avevano le pareti arditamente interrotte da strutture a gradini per la caduta dell’acqua. Solo a Nerone – per fasto e tipologia della decorazione – possiamo attribuire questa costruzione, che doveva essere destinata al soggiorno estivo dell’imperatore (specus aestivus). Posta al piano inferiore al riparo del sole – gli ambienti prendevano luce solo dal piccolo cortile – era rinfrescata da articolati giochi d’acqua. Originale per pianta e architettura, è creazione di un geniale architetto coadiuvato da abili decoratori. Non esistono altri esempi di un complesso simile nel mondo ellenistico romano; i paralleli sono stati giustamente ricercati nell’architettura scenica, un argomento particolarmente caro a Nerone. L’intera superficie orizzontale e verticale del complesso (800 mq circa) era rivestita di preziosi marmi colorati; le volte affrescate e stuccate, dorate e arricchite di pasta vitrea e finti lapislazzuli, producevano effetti di raffinata opulenza. Scene figurate sono dipinte nel finto cassettonato delle volte. In uno degli ambienti minori, la profusione dell’oro è tale che immediato è il collegamento simbolico di questo ciclo con l’Età dell’Oro. Non si può non ricordare che Seneca prevedeva l’inizio «saeculi felicissimi» (Apocolocyntosis) alla morte di Claudio, quando il filo di lana aveva lasciato il posto al filo d’oro di Nerone. (...) In un altro degli ambienti le pitture (attualmente esposte al Museo Palatino), raffigurano scene incorniciate da grottesche; si tratta – anche se le interpretazioni non sono univoche – di quadri riferibili a eroi del ciclo troiano, che rafforzano, se ce ne fosse bisogno, l’attribuzione della costruzione. (…) Gli splendidi «Bagni di Livia» ebbero breve vita e uso limitato, come confermano i gradini delle scale dagli spigoli ancora vivi: l’incendio del 64 si propagò anche all’interno della Domus Transitoria, come attestano i marmi combusti, le tracce di fuoco sui materiali di scavo, i metalli fusi al centro del ninfeo. Maria Antonietta Tomei a r c h e o 79


speciale nerone

pato autocratico che andava incontro ai ceti inferiori, conquistati con i doni elargiti durante le gare al circo (missilia, contrassegni lanciati sulla folla, che corrispondevano a beni anche di gran valore) e gli stessi spettacoli allestiti con profusione di materiali rari e preziosi. Dal piú celebre ricevimento organizzato dal prefetto Tigellino sulla piscina di Agrippa, vicino alle terme (navi con fregi d’avorio e d’oro, con lupanari e sgualdrine sulle banchine, racconta Tacito), alla cornice scenografica con cui fu accolto Tiridate, il fratello del re dei Parti, che doveva ricevere dall’imperatore la corona d’Armenia, tutto era finaliz80 a r c h e o

zato ad assicurarsi la partecipazione entusiasta delle folle. Il senato, dal canto suo, privato di carriere legate all’espansione dell’impero e diventato sempre piú diffidente, riprese a ordire congiure e ad alimentare pamphlet scandalistici.

La grecità di Napoli Tiranneggiato dall’arte, sempre alla ricerca di successi personali sul palcoscenico, Nerone sottovalutò l’impatto che le sue esibizioni provocavano sui conservatori, coincidenti con la classe dirigente: ciò che era permesso e applaudito nella greca Napoli, a Roma era quasi tabú. Non considerando che gli allori conse-

guiti prescindevano dalla reale bravura, celebrò un trionfo scenografico al ritorno dalla Grecia, osannato dalla folla, che resta – in un certo senso – l’ultimo saluto alla plebe e una cifra del suo principato. L’altra, riguarda l’attività edilizia e il lusso decorativo: «Non vi è nulla in cui sia stato tanto prodigo quanto nell’edificare», sottolinea Svetonio. Abbiamo una pallida idea di quella che è stata la Domus Aurea, ma le ricerche e i nuovi studi sul Palatino ampliano le conoscenze della rivoluzione urbana di Nerone e del suo gusto artistico, come gli affreschi del Ninfeo risalente alla Domus Transitoria e la recente


una città nella città

Domus Aurea. Il ninfeo di Polifemo, nell’ala occidentale del padiglione del Colle Oppio.

La Domus Transitoria fu il primo progetto di Nerone per una residenza imperiale tale da varcare i limiti della Domus Tiberiana, sul Palatino. Spazi lussuosi, che si erano articolati e ampliati nel tempo, ma che non si presentavano come una reggia paragonabile a quelle piú famose del Mediterraneo, come Alessandria. Fu detta «Transitoria», perché consentiva il collegamento (non sappiamo precisamente come) con l’Esquilino, dove Mecenate aveva lasciato in eredità ad Augusto i suoi magnifici Horti, pieni di opere d’arte. Ma, dopo l’incendio, edifici, passaggi, ponti (?), giardini, furono compresi in un complesso piú unitario, armonico e fastoso: la Domus Aurea. È Svetonio a descriverla con maggiori particolari: porticati, aree boscose con animali di ogni specie, sale ornate d’oro e di pietre preziose, bagni forniti di acqua marina e, al centro, un lago «che sembrava un mare». Una piccola città nel cuore dell’Urbe, che comprendeva – oltre al Palatino – la collina della Velia, l’Esquilino, parte del Celio e la valle interna (dove in seguito, al posto del lago artificiale che Vespasiano farà prosciugare, sorgerà il Colosseo). La Casa d’Oro di Nerone, che prevedeva nell’atrio un colosso in bronzo dorato con le sue fattezze, comprendeva molte aree già facenti parte dell’asse ereditario dei Giulio-Claudii; ma i due architetti Severo e Celere, in pochi anni livellarono terreni, scavarono il lago, innalzarono porticati e terrazze degradanti, trasformarono in una spettacolare fontana la parte affacciata sulla valle del tempio dedicato a Claudio, rettificarono la Sacra Via nel Foro per metterla in asse con l’Atrio, affiancandole portici eleganti, diedero un aspetto

scoperta, nell’ex Vigna Barberini, di un possente pilone circolare (4 m di diametro) dal quale si partono arcate a raggiera, attribuibile secondo Maria Antonietta Tomei, che ne ha diretto lo scavo, alla Coenatio rotunda citata da Svetonio: «Il principale di questi saloni era rotondo e girava su se stesso tutto il giorno, continuamente, come la terra» (vedi «Archeo» n. 297, novembre 2009).

scenografico ai diversi edifici esistenti. La luminosità, i bagliori dorati, erano all’esterno e all’interno per far percepire il microcosmo imperiale come il luogo dal quale si irraggiavano sui sudditi splendore e benessere. Non fu però ultimata e, del complesso, rimane ben poco. Quella che oggi si indica come «Domus Aurea» è soltanto il cosiddetto Padiglione sul colle Oppio – lungo 330 m, solo parzialmente riportato alla luce –, conservatosi perché utilizzato da Traiano come sostruzione per le sue terme, e, pertanto, spogliato dei marmi che lo abbellivano, sigillato e privato del piano superiore. Molti affreschi e stucchi riescono ancora a dare l’idea del programma decorativo, come la «Sala dalla volta dorata», il cui soffitto a botte rivela cornici di stucco ricoperte di foglia d’oro che delimitano scene figurate rettangolari, rotonde e quadrate: colori e composizioni che hanno ispirato tanti affreschi di palazzi rinascimentali. Sempre nel settore orientale, la «Sala Ottagona», dotata di una cascata e ricoperta da una volta a cupola con oculo centrale, ha finora rimandato a quella descrizione di Svetonio del principale ambiente girevole, forse dotato di un rivestimento interno mobile di cui non conosciamo il sistema di azione, al pari dei tasselli d’avorio «mobili e perforati» che spargevano profumi sui convitati. Attualmente il Padiglione è chiuso, occupato dai ponteggi necessari per provvedere a nuovi restauri, al consolidamento, al risanamento dei danni provocati dalle infiltrazioni d’acqua del prato sovrastante. M. R. P.

Ingegneri e architetti erano impegnati anche in altri, grandiosi progetti. Dopo aver provveduto a migliorare il porto di Ostia, in terra ellenica, dove aveva esentato l’Acaia dal pagamento dei tributi a Roma, l’imperatore aveva iniziato il taglio dell’Istmo di Corinto.

e Caligola, si accompagnava a quello del canale artificiale che dal lago Averno, vicino Pozzuoli, doveva raggiungere Ostia, consentendo la navigazione in senso contrario a due quinqueremi, come precisa Svetonio. Erano pianificazioni dai costi enormi, ma volte entrambe a diminuire i tempi di navigazione e a evitare naufragi di merci di prima Progetti ambiziosi L’ardito disegno, già accarezzato da necessità. Due sfide rimaste incomDemetrio Poliorcete, Giulio Cesare piute: la prima, fu realizzata nell’Ota r c h e o 81


speciale nerone l’imperatore si racconta: la storia, i luoghi e le opere È alla Curia Iulia, nel Foro Romano, che Nerone, Colosseo, con la storia del grande incendio del 64 d.C. insieme a tutta la sua famiglia, accoglie i visitatori e la costruzione della Domus Aurea, con un filmato e della mostra aperta fino al 18 settembre, promossa gigantografie che consentono di comprendere in un dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici colpo d’occhio la reale estensione del progetto. Infatti, di Roma. Il percorso si articola in sette punti, che nell’opinione comune la Domus Aurea coincide con il invitano a rileggere la vita del principe attraversando il solo complesso del colle Oppio giunto sino a noi. Foro stesso e il Palatino, fino a giungere al Colosseo. L’evolversi del disastroso incendio, invece, è illustrato Insieme ai busti ritratto esposti nella curia, la sede del in un video che, sulla base del resoconto di Tacito, senato dell’antica Roma illustra anche la leggenda segue i nove giorni della catastrofe, dal primo focolaio nera presentando dipinti e divampato nel Circo Massimo sculture di età moderna che nella notte tra il 18 e il 19 dimostrano la fama nei secoli. luglio del 64, fino all’estinzione Si prosegue poi nel tempio di e alla constatazione dei danni: Romolo con un video wall dove tra le tracce dell’incendio viene proiettata un’antologia rinvenute nella valle del cinematografica che ha come Colosseo e lungo le pendici protagonista Nerone nelle orientali del Palatino nel celebri interpretazioni, solo per corso degli scavi condotti dal citarne alcune, di Petrolini, 1986 a oggi, la grata in ferro Peter Ustinov e Alberto Sordi. combusta di una ricca dimora. Nerone è l’imperatore che ha In questa mostra, che riunisce da sempre ispirato i cineasti, e, sculture, rilievi, affreschi, già nel 1896, un collaboratore dipinti e reperti di recenti dei fratelli Lumière, Georges scavi, i visitatori possono Hatot, girò il primo peplum osservare da vicino settori della storia, di 52 secondi, delle residenze neroniane intitolato Néron essayant des ancora in corso di scavo. poisons sur des esclaves In particolare al cantiere (Nerone sperimenta alcuni sugli Orti Farnesiani, dove veleni sugli schiavi). sono riemersi importanti resti La visita continua nel della Domus Tiberiana, il Criptoportico neroniano, nel palazzo in cui Nerone visse quale si affronta il tema del insieme al patrigno Claudio, lusso sfrenato profuso nei che lo adottò, e alla madre palazzi neroniani e la Agrippina e dove fu dove e quando propaganda attraverso iscrizioni e proclamato imperatore. Inoltre, rilievi che ne raccontano le gesta. sulla Vigna Barberini si possono «Nerone» Nel Museo Palatino è illustrato il fasto vedere – e approfondire Area archeologica centrale della Domus Transitoria, il palazzo attraverso un filmato – i resti fino al 12 settembre 2011 costruito da Nerone prima dell’incendio, della presunta Coenatio rotunda, Orario tutti i giorni, 8,30-17,30 la sala da pranzo girevole, non solo attraverso marmi policromi e a un’ora prima del tramonto affreschi, ma anche, e per la prima secondo l’interpretazione di Info e visite guidate Pierreci, tel. Maria Antonietta Tomei, già volta, con un video che ne ipotizza la 06 39967700; www.pierreci.it ricostruzione in 3D. citata da Svetonio e riemersa Catalogo Electa La mostra si conclude al II ordine del dagli scavi nel 2009.

tocento, seguendo paradossalmente il progetto degli ingegneri neroniani; la seconda, tracciata fin oltre l’incrocio del fiume Volturno, ha invece lasciato il ricordo nelle foto aeree del secolo scorso (nella zona di Monte Nuovo restano sott’acqua costruzioni in calcestruzzo larghe 40 m e lunghe un centinaio). 82 a r c h e o

Sempre meno primus inter pares e sempre piú despota, sempre meno discendente di Augusto e sempre piú seguace dell’avo Marco Antonio, guardava alla realizzazione di una monarchia assolutistica di stampo orientale, allontanandosi definitivamente dalla strada seguita nei primi anni. Saltò cosí definiti-

vamente, come interlocutore, quel senato che, da una parte, l’osteggiava, dall’altra mostrava a ogni occasione un servilismo strisciante, messo in risalto anche dal «senatore» Tacito in occasione della straziante fine di Ottavia («Non tacerò nemmeno quelle deliberazioni del senato che toccarono il fondo di


Nella pagina accanto, in alto: Domus Aurea, sala di Achille a Sciro, particolare della scena al centro della volta. A destra: i resti ipotetici della Coenatio rotunda, in corso di scavo, nell’area della Vigna Barberini, sul colle Palatino. Al centro, il possente pilone centrale, del diametro di 4 m, che, probabilmente, fungeva da struttura di sostegno per l’ampia sala da pranzo circolare descritta da Svetonio nelle Vite dei Cesari.

del Popolo), in un sarcofago di porfido. Ma in tanti, anche a distanza di tempo, vi si recarono a deporre fiori e onorarne la memoria. Addirittura, gli ambasciatori del re dei Parti Vologese – è Svetonio a ogni piú inaudita adulazione»). riferirlo –, quando arrivarono a Proseguendo l’attuazione del Roma per rinnovare i trattati di nuovo piano regolatore e accelealleanza, chiesero ai senatori che rando la costruzione della Domus fosse «venerata» la memoria di NeAurea e del colosso di bronzo dorone. E, non a caso, Salvio Otone, rato che lo rappresentava col capo succeduto per breve tempo a Galba, radiato, mostrava chiaro il suo sicuro cosí di acquisire consensi, obiettivo: il dialogo diretto con le aggiunse negli atti ufficiali al promasse, delle quali avvertiva le deprio nome quello di Nerone, lasciò vozione. A loro si rivolgeva il suo che fossero rimesse in piedi le statue messaggio di benessere e prospedel predecessore che gli aveva porrità: Nerone nuovo Apollo (non tato via la moglie, avanzò una proera cosí che lo aveva salutato Seposta di matrimonio (rifiutata) a neca?), attraverso la sontuosità e lo Statilia Messalina e provvide a stansplendore rassicurava i sudditi sul ziare 50 milioni di sesterzi per combenessere dell’impero. pletare la Domus Aurea. La mancanza di esequie pubbliche, Situazione fuori controllo il rimpianto (della «plebe sordida», In realtà, l’opposizione si estendeva sottolinea Tacito), le leggende mee le finanze erano in grave sofferentropolitane, alimentarono la creza; proprio la conseguente pressiodenza che Nerone non fosse davvene fiscale nelle province sarà alla ro morto. E accadde che, negli anni base della sua fine prematura. Ma la ribellione delle province galliche, aveva inondato Roma d’oro, toccò seguenti, alcuni in Oriente si spacseguita da quella spagnola, fu prima cosí morire, nel giugno del 68, sui- ciarono per lui, trovando sempre ignorata e poi sottovalutata. All’ini- cida «per complotto», con una veste seguaci e sostenitori. zio, le legioni delle due Germanie, lacera e in una villetta senza luce, Nell’amaro, grande affresco tacitiano, l’impero appariva un male nesempre fedeli, che vinsero Vindice, immersa nelle sterpaglie. il primo a ribellarsi, rassicurarono Le fonti letterarie, dopo la scom- cessario, avendo messo fine alle Nerone; ma, nel giro di poche set- parsa di Nerone, si mostrano con- guerre civili (che pure, alla morte di timane, la situazione divenne in- traddittorie: l’odiato tiranno è infat- Nerone, si verificarono per un ancontrollabile, anche perché il pre- ti consegnato ai posteri come un no): pur provocando sdegno per gli fetto del pretorio Ninfidio Sabino, sovrano amato dalla gente. Il senato, eccessi e le crudeltà, offriva l’unica che tramava con Sulpicio Galba, che pure lo aveva dichiarato hostis garanzia per la sopravvivenza della riuscí a suscitare il panico nell’im- publicus, ne consentí la cerimonia grande Roma. Infatti, ebbe a scriveperatore con false notizie allarmisti- funebre privata, ma sontuosa, e Ne- re laconicamente, la res publica rimarone venne sepolto nel Mausoleo ne; sono i príncipi che vanno e che. Ebbe gioco facile. All’ultimo dei Giulio-Claudii, che dei Domizi (vicino l’attuale piazza vengono. a r c h e o 83


Le future vittime del Colosseo, olio su tela di Henryk H. Siemiradzki, del 1899. Varsavia, Seminario Vescovile. Il dipinto rappresenta un gruppo di persone che ascoltano la lezione di un vegliardo, forse uno dei seguaci di San Pietro o San Paolo. Sullo sfondo il Colosseo con il famoso Colosso di Nerone in veste di Sole.



storia storia dei greci/6

Passaggio a Sud-Ovest di Fabrizio Polacco

Tra l’VIII e il VII secolo a.C., da piú parti della Grecia, numerose spedizioni prendono il mare, in cerca di terre nelle quali vivere un’esistenza meno incerta di quella che le aride regioni della madrepatria potevano offrire. Ha inizio un movimento colonizzatore di portata vastissima, che ebbe, nello sviluppo storico del mondo mediterraneo, risvolti non soltanto economici

D

ue grandi imbarcazioni si avvicinano alle coste meridionali dell’Italia dopo un lungo ed estenuante viaggio sulle acque del Mediterraneo. Ciascuna trasporta un centinaio di persone, quasi esclusivamente giovani uomini. Molti hanno lasciato la patria per sottrarsi alla miseria, visto che le terre non producevano piú a sufficienza per sostenere una popolazione in costante aumento; altri sono fuggiti di fronte a disordini e guerre civili; alcuni, piú intraprendenti, sono invece in cerca di fortuna e sperano di avviare là dove arriveranno attività agricole o commerciali: tra di essi vi sono alcuni artigiani, che conoscono bene il loro mestiere. La spedizione è guidata da un capo, scelto nella terra d’origine tra le famiglie piú illustri per la sua autorevolezza al fine di portare a compimento la difficile impresa. Tutti si attendono di trovare nella nuova patria il benessere e rapporti sociali basati su una maggiore libertà e uguaglianza sociale. Una scena simile dovette ripetersi spesso nei nostri mari tra l’VIII e il VII secolo a.C., magari sotto lo sguardo sorpreso e timoroso di popolazioni locali la cui esistenza ave-

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Kylix (coppa per bere a due manici) a figure nere, da Vulci. Firmata dal vasaio Nicostene, attivo in Grecia tra il 530 e il 510 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Vi è raffigurata una nave, che possiamo immaginare simile a quelle impiegate dai coloni greci nei loro viaggi alla ricerca di nuove terre nelle quali insediarsi.


va seguito per tempi immemorabili le stesse consuetudini, ora sconvolte dall’arrivo di quegli stranieri dall’aria decisa e determinata. Per il Mediterraneo e per le coste dei tre continenti che vi si affacciano sta per aprirsi una nuova era. Nessun grande Stato unitario vi domina con una flotta, e le rotte di navigazione sono da qualche decennio aperte all’intraprendenza di due giovani popoli in espansione che muovono da piccole città-stato: Fenici e Greci. I primi si dirigono alle coste dell’Africa, della Spagna meridionale, della Sicilia occidentale e della Sardegna, fondandovi, tra piccoli centri e scali commerciali, anche una città destinata a grande avvenire: Cartagine. I Greci sono ancor piú numerosi e provengono da una

regione assai piú estesa della Fenicia, avente al suo centro l’Egeo e comprendente la Penisola ellenica e le coste occidentali dell’Anatolia. Entrano in concorrenza con i rivali appena in tempo per impedire loro di impadronirsi di tutta la Sicilia. Fondano numerose città destinate a conquistarsi fama e ricchezza, e a sopravvivere molto spesso fino ai giorni nostri: Bisanzio – l’odierna Istanbul –, Siracusa, Taranto, Marsiglia, Agrigento, Napoli, Odessa, Reggio Calabria, Costanza, Taranto, Catania.

Dall’Egeo al Tirreno Soprattutto, le loro colonie cambieranno radicalmente il volto e la storia dei popoli con cui vengono a contatto. Grazie a questo ampio fenomeno migratorio e di coloniz-

zazione i Paesi meridionali del nostro Continente, dal Mar Nero alla Penisola iberica, iniziano ad avere una storia comune e a condividere una stessa cultura, che sarà prima greca e poi romana, e che ha posto le premesse del mondo che definiamo europeo e occidentale. Ma quale molla fece partire i Greci per la grande avventura d’oltremare? Una delle rare cronache di una colonizzazione che ci è giunta, quella di Cirene, menziona una carestia con la conseguente sovrappopolazione, e mette quindi in gioco da un lato necessità vitali, dall’altro lo spirito di intraprendenza (vedi box a p. 90). È comunque certo che, dopo gli sconvolgimenti verificatisi nei cosiddetti «secoli bui», una fase di stabilità e di relativa pace aveva incentivato notevolmente le nascite, e, insieme, la richiesta di beni di necessità o di articoli di consumo. La Grecia è una penisola relativamente povera, tanto di risorse minerarie quanto di terre coltivabili: se la sua popolazione vuole crescere deve proiettarsi all’esterno, commerciare ed emigrare. Ad avviare l’impresa


storia storia dei greci/6

Oceano At Atlantico

i l t e C

La grande espansione coloniale dei Greci nel Mediterraneo (VIII-VI sec. a.C.) Dori

Colonie eoliche e achee

Ioni

Metropoli greche

Eoli e Achei

Colonie greche in Egitto

Colonie doriche

Rotte commerciali greche

Colonie ioniche

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Emeroscopio

N u m i d i In alto: i resti del díolkos, la strada in pietra costruita sull’Istmo di Corinto per permettere il trasporto delle merci dal Mare Egeo allo Ionio, e viceversa, evitando la circumnavigazione del Peloponneso. A destra: mappa della colonizzazione greca nella regione mediterranea.

sono, non a caso, due piccole città, prossime tra loro ed esperte di navigazione, ma dal limitato entroterra fertile. Chi ha visto anche da lontano l’isola Eubea, a nord dell’Attica, sa che è costituita da una lunga e alta sequenza di monti, aguzzi come il dorso di un drago. Ebbene, le due città (Calcide ed Eretria) sono talmente vicine – una ventina di chilometri –, che decidono di compartecipare alle spedizioni oltremare. La prima portò i migranti incredibilmente lontano, almeno per quei tempi: a Ischia, di fronte alle terre campane ove si incrociavano gli Etruschi e altri bellicosi popoli italici, circostanza che spiega la prudenza dimostrata con lo stabilirsi su un’isola. Ma, una volta prese le misure, i coloni sbarcano sulla terraferma e fondano Cuma, appena fuori dal golfo di Napoli, che diverrà cosí la prima città ellenica della Penisola. Siamo negli stessi anni in cui gli 88 a r c h e o

Etruschi si organizzano anch’essi in città-stato, forse proprio per influsso dei nuovi arrivati, mentre le comunità dei colli del basso Tevere avvertono il bisogno di unirsi e di tracciare le mura di una città, Roma (VIII secolo a.C.).

Colonie «libere» A Ischia (allora Pithekoussa) gli archeologi hanno trovato su un vaso una delle piú antiche iscrizioni alfabetiche greche, contenente un raffinato rimando letterario a un passo omerico: un segnale a riprova del fatto che i migranti giunti da Oriente non portavano solo paura e potenziali conflitti, ma anche un’intera cultura, un rivoluzionario sistema di scrittura, un patrimonio mitico-religioso di eccezionale ricchezza: «beni» che furono ben presto assimilati da molti popoli italici. Una volta aperte le rotte e constatato che gli insediamenti in quelle lontane sponde erano possibili e redditizi, ebbe inizio un susseguirsi

di partenze e di colonizzazioni. A fare la parte del leone furono le «città marinare» di allora. Assieme alle poleis dell’Eubea, primeggiavano quelle sull’Istmo, collocate strategicamente a cavallo tra il Mare Egeo e lo Ionio: Corinto e la vicina Megara (vedi box nella pagina accanto). E poi quelle della Ionia d’Asia, come Samo e Mileto. Non deve stupirci di trovare in disparte le celebri Sparta, Atene e Tebe: a quel tempo dovevano ancora affermarsi, e inoltre disponevano di pianure sufficientemente estese già nei loro dintorni; la loro «colonizzazione», per cosí dire, si svolse dunque nelle stesse regioni di pertinenza: Peloponneso, Attica e Beozia. Vista anche la lontananza dalla madrepatria, le nuove fondazioni presero a governarsi da sé. Culti e dialetto, oltre ai vincoli di sangue, le mantennero tuttavia idealmente collegate alle città d’origine, con le quali intrattenevano rapporti commerciali privilegiati, e dalle quali proveniva-


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navi con le ruote Sia Corinto che Megara sono poleis di dialetto dorico situate sulla lingua di terra che collega il Peloponneso alla Grecia centrale. Questa collocazione ideale permise loro di avere due porti su entrambi i versanti dell’istmo: Corinto ebbe Lecheo e Kenchree, Megara, Page e Nisea. Per di piú, l’istmo misurava nel punto piú stretto appena 6 km, e i Corinzi intagliarono e pavimentarono tra i due mari una strada in pietra detta díolkos. Una volta tolto l’albero e disarmate le navi, queste venivano poste su carri, trascinate (dielko significa appunto «trascino») dallo Ionio all’Egeo o viceversa, e lí riequipaggiate e rimesse in acqua. Tracce del diolco esistono tuttora, purtroppo minacciate dall’incuria e dall’erosione.

A destra: foto da satellitare dell’Istmo di Corinto, tagliato dal canale che, dalla fine del XIX sec., collega il golfo omonimo con il Mare Egeo. Il suo corso interseca in piú punti l’antico díolkos.

page

diolkos Lecheo Canale di corinto

Kenchree


storia storia dei greci/6 A cirene, su navi da cinquanta remi Sorta nella regione libica a cui darà poi il nome, Cirene fu fondata attorno al 630 a.C. dagli abitanti dell’isola di Thera (oggi Santorini, nell’Egeo). Secondo Erodoto, l’oracolo di Apollo a Delfi aveva indicato al loro re di fondare una colonia in Libia. Tuttavia, nessuno di essi «sapeva in quale parte della terra fosse la Libia». Quindi il re non diede seguito alla cosa, almeno «finché su Thera non cadde pioggia per sette anni continui, sicché tutte le piante si erano inaridite, tranne una». Appreso dall’oracolo che ciò era dovuto all’ira del dio, il re trovò un pescatore di Creta che era già stato in Libia, lo mandò in avanscoperta con un gruppo di Terei,

e infine incaricò il giovane Batto di dedurre la colonia. Si scelse in ciascun distretto di Thera «un fratello su due», sorteggiandolo da ogni famiglia. Sotto la guida di Batto, che sarebbe divenuto il loro re, giunsero in Libia «su due navi da cinquanta remi» (i pentecontori). Dapprima, scoraggiati alla vista dei luoghi, cercarono di tornare in patria, ma gli abitanti e familiari rimasti «li ricacciarono, non permisero loro di approdare, e li costrinsero a riattraversare il mare». In realtà, proprio in Libia non giunsero, poiché i Terei si installarono a quel punto su un’isoletta lungo le sue coste. Ma poiché anche lí «nulla riusciva loro favorevole» consultarono di nuovo il dio, il quale precisò che proprio sulla terraferma libica dovevano andare. Si trasferirono allora sulla costa immediatamente di fronte all’isola. Dopo altri sei anni, si affidarono però ad alcuni indigeni che li condussero in un altro luogo dove, dicevano, «il cielo era forato», cioè le piogge erano piú frequenti. Lí, finalmente, venne fondata la splendida Cirene. I resti del tempio di Zeus a Cirene, in Libia.

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no, di tanto in tanto, ulteriori apporti di popolazione. Non dobbiamo comunque pensare, magari per analogia con le colonie europee dell’età moderna, a conquiste ed espansioni territoriali della madrepatria, e quindi neppure a una dipendenza politica e amministrativa da essa. A sorgere e a svilupparsi furono piuttosto nuove vere città-stato, con una politica interna ed estera indipendente, che, talvolta, entrò addirittura in conflitto con quella della città di partenza. Spesso, inoltre, i fondatori di una medesima colonia provenivano da città diverse; una commistione che, se non si era verificata fin dal principio, poteva determinarsi in seguito, tanto che in alcuni casi portò a cambiare il nome della città: cosí la calcidese Zancle divenne Messina (Messana) dopo l’arrivo di profughi dalla Messenia, i quali si sottraevano all’occupazione da parte degli Spartani.

In guerra, a viso aperto I rapporti tra Calcide ed Eretria, come accadeva spesso tra poleis greche confinanti, erano soggetti a frequenti rotture, e quindi ben presto venne meno anche la loro cooperazione migratoria. La stessa fame di terre che le aveva spinte oltremare le portò allo scontro per il control-

lo dalla piana di un piccolo fiume, il Lelanto. Questa guerra, che fu la prima storicamente registrata in Grecia, si estese con una sorta di effetto domino ad altre potenti città, che intervennero a sostegno delle rivali. Siamo tra il 730 e il 700 a.C., e sappiamo che il conflitto fu combattuto ancora «alla maniera antica», cioè da cavalieri, «con esclusioni di armi da getto o da lancio», vale a dire pietre o frecce. Ritenute armi vili, in quanto utilizzabili da plebei sprovvisti di armature complete, erano oltretutto considerate sleali: l’etica aristocratica imponeva un confronto ravvicinato e a viso aperto, secondo il modello della «singolar tenzone» omerica. La «guerra lelantina» fu probabilmente anche l’ultima combattuta in tal modo. Nuovi tempi si preparavano, e furono in buona parte determinati anche dall’imponente fenomeno migratorio che pure gli stessi aristocratici avevano avviato. Il rapporto con Paesi nuovi e lontani significò un aumento cospicuo dei commerci e dei guadagni, stavolta non piú legati esclusivamente alla disponibilità di terra. Tra l’altro, una volta giunti a destinazione, i migranti potevano procurarsi facilmente anche nuove terre, che nella madrepatria non avrebbero mai avuto i mezzi per acquisire. Inoltre, collocati tra loro su un piano di sostanziale parità, accomunati com’erano dalle difficoltà dell’impresa, e installandosi in zone vergini, essi in genere procedettero a una distribuzione dei nuovi possedimenti su base paritaria: uguali lotti, della stessa estensione, per tutti. Ce lo rivelano le planimetrie «a scacchiera» di alcune fondazioni cittadine dell’Italia meridionale e della Sicilia, ma anche, in alcune colonie divenute via via sempre piú popolose, come Siracusa, il nome riservato ai coloni giunti con la «prima ondata»: «Gamoroi», cioè «coloro che si sono spartiti la terra». Secondo quali leggi si sarebbero governate le nuove fondazioni? Il rimescolamento sociale verificatosi nella spedizione, il venir meno dei

vincoli politici esistenti in madrepatria, la provenienza da poleis diverse rendevano impossibile la pura e semplice riproposizione di gerarchie precedenti o di modelli di vita consueti. Le norme del vivere comune andavano perciò riscritte: o, meglio, scritte per la prima volta. Le rispettive costituzioni tradizionali, legate a un passato ormai superato, erano state fino ad allora tramandate oralmente e spesso arbitrariamente dagli àristoi, e non potevano valere piú in quelle città create ex novo. I coloni furono costretti a mettere «nero su bianco», o, piú esattamente, a incidere su pietra quelle regole che dovevano guidarli con sicurezza e fermezza in luoghi talvolta poco noti e potenzialmente ostili. Non stupisce perciò che le prime leggi fossero particolarmente rigide e severe; tanto che, secondo un celebre aneddoto, ne rimase vittima anche uno dei loro stessi formulatori, Caronda di Catania (vedi box a p. 92). Ma la palma di piú antico legislatore dell’Occidente va a un personaggio di pochi decenni precedente, Zaleuco (metà del VII secolo a.C.): e il primato di questa importante innovazione va alla polis in cui visse e operò, una cittadina che esiste ancora nella splendida e travagliata terra di Calabria, e si chiama Locri, Locri Epizefiri.

I portatori di scudo La ventata di cambiamenti levatasi dalle colonie spirò ben presto anche sulla madrepatria, sotto forma di idee, ma anche di nuovi prodotti e di ricchezze, che ormai finivano non solo nelle mani degli aristocratici, ma dei piú capaci, dei piú abili o dei piú spregiudicati tra i cittadini. A fianco della nobiltà terriera sorse un nuovo ceto di artigiani, marinai e commercianti. I piú ricchi tra loro, sebbene non fossero sempre in grado di possedere allevamenti di cavalli, riuscivano però a procurarsi armature efficienti. La maggiore disponibilità di metalli, dal raro stagno al ferro, la crea r c h e o 91


storia storia dei greci/6 la tragica fine di un legislatore Valerio Massimo (scrittore latino attivo nel I secolo d.C.) riporta un aneddoto che ben esprime la serietà con cui i legislatori esigevano il rispetto delle loro leggi: «Caronda aveva pacificato le assemblee dei cittadini, a quel tempo turbolente fino alla violenza e allo spargimento di sangue, stabilendo che, se qualcuno fosse entrato in una di esse portando armi, venisse giustiziato all’istante. Una volta passato del tempo, egli stava tornando a casa da un suo lontano fondo di campagna con una spada alla cinta. Proprio in quel mentre fu indetta all’improvviso un’assemblea, ed egli vi entrò cosí come si trovava. Avvertito da quello che gli era piú vicino che lui aveva trasgredito la sua stessa legge, disse: “Io stesso, dunque, l’applicherò”, e impugnata subito la spada che aveva, vi si gettò sopra; e, sebbene potesse o cercare di dissimulare la colpa, o scusarsene come di un errore, preferí divenire immagine vivente dell’applicazione della pena purché non fosse commesso un inganno ai danni della giustizia».

La guerra non premia piú le prodezze individuali, ma l’affiatamento collettivo scente perizia tecnica nel forgiarli, e, infine, la piú vasta platea di potenziali acquirenti e utilizzatori di armi sono i fattori concomitanti che portarono, nella prima metà del VII secolo a.C., all’evoluzione della tecnica militare. Si constatò che un corpo numeroso e compatto di fanti forniti di armatura completa, compreso l’ampio e pesante scudo circolare (detto òplon), era in grado di spezzare l’impeto di qualunque cavalleria. In comunità perennemente in stato di guerra e nelle quali da sempre valore in battaglia e preminenza politica procedevano di pari passo, l’avvento di coloro che saranno chiamati «opliti» creò gradualmente un contrappeso alle antiche aristocrazie, ne erose il potere e, infine, le costrinse a venire a patti nella gestione del governo. La partecipazione alle car iche pubbliche iniziò a basarsi non piú sul diritto di nascita, ma sulla ricchezza: mentre quello era esclusi92 a r c h e o

vo di una élite chiusa, poiché non trasferibile, questa era conseguibile potenzialmente da chiunque, e quindi, sia pure in misura diversa, da una classe piú ampia di cittadini. Nelle varie città, gli opliti potevano costituire anche un terzo della popolazione libera. A differenza degli aristocratici, che erano assai ridotti di numero e spesso in competizione tra loro per questioni di onore o di prestigio, i nuovi ricchi traevano dall’aspirazione a sostituirsi a essi un’unità di intenti, che li rese quasi dappertutto vincitori.

Compatti contro il nemico Un magnifico vaso corinzio di stile orientalizzante, la cosiddetta Olpe Chigi, risalente agli anni attorno al 650 a.C., è un’esemplare raffigurazione di questi nuovi «cittadini guerrieri», còlti in procinto di affrontarsi in schiere ben allineate e contrapposte (vedi l’immagine in queste pagine). Alcuni particolari

colpiscono l’attenzione. La loro compattezza ha finalità innanzitutto difensive: con la metà sinistra dello scudo, inutile poiché non copriva l’oplita che lo imbracciava, si poteva tuttavia proteggere il lato destro, scoperto, del corpo del compagno collocato a fianco. Quando lo schieramento si compattava e andava all’assalto, lo faceva a ranghi stretti e ordinati, mantenendo scrupolosamente il passo e le reciproche distanze. Si creava cosí un blocco compatto di scudi, da cui emergevano solo le estremità delle lance – in genere non scagliate, bensí usate come armi da punta –, capace di esercitare una notevole pressione una volta giunto a contatto con lo schieramento avversario.Vinceva la parte che meglio manteneva l’ordine, quella che non fuggiva. Tra i guerrieri, sopravviveva chi sapeva tenersi ben saldo e stretto al compagno vicino. La guerra ormai non premia piú le


Schiere di opliti affrontate, particolare dell’Olpe Chigi, da Veio. 650 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Il vaso, trovato alla fine dell’Ottocento in uno dei tumuli della città etrusca alle porte di Roma, è uno dei capolavori della produzione corinzia.

prodezze individuali, le aristíe (prodezze) tipiche degli eroi iliadici, ma l’affiatamento collettivo e lo spirito di corpo. Il cameratismo guerriero, esteso via via a un numero sempre maggiore di opliti, divenne l’arma vincente nei conflitti tra poleis. Per questo, ogni virtú o comportamento capace di unire i cittadini venne coltivato e incentivato fin dalla prima giovinezza da parte della comunità.

Nuovi legami In quelle città di qualche centinaio, al massimo poche migliaia di cittadini maschi adulti, il nuovo legame «politico» si affiancò e si sovrappose gradualmente a quello «genetico» o familiare. Lo Stato – o meglio, il gruppo di cittadini che lo rappresentavano, scelti di anno in anno dagli altri per guidare temporaneamente la comunità – volle prendersi cura direttamente dell’educazione dell’individuo. La morale eroica dell’onore venne sostituita da

un’etica politica della partecipazione e della uguaglianza. La «Giustizia» (Dike) e le leggi, cantate dai poeti e celebrate nelle feste religiose e nelle gare atletiche, divennero il saldo fondamento della città. Un altro particolare ancora ci colpisce, nell’Olpe Chigi. Le schiere avanzano al suono di un flauto: il ritmo che dava il tempo alla marcia guerriera, il canto che l’accompagnava, erano il segno di un nuovo spirito di armonia sociale che, nei secoli successivi, ogni città cercò di perseguire nel modo migliore, con tentativi che daranno origine, come vedremo, a una nuova tèchne, o «arte», quella della politica. Al precedente ordinamento naturale, basato sulla famiglia, sul clan (fratria) o sulla tribú, non dissimile in fondo da quello in vigore presso alcune specie animali, si affianca un ordinamento esclusivamente razionale e umano, basato su legami di partecipazione e di condivisione, che sarà tipico del nuovo meccani-

smo comunitario escogitato dai Greci: la polis. Quando Aristotele afferma che «l’uomo è per natura un animale politico», vuol dire che solo la polis può sottrarre il destino individuale alla cieca catena deterministica fondata sul patrimonio genetico, alla «tradizione familiare», e consente lo sviluppo di un essere potenzialmente nuovo, che ricerca e sperimenta nella libertà e nell’ordine garantiti dalla legge la sua piú profonda e vera natura. (6 – continua) le puntate di questa serie Questi gli argomenti dei prossimi capitoli di questa storia dei Greci: • Sparta fuori dagli schemi • L’avanguardia ionica e la scommessa attica • Tra tirannidi e democrazie • Le guerre persiane • La democrazia navale di Atene • L’età di Pericle a r c h e o 93


storia usus equorum

Emergenza

sicurezza

di Flavio Russo

A

partire dall’ultima fase dell’agonia dell’impero romano d’Occidente, cresce il ricorso alla fortificazione elementare, persino in edifici che mai prima ne avevano avuto bisogno. Dalle masserie periferiche, agli ovili isolati, dai santuari remoti ai monasteri appartati, l’adozione di espedienti architettonici difensivi s’impose per garantirsi un minimo di protezione dai predoni e da barbari sbandati. Fortificazione leggere, di scarsa resistenza, che, tuttavia, si dimostrarono talmente efficaci – per l’incapacità dei razziatori ad averne ragione (privi di competenze, attrezzi e, soprattutto, di tempo per farlo) –, da dilagare, adattandosi pure a impieghi originali in breve tempo, e sempre risarcendo i suoi oneri d’impianto. Furono dunque protetti

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Veduta aerea del fortino di Jublains (Mayenne, Paesi della Loira, Francia nord-occidentale), ritenuto un granaio fortificato del III sec. d.C.

pozzi, granai, ponti, darsene, ricetti per il bestiame e in particolare le grandi fattorie, definite all’epoca ville rustiche. Con una duplice motivazione: impedirne la distruzione ed evitare che le relative conquiste favorissero gli aggressori. I prodromi della vicenda si manifestarono nelle regioni agricole del nord Europa e quella inedita architettura rurale sembra anticipare di quasi un millennio il castello svevo, un quadrato con quattro torri quadrate ai vertici. Le connotazioni che maggiormente distinguevano le villa rustiche del III e IV secolo dalle precedenti erano, infatti, l’adozione della pianta quadrilatera chiusa, con


Al volgere del III secolo d.C. l’impero romano non è piú una formidabile e gioiosa macchina da guerra (e di potere). Le difficoltà si moltiplicano e l’apparato statale stenta a garantire l’incolumità dei cittadini: una situazione alla quale l’imperatore Valentiniano cerca di ovviare con insolite concessioni alla difesa «fai da te» e con una singolare norma, che proibiva, pena la morte, l’uso... del cavallo Fattorie come fortini e predoni disarcionati Particolare di un mosaico raffigurante un cacciatore a cavallo, all’inseguimento di una pantera. IV sec. d.C. Mérida, Museo Regional de Arte Romano de Mérida. All’epoca in cui l’opera fu realizzata, l’impero romano faticava a garantire la sicurezza all’interno dei suoi confini: subiva le ripetute incursioni delle popolazioni barbariche, mentre le aree rurali erano sempre piú esposte alle scorrerie dei predoni. A questi rischi si cercò di far fronte, fra gli altri, con la frequente fortificazione delle ville rustiche e con l’emanazione di un decreto, denominato Usus equorum, che proibiva l’allevamento e l’uso dei cavalli. Con quest’ultimo provvedimento, si sperava di mettere i briganti in condizioni di non nuocere, poiché, appiedati, avrebbero potuto essere bloccati piú facilmente.


storia usus ususequorum equorum L’evoluzione delle ville rustiche

Ricostruzione grafica di una villa rustica romana, che si articola secondo lo schema ampiamente attestato della pianta a «U», con il corpo principale della struttura a fare da base e due bracci paralleli porticati affacciati sul giardino.

alte mura cieche lungo la base e torrette ai vertici, che conferivano un aspetto di fortificazione civile. Non fu un’elaborazione improvvisa, bensí l’esito di mutazioni progressive, a partire dalla tradizionale pianta a «U», che, dopo un’effimera modifica ottenuta chiudendo con un muro il giardino e incrementando le due colombaie, nell’ultimo stadio della trasformazione era divenuta una sorta di quadrilatero, con quattro corpi di fabbrica cingenti una corte centrale. Unico era il vano d’accesso carraio, serrato da un solido portone ferrato e, ai quattro spigoli, svettavano altrettante colombaie, trasformatesi in vere e proprie torri per la loro maggiore ampiezza e altezza. Sotto il loro tetto a padiglione si sviluppavano grandi logge, ideali per essiccare le derrate, ma anche per la difesa piombante, poiché permettevano il fiancheggiamento dalle tante saettiere lasciate nei muri esterni insieme alle cellette per i colombi, fonti di concime pregiato e mezzo di comunicazione rapido e sicuro. 96 a r c h e o

Dal punto di vista giuridico, l’avvento, e il diffondersi, alle spalle dei limites e in tutte le regioni marginali dell’impero di quella sorta di castelli rurali – con il loro nutrito corollario di armi proprie e improprie, quali archi, fionde e attrezzi agricoli modificati – sembrano tramandare una tacita autorizzazione del potere centrale alla difesa civile organizzata.

«Privatizzare» la difesa Una vera deroga alla rigidissima normativa che, nei secoli precedenti, aveva affidato quella vitale incombenza alla sola istituzione militare, criterio abbracciato anche in età moderna e da allora mai piú modificato, tranne che in alcuni snodi storici particolarmente critici. In breve, prese corpo una sorta di difesa delegata suggerita, forse, proprio dalla precarietà innescatasi nel III e manifestatasi pienamente nel

IV secolo, epoca alla quale risale la maggior parte di tali ville rustiche e che sembra ribadire una singolare iniziativa di Valentiniano, estesa all’intera Italia meridionale, regione ormai periferica e vessata dell’impero nella quale, non a caso, le masserie fortificate si sono avvicendate fino al secolo scorso. Nato in Pannonia nel 321, già militare di carriera, Valentiniano fu acclamato imperatore nel 364 e si distinse nel contrastare i barbari lungo i confini e nel reprimere il brigantaggio nei territori dell’impero, avviando subito il recupero della sicurezza, pubblica e privata. Per quest’ultima promulgò costituzioni originali, tese a debellare la criminalità organizzata, ormai dominante nel meridione della Penisola: per la riconosciuta efficacia, quelle norme furono recepite anche dal codice di Teodosio II, in vigore dal 439. Semplice era il principio che le ispirava: poiché le bande di briganti usavano spostarsi rapidamente a cavallo, Valentiniano suppose che privandole delle cavalcature, le


avrebbe costrette all’inazione. In poche settimane, divenne perciò operativo un articolato dispositivo ostativo, genericamente battezzato Usus equorum, che proibiva, nell’intero meridione d’Italia, pena la morte, l’allevamento, la proprietà e, soprattutto, l’utilizzo dei cavalli come mezzo di trasporto.

Quattro redazioni Dal punto di vista cronologico, la promulgazione dell’intero gruppo di costituzioni si estrinsecò fra il 364 e il 365-367, con l’emissione delle varie norme particolari. Di esse ce ne sono pervenute quattro, insieme alla memoria di una quinta, sia pure nella breve riformulazione teodosiana. Va ribadito che non si trattò, come l’ampio arco di tempo lascerebbe credere, del mero reiterarsi per inattuazione della stessa normativa, ma di una ponderata riformulazione sostenuta dai positivi riscontri. Il dispositivo, infatti, divenne via via piú stringente con il verificarsi della sua validità, prendendo l’avvio dall’iniziale promulgazione del 30

In alto: una villa rustica romana in cui la chiusura del lato aperto del giardino (confronta con il disegno alla pagina precedente), l’innalzamento di due colombaie e altri interventi permettono una migliore difesa della struttura.

L’ulteriore accentuazione del carattere difensivo della villa rustica: i muri di cinta si presentano ancora piú alti e massicci e le quattro torri angolari ospitano logge coperte dalle quali è possibile rispondere, protetti, a eventuali incursioni.

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storia usus equorum Lunetta a mosaico con la raffigurazione di una villa rustica, da Tabraca (oggi Tabarka, Tunisia). Inizi del V sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo.

settembre 354, il cui testo sintetico cosí recitava: «Eccezion fatta per i senatori e i nobili, come pure per i governatori provinciali, i veterani in servizio di milizia territoriale e i decurioni, ordiniamo che a tutti gli altri residenti nel Piceno, nella Flaminia e ancora nella Puglia, Calabria, Abruzzo, Sannio e Lucania, sia proibito il possesso di uno o piú cavalli. Chi ardisca infrangere, anche minimamente, tale disposizione sarà passibile di pena capitale». La finalità esplicita della legge non è menzionata, ma la si intuisce in base a quanto delineato e, del resto, fu meglio precisata nella seconda costituzione del 5 ottobre successivo. Il suo il testo è andato perduto, ma sappiamo che elencava gli autorizzati all’uso in deroga del cavallo. Seguí la terza, in data 21 giugno 365, che, colmando le lacune interpretative della prima e della seconda, ne ripropose la prescrizioni in questi termini: «Avendo desiderato che tutte le regioni vicine alla città fossero liberate dai molteplici crimini e rapine degli abigeatari, la nostra intenzione contemplando ciò, stabilí che in quei luoghi fosse lecito l’uso del cavallo soltanto a coloro che per la carica o per la dignità risultassero immuni da ogni sospetto delinquenziale. Ma in un secondo momento sancimmo che anche gli agenti dell’annona potessero usare i cavalli, e fossero però a conoscenza del rischio loro derivante da ciò, essendo ritenuti responsabili di qualsiasi delitto accada in quelle regione. Ora poiché apprendiamo dagli stessi agenti che attendono ai loro compiti, che questa limitazione debba essere rimossa, la tua eccellenza cosí come fu data la facoltà dell’uso dei cavalli a quelli, sappia che nessun timore abbiano delle precedenti sanzioni nei luoghi bonificati, che né dagli abigeatari né da altri delitti sono contaminati». Da quest’ultima citata costituzione, 98 a r c h e o

destinata al prefetto pretorio dell’Italia, si traggono alcune deduzioni: il divieto comprendeva anche la zona suburbana; l’esenzione a carico degli agenti dell’annona, in servizio nelle località infestate, fu accordata solo in un secondo momento e a loro responsabilità; il successo delle misure adottate si confermò immediato e pieno, dal momento che, appena l’anno dopo, vennero dichiarati bonificati i territori infestati; il dispositivo non decadde con il conseguimento dell’obiettivo, ma fu solo attenuato con il ristabilimento della normalità, autorizzando altre categorie professionali al beneficio della cavalcatura.

Nessuna deroga per i pastori Per i pastori, invece, non vi fu alcuna deroga, ma il drastico divieto anche nella promulgazione di Onorio del 399 in questi termini: «Ordiniamo che i pastori della provincia della Valeria o Piceno non utilizzino cavalli. Qualora venga eluso il divieto, riterremo responsabili e quindi passibili di pena anche i proprietari e i procuratori dai quali dipendono i pastori». La grave limitazione, contrariamente a quanto si potrebbe credere, inferse scarsi danni ai coltivatori e meno ancora agli allevatori, poiché i primi da tempo si avvalevano dei

buoi e rare erano le aziende dei secondi, per lo piú vincolate a forniture militari. Gravissimo, per contro, il colpo inflitto alle bande, impossibilitate a reperire altrove le cavalcature e a servirsene indisturbate. Pertanto cosí recita l’ultima costituzione: «Affinché tutti i tentativi già debilitati dei ladroni abbiano completamente fine, ai pastori delle nostre fattorie, cioè ai custodi delle pecore, nonché ai procuratori e ai factotum dei senatori interdiciamo la facoltà di possedere bestiame equino; sotto questo divieto quelli che tenteranno di violare le disposizioni della nostra mansuetudine siano costretti a subire le pene spettanti agli abigeatari». Il provvedimento, senza dubbio per il suo positivo riscontro, ebbe una longevità straordinaria, tanto che, trascurando le cooptazioni di Teodosio e di Onorio, rimase pressoché immutato fino al 534, cioè fino alla promulgazione del codice di Giustiniano. È altresí probabile che la mancata conferma da parte del grande legislatore debba ascriversi al venire meno dell’esigenza, cioè allo spegnersi del fenomeno criminoso. Tuttavia, tra le cause plausibili, non si può escludere che a far decadere la proibizione sia stato il dissolversi del benessere economico, provocato dai Vandali e dai Goti.



Il mestiere dell’archeologo Messaggi dal fronte

Da alcuni anni, anche gli archeologi studiano la guerra civile spagnola: un contributo che non solo ne arricchisce la conoscenza, ma aiuta a riflettere su uno dei piú sanguinosi capitoli della storia europea gni guerra produce una grande quantità di tracce O archeologiche. Si tratta in genere di

distruzioni, puntuali o generalizzate, che portano, per esempio, alla demolizione delle mura di una città, o addirittura alla sua cancellazione fisica; altre volte ne riconosciamo gli effetti su singoli monumenti. In questi casi, il lavoro dell’archeologo consiste nel trovare le argomentazioni migliori per mettere in relazione la traccia

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materiale, per definizione muta, con le informazioni desunte da altre fonti, specie scritte, che ci aiutano a dare un nome e una data a un episodio bellico e un volto ai suoi protagonisti. Altre volte, ma assai piú di rado, riusciamo a cogliere la guerra nei suoi effetti di violenza sulle persone. Ne abbiamo già parlato a proposito delle drammatiche scoperte del Foro di Valencia (vedi «Archeo» n. 312, febbraio 2011).

di Daniele Manacorda

Ancor piú difficile, ma non impossibile, è rintracciare i segni dei combattimenti rimasti sui campi delle infinite battaglie che costellano la storia delle società antiche, medievali e moderne. Non a caso, una delle piú interessanti attività di ricognizione archeologica dei paesaggi è quella che va in cerca dei documenti materiali di alcuni grandi eventi della storia militare, come la battaglia di Canne, o la ben piú recente battaglia di Waterloo. Cercando tracce di vita Ma, anche in questi casi, occorre considerare che l’indagine archeologica trova difficoltà a mettere i ricercatori in contatto con la vita di chi quelle guerre si trovò a combattere: infatti, non è agevole scorgere le tracce della vita sugli scenari della morte. Non da ora, tuttavia, si è cominciata a sviluppare un’archeologia della guerra, anche moderna, a volte alimentata da fenomeni naturali apparentemente scollegati da essa. È il caso della regressione di ghiacciai e nevai sulle Alpi, che ha a piú riprese messo in luce i resti, spesso ben conservati, di uomini e cose della Grande Guerra, che su quelle montagne consumò anni di dolore indescrivibile. La Spagna vive da qualche tempo una emozionante stagione di recupero archeologico delle tracce della guerra civile che la sconvolse tra il 1936 e il 1939. Ne parliamo qui perché queste indagini contribuiscono a una riflessione metodologica importante sul senso dell’archeologia del contemporaneo, e, al tempo stesso, perché sono intrise di un forte In alto: una trincea realizzata durante la guerra civile nei pressi di Tremp (capoluogo della comarca di Pallars Jussà, Catalogna).


Cartina della Spagna negli anni della guerra civile (1936-1939).

Area controllata dalle

forze nazionaliste all’inizio del conflitto, luglio 1936 Avanzata dei nazionalisti fino al settembre 1936 Avanzata dei nazionalisti fino all’ottobre 1937 Avanzata dei nazionalisti fino al novembre 1938 Avanzata dei nazionalisti fino al febbraio 1939 Ultima zona sotto il controllo dei repubblicani Principali centri controllati dai nazionalisti Principali centri controllati dai repubblicani Battaglie terrestri Battaglie navali Città bombardate Massacri Campi di concentramenti Campi di rifugiati

valore emotivo e morale. Come spesso accade, tutto ha inizio con i lavori di sbancamento del suolo per un’opera pubblica: in questo caso un tratto della linea ferroviaria ad alta velocità Siviglia-Madrid-Barcellona, nel settore immediatamente a sud della capitale spagnola. Come accade di frequente, le indagini preliminari avevano messo in luce vari siti archeologici, anche a lunga continuità di vita, dove agli insediamenti paleolitici facevano seguito quelli dell’età del Ferro, poi dell’età tardo-antica, fino ai giorni nostri. Uno di questi è la località Casas del Canal, che conservava, in particolare, le tracce di un antico villaggio iberico, frammiste ai resti, ancora ben leggibili, dell’ultimo uso che si fece di quelle alture, quando il luogo entrò a far parte del dispositivo di difesa apprestato dal governo repubblicano dopo la sollevazione militare guidata dal generale Francisco Franco, che poi

impose al Paese una dittatura piú che trentennale. Dopo che le truppe franchiste, assai meglio equipaggiate, furono entrate a Toledo nel settembre 1936, Franco ordinò allaVII divisione di dirigere l’offensiva su Madrid, per prendere la capitale e chiudere rapidamente la guerra. I volontari per la repubblica Il legittimo governo repubblicano, guidato da Francisco Largo Caballero, si impegnò allora nella difesa della città, affidata alle truppe rimaste fedeli, alle milizie volontarie che si andavano formando e alle brigate internazionali che da varie parti d’Europa cominciarono a giungere in difesa della giovane Repubblica spagnola, mentre dall’altra parte del fronte la Germania nazista e l’Italia fascista fornivano agli insorti i loro aiuti militari, in particolare aerei e carri armati. La partita sembrava impari, ma,

dopo sei mesi di duro confronto e un alto bilancio di vittime da entrambe le parti, l’esercito franchista rinunciò ad attaccare la capitale, mirando invece a recidere i suoi legami con il resto del territorio nazionale. Madrid cadde solo alla fine di marzo del 1939, pochi mesi prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, di cui la guerra civile spagnola fu una tragica anticipazione. La linea difensiva apprestata dal governo repubblicano nel 1936 in previsione dell’attacco a Madrid era formata da una fitta rete di trincee. Il fronte, molto ampio, si stendeva su oltre 30 km e impegnava circa 15 000 uomini. Il settore meridionale fu assegnato al comando di Enrique Lister y Bueno, uno dei comandanti leggendari di quella guerra. In un frammento di questa linea difensiva si sono imbattuti i cantieri dell’Alta Velocità, dando avvio a una ricerca, che tra il 1999

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e il 2000 ha portato alla luce i resti materiali dell’occupazione che lí si protrasse tra il novembre del 1936 e il febbraio del 1937. Le trincee erano state scavate in fretta a pala e piccone nel banco gessifero delle terrazze rivierasche affacciate sulla pianura del Manzanarre. Consistevano in stretti camminamenti, larghi 80 cm circa e profondi poco piú di 1,20 m, i cui bordi erano sormontati da sacchi di terra. Il sistema di trincee si integrava con aree apprestate come posti di osservazione e come nidi di mitragliatrice, mentre un settore piú appartato doveva accogliere una modesta polveriera. Le linee trincerate si incontravano in una fossa di forma quadrangolare (12 mq circa x 3 m di profondità), identificata come posto di comando del presidio.

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I materiali restituiti dallo scavo, di carattere sia civile che militare, rendono un’immagine vivida di quella che dovette essere la vita delle persone presenti in trincea durante i mesi dell’inverno. Pochi i frammenti di tegole (forse per la copertura della casamatta), molti gli oggetti in vetro, perlopiú calamai con tracce di inchiostro, ma anche flaconi di medicinali e bottigliette di lubrificante per le armi; alcune borracce in alluminio, frammenti di reticolati, fibbie di metallo, cinghie di cuoio. Un esercito male equipaggiato Non mancano naturalmente le armi: parti di mitragliatrici, proiettili di pistola e munizioni per fucili Mauser, ma anche cartucce di altre armi non identificate. Secondo gli scavatori, la varietà delle

munizioni prova le difficoltà di rifornimento dell’esercito repubblicano, che faticò ad armare in modo standardizzato i propri effettivi. I reperti descrivono truppe mal vestite e mal equipaggiate, i medicinali, perlopiú vitamine, ci parlano di uomini male alimentati, sottoposti a mesi di vita durissima, che, tuttavia, allontanarono temporaneamente la disfatta militare. La legge spagnola non prevedeva che questi resti, a buon diritto classificabili come archeologici, dovessero essere protetti. I siti scavati sono stati dunque documentati, recuperando e schedando i reperti mobili oggi conservati presso il Museo Regionale di Madrid, ma le strutture sono state distrutte. Eppure quel primo scavo di oltre


Sulle due pagine: la guerra civile spagnola diventa oggetto di ricerca archeologica. Nella pagina accanto, il recupero di bossoli e proiettili a Calzada de Oropesa, presso Toledo, e qui accanto lo scavo di un campo di detenzione allestito dai franchisti a Bustarviejo, presso Madrid.

dieci anni fa ha dato vita a una nuova stagione di ricerche, che nel 2008 si è estesa al territorio di Toledo. Altri siti hanno restituito altri materiali: alcune munizioni messicane recuperate presso il Torrejon de Velasco hanno permesso di datare la frequentazione tra ottobre e novembre del 1936, perché l’arrivo in ottobre dal Messico di armi per l’esercito repubblicano era noto da altri documenti. Un altro sito ha restituito materiali di fabbricazione tedesca, denunciando l’occupazione di quella trincea da parte dell’esercito nazionalista. Altrove sono emersi i resti di un misero rifugio antiaereo costruito con traversine ferroviarie e bandoni di metallo nel corso della battaglia di Madrid. Simili apprestamenti, che potevano

ospitare due o tre persone, furono utilizzati dalla povera gente in tutta l’area della capitale, ma la maggior parte di loro erano da tempo fisicamente scomparsi. Gli obiettivi della ricerca L’archeologia della guerra civile spagnola è quindi un’archeologia modesta, fatta di poche tracce essenziali, documento di esistenze precarie in un momento drammatico. Gli archeologi che hanno diretto quelle ricerche si sono posti due finalità: da un lato la protezione di un patrimonio storico sottoposto a pericoli immediati di degrado e distruzione, dall’altro la divulgazione di una parte significativa della storia piú recente, ricercata là dove i fatti si svolsero. Della guerra civile non

manca certo la documentazione scritta. Anche la bibliografia è sterminata. Ma il contributo dell’archeologia aggiunge pagine e punti di vista assai differenti. Lo scavo fa riflettere, innanzitutto, su un aspetto importante della disciplina, che ritiene archeologico il patrimonio sulla base non dell’epoca alla quale appartiene, ma della possibilità di studiarlo con metodo archeologico. Ma la decisione di scavare la guerra civile (non si conoscevano iniziative simili) fu presa – a detta degli archeologi – anche per il suo grande valore pedagogico, come mezzo per educare le nuove generazioni alla conoscenza dei drammi della storia recente. Tutto quello che si è trovato, benché molto sia stato distrutto dalla dinamite che ha spianato la strada ai treni, sarebbe scomparso senza che alcuno avesse potuto sospettare della sua esistenza. L’archeologia ha invece permesso, almeno in alcuni casi, di ripercorrere quei luoghi e ritrovare gli aspetti umani di quella tragedia. La salvaguardia e la valorizzazione di alcuni di questi siti permetterà – è l’augurio che ci trasmettono gli archeologi spagnoli – di conoscere meglio il passato recente e potrà contribuire a chiudere ferite ancora aperte, non solo nella società spagnola. Quella sanguinosa guerra civile è un tema che può ancora dividere; le sue memorie possono essere ancora strumentalizzate. La cruda oggettività dei resti materiali, letti con gli occhi dell’archeologia, può invece alimentare riflessioni profonde sull’importanza dell’educazione alla tolleranza e alla pace.

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Antichi ieri e oggi

di Romolo A. Staccioli

Nelle alcove dei Cesari/1

Le carni deboli degli imperatori Nell’antica Roma i rapporti extraconiugali con gli schiavi o con le prostitute erano una pratica comune. Tollerata, pare, anche dalle legittime mogli a morale sessuale degli antichi non era certamente simile alla L nostra. E diversi erano pertanto i

comportamenti. Almeno fino a quando, nel tardo impero, non cominciarono ad avere la loro influenza i principi della nuova morale cristiana. In linea di massima, la sessualità era intesa – e vissuta – con grande naturalezza. E non c’erano precetti e comandamenti che mirassero a reprimerla. Anche se, nei periodi piú antichi, si cercava di non esibirla pubblicamente e, in famiglia, ci si comportava con estremo pudore. Al punto da evitare di baciarsi e di denudarsi con troppa disinvoltura, mentre il marito spegneva la luce prima di coricarsi accanto alla moglie. Nulla da dire, invece, sulla omosessualità (purché attiva), sulla prostituzione e su quelle forme di sessualità extraconiugale che erano, per gli uomini, i rapporti con le schiave (e gli schiavi) di casa. Una maggiore libertà – e l’abbandono di ogni pur larvata ipocrisia – si ebbero a partire dalla tarda repubblica. Per un generale rilassamento dei costumi e anche per effetto della emancipazione femminile. La sessualità entrò a far parte del quotidiano in ogni suo aspetto, dal pettegolezzo alla poesia, dalle storie piccanti alle barzellette, dai graffiti e dalla decorazione di oggetti d’uso alle opere d’arte. E finí spesso a fare da sfondo – se non da scopo – a incontri e riunioni conviviali. Chiunque disponeva di mezzi

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finanziari adeguati poteva organizzare cene e banchetti, per pochi intimi o per comitive numerose, con la partecipazione di ragazze «di vita». Bastava rivolgersi a mercanti di schiavi specializzati, veri e propri impresari di «ragazze squillo». Che davano cioè «in affitto», di solito per una sola notte, le loro giovani schiave addestrate per fare da «compagne» a commensali che da esse s’aspettavano solo come possibile esito finale il fugace piacere di una prestazione sessuale completa. Profumi e vesti succinte A differenza di quelle destinate ai bordelli, queste ragazze dovevano essere quindi in grado di creare e tenera viva una frivola ed eccitante atmosfera di progressiva tensione erotica, di allietare i convitati e di sedurli coi loro atteggiamenti sapientemente studiati, gli sguardi languidi, le paroline dolci, le carezze strategiche, i baci e gli abbracci calorosi. Per questo dovevano essere capaci di sostenere una conversazione brillante e spiritosa, di recitare e di cantare, di suonare il flauto e di ballare. Naturalmente, dovevano curare il trucco e l’uso di profumi appropriati e l’abbigliamento, il piú possibile succinto, con largo uso di vesti trasparenti come quelle, rinomate, dell’isola di Coo (le coae vestes) che mettevano in risalto le forme. Il massimo per un successo erotico era garantito dall’ingaggio, costoso, delle puellae gaditanae, le

«ragazze di Gades» (Cadice, in Spagna), specialiste nel danzare con movenze lascive, accompagnate dal crepitio delle nacchere. Oltre alle ragazze «d’agenzia», c’erano donne che agivano in proprio: di solito erano liberte, senza padrone, che avevano già fatto esperienza come schiave, e si offrivano come amicae, magari mettendo a disposizione locali appositamente attrezzati, e accettando in compenso, oltre ai soldi, omaggi e regali. Ma tutto questo faceva parte della normalità. Molti andavano oltre, scivolando sul terreno della perversione e della depravazione. E in questo si distinsero gli imperatori. Almeno a leggere le biografie (Vitae Caesarum) che Caio Svetonio Tranquillo dedicò, agli inizi del II secolo d.C., a Giulio Cesare e ai primi undici imperatori, i cosiddetti «Dodici Cesari». Nella celebre opera Svetonio riserva sempre uno o due paragrafi ai comportamenti sessuali dei suoi personaggi. Di solito, con notizie assai poco edificanti. E pochi dei Dodici furono «risparmiati». Lo fu Claudio, di cui il biografo si limita a sottolineare l’eterosessualità (cosa piuttosto rara nella Roma del tempo). Lo furono i tre effimeri imperatori del biennio 68-69, Galba, Otone e Vitellio, i quali, una volta raggiunto il trono dovettero occuparsi di ben altro. Lo fu, infine, il parsimonioso e austero Vespasiano. Quanto al capofila della dozzina, Giulio Cesare, si parte dalla


Qui sopra: testa in basalto di Livia, moglie di Augusto. 31 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. A sinistra: testa in marmo di Augusto, da Athribis. 40-60 d.C. Alessandria, Museo Greco-Romano. Sullo sfondo: danzatrice, particolare di un affresco parietale di II stile. Pompei, Villa dei Misteri.

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citazione dell’infamante diceria secondo la quale, da giovane, in missione presso il re di Bitinia, Nicomede, «introdotto dai cortigiani nel “cubicolo” del re – come scrive Cicerone in certe sue lettere – s’era disteso con indosso una veste di porpora, nell’aureo letto regale dove aveva perduto il fiore della sua gioventú» (guadagnandosi cosí il titolo di «rivale della regina»). Sicché, quando, nel 45 a.C., celebrò il trionfo sui Galli, i suoi soldati, al seguito del cocchio trionfale con licenza di parlare a piacere, com’era uso in quella circostanza, non cessarono di cantare «Cesare sottomise le Gallie, Nicomede Cesare. Ecco, ora Cesare trionfa per aver sottomesso le Gallie e non trionfa Nicomede che sottomise Cesare». Ma i soldati cantavano pure «Chiudete in casa le vostre mogli, cittadini, perchè vi portiamo un adultero calvo», alludendo chiaramente alla fama che lo stesso Cesare s’era fatto di seduttore di donne, preferibilmente sposate. Le accuse contro Augusto Augusto (che aveva sedotto e strappato la moglie Livia Drusilla al marito, nonostante fosse incinta di sei mesi) subí anch’egli, in gioventú, l’infamia di molte accuse vergognose (compresa quella, mossagli da Antonio, d’essersi prostituito al prozio Cesare). «Nemmeno i suoi amici – scrive Svetonio – negano che abbia commesso degli adulteri, scusandolo tuttavia col dire che non per libidine l’avesse fatto ma con raziocinio, per venire piú facilmente a conoscenza dei propositi dei suoi nemici attraverso le loro mogli». In proposito, ancora Marco Antonio gli rinfacciò come durante una cena avesse condotto fuori dal triclinio, in una camera da letto, la moglie di un consolare, sotto gli occhi del marito, e di averla

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La cosiddetta Venere in bikini, statuetta in marmo di Afrodite che si slaccia un sandalo. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

poi riaccompagnata al banchetto «con le orecchie in fiamme e i capelli in disordine». Ma, pare che ad Augusto piacessero soprattutto le ragazze in giovanissima età: «a quel che si dice – leggiamo in Svetonio – fu sempre pronto a deflorare vergini che gli venivano procurate da ogni parte, e persino dalla moglie (la quale, forse, si garantiva, anche cosí, dal pericolo di un possibile divorzio che avrebbe pregiudicato la successione al trono del figlio Tiberio; e Augusto, infatti, rimase con lei fino alla morte, per oltre cinquant’anni: un autentico record!). Tiberio e gli anni di Capri A inaugurare la sequenza delle vere e proprie orge imperiali fu proprio Tiberio. Negli ultimi anni di regno, passati nella splendida Villa Iovis, a Capri dove – come scrive Svetonio – «aveva fatto arredare con divani la sede delle sue libidini segrete». Lí, «dopo essersi procurato d’ogni parte “greggi” di ragazze e di invertiti (...) li faceva unire in triplice catena e li faceva vicendevolmente accoppiare in sua presenza, affinché con quello spettacolo rianimassero la sua sessualità in declino». Inoltre, aveva fatto predisporre camere da letto ornate di quadri e di sculture estremamente lascive e fornite dei famosi libri di Elefantide (autrice di origine greca, che scrisse racconti e versi di rinomata oscenità, n.d.r.) che illustravano le diverse posizioni dell’amore «affinché nessuno, nel prestare la sua opera, mancasse del modello che egli stesso imponeva». «Anche nei giardini e nei boschetti aveva fatto predisporre qua e là dei luoghi, dedicati a Venere, dove teneva ragazzi e ragazze travestiti da satiri e da ninfe che si prostituivano negli antri e nelle grotte». (1 – continua)



Medea e le altre

di Francesca Cenerini

Il coraggio di una vergine Tra la fine della monarchia e la nascita della repubblica si situa la vicenda di Clelia, fiera eroina, simbolo della resistenza romana

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L

a leggenda di Clelia è narrata dagli autori antichi in occasione dell’assedio di Roma da parte del re di Chiusi Lars Porsenna. La vicenda è oscura e le fonti storiche ci offrono informazioni parziali e per certi aspetti contraddittorie, fondamentalmente rivisitate in funzione filoromana, che non permettono di ricostruire il reale svolgimento dei fatti. Lo storico di età augustea Tito Livio (Ann. II, 9 ss.) racconta che il deposto re di Roma,Tarquinio il Superbo, chiede aiuto al re di Chiusi Porsenna per potere riconquistare il trono (ricordiamo che le fonti storiche fissano la data della cacciata dei Tarquini al 509 a.C.). Porsenna, pensando ovviamente che la politica etrusca non abbia che da guadagnare dal fatto che Roma continui a essere governata da un re etrusco, muove il suo esercito e inizia ad assediare Roma. Durante l’assedio, alcuni Romani straordinari hanno modo di dimostrare il loro valore: il monocolo Orazio Coclite difende il ponte Sublicio dall’attacco dei nemici; Gaio Mucio decide di andare al campo nemico per uccidere Porsenna, ma sbaglia uomo e uccide lo scriba del re. Davanti a Porsenna si brucia la mano destra che aveva mancato il giusto bersaglio: il re, colpito da tanto coraggio, lo lascia libero, e l’uomo, da allora in poi, fu soprannominato Scevola (il Mancino). Sempre secondo il racconto liviano, Porsenna è talmente impressionato dal coraggio romano che decide di proporre la pace e ottiene la consegna di ostaggi. Continua Livio (II, 13, 6): «Ergo ita onorata Clelia davanti a Porsenna. Sovrapporta dipinta da Placido Costanzi (1702 circa-1759). 1749. Torino, Palazzo Reale. La giovane è ricordata per il coraggio dimostrato durante l’assedio di Roma da parte di Porsenna, re di Chiusi, dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo.

Porsenna, chi era costui?

Porsenna è ricordato nelle fonti storiche (Livio, Dionigi di Alicarnasso, Tacito) come il re di Chiusi giunto con il suo esercito a Roma in aiuto di Tarquinio il Superbo, ultimo sovrano della dinastia dei Tarquini. La tradizione racconta che il re etrusco, posto il campo sul Gianicolo, cinse d’assedio la città tra il 509 e il 504 a.C. circa, anno della battaglia di Ariccia, in cui perse la vita il figlio Arunte, ma, ammirato dall’eroismo di Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, decise di rientrare a Chiusi, rinunciando alla conquista. Secondo altre fonti, al contrario, egli occupò Roma per qualche tempo. L’autenticità storica di Porsenna deriva dal suo nome (Lars Porsenna, o Porsina, nelle fonti latine letterarie ed epigrafiche) e dall’episodio di Ariccia, attestato anche nella tradizione storiografica cumana. Plinio il Vecchio ci informa (Naturalis Historia) che il re etrusco «fu sepolto sotto la città di Chiusi, nel qual luogo lasciò un monumento quadrato (...) In questa base quadrata c’è all’interno un labirinto inestricabile, dove se qualcuno vi entrasse senza un gomitolo di lino, non potrebbe trovare l’uscita». Probabilmente la discesa di Porsenna può essere inquadrata in relazione a quei movimenti che, dalla metà del VI secolo, vedono vere e proprie bande organizzate, guidate da condottieri, spostarsi dall’Etruria interna verso Roma, il Lazio e la Campania, o, al Nord, verso la Pianura Padana. (red.)

virtute, feminae quoque ad publica decora excitatae, et Cloelia virgo, una ex obsidibus (...) dux agminis virginum inter tela hostium Tiberim tranavit, sospitesque omnes Romam ad propinquos restituit («Di fronte a queste azioni cosí onorevoli e valorose, anche le donne furono spinte a dare pubblica dimostrazione di dignità, e la vergine Clelia, una degli ostaggi (...), attraversò a nuoto il fiume Tevere sotto i dardi del nemico, al comando di una schiera di vergini e le riportò tutte sane e salve restituendole ai loro familiari»). Futuri cittadini di Roma Porsenna chiede la restituzione immediata della sola Clelia, ma, ammiratone il coraggio, dice che l’avrebbe riconsegnata senza torcerle un capello. Entrambe le parti rispettano gli accordi: i Romani restituiscono Clelia, Porsenna le dice di scegliere gli ostaggi da ricondurre a Roma, e la donna, ovviamente, sceglie gli adolescenti (gli impubes, privi ancora di peli), e cioè i futuri cittadini di Roma. I Romani, dopo il ritiro volontario di Porsenna, tributano alla nuova virtú femminile un nuovo onore, e cioè un monumento equestre: sulla sommità della Via Sacra viene infatti eretta la statua di una

vergine a cavallo (in summa Sacra via fuit posita virgo insidens equo). Come si può vedere, il racconto liviano è abbastanza inverosimile. Si può pensare che Porsenna, impadronitosi effettivamente di Roma (Tacito parla espressamente di deditio, cioè della resa di Roma a Porsenna, ma le altre fonti hanno chiaramente rimosso questo fatto poco nobilitante), approfittando del vuoto di potere creatosi dopo la cacciata dei Tarquini, ne sia stato a sua volta allontanato a seguito dell’iniziativa di Aristodemo, il tiranno di Cuma, e dei suoi alleati latini, che sconfiggono suo figlio Arunte ad Aricia, bloccando di fatto la spinta egemonica etrusca verso sud. Una versione parzialmente diversa ci danno lo storico greco Dionigi di Alicarnasso, di età augustea, e Plutarco, che scrisse le sue molte opere tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. Nella Vita di Publicola (19), Plutarco narra che tra i venti giovani aristocratici (dieci maschi e dieci femmine) c’era ancheValeria, la figlia del console Valerio Publicola. Mentre Porsenna si apprestava a smobilitare l’assedio, le ragazze romane in ostaggio scendono a bagnarsi nel Tevere.Tra queste c’è Clelia che, in sella a un cavallo, sprona le sue compagne ad attraversare il fiume a nuoto. Il console, però, rimanda al campo

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Roma. Una veduta della Via Sacra, sulla cui sommità, secondo gli storici Tito Livio e Plutarco, fu eretta una statua equestre in onore della vergine Clelia.

etrusco gli ostaggi fuggiti, perché i Romani non possano essere accusati di non rispettare i patti. Porsenna, ammirando il coraggio virile di Clelia, le regala un cavallo. Anche Plutarco cita la statua equestre di Clelia (o diValeria) in cima allaVia Sacra. Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane 5, 32, 3) specifica cheValeria, la figlia di Publicola, aveva raggiunto l’età per sposarsi e insiste sulla volontà delle ragazze di bagnarsi nel fiume. Il racconto si presta a molteplici interpretazioni. Da un lato c’è la presenza nella topografia romana (in Sacra via) di una statua femminile a cavallo (sia pure molto discussa, e già Plinio ilVecchio si meravigliava che le donne avessero ricevuto un tale onore in epoca cosí antica, mentre Plutarco scrive che alcune sue fonti asseriscono che la statua non fosse di Clelia, ma diValeria), e va valutata la possibilità che la figura mitica di Clelia sia associabile a una divinità (c’è chi ha pensato a Venus Cloacina e ai connessi riti di purificazione femminile). In questa ottica assume un valore importante il bagno lustrale nel Tevere delle giovani vergini che si preparano, attraverso il matrimonio, a diventare parte

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integrante della comunità cittadina. Ma possiamo aggiungere una ulteriore riflessione: si tratta di un racconto edificante sulle virtú femminili, vero e proprio modello formatore della costruzione delle diverse identità femminili pensate dai Romani. Un esempio da imitare Il modello ideale femminile per antonomasia è quello rappresentato da Lucrezia, che arriva a uccidersi perché la sua castitas era stata compromessa, sia pure in seguito a un atto di violenza (vedi «Archeo» n. 304, giugno 2010).Tutte le matrone romane devono adeguarsi a questo modello ed essere caste, vale a dire non permettere l’immissione di sangue alieno all’interno della discendenza della famiglia del marito. Clelia è vergine (tutte le fonti concordano su questo fatto e lo mettono in rilievo), cioè, nella mentalità romana, non è ancora sposata e commette un atto che, a differenza di quelli eroici di Orazio Coclite e Muzio Scevola, è ambiguo. La sua azione compromette la fides dei Romani, che avevano inviato volontariamente gli ostaggi al re

nemico. E i Romani non possono fare altro che mandare indietro le giovani fuggite con l’inganno. Porsenna, però, ammira il «coraggio virile» della vergine e, soltanto attraverso la sua valutazione positiva, la vicenda si conclude felicemente (secondo l’interpretazione della studiosa Lucia Beltrami). Ma c’è ancora un elemento che va valutato: Clelia è una virgo, cioè una matrona in fieri (a seguito di un legittimo matrimonio), e quindi non ha ancora un posto ben definito nella società romana: a lei è concesso un comportamento «deviante» (il suo è, appunto, un animus virilis), a patto che la sua femminilità si presti poi a essere incanalata nei giusti binari della dimensione matronale. Non a caso Valerio Massimo nella sua raccolta di Detti e fatti memorabili potrà incensarla come apportatrice agli uomini della luce del valore (III, 2, 2: viris puella lumen virtutis praeferendo) e lo storico Floro potrà porre sullo stesso piano le gesta di Orazio Coclite, di Muzio Scevola e di Clelia, descrivendole come prodigia atque miracula che, se non fossero stati scritti negli Annali, sembrerebbero, agli occhi di un contemporaneo, fabulae (I, 4, 3).



L’altra faccia della medaglia

di Francesca Ceci

Nelle spire del mito/1

Il buon serpente Prima d’essere vilipeso con l’avvento del cristianesimo, il rettile fu oggetto di grande venerazione quale simbolo di buon augurio e di rinascita entatore di Eva e causa della conseguente perdita dell’Eden, T il serpente ha avuto segnato il suo

Statua in marmo di Antinoo come Agathodaimon, «spirito» o «genio» (daimon) buono (agathos). 130-138 d.C. Berlino, Antikensammlung. Nella pagina accanto: moneta in bronzo di Caracalla, battuta a Pautalia, in Tracia. 198-217 d.C. Al dritto, il busto di Caracalla con corona d’alloro e corazza; al rovescio, il serpente Agathodaimon eretto sulle sue spire.

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destino moderno, sia nell’immaginario, sia nei comportamenti seguiti all’avvento della tradizione ebraico-cristiana. E ancora oggi, innocui serpentelli suscitano in molti orrore e ribrezzo, spesso accompagnati dalla loro ingiustificata eliminazione fisica.Tutto ciò non avveniva nell’antichità: il serpente, simbolo di rinascita e compagno fidato del dio-medico Esculapio, si inserisce sinuoso nel caduceo, simbolo della medicina, e, attraverso la sua presenza, potevano avvenire guarigioni miracolose. Inoltre, anche in contesti devozionali rappresentava sempre un augurio di eternità e buona fortuna, data anche la particolarità di cambiare pelle, interpretata come segno di rinascita, e dal significare, con l’avvolgersi delle sue spire, il corso eterno e immutabile del tempo.

Il genio buono Anche le monete celebrano il rettile, nella forma specifica di un genio/demone benigno, specialmente sulle emissioni provinciali romane battute nel corso dell’età imperiale nel mondo greco e, in particolare, ad Alessandria in Egitto.Tra i primi imperatori a sceglierne l’immagine vi è Nerone: i bei tetradrammi in mistura di argento con leggenda in greco riportano sul dritto il profilo


Su un bel medaglione di Antonino Pio, la biga è trainata da Demetra stessa.

giovanile del principe e, sul rovescio, un serpente raffigurato mentre si erge, coronato dallo pschent, il copricapo regale egiziano, e affiancato da spighe e un papavero. La leggenda riporta NEO AΓΑΘ ΔΑΙΜ, cioè il nome della divinità rappresentata, Agathodaimon. A fianco è indicata la datazione locale come anno terzo, corrispondente al 56-57 d.C., indicato da due lettere Γ (gamma) tra loro incastonate. Una composizione piú elaborata fu adottata invece per una moneta in bronzo di Caracalla battuta a Pautalia, in Tracia, contraddistinta dalle spire conformate a otto annodati dalle quali il serpente Agathodaimon elegantemente s’innalza. Protettore della casa Ma chi era quest’essere divino, dal nome evidentemente composto e traducibile come «spirito» o «genio» (daimon) buono (agathos)? Piuttosto che di un dio, si tratta appunto di un genio benigno, che ha la doppia prerogativa di protettore della casa e della fertilità agraria, in particolare della vigna, dato che il suo culto prevedeva una libagione di vino puro, da farsi alla fine del banchetto (Aristofane, Cavalieri, 85, 106). L’aspetto protettivo si riscontra anche nei larari romani, nei quali due bei serpenti affrontati e caratterizzati da un ricco gioco di spire, identificabili sempre come geni tutelari, appaiono spesso dipinti alla base dell’altare, cosí come anche in alcuni templi, come quello di Iside a Pompei. A ciò, si aggiunge la connotazione funeraria di Agathodaimon, associata all’aspetto ctonio di Hermes, poiché compare anche su rilievi funerari. Onorato nel mondo greco,

nell’Egitto greco-romano e in particolare ad Alessandria, qui Agathodaimon è legato a varie divinità, tra cui Serapide e Isis-Thermoutis, operante sempre nell’ambito della prosperità, feracità dei campi e dei vigneti. La connotazione agricola del demone si riscontra anche su una dracma di Adriano, sulla quale due serpenti Agathodaimon tirano il carro di Trittolemo. Questi, avendo ricevuto da Demetra la conoscenza dell’arte dell’agricoltura, la trasmise all’umanità diffondendola appunto con un carro divino.

Un’immagine composita Nel mondo greco l’immagine di Agathodaimon non compare prima del IV secolo a.C., a volte sotto la forma di un vegliardo con corno dell’abbondanza, simile negli attributi a Zeus e ad Asclepio, e associato anche, nel culto, ad Agahte Tyche, ovvero alla Buona Fortuna. Contemporaneamente, però, viene figurato come un serpente barbuto, senza per questo avere creato, nell’immaginario antico, una discrepanza nel culto o nell’identificazione della divinità. In alcuni casi queste due immagini sono sintetizzate: il sacro serpente è raffigurato allora con una testa barbata, come su alcune gemme magiche, e su una statuetta egiziana in terracotta di età romana. Infine, può prendere anche forme giovanili e bellissime, come nell’algida statua marmorea di Antinoo come Agathodaimon, conservata oggi a Berlino. Da simbolo di feracità, fortuna, buon augurio e dispensatore di ricchezze riconosciuto in tutto il mondo antico, il cammino sinuoso del serpente lo ha condotto imprevedibilmente verso la simbologia del male, divenendo tra gli animali creati da Dio il piú astuto, ma anche il piú malvagio e seduttore, corruttore dell’umanità, perdendo del tutto le connotazioni positive sino ad allora attribuitegli. (1 – continua)

per saperne di piú Françoise Dunand, Agathodaimon, in Lexicon Iconographicum, Mythologiae Classicae, I, 1. Bern 1981, pp. 277-282.

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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Cristiana Zaccagnino

Il Catalogo de’ bronzi e degli altri metalli antichi di Luigi Lanzi Dal collezionismo mediceo al museo pubblico lorenese La Stanza delle Scritture, Napoli, 450 pp. + 1 CD 160,00 euro ISBN 978-88-89254-04-2

È un percorso interessante e curioso quello tracciato da Cristiana Zaccagnino nell’edizione, accurata e specialistica, del catalogo dei bronzi antichi raccolti nelle collezioni fiorentine degli Uffizi (e oggi conservati al Museo Archeologico fiorentino) per opera dell’abate Lanzi, alla fine del Settecento. Luigi Lanzi, studioso di antichità, la cui formazione umanistica fu fortemente influenzata dalle teorie di Mengs e Winckelmann, fu chiamato a Firenze nel 1775 dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo a ricoprire la carica di «aiuto di antiquaria» del Gabinetto di Medaglie e Gemme delle Gallerie. A lui fu affidato il compito di allestire il nuovo Gabinetto dei Bronzi Antichi, al tempo dispersi e confusi insieme a esemplari moderni e collocati in varie sedi. La collezione dei bronzi antichi fu allestita dal Lanzi in una stanza

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prossima all’attuale Sala del Seicento, riunendo i reperti in quattordici armadi, al cui interno i bronzi, numerati in progressione, erano ordinati su base tipologica. I primi sei armadi furono dedicati alle statue etrusche e romane, divise per soggetto. Nel VII armadio furono collocati i «mostri mitologici» e gli animali. Nei successivi sistemò suppellettili e iscrizioni, riservando una parte alle antichità cristiane. Vasi e

statuette furono posti su apposite basi e restaurati dal bronzista Marco Corsini, che, secondo una prassi diffusa all’epoca, usava ricomporre le opere anche con pezzi non pertinenti. I bronzi di dimensioni maggiori, come il torso di Livorno, furono collocati fuori dagli armadi e le opere grandi e famose, quali la Chimera, la Minerva, l’Arringatore e il cosiddetto «Idolino» furono poste nel

corridoio di Mezzogiorno, in modo da «far risaltare – secondo le parole del direttore delle Gallerie, Pelli Bencivegni – la dovizia della R. Galleria in un genere cosí raro». Nel Gabinetto dei Bronzi Antichi, il Lanzi collocò, inoltre, anche gioielli in oro, in avorio, in osso, un manoscritto medievale, due papiri e alcuni bronzetti egizi. Nel Catalogo che soltanto oggi viene pubblicato, Lanzi illustrava il contenuto del Gabinetto, corredando il testo di annotazioni per una maggiore conoscenza dei reperti. Il Catalogo era accompagnato da due volumi di tavole di Francesco Marchissi, con bei disegni illustranti le opere, realizzati a china e matita, anch’essi pubblicati nel volume della Zaccagnino. Pubblicando il Catalogo del Lanzi, l’autrice traccia la descrizione degli oggetti facenti parte delle collezioni, rintracciandone spesso le origini, ricavandone le giuste attribuzioni, e ripercorre la storia del museo stesso, la cui collezione andò piano piano arricchendosi, dai primi pezzi appartenenti a Lorenzo il Magnifico (come la testa di cavallo Medici Riccardi), passando attraverso le importanti acquisizioni collezionistiche di Cosimo I e dei suoi successori, fino a giungere alla seconda

metà del Settecento, quando si cominciò a sentire la necessità di colmare alcune lacune tipologiche e di seguire un intento programmatico, acquisendo appositamente anche alcune importanti collezioni private. Cosí, negli anni Ottanta del Settecento, la Galleria, da luogo accessibile a pochi, divenne luogo dove si poteva entrare a pagamento, secondo una piú moderna concezione di museo. Il pubblico della Galleria, all’epoca, era perlopiú costituito da aristocratici, membri del clero e uomini di cultura ma, attraverso il registro delle mance lasciate dai visitatori nel periodo immediatamente precedente all’istituzione della regola dell’entrata a pagamento, è stato possibile osservare che vi accedevano anche persone di altra estrazione sociale, come camerieri, ballerine o addirittura un pentolaio e una tappezziera, probabilmente curiosi di visitare un luogo famoso e celebrato anche fuori dai confini del Granducato. Infatti, in poche città italiane prese corpo nel corso dei secoli una raccolta di bronzi antichi di grandi, medie e piccole dimensioni come a Firenze, e l’inventario del Lanzi ne costituisce un’importante testimonianza. Sandra Baragli



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