machu picchu
anco marzio
letti dei giganti
sparta
cervo
cavalleria speciale padania romana
Mens. Anno XXVII numero 7 (317) Luglio 2011 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria 9,90; Belgio 9,90; Grecia 9,40; Lussemburgo 9,00; Portogallo Cont. 8,70; Spagna 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
archeo 317 luglio 2011
padania vera storia la
• l’origine del nome • il «mito celtico» • il ruolo di giulio cesare
europa megalitica
i letti dei giganti
grecia
il caso sparta
roma
la guerra di anco marzio
perú 1911
5,90
bingham e la scoperta di machu picchu
Editoriale Storie d’Italia Il passato, pur riflettendosi nelle mille sfaccettature del presente, non può essere letto alla sola luce di quest’ultimo, proprio come l’attualità non si spiega semplicemente attingendo a ipotetici «precedenti» (se cosí non fosse, l’interpretazione storica sarebbe, infatti, impresa superflua, poiché tutto risulterebbe già spiegato: il presente con il passato, quest’ultimo con la sua «evoluzione»). Premessa scontata, d’accordo, ma necessaria per introdurre l’articolo in apertura di questo numero: in esso, uno dei piú profondi conoscitori della storia antica della nostra Penisola, Romolo A. Staccioli (già professore di etruscologia e antichità italiche all’Università di Roma «La Sapienza» e collaboratore di «Archeo» sin dal primo numero), racconta la «vera storia» di un fenomeno che, ormai da anni, occupa le pagine della cronaca, politica e non: parliamo della «Padania», della sua origine e dell’«identità» dei suoi attuali abitanti. Le vicende antiche della Padania, come leggerete, annoverano elementi straordinariamente simili a quelli dell’Italia moderna: in comune vi figurano (ad apparente dispetto della nostra premessa) invasioni, migrazioni e spostamenti programmati di popolazioni, plurilinguismo, centralismo e decentralizzazione e, perfino, la costruzione di «grandi opere»… Ma è storia di oltre duemila anni fa, e tale rimane. Difficile, se non indebito, richiamarvisi per accampare una qualche giustificazione «identitaria».Vale per tutti. Per i Romani di oggi come per i novelli «Padani». Che poi, a rigor di logica, dovrebbero chiamarsi «Padagnoli» (vedi i nostri «Romagnoli», o i vicini «Spagnoli»…). E che, inoltre, dovrebbero meditare sulla loro sbandierata «origine celtica»: che gusto c’è – si chiede infatti il nostro autore – nell’attribuirsi una discendenza, per giunta in parte fasulla, «dalla peggior specie di immigrati, quella degli invasori?». Andreas M. Steiner
Soldato celtico in fuga, particolare di fregio in terracotta da un tempio di Civitalba, Sassoferrato. II sec. a.C. Ancona, Museo Archeologico Nazionale delle Marche.
Sommario
Editoriale
Storie d’Italia
3
di Andreas M. Steiner
Machu Picchu
La versione di Bingham
Attualità
56
di Antonio Aimi
la notizia del mese
Un tesoro di monete recuperato nelle acque di Pantelleria evoca le vicende della seconda guerra punica 6 di Leonardo Abelli
notiziario
scoperte
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scavi Lamine di piombo dall’apparenza innocua potevano, in realtà, farsi carico di terribili auspici: sono le defixiones, che ora riemergono anche in Francia, a Le Mans 6 parola d’archeologo Al capezzale del monumento piú visitato d’Italia e tra i piú celebri al mondo, il Colosseo, accorre uno dei piú noti marchi del made in Italy, finanziando un ampio e articolato intervento di restauro 12
origini di Roma/7 Anco Marzio
In equilibrio tra guerra e pace
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di Daniele F. Maras
scoperte
Hunebedden
I giganti? Dormono 72 come sassi di Aart Heering
speciale
storia dei greci/7 L’eccezione spartana
di Romolo A. Staccioli
L’«invenzione» della Padania 78
di Fabrizio Polacco
Rubriche Nelle alcove dei Cesari/2
La macchina del fango
106
di Romolo A. Staccioli
l’età dei metalli Una finestra sulla preistoria
dalla stampa internazionale
56
30
Antichi ieri e oggi
mostre Il mistero dei Dogon conquista Parigi, con la grande rassegna al Musée du Quai Branly 18
Inaugurato a Gerusalemme un nuovo parco archeologico. Ma i dissidi fra gli studiosi non si fanno attendere... 24
30
110
di Claudio Giardino
78
l’altra faccia della medaglia
misteri d’etruria
Una cesta piena di misteri
Nelle spire del mito/2
Viterbo
Città dei papi o del dio Suri?
86
di Paola Di Silvio
112
di Francesca Ceci
libri
114
storia
L’uomo e la materia
Il signore dei boschi
Avviso ai lettori 94
di Massimo Vidale
archeotecnologia Cosí nacque la cavalleria di Flavio Russo
100
In questo numero, per motivi di spazio, non compaiono le consuete rubriche «Il mestiere dell’archeologo» e «Medea e le altre», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il prossimo mese
La Notizia del mese
Il tesoro di Pantelleria U
na dolce mattina di luglio. Un maestrale leggero accarezza la superficie del mare, lucenti raggi di sole scaldano le rocce, e, al largo, uno stormo di gabbiani disegna nel cielo forme incredibili. Siamo a Cala Tramontana (Pantelleria), e un gruppo di archeologi subacquei si riunisce in superficie in galleggia-
6 archeo
mento attorno alla cima di discesa per confermare e ripetere gli obiettivi della loro missione. Il progetto «Fruizione e Musealizzazione degli itinerari archeologici subacquei in prossimità delle infrastrutture di Pantelleria» viene inaugurato con una serie di immersioni di ricognizione e pro-
spezione, nella quali i subacquei evidenzieranno con appositi galleggianti, i reperti archeologici presenti sul fondale. Le operazioni sono dirette dal Consorzio Pantelleria Ricerche, un’équipe di professionisti altamente specializzata che, da oltre un decennio, esplora i fondali e il territorio dell’isola.
di Leonardo Abelli
A sinistra e in alto: esploratori subacquei del Cosnorzio Pantelleria Ricerche impegnati nelle immersioni che, nella zona di Cala Tramontana, hanno portato alla scoperta del tesoro di monete.
In alto: le monete di Cala Tramontana al momento della scoperta; qui sotto: anfore appartenenti al carico di uno dei relitti localizzati a Cala Tramontana; in basso, a sinistra: cartina del Mar di Sicilia.
Mar Mediterraneo eo o Tun T Tu un unisi si si
esssin sin si ina a Pal Pa a erm er o Mes
Sicilia Agrige gento n nto
Siracu Sir acu cu usa
Pantelleria Pan
Malta
archeo 7
motivo allestiscono una grande flotta, composta da 150 quinquiremi che, affidata al console Tiberio Sempronio Longo, aveva il compito di controllare il Mar Tirreno e il Canale di Sicilia. È proprio in questa situazione che l’isola di Pantelleria, ancora sotto il dominio cartaginese, assume il ruolo di testa di ponte tra il Nord Africa e la Sicilia, con lo scopo di rifornire le fazioni antiromane che in quel momento erano molto attive nelle città della Sicilia. Come ben ci racconta Polibio, nel 217 a.C. la flotta romana insegue ciò che rimaneva della flotta da Il team del C.P.R. è composto da a.C., quando Romani e Cartagine- guerra cartaginese fino a costrinarcheologi e subacquei ed è capita- si si contendevano il dominio del gerla a rifugiarsi nel porto della nato da chi scrive, direttore scienti- Mediterraneo. Già nel 255 a.C. la capitale nordafricana, proseguendo fico del progetto, e da Francesco flotta capitolina conquistò Cossyra poi fino alle isole Kerkenna, nella Spaggiari, esploratore subacqueo e (antico nome di Pantelleria), ma fu Tunisia orientale. Dopo avere risommozzatore professionista. Nes- un dominio effimero, tanto che, scosso un ingente tributo, sulla via suno di loro, però, si sarebbe l’anno successivo, l’isola tornò sotto del ritorno, la flotta romana fa rotta verso l’isola di Cossyra, sfruttando i aspettato di potere riscrivere una il dominio nordafricano. pagina di storia della seconda Controllare Pantelleria significava, venti provenienti da meridione. infatti, avere un corpo di guardia Da questo momento Polibio soguerra punica. Cala Tramontana non è e non è mai nel centro del Canale di Sicilia, da spende la narrazione degli eventi, stato un vero e proprio porto: si dove, in meno di un giorno di na- ma grazie alle nostre indagini siatratta, piuttosto, di un approdo, di vigazione, era possibile raggiunge- mo in grado di ricostruire quello un riparo dai venti meridionali, che re sia le coste dell’Africa che quel- che deve essere accaduto durante veniva utilizzato per l’ormeggio in le della Trinacria. A partire dal 218 quella drammatica battaglia. Le rada. Questo non significa, tuttavia, a.C. i Romani comprendono che navi dei rifornimenti cartagineche nelle acque della baia non si il solo modo che avevano per ta- si, che dovevano essere ormegsiano verificati eventi di grande ri- gliare i rifornimenti alle truppe di g iate nel por to pr incipale levanza storica. Possiamo solo im- Annibale, che in quel momento dell’isola, in prossimità del paese maginarci, infatti, quale doveva stavano effettuando scorrerie nel di Pantelleria, non avevano altra essere l’importanza strategica di centro e nel sud della Penisola, era speranza che rindossarsi sul verPantelleria durante le prime due quello di avere il completo domi- sante settentrionale, distribuenguerre puniche, nel III secolo nio del mare. Proprio per questo dosi nelle calette riparate dal mez8 archeo
In alto: le monete scoperte a Cala Tramontana in situ. Si tratta di 300 pezzi, uguali e databili al III sec. a.C. forse destinati a essere utilizzati per il soldo dei mercenari.
A destra: Leonardo Abelli (a sinistra) e Francesco Spaggiari con alcune delle monete dopo il recupero. Nella pagina accanto: anfore appartenenti ai relitti di Cala Tramontana.
zogiorno, nella vana speranza che la flotta romana passasse da sud e, vedendo il porto vuoto, proseguisse verso la Sicilia. Le navi nordafricane erano quindi ormeggiate vicine, a Cala Gadír, Cala Tramontana e Cala Levante, in prossimità del limite del ridosso al vento, pronte a tagliare gli ormeggi e issare le vele alla vista della prima prua romana che avesse doppiato il Capo dell’Arco dell’Elefante. Per questo motivo sono state rinvenute nei fondali che separano Cala Tamontana da Cala Levante, a profondità comprese tra i 50 e i 70 m, piú di una trentina di ancore in piombo. Quel che mancava era un vero e proprio elemento datante, che ci consentisse di fissare la cronologia dei contesti di Cala Tramontana, dove i subacquei del C.P.R., diretti da Francesco Spaggiari, hanno individuato i resti del carico di almeno 4 relitti databili alla seconda metà del III secolo a.C. In un simile contesto diviene ancor piú importante il rinvenimento del tesoro di monete che, tutte uguali e databili al III secolo a.C., lasciano pensare a un pagamento di tipo «istituzionale», come
per esempio il soldo per i mercenari che combattevano in Sicilia, piuttosto che al risultato del commercio dei prodotti imbarcati. A tal proposito, l’autore della sensazionale scoperta, Francesco Spaggiari, racconta di come in una sola immersione, in un unico tuffo, il sogno di una vita si sia avverato. In un passaggio radente, su di un fondale sabbioso, in uno scenario che ricorda la superficie lunare: compatto, uniforme, terribilmente piatto. Un deserto marino, dove tutto sembra avere la stessa forma e lo stesso colore. Un luogo in cui è davvero facile perdersi e continuare a girare senza una meta. Nascondiglio ideale per gli antichi segni di un passato glorioso. Quante reti, quante ancore e quante persone nel corso degli anni sono passate su questo fondale? Un numero indefinito, probabilmente troppe, ma non sufficienti a scoprire il tesoro che questa parte di isola proteggeva nelle sue profondità. Sotto uno dei mille frammenti di roccia che si trovano sparsi sulla sabbia, un piccolissimo oggetto di colore verde sgargiante, ha attirato l’attenzione di Spaggiari. Un
verde che voleva dire solo una cosa: metallo. «Mentre stavo raggiungendo lo sconosciuto frammento – racconta il subacqueo –, riflettevo sul significato del concetto di esplorazione. Immerso in un ambiente ostile, dipendente per la vita da un equipaggiamento meccanico e con regole da osservare in modo molto diligente, la mia concentrazione era assoluta e tutti i miei sensi erano tesi, costantemente impegnati a decifrare i milioni di informazioni che provenivano da tutto quello che mi circondava». La differenza è semplicemente questa: la possibilità di cogliere il vero significato delle cose che ci circondano, di interpretare i loro messaggi e di collegare il tutto per trovare un’azione definitiva. Il verde sotto una roccia si è rivelato essere il bordo di una moneta del III secolo a.C., non piú larga di 2 cm, sepolta dalla sabbia da piú di duemila anni in un’area di circa 1000 mq. Scoperte come questa non si verificano per caso: l’impegno dello scrivente e dei suoi colleghi, la loro passione, la loro professionalità hanno fatto sí che in questi giorni a Pantelleria si stia scrivendo una nuova storia. archeo 9
n ot i z i ari o SCAVI Francia
Augurio e malaugurio
N
el Quartiere dei Giacobini, nel centro storico di Le Mans, la città francese che oggi si ricorda soprattutto per la «24 ore», la gara automobilistica di durata, sarà presto costruito un nuovo centro culturale. Come è ormai d’uso, il cantiere ha visto impegnati in prima battuta gli archeologi dell’INRAP, che nel corso delle ultime settimane hanno individutato un contesto cultuale di particolare interesse. Si tratta di un vasto bacino (oltre 2500 mq di superficie), il cui riempimento ha restituito una mole cospicua di reperti, fra cui oggetti d’ornamento e monete in bronzo, argento e oro gettate nel bacino come offerta a una divinità la cui identificazione dev’essere ancora accertata. Una parte delle monete, circa 150 pezzi, risultano emesse fra il I e il III secolo d.C., offrendo quindi un parziale termine di riferimento cronologico delle fasi d’uso della struttura. Fra i materiali sono state anche ritrovate sei lamine in piombo, accuratamente ripiegate prima d’essere deposte. Gli oggetti sono attualmente in restauro e due di essi sono
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stati aperti: il primo è risultato essere vergine, mentre il secondo reca alcune iscrizioni, per il momento di difficile lettura. Al di là dell’interpretazione, che potrà avvenire nel corso dello studio analitico dei reperti, si può comunque affermare che le lamine sono tavolette usate per le defixiones, cioè per formulare maledizioni lanciate all’indirizzo di un avversario, oppure invocazioni a divinità infere o, ancora, auspici di
Inghilterra Germania
Le Mans
Oceano Atlantico
Spagna
Parigi
Francia
Italia
Corsica Mar Mediterraneo
roma
I Romani costruivano cosí
A sinistra: Le Mans, Quartiere dei Giacobini. I resti della struttura quadrangolare in laterizio, di 3 m di lato, dalla quale, nel corso degli scavi condotti da archeologi dell’INRAP, sono state recuperate 300 monete in bronzo databili fra il I e il III sec. a.C.
Nella pagina accanto, in alto: una delle sei lamine in piombo ritrovate nell’area del Quartiere dei Giacobini, a Le Mans, e riferibili alla pratica della defixio, una forma di invocazione o di maledizione di origine greca, che ebbe ampia diffusione in tutto il mondo antico. Nella pagina accanto, in basso: veduta di Le Mans, l’antico oppidum gallico di Vindunum, che, conquistato dai Romani, fu ribattezzato Civitas Cenomanum.
morte (che avrebbe reso il destinatario dell’«augurio», grigio e gelido come il piombo della lamina). L’uso di simili pratiche (di origine greca)
si diffuse in Gallia nel IV secolo a.C. e perdurò fino a tutto il VI secolo d.C., in età merovingia. Sulle tavolette, per la cui preparazione ci si affidava solitamente a maghi e stregoni, venivano dunque incise scritte e spesso anche disegni e, in alcuni casi, vi si aggiungevano elementi che erano stati a contatto con la persona che si voleva maledire, come per esempio un capello o un pezzetto di stoffa. Ultimata la preparazione, venivano gettate nei luoghi di culto o deposte in contesti che evocavano le profondità ctonie, quali le tombe, le acque dei pozzi o quelle del mare. A oggi, si conoscono quasi 2000 esemplari di queste lamine, provenienti da un vasto ambito geografico, che spazia dall’Egitto alle Isole Britanniche. Ma le defixiones non sono gli unici oggetti che attestano il carattere cultuale del complesso scoperto nel Quartiere dei Giacobini. In particolare, una costruzione in mattoni di fattura assai accurata, a pianta quadrangolare di 3 m di lato, localizzata lungo il margine settentrionale del bacino, ha restituito un insieme di quasi 300 monete in bronzo, databili fra il I e il III secolo d.C. Si tratta, anche in questo caso, di offerte che confermano la connotazione religiosa della struttura, forse dedicata a una divinità delle acque. S. M.
I Mercati di Traiano ospitano, fino al 25 settembre, la mostra «Calce viva. I Romani grandi costruttori nei Mercati di Traiano». L’evento si configura come la valorizzazione e la comunicazione al grande pubblico del monumento, che rappresenta uno dei piú spettacolari complessi architettonici antichi conservati, e dell’importante restauro in corso nel Grande Emiciclo. Una suggestiva panoramica che va dal cantiere di costruzione romano a quello «di restituzione» di età fascista, con il quale è prevalsa la lettura del monumento in chiave commerciale, fino ai cantieri di restauro del 2005-2007 e del 2010-2011, viene proposta ai visitatori dalle gigantografie dei lavori degli anni Trenta del Novecento sospese nella Grande Aula, e, lungo la via Biberatica parzialmente occupata dal cantiere, da due prodotti video preparati per l’occasione, dall’utilizzo dei pannelli di recinzione come supporto di testi e immagini che consentono di «sfogliare» il monumento e dall’esposizione di materiali inediti.
toscana
Il passato vien di notte... Oltre 240 appuntamenti per scoprire il passato della Toscana in piú di 100 musei, parchi e aree archeologiche della regione. Sono queste «Le notti dell’archeologia 2011», la manifestazione che, fino al 31 luglio, propone aperture straordinarie, visite guidate, trekking e itinerari alla scoperta di nuove aree archeologiche, incontri con gli studiosi, mostre e laboratori didattici. Info: www.regione.toscana.it/ nottidellarcheologia a r c h e o 11
Parola d’archeologo
di Flavia Marimpietri
La rinascita di un simbolo
La storia plurisecolare del Colosseo si arricchisce di un capitolo importante, che ne fa il battistrada di una nuova stagione di mecenatismo culturale
A
fine settembre inizieranno i lavori di restauro del Colosseo, finanziati con 25 milioni di euro dal gruppo Tod’s. Il noto marchio, in base all’accordo, avrà l’esclusiva per 15 anni della sponsorizzazione del restauro del monumento. Un’iniziativa da parte di un imprenditore, o come è stato detto un esempio di «nuovo mecenatismo», che rappresenta una novità assoluta nel panorama culturale italiano. Il piano degli interventi è stato presentato lo scorso 22 giugno a Roma, all’interno del monumento stesso. Nell’occasione, Diego Della
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i numeri del progetto Andiamo a scrutare i numeri del progetto di restauro del Colosseo, diffusi in occasione della sua presentazione. Le cancellate da realizzare sono 84: la soluzione riprende quella già sperimentata nelle arcate dallo Stern, con pannelli fissi o apribili a doppia anta in ferro forgiato. Sono previsti anche cancelli carrabili. Sono 31, invece, i fornici delle
arcate da restaurare sul prospetto settentrionale del Colosseo: una superficie, interamente in travertino, pari a circa 13 600 mq (compreso l’interno dei fornici). Su questa facciata, agli speroni Stern e Valadier corrisponde una superficie di circa 2mila mq di travertino e una altrettanto estesa in cortina di mattoni. L’intervento di restauro del prospetto
meridionale del monumento, invece, occuperà una superficie complessiva pari a circa 7500 mq. Il sistema di pulitura che verrà utilizzato è quello già sperimentato sul Colosseo negli anni Novanta con l’Istituto Centrale per il Restauro, oggi Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, nuovamente riconfermato per seguire questo nuovo intervento.
Valle, presidente amministratore delegato del gruppo Tod’s, ha precisato che l’operazione non avrà alcun ritorno economico o commerciale: niente cartelloni pubblicitari, nessuna «mercificazione» del monumento. «Nessun’altra finalità se non l’orgoglio di restaurare il Colosseo», ha spiegato, aggiungendo che questa, poi, non sarà l’unica operazione a interessare il nostro patrimonio archeologico: il suo gruppo potrebbe finanziare altri illustri restauri. Il suo, cosí lo chiama, è un «progetto Italia». Oggi il Colosseo, domani Pompei,Venezia, magari Firenze: questa è l’idea. L’imprenditore è convinto che nel futuro gli altri industriali – italiani e non solo – lo seguiranno, moltiplicandone l’esempio a beneficio dei nostri beni culturali. «Sono fiducioso», ha detto. «Oggi siamo uno o due, domani potremmo essere in tanti». Lui, Diego Della Valle, voleva essere il primo. Anzi, l’unico a sponsorizzare il restauro di un monumento unico al mondo come il Colosseo. E ci è riuscito... «Quando il sindaco di Roma Gianni Alemanno mi ha chiamato per sapere se, insieme a una cordata di imprenditori, volevamo partecipare al restauro del monumento», ha raccontato
la tabella di marcia Il compito di illustrare in dettaglio i tempi e le modalità del piano di intervento per il restauro del Colosseo, nel corso della presentazione alla stampa del progetto, lo scorso 22 giugno a Roma, è toccato all’architetto Roberto Cecchi, Commissario straordinario alle aree archeologiche di Roma e Ostia, che promuove l’iniziativa di concerto con la Soprintendenza speciale per i Beni Archeologici di Roma, guidata ad interim da Anna Maria Moretti. Questa la tabella di marcia dei lavori, assicura Cecchi: «Ora che si è concluso l’iter amministrativo del progetto, dalla seconda metà di luglio potranno iniziare le gare di appalto. I lavori di restauro, invece, inizieranno dalla fine di settembre». Il Piano di intervento prevede la sostituzione delle cancellate che attualmente chiudono le
arcate perimetrali del Colosseo, il restauro della facciata settentrionale e di quella meridionale del monumento, degli ambulacri, dei sotterranei ipogei, la messa a norma degli impianti e la creazione di un centro servizi (nel quale confluiranno la biglietteria, il bar e la libreria), da realizzare nell’interro esistente sul lato sud della piazza del Colosseo, nello spazio in parte già sterrato per la costruzione della linea B della metropolitana di Roma (si tratta di un’area compresa fra il Colosseo e l’Arco di Costantino, n.d.r.), con un’operazione che comporterà lo scavo di circa 8mila mc di terreno. La ratio dell’intervento, spiega il Commissario, è questa: «L’intenzione è quella di spostare nel nuovo centro servizi tutte le funzioni che non sono proprie del monumento
e che ora si trovano al suo interno, come per esempio il bookshop. Vorremmo un uso del Colosseo non solo come “spartitraffico”, ma come polo culturale dell’area archeologica piú importante al mondo. Ci piacerebbe ricongiungere l’Anfiteatro Flavio con l’area del Palatino, eliminando in pratica il setto di via dei Cerchi che oggi li divide. Siamo contrari ad aumentare il numero dei turisti che visitano il Colosseo, già alto (con punte di 25mila al giorno e soli 34 custodi), né tantomeno vogliamo correre il rischio di una mercificazione del nostro patrimonio». I cantieri saranno otto in tutto, per una durata prevista dai 24 ai 36 mesi ciascuno, precisa Cecchi. Chiarendo che gli appalti dei lavori verranno condotti con evidenza pubblica e secondo le procedure di legge.
Gli imprenditori Diego (a sinistra) e Andrea Della Valle. Per lo «sbiancamento» delle facciate verrà utilizzato un sistema ad acqua nebulizzata, spruzzata a temperatura ambiente e a pressione atmosferica, senza l’aggiunta di solventi o altre sostanze. Una tecnica in grado di rimuovere i depositi di polvere e di sciogliere le croste nere oggi presenti sul monumento, senza tuttavia alterare la patina del tempo ed eventuali tracce di colore o d’uso.
l’imprenditore durante la presentazione del progetto di restauro, «io e mio fratello Andrea ci abbiamo pensato non piú di 24 ore. Abbiamo detto “sí”, a patto di essere l’unico sponsor. E ci siamo sentiti rispondere: avete capito bene la cifra? Certo che sí. Lo abbiamo fatto perché nessun monumento rappresenta l’identità del nostro Paese piú del Colosseo, in Italia come all’estero. È un simbolo che appartiene a tutti gli italiani e al mondo intero. Non
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metti una sera al colosseo A proposito di Colosseo, ci piace segnalare che, fino al 17 settembre, si può visitare la mostra Nerone al Colosseo (vedi «Archeo» n. 316, giugno 2011), anche di sera, e tutti i sabati. L’esposizione documenta i grandiosi programmi edilizi avviati dall’imperatore dal 64 al 68 d.C., che hanno contribuito a ridisegnare il piano urbanistico della capitale. Inoltre, i recenti studi condotti sulla Domus Aurea offrono un quadro aggiornato dello stato delle conoscenze, illustrato da video e fotografie ricostruttive. E poi il tema dell’incendio è sviluppato, mostrando il diffondersi delle fiamme seguito, sulla base del resoconto di Tacito, dal primo focolaio, divampato nel Circo
Massimo nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 64, fino all’estinzione, nove giorni dopo, e alla constatazione dei danni: le cospicue tracce dell’incendio rinvenute nella valle del Colosseo e sulle pendici orientali del Palatino nel corso degli scavi condotti dal 1986 a oggi, sono per la prima volta offerte al grande pubblico. Dagli scavi è emersa una porzione di Roma, edifici pubblici e abitazioni private, i cui resti sono parte del percorso espositivo. Rimosse le macerie, Nerone avvia la costruzione della Domus, di cui sono illustrate anche le tecniche costruttive ed esposti alcuni pregevoli arredi scultorei. La mostra permette di comprendere al meglio l’assetto della valle prima del Colosseo,
vorremmo che fosse deturpato con campagne pubblicitarie e cartelloni. È una questione di orgoglio, non di profitto, per noi che esportiamo made in Italy». In effetti per un’azienda che esporta prodotti a marchio «Italia» la scelta del monumento sembra appropriata. Il Colosseo è il sito archeologico piú visitato d’Europa: 5 milioni di presenze all’anno, con punte di 25 mila al giorno... «Mi ricordo la prima volta che sono arrivato a Roma», racconta Della Valle, in pullman, dal piccolo centro di Casette d’Ete (in provincia di Fermo), nelle Marche, da cui provengo… Oggi, qualche decina di anni piú tardi, sono orgoglioso di poter restaurare il Colosseo». A una cronista canadese che
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costruito dai Flavi nel 72 d.C. per coprire il grande lago che Nerone aveva voluto all’interno della Domus. Il percorso della visita continua tra gli archi e le terrazze del Colosseo. Mentre una mongolfiera sospesa sul piano dell’arena illuminerà i sotterranei, le gallerie e le arcate interne del monumento. (red.)
gli chiede se avrebbe accettato di sostenere l’intervento anche in forma anonima, Della Valle ribatte: «Questa non è un’operazione di beneficienza, e il nostro gruppo è quotato in Borsa, non può fare investimenti sotto l’anonimato. Inoltre, i buoni esempi vanno fatti conoscere pubblicamente. Anzi, non ci sarebbe nulla di male se dalla prossima sponsorizzazione gli investitori si portassero a casa qualcosa». I motivi che lo hanno convinto, spiega Della Valle, sono tre: «Primo: il nostro gruppo è conosciuto in tutto il mondo e occuparci del monumento che piú rappresenta l’Italia ha a che fare con il nostro mestiere. Secondo: il nostro Paese vive di turismo e
cultura, e questa potrebbe essere un’operazione emblematica, anche a livello mondiale, che farebbe del bene anche all’Italia. Spero che potremmo vedere altre iniziative del genere, in futuro. Ci sono tanti imprenditori disposti a finanziare interventi, bisogna dare un segnale. Sarebbe bello se a sostenere Pompei, per esempio, fossero imprenditori napoletani, prima che ci arrivi qualche Americano. Infine, in un momento di crisi economica per l’Italia, le aziende forti hanno il dovere far vedere che sul territorio ci sono, e di farlo senza volere nulla in cambio. Bisogna restituire un pizzico della fortuna avuta (che nel nostro mestiere si traduce in profitto) al territorio, alla gente». L’accordo tra Tod’s e MiBAC prevede che il gruppo costituisca un’associazione senza fini di lucro, chiamata «Amici del Colosseo», che avrà per 15 anni l’esclusiva della sponsorizzazione del restauro del monumento... «Si occuperà di azioni sociali, come portare anziani e disabili a visitare il Colosseo», fa sapere Della Valle. «È un luogo aperto. Potrà farne parte Steve Jobs (il fondatore di Apple, n.d.r.) come mia zia… dai grandi imprenditori alla gente comune. Quello che vorrei è proprio coinvolgere le persone piú semplici».
santa severa (roma)
Storie sull’acqua... Il Museo del Mare e della Navigazione antica di Pyrgi, nel castello di Santa Severa (Roma), presenta, dal 6 al 31 agosto, la mostra Navigare necesse est: il faro tra mondo antico e Medioevo. L’esposizione presenta l’evoluzione del faro, dai primi fuochi posti sulle colline di cui già parlava Omero, alle torri-specole di epoca fenicio-punica fino alla costruzione del celebre Faro di Alessandria, una delle meraviglie del mondo antico, fino alla Lanterna di Genova. Oltre a documentare la storia, la tecnologia e l’architettura di questi edifici portuali, dal Mediterraneo al Mare del Nord, vengono illustrati anche l’aspetto simbolico e il valore polititico di queste strutture. Info: tel. 0766 570209; www.museosantasevera.org
barumini
...e storie sott’acqua Il Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «Giovanni Lilliu» di Barumini, ospita invece, fino al 30 settembre, la mostra Quel che il mare conserva… Un meraviglioso viaggio nell’archeologia subacquea. L’esposizione è il frutto delle numerose scoperte archeologiche subacquee effettuate in 15 anni di ricerche dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici delle province di Cagliari e Oristano. I visitatori sono proiettati in un viaggio interattivo alla scoperta dei materiali e dei relitti che giacciono nei fondali dei mari e delle lagune della regione e possono «immergersi» tra le testimonianze di un passato che le acque hanno gelosamente conservato. Info: tel: 070 9361041; e-mail: fondazionebarumini@tiscali.it; www.fondazionebarumini.it
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musei Ravenna
Qui comincia l’avventura... A M O. Tu t t a l’Avventura del «T Mosaico», il progetto di
esposizione permanente realizzato dalla Fondazione RavennAntica si è fatto realtà. Il nuovo allestimento ha aperto i battenti lo scorso 20 maggio e si avvia a diventare un polo d’attrazione irrinunciabile per chiunque abbia in animo di visitare (o riscoprire) Ravenna e il suo ricco patrimonio storico-artistico e archeologico. L’esposizione è suddivisa in sei percorsi tematici. La prima sezione, PAVIMENTA, propone una mostra didattica, con lo stesso titolo, pro-
In alto: una restauratrice al lavoro all’interno del Complesso di S. Nicolò, al cui interno è stato realizzato il nuovo progetto TAMO. A sinistra: acquerello che riproduce una Vittoria alata della basilica ravennate di S. Apollinare Nuovo. Il lavoro è stato realizzato nell’ambito di un corso di mosaico svolto presso l’Istituto d’Istruzione Superiore «P.L. Nervi-G. Severini».
provenienti dalla domus augustea di via Pasolini e dalla ricca residenza del V secolo rinvenuta in via Dogana, nonché mosaici provenienti dalla Domus dei Tappeti di Pietra. La quarta sezione, AURUM, situata nel presbiterio e nell’abside della chiesa di S. Nicolò, ospita i materiali per il mosaico prodotti dalla storica bottega veneziana di Angelo Orsoni, mentre ETERNITÀ E STORIA illustra altri strumenti preziosi per la conoscenza del mosaico, i calchi in gesso. Si chiude infine con PANORAMA, dove si può ripercorrere l’avventura del mosaico di tutto il bacino del Mediterraneo sul grande gettata e realizzata dalla Scuola Bot- tavolo touchscreen o con le immagini proiettate sul grande schermo. tega del Mosaico di Ravenna. La seconda, ECCLESIA, PALA(red.) TIUM, mostra una porzione di opus sectile relativa all’aula absidata Dove e quando e alcuni mosaici del portico meridionale con scene di circo pro- TAMO. Tutta venienti dal Palazzo di Ravenna e l’Avventura del Mosaico il pavimento musivo proveniente Ravenna, Complesso di San dal secondo sacello della chiesa di Nicolò, via Rondinelli 2 S. Severo a Classe. DOMUS, PA- Orario tutti i giorni, 10,00-18,30 LATIUM presenta pavimenti mu- Info e prenotazioni tel. 0544 sivi dell’antica Faventia (Faenza), 213371; www.tamoravenna.it
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MOSTRE Parigi
Dalla falesia incantata di Daniela Fuganti
dei Dogon, chiamato anfalesia di Bandiagara, si trova Inellchepaese cuore della Repubblica del Ma-
li. Si è scritto molto sulla popolazione che lo ha abitato, ma i capolavori che essa ha prodotto sono stati finora apprezzati soprattutto per il valore estetico e per l’emozione che possono suscitare, in noi Occidentali, i volumi espressi in poche linee essenziali. L’altopiano e la falesia, con il loro clima secco e i loro ripari inaccessibili, hanno conservato il piú importante patrimonio di statuaria lignea africana, databile a partire dal X secolo, e dunque secondo per antichità soltanto a quello dell’Egitto classico. La mostra in corso a Parigi – che sarà poi allestita a Bonn e al Palazzo Reale di Milano – esibisce le straordinarie creazioni degli artisti presenti fin dall’antichità in questa parte del Continente. Lo studio scientifico degli oggetti, le recenti datazioni al 14C dei pezzi in legno mirabilmente conservati grazie alla siccità
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del clima, l’analisi chimica delle patine (strati di sostanze provenienti da libagioni rituali, di cui sono ricoperte alcune fra le sculture piú antiche), insieme alla catalogazione della statuaria corrispondente ai popoli che hanno coabitato e si sono mescolati nella regione, sono elementi essenziali per fare il punto sulle attuali conoscenze del mondo dei Dogon. All’inizio del percorso espositivo, articolato cronologicamente, sono riunite molte delle opere di maggiore pregio, attribuibili ai Toloy, ai Tombo, ai Niogom e ai Tellem, popolazioni indigene presenti nelle grotte e nei rifugi della falesia già dal III secolo a.C. Cioè da ben prima che sopraggiungessero due migrazioni importanti: i Djennenké, verso il X secolo, in esilio dall’impero del Ghana e provenienti da Djenné; e i Dogon-Mandé piú tardi, verso il XIII-XIV secolo. I nuovi arrivati soppiantarono i Tellem, assimilandone gli idoli. Gli autoctoni animisti vivevano in effetti (e cosí fu fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando l’Islam cominciò a diffondersi anche qui) divisi fra la credenza in un dio supposto all’origine di tutte le
A destra: particolare di una statua antropomorfa dei Soninké (Mali). In basso, a sinistra: statua di cavaliere dei Djennenké (Mali); a destra: particolare di una statua femminile dei Dogon (Mali).
cose, Amma, e il rispetto del nyama, il soffio vitale all’opera su tutto ciò che palpita sulla terra, vegetale, animale o umano. Quando negli anni Trenta del secolo scorso l’etnologo francese Marcel Griaule (1898-1956), a capo di una missione scientifica, fa tappa nel loro territorio isolato, rimane stregato: i Dogon sembrano vivere ai confini del mondo, in simbiosi con il loro ambiente. Una cultura preservata, una mitologia straordinaria, paesaggi grandiosi, arte e rituali misteriosi. I loro «racconti fondatori» gravitano intorno a una stessa concezione del cosmo, strutturato sulla complementarietà dei contrari, il principio maschio e femmina in particolare. È la figura di Nommo che incarna al meglio questa nozione: l’essere ideale, sintesi dei due sessi uniti, sceso sulla Terra per volere di Amma, in un’arca a forma di granaio contenente i primi uomini e tutti gli elementi della creazione. Cosí le statue antropomorfe non sono solo oggetti dell’arte, bensí dell’anima, poiché contengono nelle loro fibre una frazione dell’energia che anima l’universo, servono da supporto al dialogo fra gli uomini e le forze superiori, atte ad agire sul loro destino. Infatti, la potenza di queste statue era originata dallo scultore che aveva loro «dato la vi-
n ot iz iario
ta»: era sempre un membro della casta dei «fabbri», temuti per il loro dominio sul metallo proveniente dalle viscere della Terra-madre del mondo sotterraneo. Sono molti i miti legati all’origine dell’esistenza, secondo i popoli e secondo l’epoca in cui questi racconti fondatori sono apparsi, e la loro evoluzione nel corso della storia è assai complessa. Una famosa cerimonia, festeggiata ogni sessant’anni, il Sighi, commemora la rivelazione della parola e la morte dell’antenato mitico. Un avvenimento che ha dato adito alle piú fantastiche supposizioni grazie al libro di Grieule, Il dio dell’acqua, nel quale lo studioso riferisce le sue conversazioni con un vecchio saggio, Ogotemmêli. Vi si apprende che i Dogon sarebbero stati al corrente dell’esistenza di una compagna della stella Sirio (da loro battezzata Po Tolo), che orbita intorno a essa in un periodo di cinquant’anni, ben prima della sua scoperta da parte degli astronomi moderni. E la periodicità del Sighi, secondo i racconti di Ogotemmêli, era determinata proprio dalla rotazione di questa stella, invisibile a occhio nudo, intorno a Sirio. Dove e quando «Dogon» Parigi, Musée du quai Branly fino al 24 luglio Orario tutti i giorni, 11,00-19,00 (gio-ve-sa, apertura serale fino alle 21,00); lu chiuso Info tel. +33 1 56617000; www.quaibranly.fr Bonn, Kunst und Ausstellungshalle der Bundesrepublik Deutschland dal 2 settembre 2011 al 1° gennaio 2012 Milano, Palazzo Reale dal 21 febbraio al 3 giugno 2012
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Archeofilatelia
a cura di Luciano Calenda
La «città perduta» Di Machu Picchu si è già parlato in questa rubrica a proposito degli Inca (vedi «Archeo» n. 302, aprile 2010); ora ne trattiamo come argomento principale perché quest’anno si celebra il centenario della riscoperta del sito, protetto dall’UNESCO sin dal 1983, e incluso tra le «moderne» Sette Meraviglie del mondo. Innanzitutto, una carrellata di immagini filateliche diverse da quelle mostrate la prima volta e non possiamo non partire dal Perú, con un bel foglietto del 2003, che riunisce 4 francobolli con vedute d’insieme e particolari del sito (1). Naturalmente in loco non esiste alcun ufficio postale, ma qualche club filatelico ha realizzato questo timbro privato che si trova su cartoline ricordo (2). Poi c’è un valore francese del 2008 che ricorda la protezione UNESCO (3) e un altro delle Nazioni Unite del 2008 (4). Due altri francobolli ricordano eventi particolari: quello di Spagna per la visita dei reali nel Paese nel 1978 (5) e quello giapponese del 1999 (6) che ricorda il centenario dell’immigrazione giapponese verso il Perú. E ora le ricorrenze. Sicuramente il Paese sudamericano ricorderà il Centenario come già fatto in passato: nel 1961 con due valori in foglietto per il cinquantenario della riscoperta del sito (7) e nel 1987 per il 75° anniversario della scoperta con un francobollo e un annullo celebrativo (8). Infine, la «sfida tematica». Il «riscopritore» di Machu Picchu fu, nel 1911, lo statunitense Hiram Bingham III, esploratore, archeologo e politico, il quale non ha mai avuto l’onore di essere ricordato dalla filatelia. Tuttavia, una citazione tematica può essere fatta indirettamente usando un francobollo USA che raffigura il figlio, Hiram Bingham IV, diplomatico, che è stato insignito, con altri cinque personaggi, come «Distinguished American Diplomats» nel 2006 (9).
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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:
Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure
Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it
L’archeologia nella stampa internazionale a cura di Andreas M. Steiner
Un nuovo parco e vecchie polemiche
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in dalle prime esplorazioni archeologiche di Gerusalemme, gli studiosi hanno concentrato le loro ricerche nell’area prossima al Monte del Tempio, in corrispondenza dell’angolo sudorientale della Città Vecchia, il biblico Ophel. E, anche se le tracce del piú antico insediamento sono emerse sullo sperone di terra che si estende qualche centinaio di metri piú a sud (un’area nota come «Città di David»), gli scavi ai piedi delle splendide mura volute dal sultano Solimano il Magnifico tra il 1535 e il 1541 si sono imposte per l’estensione dell’arco cronologico che essi documentano: un periodo che dall’età del Ferro giunge fino al Medioevo. Dallo scorso mese l’area è stata aperta al pubblico. Un risultato importante, accompagnato però da numerose critiche…
Risale ai primi mesi del 2010 il completamento dei lavori di scavo degli imponenti resti delle fortificazioni dell’Ophel, diretti dall’archeologa Eilat Mazar (vedi «Archeo» n. 301, maggio 2010) e che ha portato all’allestimento di un nuovo parco archeologico. Da oggi i visitatori potranno toccare con mano le pietre che hanno, letteralmente, costruito la storia di Gerusalemme. Tra i principali monumenti visibili lungo il percorso, realizzato con apposite passerelle, figurano la grande porta urbica fortificata, un edificio palatino, la sezione di una torre e un ampio tratto delle stesse mura cittadine. Secondo Eilat Mazar, potrebbe essere parte del complesso di fortificazioni voluto dallo stesso Salomone, il quale, secondo quanto riporta l’Antico Testamento, rimase nella città di David «finché non terminò di costruire la sua casa, la casa del Signore e le mura di cinta di Gerusalemme» (I, Re 3,1). Oltre alle fortificazioni risalenti al XIX secolo a.C. (il
cosiddetto periodo del «Primo Tempio»), il parco accoglie i resti messi in luce di un ambiente del I secolo d.C. e un tratto delle mura di età bizantina, costruite per volere dell’imperatrice Eudocia nel V sec. d.C. Per molti archeologi israeliani, tuttavia, il Parco archeologico dell’Ophel pecca di parzialità, enfatizzando le testimonianze monumentali relative al periodo salomonico a discapito di quelle di epoche successive. Inoltre, la stessa attribuzione dei principali edifici al X secolo a.C. è contestata da Israel Finkelstein, studioso dell’Univer-
A sinistra: il frammento della tavoletta in argilla redatta in caratteri cuneiformi, rinvenuta durante i recenti scavi nell’area dell’Ophel.
Sulle due pagine: i percorsi del nuovo Parco Archeologico di Gerusalemme. In basso, sulle due pagine: la Città Vecchia di Gerusalemme con, in primo piano, l’area (non ancora toccata dalle indagini archeologiche) dell’Ophel, in una ripresa dei primi del Novecento.
sità di Tel Aviv, da sempre restio a riconoscere l’importanza dei passi biblici per la ricostruzione archeologica. A giudizio di Finkelstein, i monumentali resti appartengono sí a un grande complesso fortificato, ma non risalgono all’età salomonica, età in cui Gerusalemme era ancora «tutt’altro che la gloriosa e splendida capitale descritta nella Bibbia». Certa è, invece, la datazione al XIV secolo a.C. del frammento di argilla iscritto con caratteri cuneiformi, rinvenuto da Eilat Mazar presso le fortificazioni della porta urbica (vedi «Archeo» n. 306, agosto 2010). Il prezioso reperto, la piú antica iscrizione mai rinvenuta a Gerusalemme, sarà esposto nel vicino Davidson Archaeological Center.
Calendario Italia
bolzano
Roma
Ötzi20
Nerone
Colosseo, Foro Romano, Criptoportico neroniano e Museo Palatino fino al 12.09.11
Mostra per il ventennale del ritrovamento della mummia del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12
Ritratti
Ritratto femminile noto come Testa Fonseca. Inizi del II sec. d.C.
Le tante facce del potere Musei Capitolini fino al 25.09.11 bari
La vigna di Dioniso
cagliari
Parole di segni
Iscrizioni fenicio-puniche dai musei della Sardegna Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.11
Lastra fittile a rilievo tipo «Campana». Fine del I sec. a.C.inizi I sec. d.C.
Casalbeltrame (NO)
Vite, vino e culti in Magna Grecia Dioniso è, soprattutto, il dio del vino, la rossa bevanda scelta come filo conduttore dell’allestimento realizzato a Bari: partendo dalle prime tracce della coltivazione della vite, si analizzano la diffusione, le tecniche di produzione e il commercio del vino nel bacino del Mediterraneo. Vengono quindi rievocate le feste religiose in cui il vino, bevanda sacra al dio, assume un ruolo centrale nei riti, che spesso prevedono sacrifici di animali e si celebrano nelle ore notturne nel verde delle selve e dei boschi. Dalle rappresentazioni simboliche in onore di Dioniso con canti e danze trae origine l’agone drammatico, mentre la maschera da simulacro del dio si fa elemento scenico per eccellenza nei teatri. Il vino, che quando non è consumato con parsimonia e saggezza rende ebbri, è l’elemento base del simposio (letteralmente «bevuta in comune»), cerimonia fortemente simbolica che accomunava i ceti aristocratici di cultura greca. Il percorso espositivo prosegue presentando le forme dei vasi destinati al simposio e al consumo del vino: crateri, brocche, calici, coppe, attingitoi e altri vasi utilizzati per mescolare, attingere, versare e bere sono spesso accompagnati da scene figurate collegate al mondo dionisiaco e, soprattutto, al movimentato seguito di satiri e menadi. Viene infine affrontato il tema del dionisismo e dell’ebbrezza, ben rappresentato dallo splendido cratere del Pittore delle Carnee, da Ceglie del Campo, con Dioniso che assiste alla danza di una menade. Quest’ultima sezione accoglie anche splendide terrecotte figurate che riproducono i personaggi del corteo dionisiaco che danzano o sono colti nell’atto di dormire dopo i frenetici riti che li hanno visti partecipi. dove e quando Palazzo Simi fino al 20.11.11 Orario tutti i giorni, 9,30-19,00 Info tel. 080 5275451
DiVino. Dall’Antichità ad Oggi Materima fino al 05.08.11
chianciano terme
Le case delle anime
Museo Civico Archeologico delle Acque fino al 16.10.11 chiusi
Goti e Longobardi a Chiusi
Storia di Clusium tra il VI e l’VIII secolo Museo Nazionale Etrusco di Chiusi fino al 21.08.11 milano
Modello in terracotta di deposito. Dinastia Han Orientale (25-220 d.C.). Zurigo, Museum Rietberg.
Nutrire il corpo e lo spirito Il significato simbolico del cibo nel mondo antico Museo Archeologico fino al 31.12.11
Montefiore Conca (Rn)
Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dagli scavi nella Rocca Rocca malatestiana fino al 30.06.12 orvieto
Il fascino dell’Egitto
Il ruolo dell’Italia pre e post-unitaria nella riscoperta dell’antico Egitto Orvieto, Museo «Claudio Faina» e Palazzo Coelli (Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto) fino al 02.10.11 scansano (GR)
La valle del vino etrusco
Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica
Piatto da parata in maiolica istoriata con scena di satiro a pesca. Inizi del XVI sec.
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11
Musée archéologique fino al 31.12.11
Germania
tivoli
Berlino
Villa Adriana. Dialoghi con l’antico
Antiquarium del Canopo e area archeologica fino al 06.11.11 trento
Le grandi vie della civiltà
Villa Adriana, il Teatro Marittimo in una foto di Luigi Spina.
Relazioni fra il Mediterraneo e il Centro Europa, dalla Preistoria alla Romanità Castello del Buonconsiglio fino al 13.11.11
Atene
Il mito e la monetazione Museo Archeologico Nazionale e Museo Numismatico fino al 27.11.11
Belgio
Svizzera
Bruxelles
Tutankhamon
L’Egitto, l’Oriente e il modernismo svizzero
Quando il corpo si fa parure
Usi, miti e simboli Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 26.09.11 Les-Eyzies-de-Tayac
Mille e una donna, alla fine delle ere glaciali Musée national de Préhistoire fino al 19.09.11 strasburgo
Strasburgo-Argentorate
Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.)
Statere in argento della Lega Arcade. 360 a.C. circa.
Basilea
La sua tomba e i suoi tesori Brussels Expo e Musée du Cinquantenaire fino al 06.11.11
La spada
Statua in basalto di leone, da Tell Halaf. X-IX sec. a.C.
Grecia
Tesori d’arte restaurati Gallerie di Palazzo Leoni Montanari fino all’11.09.11
parigi
monaco 200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12
Restituzioni 2011
Francia
Pergamonmuseum fino al 14.08.11
La guerra di Troia
vicenza
Gioielli e ornamenti di culture non europee Musée du Cinquantenaire (Musée pour Aveugles) fino al 28.10.12
Gli dèi salvati dal palazzo di Tell Halaf
Lastra in calcare con il ritratto della regina Ty, XVII dinastia, 1543-1292 a.C.
La collezione Rudolf Schmidt (1900-1970) Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 31.07.11 Hauterive
L’era del falso
Quando le contraffazioni svelano i sogni e le speranze degli archeologi Laténium, Espace Paul Vouga fino all’08.01.12
USA new york
Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 13.11.11
Riproduzione dell’affresco delle Dame in blu, il cui originale fu trovato presso i magazzini reali di Cnosso. Tardo Minoico IB, 1525-1450 a.C.
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speciale padania romana
Rilievo raffigurante legionari all’assalto. Roma, Museo della Civiltà Romana. Nella pagina accanto: soldato in fuga, particolare di fregio in terracotta da un tempio votivo di Civitalba, Sassoferrato (Ancona). Civiltà celtica, II sec. a.C. Ancona, Museo Archeologico Nazionale delle Marche.
Padania di Romolo A. Staccioli
L’«invenzione» della
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arlare di Padania romana può sembrare un controsenso. Una contraddizione in termini. Tanto oggi la cosiddetta Padania viene concepita dai suoi fautori in opposizione a Roma. Eppure, la Padania è stata romana. Anzi, essa o è stata romana, o non è stata. E lo è stata perché Roma l’ha inventata. Roma antica, ben inteso. Poco piú di ventuno secoli fa. Prima, non esisteva. E ha cessato di esistere, quando Roma ha ritenuto di abolirla. Prima essa era suddivisa nei territori abitati da tre popoli (per non dire di altri, minori o «stranieri», come gli Etruschi): Liguri, Galli e Veneti. Distinti e diversi, per origini, lingua e cultura. Fondamentalmente antagonisti tra loro, in particolare Veneti e Galli. Quei territori furono riuniti, per la prima e unica volta tra il II e il I secolo a.C., quando
speciale padania romana Roma, dopo averne sottomesso gli abitanti (pacificamente i Veneti), formò con essi una provincia del suo impero. Come lo erano già la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, la Spagna Citeriore e la Spagna Ulteriore, la Macedonia e la Grecia, ecc. Quella provincia – la prima «Padania» – ufficialmente si chiamò Cisalpina. O, piú esattamente, Gallia Cisalpina (o Citeriore). Cioè Gallia «al di qua delle Alpi», rispetto alla grande Gallia d’Oltralpe. Infatti, pur essendo in essa compresi il vasto e compatto territorio del nord-est, tipicamente e fieramente veneto, e quello del nord-ovest, assai meno caratteristicamente ligure (specie dopo l’«inquinamento» celtico), nella sua denominazione fu privilegiata la massiccia, centrale e diffusa presenza gallica. Tuttavia, la provincia Cisalpina durò meno di cent’anni. I suoi territori, qualche decennio prima della fine del I secolo a.C., diventarono infatti Italia e uniti al resto della Penisola. Cosí, al posto della provincia, essi dettero vita a quattro delle undici Regiones nelle quali fu suddivisa – o, piuttosto, articolata – tutta l’Italia, per la prima volta unita, dallo Stretto di Messina alle Alpi, per opera e nel segno di Roma. Venuta meno la temporanea e artificiale unità della Cisalpina, nessun’altra «Padania» è mai piú esistita. Nemmeno quando – pur sempre nell’ambito del mondo romano – alla fine del III secolo della nostra era la riforma di Diocleziano divise in due l’Italia: una a sud dell’Appennino toscoemiliano, l’altra a nord. La parte settentrionale (o pars annonaria), infatti, che avrebbe potuto far rivivere – entro certi limiti – quella unità, sempre dal punto di vista puramente amministrativo, era estesa fino a comprendere, a nord e a est, vasti territori transalpini (tra la Baviera e la Slovenia). E, a onor del vero, nemmeno i «Padani» odierni hanno mai osato spingersi a tanto. Cosí, per ritrovare una «Padania» nei termini geografici che alcuni oggi rivendicano, occorre fare un «salto» di milleduecento anni e arrivare alla precaria ed effimera Repubblica di Salò, del 1943-45. Nelle pagine che seguono, proponiamo ai nostri lettori una sintesi storica, un breve racconto degli avvenimenti che, nell’antichità, condussero alla nascita della «Padania», nella forma di provincia dell’impero di Roma, alla sua breve vita e alla fine determinata dall’integrazione all’Italia.
A sinistra: falera (elemento della bardatura del cavallo) in argento lavorato a sbalzo, da Manerbio (Lombardia). Civiltà celtica, II-I sec. a.C. Brescia, Museo Civico dell’Età Romana e Tempio Capitolino. In alto: torques (collare celtico) e armilla in argento lavorato a serpentina, proveniente dagli scavi di Carpenedolo (Bs). Civiltà celtica, III sec. a.C. Brescia, Museo Civico dell’Età Romana e Tempio Capitolino.
Un po’ di storia Il primo «insediamento» romano in territorio, sia pur marginalmente, «padano» risale al 268 a.C. Fu la colonia di Ariminum (Rimini), fondata nella fascia settentrionale del territorio dei Galli Senoni. Ma quella fondazione non prevedeva l’occupazione – e, tanto meno, la romanizzazione – della Valle del Po. Per certi versi, al contrario, la
escludeva. Quanto meno, la lasciava impregiudicata. Nella prima metà del III secolo a.C. – anche dopo la decisiva vittoria conseguita, nel 295, a Sentino (nelle Marche), contro la coalizione di Sanniti, Umbri, Etruschi e Galli – l’orizzonte della politica di Roma restava in un ambito strettamente «peninsulare». A quell’epoca, la terra bagnata dal Po e dai suoi affluen-
L’espansione dei Celti nel corso dei secoli VI-III a.C.
ti (ancora largamente «ignota») era considerata unicamente come pericolosa generatrice di possibili offese. Come s’erano rivelate le già sperimentate e sofferte iniziative di penetrazione celtica verso il sud e le ripetute scorrerie che, agli inizi del IV secolo a.C., avevano travolto la a r c h e o 33
speciale padania romana stessa Roma. Il programma fu dunque di «contenimento», attuato attraverso un sistema difensivo basato sul caposaldo di Ariminum, da una parte, e su quello di Arretium (Arezzo), dall’altra.
225 a.C.: l’ultima incursione Solo una cinquantina d’anni piú tardi prende invece inizio la penetrazione romana nella Valle del Po. Ed è conseguenza della disfatta inflitta dagli eserciti consolari all’ultima incursione celtica nell’Italia centrale annientata, nel 225 a.C., presso la foce dell’Ombrone, a Talamone, nel cuore dell’Etruria devastata e saccheggiata dalle orde di una vera e propria coalizione di tribú «padane», rafforzate da una
QuellA «PICCOLA PATRIA» DEI CELTI di casa nostra Tra i temi su cui alcuni «opinion makers» e politici insistono con deprimente monotonia è quello della «cultura celtica», che impronterebbe di sé le genti della cosiddetta «Padania». È altresí risuonato piú volte l’intento di fare delle scuole del Nord, una volta cacciati gli insegnanti meridionali, altrettanti centri d’apprendimento, per i giovani, «della nostra cultura celtica»; dopo che saranno stati epurati dai programmi – c’è da pensare – quelle pecore nere, vergogna della Padania in quanto «spiriti magni» della letteratura latina, che risposero ai nomi dei due Plinii, di Como; di Tito Livio, patavino; di Catullo, veronese, e di Virgilio, mantovano. Visto allora che si parla di insegnare ai giovani Padani la loro storia, non sarà male far presente qualche elementare nozione di geografia storica: non c’è dubbio che la grande fascia mediana dei territori padani che, scendendo da nord-ovest a sud-est, vanno dalle Alpi all’Adriatico, fino a Rimini e anche oltre, sia stata per alcuni secoli, a partire almeno dagli anni attorno al 600 a.C., massicciamente celtica. Sia pure con qualche reminiscenza di una piú antica e forte «presenza» etrusca, in alcune zone dell’Appennino emiliano, in Romagna e fino a Mantova. Si trattò di quei Celti che, nella loro diffusione in Italia dalle originarie sedi transalpine (spinti dalla voglia di vino, secondo una singolare tradizione degli antichi), portarono con sé, conservandole, forme di vita barbariche che fecero tanta impressione ai popoli italici di alta cultura: il greco Polibio scrive nelle sue Storie (II, 17) che essi abitavano in villaggi privi d’ogni mezzo di vita civile; senza far uso di suppellettili,
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dormendo su giacigli di foglie o di paglia, nutrendosi soprattutto di carne e curandosi soltanto di guerra e di agricoltura; conducendo quindi «una vita primitiva, del tutto ignari d’ogni scienza e d’ogni arte». Ma, se quella celtica fu la connotazione dei territori padani centrali, che dire delle regioni a oriente e a occidente di quelli? A occidente, benché largamente inquinata da infiltrazioni celtiche nella zona a nord del Po (tanto che gli scrittori antichi parlano di Celtoliguri), c’era la grande realtà dei Liguri, estesa anche al di là delle Alpi Marittime, fino al Rodano. A oriente, invece, si trovava il compatto, vasto ed etnicamente, culturalmente, linguisticamente assai ben definito e distinto «angolo dei Veneti», per usare un’espressione anch’essa risalente agli antichi. Quei Veneti, si può aggiungere, che seppero tener testa, tenacemente e con successo, proprio ai tentativi espansionistici verso est dei Celti, «inchiodati» sul confine del Mincio e del lago di Garda. Essendo cosí state le cose, com’è possibile parlare, genericamente, di Padania celtica? L’idea del «celtismo» diventa, oltretutto, riduttiva, chi insiste su di essa, senza volerlo, non fa che ridimensionarsi. A una siffatta «piccola patria» restano soltanto i territori che i Romani chiamarono Gallia Transpadana e Gallia Cispadana: una parte piuttosto modesta dell’EmiliaRomagna e del Piemonte e la Lombardia. Tutto sommato, una esigua fascia periferica del grande mondo celtico europeo; una sua «appendice» meridionale; una sorta di «Terronia» celtica. E poi, che gusto c’è ad attribuirsi una discendenza (almeno in parte, fasulla) dalla peggiore specie di «immigrati»: quella degli invasori?
nuova massiccia «immigrazione» transalpina: quella dei Gaesati, provenienti dalla valle del Rodano. Sfruttando quel successo, la politica romana abbandona l’atteggiamento difensivo e passa all’offensiva. O forse, piú esattamente, alla «difesa offensiva», basata sul concetto dell’eliminazione del potenziale nemico nelle sue stesse basi e dell’allontanamento quanto possibile maggiore dell’eventuale fronte d’urto e di combattimento. La decisione di affrontare radicalmente il problema celtico – o gallico, come i Romani piú comunemente dicevano – fino al punto di intraprendere vere e proprie azioni di conquista, fu tenacemente voluta a Roma dal partiNella pagina accanto: Elmo. Civiltà celtica, VI sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. A destra: lamina in bronzo lavorato a sbalzo raffigurante un guerriero. Civiltà italiche, V sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino. In basso: gambali in bronzo, dal corredo funerario della Tomba del Guerriero, Sesto Calende (Va). Età del Ferro, Cultura di Golasecca. Varese, Museo Archeologico.
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speciale padania romana to «popolare» e dal suo principale esponente, Caio Flaminio. Lo stesso che, nel 232 a.C, aveva proceduto alla «lottizzazione» dell’ager Gallicus del Piceno, tolto ai Senones, e che, nel 220 a.C., provvide a collegare Roma con Rimini attraverso la via che da lui prese il nome (via Flaminia).
Mediolanum occupata Nella sterminata pianura del Po, Flaminio vedeva chiaramente la possibilità di attuare quegli interventi di colonizzazione e di sfruttamento del territorio che erano nei programmi della sua parte politica. Anche in contrasto con gli intendimenti del «partito conservatore», riluttante a impegnarsi in avventure di carattere troppo marcatamente espansionistico. L’iniziativa prese corpo con una campagna militare che, dopo la rapida sottomissione della tribú cispadana dei Boi, nel 223 a.C., si volse contro gli Insubri, portando le legioni per la prima volta a varcare il Po, sotto la guida dello stesso Flaminio. Poi, nel 222, ci fu la vittoria di
Marco Claudio Marcello, nella battaglia di Clastidium (l’odierna Casteggio), seguita dall’occupazione di Mediolanum. I Galli furono cosí costretti ad arrendersi e a sottoscrivere trattati d’alleanza con Roma: in pratica, a compiere un formale atto di sottomissione. La successiva fondazione, nel 218 a.C., nei territori confiscati agli sconfitti, delle due colonie di diritto latino di Placentia (Piacenza) e di Cremona, a controllo del passaggio del Po (e col trasferimento in esse di diverse migliaia di coloni provenienti dalle plebi urbane di Roma e dalle regioni centroitaliche), concluse la prima fase della conquista romana della «Padania». Qualche tempo prima – forse tra il 238 e il 236 o il 230 a.C. – c’era stato, intanto, a ovest, il primo scontro dei Romani coi Liguri (verosimilmente, gli Apuani), nell’ambito di un programma col quale Roma non si proponeva un obiettivo «padano» quanto, piuttosto, l’eliminazione della pirateria ligure nell’alto Tirreno e il controllo del litorale oltre l’alleata Pisa (forse raggiunta,
«AMICI E ALLEATI DEL POPOLO ROMANO»: i veneti I Veneti furono il solo popolo dell’Italia antica a non combattere contro Roma: troppo lontani e defilati all’inizio dell’espansione romana (ed essi stessi piuttosto tranquilli all’interno di quello che gli antichi chiamavano il loro «angolo»); realisti – e lungimiranti – quando troppo tardi sarebbe stato opporsi a quell’espansione. Meglio venire a patti, tutelando fin dove possibile i propri interessi. E patti furono, stipulati nei modi piú solenni del diritto internazionale e, prima di tutto, almeno formalmente, in condizioni di parità. Non per nulla i Veneti furono considerati, secondo la formula ufficiale (e come pochi altri, in «omaggio» al principio secondo cui gli alleati piú lontani sono sempre piú amici degli alleati piú vicini), «amici e alleati del popolo romano». Ma c’era anche chi pensava a una sorta di parentela, vista la creduta discendenza dei Veneti dagli Enetòi, che, secondo il racconto di Tito Livio (I,1) – un Veneto, di Padova! –, erano arrivati in Italia dopo essere stati scacciati dalla Paflagonia, in Asia Minore, sotto la guida di Antenore, che era troiano come Enea, il progenitore dei Romani, e, come quello, profugo dalla sua città. E di un’originaria affinità hanno anche parlato, sia pure in
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via d’ipotesi, gli studiosi moderni, sulla base delle somiglianze, grammaticali e lessicali, tra la lingua dei Veneti e il latino (mentre Plinio il Vecchio, elencando gli antichi popoli del Lazio scomparsi, cita i «Venetulani»!). In virtú dei patti, i contraenti erano tenuti a rispettarsi, a scambiarsi appoggio e facilitazioni nelle attività commerciali e a prestarsi aiuto in caso di sovversioni interne e aggressioni dall’esterno. Fu cosí che, mentre Roma provvide a garantire sicurezza ai Veneti contro la minaccia dei Galli a ovest e soprattutto contro le scorrerie delle tribú celtiche e illiriche delle Alpi a est, i Veneti dovettero ripetutamente fornire a Roma contingenti militari (specialmente squadroni di cavalleria) i quali, combattendo a fianco dei legionari, insieme agli altri alleati italici, contribuirono alla conquista dell’impero. Significativa, tra l’altro, agli inizi del I secolo a.C., la partecipazione dei Veneti alle operazioni contro i «secessionisti» dalla federazione romano-italica delle regioni dell’Italia centro-meridionale. Una partecipazione comprovata per via archeologica dalla singolare scoperta ad Ascoli Piceno e a Paganica, presso l’Aquila, di proiettili di piombo per frombolieri, recanti impresso in lingua
A sinistra: stele della defunta Gallenia raffigurata sul carro in viaggio verso gli inferi, da Padova. II sec. a.C. Padova, Musei Civici Eremitani, Museo Archeologico. Qui accanto e in basso: bronzetti raffiguranti due donne in atto di compiere un’offerta votiva, dalla stipe del santuario di Reitia, Este. Arte etrusca, V-IV sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino.
veneta, alcuni, il nome degli Opitergini, cioè degli abitanti dell’antica Oderzo (Opitergium), un altro, la dichiarazione di un Atestino (un cittadino di Ateste/ Este) che aveva ricevuto dall’oracolo la prescrizione di «dedicare» il proiettile a uno dei capi degli insorti. Quanto alla vera romanizzazione, essa fu raggiunta dai Veneti in due tempi, con la concessione, da parte di Roma, dei diritti di cittadinanza. Il primo tempo s’ebbe nell’89 a.C. e riguardò le prerogative contemplate dal «diritto latino», che equipararono le comunità venete alle città del Lazio. Ciò che favorí il processo di latinizzazione linguistica, come ci testimoniano, ancora una volta, le scoperte archeologiche: per esempio, le iscrizioni bilingui veneto-latine, su una laminetta alfabetica dal santuario atestino della dea Reitia, e su vasi cinerari, pure atestini; e l’epigrafe, ancora in lingua veneta ma in chiari caratteri alfabetici latini e con una formula onomastica di tipo romano (pur se con nomi di tradizione locale), incisa su una bella stele funeraria del I secolo a.C., di Padova. Il secondo tempo fu nel 49 a.C. quando, per volere di Cesare, si trattò dei pieni diritti che trasformarono i Veneti in cives romani e le loro comunità in «municipi».
Ciò che segnò anche l’«italianizzazione» del loro territorio che, tutto intero e per la prima volta unito, andò a costituire (insieme a quello degli Istri e dei fedeli Cenomani) la Regione X dell’Italia romana: quella che fu detta Venetia (o Venetia et Histria), con un nome che, dopo aver fatto cosí con Roma la sua prima apparizione, sarebbe poi passato alla città della laguna, che di Roma seguí le orme facendo lungamente sventolare il vessillo col Leone di San Marco sulle stesse terre e gli stessi mari dov’erano state le insegne con l’Aquila delle legioni.
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speciale padania romana I GALLI BOI E la fondazione di bologna I Galli Boi furono una delle piú importanti tra le tribú celtiche che invasero la Padania. E delle piú fieramente ostili ai Romani. «Calati» dalle Alpi per il passo del Gran San Bernardo, passarono il Po e andarono a occupare il territorio compreso tra il grande fiume e i contrafforti dell’Appennino, dal Parmense alla Romagna, popolato da Liguri, Umbri ed Etruschi. A differenza degli Insubri e dei Cenomani, che avevano in Mediolanum e in Brixia i loro capoluoghi, nessuno dei centri boici era veramente preminente. Nemmeno quello che, dov’è ora Bologna, s’era sostituito all’etrusca Felsina. Questa, infatti, che, fino alla metà del IV secolo a.C., era stata la «metropoli» dell’Etruria padana, fortemente degradata e immiserita, fu solo parzialmente continuata da un agglomerato di modeste abitazioni. A significativa e suggestiva testimonianza degli avvenimenti che portarono, in ogni caso, al cambio di popolazione – e di civiltà – restano le cosiddette «stele felsinee», «segnacoli» funerari di pietra, con scene di combattimento tra Etruschi e guerrieri galli. I Boi entrarono in aperto conflitto con i Romani dopo la vittoria riportata dai secondi nel 295 a.C. a Sentino, nelle Marche, contro la coalizione di Sanniti, Etruschi, Galli Senoni e Umbri. Polibio scrive infatti (II, 20) che i Boi «visti i Senoni cacciati dalla loro terra, temendo la stessa sorte, partirono in massa contro i Romani, avendo chiamato in loro aiuto anche gli Etruschi». La spedizione fu sconfitta, nel 283, dal console P. Cornelio Dolabella, presso il lago Vadimone, nel Viterbese. «Pochissimi dei Boi riuscirono a mettersi in salvo», riferisce Polibio. Lo stesso accadde l’anno seguente, con un tentativo affidato ai giovani, sicché i Boi s’arresero al console Q. Emilio Papo, acconciandosi a una tregua che ne salvava il territorio, ma comportava la sottomissione. Ci riprovarono nel 238 e nel 236, quando mossero all’attacco di Rimini. Poi, nel 231, quando, insieme agli Insubri della Lombardia e a un forte contingente di Gesati provenienti dalla valle del Rodano, organizzarono una massiccia
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spedizione che, messa a ferro e fuoco l’Etruria, si spinse fino alle coste del Tirreno. La reazione romana fu decisa e attuata con l’impiego di entrambi gli eserciti consolari, rinforzati dagli alleati Italici e da contingenti di Veneti e persino di Galli Cenomani. I Boi furono annientati nei pressi di Talamone: Polibio scrive di 40 000 morti e 10 000 prigionieri. Era il 225 a.C. L’anno seguente, i Boi dovettero nuovamente sottomettersi, mentre i Romani, passato per la prima volta in armi il Po, s’accingevano a regolare i conti con gli Insubri. La discesa di Annibale in Italia, nel 218, rimise presto tutto in discussione e i Boi approfittarono della circostanza per risollevarsi. Nel 216, l’anno stesso della disfatta romana a Canne, riuscirono con uno stratagemma a distruggere due legioni all’interno di quella che Tito Livio, riferendoci l’episodio (XXIII, 24), chiama Silva Litana: una foresta localizzabile in territorio boico, tra Modena e Reggio. Qualche anno piú tardi si ebbero la probabile caduta in mano ai Boi della colonia di Placentia e la vittoria romana, nel 203, sulla guerriglia organizzata da Magone, con l’aiuto dei Galli. Agli inizi del II secolo a.C., subito dopo essersi liberata di Annibale, Roma dette corso alla riconquista della Padania avendo soprattutto di fronte gli irriducibili Boi. Questi furono nuovamente sconfitti dal console Scipione Nasica, cugino dell’Africano, nel 191 e definitivamente sottomessi. Il trionfo celebrato a Roma da Scipione fu particolarmente ricco di bottino. Livio c’informa (XXXVI, 40) che, su «carri gallici», furono trasportate «armi, insegne e spoglie d’ogni genere (...) e, coi prigionieri piú ragguardevoli, un branco di cavalli catturati». Inoltre «1471 torques (i caratteristici collari celtici) d’oro, 247 libbre d’oro e 2340 d’argento, grezzo e lavorato in forma di vasi eseguiti secondo il loro uso e non senza arte, e, infine, 234 000 monete con l’immagine della biga». Un paio d’anni dopo, la fondazione della colonia latina di Bononia – il 30 dicembre del 189 a.C. – segnò, insieme, il consolidamento di Roma nella regione e la rinascita dell’etrusca Felsina, prima «antenata» dell’odierna Bologna.
A destra: rilievo con raffigurazione di frombolieri (lanciatori di «fromba» o «ghianda missile»), da Ascoli Piceno. Civiltà italica, I sec. a.C. Roma, Museo della Civiltà Romana. Ad Ascoli Piceno, «capitale» della rivolta contro Roma durante la guerra sociale, furono rinvenute molte «ghiande missili» di piombo recanti il nome della città di Opitergium (Oderzo), una tra le comunità cisalpine che aveva appoggiato la capitale contro gli insorti. In basso: Ascoli Piceno. Porta Gemina, detta anche Porta Binata e Porta Romana. I sec. a.C.
nel 241, dal prolungamento della via Aurelia) e in funzione strettamente strategica: la sicurezza dei collegamenti marittimi con la Sardegna e la Corsica (sottratte definitivamente, nel 237, al potere di Cartagine) e con la vecchia alleata Massalia (Marsiglia) e i territori nordorientali della Penisola iberica. A est, invece, in quegli stessi anni, appaiono per la prima volta, al fianco dei Romani, i Veneti. Anch’essi da tempo sulla difensiva contro la costante pressione celtica, i Veneti avevano tutto l’interesse a stringere rapporti di «buon vicinato» e di vera e propria alleanza con chi combatteva contro gli stessi nemici e che, inoltre, con la colonia di Rimini si erano ormai stabilmente inseriti nelle vicende dell’area altoadriatica. Di grande importanza fu che, «al seguito» dei Veneti, entrarono pacificamente nell’alleanza con Roma anche i Galli Cenomani della regione di Brescia, che i Romani, sfruttando le discordie e le rivalità interne del mondo celtico, erano riusciti, probabilmente con una lungimirante trama politica, a staccare dalle altre tribú, prima d’intraprendere l’azione militare oltre il Po, e in preparazione di essa. La storia immediatamente successiva della «Padania», a partire dal 218
a.C., è condizionata per un ventennio, dalla discesa in Italia di Annibale, che rimette in discussione il disegno di Roma e distrugge sul nascere quanto da essa appena iniziato.
Il fattore «Cartagine» Le due prime sconfitte che il Cartaginese inflisse ai Romani furono proprio in territorio «padano», al Ticino e alla Trebbia. Ne seguí una generale sollevazione antiromana, che riportò Insubri e Boi (molti dei quali furono arruolati come mercenari nell’esercito punico) alla completa indipendenza. Rimasero invece fedeli all’alleanza i Cenomani e i Veneti, i quali, anzi, con importanti rifornimenti per la via del Po, assicurarono la sopravvivenza delle due giovani colonie di Piacenza e di Cremona. Agli inizi del II secolo a.C., dopo che Scipione, nel 202, ebbe sconfitto Annibale a Zama (dove, al fianco dei Cartaginesi, combatterono reparti di mercenari liguri e galli) e che, nel 201, venne conclusa la pace con Cartagine, Roma, pur impegnata in altri fronti a Oriente e a Occidente, dette inizio alla riconquista, con una serie di operazioni che si protrassero per circa un decennio: fino al 197, col ritorno all’alleanza dei Cenomani (che, alla fine, avevano a r c h e o 39
speciale padania romana l’italia dalla II guerra punica alla fine dell’età dei gracchi (201-121 a.c.)
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tradito la piú che ventennale fedeltà); al 196, con l’assoggettamento degli Insubri, e al 191, con il crollo dei Boi, nel cui territor io, qualche anno dopo (189 a.C.), fu dedotta la colonia latina di Bononia (Bologna), a cui seguirono, nel 183, le colonie romane di Parma e Mutina (Modena). Molto piú difficili e lunghe, anche per la natura del territorio, furono
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le guerre contro i Liguri, che si Poi, per diversi decenni, fu tutto protrassero fino alla metà dello stes- un seguito di alterne vicende, di so II secolo. scontri logoranti e di stragi. E anche di deportazioni, operate dai Romani alla ricerca della «soluzioStragi e deportazioni Le ostilità erano già riprese con la ne finale». Si andò, cosí, dalla «diguerriglia messa in atto dal carta- scesa» forzata delle popolazioni ginese Magone, stroncata dai Ro- dalle rocche montane alle zone mani nel 203. Nel 186, c’era stata pianeggianti fino al trasferimento la sconfitta subita dal console Mar- in massa di circa 50 000 Apuani nel cio Filippo, a opera degli Apuani. cuore del Sannio.
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Intanto, venivano fondate, nel 180, la colonia latina di Luca (Lucca), nel territorio messo a disposizione da Pisa; nel 177, la colonia romana di Luna (Luni), sulla costa a poca distanza dalla foce del Magra. Nel 173 furono invece lottizzati, con singole assegnazioni, i territori dei Liguri transappenninici e dei Galli Boi. È incerto se siano da riferire, piú o meno allo stesso periodo, insedia-
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menti romani nel Piemonte meridionale (che, per gli antichi, era Liguria), come quelli di Pollentia, Hasta e Valentia (le odierne Pollenzo, Asti e Valenza Po). Oppure se si debba pensare per essi a un periodo successivo, come certamente per Forum Fulvi (l’attuale Villa del Foro, presso Alessandria), che presuppone la via Fulvia costruita nel 125 a.C. dal console Marco Fulvio
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Flacco. L’espansione transpadana di Roma inizia anche in questo settore occidentale nel 143 a.C., quando il console Appio Claudio Pulcro sconfigge i Salassi della Valle d’Aosta. Seguono, tra il 122 e il 118, le fondazioni delle colonie romane di Dertona (Tortona) e di Eporedia (Ivrea). Dopo le guerre, e con le «alleanze» imposte dalla sottomissione, la «roa r c h e o 41
speciale padania romana bonificatori antichi e moderni (O: chi ha fondato aquileia?) Alcuni anni fa, a Latina, l’inaugurazione di un monumento dedicato ai «bonificatori» delle Paludi Pontine è stata sfruttata da qualche «Iperboreo» nostrano per sottolineare la provenienza dal «nord» di gente seria e operosa, senza la quale – era sottinteso – un’impresa tanto complessa e difficile non sarebbe mai andata in porto (visto che in passato era stata lasciata a metà dai Romani e dai papi). In realtà, l’arrivo nel Lazio Pontino degli anni Trenta del secolo scorso di tante famiglie di «Settentrionali» e soprattutto di Veneti, in cerca di fortuna (tanto che poi molti degli assegnatari dei lotti agricoli, appena la scadenza prevista lo consentí, s’affrettarono a vendere la terra per dedicarsi ad altre meno faticose e piú redditizie attività), può essere visto come una sorta di singolare – e... tardiva – operazione di «restituzione etnica». La memoria, infatti, va a quelle migliaia di coloni «meridionali» che, nel 181 a.C., inquadrati militarmente, ma con le loro famiglie (per un totale che poté aggirarsi sulle diecimila persone), lasciarono il Piceno, il Sannio, la Campania e forse il Lazio e la stessa Roma per andare a fondare, nel Veneto, la città di Aquileia. Li guidarono i tresviri coloniae deducundae (i triumviri per la «deduzione» della colonia) Caio Flaminio, Publio Cornelio Scipione Nasica e Lucio Manlio Acidino Fulviano, e i lotti di terreno loro distribuiti furono molto piú estesi del solito – 50 iugeri (oltre 12 ettari) per i soldati, 100 per i centurioni e 140 per i cavalieri –, segno che era stato previsto un nuovo modello di produttività agricola, volto anche al mercato e non piú soltanto alla sussistenza. Il senato aveva deliberato di dare vita a una «colonia» cosí lontana per impedire che al margine orientale della regione dei Veneti – amici e alleati del popolo romano – s’andassero a insediare quelle tribú celtiche che già nel 186 a.C. (come ricorda Tito Livio, XXXIX, 22), attraversate le Alpi Giulie, avevano tentato di farlo. Per esserne poi ricacciate, nel 183, dal console Marco Claudio Marcello, richiamato apposta dalla Liguria. Ne trassero vantaggio – e sicurezza – prima di tutti gli stessi Veneti i quali, se
Rilievo in calcare con scena di transumanza. Civiltà italiche, I sec. a.C. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.
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non concorsero alla fondazione, certamente dovettero accettarla e magari agevolarla. Ma la creazione di quella che doveva diventare la sentinella di Roma alle soglie dell’Italia, non fu facile. In ogni caso, essa richiese una vera e propria impresa preliminare. Infatti, in un territorio pieno di boschi e di vegetazione selvaggia, di acquitrini e di stagni alimentati da fiumi privi di qualsiasi regolamentazione, fu necessaria una radicale opera di bonifica. E i coloni – ventuno secoli prima dei Veneti nel Lazio Pontino – dovettero impegnarsi in lunghi e difficili lavori di prosciugamento e di canalizzazione delle acque stagnanti che furono condotte fino al mare, distante una decina di chilometri. Alla foce della Natissa, poi, l’odierno Natisone reso navigabile, venne creato un porto (collegato a quello cittadino sul fiume) dal quale ebbe in seguito origine la città di Grado (il cui nome latino, Gradus, significa, per l’appunto, «scalo portuale»). Alla colonia di Aquileia venne concesso lo Ius Latii, il «diritto latino», che le attribuiva le caratteristiche e le prerogative di una città del Lazio (!). Poi, agli inizi del I secolo a.C., con l’acquisizione dei pieni diritti di cittadinanza, essa divenne un municipium dell’Italia romana. Il lavoro compiuto, nel segno di Roma, dagli uomini «venuti dal Sud» – e rinforzati, qualche tempo dopo, da altri 1500 coloni (con le rispettive famiglie) in gran parte provenienti dalla latina Praeneste (l‘odierna Palestrina) – fu talmente ben fatto, che un secolo e mezzo dopo Vitruvio (I, IV, 11) indicò Aquileia come esempio di città «incredibilmente» salubre, in un territorio che era stato un tempo paludoso e ostile.
manizzazione» s’afferma rapidamente. Prima di tutto, come conseguenza del fenomeno migratorio: quello organizzato, della «colonizzazione», e quello della libera iniziativa, specialmente di imprenditori e mercanti. Esso assume proporzioni tali da connotarsi come un sostanziale – e sostanzioso – innesto di popolazione. Poi vi fu l’adeguamento delle categorie sociali piú elevate delle comunità indigene alla mentalità e ai costumi dei vincitori. Sotto la spinta di interessi economici e, successivamente, anche politici. Fino a una sorta di «autoromanizzazione», messa in atto, in particolare, dalle classi dirigenti, anche attraverso il sistema delle «clientele», ossia dei legami di varia cooperazione stretti da famiglie e comunità indigene con un personaggio romano influente (e i suoi successori) il quale, in cambio di incondizionata adesione, ne diventava «patrono» e fautore. Fattore determinante del processo di romanizzazione furono le comunicazioni e, in questo ambito, la costruzione di una mezza dozzina
di grandi strade: dall’Aurelia, prolungata, già forse nel 200, per opera del console Aurelio Cotta, da Pisa a Luni e forse a Genua (Genova), all’Aemilia, realizzata nel 187, dal console Marco Emilio Lepido, per
Denario in argento con scene di votazione a Roma. 110-94 a.C. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte Archeologiche e Numismatiche, Civico Gabinetto Numismatico.
collegare Rimini a Piacenza, passando per Bologna, Modena e Parma. Dalla strada che, con due varianti, una interna e una costiera, fu condotta da Rimini ad Aquileia, tra il 175 e il 153, dai consoli Marco Emilio Lepido e Tito Annio Lusco, alla grande arteria trasversale costruita nel 148 dal console Spurio Postumio Albino – e perciò detta Postumia (vedi box a p. 52). Lungo queste strade sorsero molti altri centri, tra cui, soprattutto, luoghi attrezzati di mercato (e di incontro tra immigrati e indigeni) indicati col nome di forum, quali, oltre il già citato Forum Fulvi, in Liguria, furono Forum Lepidi (o Forum Regium, Reggio Emilia), Forum Livi (Forlí), Forum Corneli (Imola) e Forum Popili (Forlimpopoli).
Nasce la «Padania» Finalmente – in un anno purtroppo ignoto, che gli studiosi tendono a circoscrivere tra la seconda metà del II e gli inizi del I secolo a.C. (fino all’età sillana) – s’arriva all’evento che segna la nascita della «Padania», cioè l’unione di gran parte dei territori dei Liguri e dei
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speciale padania romana Galli con quello dei Veneti, a formare una sola realtà amministrativa, già ampiamente sperimentata da Roma nei territori di conquista extraitalici: quella della provincia. La quale, con un accento posto sulla prevalente e prepotente presenza celtica, prenderà il nome di Gallia Cisalpina (o Citeriore). Si trattò di una provincia per molti aspetti anomala, se non altro per la presenza, entro i suoi confini, di numerose comunità di diritto latino e di colonie di cittadini romani (coloniae civium romanorum), in tutto pari, giuridicamente e politicamente, agli abitanti della capitale. La storia di questa «Padania» fu di breve durata, tanto piú che l’anomalia della sua situazione fu ulteriormente accentuata dagli avvenimenti conseguenti lo scoppio, in Italia, nel 91 a.C., della cosiddetta «guerra sociale», o «guerra degli alleati»: di fatto, la «secessione» dalla federazione romano-italica di gran parte dei socii italici di Roma, in seguito all’ennesimo rifiuto del senato di concedere loro i dir itti della cittadinanza. Le comunità alleate della Cisalpina non parteciparono a quella secessione (l’unica mai verificatasi nella millenaria storia d’Italia). Alcune di esse, anzi, specialmente quella dei Veneti, parteciparono, a fianco dei Romani, alla sua repressione. Come quella di Opitergium (l’odierna Oderzo), ai cui frombolieri appartennero le «ghiande missili», i proiettili di piombo recanti impresso il nome della città, usati nell’assedio di Ascoli Piceno, «capitale» della rivolta, dove sono state ritrovate. Mentre un altro proiettile di piombo, con una lunga iscrizione venetica, ritrovato in Abruzzo, deve essere attribuito a un soldato di Ateste (l’odierna Este), impegnato coi Romani contro gli insorti, nel territorio dei Vestini. I provvedimenti presi da Roma per 44 a r c h e o
Trofeo di armi galliche. Rovescio di un denario emesso da Giulio Cesare in Gallia. I sec. a.C.
un GOVERNATORE Di nome giulio L’illustre vittima delle «Idi di marzo», Giulio Cesare, fu per quasi un decennio governatore di quella che oggi – impropriamente – s’è preso a chiamare Padania, nell’unico (e breve) periodo in cui essa – o piuttosto l’Italia settentrionale – è esistita come entità definita e unita: quando, non ancora Italia, ma Gallia Cisalpina, essa fu una provincia dell’impero di Roma. Cesare ne ebbe il governo all’uscita dal consolato, alla fine del 59 a.C. Come di norma, gli spettava il proconsolato in una provincia e, grazie all’appoggio di Pompeo e di Crasso (coi quali aveva dato vita al cosiddetto primo triumvirato), sventato il piano del senato che mirava ad attribuirgli una destinazione del tutto periferica, ottenne il governo della Cisalpina e dell’Illirico (l’Istria e la Dalmazia) e poi anche quello della Gallia Narbonese (la Provenza). L’incarico era eccezionalmente previsto per cinque anni, ma al «vertice» dei triumviri, riunitosi a Lucca nel 56, fu prorogato per altri cinque. Quando Cesare arrivò nella Gallia Cisalpina (o Citeriore), questa era una provincia da poco piú di mezzo secolo. Era però piú di un secolo che i Romani vi avevano imposto la loro egemonia. Capitale amministrativa dovette essere Cremona dove Cesare, lasciati a Roma uomini fidati che ne sorvegliassero gli avvenimenti, si recò, per prendere possesso del suo incarico, all’inizio dell’anno 58. Venne cosí il grande momento della Cisalpina, che costituí la base di partenza e d’appoggio per la conquista della Gallia Transalpina (o Ulteriore), alla quale Cesare s’accinse approfittando della richiesta d’aiuto avanzata dagli Edui, alleati di Roma, il cui territorio era stato invaso dagli Elvezi e poi dai Germani di Ariovisto. Per il triumviro, impaziente d’emulare le gesta del grande Pompeo, si trattava dell’occasione
arginare la rivolta recarono diversi rate alle «vecchie» colonie di cittadivantaggi ai Cisalpini. ni romani (come Parma, Modena, Luni). Con la Lex Pompeia de Gallia Citeriore dell’anno 89, a gran parte Cittadini di Roma Con la lex Iulia de civitate danda delle comunità indigene venne indell’anno 90, infatti, acquisirono la vece concesso il «diritto latino», oscittadinanza romana gli abitanti del- sia lo status (fittizio, perché senza le colonie di diritto latino (come immissione di elementi esterni, ma Rimini, Bologna, Piacenza, Cremo- concreto) di «colonie latine». E quena, Aquileia), che passavano quindi sto comportava, tra l’altro, in virtú di al rango di «municipio» (municipium una legge generale dello Stato, già civium romanorum), in tutto equipa- da tempo in vigore, la possibilità di
propizia per proporsi come colui che avrebbe definitivamente regolato i conti con quel mondo celtico che, dai tempi del sacco di Roma del 390 a.C., per lunghi secoli, era stato per i Romani un autentico incubo. Impegnato nelle annuali campagne di guerra che lo portarono fino oltre il Reno e al di là della Manica, Cesare rientrava ogni inverno nella Cisalpina per tenervi le regolari sessioni giudiziarie, ma anche per arruolarvi truppe e preparare le nuove imprese. Finalmente, quando il senato gli intimò di «rientrare nei ranghi», fu dalla Cisalpina che egli mosse, nel gennaio dell’anno 49, alla testa del suo esercito, per la definitiva conquista del potere, col famoso passaggio del fiume Rubicone che segnava il confine della provincia. Quando poi si fu impadronito dello Stato, Cesare non si dimenticò della Cisalpina. Avendone anzi conosciuto direttamente e a fondo le grandi potenzialità e le risorse, anche umane, immaginò di farne la «riserva» dei «quadri» che sempre piú numerosi erano necessari per il governo dell’impero; previa concessione della cittadinanza romana ai suoi abitanti. Ma i pugnali dei congiurati – alle Idi di marzo del 44 – non gli consentirono d’attuare il lungimirante proposito. Ci pensarono i suoi successori e in particolare Augusto, dopo la vittoria di Filippi. Cosí, diventati i Cisalpini – oggi si direbbe i Padani – cittadini romani, la loro terra cessò d’essere una provincia per diventare Italia. Ed essi, entrati presto nell’amministrazione imperiale, ne raggiunsero i vertici al tempo di Nerone il quale, diffidando della vecchia oligarchia senatoria, li chiamò a Roma, numerosi, tra i suoi collaboratori piú fidati. Testa in bronzo di Giulio Cesare con busto in marmo. I sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Altemps.
speciale padania romana
2 Torques e armilla in oro, dalla Tomba di Rheinheim, Saarland (Germania). V sec. a.C. Saarbruecken, Museum fuer Vorund Fruehgeschichte. Il tipico collare, dalla caratteristica lavorazione a tortiglione, era solitamente realizzato in oro o in bronzo.
1 Phalera (disco ornamentale di bronzo portato sulla corazza) raffigurante una testa, da Kalkriese (nella regione di Osnabruck, Bassa Sassonia), il sito in cui si svolse, nell’anno 9 d.C., la battaglia di Teutoburgo, tra l’esercito romano, guidato da Publio Quintilio Varo, e una coalizione di tribú germaniche. Museum und Park Kalkriese.
3 Torques in oro, da Mailly-leCamp. I sec. a.C. Saint-Germainen-Laye, Musée d’Archéologie Nationale.
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marco celio rufo e I «PADANI» NELLE LEGIONI ROMANE Nel Museo Regionale Renano di Bonn, uno dei musei archeologici piú importanti della Germania, c’è una stele funeraria romana (vedi nella foto qui accanto) ritrovata a Xanten (non lontano dal confine con l’Olanda), dove anticamente si trovava il forte legionario dei Castra Vetera. Essa è dedicata al centurione della Legione XVIII, Marco Celio Rufo, figlio di Tito, caduto, nel settembre dell’anno 9 d.C., nella tragica imboscata tesa dai Germani del traditore Arminio, tra le selve e le paludi di Teutoburgo, all’esercito romano guidato da Quintilio Varo, governatore della provincia della Germania Inferior. Nella stele, Rufo è raffigurato, in rilievo (un tempo dipinto), un po’ piú che a mezzo busto, in alta uniforme, con in mano la vitis, la verga di vite simbolo del suo grado, e con, in bella mostra, le
molte decorazioni guadagnate in quella che, essendo egli morto all’età di 53 anni, come dichiara l’iscrizione, avrebbe dovuto essere stata una lunga carriera. Si tratta di armillae, grandi bracciali di bronzo, di torques, collari pure di bronzo o d’argento, e di phalerae, piastre, sempre di bronzo o d’argento, tonde e figurate, portate sopra la corazza. Il capo è inoltre cinto di una «corona civica», di fronde di quercia, che si assegnava a chi avesse salvato da morte certa, in battaglia, un commilitone di rango. La stele, fatta eseguire dal fratello del defunto, Publio, indicava, peraltro, non una tomba, ma un cenotafio, giacché la salma di Rufo era rimasta insepolta, come quelle di altre migliaia di legionari (e non solo), nella foresta di Teutoburgo. La dedica sottolinea però che, in deroga alle rigide disposizioni delle celebri
acquisire la cittadinanza romana per coloro che in quelle comunità avessero esercitato le cariche di governo. Nel complesso, i provvedimenti resero piú facili e piú rapidi i processi di assimilazione giuridica (in chiave romana) tra gli indigeni, sempre piú romanizzati, e i coloni romani e italici, «cisalpinizzati» per via del loro insediamento nelle vecchie colonie di diritto latino. E ciò significa che, già intorno alla metà del I secolo a.C., cittadini romani di provenienza «padana» arrivarono a ricoprire cariche pubbliche dello Stato, mentre, a livello generale, i cittadini «padani» acquisivano sempre maggiore peso nelle assemblee elettorali che si tenevano a Roma
leggi delle XII Tavole, essendo essa di un caduto in guerra, ne sarebbe stata lecita la traslazione. Ma la speranza di Publio di poter celebrare le esequie del congiunto e pietosamente seppellirne i resti andò delusa. Quando, infatti, sei anni dopo la strage, nel 15 d.C., Germanico, vendicato Varo, si recò con le sue truppe a Teutoburgo – come c’informa Tacito (Ann. I, 61-62) – non poté fare altro che erigere un grande tumulo all’interno del quale furono raccolti, tutti insieme, i miseri e indistinti resti dei caduti (compresi quelli dei nemici). Dalla lunga iscrizione incisa sulla stele, apprendiamo anche che Rufo era nato a Bononia (cioè a Bologna) e apparteneva alla «tribú» Lemonia, il distretto nel quale fu ascritta la città, fondata come colonia di diritto latino nel 189 a.C.
Rufo era dunque un «Padano», come lo definirebbero oggi. Uno di quei «Padani», o piuttosto Cisalpini, come li chiamavano quando egli nacque, nel 44 a.C. (l’anno dell’assassinio di Cesare, che della Cisalpina era stato a lungo governatore), che nel corso dei primi due secoli della nostra era militarono in gran numero nelle legioni. Ne fanno fede tante altre iscrizioni funebri di legionari ritrovate in Italia e quindi non di caduti, ma di veterani che, dopo aver prestato il loro pluriennale servizio nelle guarnigioni dislocate lungo i confini dell’impero, erano tornati nei loro luoghi d’origine. Come, per esempio, nel Bresciano e nella Bergamasca! Ma, soprattutto, a Milano, dove le epigrafi recuperate sono piú numerose che in qualsiasi altra parte dell’Italia settentrionale.
(tanto che Cicerone riconosceva come «nelle votazioni molto poteva la Gallia»).
vincia aveva stabilito una vasta rete di rapporti clientelari con le élite locali, che in essa aveva arruolato gran parte delle legioni con le quali avrebbe sottomesso la grande La Legge di Cesare S’aggiunga l’aspirazione sempre piú Gallia Transalpina, che nella stessa forte e diffusa al conseguimento aveva dedotto (o programmato) aldella «piena cittadinanza» nelle co- tre colonie di cittadini, come quella munità che ancora ne erano prive, di Como (Novum Comum) e forse soprattutto nella Transpadana (me- quelle di Iulia Concordia (l’odierna Concordia Sagittaria), Tergeste no «fortunata» della Cispadana). Quando, nel 58 a.C., Cesare assun- (Trieste), Pietas Iulia (Pola) e il forum se il proconsolato, ossia il governo, di Cividale (Forum Iulium). della Cisalpina (insieme a quello Nel dicembre del 49, una legge da della Narbonese e dell’Illirico), i lui voluta dava sanzione giuridica a tempi erano ormai piú che maturi una situazione di fatto, prevedendo perché la provincia fosse parificata la concessione della cittadinanza al resto d’Italia. Fu lo stesso Cesare romana alla maggior parte delle a provvedervi, dopo che nella pro(segue a p. 52) a r c h e o 47
speciale padania romana l’italia al tempo di augusto
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il trofeo delle alpi Sulle alture che sovrastano Montecarlo si riconoscono facilmente, biancheggianti contro il cielo azzurro, gli imponenti avanzi di un grande monumento romano: gli antichi lo chiamavano il «Trofeo delle Alpi» (Tropeum Alpium) e l’avevano fatto costruire, tra l’estate del 7 e l’estate del 6 a.C., il Senato e il Popolo Romano, in onore di Augusto, per celebrare la pacificazione e la sottomissione a Roma delle popolazioni dell’intero arco alpino. Di fatto, fu il monumento commemorativo della prima unità d’Italia, della quale, in ogni caso, segnava il confine occidentale posto sulla riva sinistra del fiume Varo (l’antico Varus, oggi Var), subito al di là di Nizza. Il «Trofeo», per il quale si scelse il punto piú elevato toccato dalla nuova strada, a quasi 500 m d’altitudine fu innalzato su una variante della vecchia strada litoranea che univa l’Italia alla Gallia (e che da allora si disse via Iulia Augusta) condotta tra Ventimiglia e Nizza. O, piú esattamente, l’oppidum ligure di Cemenelum, sul colle di Cimiez che domina Nizza, dove fu stabilita la «capitale» della piccola provincia delle Alpes Maritimae, a ridosso di quella che, fino alla stessa Nizza, lungo la costa, era la regione IX dell’Italia romana, cioè la Liguria. Il monumento fu ispirato ai «trofei» già variamente eretti da generali vittoriosi durante l’età repubblicana e, in particolare, a quello innalzato da Pompeo sui Pirenei, al confine tra la Gallia e la Penisola Iberica. Esso ebbe però proporzioni assai piú imponenti, raggiungendo un’altezza di circa 50 m. Costruito in pietra locale e in marmo di Carrara, il «Trofeo» era formato di tre parti: un poderoso basamento su un podio quadrato, di 32 m e mezzo di lato, al quale se ne sovrapponeva uno molto piú piccolo, ai cui quattro angoli dovevano essere collocate altrettante aquile marmoree; quindi una torre circolare, di oltre 16 m di diametro e con nicchie per statue, contornata da un peristilio di ventiquattro colonne doriche. A coronamento finale doveva esserci una copertura conica o in forma di piramide, sormontata da un trofeo d’armi o da una statua in bronzo di Augusto tra due barbari prigionieri.
Sui lati settentrionale e meridionale del basamento, s’aprivano due porte che immettevano in corridoi e scale con cui si poteva salire sulla «torre». Sul lato occidentale, invece, era una grande tabella marmorea, fiancheggiata da due altorilievi con trofei d’armi e due prigionieri in catene (vedi foto qui sotto), inginocchiati, nella quale era la lunga iscrizione dedicatoria del Senato e del Popolo Romano ad Augusto («perché sotto la sua guida e con i suoi auspici tutte le genti alpine comprese tra l’Adriatico e il Tirreno sono state ridotte nel potere di Roma») e l’elenco dei popoli sottomessi. Dopo la fine del mondo antico, il «Trofeo delle Alpi» andò presto incontro all’abbandono e quindi alla progressiva spoliazione, prima dei suoi ornamenti scultorei, poi delle colonne e dei rivestimenti marmorei. Nel Medioevo fu trasformato, con l’aggiunta d’una merlatura, in torre di vedetta e inglobato in una fortezza, mentre l’antico nome si deformava passando dalla forma plurale Tropea a Torpea, quindi a Torpia/Torbia e infine a Turbia, donde il moderno francese Turbie o La Turbie. Ancora nel Seicento, è menzionato come il Castello della Turbia, che, nel 1705, fu parzialmente demolito. Nel 1858, per iniziativa dei principi sabaudi Umberto e Amedeo, s’ebbe un primo intervento di restauro, però subito interrotto per il passaggio alla Francia della Contea di Nizza. All’inizio del XX secolo, alcune brevi campagne di scavo riportarono alla luce elementi architettonici e ornamentali e frammenti dell’iscrizione, ma solo tra il 1929 e il 1933, per il generoso mecenatismo di un romantico americano, Edward Tuck, si potè procedere a un’organica impresa di recupero, di consolidamento e di parziale ripristino del monumento. I lavori di sistemazione del «Trofeo» recuperato (e del piccolo museo che gli fu annesso) vennero inaugurati nel 1934: da allora, La Turbie è diventata, anche per la splendida posizione panoramica e la vicinanza con Montecarlo, una piacevole e interessante meta turistica.
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speciale padania romana POLA, una COLONIA DI ROMA al limite orientale della gallia cisalpina Tra le molte città del nostro vecchio mondo che conservano tracce piú o meno vistose del loro passato romano, Pola è certamente una di quelle che impressionano di piú: per il numero dei monumenti, il loro stato di conservazione, il significato che essi racchiudono. Basta entrare in città, arrivandovi da Trieste sulla direttrice dell’antica via Flavia, per incontrare all’improvviso, ammirati, quasi in riva al mare, la superba e aerea mole di un «colosseo», l’anfiteatro d’età giulio-claudia, che rivaleggia, per stato di conservazione, con quello di Verona (col quale condivide l’odierna denominazione di «Arena») tra tutti gli anfiteatri dell’antica «Padania» (cioè la provincia della Gallia Cisalpina), della quale Pola rappresentò l’estremo limite orientale. Cosí come quando, con tutta la penisola istriana (fino al confine fissato da Augusto al fiume Arsia, nel Quarnaro), entrò a far parte della Regione X dell’Italia unificata da Roma, Venetia et Histria. L’edificio, ancora oggi monumento simbolo di Pola, è emblematico della ricchezza e del prestigio raggiunto dalla città dopo che Roma (che aveva sottomesso con dure lotte l’Istria nel 177 a.C.) vi aveva fondato una sua «colonia», quasi certamente a opera di Cesare (al quale si devono anche le colonie di Tergeste, Trieste, e di Parentium, Parenzo). La felice posizione naturale, all’estremità piú interna d’una profonda insenatura circondata da alture che la riparano dai venti di
settentrione, e la presenza d’ una ricca sorgente d’acqua dolce in prossimità della spiaggia, fecero sí che Pola diventasse subito il centro piú importante dell’Istria. Il suo nome era tale e quale l’attuale (anche se la versione odierna è quella croata di Pula), però la denominazione ufficiale e completa era Julia Pola Pollentia Herculanea, che denuncia, oltre all’origine cesariana, la devozione per Ercole patrono della città. Ma un’altra divinità particolarmente venerata era Boria, evidente personificazione divina del forte vento di nord-est, caratteristico della regione. La collina su cui sorse la città romana (purtroppo sconvolta dalla costruzione del seicentesco forte veneziano) era stata già sede, nel corso del I millennio a.C., di un «castelliere», uno dei tipici abitati fortificati degli Histri, il cui esempio migliore si conserva a Nesazio, il centro principale della regione in età preromana, una quindicina di chilometri a nord-est di Pola, sulla strada per Fiume. Ai piedi della stessa collina, sul versante occidentale, non lontano dalla riva dell’insenatura che determinò le origini e segnò la fortuna di Pola fino ai tempi dell’impero asburgico, era situato il Foro (corrispondente all’odierna piazza della Repubblica), dotato, su uno dei lati minori, di tre templi affiancati: quello occidentale è arrivato fino a noi praticamente intatto, dopo essere stato trasformato in chiesa dai Bizantini e in granaio dai Veneziani, e nonostante i colpi
subiti (ma prontamente riparati) durante la seconda guerra mondiale. Il piano urbanistico di Pola, che prese consistenza tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio della nostra era, durante il principato di Augusto, non era quello ortogonale tipico di tante città romane. La natura del terreno suggerí infatti un sistema stradale che, continuando almeno in parte gli antichi tracciati preromani, si disponeva ad anello attorno alla sommità della collina con vie trasversali disposte a raggiera. Un importante asse viario poi – oggi ripetuto dalla via Primo Maggio – si dipartiva dal Foro e viene comunemente interpretato come il decumano massimo. Tutti i monumenti polesi – a eccezione del teatro grande, in cui dovette essere impiegato anche il marmo – furono costruiti con la caratteristica pietra d’Istria, il calcare compatto, bianco o giallastro, tanto diffuso negli edifici di Venezia, che nell’antichità fu largamente esportato per tutto l’Alto Adriatico, a cominciare da Aquileia, la città alla quale Pola fu lungamente legata e, dopo la fine del mondo antico, spesso unita, fino all’avvento dei Veneziani. Oltre che del commercio di quella pietra, Pola poté giovarsi dell’esportazione di derrate alimentari o dei prodotti agricoli del suo territorio esteso a comprendere tutta l’Istria meridionale. Il commercio dell’olio e del vino, in direzione di Ravenna, figura ancora in documenti della prima metà del VI secolo. A quel tempo, la plurisecolare
vicenda romana di Pola s’era ormai conclusa e la città, rimasta piuttosto defilata rispetto alle direttrici delle grandi invasioni barbariche, aveva iniziato quella, travagliata e incerta, del Medioevo, conclusasi nel 1331 col giuramento di fedeltà a Venezia, erede, in Istria e in Dalmazia, della potenza e delle fortune di Roma. A sinistra: Pola, Croazia. L’anfiteatro romano, formato da due ordini sovrapposti di settantadue arcate ciascuno, sormontati da un attico con altrettante finestre. Le dimensioni sono di 132 m per l’asse maggiore e 105 m per quello minore, l’altezza
massima di 30 m. Si calcola che l’edificio potesse accogliere fino a 23 000 spettatori circa. In alto: Pola. Il tempio di Roma e Augusto, innalzato nel Foro della città (oggi corrispondente alla moderna piazza della Repubblica. I sec. d.C.
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speciale padania romana «POSTUMIA» PIUTTOSTO CHE «PADANIA» La via Postumia fu una delle grandi strade consolari romane, costruita quando le regioni settentrionali della Penisola non erano ancora Italia (ma territori dell’impero di Roma) e rimasta agibile per intero fino alla fine del mondo antico. L’iniziativa fu del console dell’anno 148 a.C. Spurio Postumio Albino (donde il suo nome); lo scopo, all’inizio prevalentemente militare, quello di mettere in comunicazione la costa ligure con quella dell’Alto Adriatico, correndo lungo la valle del Po, dopo aver superato l’Appennino, e attraverso la pianura veneta, toccando e collegando tra loro numerosi e importanti centri abitati: insediamenti indigeni, alleati e poi romanizzati, come Genova (uno dei due terminali), Verona e Vicenza; colonie di fondazione romana, vecchie e nuove, come Piacenza e Cremona, da una parte, Aquileia (l’altro terminale) dall’altra; centri nati con la strada stessa, come Tortona e Calvatone. Giunta poi in prossimità della «soglia orientale» dell’Italia, la via se ne proiettava al di là con le diramazioni d’Oltralpe. Dire che essa costituiva la nervatura a cui faceva capo tutta la rete stradale del Nord d’Italia, ma anche «spina
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2 Libarna. Strada romana di Libarna (odierna Serravalle Scrivia), importante città sorta nel II sec. a.C., sull’antica via Postumia, presso il torrente Scrivia, in Piemonte.
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comunità padane che ancora non ne erano in possesso. L’applicazione della legge venne interrotta alla morte di Cesare, ma fu ripresa, dopo la battaglia di Filippi, del 42 a.C., dai triumviri Antonio, Ottaviano e Lepido, i quali, nel 43, avevano stipulato a Bologna l’accordo poi sancito da una legge che costituiva il «triumvirato per la restaurazione della Repubblica». Finalmente, tra il 42 e il 41 – probabilmente l’11 marzo del 41 – una nuova legge poneva fine all’anomalia della provincia, integrandone il territorio all’Italia, mentre nuove e numerose assegnazioni di terre – prima ai veterani di Filippi, poi, nel 31,
dorsale» dello sviluppo commerciale e culturale di quella parte della Penisola e infine «cerniera» tra il mondo italico (e mediterraneo) e quello europeo continentale, è pressoché scontato. Ma giova sottolinearlo, mettendo cosí in evidenza un ruolo tanto rilevante e significativo, che il termine «Postumia» meriterebbe d’essere tratto fuori dalla cerchia degli studiosi e degli appassionati, e introdotto a designare senza equivoci e prevaricazioni, di tipo geografico e storico-culturale, tutto il territorio che fu della Gallia Cisalpina. Cosí come s’è fatto – pur se in dimensioni ridotte – già in antico (e poi in epoca «risorgimentale») per l’Emilia, che ha preso il nome proprio dalla grande strada romana che l’attraversava, e che, in ogni modo, rappresenta un valido e illustre precedente. Assai meglio che il nome «Padania», quello di «Postumia» può esprimere e rappresentare la totalità di un mondo che è padano ma anche veneto e ligure, fin dall’aspetto geografico (come veneto e ligure, oltreché celtico, fu dal punto di vista etnico e culturale, prima di diventare romano).
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1 verona. Testa in marmo di principe della dinastia GiulioClaudia. 43/37 a.C. Verona, Museo Archeologico del Teatro Romano.
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Centri attraversati dalla via Postumia Altri centri Stazioni del servizio di navigazione lungo il Po Miliari Centri attraversati Mansiones/Mutationes dalla via Postumia Altri centri Acquedotti Stazioni servizio di Ponti e del guadi navigazione lungo il Po Valichi lungo Miliari la via di Postumia Mansiones/Mutationes Via Postumia
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s 3 VICENZA. Antefissa fittile proveniente dal croptoportico di Vicenza I sec. d.C. Vicenza, Museo Civico Palazzo Chiericati.
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3 CONCORDIA SAGITTARIA. Stele funeraria da Concordia Sagittaria (Venezia), centro romano sorto nel 42 a.C. all’incrocio tra la via Annia e la via Postumia. I sec. d.C. Portogruaro, Museo Nazionale Concordiense.
s 1 AQUILEIA. Ara raffigurante Aquileia inginocchiata che chiede aiuto all’Italia. III sec. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.
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speciale padania romana quando roma divenne la «CAPITALE MORALE» Quando, nell’inverno tra il 289 e il 290 d.C., Diocleziano e Massimiano s’incontrarono a «mezza strada», in quella che allora si chiamava Mediolanum, per concordare una generale riforma degli ordinamenti dello Stato, «Roma sovrana – come si legge in un panegirico composto per la circostanza – si degnò di concedere a Milano le sembianze del suo maestoso splendore, cosicché potesse sembrare che la sede del governo fosse dov’erano convenuti i due Augusti». L’espressione con cui si sottolineava, magnificandola, quella «delega» singolare era certamente enfatica, ma essa enunciava con chiarezza un concetto di straordinaria importanza che, già affacciatosi in precedenza, sarebbe diventato presto un principio, consacrato dalla consuetudine: quello in forza del quale la città in cui l’imperatore avesse posto la sua residenza – o, vista l’occupazione principale, il suo «quartier generale» – sarebbe stata investita del ruolo di capitale. Il principio divenne subito realtà e quella che avrebbe dovuto essere un’investitura temporanea si trasformò in un vero e proprio «passaggio delle consegne». Milano infatti, che in virtú della riforma diventava ufficialmente soltanto la sede del vicarius Italiae, cioè del governatore dell’Italia settentrionale, dal momento che Massimiano decise di risiedere in essa piuttosto che a Roma o in altre sedi alternative, e visto che altrettanto fecero i suoi successori, diventò, di fatto, la capitale dell’impero. O, almeno, della sua pars occidentalis, sempre piú avviata a diventare l’«impero romano d’Occidente». La scelta di Massimiano fu dettata da ragioni contingenti, legate alle necessità strategiche (politicomilitari) del momento, soprattutto nei confronti delle frontiere calde del Reno e del Danubio. Milano, che fino ad allora era stata uno dei tanti municipi della Regione XI (o Transpadana), trovandosi al centro della Pianura Padana e di un complesso ed efficiente sistema di comunicazioni stradali e fluviali che andavano ugualmente da sud a nord e da est a ovest, si prestava egregiamente a essere il fulcro di un governo che al vertice delle sue preoccupazioni aveva la difesa di quelle frontiere. Essa si adeguò presto e bene (con efficienza... meneghina) alle nuove funzioni («a Milano ogni cosa è degna di ammirazione», scriverà Ausonio tra il 380 e il 390), e prima di tutto alle molteplici e complesse esigenze della sede imperiale e dei vari «ministeri»: quello che, nel suo insieme, cominciava giusto da allora a essere designato, globalmente, come «il Palazzo». Cosí, per tutto il IV secolo; fino a quando le mutate condizioni di sicurezza drasticamente evidenziate dall’attacco cui la sottoposero i Visigoti di Alarico, nel 402, non «consigliarono» a Onorio di trasferirsi a Ravenna. Quanto a Roma – che la riforma dioclezianea aveva enucleato dall’Italia, con il suo territorio circostante
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(entro un raggio di cento miglia) e affidato alla giurisdizione autonoma del prefetto urbano –, l’allontanamento della corte e del governo centrale, segnò certamente per essa una grave perdita. Mentre tutto continuava a esser fatto in suo nome – anche se una «nuova Roma» veniva nel frattempo edificata a Bisanzio, sulle rive del Bosforo – mentre lo Stato continuava a essere, ufficialmente, la res publica del popolo romano, mentre attorno o contro le sue insegne si combatteva ancora e si moriva, Roma, svuotata delle sue funzioni e offuscata nella sua importanza, finí con l’essere addirittura emarginata: gli stessi imperatori vi si recavano ormai solo in visita, occasionalmente (e nemmeno tutti), dopo che, agli inizi del IV secolo, Massenzio era stato l’ultimo ad abitare nella reggia del Palatino. Le restava però tutto il prestigio derivante da un passato – e da una vicenda – che la facevano comunque unica e ineguagliabile e la trasformarono nella «città santa» (sacra urbs) dell’impero, secondo un’ispirazione che era stata giusto di Diocleziano. Divenuta «sacrario» – di memorie, di significati, di valori – per un mondo che inesorabilmente s’avviava al
tramonto, Roma rimase sostanzialmente estranea al grande confronto tra l’antica tradizione pagana e il nuovo credo cristiano; quel confronto (volta a volta d’incontro e di scontro) che era cominciato proprio a Milano, con l’Editto di Costantino che nel 313 aveva concesso alla Chiesa la tolleranza da parte dello Stato; che nella stessa Milano ebbe uno dei centri piú vivaci e determinanti, specie nel periodo del fervido e forte episcopato di Ambrogio (rampollo della grande famiglia romana degli Aurelii); e che si concluse, sempre a Milano, nel 390, con la sottomissione dello Stato alla Chiesa allorché l’imperatore Teodosio fu costretto dal vescovo a fare pubblica penitenza dopo la strage di Tessalonica. Roma, durante tutta questa vicenda, fu piuttosto soggetto passivo. Nel serrato e appassionato dibattito politico-religioso che doveva segnare la nascita del mondo nuovo, gli esponenti della sua vecchia aristocrazia si limitarono a difendere con tenacia perfino patetica la gloriosa tradizione dei padri. Come in occasione dell’aspra contesa per la rimozione dall’aula del senato della statua della Vittoria fattavi collocare da Augusto come simbolo delle fortune dell’Urbe e «proscritta», con l’assoluto divieto di ripensamenti che da Milano fu imposto da Ambrogio. La mutata situazione non fu tuttavia senza qualche vantaggio (o contropartita). Per certi versi, Roma finí col guadagnarci. Se non altro perché fu alleggerita di tutti quegli aspetti negativi che una capitale «effettiva» inevitabilmente comporta. In occasione dell’«incontro al vertice» tra Diocleziano e Massimiano, dalle rive del Tevere partirono alla volta di quelle del Naviglio, per un viaggio che prevedeva il ritorno, i piú qualificati senatori, i dignitari piú in vista, le insegne e i simboli del potere, affinché piú solenne e autorevole fosse il momentaneo trasferimento delle sue funzioni. Quando Milano diventò capitale, è lecito pensare ad altre partenze, assai piú numerose, e senza ritorno: forse, a un vero e proprio esodo, lungo le strade che andavano «al Nord». Cosí, dal momento che prebende, incarichi, appalti, ricompense presero a essere distribuiti sulle rive dei Navigli anziché su quelle del Tevere, Roma si liberò, come per incanto, dalle torme di faccendieri, di profittatori, d’arrampicatori, di ladri e perdigiorno che per secoli erano calati su di essa da tutte le regioni della Penisola e da ogni provincia dell’impero. E questo contribuí a consolidarne il nuovo ruolo di «capitale morale», che tuttavia finí presto per assumere connotati diversi da quelli immaginati da Diocleziano. All’antico potere dei Cesari s’andava infatti, ormai rapidamente, sostituendo quello nuovo dei suoi vescovi (col quale il suo ruolo di caput mundi si sarebbe perpetuato in forma spirituale), grazie all’affermazione di quel primato papale del quale lo stesso Ambrogio, a Milano, fu tra i piú convinti e strenui sostenitori.
A destra: testa-ritratto in marmo italico forse dell’imperatore Massimiano Erculeo (286-305 d.C.) o Diocleziano Giovio (284-305 d.C.). 300 d.C. Milano, Civico Museo Archeologico. Nella pagina accanto: Milano. In primo piano, i resti di una domus suburbana (I sec. d.C.) rinvenuti nel giadino del Museo Archeologico in corso Magenta. Dietro, la torre poligonale di 24 lati collegata alle mura urbane costruite alla fine del III sec. d.C. per ampliare la cinta preesistente. La struttura è stata in seguito inglobata nel monastero di S. Maurizio o Maggiore, sorto nell’VIII-IX sec. sui resti del circo e delle mura.
anche a quelli di Azio – si traducevano, per la «Padania», nell’ennesimo innesto di genti provenienti dalle regioni centrali della Penisola. Nel frattempo, operazioni militari portavano all’assoggettamento di tutte le popolazioni della fascia prealpina, in parte ancora indipendenti (mentre altre erano già state «attribuite» alle colonie e ai municipi di pianura), e, nel 25 a.C., veniva creata, con ex pretoriani, la colonia di Augusta Praetoria (Aosta), nel territorio della tribú celto-ligure dei Salassi.
La prima Unità d’Italia L’ultimo atto fu la ripartizione dei territori che componevano la provincia Cisalpina in quattro delle undici Regiones nelle quali, alla fine del I secolo a.C., fu suddivisa e articolata tutta l’Italia per la prima volta unita, nel segno di Roma, dalle Alpi allo Stretto di Messina: l’VIII, Aemilia, la IX, Liguria, la X, Venetia et Histria e la XI, Transpadana (quest’ultima, con l’aggettivo sostantivato a spese del nome «Gallia», cancellato dalla carta geografica della Penisola). La nascita delle Regiones segna la fine della breve stagione unitaria della «Padania». Anche se, per tutta l’età imperiale, sino alla fine dell’evo antico, perdurarono, nei territori e nelle città che per qualche tempo avevano formato, insieme, la provincia Cisalpina, caratteristiche, risorse, potenzialità, successi e vicende comuni. a r c h e o 55
scoperte machu picchu
bingham
di Antonio Aimi
di
la
Hiram Bingham scopre il Machu Picchu. Litografia a colori di epoca moderna.
versione
Sembra la trama di un film, ma questa volta la realtà supera la finzione: una grande scoperta, un protagonista intraprendente e quasi romanzesco, l’aura del mito che comincia a scricchiolare sotto il peso di nuove ricerche... A vacillare è l’avventurosa riscoperta di Machu Picchu: la «città perduta degli Inca» festeggia i 100 anni del suo ritrovamento fra polemiche e tensioni diplomatiche
«L’
alba del 24 luglio [1911] spuntò mentre cadeva una pioggerella fredda. Artega tremava e sembrava intenzionato a restare a casa (…) Ci arrampicammo con fatica per un’ora e venti. Buona parte del percorso dovemmo compierla procedendo a quattro zampe, talvolta persino aggrappandoci al terreno con la punta delle dita (...) La guida diceva che lí c’erano molti serpenti (...) L’umidità era grande, il calore era eccessivo e noi non eravamo allenati (…) E all’improvviso, mi trovai di fronte le mura di alcune case in rovina, che mi parvero subito da classificare fra i migliori esempi di architettura incaica. In quella fortezza di granito bianco, la struttura superava in bellezza le migliori opere murarie di Cuzco che per secoli avevano destato la meraviglia di tanti visitatori. Pareva un sogno, non riuscivo a credere ai miei occhi (…) Rimasi senza respiro. Che cosa poteva essere quel luogo? E come mai nessuno, finora, ne aveva mai sospettato l’esistenza?». Cosí, nel celeberrimo Lost City of the Incas (1948; pubblicato in Italia nel 1959 con il titolo La città perduta degli Incas), l’esploratore statunitense Hiram Bingham (1875-1956) ricordava la «scoperta» di Machu Picchu, il momento culminante della spedizione in Perú finanziata dalla National Geographic Society e dall’Università di Yale. Ma qual
era, appunto, la città che Bingham aveva scoperto? In un primo tempo pensò che si trattasse di Tambo Tocco, uno dei mitici luoghi delle origini. In questa identificazione, Bingham si affidò soprattutto a Montesinos, uno dei cronisti meno attendibili del Perú, e a un’eccessiva enfatizzazione del Tempio delle Tre Finestre, una costruzione che per lui evocava gli eventi aurorali della storia inca, che, tra l’altro, parlano anche di tre o piú finestre (o grotte).
L’equivoco di Vilcabamba Successivamente, si convinse che Machu Picchu poteva essere anche Vilcabamba, la capitale dello Stato creato da Manco Inca Yupanqui (imperatore Inca, capostipite della dinastia di Vilcabamba, 1512-1544) per sfuggire agli Spagnoli, e che era, in realtà, l’oggetto delle sue ricerche in Perú. Entrambe le tesi di Bingham si rivelarono, però, sbagliate. Anzi, fin dagli anni Trenta del Novecento, l’ipotesi che Machu Picchu fosse la culla della cultura inca e il tentativo di «conciliare gli scritti di Montesinos con le ben costruite mura» della città «perduta» gli valsero la netta stroncatura dello storico e archeologo Philip Ainsworth Means (1892-1944). Infatti, già allora, era evidente che Machu Picchu era una città recente, la cui costruzione andava collocata al tempo dell’espansione inca, cioè dopo il 1440. a r c h e o 57
scoperte machu picchu
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COLOMBIA Quito
ECUADOR Tomebamba
Tumbez
Veduta delle rovine di Machu Picchu, isolate, nel fitto della vegetazione, nella Valle dell’Urubamba, in Perù. Il sito archeologico inca, Patrimonio dell’Umanità dal 1983, è stato inserito tra le Sette Meraviglie del mondo moderno. A destra: cartina del Perú, con l’ubicazione di Machu Picchu e delle principali città degli Inca.
PERÚ Chinchaysuyu Lambayeque Sipán El Brujo Chiquitoy Viejo
BRASILE
Cajamarca
Trujillo
Huánuco Pampa
Lima Pachacamac Chincha
Hatun Xauxa
Machu Picchu Antisuyu Cuzco Lago Titicaca Cuntisuyu
Tiahuanaco
Arequipa
La Paz
Oceano Pacifico
BOLIVIA
Cochabamba
Collasuyu
CILE
Pucara de Andegala Strada inca
ARGENTINA
Confine regno inca
Ranchilos
Sito inca Città moderna su sito inca
Santiago
Mendoza
Città moderna
In quanto a Vilcabamba, la tesi, già problematica nel 1948, si dimostrò inconsistente negli anni Sessanta e Settanta, quando con ragionevole certezza si arrivò a identificare la capitale di Manco Inca con Espiritu Pampa, un sito che, ironia della sorte, Bingham aveva raggiunto un mese dopo la scoperta di Machu Picchu e dove aveva trovato evidenti prove di continui contatti con gli Spagnoli, quasi totalmente assenti, invece, a Machu Picchu.
Jones ante litteram, con passi in cui omissioni e distorsioni della realtà raggiungono punte sorprendenti. Già nel 1912, al ritorno negli Stati Uniti, indugiava sugli aspetti piú stereotipati del Perú nell’immaginario wasp (white anglo-saxon protestant). Titolava il 20 dicembre 1912 il New York Times: «Bingham ritorna con crani preinca» e poi nel sottotitolo: «La spedizione ha messo a nudo l’antica città peruviana di Machu Pucchu – Questioni col Governo – Le malattie devastano l’interno – Il lavoro non proseOmissioni e bugie Bingham, tuttavia, non ne trasse le guirà». L’articolo poi, dopo aver logiche conseguenze e, pur aven- riferito che erano stati portati negli do compreso che la città era stata Stati Uniti cinquanta crani, diversi fondata subito dopo la Conquista, scheletri e trenta casse di reperti, concluse che poteva essere «una riportava alcune dichiarazioni dello delle residenze favorite di Titu Cusi stesso Bingham, il quale, invece di [Yupanqui]», uno dei sovrani della parlare di Machu Picchu, raccontadinastia di Vilcabamba. Per ragioni va di essere stato derubato e abbanincomprensibili preferí identificare donato da guide e muli e lamentava le difficoltà frapposte dal governo Machu Picchu con Vilcabamba. Parallelamente, invece di accon- per l’esportazione delle casse. tentarsi del merito incontestabile Dieci anni dopo, piú serenamente, di essere stato il primo, cosa certo Bingham trasformava lo stesso panon da poco, ad avviare ricerche esaggio, presentando un normale, archeologiche a Machu Picchu, si irto pendio – percorso piú o meno cucí addosso i panni di un Indiana regolarmente dalle due famiglie di a r c h e o 59
scoperte machu picchu Un Americano in Perú
L’esploratore statunitense Hiram Bingham (1875-1956) in un’immagine scattata nel campo di Machu Picchu, nella regione di Cuzco (Perú), che scoprí nel 1911, durante una spedizione finanziata dall’Università di Yale e dalla National Geographic Society, alla ricerca dell’antica capitale inca Vilcabamba. Dopo gli scavi, Bingham fu autorizzato dal governo locale a trasferire negli Stati Uniti tutti i reperti archeologici e il materiale osteologico rinvenuto.
contadini che vivevano a Machu Picchu – in un impossibile sesto grado, quindi precisava il carattere di novità assoluta della «sua scoperta»: «Con la possibile eccezione di un ispettore delle miniere, nessuno a Cuzco aveva visto le rovine di Machu Picchu o compreso la loro importanza (…) Nessuno aveva la minima idea di quale straordinario luogo si trovava in cima al crinale. Il posto non era mai stato visitato da nessuno degli agricoltori del Basso Urubamba, che ogni anno passano per la strada che serpeggia attraverso le gole del fiume duemila piedi piú in basso (…) Sembra incredibile che questa cittadella, che si trova a meno di tre giorni di viaggio da Cuzco, non sia mai stata descritta dai viaggiatori e sia relativamente sconosciuta agli stessi Peruviani».
La «città perduta»? Le cose, in realtà, erano andate diversamente, perché di Machu Picchu non si era mai persa la memoria. La città «perduta», infatti, era segnalata in documenti del 1562, 1565 e del 1568, nei quali si precisava che gli «Indios de Picchu» pagavano un tributo di 105 cesti di coca al convento degli Agostiniani di Cuzco. Compariva poi in due atti di vendita del Settecento, in una relazione del 1848 e, nel 1880, era collocata nella mappa del libro del viaggiatore Charles Wiener: Perú e Bolivia. Successivamente, a partire dal 1894, dopo che le rovine furono visitate da Luís Béjar, fu un susseguirsi di viaggiatori, alcuni dei quali scrissero i loro nomi sulle mura del Tempio delle Tre Finestre. Nomi curiosamente scomparsi durante le ricerche successive. 60 a r c h e o
Recentemente è stata avanzata l’ipotesi, ancora, però, priva di riscontri risolutivi, che nel 1887 un ingegnere tedesco, Augusto Berns, avrebbe cominciato a saccheggiare e a vendere i tesori di Machu Picchu. In ogni caso prima di addentrarsi nella regione, Hiram Bingham, come ha recentemente messo in evidenza Daniel Gade, era stato informato da Albert Giesecke, allora rettore dell’Università San Antonio Abad di Cuzco, di Machu Picchu e di Melchor Arteaga, il contadino che, come poi avvenne, poteva fargli da guida. Anzi, lo stesso Giesecke, statunitense come Bingham, ma con un ego un po’ diverso, già nel gennaio del 1911 era stato da Arteaga, poi nel giugno dello stesso anno era tornato con alcuni studenti, aveva visitato la cittadella inca e raggiunto lo Huayna Picchu. Queste vicende, tuttavia, sarebbero rimaste oggetto degli studi di qualche erudito interessato a ricostruzioni veritiere, se recentemente non fosse esplosa la questione della restituzione dei 46 000 pezzi (il numero, però, include numerosi frammenti) che Hiram Bingham, lo scopritore ufficiale della città inca, aveva «provvisoriamente» portato negli Stati Uniti dopo le campagne di scavo del 1912-1915 e che Yale non aveva nessuna intenzione di restituire.
Nella pagina accanto: foto satellitare dell’odierno Iraq, nei cui confini è compreso il sito.
le celebrazioni per il centenario È ufficiale, il 2011 per il Perú è l’«Anno del Centenario di Machu Picchu». Lo ha deciso il presidente della Repubblica uscente, Alan García, per celebrare il ritorno dei reperti di Machu Picchu. Una prima avanguardia di questi materiali, i 300-400 pezzi ritenuti «adatti a un museo» (evidentemente anche gli archeologi «puri e duri», che considerano ogni giudizio estetico come una perfida invenzione etnocentrica, si sono arresi all’evidenza che non tutti gli oggetti sono uguali) sono sbarcati in Perú in marzo. Il resto arriverà, poco a poco, prima della metà del 2012. Il momento culminante delle celebrazioni, a quanto è dato di sapere nel momento in cui si scrive, dovrebbe essere il 7
luglio. Una data scelta, non a caso, a ridosso, ma non troppo, dell’Inti Raymi di Cuzco, per sviluppare sinergie mediatiche e turistiche con la festa inca del solstizio. In particolare, si prevede di organizzare a Machu Picchu un grande evento che dovrebbe coniugare le radici preispaniche del Perú con la modernità. Oltre al Premio Nobel Mario Vargas Llosa e a uno speciale spettacolo di luci e suoni, gli organizzatori stanno cercando di coinvolgere cantanti come Sting, Bono, McCartney e il tenore peruviano Juan Diego Flores. Lo spettacolo dovrebbe essere trasmesso in diretta dalla televisiva e dovrebbe essere seguito da 500 milioni di telespettatori.
Le rovine della città inca di Machu Picchu, fotografate da Hiram Bingham, nel 1911. Sono ancora ben visibili i terrazzamenti realizzati dagli inca sulla montagna, a oltre 2350 m di altitudine.
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scoperte machu picchu «Un luogo straordinario» A destra: Hiram Bingham fotografato accanto alle rovine di Machu Picchu. L’esploratore diresse le campagne di scavo sul sito inca dal 1912 al 1915. In basso: la mappa delle rovine di Machu Picchu, disegnata da Hiram Bingham e pubblicata dalla rivista National Geographic nel
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1913. La città, costruita intorno al 1440, era suddivisa in una parte bassa e una alta, raccordate da un’ampia area centrale. Nella pagina accanto: il campo della spedizione peruviana di Yale, alle pendici del Monte Salcantay, sulla strada per Machu Picchu, in un’immagine scattata nel 1911.
Il merito di avere aperto una questione che sembrava dimenticata, occorre dirlo con chiarezza, va a una persona che in Perú suscita reazioni molto contrastanti: Eliane Karp, moglie di Alejandro Toledo, presidente del Perú dal 2001 al 2006. La Karp, infatti, in qualità di primera dama (in Perú le mogli dei presidenti possono avere un ruolo politico di un certo rilievo) e di antropologa con una buona conoscenza delle problematiche andine (parla anche un po’ di quechua), ebbe un ruolo decisivo nello spingere lo Stato peruviano a chiedere la restituzione dei reperti di Machu Picchu.
Picchu, dopo aver lavorato per anni a sistemare i reperti che Bingham aveva portato a Yale e che erano custoditi al Peadoby Museum. Il loro lavoro era stato assai poco gratificante, perché, nonostante il prestigio di cui gode Yale, gli oggetti erano conservati molto male. Attraverso la primera dama, che aveva ricevuto una bozza del progetto un anno prima, speravano che il governo peruviano appoggiasse la mostra e fornisse un solido aiuto finanziario. Dopo un’ora e mezzo di anticamera passata a chiacchierare e a guardare la foschia, che, come per la maggior parte dell’anno, copriva la capitale del Perú, furono ammessi nell’ufficio di Eliane Karp. Qui Spostamenti «provvisori» Era l’estate del 2002 e una coppia di ebbero la sorpresa di trovare anche archeologi di Yale, Richard Burger Luís Lumbreras, che era appena e Lucy Salazar (lei era Peruviana, stato nominato direttore dell’INC ma si era trasferita negli USA dopo (Instituto Nacional de Cultura), aver sposato Burger), si trovava al l’equivalente del nostro Ministero Palazzo del Governo per incontrare della Cultura. Si era ancora ai conEliane Karp. Avevano progettato venevoli, quando, all’improvviso, una mostra sui reperti di Machu entrò nella sala della riunione il presidente Alejandro Toledo e disse: «Ho visto il progetto. È grande. Quando posso firmare? Voglio essere presente all’inaugurazione della mostra». Nella sala cadde un imbarazzante silenzio, Eliane Karp alzò l’indice e disse «Tu non andrai da nessuna parte». Al che Toledo si aggiustò il nodo della cravatta e rispose: «Scusate, ma devo tornare a una riunione di gabinetto. Ho lasciato tutte le questioni culturali nelle mani di Eliane». Allora la Karp, senza tanti giri di parole, disse che Yale doveva restituire tutti i pezzi che Bingham aveva portato negli Stati Uniti. Curiosamente, fino ad allora, tutti s’erano dimenticati che i pezzi erano stati esportati «provvisoriamente». Curiosamente, se ne erano dimenticati anche Burger e la Salazar, i quali, in quanto archeologi, dovevano conoscere, almeno vagamente, le regole del gioco. Da allora cominciò una lunga controversia con alti e bassi. Quando, nel 2003-2006, Yale organizzò a New Haven e in altre città degli Stati a r c h e o 63
scoperte machu picchu la città sull’urubamba Machu Picchu, la città inca piú nota e meglio conservata, sorse in corrispondenza del punto in cui il Rio Urubamba scende a cascata nella giungla. Dista 112 km da Cuzco e si pensa che, oltre a essere un presidio militare, svolgesse le funzioni di residenza secondaria dei sovrani. La città occupa una giogaia tra le vette di Machu (Antico) e Huayna (Nuovo) Picchu posta a 2000 m circa di altitudine e la cui limitata estensione venne sfruttata al meglio dagli Inca con un articolato sistema di terrazzamenti. In tutto si contano 200 edifici circa, collegati da una fitta rete di ripide scalinate e destinati a usi amministrativi, religiosi e residenziali. La città era divisa in una parte alta e in una parte bassa e la divisione era segnata, al centro, da una grande piazza. Il rinvenimento di Machu Picchu è considerato come una delle grandi scoperte della storia
dell’archeologia, non soltanto per l’importanza del sito, ma anche perché Bingham si trovò di fronte a uno spettacolo paragonabile a quelli di Ercolano e Pompei: la città era infatti praticamente intatta, coperta soltanto dalla vegetazione. Molti dei monumenti piú interessanti sono legati alla religione. Sulla piazza centrale della città si affacciano le rovine di un grande tempio, sostenuto da grandi monoliti ricavati direttamente nel banco roccioso; i muri sono obliqui e sono costellati da numerose nicchie. Superato il tempio, salendo una scalinata di settanta gradini, si arriva al punto piú alto della città, in cui si trova l’Intihuatana, ossia il «luogo in cui si ferma il sole». Si tratta di un sacello, consacrato al culto del dio Sole, in cui, al centro di un terrapieno, si innalza una colonna a forma di tetraedro tagliata nella roccia. Sulla colonna è scolpita una sorta di
L’inserimento di Machu Picchu tra le Sette Meraviglie del mondo moderno ha riportato in primo piano la questione della «restituzione» 64 a r c h e o
quadrante solare, che indica il succedersi delle stagioni, delle ore, dei solstizi, ecc. L’Intihuatana funzionava come gnomone e, forse, come ara per i sacrifici. Ancora all’interno del quartiere in cui si concentrano gli edifici riservati al culto spicca il cosiddetto Tempio delle Tre Finestre, un torrione a pianta circolare, sotto al quale è stata scavata una camera rupestre. Notevole è anche il Tempio dei Sacrifici, che presenta belle murature in blocchi squadrati, posti in opera a secco, secondo corsi regolari. Anche questo monumento presenta le tipiche finestre trapezoidali, rastremate verso l’alto. L’area residenziale della città è la parte meglio conservata di Machu Picchu. Si compone di numerosi edifici, all’interno dei quali ricorre il muro centrale avente le funzioni di sostegno del tetto.
In alto: un’immagine scattata durante gli scavi nei pressi del muro occidentale del tempio principale di Machu Picchu, nel 1912. A sinistra: la spedizione peruviana di Yale, guidata da Hiram Bingham, procede lungo la strada accanto al fiume Urubamba, in una foto scattata all’epoca della scoperta di Machu Picchu.
Uniti la mostra itinerante progettata da Burger e dalla Salazar: Machu Picchu: Unveiling the Mistery of the Incas, le autorità peruviane si convinsero che l’università nordamericana non aveva alcuna intenzione di restituire i materiali. Ma, nel 2007, un anno dopo l’arrivo alla presidenza di Alan García, si arrivò a un’intesa che prevedeva: 1) il riconoscimento della proprietà del Perú su tutto il complesso dei reperti di Bingham; 2) la restituzione immediata di 384 pezzi, quelli di maggior valore museografico; 3) la permanenza a Yale, per un periodo ancora indefinito, del resto del materiale (soprattutto frammenti di ceramica, ossa, ecc.) 4) il finanziamento da parte di Yale di un fondo di 100 000 dollari per lo studio di questi reperti riservato ai ricercatori peruviani; 5) la realizzazione di una mostra itinerante, il cui ricavato avrebbe dovuto contribuire alla costruzione di un nuovo museo di archeologia a Cuzco. Le polemiche, però, si riaccesero quando si scoprí che i pezzi da restituire erano circa 46 000, che il riconoscimento della proprietà a r c h e o 65
scoperte machu picchu le problematiche intorno alla repatriation Dopo la restituzione dei pezzi di Yale è logico domandarsi se il Perú chiederà la restituzione di altre prestigiose collezioni portate all’estero, sia legalmente, sia illegalmente, e mai piú restituite. È possibile che la vittoria su Yale inneschi un effetto domino sulle collezioni di altri musei del mondo? Probabilmente no, dato che Machu Picchu ha per il Perú un valore simbolico particolare e dato che la violazione degli accordi da parte di Yale era flagrante. Ma negli altri casi? L’atteggiamento del Perú sta cambiando rapidamente. In questi ultimi mesi, in particolare, il tema della restituzione è stato cavalcato dal presidente uscente del Perú, Alan García, il quale, dopo aver ignorato per anni i pezzi di Yale e dopo aver guidato, con una svolta di 180°, una manifestazione che ne chiedeva la restituzione, ha ora proposto al suo omologo messicano di fare della questione della repatriation uno dei temi fondamentali dell’agenda politica dei prossimi dieci anni. Staremo a vedere. In ogni caso bisogna distinguere tra raccolte portate all’estero per ragioni di studio e mai piú restituite e reperti scavati e trafugati illegalmente. Per le prime, l’archeologo d’origine italiana Duccio Bonavia, che in realtà ha ancora orgogliosamente il passaporto italiano, in una lettera a El Comercio,
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il principale giornale peruviano, del 14 novembre ha segnalato il caso di altre tre raccolte, probabilmente molto piú importanti dal punto di vista scientifico di quella di Machu Picchu: 1) i reperti litici scavati da Lanning negli anni Sessanta nella zona di Chillón-Ancón; 2) le decine di migliaia di ossa di camelidi trovati nel riparo di Telarmachay, uno dei piú antichi di tutta l’area andina, che furono spediti negli Stati Uniti e dei quali non si conosce, al momento, la collocazione; 3) i reperti portati al Museo di Storia Naturale di Parigi dalla missione francese che aveva condotto ricerche nella zona di Sacaco. Bonavia nella stessa lettera, ma il passo è stato tagliato dal Comercio, si chiedeva dove si trovano le 27 casse di resti umani restituiti da Yale il 22 settembre 1921. Per quanto riguarda la questione dei pezzi scavati clandestinamente la situazione è ancora piú
complicata, perché tanto il Perú quanto gli Stati Uniti hanno politiche oscillanti, il primo nel chiedere, i secondi nel restituire. È quindi probabile che l’apertura di nuovi eventuali fronti da parte del
Perú sarà decisa caso per caso. Ma da questo punto di vista la questione piú scottante è quella di Loma Negra, un sito della Costa Nord del Perú totalmente saccheggiato verso la fine degli anni Sessanta. Tutti i pezzi di Loma Negra, tra cui alcune opere di straordinaria bellezza, presero la via dell’estero e un nucleo importante finí al Metropolitan Museum of Art di New York. In Perú nessuno, finora, ha chiesto la restituzione di questi pezzi, la cui importanza è sconosciuta all’opinione pubblica e anche a molti degli addetti ai lavori. Tuttavia, sarebbe opportuno che prima dell’apertura di un nuovo contenzioso il MET riconosca l’esistenza di un problema etico-giuridico.
In alto: manifestanti in marcia, il 5 novembre del 2010, per chiedere la restituzione dei reperti di Machu Picchu, portati da Hiram Bingham negli Stati Uniti. A sinistra: vasi inca esposti nelle sale del Palazzo del Governo, dopo la restituzione. A destra: il presidente Alan García con una delle casse di reperti provenienti da Yale, davanti al Palazzo del Governo di Lima. Nella pagina accanto: orecchino moche in oro, con intarsio in turchese e corallo raffigurante una divinità. 100-800 d.C.
peruviana non era senza condizioni e che Yale poneva condizioni umilianti alle iniziative da fare in comune. Il Perú, dopo alcune incertezze, decise di aprire un contenzioso legale negli Stati Uniti, e Yale rispose sostenendo che la richiesta della restituzione era andata in prescrizione. Nel frattempo, il fatto che nel 2007 Machu Picchu fosse inserita tra le Sette Meraviglie del mondo moderno, accentuò in Perú l’enfatizzazione sulla cittadella inca e allargò la questione della repatriation anche tra strati sociali generalmente estranei a queste tematiche. All’improvviso, il 2 novembre 2010, mentre nel mondo archeologico peruviano si arrivava a proporre il completo boicottaggio delle iniziative di Yale in Perú, il presidente Alan García, forse intuendo che poteva chiudere in bellezza il suo mandato (le nuove elezioni si sono tenute in aprile e il presidente lascerà la carica alla fine di luglio), scrisse una lettera
a Obama e, il 5 novembre, si mise per saperne di piú alla testa di una manifestazione di 3000 persone che chiedevano la Hiram Bingham, La città perduta degli Inca, Newton Compton, restituzione dei pezzi. Roma 2000 Hiram Bingham, Inca Land. Verso la risoluzione Mentre la tensione nel Paese saliva, Explorations in the Highlands Lucy Salazar, tristemente, sparò le of Peru, The Riverside Press ultime cartucce per conto di Yale Cambridge, Boston and e l’11 novembre in un articolo su New York 1922 Caretas (la piú importante rivista Daniel Gade, Albert A. Giesecke, peruviana) fece osservazioni mar- A Philadelphian in the Land of ginali su alcuni dettagli legali e the Incas, Expedition, 2006, vol. 48, sostenne che la querelle su Machu n. 3, pp. 27-32 Picchu era espressione dello «chau- John Hemming, La fine degli vinismo politico» del governo di Inca, Rizzoli, Milano 1975 Alan García (in realtà decisamente John H. Rowe, Machu Picchu a filoamericano). Ormai la questio- la luz de documentos del siglo ne rischiava di innescare tensio- XVI, Historica, 1990, n. 14, pp. ni tra Stati Uniti e Perú. Obama, 139-154 preso da ben altri problemi e per niente contento di aprire un nuovo, piccolo fronte diplomatico con sato aveva riconosciuto a Bingham un alleato fedele, incontrò i vertici previlegi impensabili, ora la loro di Yale e li convinse a desistere. In crisi e l’emergere di un’America fondo la Salazar aveva ragione: era Latina un po’ piú indipendente, una questione politica. Come lo costringono la grande potenza del strapotere degli Stati Uniti in pas- Nord al rispetto delle regole. a r c h e o 67
storia origini di roma/7
Anco Marzio di Daniele F. Maras
In equilibrio tra
Sulle due pagine: Roma. In primo piano le arcate marmoree del Ponte Emilio (conosciuto anche come «Ponte Rotto») costruito in epoca repubblicana, e restaurato in età augustea, nei pressi dell’antico ponte ligneo Sublicius – il primo che collegò le due sponde del Tevere – risalente all’epoca di Anco Marzio. Nella pagina accanto: testa diademata di Anco Marzio, su un denario battuto da Lucio Marcio Filippo, console nel 56 a.C. e marito di Azia (nipote di Cesare).
Dal rispetto della religione alle guerre con i Latini, dalla fondazione della colonia di Ostia alla costruzione del Ponte Sublicio e del Carcere Mamertino: le molte facce di un re dalla personalità sfuggente, che sembra traghettare la monarchia di Roma dalla leggenda alla storia
guerra e pace
L
a morte del re Tullo Ostilio, folgorato da Giove, dimostrava in modo evidente lo sfavore degli dèi nei confronti della monarchia romana: il suo successore, quindi, avrebbe dovuto avere il difficile compito di ripristinare la pace divina. Fu nominato, come di norma, un interrex, che convocò l’assemblea del popolo per eleggere il nuovo re: la scelta cadde su Anco Marzio, di origine sabina (nel rispetto della già ricordata alternanza stabilita dall’epoca di Romolo e Tito Tazio) e imparentato con il buon re Numa, il cui regno era perennemente ricordato come esempio di pace e prosperità. Le fonti, in realtà, non concordano nello stabilire il grado di pa-
rentela tra il secondo e il quarto re, in quanto Anco viene detto a volte figlio o discendente di Mamerco (figlio di Numa e capostipite della gens Marcia) e, a volte, nato da un’anonima figlia di Numa e dal senatore sabino Marcius (la cui gens evidentemente esisteva già).
Il continuatore di Numa Si dice che la prima azione del neoeletto re sia stata quella di commissionare al pontefice massimo la «pubblicazione» per iscritto delle norme per le corrette cerimonie religiose pubbliche, contenute nei Commentarii che Numa Pompilio aveva lasciato in qualità di testamento spirituale. Cosí facendo, Anco Marzio
intendeva prendere le distanze dall’empio e arrogante Tullo Ostilio e riallacciarsi esplicitamente all’Età dell’Oro, collegata alla memoria di suo nonno. La stessa tradizione, nel tentativo di attribuire ogni comportamento dissacratorio e aggressivo al terzo re e una restaurazione della pax deorum ad Anco Marzio, vorrebbe che sia stato quest’ultimo a introdurre il collegio sacerdotale dei Feziali, quale garante della «guerra giusta», anche se, in realtà, abbiamo già visto i sacerdoti al lavoro nell’episodio degli Orazi e Curiazi (vedi «Archeo» n. 316, giugno 2011). Tuttavia, nonostante le buone intenzioni che le fonti attribuiscono ad Anco Marzio, come a r c h e o 69
storia origini di roma/7 continuatore ideale del regno di pace di Numa, i Feziali ebbero molto lavoro da fare… Gli autori antichi raccontano, infatti, come le altre città latine non seppero approfittare dell’indole pacifica del nuovo re, ma, anzi, effettuarono incursioni nel territorio romano, provocando la reazione di Anco Marzio, che, uno dopo l’altro, sconfisse e conquistò i centri vicini di Politorio, Medullia, Ficana (e Tellene). A tutt’oggi non si ha la certezza dell’ubicazione di queste città, che però dovevano trovarsi nelle immediate vicinanze di Roma, a contatto con quell’ager Romanus antiquus che ne costituiva il territorio piú antico e tradizionale (si sono fatti i nomi di Castel di Decima, LaurentinaAcqua Acetosa o altri ancora). Appare in ogni caso chiaro come a
dispetto dell’intento di presentare il quarto re come pacifico e moderato, la spinta espansionistica di Roma non si fermò; anzi, prese una direzione ben precisa, proseguendo le iniziative militari di Romolo verso la foce del Tevere e il mare.
La prima colonia romana Non a caso, al regno di Anco Marzio viene quindi attribuita la fondazione della piú antica colonia romana: la città di Ostia, posizionata presso quella che all’epoca era la foce del Tevere, come è implicito nel nome stesso della città, plurale di ostium, che in latino vale sia «bocca, foce» del fiume, che «porta d’accesso» alla Città Eterna. La tradizione che vorrebbe riportare la fondazione di Ostia al quarto re di Roma – e quindi alla seconda metà del VII secolo a.C. – è piuttosto precisa e vede d’accordo gli autori antichi, ma non è purtroppo suffragata da alcuna prova archeologica. Al contrario, gli scavi condotti all’interno dell’antica città, conservatasi particolarmente bene, dal momento che il sito è stato abbandonato dopo la tarda antichità, non
hanno finora rintracciato resti archeologici anteriori al IV secolo a.C., epoca che quindi va considerata la piú probabile per il primo insediamento in quella posizione. Non si può escludere, però, che esistesse un centro romano risalente all’epoca orientalizzante e posto a controllo della foce del fiume e dell’annesso scalo marittimo, ma collocato in una posizione diversa, presumibilmente piú arretrata (in considerazione della variazione della linea di costa) oppure meglio difendibile. Con la fondazione di Ostia – reale o solo immaginata dalle fonti letterarie per giustificare il controllo della fascia costiera – la proiezione marittima di Roma era completa, grazie al possesso della zona a nord del Tevere, dove, già dai tempi di Romolo, i Romani contendevano a Veio il controllo del corso inferiore del fiume. Da ora in poi, e senza interruzione, la città ebbe un proprio scalo portuale, indispensabile per l’incontro con i navigatori greci: quando, alla fine del VII secolo (ormai durante il regno del primo dei Tarquinii), i Focei sostarono alla foce del Tevere nel corso del viaggio per fondare la colonia di Massalía (l’odierna Marsiglia, sulla costa francese), strinsero un patto di amicizia con Roma, che fu il primo vero rapporto internazionale della Città Eterna, destinata ad avere un ruolo di primo piano nella storia del Mediterraneo.
«Al di là del Tevere» Le operazioni di controllo del territorio e consolidamento del potere di Roma sotto Anco Marzio continuarono anche in un’altra direzione, dimostrando la supremazia ormai acquisita della città sul corso del proprio fiume. Fu infatti in quest’epoca che venne costruito il primo ponte che congiungeva le due sponde opposte del Tevere e che venne chiamato Sublicius, per il fatto di essere sostenuto da pali di legno (in latino sublicae). Il ponte scavalcava il fiume a valle dell’Isola Tiberina e metteva in co70 a r c h e o
la prigione dei romani Un’altra «utile» invenzione attribuita ad Anco Marzio fu il carcere (in latino carcer, che aveva lo stesso nome delle gabbie di partenza nelle corse dei cavalli): al quarto re veniva attribuita infatti l’istituzione del cosiddetto Carcere Mamertino (da Mamers, arcaico nome italico di Marte), la cui cella sotterranea era meglio nota come Tullianum. L’edificio è ancora oggi conservato e visitabile, per quanto nella sua ricostruzione di epoca repubblicana, al di sotto della chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami ai margini del Foro Romano, presso il Campidoglio. A giudicare da quanto resta delle piú antiche fasi d’uso della struttura e dalle descrizioni delle fonti letterarie, il luogo di detenzione era una spelonca circolare, fredda e umida, che spesso e volentieri serviva anche come luogo di tortura e delle esecuzioni dei condannati. Con ogni probabilità, in origine la prigione ospitò malfattori comuni, ma la sua antichità e la prossimità ai luoghi del trionfo portarono in seguito all’usanza di imprigionarvi i prigionieri di Stato, destinati a essere uccisi per strangolamento, come capitò, per esempio, all’africano Giugurta e al gallo Vercingetorige. Racconta Plutarco che il primo dei due, gettato nella segreta dopo essere stato sconfitto da Caio Mario, con coraggio si rivolse agli aguzzini sogghignando ed esclamò: «Per Ercole, quanto sono freddi i vostri bagni!».
municazione la città con la cosiddetta «riva etrusca» o «riva veiente», ormai entrata di diritto a far parte del territorio di Roma. In conseguenza del collegamento tra le due sponde, fu necessario erigere una fortificazione al di là del fiume (nella zona che piú tardi avrebbe preso il nome di trans Tiberim, «al di là del Tevere», da cui l’odierno Trastevere): allo scopo fu scelta la vicina collina del Gianicolo, fortificata da Anco Marzio in funzione di vera e propria «testa di ponte» romana verso il territorio etrusco. In effetti, l’occupazione della riva destra del fiume non dev’essere stata del tutto pacifica, almeno a giudicare dalla celebrazione di un trionfo del quarto re sui Veienti (associati ai Sabini), documentata dai cosiddetti «Fasti Trionfali», il registro di tutte le imprese militari della storia di Roma. La tendenza conservatrice, sempre presente nella storia di Roma, fece sí che anche piú tardi, quando l’avamposto militare del Gianicolo non aveva piú ragione d’essere, venisse alzata su di esso una bandiera
come segnale di sicurezza, ogni volta che si svolgevano i comizi nel Campo Marzio, in un settore urbano posto al di fuori delle mura.
La fine di Anco Marzio Come si vede, le azioni attribuite ad Anco Marzio non hanno un carattere spiccatamente personale, com’era stato per i primi tre re, dei quali è piú facile ricostruire il carattere; e, di fatto, le fonti a disposizione sono avare di notizie anche per la sua fine (che resta oscura prima dell’arrivo a Roma dell’etrusco Tarquinio Prisco) e per la sua vita familiare. Da un accenno di Dionigi d’Alicarnasso si sa che il re aveva dei figli – sebbene rimangano incerti il loro numero e il loro sesso –, mentre in età storica un ramo della gens plebea dei Marcii pretendeva di discendere da lui, al punto da adottare il cognomen «Rex», portato ancora in età repubblicana da magistrati di spicco, giunti fino al rango consolare. Ma il tempo dei re latini e sabini di Roma volgeva ormai al termine: l’ampliamento delle dimensioni della città e della sua sfera d’in-
In alto: l’ingresso al Carcere Mamertino, oggi inglobato nei sotterranei della chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami, presso il Foro Romano. Nella pagina accanto: uno scorcio dell’area sacra dei templi repubblicani, a Ostia Antica, città fondata, secondo la tradizione, da Anco Marzio.
fluenza territoriale attirò l’attenzione dei piú potenti vicini del Nord, che giunsero a imporre un nuovo tipo di monarchia, di tipo dinastico e con tendenze tiranniche, e a fare di Roma una vera e propria città etrusca. (7 - continua) le puntate di questa serie • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio, un re voluto dagli dèi • Tullo Ostilio: la guerra come ragion di Stato • Anco Marzio e la fondazione di Ostia • Tarquinio Prisco e il tempio di Giove • Gli Etruschi a Roma • Servio Tullio e la riforma dello Stato • Tarquinio il Superbo • La nascita della Repubblica a r c h e o 71
IDormono giganti? come sassi di Aart Heering
«Hunebedden» è il nome dei dolmen locali, al centro di una vivace disputa tra archeologi olandesi. Qualcuno li vuole sottoporre a nuovi scavi, altri temono che, cosí facendo, si possano recare danni alle piú antiche testimonianze monumentali dei Paesi Bassi. Per secoli soggette a vandalismo, incuria e furti, le maestose costruzioni sono oggi entrate anche a far parte anche dei circuiti turistici
L’Hunebed (letteralmente «letto del gigante») di Schoonoord, nella provincia olandese del Drenthe. Queste costruzioni megalitiche furono realizzate nella seconda metà del IV mill. a.C., da gruppi riferibili alla cultura neolitica del vaso imbutiforme (Trichterbecherkultur o TBK). La scoperta dell’hunebed di Schoonoord può essere considerata come l’esito piú fortunato delle ricerche sistematiche condotte, a partire dal 1917, da Albert Egges Van Giffen, che localizzò 54 complessi del genere. Negli anni successivi, lo stesso Van Giffen sovrintese al restauro delle strutture piú compromesse, fra cui quella qui illustrata.
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I
l termine Hunebedden (letteralmente «letti di giganti») viene usato nei Paesi Bassi per indicare i resti delle strutture megalitiche di uso funerario costruite dalle comunità agricole che nel Neolitico abitavano nella pianura nordtedesca, dal nord dell’Olanda, fino alla Polonia e la Svezia del sud. In archeologia, a questi gruppi è stato dato il nome di Cultura del vaso imbutiforme (Trichterbecherkultur, o TBK), perché il tipo di ceramica che si trova piú di frequente negli Hunebedden ha appunto questo aspetto. Quasi tutti gli Hunebedden sono stati realizzati in un periodo relativamente breve, compreso tra il 3400 e il 3200 a.C. Probabilmente erano sepolture collettive, anche se alcuni sostengono che possa invece trattarsi di tombe monumentali, riservate a personaggi di spicco. Un dubbio destinato a rimanere
tale, perché l’umidità e l’acidità dei terreni di queste zone hanno quasi del tutto cancellato i resti ossei dei defunti. Si sono invece conservati, almeno in parte, i corredi funebri, e in particolare le ceramiche, dalle quali si deduce che gli Hunebedden furono in uso fino al 2850 a.C. circa. All’indomani di quella data nella zona si insediarono genti riferibili alle successive Culture della ceramica cordata e del bicchere campaniforme, che erano solite seppellire i propri morti in tombe singole.
Il mistero dei grandi massi Gli elementi portanti degli Hunebedden sono enormi massi erratici, trasportati dalla Svezia e dalla Finlandia verso sud durante il Riss, il terzo periodo di espansione delle masse glaciali, 150 000 anni fa circa. Tra i massi piú grandi (alcuni pesano piú di 40 tonnellate), gli antichi
architetti sceglievano quelli con almeno un lato piú o meno piatto, per creare l’ossatura della tomba: venivano create due file di pietre collocate verticalmente l’una davanti all’altra con il lato piatto verso l’interno, poi coperte da macigni il cui lato piatto fungeva da soffitto. Disponendo in verticale altri massi alle estremità, si creava uno spazio rettangolare, lungo da 3,5 a 20 m e largo da 1,5 a 2,5 m, su uno dei cui lati si lasciava un’apertura, da utilizzare come ingresso. L’altezza si aggirava intorno ai 175 cm, ed era quindi sufficiente per poter stare in piedi all’interno della struttura. Gli spazi tra i massi venivano colmati con ciottoli e terra e il tetto veniva coperto, creando cosí una piccola collina artificiale, una sorta di tumulo. Gli studiosi si sono a lungo interrogati su come quegli antichi agri-
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scavi olanda
In alto: i resti di uno dei tre Hunebedden situati nei pressi del villaggio di Bronneger. A sinistra: cartina della provincia del Drenthe, con l’ubicazione degli Hunebedden a oggi noti.
coltori avessero potuto trasportare massi di tale grandezza e peso. Una prima risposta è consistita nell’attribuire la creazione degli Hunebedden ai giganti (Huynen) che in tempi remoti avrebbero abitato in questa zona: ne era convinto anche il primo autore che li descrisse con una certa serietà, il pastore protestante Johan Picardt (1600-1670). Rispettando da buon calvinista il Vecchio Testamento, nel quale si legge che prima dell’Arca di Noè, «sulla terra c’erano i giganti» (Genesi 6:4), Picardt descrisse nel 1660 i costruttori degli Hunebedden come «giganti barbari, uomini di statura terrificante, di grande forza e capaci di crudeltà bestiali, che non temevano né Dio né gli uomini, ma che nacquero per condurre la razza umana alla perdizione». Negli anni Settanta del Novecento con il «mistero» si cimentò il presentatore televisivo olandese Frits 74 a r c h e o
Bom, il quale lo spiegò sostenendo che gli uomini del Neolitico si sarebbero serviti di comode tecniche di levitazione che l’uomo moderno, purtroppo, ha dimenticato... Piú prosaica, ma anche piú plausibile e ora generalmente accettata, è la teoria secondo la quale i primi Olandesi si impegnarono in uno sforzo titanico, trascinando i massi per vari chilometri verosimilmente servendosi di corde, avvalendosi della forza trainante dei buoi e sfruttando tronchi d’albero come una sorta di ruote.
Le pietre e la poetessa Originariamente, nel Drenthe si contavano oltre 100 Hunebedden, ma poiché i massi con cui furono costruiti, opportunamente ridotti in pezzi, formavano dell’ottimo materiale per la costruzione di chiese, strade e dighe, nel corso dei secoli gran parte di essi è andata perduta
per sempre. Oggi ne rimangono 54 (52 nella provincia di Drenthe e 2 in quella confinante di Groningen), 16 dei quali sono considerati in buono stato. Uno solo possiede ancora la copertura originale di ciottoli e terra, mentre gli altri si presentano come formazioni megalitiche imponenti, nude e curiose, nel paesaggio boscoso di Drenthe. Dal 1734 sono ufficialmente monumenti protetti (anche se in molti casi il provvedimento non è stato rispettato) e, dal 1870, tutti, tranne uno relativamente piccolo, sono proprietà statale. I primi scavi scientifici nel piú grande Hunebed olandese, vicino al paesino di Borger (18 km a sudest della città di Assen), si devono a una colta signora frisone, la poetessa Titia Brongersma, che li condusse nel 1685. La Brongersma, illuminata razionalista, non diede per scontata la spiegazione biblica
e cercò di ricostruire la vera storia dei megaliti locali. Nel suo «Inno all’Hunebed» elencò una serie di ipotesi: «Meravigliata sto guardando quest’ammasso di pietre / pare che i valorosi Unni / volessero creare un monumento / alla propria gloria. / Ma no! Sono sassi accatastati da giganti / onde combattere gli dèi (…) Sono piramidi o tombe / No, piuttosto templi della Natura». E, con un pizzico d’orgoglio sciovinista, la poetessa neo-archeologa aggiunse che, in ogni caso, i suoi amati Hunebedden si erano rivelati piú resistenti delle mitiche mura di Tebe.
In alto: l’ingresso di un Hunebed. Queste costruzioni megalitiche vengono interpretate come sepolture collettive o come sepolcri riservati ai personaggi di rango piú
elevato delle comunità. In piú di un caso, sono state accertate tracce di riuso che si spinge fino al I mill. a.C. In basso: ricostruzione dei probabili indumenti e degli accessori di un
gruppo di agricoltori neolitici vissuti nel Drenthe all’epoca della costruzione degli Hunebedden, cioeè nella seconda metà del IV mill. a.C. Borger, Hunebedcentrum.
Gli ultimi scavi Dopo queste successive prime indagini, le generazioni di archeologi olandesi dimostrarono scarso interesse per gli Hunebedden, fino a quando, nella prima metà del Novecento, Albert van Giffen (18841973) dell’Università di Groningen, noto come il «padre degli Hunebedden», intraprese un lavoro sistematico di inventariazione, scavi e restauro. In una decina di Hunebedden egli trovò migliaia di frammenti di ceramica, riferibili ai caratteristici bicchieri a forma d’imbuto, cucchiai con manico concavo (forse usati come «biberon»), brocche, fiaschiette, scodelle e secchi. Piú rari erano gli a r c h e o 75
scavi olanda dove e quando Hunebedcentrum Bronnegerstraat 12, Borger, Paesi Bassi Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 (nel fine settimana e in occasione delle festività l’apertura è posticipata alle 11,00) Info www. hunebedcentrum.nl
In alto, a destra: l’Hunebed di Emmen Schimmeres. Si tratta di un complesso unico nell’ambito dei «letti dei giganti», detto anche «Tomba lunga». Si compone di due piccole camere funerarie,
In alto: vasellame neolitico ascrivibile alla cultura del vaso imbutiforme e a quella del bicchiere
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campaniforme. IV-III mill. a.C. Borger, Hunebdcentrum. Qui sopra: ricostruzione di una struttura
megalitica realizzata nell’Hunebedcentrum di Borger, museo che opera anche come centro di studi sugli Hunebedden.
comprese all’interno di una struttura lunga 40 m circa, circondata da un anello di megaliti (in parte restaurati e riposizionati). A differenza di tutti gli altri Hunebedden a oggi noti, è orientato nord-sud.
oggetti come asce e punte di freccia, perle d’ambra e di rame. Gran parte di questi reperti è ora custodita nel Museo Provinciale di Drenthe, ad Assen, e nell’Hunebedcentrum di Borger, un bel museo, che sorse accanto all’Hunebed piú grande. L’ultimo scavo di un Hunebed olandese è stato eseguito nel 1968. Da allora, il suolo sottostante gli Hunebedden è stato «sigillato» per impedire scavi abusivi: dopo aver asportato uno strato di 10 cm di sabbia è stata collocata una lastra in cemento, poi ricoperta con la sabbia precedentemente rimossa, in modo da cancellare i segni dell’operazione. Il provvedimento è stato adottato perché si ritiene che nuovi scavi non aggiungerebbero granché a quel che già si sa e che è quindi preferibile preservare lo status quo, almeno fino a quando non si presentino scoperte o teorie veramente nuove. Gli archeologi olandesi, desiderosi di scoprire che cosa si trovi sotto un Hunebed, si vedono perciò costretti ad andare a scavare in Svezia, dove le regole della conservazione sono
zione in situ, dove possibile» del patrimonio archeologico. (European Convention on the Protection of the Archeological Heritage, Art. 5,VIII). «Il risultato è che ora non si fa piú archeologia attiva, ma solo reattiva. Non si lavora in base a un progetto di ricerca, ma ci si lascia guidare da fattori extra-archeologici: ormai si effettuano unicamente scavi d’emergenza, laddove si costruiscono nuove strade e case», sostieTra conservazione e ricerca ne Klompmaker. «Naturalmente La sua proposta ha suscitato reazioni occorre fare attenzione: una volta perlopiú negative tra gli archeologi scavato, il sito non tornerà mai coolandesi. «Scavare significa distrug- me prima. Ma ciò non deve essere gere», afferma il professor Daan Ra- un motivo per aspettare fino all’inemakers dell’Università di Gronin- finito. Io ho proposto di scavare un gen. Secondo lui gli oggetti lasciati Hunebed per ogni generazione, il dagli Hunebedbouwers (costruttori che significa che potremo andare degli Hunebedden) stanno bene dove avanti per altri mille anni. E mi stanno e, per ora, non ci sono mo- sembra sufficiente». tivi validi per giustificare ulteriori Secondo lo studioso, inoltre, vi è scavi. Anche perché di materiale da anche un motivo scientifico per studiare ce n’è già abbastanza, pro- scavare: «Qualche anno fa il proveniente dagli scavi, già eseguiti, di prietario di un’autofficina di Bor13 Hunebedden: «Tutti quei reperti ger mi ha consegnato alcuni reperti sono stati lavati e numerati, ma non che da ragazzo aveva preso illegalancora studiati. Cominciamo da mente dall’Hunebed, nel 1983, priquelli». Klompmaker è di tutt’altro ma che il monumento venisse sigilparere: «Qui si tratta di uno scontro lato. Erano frammenti di ceramica, tra archeologia di conservazione e ma anche resti di un cranio umano archeologia di ricerca. E, purtroppo, con tracce di bruciatura. Sottopoper ora prevale la prima visione». A nendoli all’analisi del C14, abbiamo suo giudizio, i colleghi «puritani» scoperto che risalgono al 950 a.C.: seguono un’interpretazione molto ciò significherebbe che piú di due restrittiva del Trattato di Malta del millenni dopo la loro costruzione 1992, che prevede «la conserva- gli Hunebedden erano di nuovo in
meno restrittive. Non tutti, però, approvano questa politica. Il direttore dell’Hunebedcentrum, Hein Klompmaker, sostiene, per esempio, che dopo 40 anni di stallo sarebbe ora di scavare un altro Hunebed. E il piú adatto sarebbe proprio quello accanto al museo, già visitato da Titia Brongersma piú di tre secoli fa, ma che, secondo Klompmaker, potrebbe ancora rivelare molte novità.
uso come sepolcri. L’archeologo, da buon «detective» del passato, dovrebbe indagare su una tesi come questa e cercare di scoprire chi fossero i nuovi utilizzatori del sepolcro, usando tecniche come l’analisi del DNA, delle quali 40 anni fa non disponevamo. Ma per poterlo fare bisogna prima scavare». E c’è poi un’altra ragione, ammette il direttore dell’Hunebedcentrum, che l’anno scorso ha attirato 100 000 visitatori. «È vero, anche lo scavo in sé potrà diventare un’ulteriore attrazione del mio museo. Già lo vedo davanti ai miei occhi: l’Hunebed coperto da una grande tenda blu, dentro la quale gli interessati possono seguire tutte le fasi dello scavo. E se, cosí facendo, otteniamo un ulteriore aumento delle presenze, ben venga. È meglio, però, non dirlo ad alta voce, altrimenti si viene subito etichettati come mercificatori del proprio patrimonio culturale!». Per ora le autorità provinciali stanno dalla parte dei «conservazionisti» e sono quindi contrarie a nuovi scavi. Ma Klompmaker non si rassegna. «Il dado è tratto. Ambedue le parti hanno espresso il loro punto di vista e la discussione va avanti. E, prima o poi, scaveremo!». Informazioni sugli Hunebedden (anche in lungua inglese) sono disponibili all’indirizzo http://members.home.nl/ jbmeijer a r c h e o 77
storia storia dei greci/7
di Fabrizio Polacco
L’eccezione
spartana
Una città abitata da poche migliaia di persone, isolata dal mondo: proprio da questa sua «magnifica solitudine», sembra che Sparta abbia tratto la forza necessaria per diventare una delle polis piú importanti della Grecia antica Busto in marmo tradizionalmente identificato come ritratto di Leonida, il re spartano divenuto celebre per l’impresa compiuta nel 480 a.C. alle Termopili, quando alla testa di soli 300 uomini, riuscí a tenere in scacco le armate persiane. L’opera raffigura, in realtà, un oplita ed è stata rinvenuta nei pressi del santuario di Atena Chalkioikos («dalla casa di bronzo»), sull’acropoli di Sparta. 480-470 a.C. Sparta, Museo Archeologico.
Sparta. Resti del teatro. La città sorse sul fiume Eurota, in una conca tra i monti Taigeto e Parnone.
Iloti, insieme ai vinti Messeni, li soverchiavano di numero nelle campagne circostanti la città, dove erano costretti alle fatiche dei campi in una condizione di vita che ricorda i servi della gleba del Medioevo. Gli Spartani, infatti, non vivevano del proprio lavoro, ma di un sistema di sfruttamento sociale creato tramite le guerre di conquista. La prima guerra, la piú antica – di cui non ci restano veri e propri resoconti – è quella che gli Spartani combatterono quando giunsero in Laconia, distaccandosi dal grosso degli altri migranti-invasori di stirpe dorica e sconfiggendone gli antichi abitanti, i discendenti degli Achei o Micenei, che, per l’appunto, furono poi trasformati in Iloti. Gli Spartani-Dori invasori (ma essi stessi si chiamavano Lacedemoni, e cosí talvolta faremo anche noi) si installarono, o, per meglio dire, si accamparono nella zona centrale a prima sensazione che si ha l’Eurota sfocia nei pressi del porto della piana dell’Eurota, in mezzo a piantagioni e fattorie coltivate da quando si arriva in Laconia e di Githion. ci si affaccia sulla valle in cui Oltre che naturalmente isolati dal servi che dovevano sempre essere sorse la potente Sparta è quella di resto della Grecia, per non dire del tenuti sotto controllo. una grande solitudine. La percepi- mondo, gli Spartani furono sempre sce soprattutto chi viene da occi- assai pochi, pochissimi, il che dovet- Senza acropoli, né difese dente, dopo aver attraversato i passi te infondere in loro anche un qual- Poiché, praticamente, convivevano rocciosi del Taigeto, un monte che che senso di precarietà. All’apice con essi, in mezzo a essi, e grazie per lunghi mesi si ammanta di nevi della loro potenza, in età arcaica, alle loro fatiche si sostentavano, non (è alto quasi 2500 m), impedendo furono non piú di otto-novemila avrebbe avuto molto senso per i di fatto il collegamento con la re- cittadini (intesi come maschi e dominatori arroccarsi in zone scogione del Peloponneso piú vicina, adulti, ché solo costoro avevano scese o cingersi di mura; e cosí, la Messenia. Ma anche sul versante diritto di cittadinanza, nel mondo contrariamente alla stragrande orientale la valle, in mezzo a cui antico), ma per gran parte del tem- maggioranza delle poleis greche, fluisce l’Eurota che bagna Sparta, è po furono non piú di due o tremila Sparta non ebbe una vera e propria chiusa da un parallelo massiccio guerrieri. Inoltre, piú che essere acropoli (del tipo di quella ateniese, montuoso, il Parnone, le cui vette circondati, letteralmente vivevano per intenderci), né un qualche altro in mezzo ai nemici. sfiorano i 2000 m. apparato difensivo, almeno fino Se si risale invece verso nord, lungo all’età ellenistica. L’unica possibile il corso del fiume, si scopre che le Guerre feroci e senza fine protezione dai peggiori nemici, che sorgenti sgorgano nella mitica di- Tali andavano considerati innanzi- stavano dentro, non fuori la città, fu mora del dio Pan, l’Arcadia: terra di tutto i Messeni, sottomessi con una quindi la pratica continua delle arboschi, di pastori e di lupi, in cui i serie di guerre feroci ed estenuanti mi, congiunta al fortissimo spirito monti si susseguono ai monti come combattute in un arco di ben due di corpo esistente tra i cittadini. ondate caotiche di roccia interval- secoli e mezzo. Questo conflitto for- (vedi box a p. 80). late da angusti altipiani. Da Sparta giò davvero il carattere degli Sparta- La tradizione ricorda Licurgo come non si arriva neppure a percepire la ni, che pure non riuscirono mai a colui che avrebbe dettato agli Sparpresenza del mare, che dista appena sottometterli definitivamente. Inol- tani le regole e i principi in base ai una trentina di chilometri, là dove tre, gli stessi schiavi della Laconia, gli quali vissero: è bene chiamarli gene-
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storia storia dei greci/7 la città e i suoi monumenti
Pianta dell’antica città di Sparta, con i monumenti piú importanti (vedi l’elenco in basso, a sinistra). Nella pagina accanto: una delle facce di un monumento piramidale raffigurante una delle coppie leggendarie della tradizione spartana, cioè quella formata da Menelao ed Elena. VI sec. a.C. Sparta, Museo Archeologico.
ricamente cosí e non «leggi», perché, per sua esplicita volontà, non furono mai scritte (anzi, vi era uno specifico divieto di farlo). La ragione di questa stranezza è semplice: si sapeva che anche le migliori norme scritte nel bronzo possono essere trasgredite o fraintese, se non semplicemente trascurate, anche quando si vorrebbe farle rispettare con pene severissime. Un sistema sociale tanto a rischio poteva reggere solo se si fondava su qualcosa di ben piú solido del timore inculcato dalle sanzioni nell’animo degli stessi dominatori.
Interiorizzare le norme E gli Spartani, che pure proprio attraverso la paura, anzi il terrore, si facevano obbedire dalle popolazioni asservite, non potevano certo fondarsi nei rapporti reciproci sulla mera obbedienza, vale a dire su un rispetto delle regole imposto solo esteriormente (vedi box a p. 85). Lo scopo del legislatore fu, al contrario, quello di inscrivere le norme del vivere civile nell’animo di tutti i cittadini, nel farle loro interiorizzare a tal punto da renderle efficaci e davvero indelebili. Perciò, se la paideia (la «formazione») ebbe sempre un altissimo posto in tutte le città greche, Sparta elevò il suo ruolo ai massimi livelli: anzi, si può affermare che riuscí grazie a essa a sostituire egregiamente le leggi scritte, e a trasformare cosí l’intera città in una sorta di comunità educante. Per rimanere uniti, forti e coesi in un ambiente ostile, si dovettero
legenda 1. Mura di età ellenistica 2. Mura di epoca tarda 3. Teatro 4. Santuario di Atena Chalkioikos («dalla casa di bronzo») 5. Stoà di età romana 6. Choros 7. Stoà di età persiana 8. «Tomba di Leonida» 9. Strada di Afeta 10. Santuario di Poseidone Tenario 11. Santuario di Artemide Orthia 12. Grande altare di Licurgo 13. Ponte di età antica 14. Terme romane 15. Antica necropoli
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guerrieri a tempo pieno Una volta, nel corso di una disputa tra eserciti alleati, le altre città del Peloponneso rivendicarono di avere condotto in armi un numero di guerrieri superiore a quello degli Spartani. Al che, il re di Sparta Agesilao invitò gli Spartani a sedersi tutti da una parte, e gli altri alleati da un’altra, e poi «ordinò all’araldo di far alzare quanti tra tutti fossero vasai. Quando questi furono in piedi, fece alzare i fabbri, poi i carpentieri, i muratori e cosí via gli altri artigiani. Presto si ritrovarono alzati quasi tutti gli alleati, ma tutti i Lacedemoni erano sempre seduti: era vietato infatti a Sparta esercitare o imparare qualsivoglia attività manuale. Agesilao allora sorrise e disse: “Visto, amici? Sono molti di piú i soldati che mandiamo noi di quelli che mandate voi!”».
stroncare sul nascere le discordie politiche interne, provocate da faziosità, invidie, rivalità reciproche. Per questo – altra anomalia rispetto alle altre classi dominanti non solo della Grecia classica, ma forse dell’intero mondo antico –, gli Spartani si imposero tutti un tenore di vita egualmente modesto. È però fuori strada chi ha visto in questo inconsueto stile di vita un comunismo ante litteram: ché anzi da nessuna parte come a Sparta la divisione in classi e lo sfruttamento dell’una sulle altre furono in vigore e rigidamente preservati; e la sobrietà in cui pur vivevano i padroni non
In alto (e nelle pagine successive): figurine in piombo, dal santuario di Artemide Orthia. VII-III sec. a.C. Sparta, Museo Archeologico.
liberi, ma esclusi Nell’organizzazione sociale di Sparta i Perieci («Abitanti dei dintorni») erano uomini liberi che risiedevano nelle cittadine minori e nei villaggi della Laconia (un centinaio circa), occupandosi di quelle attività artigianali e dei piccoli scambi il cui esercizio non era consentito agli Spartiati. Rimanevano tuttavia esclusi dal loro sistema educativo e non godevano di diritti politici, ma solo di quelli amministrativi e civili, come il governare i propri affari interni e il possedere terre coltivabili.
Gli Spartani basavano il proprio potere sull’esercizio del terrore fu certo indice di assenza di privilegi. L’uguaglianza, infatti, vigeva solo all’interno del gruppo dominante, per coloro che, piú che Spartani, dobbiamo chiamare Spartiati, cioè i discendenti dei conquistatori dori. Essi restavano nettamente distinti tanto dagli abitanti del Peloponneso asserviti, gli Iloti, quanto da quelli liberi, ma che pure non erano parte della élite dominante: i Perieci (vedi box in questa pagina).
Il privilegio della povertà In realtà gli Spartiati godettero sempre di un fondamentale, altissimo privilegio: quello di non dover lavorare, né per vivere, né per arricchirsi. E il conseguente rifiuto, anzi il divieto, di possedere o di ostentare lusso e ricchezze (loro che pure arrivarono a possedere ampi latifondi, estesi per circa la metà del Peloponneso), aveva due motivazioni ben fondate. La prima, era appunto il non voler innescare discordie o rivalità tra chi ne disponesse di piú e chi di meno. Tale preoccupazione si estendeva non solo agli oggetti o agli abiti, agli arredi o alle dimore (le loro case furono in genere poverissime), ma addirittura agli alimenti: fin da bambini questi potenti e bellicosi signori terrieri consumavano regolarmente pasti comuni (i cosiddetti fiditia) – a cui ciascuno contribuiva con una quota –, né raffinati né a r c h e o 81
storia storia dei greci/7 particolarmente abbondanti: una sorta di refettorio, da cui non era lecito assentarsi. Del resto, tutta la vita dello Spartiate si svolgeva nel gruppo dei «pari»; l’unico momento in cui poteva recarsi nella propria abitazione, una volta sposato e sempre che non fosse in guerra, era per trascorrervi qualche ora la notte.
Un sistema bloccato Il secondo motivo della imposizione della rinunzia alle ricchezze, fu una sorta di lungimiranza politica. Una estesa produzione di beni di lusso e di consumo avrebbe richiesto, infatti, l’opera di artigiani e mercanti, i quali, una volta arricchitisi grazie al proprio lavoro, avrebbero acquisito un potere economico tale, da rivaleggiare con le aristo-
crazie terriere e aspirare a una compartecipazione al potere. Fu questo in effetti il processo sociale che, proprio in età arcaica, andava svolgendosi nella maggior parte delle altre poleis. Rinunziando a usufruire di beni al di là di quelli necessari alla pura e semplice sopravvivenza, e ostacolando perfino la circolazione del denaro, il sistema spartano bloccò sul nascere ogni evoluzione in tal senso (vedi box a p. 83). E qui si giunge a una ulteriore particolarità della vicenda di Sparta. Abbiamo già osservato che la caratteristica generale del mondo ellenico fu il carattere mutevole, progressivo ed evolutivo delle istituzioni politiche delle città-stato. Ebbene, va aggiunto che tale varietà fu tanto ampia da contemplare perfino il
caso del tutto contrario, quello cioè in cui, una volta che una polis ebbe realizzato un certo sistema politico, lo consolidò e lo cristallizzò a tal punto da conservarlo pressoché immutabile per alcuni secoli. È proprio il caso di Sparta.
L’ordine e il segreto Eunomia (il «buon governo») o kosmos (l’«ordine»), furono i nomi con cui gli stessi Lacedemoni (e i loro estimatori: ne ebbero molti, in quasi tutto il mondo ellenico) solevano definire il proprio regime politico, per sottolinearne l’eccellenza e la raggiunta perfezione. Come si è detto, lo attribuivano all’opera di un unico personaggio, Licurgo, la cui biografia era però messa in dubbio dagli stessi storiografi antichi.
Al contrario Atene, con i suoi oratori, storiografi e filosofi, ci si offre allo sguardo come un libro aperto. Ma tra gli Spartiati non vi furono scrittori, né pensatori, poiché la loro formazione intellettuale, che pure coltivarono, era affidata unicamente alla poesia, al canto e alla danza (vedi box a p. 84). E quindi quelle pagine che avrebbero potuto raccontarci Sparta dal suo interno restano per noi irrimediabilmente chiuse, non furono neppure mai scritte. Anzi, parte del fascino della città era accentuato dalla sostanziale segretezza che ne avvolgeva gli usi e le pratiche di vita. I quali, va detto, erano fatti apposta per incuriosire, se non per scandalizzare, tutti gli altri
Oggi non possiamo neanche dire se sia esistito davvero, e comunque non a lui si potrebbero attribuire in blocco tutti gli istituti e i costumi del modo di vivere laconico; i quali però, giunti a un certo punto del loro sviluppo, sicuramente si consolidarono e si fissarono, rendendo quello di Sparta un modello di conservazione politica assai ammirato. In realtà, ben pochi tra i non Lacedemoni potevano affermare di conoscerne davvero il funzionamento, poiché Sparta era chiusa agli stranieri, li ospitava solo in determinate occasioni e brevemente, poteva espellerli per qualsiasi motivo e, comunque, non li accoglieva nella cittadinanza. A sinistra: Licurgo detta le sue leggi agli Spartani. Incisione di Bartolomeo Pinelli. 1825. A destra: bronzetto di figura femminile, da Sparta. Produzione laconica, 460 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
A destra: statuetta in bronzo di Atena. Produzione laconica, 460 a.C. circa. Sparta, Museo Archeologico.
una moneta davvero «pesante» Pare che Licurgo avesse disposto di eliminare le monete d’oro e d’argento dalla Laconia per sostituirle con altre in ferro. Nell’antichità il valore del denaro non era convenzionale, ma dipendeva dal valore intrinseco del materiale con cui era battuto; quindi, dopo tale disposizione, per arrivare a possedere cifre sensibili si dovevano maneggiare enormi quantità di metallo, praticamente impossibili da tesaurizzare, da trasportare o da nascondere. Il ferro inoltre veniva perfino privato della tempra per renderlo indisponibile ad altri utilizzi. a r c h e o 83
storia storia dei greci/7 Greci. La principale di queste scandalose abitudini fu la libertà di cui godevano le donne spartane. Furono le sole, in tutto il mondo greco, a non dover vivere relegate in casa, per dedicarsi alla prole e alle altre faccende domestiche.
Come cavalle «dalle belle caviglie» La scelta dello Stato di crescere i giovani in comune, fuori dalla famiglia, a partire dai sette anni di età, e di condurli a vivere nelle comitive
dette «aghelai» (greggi), liberava le madri dalla loro principale incombenza. Non che il ruolo materno fosse sottovalutato, anzi, ma si riduceva al divenire sane e prolifiche fattrici: per questo le donne erano tenute a svolgere, al pari dei loro coetanei maschi, una intensa pratica sportiva. In una tenuta atletica che nelle altre città sarebbe stata considerata intollerabilmente «discinta», o addirittura completamente nude (il poeta Alcmane le paragona in un suo carme a eleganti cavalle «dalle belle caviglie» in corsa), le giovani si allenavano, lottavano, si esercitavano per rendersi adatte a generare figli sani e robusti. Poi, appena i futuri dominatori nascevano, erano sottoposti a un attento esame da parte degli Anziani; quelli evidentemente malformati o deboli venivano esposti senza pietà in un dirupo del monte Taigeto. L’eccezione di Sparta non consiste tuttavia nella pratica in sé, che anzi dovremmo supporre diffusa in tutto il mondo antico: il quale, un po’ per la costante scarsità di risorse disponibili, un po’ per la diversa considerazione che ebbe della esistenza umana in quanto tale, non concepiva di mantenere chi era incapace di provvedere a se stesso. L’eccezionalità sta piuttosto nel fatto che la scelta veniva sottratta al padre di famiglia e affidata ai rappresentanti della comunità, cioè era in qualche modo «istituzionalizza-
ta». Il bene comune era anteposto all’arbitrio individuale. La stessa educazione collettiva dei ragazzi era finalizzata a renderli disciplinati e morigerati, e contemporaneamente spregiudicati e feroci. Erano sempre sorvegliati e controllati; quando ciononostante trasgredivano, per esempio rubando del cibo, venivano puniti solo se scoperti, ma elogiati se c’erano riusciti senza esserlo.
Per la padronanza di sé Venivano sottoposti a fatiche e a privazioni, ma queste erano finalizzate a un controllo e a una padronanza di sé che ne facevano dei freddi dominatori. Di regola intrattenevano con i loro educatori rapporti omosessuali; ma poi, una volta pienamente adulti, erano costretti a sposarsi e a fare figli, se volevano
una città poco «spartana» Nonostante il significato oggi assunto anche nel linguaggio corrente da aggettivi quali «spartano» o «laconico», occorre ridimensionare l’idea che la vita a Sparta fosse particolarmente tetra o austera. Innanzitutto, gli Spartiati erano spesso impegnati in danze, feste, banchetti, cacce, attività sportive. Il poeta Pindaro celebra cosí la città: «Là, primeggiano i saggi pareri degli anziani, e le lance dei giovani guerrieri, e poi le danze, e i canti, e Gioia divina». Inoltre, Plutarco riferisce che «i giovani si abituavano a scherzare e a burlarsi senza essere volgari, e a lasciarsi prendere in giro senza risentirsi». A tal punto che Licurgo avrebbe innalzato «una piccola statua al dio Riso, introducendo lo scherzo, pur nelle dovute maniere, nei pasti in comune e negli altri ritrovi simili, per addolcire le fatiche dello stile di vita».
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la guerra annuale contro gli schiavi A Sparta, ogni anno, i magistrati dichiaravano guerra agli Iloti, indipendentemente dal fatto che questi si ribellassero o meno. Inoltre, la notte venivano sguinzagliati tra le campagne i piú giovani tra i guerrieri, quelli che svolgevano ancora il periodo di apprendistato, e li armavano di soli pugnali perché tendessero agguati agli Iloti eventualmente sorpresi all’aperto e li uccidessero. Tale pratica, detta krypteia («ciò che si fa di soppiatto»), aveva il duplice scopo di far vivere nel terrore gli schiavi e di abituare gli Spartiati a dare e a rischiare la morte. A sinistra: particolare della decorazione di una hydria laconica con scena di combattimento fra Deinomachos (a destra) e Archilochidas. 555-550 a.C.
evitare ammende e discriminazioni. Anche qui, la differenza con le altre poleis non sta tanto in tali rapporti, diffusissimi nel ceto aristocratico ellenico, quanto nel fatto che qui fossero formalizzati e quasi istituzionalizzati dalla polis. Le donne, in quanto straordinariamente libere, non solo non erano considerate proprietà del marito, ma potevano ereditare e possedere in proprio dei beni: tanto che spesso e volentieri gli altri Greci accusavano gli Spartani di farsi comandare da loro. Né veniva tollerata la gelosia maschile: era anzi previsto, almeno a leggere quanto ci riporta Plutarco nella sua celeberrima Vita di Licurgo, che un marito ormai in là con gli anni concedesse alla moglie di unirsi a uno Spartiate piú giovane e aitante, per farle generare altri figli sani e robusti da offrire alla città. Altra particolarità di Sparta fu il sistema politico e istituzionale. La città conservò sempre la monarchia: ma meglio sarebbe chiamarla diarchia, poiché i re furono due, appartenenti alle famiglie doriche discendenti dai mitici figli di Eracle, Agiadi ed Euripontidi. Guidavano l’esercito in battaglia, celebravano i sacrifici e poco piú. Ma ciò non impedí ad alcuni di essi, dotati di forte personalità, di imporre allo Stato una propria linea politica. Entrambi appartenevano di diritto al Consiglio degli Anziani, detto Ghe-
rusia, composto in totale di 30 membri di piú di sessant’anni. A parte i re, il cui ruolo era ereditario, gli altri 28 consiglieri venivano eletti dall’assemblea degli Spartiati, chiamata Apella. Questa poteva sceglierli per acclamazione, e inoltre decidere se accogliere le proposte e i provvedimenti che i gheronti o gli altri magistrati le sottoponevano; non poteva tuttavia modificarli né contrapporne di propri.
Potere in equilibrio Con l’andar del tempo, un collegio di cinque «efori» (potremmo tradurre «ispettori»), scelti sempre dall’Apella, acquisí notevoli poteri, sia giudiziari che esecutivi, che arrivavano fino alla facoltà di porre sotto processo o addirittura destituire i re. Come si vede dai rapidi cenni, si trattava di un sistema politico «misto», composto da elementi monarchici, oligarchici e democratici. Un vero kosmos, del resto, non poteva che tendere a un sostanziale equilibrio, anche tra le varie forme di governo. Nel complesso, questo straordinario e singolare meccanismo che fu la Sparta di età arcaica e classica funzionò. Militarmente, le conquiste territoriali si arrestarono una volta sottomessi i Messeni e ridimensionate le potenze rivali vicine, come gli Arcadi e soprattutto gli Argivi. Costituito con gli abitanti delle re-
Rodi, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: bronzetto raffigurante un atleta vittorioso, da Sparta. 460 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
gioni piú prossime un sistema di alleanze detto «Lega Peloponnesiaca», la città a lungo non manifestò ulteriori mire espansionistiche. Soddisfatta di sé, dotata del necessario per vivere, si chiuse in un suo compiaciuto ideale di perfezione. Intervenne al di fuori del Peloponneso solo per appoggiare o imporre regimi politici a sé affini, se chiamata in causa dagli alleati, oppure se apertamente minacciata. È giusto ricordare che non solo alla brillante e audace Atene, ma anche alla tetragona e tenace Sparta va il merito di avere respinto i tentativi dell’impero persiano di sottomettere la Grecia intera. E che la guerra fratricida che vide poi combattere fino all’esaurimento le due piú celebri e potenti città-stato greche fu sostanzialmente provocata dalla democratica Atene, ma vinta (a carissimo prezzo) dalla militaresca Sparta. Ma questa è un’altra storia. (7 – continua) le puntate di questa serie Questi gli argomenti dei prossimi capitoli di questa storia dei Greci: • L’avanguardia ionica e la scommessa attica • Tra tirannidi e democrazie • Le guerre persiane • La democrazia navale di Atene • L’età di Pericle • La guerra tra Sparta e Atene a r c h e o 85
papi suri? Città dei o del dio
di Paola Di Silvio
L’importanza assunta da Viterbo nel Medioevo ha fatto sempre passare in secondo ordine gli studi relativi alle fasi piú antiche della sua storia. Con alcune eccezioni che aprono una finestra sul passato etrusco della città 86 a r c h e o
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ella seconda metà del Quattrocento il Domenicano viterbese, Giovanni Nanni, che aveva latinizzato il suo nome trasformandolo in Annio, aveva cercato di dare gloria e lustro alla propria città, facendone risaltare le antiche origini. Nei suoi Commentari, l’erudito umanista, che contribuí in maniera decisiva alla nascita del «mito etrusco», appoggiandosi su testi spesso apocrifi e su documenti epigrafici e archeologici, tra cui alcuni falsi di cui organizzava sapientemente la «scoperta», propose un improbabile intreccio tra genealogie bibliche, miti greci e la civiltà etrusca, che, proprio in quegli anni, cominciava a suscitare l’interesse degli studiosi. La teoria anniana attribuiva la fondazione del primo nucleo di Viterbo a Noè, che avrebbe costruito
La piazza di S. Lorenzo con la cattedrale e il Palazzo dei Papi, sede pontificia nella seconda metà del XIII sec. Incisione tratta da Istoria della città di Viterbo di Feliciano Bussi. 1741. Qui sarebbe da collocare l’acropoli della città etrusca di Surina, nonché il leggendario Castrum Herculis, sede di un tempio pagano dedicato all’eroe, il cui culto, spesso legato a sorgenti e manifestazioni termali, sostituí nel tempo quello del dio infero Suri.
A sinistra: Viterbo. La Tomba del Portale (V sec. a.C.), nella necropoli etrusco-romana di Poggio Giudio, che occupa una collina a ovest del Colle del Duomo. Il toponimo si deve al particolare utilizzo dell’area in epoca medievale, quando venne destinata alla sepoltura degli Ebrei. Il materiale rinvenuto nella necropoli documenta la frequentazione del sito già in età tardo-arcaica (fine del VI sec. a.C.), e la vitalità dell’insediamento di Surina soprattutto nella fase ellenistica (IV-II sec. a.C.).
Al centro: base in peperino di un probabile cippo funerario, con iscrizione etrusca graffita, riconducibile a una formula onomastica. L’iscrizione, datata al V sec. a.C., risulta essere la piú antica testimonianza epigrafica dell’abitato di Sorrina Nova. A destra: Viterbo. Ponte del Duomo, resti della spalletta di un ponte romano del II sec a.C. che consentiva l’accesso all’arce di Surina, superando l’antica tagliata difensiva, corrispondente all’attuale via S. Antonio.
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storia etruria dei misteri/3
quattro castelli, dai suggestivi nomi di Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula, la mitica Tetrapoli viterbese, il cui acrostico, FAVL, comparve a lungo nell’araldica cittadina. Anche il Fanum Voltumnae, il luogo piú sacro d’Etruria, dove ogni anno si riunivano i capi della Dodecapoli, per prendere le principali decisioni di natura politica e celebrare le cerimonie piú significative, veniva collocato dal fantasioso studioso nel 88 a r c h e o
territorio di Etursia, nome con cui Regia (1588), nel Palazzo dei Prioindicava l’originaria Viterbo. ri, furono ancora una volta le sue teorie a essere affrescate e immortalate. Occorrerà attendere il XIX Fantasie a lungo secolo perché le erudite discussioni assecondate Le argomentazioni anniane appaga- teoriche lascino il passo a piú serie vano l’orgoglio cittadino ed ebbero indagini storico-topografiche. per molto tempo largo seguito, al Purtroppo, il ritardo nell’avvio di punto che, nella seconda metà del studi rigorosi e scientifici e, sopratXVI secolo, quando si pose mano tutto, l’esiguità, se non la totale alla decorazione pittorica della Sala assenza, di sistematiche attività di del Consiglio (1559) e della Sala scavo, hanno determinato una la-
gustea e il II secolo a.C., ritrovate nel comprensorio viterbese. Dal nome latino si può risalire a un toponimo etrusco, che per motivi linguistici dovremmo rendere come Surina, e forse, per una fase piú recente, Surna. Si tratta di un nome teoforico, ossia derivato da una divinità, Suri, a cui è stato aggiunto il suffisso aggettivale -na, e quindi traducibile come «la città di Suri». Divinità quest’ultima a carattere ctonio, sotterraneo (vedi «Archeo» n. 305, luglio 2010), ampiamente documentata in Etruria, e legata alle molte manifestazioni termali della zona. A Suri era dedicato un culto di tipo
A sinistra: pianta della città di Viterbo. 1564-1609. Viterbo, Biblioteca Comunale degli Ardenti.
cuna documentaria che pesa ancora sullo stato attuale della ricerca, contribuendo a rendere le prime fasi di vita di Viterbo uno dei capitoli piú controversi di tutto il processo storico dell’Etruria meridionale. Per trovare il proverbiale bandolo della matassa, proviamo a partire da un nome di città, un poleonimo latino, Sorrina Nova, attestato da alcune iscrizioni, datate tra l’età au-
oracolare, comprovato dal ritrovamento, proprio nel territorio viterbese, di una sors cleromantica, una lastrina rettangolare di bronzo fuso (10 x 1 cm) con incisa una breve iscrizione, in cui compaiono il nome del dio e un aggettivo che ne qualifica i poteri. La lastrina, attribuibile al IV-III secolo a.C., oggi conservata al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma, era usata per conoscere il futuro e la volontà divina.
L’arce sul Colle del Duomo Ma dove sorgeva la sacra città di Surina, il cui territorio doveva essere a tal punto caratterizzato dalla presenza di acque calde, vapori ed esalazioni sulfuree, da impressionare i primi frequentatori che videro in ciò la manifestazione magica e misteriosa di un dio? Sembra ormai accertato che sul Colle del Duomo, dove nel Medioevo furono edificati la cattedrale di S. Lorenzo e il Palazzo dei Papi, sorse, già in età arcaica, un insediamento etrusco, con caratteristiche orografiche ideali e tipiche degli abitati di questa regione. Si tratta di un’arce di tufo, assimilabile per dimensioni – poco piú di quattro ettari –
Vaso in bucchero a forma di gallo, da Viterbo. Fine del VII sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art. Il reperto testimonia la precoce acculturazione del comprensorio viterbese, recando incisa la sequenza di lettere dell’alfabeto etrusco, nella sua forma piú arcaica. La pregevole qualità del manufatto sembrerebbe indicarne la provenienza da una bottega dell’Etruria meridionale.
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storia etruria dei misteri/3 a un’acropoli, la cui difesa era garantita dalle valli di erosione dei fossi Urcionio e Paradosso, e, sul lato orientale, da un imponente fossato artificiale. Nel 1933, lavori di abbassamento del piano della piazza del Duomo portarono alla scoperta di tratti di muro, realizzati con blocchi di peperino e attribuibili a una cinta difensiva. Nel corso degli anni, importanti e occasionali rinvenimenti hanno confermato quella che tra gli eruditi locali circolava da tempo come una suggestiva ipotesi, ossia che il cuore della Viterbo medievale avesse ospitato un centro
etrusco a cui fece seguito, senza apparenti cesure, una fase romana, anche questa documentata da recuperi di fregi marmorei, iscrizioni, frammenti ceramici. I resti di un antico ponte in opera quadrata (databile alla piena età repubblicana, II secolo a.C.), visibili presso l’attuale Ponte del Duomo, sembrano confermare questa continuità di frequentazione.
Il «castrum» di Ercole C’è poi una tradizione, già riportata dai cronisti viterbesi, che fa riferimento a un Castrum Herculis, localizzato proprio sul Colle del
Duomo, che renderebbe possibile e suggestiva l’ipotesi di un luogo di culto dedicato a Ercole, divinità assimilabile per certe sue caratteristiche al Suri etrusco. Il culto sarebbe testimoniato anche da un’iscrizione latina ritrovata sul colle, di cui però non è certa l’autenticità. Piú attendibile e comprovante è invece la notizia riportata negli Acta Martyrum, che, a proposito dell’apostolato del sacerdote Valentino e del diacono Ilario, patroni della città, riferiscono che ai due martiri fu ordinato di abiurare facendo sacrifici al «deo magno Herculi quem principes adorant», che evidentemente nel IV
Sul Colle del Duomo, dove nel Medioevo sorsero la cattedrale e il Palazzo dei Papi, esisteva, in epoca arcaica, un insediamento etrusco Viterbo. Veduta della piazza di S. Lorenzo.
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secolo aveva ancora un culto pagano in quei luoghi. Anche le necropoli assegnabili al nucleo insediativo sul Colle del Duomo, in particolare quelle di Poggio Giudio e Poggio Giulivo, che occupano l’area collinare a ovest dell’attuale città, hanno rivelato una frequentazione pressoché ininterrotta dalla tarda età arcaica – il materiale piú antico è di poco posteriore alla metà del VI secolo a.C. – fino all’età imperiale. I corredi recuperati indicano un periodo di vitalità del centro tra il IV e il III secolo a.C., caratterizzato da un costante e preferenziale rapporto con Tarquinia, a cui Surina era legata politicamente, pur manifestando notevoli apporti dall’area falisca.
Aristocratiche presenze Dalla documentazione archeologica emerge che questo centro dell’entroterra faceva parte a pieno titolo della koinè culturale che, dalla metà del IV secolo a.C., accomuna, nell’Etruria meridionale interna, centri come Tuscania, Musarna, Castel d’Asso, Norchia, sorti a supporto di uno sfruttamento agrario intensivo della zona soprattutto da parte delle aristocrazie tarquiniesi, ma non solo, dal momento che tra le famiglie gentilizie di Surina è attestata anche la presenza dei Cilna. Di questa famiglia, il cui ramo principale era ad Arezzo, e dal quale discese poi, nel periodo augusteo, il
famoso Mecenate, nella necropoli di Poggio Giulivo sono state ritrovate due tombe (III-II secolo a.C.), con sarcofagi e iscrizioni. Sin qui, quanto documentato e in parte ipotizzato in relazione alla fase etrusca dell’insediamento. Potrebbe stupire il relativo ritardo dello sviluppo del centro preromano, avvenuto intorno alla seconda metà del VI secolo a.C., senonché recenti indagini condotte tra il monte della Palanzana e il limite sudorientale del capoluogo hanno consentito di chiarire questo aspetto. Al di sopra del pianoro naturalmente difeso di Montepizzo, nelle immediate vicinanze di Viterbo, sono stati scoperti resti relativi a un insediamento, databile tra la tarda età del Bronzo e il VI secolo a.C., in cui con ogni probabilità vanno riconosciute le fasi piú arcaiche di Surina. A questo punto tutto sembrerebbe abbastanza chiaro. Ma i dubbi e le perplessità nascono nel momento in cui ci si chiede in che rapporto sono da porsi Surina etrusca, che l’indagine archeologica è sempre piú orientata a collocare sul Colle del Duomo, e Sorrina Nova, romana, documentata dalle epigrafi di età imperiale. Si tratta di uno stesso abitato o piuttosto di due realtà insediative distinte? Intorno alla metà dell’Ottocento, l’archeologo viterbese Francesco Orioli, sulla scorta di documenti medievali e perlustrazioni nei din-
Resti di muratura in opera quadrata di peperino su via S. Lorenzo, al centro di Viterbo. In occasione dei lavori di risistemazione della via, che hanno determinato l’abbassamento del piano stradale, sono riemersi, nelle fondazioni degli edifici che introducono alla piazza (Seminario Vescovile ed ex Ospedale degli Infermi) alcuni filari di un muro che si ritiene pertinente alla cinta dell’etrusca Surina.
torni della città, giungeva a localizzare l’insediamento romano di Sorrina Nova su un pianoro tufaceo in contrada Riello, posto un chilometro e mezzo circa a nord-ovest del Colle del Duomo. L’Orioli afferma che «sulla spianata trovansi pezzi d’antica cospicua fabbrica, e rottami laterizi, o tritumi di cementi, che gremiscono l’ampia superficie» e aggiunge che si potevano vedere nei pressi di una casa colonica «i marmorei frammenti di una statua con panneggiamento romano, che so esservi trovata facendo buche per piantaggioni». Riguardo la città romana, i testi epigrafici forniscono poche notizie.
Il municipio romano Divenuta probabilmente municipium romano dopo l’87 a.C., entrò a far parte della tribú Stellatina. Dalle iscrizioni apprendiamo che era dotata di un macellum (mercato) e di terme. Nessuna indagine archeoloa r c h e o 91
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Sorrina Nova, resti di costruzioni di età romana. La città è tradizionalmente ubicata su una collina in località Riello, a poco piú di un chilometro, in direzione ovest, da Viterbo. Il pianoro, di circa tre ettari, non è mai stato oggetto di indagine archeologica. Nell’area, disseminata da blocchi di peperino e travertino con segni di lavorazione, sono visibili resti di strutture murarie, cunicoli, tombe, e su tutta la superficie si rinvengono frammenti ceramici. Nel 1880 un erudito locale affermava che i resti della città erano «di stile tutto romano, dei buoni tempi dell’impero, costruzione accuratissima laterizio-mista», aggiungendo che era ancora visibile un diverticolo basolato che si staccava dalla Cassia, nei pressi del Ponte Camillario, ed entrava in città, attraversandola per tutta la sua lunghezza. Probabilmente a questo decumano sono da riferire i numerosi basoli divelti che si incontrano su tutto il pianoro. Di particolare interesse risulta, al centro della collina, un’area pavimentata con lastre di peperino, che una suggestiva lettura vorrebbe pertinente a un macellum (mercato) documentato per Sorrina Nova da una epigrafe.
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gica è stata condotta sul pianoro indicato dall’Orioli come probabile sede del centro romano, che si presenta oggi coltivato a frutteti e oliveti, e che rivela ancora a ogni passo interessanti testimonianze archeologiche, che attendono una approfondita e attenta valutazione.
Le Grotte di Riello Del resto tutta la zona delle colline del Riello, nel cui settore occidentale viene localizzata Sorrina Nova, ha restituito testimonianze inequivocabili di assidue e consistenti frequentazioni, anche in epoca anteriore alla conquista romana, che risalgono alla fine dell’età del Bronzo. In particolare, nell’ambito piú orientale del complesso, in prossimità del sistema di cunicoli noto come «Grotte di Riello», sono stati recuperati materiali fittili cronologicamente compresi tra l’età protostorica e quella ellenistica, che farebbero ipotizzare un originario uso sacrale di quegli ambienti ipogei e un culto legato alla presenza di acque sorgive. Recenti studi topografici consentono di ipotizzare che in queste colline sia esistito un abitato già nella
fase protostorica, sviluppatosi poi nel corso del VII e VI secolo a.C., di dimensioni piú ampie rispetto allo stesso centro sorto sul Colle del Duomo. Questa lettura è anche suffragata dall’esistenza di numerosi nuclei sepolcrali disseminati lungo i fianchi dei modesti rilievi tufacei che si dispongono parallelamente al corso del torrente Riello, da secoli oggetto di scavi clandestini, ma mai scientificamente indagati. Dobbiamo perciò ipotizzare che la Surina preromana fosse una realtà insediativa piuttosto complessa, costituita da un insieme di villaggi, sorti in funzione dello sfruttamento agricolo del territorio, nelle immediate vicinanze di un centro con funzione di «acropoli», localizzato tradizionalmente sul Colle del Duomo. Per tutta la durata della civiltà etrusca le scaturigini termali sembra siano state lasciate in totale e religioso rispetto, fruite senza manomissioni legate alla costruzione di apprestamenti stabili per l’uso terapeutico delle acque. Solo la casa del dio, legato a quelle manifestazioni sorgive, poteva essere innalzata nelle adiacenze senza temere una profanazione dei luoghi.
In alto: i resti delle antiche terme romane del Bacucco, a Viterbo. A sinistra: la pianta e il prospetto delle terme, disegnati da Michelangelo.
le terme create da ercole
Ma il civis romanus trasformò questi ambiti sacri in ritrovi salutari e ameni, avviando una loro graduale strutturazione, che possiamo definire «termale», nel senso romano e anche moderno del termine. Nel comprensorio furono costruiti ben 15 impianti termali, alcuni dei quali di notevoli dimensioni e con ricchissimi apparati decorativi, che raggiunsero grande fama e notorietà, testimoniata dagli autori latini.
Viterbo, la Vetus Urbs La via Cassia, nel II secolo a.C., toccò sistematicamente tutti questi impianti, intorno ai quali cominciarono a gravitare anche alcune ville romane, che probabilmente sfruttavano già per uso privato le calde acque delle vicine sorgenti. Si può supporre che in questa nuova situazione sia stato favorito lo sviluppo, edilizio ed economico, del pianoro piú prossimo alla zona termale, a controllo di un sistema viario che si diramava dalle vie Cassia e Cimina. Sorrina Nova, in contrada Riello, si sarebbe pertanto evoluta come centro di servizi, frutto in parte di interventi di evergetismo, come documentato dal materiale epigrafico.
«Quale del Bulicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatici / tal per la rena giú sen giva quello» (Inferno XIV, 79-81). Ancora oggi, nei pressi della sorgente del Bullicame, forse la piú celebre di Viterbo, una stele riporta questi versi della Divina Commedia. È la descrizione del fiume Flegetonte, e la similitudine con il Bullicame serve a dare un’idea del calore e dell’odore di zolfo che esce dal ruscello infernale. Narra la leggenda che Ercole, di passaggio nell’Etruria, fosse sfidato dai locali a dare prova della sua forza straordinaria. L’eroe conficcò in terra un enorme palo che solo lui riuscí a estrarre: dal cratere lasciato nel terreno scaturí dell’acqua bulicante, e quel prodigio portò alla creazione della principale sorgente del bacino termo-minerale viterbese. Secondo la tradizione, per riconoscenza, la città di Viterbo inserí il leone, simbolo di una delle fatiche dell’eroe, nello stemma cittadino. Le origini delle terme di Viterbo si perdono dunque nel mito. I benefici terapeutici legati a queste acque, già noti agli Etruschi, furono sistematicamente sfruttati dai Romani, che costruirono intorno alle numerose sorgenti lussuosi edifici che, fino a tutta l’età imperiale, resero il suburbio viterbese un polo di notevole attrazione per il patriziato romano. Gli stabilimenti sorsero tra il II e il III secolo d.C., e di alcuni di loro si sono conservati imponenti resti, che caratterizzano la campagna viterbese. Il piú monumentale è sicuramente quello noto come «Terme del Bacucco», i cui ruderi sono collocati presso una collina di concrezioni calcaree che testimoniano l’antica presenza di una sorgente sulfurea. Dai resti è possibile ricostruire una sala a pianta ottagonale, coperta in origine da una volta a crociera. Durante gli scavi del 1835, furono rinvenuti all’interno preziosi mosaici e alcune sculture di marmo, attualmente conservate al Louvre.
L’insediamento sul Colle del Duomo passò in secondo piano rispetto alla nuova realtà urbana, ma continuò a conservare la sua funzione di «sacra acropoli», con il tempio dedicato a Ercole. Proprio in questo luogo secoli piú tardi, crollata la potenza di Roma, per sfuggire al devastante dilagare dei popoli bar-
barici, gli abitanti della zona tornarono a cercare riparo, su quel castrum naturale che in riferimento all’antichità dei luoghi cominciò probabilmente a essere indicato come la Vetus Urbs, denominazione da cui, secondo una accreditata ipotesi etimologica, derivò lo stesso nome di Viterbo. a r c h e o 93
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I Il signore dei boschi di Massimo Vidale
Animale potente e misterioso, dal portamento nobile e affascinante, sin dalla preistoria il cervo ispira il pensiero simbolico e magicoreligioso dell’uomo. Fino ad associarsi, in epoca storica, alla stessa figura del Cristo
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suoi antenati, subito prima che l’uomo anatomicamente moderno accelerasse improvvisamente la trasformazione di questo pianeta, erano stati cervi enormi, simili ad alci possenti, con una caratteristica prominenza a forma di gobba sopra le spalle ed enormi palchi dalle molte punte, larghi fino a tre metri e mezzo, simili a mani deformi dai grandi artigli spalancati. Gli ultimi esemplari dei grandi cervi della preistoria sono ancora ritratti, in corsa e immersi nelle correnti fluviali, in alcune pitture parietali del Paleolitico Superiore di Francia e Spagna (30 000-15 000
a.C. circa). Un grande, nobile animale, spietatamente cacciato sin dai primordi dell’umanità, sfruttato per la sua carne, la sua pelle, le corna e persino le ghiandole; una creatura affascinante e quasi soprannaturale, capace di convogliare su di sé le piú vaste associazioni simboliche. L’utile, quasi portato alle sue ultime e materialissime conseguenze, e le estreme, arbitrarie ramificazioni del fantastico. Potremmo partire proprio da quest’ultimo «corno del dilemma». Animale selvatico per eccellenza, proprio come i bovini incarnavano la domesticazione, il cervo animava
i mondi marginali delle boscaglie, dei laghi, e delle steppe euroasiatiche. La sua figura, nel mondo antico, fu costantemente stagliata nel divino. Divinità antropomorfe dalle grandi corna compaiono nelle incisioni rupestri della Valcamonica (III-II millennio a.C.), a lato di immagini di cervi, immobilizzati a schiere in corse irreali.
Triplice personalità Aveva corna di cervo il dio gallico Cernunnos, forse proprio «quello dalle grandi corna», divinità dai contorni molto incerti, che veniva raffigurata con multipli collari di
metallo prezioso, seduta a gambe incrociate. La sua personalità era triplice: uomo, dio e bestia, e, per complicare le cose, a volte era raffigurato con tre teste umane, come alcune creature mostruose delle antiche mitologie indo-europee. Lo accompagnavano i cervi, ma anche grandi serpi con ritorte corna di ariete. Una dicotomia radicale, dato che numerose tradizioni leggendarie avrebbero in seguito identificato nel cervo il nemico mortale del serpente: per questo, nel nobile quadrupede si celava la prodigiosa pietra bezoar, capace di guarire ogni veleno, proprio come il rettile ospitava nel cranio liquide iniezioni di morte. Ma è anche possible che le serpi, attorno al dio celtico, simboleggiassero solo la resurrezione e la rinascita. Considerato un potente «signore degli animali» e dio della caccia, Cernunnos è, in realtà, chiamato con questo nome solo in pochissimi monumenti, tra i quali un’iscrizione lasciata dai «marinai dei Parisi» (una antica tribú gallica), tracciata sotto il regno di Tiberio. Il nome compare sopra la testa di una divinità barbuta, calva, con corna e orecchie di cervo. In un rilievo gallico, Cernunnos nutre da una ciotola due serpi cornute.
Serpenti e ruote solari Alcuni rilievi e statuette rinvenuti in territorio gallico avevano incassi per corna staccabili; forse le corna erano messe e staccate dalla testa divina con il volgere delle stagioni, proprio come il cervo, dopo aver messo le corna in primavera, le perde in autunno. In una immagine britannica, il dio, al posto delle Il dio gallico Cernunnos dalle corna di cervo, con un serpente dalla testa di ariete in mano, circondato da animali reali e fantastici. Particolare di un pannello in argento del Calderone di Gundestrup, dallo Jutland (Danimarca). Fine del II-I sec. a.C. Copenaghen, National Museum.
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Figura di Cervide, da Alaca Hüyük (Anatolia). III mill. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.
A destra: Artemide su un carro tirato da una coppia di cerve, particolare di un cratere a calice a figure rosse. 450-425 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
una risorsa rinnovabile Nella quasi totalità delle specie di Cervidi, i maschi hanno palchi ossei ramificati (in teoria, il termine «corna» sarebbe sbagliato) che cadono e si rigenerano ogni anno. In qualche specie, i palchi crescono e cadono in piú cicli annuali; in genere, le femmine ne sono sprovviste, oppure hanno corna rudimentali. Solo nelle renne e nei caribú anche le femmine hanno corna ben sviluppate. Le corna sono formate da un tessuto osseo spugnoso e ricco di vasi sanguigni, coperto da una specie di epidermide morbida chiamata «velluto»; cominciano a formarsi in primavera; prima della stagione di accoppiamento si induriscono, calcificandosi e perdendo il velluto, che pende in lembi sul muso degli animali. Dopo i combattimenti tra i maschi e l’accoppiamento, alla base delle corna si forma uno strato di distacco, e le corna cadono di colpo, rimanendo intatte a terra. Nella preistoria europea, la preziosa materia prima per una consistente produzione di strumenti e oggetti ornamentali era fornita proprio da questa annuale scorta, facilmente reperibile nelle boscaglie che circondavano i villaggi, anche senza ricorrere alla caccia agli animali.
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sotto il segno del cervo bianco Nel mito greco, i cervi erano sacri ad Artemide, e ne tiravano il carro d’oro. Una delle fatiche di Eracle fu la cattura della meravigliosa cerva di Cerinea. Anche se la vicenda è ambientata fra Arcadia e Acaia, in Grecia, il fatto che la cerva (femmina) avesse grandi corna la colloca, insieme alle renne, nelle terre degli Iperborei. Nella tradizione nazionale ungherese, proprio l’inseguimento di un cervo bianco aveva portato i fratelli Hun e Magor ad addentrarsi nel cuore delle steppe, dove avrebbero dato vita alle «nazioni sorelle» degli Unni e dei Magiari. Nelle leggende del ciclo arturiano, piú a occidente, balena l’immagine di un mistico cervo bianco, capace di sottrarsi a qualsiasi cattura, che in qualche modo riflette la simbologia del Sacro Graal. Lo stesso cervo appariva miracolosamente a segnalare a un cavaliere che era giunto il momento di intraprendere un viaggio di ricerca spirituale. Il cervo bianco, del resto, balza prodigiosamente da Camelot alla meno nota località di Gödöllo, nell’Ungheria contemporanea. Qui, nel 1933, Robert Baden-Powell indirizzò al movimento degli Scouts, da lui fondato, le seguenti parole di commiato: «Il Cervo Bianco ha un messaggio per voi: gli antichi cacciatori inseguivano il cervo miracoloso non perché si aspettavano di prenderlo, ma per la pura gioia della caccia ad avventure sempre nuove, e cosí catturare la felicità. Potete pensare al Cervo Bianco come al vero spirito del movimento scoutistico, che si scaglia avanti e in alto, portandosi sempre a scavalcare nuove difficoltà».
Tracce di misteriosi rituali preistorici legati al cervo sono attestate dalle Isole Britanniche all’Italia settentrionale gambe, ha due grandi serpenti con corna d’ariete, e borse piene di monete ai lati. Sempre in Britannia, una moneta celtica del I secolo d.C. mostra sul retro la testa di Cernunnos, con al centro una ruota solare. Forse le perdute imprese di Cernunnos, tramandate dai druidi oralmente, sono lontanamente riflesse dalla memoria delle gesta di Conall Cernach, leggendario guerriero della mitologia celtica. Ma questo dio, alquanto schivo, è noto al mondo soprattutto grazie alla celebre immagine del calderone argenteo di Gundestrup (Danimarca, I secolo a.C.; foto alle pp. 94-95), nel quale temi chiaramente celtici si associano a immagini e motivi religiosi del tutto indecifrabili. Del suo culto, e di quelli tributati alle piú antiche divinità cervidi della preistoria, sappiamo ancor meno. Rimangono, per gli archeologi, le
tracce terrene di misteriosi rituali preistorici diffusi dalle Isole Britanniche all’Italia settentrionale: palchi di corno infissi nel fango sotto alle palafitte; nel mondo celtico, pozzi sacrificali con ossa degli animali sacrificati e crani cornuti, forse usati dai druidi per riti sciamanici, e ancora corna disposte in oscure figure geometriche attorno ai fuochi sacri.
Messaggero del Cielo Se Cernunnos, tra le corna, poteva reggere il sole, molte mitologie arcaiche d’Eurasia trasfiguravano il cervo come veicolo cosmico. Nella mitologia nordica, il frassino universale Yggdrasil nutre quattro cervi, che danno direzione e senso al cosmo. Un canto tradizionale ungherese cosí recita: «Cervo meraviglioso, con le corna dai mille rami e nodi (…) e migliaia di candele lu-
centi tra le corna, porta la luce del sole benedetto. Sulla fronte una stella, sul petto la luna. Parte dai banchi del lucente, celeste Danubio; possa egli essere il messaggero del Cielo, e portarci nuove sul nostro Creatore e la sua Provvidenza». Guardando gli splendidi cervi sbalzati nell’oro e intarsiati di ambra e smalti, nascosti dai servi dei re scitici nei grandi tumuli del Mar Nero (V secolo a.C.), è difficile non pensare che queste immagini di forza e luce non fossero percepite in simili termini. Cervi d’oro nei tumuli, forse per portare, in una cosmica corsa, il re nell’oltretomba, e illuminarne il viaggio; ed è forse per ragioni simili che, nelle tombe scitiche della Siberia centro-orientale, i cavalli che avevano tirato il feretro, sacrificati nei funerali reali, erano stati mal camuffati, in modo bizzaro e in fondo abbastanza sinistro, proa r c h e o 97
storia uomo e materia prio da cervi. Tradizioni antichissime, se è vero che sempre cervi di bronzo, argento e oro formavano i ricchi e vistosi emblemi che dovevano coronare i carri e i letti funebri degli antenati dei sovrani ittiti (Alaca Hüyük, Anatolia, fine del III millennio a.C.; vedi, per esempio, la foto a p. 96).
La bonifica di Maometto Nemmeno le terre dell’Oriente, quindi, si erano sottratte al potere pervasivo delle corna. Giunto all’interno del tempio della Mecca, il Profeta dell’Islam dovette infatti bonificarlo dai palchi di corno di Cervidi portati nei secoli precedenti dagli idolatri. Nell’iconografia cristiana, invece, il cervo fa la sua nobile figura sin dagli inizi, in genere come incarnazione o simbolo del Cristo persecutore del serpente-demonio e compagno di ricerche spirituali estreme. Santi eremiti vissero in grotte, alimentati solo dal latte di una cerva, e impronte di cervi nella neve segnavano a terra il tracciato delle fondazioni delle chiese da edificare. La leggenda di S a n t ’ U b e r t o, patrono di cacciatori, matematici, ottici e metallurghi, tramandata nell’Inghilterra del XIII secolo, racconta della conversione del santo dopo l’apparizione di una croce luminosa tra le corna di un cervo. Nella versione della Legenda Aurea (una raccolta di vite di santi scritta in latino da Jacopo da Varazze, vescovo di Genova, nella seconda metà del XIII secolo) il militare pagano Placido stava cacciando un cervo in fuga. Giunto a un burrone, il cervo si voltò. Tra le corna era apparsa una croce luminosa sormontata dalla figura di Gesú, che gli chiese: «Placido, perché mi perseguiti?». Rientrato a casa, Placido narrò tutto alla moglie, e l’uomo, la donna e i due figli si fecero battez98 a r c h e o
dal prosciutto alle creme di bellezza I Cervidi sono mammiferi artiodattili diffusi, con una quarantina di specie e numerose varietà, in tutta l’Eurasia e nelle Americhe; la loro diffusione in Africa non superò la barriera delle sabbie sahariane. L’importanza economica dei Cervidi nell’evoluzione delle società umane è difficile da sopravvalutare. Gli animali, costantemente attratti verso i margini degli insediamenti umani dalle coltivazioni, fornivano non solo ottima carne (anche trasformata in prosciutto e strisce essiccate) e pelle, ma anche materie prime per una vasta produzione preistorica di perline e fermatrecce, aghi, asce, zappe, martelli, raschiatoi, manici di punteruoli, punte proiettili, immanicature di pugnali e di spade, morsi di cavalli, ganci da cintura, spilloni, pettini, bottoni e alamari, navette per tessere. I manufatti in palco di cervo erano spesso accuratamente incisi con intricati disegni geometrici e a cerchi concentrici. Antiche ricette romane per la fabbricazione di creme di bellezza suggerivano l’uso di orzo, veccia, bulbi di narciso, uova, farina di corno di cervo, gomma e miele (come si legge anche nei Medicamina faciei di Ovidio). Crocetta aurea longobarda con un cervo raffigurato nel medaglione centrale. VII sec. Cividale del Friuli, Museo Archeologico Nazionale.
l’uomo fu perseguitato dalla sventura. Prima perse tutti gli averi, poi la moglie e i figli. Poiché la sua fede non crollò mai, per premio divino, alla fine, la famiglia fu riunita. Richiamato sotto le ar mi, Eustachio combatté coraggiosamente contro i barbari. Qando si seppe che era cr istiano, l’intera famiglia fu torturata e data in pasto ai leoni. Ma le fiere pietosamente risparmiarono i cristiani. A nulla, tuttavia, valse il miracolo, perché alla fine, dove l’istinto felino aveva fatto eccezione, prevalse la pirotecnologia: i quattro morirono, tutti martiri, arroventati dentro un bue di bronzo. In compenso, quando i carnefici aprirono il sinistro bovino metallico, i cadaveri, con commozione generale, risultarono zare. Placido ricevette il beneaugu- perfettamente intatti. Sulla casa delrante nome di Eustachio, cioè «Co- la sfortunata famiglia, presto trasformata in luogo di culto, sarebbe sorlui che dà buone spighe». ta la chiesa romana di S. Eustachio; e ancora oggi vi campeggia l’immaIl sacrificio di Eustachio Scelta forse poco appropriata: in- gine del cervo soprannaturale con fatti, lasciato l’esercito romano, la croce in fronte.
archeotecnologia
Cosí nacque la di Flavio Russo
cavalleria
Il rapporto tra l’uomo e il cavallo ha origini antichissime. Eppure, sorprendentemente, alcuni degli accessori che oggi riteniamo indispensabili per l’utilizzazione ottimale delle cavalcature fecero la loro comparsa in epoche ben piú avanzate. Tra questi, proprio i ferri e le staffe
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ll’affermarsi della cavalleria contribuí l’adozione di due modeste invenzioni, ambedue di origine remota, che ebbero come risultato la maggiore stabilità sulla sella: il ferro di cavallo e la staffa. A tutt’oggi, non vi sono elementi che permettano di stabilire dove e quando, in Occidente, si avviò la ferratura degli zoccoli dei cavalli. Di certo non avvenne in regioni aride per via dei loro terreni duri e compatti, tanto che nel Nordafrica, ancora oggi, gli animali impiegati nei lavori agricoli ne sono privi. Pure in Grecia la ferratura fu del tutto
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sconosciuta, nonostante il vasto impiego dei cavalli in pace e in guerra, e conobbe un impiego minimo presso i Romani, la cui cavalleria legionaria mai divenne un’arma autonoma, con cariche e scontri, e rimase sempre fanteria montata.
Un’attenzione costante Dalle fonti, infatti, traspare un’assidua attenzione riservata agli zoccoli dei cavalli, reputati basilari per il benessere dell’animale e per
Emblema a mosaico raffigurante l’auriga di una delle fazioni del circo con il suo cavallo, dalla villa di Baccano, presso Campagnano di Roma. Età severiana (193-235 d.C.). Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Nella pagina accanto: ipposandalo romano in ottimo stato di conservazione, sebbene la bandella di fissaggio anteriore (a destra) risulti leggermente piegata. Simili attrezzi testimoniano la cura con la quale si accudivano le cavalcature, prima che venisse introdotta la ferratura vera e propria.
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archeotecnologia il suo impiego ottimale. Sappiamo che nei casi di scheggiature o ferite si applicavano alla zampa stivaletti in pelle per mantenervi a contatto impiastri medicamentosi, e non di rado anche dei sandali dalla suola di ferro sotto gli zoccoli, detti ipposandali, destinati secondo alcuni studiosi a preservarli dall’usura eccessiva nei lunghi spostamenti. Un distico di Catullo, che qui riportiamo, viene ritenuto un’allusione alla ferratura degli zoccoli, ma, in realtà, rievoca la forte presa esercitata nel fango da una siffatta calzatura, adattata anche ai bovini e ai muli adibiti al traino dei carri:
Et supinum animum in gravi derelinquere caeno Ferream ut soleam tenaci in voragine mula (E abbandonare un cuore supino in pesante melma come la mula lascia nel denso fango la suola di ferro; Carme XVII, vv. 25-26).
cavallo cosí calzato non avrebbe potuto marciare a lungo, e meno che mai, sarebbe riuscito a farlo senza scivolare, ad andature veloci e su pendenze accentuate. Mongoli, Berberi, Persiani e numerose altre etnie, percorrevano enormi distanze su terreni duri e rocciosi sempre in groppa a cavalli sferrati, senza eccessive conseguenze per i loro zoccoli. Appare assurdo, perciò, Ma non erano «calzature» L’ipotesi preservativa, comunque, vedere negli ipposandali appare poco plausibile, dal momen- delle calzature da viagto che i cavalli, allo stato brado, si gio o ferri di cavallo muovono continuamente su terreni archetipali! misti senza alcun danno o usura L’archeologia ha ridi sorta agli zoccoli. Peraltro un trovato un discreto
Gancio di fissaggio posteriore di un ipposandalo romano, per la stringa di bloccaggio allo zoccolo del cavallo.
Ricostruzione grafica di uno zoccolo di cavallo che calza un ipposandalo, debitamente allacciato.
Spessa piastra di ferro, fungente da suola sotto lo zoccolo del cavallo.
Particolare del passaggio nei ganci di fissaggio della stringa di bloccaggio dell’ipposandalo.
Particolare della modalità di calzatura intorno allo zoccolo equino di un ipposandalo romano.
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Ricostruzione grafica di un tribolo romano, il chiodo con tre cuspidi di sostegno sempre a terra e la quarta vulnerante sempre alzata verticalmente.
numero di questi sandali, che, per la peculiare connotazione, sono risultati sempre di facile interpretazione e ricostruzione. In linea di massima consistevano, come accennato, in una spessa piastra di ferro, dai bordi rialzati, munita di un anello anteriore e di un gancio posteriore, nonché di due o piú alette laterali con risvolto esterno, per le stringhe di fissaggio. Le alette poi, in ferro dolce, con un solo colpo di martello si ripiegavano sullo zoccolo, cosicché, insieme alle stringhe, impedivano alla sottostante piastra di spostarsi o di staccarsi. Il frequente rinvenimento di ipposandali frammisti ai resti di armi o di proietti, non può essere casuale; e dobbiamo perciò associarli alle operazioni campali piuttosto che ai trasporti civili, e con una motivazione nettamente diversa da quella dei ferri di cavallo, propriamente detti. La spessa suola metallica, infatti, a differenza del ferro, copriva completamente la pianta dello zoccolo, impedendogli perciò qualsiasi contatto diretto col suolo: una soluzione pessima per l’aderenza in marcia, ma indispensabile per attraversare i terreni cosparsi di triboli, i micidiali chiodi a quattro punte che ferivano militi e cavalli in modo insidioso, bloccandoli come le odierne mine antiuomo.
monterebbe, sia pure a livello embrionale, al VI secolo a.C., incentivata dalla disponibilità del ferro e dalla capacità di lavorarlo. I Galli e forse i Celti, pertanto, sembrerebbero essere stati i primi a usarla per proteggere gli zoccoli dei cavalli, come provano i rinvenimenti in tombe nelle quali cavallo e cavaliere furono sepolti insieme. Dopo la conquista della Gallia i Romani appresero quella tecnica e forse la perfezionarono, ma non l’adottarono diffusamente per la ricordata marginalità della cavalleria nelle legioni. Solo a partire dall’VIII secolo si registra un sensibile aumento del ricorso alla ferratura, e rimonta al 910 il primo testo con riferimenti ai ferri e ai chiodi che, spesso, i cavalieri usavano portare con sé. Il ricorso alla ferratura crebbe con l’avvento della cavalleria pesante, che, costretta all’adozione di cavalli di grande taglia per sostenere
consentire di stare in sella in maniera meno precaria, favorendo perciò il combattimento per urto con il cavallo lanciato e, quindi, implicitamente, l’avvento effettivo della cavalleria. L’invenzione della staffa è attribuita a un gran numero di popoli, in epoca imprecisata e comunque remota, concomitanza che sembra suggerirne piuttosto una invenzione multipla, compiuta cioè autonomamente da piú individui, distinti cronologicamente e distanti geograficamente. Diverso è il caso della sua adozione sistematica in ambito militare.
Merito di Attila? A chi si deve l’introduzione in Occidente di quell’umile accessorio della sella? E, soprattutto, quando accadde? La risposta che trova concordi il maggior numero di studiosi ne attribuisce la paternità ad Attila (406-453), sebbene non si abbiano al riguardo conferme esplicite. Il re degli Unni forse maturò l’apprezzamento osservando che le tribú presso le quali già si usava la staffa erano piú rapide e attive nei saccheggi e, per giunta, mostravano di sopportare piú a lungo la fatica prolungata. Perciò, dopo il deludente esito della battaglia combattuta contro Flavio Ezio ai Campi Catalaunici (località francese da alcuni identificata con Châlons-surMarne, da altri con Troyes) nel 452, riorganizzando le sue orde, impose a tutte l’adozione della staffa, divenendone in tal modo se non l’ideatore, almeno il propugnatore! Quanto alle origini della staffa è logico anticiparla di molti secoli, essendo all’epoca già da tempo ampiamente usata presso i Mongoli, tanto piú che oltre a fornire un saldo appoggio consentiva una congrua postura fisiologica. Non è un caso che Galeno e Ippocrate accennino ai problemi che colpivano le gambe dei cavalieri, costrette a penzolare per ore dalla sella, inerti e distese con il corpo ripiegato all’indietro. La staffa mutò drasticamente la ma-
La prima menzione di ferri di cavallo e chiodi è contenuta in un testo del X secolo
Applicazioni temporanee Calzando un ipposandalo, invece, la cuspide verticale del tribolo non riusciva a trapassarne la suola, mentre il sovrastante peso del cavallo lo faceva affondare nel terreno, rendendolo innocuo e per l’animale e per gli uomini che lo seguivano ricalcandone, scrupolosamente, le orme. Logico concludere che gli ipposandali fossero applicati ai cavalli, ai muli e ai buoi in prossimità o in previsione dei triboli e subito tolti al cessare della minaccia, sciogliendo le stringhe. Tornando alla ferratura propriamente detta, per alcuni studiosi ri-
i ponderosi cavalieri corazzati, richiese una maggiore stabilità sul terreno. La ferratura si trasformò cosí in una esigenza tattica, ma ancora non divenne un uso generalizzato. Quest’ultimo si ebbe con le crociate, quando lo scontro basato sull’urto impose al sistema d’arma lancia-uomo-destriero la massima saldezza e coesione. Ma solo nel XV secolo si cominciò a studiare la maniera migliore di ferrare i cavalli e la mascalcía ebbe una sorta di riconoscimento ufficiale. Ciononostante, ci vollero ancora molti decenni di ricerche, prove e tentativi perché la ferratura venisse intesa innanzitutto come protezione dello zoccolo, senza alterare le sue funzioni naturali, e, secondariamente, come ausilio per migliorare l’aderenza, applicandosi perciò anche ad altri animali da traino. Piú ancora della ferratura degli zoccoli, fu l’introduzione della staffa a
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archeotecnologia niera di cavalcare, la sella, il morso e persino i cavalli, imprimendo all’equitazione civile e militare un evidente salto di qualità. Col suo impiego divennero possibili prestazioni altrimenti precluse come, per esempio, tirare con l’arco in corsa, azione in cui eccellevano Unni e Mongoli. La procedura, infatti, implicava una posizione eretta e stabile, a gambe tese e a briglia sciolta, per mantenere una distanza abbastanza costante dal terreno, indispensabile per la corretta mira. Per non parlare, poi, dei vantaggi
In alto: staffa in ferro. Produzione avara, X sec. Gyor (Ungheria), Xántus János Múzeum. L’introduzione, o la diffusione, di questi accessori viene da molti studiosi attribuita ad Attila, che avrebbe deciso di farvi ricorso dopo la sconfitta patita ai Campi Catalaunici nel 452.
Una staffa in bronzo di fabbricazione cinese. VI-VII sec. d.C. Oxford, Ashmolean Museum.
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esempio, imbottita e allargata, proteggeva il piede dal freddo, per cui i postiglioni, dovendo montare il primo cavallo delle diligenze, se ne avvalsero sempre. I popoli germanici, sconfitti dagli Unni e dai Mongoli, adottarono per derivazione la loro staffa, divenendone perciò i veri diffusori nell’intero Occidente e nella parte orientale dell’impero romano. Non a caso le prime testimonianze scritte relative al suo impiego sono bizantine, e si leggono in un Dormire in sella È significativo al riguardo con- documento redatto nel 602 sotto statare che, nel corso dei trasfe- l’imperatore Maurizio, seguite da rimenti piú lunghi, i nomadi, attestazioni simili dei Franchi e dei non di rado, con i piedi nel- Vichinghi, ai quali si devono pure le staffe riuscivano anche a i rari esemplari arcaici pervenutici. dormire in sella, puntellandosi E a testimonianza dell’importanza con una forcella fissata sull’ar- acquisita dall’accessorio, non si può cione. Persino sotto il profilo non ricordare Carlo Magno, che del comfort la staffa offrí non po- volle essere sepolto con una staffa chi vantaggi: nei climi nordici, per da cavallo.
nel maneggio della lancia, dello scudo pesante e dell’armatura, consentiti solo dalla sua adozione. O della facilità con cui permise di montare in sella e di smontarne con l’armatura indosso, operazioni in precedenza estremamente complicate, e spesso persino pericolose. E grazie alla staffa si ampliò anche il raggio operativo e, per conseguenza, la velocità media degli spostamenti.
Antichi ieri e oggi
di Romolo A. Staccioli
Nelle alcove dei Cesari/2
La macchina del fango È assai probabile che le fin troppo vivide descrizioni dei vizi privati degli imperatori non riflettessero sempre la pura verità, ma rispondessero a strategie politiche basate anche sulla denigrazione Tiberio, che, come abbiamo detto, aveva trasformato la A Villa Iovis di Capri in un tempio
della perdizione (vedi «Archeo» n. 316, giugno 2011), succedette, nel 37 d.C., Caligola. Il figlio degenere del grande Germanico e di Agrippina, oltre ad avere avuto «consuetudini incestuose con tutte le sorelle» e aver trattato pubblicamente come moglie, legittima, dopo averla tolta al marito, la preferita Drusilla, non si privò di nessun’altra donna, che gli piacesse, anche illustre. Di solito le invitava a pranzo, insieme ai mariti, e «mentre passavano davanti a lui, le esaminava con grande cura, come fanno i mercanti di schiavi». Quindi, se trovava qualcuna che lo stuzzicasse in modo particolare, allontanatosi dalla sala, la mandava a chiamare e poi, «rientrando con ancora sul volto i segni del piacere, la lodava o la vituperava pubblicamente, elencandone i pregi e i difetti, sia del corpo sia del comportamento amoroso». Infine, non volendosi privare di alcuna esperienza, fece predisporre un lupanare all’interno del palazzo, arredandone le piccole celle, destinate a ospitare matrone e giovani di buona famiglia, con il lusso che si addiceva al luogo. Poi mandò in giro i servi, «per fori e basiliche», a invitare al piacere giovani e vecchi, concedendo
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prestiti a coloro che andavano da lui, mentre appositi funzionari ne registravano il nome, «quasi di benemeriti nei confronti dell’imperatore». Ed eccoci a Nerone, dal quale viene facile aspettarsi di tutto. E Svetonio non delude. «Oltre alla pratica della pederastia con ragazzi liberi e al concubinato con donne sposate, fece violenza anche alla vergine vestale Rubria». Non solo, ma «dopo aver fatto tagliare i testicoli al ragazzo Sporo, cercò anche di mutarne la natura in donna e fattoselo condurre in grande pompa, con la dote e il velo rosso, come nelle cerimonie nuziali solenni, lo tenne presso di sé alla stregua di una moglie». Come tale – e «ribattezzato» Sabina, come sappiamo da altra fonte – Sporo lo accompagnò nel suo viaggio in Grecia, vestito e agghindato da Augusta, trasportato in lettiga in ogni luogo di incontro e di mercato. A Roma poi, «se lo portava nei mercatini, coprendolo ripetutamente di baci». Tra moglie e marito... Ma Nerone si divertiva anche con un gioco di sua invenzione: «Rivestito di una pelle di belva, si faceva spingere fuori da una gabbia e assaliva ai genitali maschi e femmine legati a un palo». Finito il gioco, se ne andava a fare la parte
della moglie col liberto Doriforo, col quale s’era pure «maritato», invertendo il suo ruolo rispetto all’unione con Sporo. Sempre Nerone, amava pranzare in pubblico, in luoghi molto frequentati, come il Campo Marzio e il Circo Massimo, facendosi servire da tutte le suonatrici ambulanti e le prostitute della città. E quando andava a Ostia in barca, discendendo il Tevere (cosí come quando costeggiava il litorale di Baia), lungo le rive venivano attrezzati padiglioni e punti di ristoro «famosi per crapule e dissolutezze», da dove matrone di buona famiglia lo invitavano ad
Litografia dei primi del Novecento raffigurante un banchetto nel palazzo imperiale al tempo di Nerone e utilizzata come illustrazione per una edizione del romanzo di Henryk Sienkiewicz Quo Vadis?, pubblicato per la prima volta nel 1896.
accostare e a fermarsi, facendo a gara nell’imitare gesti e parole delle inservienti delle bettole. Vespasiano, come s’è accennato, venne sostanzialmente risparmiato. Pure, anche per lui Svetonio non può fare a meno di scrivere – oltre che fosse spiritosissimo e amante delle battute, peraltro spesso scurrili e volgari – che, avendo egli, notoriamente avaro, regalato una volta la bella somma di quattrocentomila sesterzi a una donna che aveva detto di morire d’amore per lui, per la nottata trascorsa insieme, e avendogli chiesto il suo amministratore sotto quale voce dovesse registrare
quell’uscita, avrebbe risposto «per Vespasiano, molto amato». I sospetti su Tito Con il figlio e successore di Vespasiano,Tito, si cambia di nuovo registro e non senza sorpresa. Ma Svetonio ci parla subito di fondati sospetti circa la sua dissolutezza. Sia perché «coi suoi amici piú intimi si dedicava a orge che duravano fino a notte fonda». Sia perché «amava circondarsi di un branco di eunuchi e di pederasti». Ma tutto ciò, invero, prima di salire sul trono che era stato del padre, a quarant’anni, per rimanervene
solamente poco piú di due. Quanto all’ultimo dei «dodici Cesari», Domiziano, Svetonio lo definisce, senza mezzi termini, uomo «di libidine eccessiva», che considerava i rapporti sessuali come una specie di esercizio ginnico quotidiano: una sorta di corpo a corpo che chiamava, con un neologismo greco, clinopalen, ossia «ginnastica da letto» (che, se non fosse per l’allitterazione, dovremmo tradurre letteralmente in «lotta da letto»). Il nostro biografo aggiunge solo come fosse noto «che amava nuotare in compagnia di notissime prostitute» e che si divertiva a depilare
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Affresco pompeiano raffigurante le Tre Grazie. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Come raccontano i maggiori storici, nessuno, o quasi, degli imperatori romani seppe resistere al fascino femminile, soprattutto se incarnato da donne giovani e giovanissime.
personalmente le sue concubine. Ciò per non dire della tresca con la nipote Giulia, che aveva rifiutato quando gli era stata offerta in moglie dal fratello e che poi, quando lei ebbe sposato il cugino Flavio Sabino, sedusse e prese come amante, ripudiando la propria moglie Domizia Longina che aveva tolto al marito Elio Lamia ma che, intanto, se la intendeva col mimo Paride. Salvo poi riprendersela (dopo aver fatto uccidere l’attore ed essendo morta Giulia per le pratiche abortive che le aveva imposto), «perché nessun’altra era brava come lei
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nella palestra del letto». Questo è quello che si legge nei «resoconti» di Svetonio. E che appartiene alle fonti a cui lo scrittore attinse, essendo stato egli contemporaneo, praticamente, del solo Domiziano. Ma quanto ci sarà di attendibile? E quanto sarà da respingere – almeno in via cautelativa – nel campo dei pettegolezzi e delle insinuazioni? Dei rumores, degenerati al rango di chiacchiericcio, nati negli ambienti della «opposizione» senatoria, miranti a offuscare la memoria dei successori di Augusto e (per dirla con Ettore Paratore) a presentarli come «tiranni e mostri di ferocia e di corruzione»? Cronaca o propaganda? In verità, non mancano «riscontri» in altri autori. Per esempio, in Tacito, certamente assai meno proclive al pettegolezzo di quanto non fosse Svetonio. Anche Tacito,
negli Annales (VI,1), accenna alle dissolutezze di Tiberio e parla addirittura di schiavi mandati in giro per Capri a reclutare le giovani vittime della libidine imperiale, con facoltà di promettere ricompense ai compiacenti, ma con licenza di ricorrere alle maniere forti contro i riottosi e i loro parenti. C’informa inoltre che, proprio a Capri, furono «per la prima volta inventate le parole, fino ad allora ignote, di sellarii e di spint(h)riae, per indicare diversi tipi di cinedi in relazione alla sconcezza delle posizioni o alla varietà degli osceni pervertimenti». Lo stesso Tacito aggiunge particolari alle notizie fornite da Svetonio nella biografia di Nerone. Per esempio, a proposito della passione di quell’imperatore per i banchetti allestiti in pubblico nei luoghi anche piú centrali e frequentati della città, «come se fosse in casa propria» (XV,37). Il piú famoso sarebbe stato quello organizzato da Tigellino nel lago di Agrippa, nel cuore del Campo Marzio, non lontano dal Pantheon. In mezzo al lago era stata allestita una sorta di zattera tricliniare, trascinata da imbarcazioni ai cui remi stavano giovani amasii, disposti per età ed esperienza «nelle libidinose dissolutezze». Sulle banchine del lago stavano «lupanari» gremiti di donne della buona società, alle quali facevano da contrappunto sgualdrine nude che si esibivano «con gesti e movenze oscene del corpo». Anche Tacito, però, era esponente di quella classe senatoria che si trovava in perenne conflitto col principe ed era tutt’altro che tenero nei confronti del potere dei Cesari. Anche la sua opera, sia pure ad alto livello, potrebbe quindi far parte di un vero e proprio disegno politico – e propagandistico – mirante a screditare un regime ormai insostituibile, ma nefasto, specialmente nel sistema dinastico. Le nostre perplessità e i nostri quesiti restano dunque intatti. La verità continuerà a sfuggirci. (2 – fine)
L’età dei metalli
di Claudio Giardino
Una finestra sulla preistoria Per i non addetti ai lavori «ripostiglio» è un termine proprio dell’economia domestica; per gli archeologi, invece, è qualcosa di decisamente piú prezioso... on l’avvento del metallo, l’uomo cominciò ad C accumulare – e a seppellire – piccoli
tesori. Il termine «ripostiglio», frequentemente usato nel mondo archeologico, designa questi accumuli di manufatti metallici sotterrati intenzionalmente, indipendentemente dalle molteplici cause che hanno portato alla loro formazione. L’esame degli oggetti che li compongono ci permette di aprire una finestra sul passato, soprattutto nel momento in cui si integra lo studio con indagini scientifiche che permettono di avere dati sulla composizione chimica dei reperti e sulle tecniche di fabbricazione. I primi ripostigli compaiono in Europa verso la fine del III millennio a.C., nell’età del Bronzo Antico, in concomitanza con l’affermarsi della lega di rame e stagno che dà nome a questa fase della nostra storia. Il fenomeno della loro apparizione investe pressoché contemporaneamente l’intero Continente. In tutte le regioni europee questi primi depositi contenevano sostanzialmente gli stessi oggetti, cioè asce, pugnali, alabarde e lingotti. Anche in Italia sono numerosi i ripostigli attribuibili a questo momento piú antico; essi si concentrano soprattutto nella parte settentrionale e centrale della Penisola. Qui i ricchi giacimenti di
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minerali cupriferi, localizzati principalmente nell’arco alpino e in Etruria, garantivano un buon approvvigionamento delle materie prime. Particolarmente significativo è il caso dei molti ripostigli dell’età del Bronzo Antico situati nella Toscana meridionale, la cui localizzazione sembra tracciare una vera e propria via di approvvigionamento del rame. Lungo le vie degli artigiani Molti di questi primi accumuli erano costituiti perlopiú da lingotti e asce: anche queste ultime, del resto, potevano in realtà rivestire la stessa funzione dei lingotti. Lo suggeriscono alcuni depositi, come quello scoperto a Pieve Albignola, presso Pavia, in cui sono state rinvenute asce non finite, difettose o comunque non funzionali, utili solo come fonte di metallo per la rifusione. Nei ripostigli erano spesso contenuti anche pugnali, un’arma che sottolineava il rango elevato di chi la possedeva. Questi ultimi erano sovente veri e propri capolavori di metallotecnica, come quelli rinvenuti nei depositi di Ripatransone (Ascoli Piceno, Marche) o di Cotronei (Crotone, Calabria); essi sono frequentemente cesellati con sottili, ma accurate
incisioni a bulino, in modo da ottenere eleganti motivi geometrici che correvano sia sulla lama che sull’elsa, e che dovevano risaltare in tutta la loro raffinatezza sul colore dorato del bronzo. In questa epoca gli artigiani non erano ancora stabilmente ospitati all’interno delle comunità, ma si spostavano da un villaggio all’altro per offrire la propria opera e i propri saperi. Queste dinamiche sociali possono contribuire a spiegare la presenza di ripostigli lungo quelli che dovevano essere i percorsi abituali dei metallurghi. Considerando il rilevante valore del metallo, è verosimile credere che alcuni di loro fossero soliti nascondere in luoghi prestabiliti e segreti il loro tesoretto, magari destinato a essere rifuso, per poi tornare a riprenderlo in seguito. In alcuni casi, tuttavia, eventi imprevisti debbono aver impedito il recupero dei beni, permettendo cosí ai manufatti di arrivare sino ai giorni nostri.
All’origine dei ripostigli ci possono essere anche motivazioni diverse dalla tesaurizzazione e nel loro studio occorre quindi considerare il contesto di appartenenza e non soltanto il contenuto. Di particolare interesse è il caso degli accumuli di oggetti, generalmente armi o ornamenti, deposti nei laghi e lungo i corsi d’acqua, oppure in luoghi impervi o difficilmente raggiungibili come alture, rupi o grotte. Qui, dove la natura dei luoghi esprimeva prepotentemente la presenza del sacro, i metalli depositati avevano una valenza tipicamente rituale, di omaggio alle divinità.Tali offerte potevano avere numerosi significati, dal dono votivo agli dèi, a corredi funebri simbolici in onore di defunti-eroi sepolti altrove. Una pallida eco delle offerte protostoriche per propiziare le divinità delle acque è giunta sino a noi, sebbene del tutto incompresa e travisata, nelle monetine (anch’esse metalliche) che i turisti gettano nelle fontane celebri, come a Roma nella Fontana di Trevi, allo scopo di propiziarsi il
ritorno o la realizzazione di un desiderio.Alcuni ripostigli possono anche rappresentare la testimonianza «fossile» di cerimonie sociali altrimenti ignote, simili ai «potlatch» noti nell’etnologia delle popolazioni amerindiane della costa nordoccidentale del Pacifico degli Stati Uniti e del Canada, dove l’esibizione e la distruzione ritualizzata di beni considerati «di prestigio» erano finalizzate a dimostrare e consolidare il potere dei capi della comunità. Un caso eccezionale Nei periodi piú avanzati della protostoria alcuni ripostigli raggiunsero dimensioni considerevoli, essendo costituiti da centinaia o migliaia di oggetti, spesso conservati dentro grossi doli di terracotta all’interno dei centri abitati. Ne sono esempio il ripostiglio di Lipari, nelle Isole Eolie, rinvenuto nel villaggio dell’età del Bronzo Tardo dell’Acropoli e costituito da 75 kg di oggetti, nonché quello, del tutto eccezionale,
Asce, dal ripostiglio di San Francesco a Bologna. Età villanoviana, fine dell’VIII-inizi del VII sec. a.C. Bologna, Museo Civico Archeologico. I primi «ripostigli», accumuli di manufatti metallici deposti intenzionalmente, compaiono in Europa a partire dal III mill. a.C.
di Bologna. Quest’ultimo venne scoperto nel 1896 da Antonio Zannoni, ingegnere dell’Ufficio tecnico comunale, una singolare figura di studioso, nel corso di lavori pubblici condotti nel centro cittadino, in piazza San Francesco, nelle vicinanze dell’omonima, bella chiesa medievale. Il deposito, recuperato integralmente e poi edito dallo stesso Zannoni, era formato da oltre 14 000 reperti, sia interi che frammentari, che ci hanno trasmesso un quadro unico della metallurgia dell’età del Ferro villanoviana.Vi sono attestate pressoché tutte le classi di manufatti metallici in uso all’epoca: armi, strumenti di lavoro, vasellame, ornamenti e lingotti. Questo gigantesco accumulo di oggetti, per l’enorme massa di bronzo con cui erano fabbricati, doveva costituire, oltre che la materia prima di una importante fonderia, anche il tesoro della comunità – una sorta di Fort Knox protostorico – che proprio allora andava a costituirsi nel piú ricco e potente centro protourbano dell’Italia centro-settentrionale, ponendo le basi per la futura Felsina di età etrusca. Oggi il ripostiglio di San Francesco è una delle principali attrazioni del Museo Civico Archeologico di Bologna, di cui occupa, da solo, un’intera saletta. La sua stessa enorme mole si è rivelata un ostacolo – anche economico – al suo studio. Dopo la pubblicazione integrale realizzata oltre un secolo fa da Zannoni, che ricorse alla fotografia per documentare i pezzi (un sistema per l’epoca all’avanguardia), i reperti sono ancora in attesa di una moderna edizione, sebbene siano stati, specie negli ultimi anni, realizzati studi archeometallurgici su un numero inevitabilmente ristretto, ma significativo, di pezzi. Le indagini sono state effettuate allo scopo di contribuire a illuminare le tecniche e i saperi metallurgici della tarda protostoria, e quindi, in definitiva, la società che realizzava e esprimeva queste tecnologie.
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L’altra faccia della medaglia
di Francesca Ceci
Nelle spire del mito/2
Una cesta piena di misteri Strettamente legati ai culti misterici iniziatici, i serpenti erano simbolo della divinità e della natura rigeneratrice el mondo greco-romano e orientale accanto alle forme N religiose tradizionali si praticavano
culti a carattere misterico, nei quali il fedele poteva accedere, attraverso l’iniziazione, a un rapporto piú profondo con la divinità, caratterizzato, innanzitutto, dal segreto riguardo al rituale a cui si partecipava, in quanto l’iniziato non doveva mai profanare quanto visto, rivelato e vissuto. I culti misterici sono contraddistinti, per sommi capi, da azioni religiose specifiche in cui erano previsti momenti oscuri, segnati però da una forte componente salvifica: essi, infatti, dovevano offrire risposte e conforto ai mali esistenziali e alle domande piú profonde degli uomini, in merito al senso stesso della vita umana e al suo divenire ultraterreno, assicurando al fedele, nell’aldilà, un destino felice, una sorta di resurrezione dall’oblio eterno, dove l’uomo diviene simile Cistoforo (letteralmente moneta «che porta la cesta») emesso dalla zecca di Efeso 39 a.C. Al dritto (in alto): M · ANTONIVS · IMP · COS · DESIG· IT[ER · ET ·]TERT; busto di Antonio, lituo sotto; intorno corona di foglie e fiori; contromarca DU. Al rovescio (qui accanto): busto di Ottavia sovrastante una cista affiancata da serpenti; III·VIR a sinistra e ·R·P·C a destra. La titolatura su dritto e rovescio designa Antonio quale console designato e triumviro rei publica costituendae, insieme ad Augusto e a Lepido.
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al dio condividendone l’essenza attraverso l’esperienza religiosa vissuta. I principali culti misterici dell’antichità sono quelli eleusini, legati a Demetra, quelli dionisiaci connessi a Dioniso, insieme a quelli orfici e a numerosi culti orientali, il piú noto dei quali è quello dedicato al dio Mitra. Spesso
l’iniziato accedeva alla visione di oggetti sacri e segreti simboleggianti la divinità, in alcuni casi avvolti in un panno e riposti in una cesta, che di regola è raffigurata chiusa nei misteri eleusini o semiaperta, come in quelli dedicati a Dioniso. Il canestro, consistente in un paniere di fibra vegetale provvisto di coperchio, è definito nella letteratura come cista mystica, sintetizzando efficacemente il suo utilizzo nell’ambito di queste specifiche cerimonie, e poteva spesso contenere serpenti. Animali che, come già visto, hanno rivestito nel mondo antico un ruolo estremamente positivo, legato alla rinascita e alla guarigione, simboleggiando con le spire anche il corso del tempo nel suo ciclo eterno. Un paniere speciale E anche nei culti destinati a Demetra, a Dioniso-Bacco e piú diffusamente in quelli legati a Sabazio, divinità di origine frigia poi molto popolare nel mondo greco-romano talvolta assimilata allo stesso Dioniso, il serpente compare spesso, raffigurato anche su affreschi, altari, gemme e monete. L’immagine-simbolo della cista colma di serpenti ebbe poi grande fortuna in età imperiale, divenendo essa stessa il simbolo delle religioni misteriche in generale. Esiste una categoria di monete d’argento del valore di quattro dracme emesse nell’Asia Minore ellenistico-romana e in particolare
Stele in calcare con Iside e Dioniso serpentiformi. Età tolemaica, I sec. a.C. Londra, British Museum.
nel regno di Pergamo, dai primi decenni del II secolo a.C., i «cistofori», dal greco kistophoros (da kiste, cista, e phero, portare, ovvero «le monete che portano la cista»). Al dritto, reca la cesta mistica da cui fuoriescono le serpi sacre a Dioniso; al rovescio, serpenti intrecciati intorno a una faretra. Questa moneta, rilevante anche nell’estetica, ebbe ampia diffusione e fu battuta in molte zecche asiatiche.
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Moneta coloniale Quando l’ultimo regnante di Pergamo, Attalo III, lasciò Roma erede del suo regno (133 a.C.), i cistofori continuarono a essere prodotti, equiparati a 3 denari e riservando al rovescio il tipo della cista mystica, con il nome del magistrato locale e, in alcuni casi, quello dell’autorità emittente romana. Furono coniati sino all’età adrianea, riconosciuti e accettati come una moneta coloniale. Di complessa tipologia ed equivalenti a un vero e proprio programma politico-dinastico, sono i cistofori emessi da Marco Antonio, dove al dritto si staglia la virile testa del triumviro e, al rovescio, la cista mistica, affiancata da due serpenti dalle code attorcigliate, dalla quale fuoriesce, quasi fosse anch’essa un oggetto sacro, il delicato profilo di Ottavia, la sorella di Augusto Cistoforo emesso dalla zecca di Pergamo, post 133 a.C. Al dritto (a sinistra) serpente che fuoriesce dalla cista; al rovescio serpenti avvolti intorno a una faretra (gorytos); a destra un tirso; monogrammi TEY and ΠΡΥ.
all’epoca sposa di Antonio e garante dell’alleanza e della stabilità del triumvirato. In altri esemplari, i profili dei due sposi sono invece affiancati sul dritto, come una coppia di principi ellenistici, a evocare un’unione politica e una stabilità sociale drammaticamente interrotta, di lí a poco, dall’irrompere sulla scena politica internazionale e nella vita di Antonio, di Cleopatra, regina d’Egitto. (2 – continua)
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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Robert Drews
guerrieri a cavallo I primi cavalieri in Asia Centrale e in Europa Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 295 pp., ill. b/n 29,00 euro ISBN 978-88-6102-050-4
Siamo talmente abituati a immaginare gli antichi a cavallo, soprattutto nel corso di tante memorabili battaglie, da considerare come dato acquisito la loro maestria nell’equitazione. Invece essi non sempre seppero cavalcare, poiché tale pratica dipese anche da alcuni progressi tecnici che necessitarono, non diversamente da quelli relativi alle armi, di processi evolutivi di non breve durata. Il primo passo fu certo l’addomesticamento del cavallo, che probabilmente ebbe luogo già attorno al 4000 a.C. nelle steppe euroasiatiche. E noi saremmo indotti a pensare che il progresso immediatamente
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successivo sia stato l’uso dell’animale come cavalcatura. Ma è qui che Robert Drews, della Vanderbilt University di Nashville (Tennesse), assesta un primo colpo al nostro immaginario: la grande quantità di ossa di cavalli rinvenute in depositi del tardo Neolitico e dell’età del Rame e del Bronzo non è collegata all’uso di finimenti o bardature, ma soltanto ai segni inequivocabili che i nobili quadrupedi erano assai apprezzati dal punto di vista alimentare. La tesi centrale di questo saggio, dedicato all’uso della cavalleria in ambito militare, si contrappone all’opinione di alcuni studiosi del Novecento, da Vere Gordon Childe a Marija Gimbutas e David Anthony, per i quali le lingue indoeuropee sarebbero state diffuse nell’Eurasia da guerrieri a cavallo: la sconvolgente prima apparizione di simili «centauri», la superiorità bellica del nuovo «mezzo», e l’inaudita rapidità che consentiva agli spostamenti di gruppi di armati, sarebbero un elemento sufficiente a spiegare perché i popoli della «vecchia Europa» siano stati inesorabilmente
soppiantati dagli Indoeuropei. Partendo da una clamorosa postdatazione (di ben quattro millenni), ottenuta attraverso l’analisi radiometrica delle ossa di un cavallo rinvenuto presso il bacino del Dnepr con evidenti segni d’essere stato cavalcato, e fino a ora ritenuto invece risalente al V millennio a.C., l’autore procede, utilizzando altri dati archeologici, paleontologici e storici, allo smantellamento di ogni datazione alta dell’uso della cavalleria militare, ponendone l’inizio molto piú tardi: nei secoli che vanno dal X al VII a.C. È un’epoca di poco antecedente l’avvento in Grecia della classe degli ippeis (i «cavalieri»), che tanto prestigio avrebbe conquistato e poi mantenuto per almeno altri 2500 anni in tutto il nostro mondo. Come è doveroso quando si parla di un animale predisposto a scorrazzare su ampie distese, la ricerca di Drews si spinge dall’Europa occidentale alla Cina, dagli Urali alle pianure africane della Numidia, esaminando raffigurazioni di cavalli,
carri e cavalieri, nonché resti materiali (morsi, cavezze, selle) non sempre facilmente databili e interpretabili. In uno studio che si inoltra fino al Neolitico non possono poi mancare le argomentazioni e silentio (quelle per cui noi non possiamo datare una pratica o una attività prima del momento in cui testimonianze certe non ce ne parlino espressamente). Inoltre, molto dipende da una fondamentale, ippologica questione: sarebbe stato possibile condurre in battaglia un cavallo senza usare non tanto la sella o la staffe, introdotte successivamente, ma neppure un morso da collegare alle redini? In assenza di tutto ciò sarebbe stato possibile imparare a cavalcarlo talmente ben da tenere nello stesso tempo le mani impegnate con scudo, arco, e armi da taglio? È corretto, insomma, anticipare le tecniche belliche a noi note per i Persiani, gli Sciti, i Parti, gli Unni e i Mongoli, ai tempi della preistoria o protostoria europea? Probabilmente, non solo l’archeologo, lo storico e lo studioso di strategie militari, ma anche gli appassionati di equitazione o chiunque sia mai montato a cavallo avranno di che sbizzarrisi a percorrere le pagine di questo libro. Fabrizio Polacco