fibula prenestina
tempio di venere genitrice tarquinio prisco
papiri medici
grecia al tempo di solone
Mens. Anno XXVII numero 8 (318) Agosto 2011 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria 9,90; Belgio 9,90; Grecia 9,40; Lussemburgo 9,00; Portogallo Cont. 8,70; Spagna 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
archeo 318 agosto 2011
vera o falsa?
la fibula
prenestina
le ultime rivelazioni
5,90
storia dei greci
il potere al tempo di solone un tempio per venere genitrice
roma
il mistero dei papiri medici
egitto
Editoriale Viaggiare, conoscere, ricordare I cittadini dell’antica Roma in estate viaggiavano. Perlomeno quelli che se lo potevano permettere, visto che – come ricorda Romolo A. Staccioli (alle pp. 96-101) – per raggiungere una meta fuori dall’Italia c’era bisogno di tanto denaro e… di molto tempo. Il turismo antico assomigliava a quello odierno? Solo in parte, diremmo. Al viaggiatore romano interessavano il grande passato, le testimonianze della storia, i «luoghi dello spirito», i monumenti… La parola latina monumentum racchiude la radice indoeuropea men, da cui mens, l’intelligenza e la ragione, e memini, ricordarsi, pensare, riflettere. Per trovarli, questi luoghi della mente, il turista antico si recava in Oriente, affrontando sacrifici a cui difficilmente ci sottoporremmo oggi. Incorrendo, cosí, nella riprovazione di un personaggio come Plinio il Giovane, secondo il quale «di molte cose nella nostra città e nei suoi dintorni che non conosciamo… se si trovassero in Grecia, in Asia Minore o in Egitto... le avremmo visitate da tempo». Suggeriamo di ascoltare l’ammonimento di Plinio: in questi giorni d’estate vale la pena «rivisitare» le nostre città, i nostri paesi e paesaggi, con l’occhio e la mente aperti a recepirne la voce della memoria. Che risuonerà forte e ridondante (come quella della via Appia nella ricostruzione ideale di Giovanni Battista Piranesi che illustra questa pagina) o nascosta e profonda, come quella del grande tempio voluto da Giulio Cesare per onorare la «sua» memoria. La vita di questo importante monumento rinasce oggi grazie ad approfondite indagini che presentiamo, in esclusiva, in questo numero (alle pp. 38-53). Invitiamo i nostri lettori «locali» e coloro che, da turisti dei «luoghi dello spirito», visitano Roma, a fermarsi davanti a quelle tre colonne superstiti. Racchiudono una memoria formidabile. Andreas M. Steiner
La via Appia, ricostruzione ideale di Giovanni Battista Piranesi, dalle Antichità Romane. 1756.
Sommario Editoriale Viaggiare, conoscere, 3 ricordare
da atene La culla dello spirito greco
di Andreas M. Steiner
di Valentina Di Napoli
Attualità
scoperte Il giallo della fibula d’oro
notiziario
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scoperte Esplorazioni in una chiesetta dell’Appennino Modenese hanno svelato un contesto inaspettato: decine e decine di corpi, naturalmente mummificatisi, che rimandano a vicende accadute fra il XVI e il XVII secolo 6
di Daniele F. Maras
scavi Nel territorio di Palombara Sabina, nel Lazio, tornano alla luce i resti di una lussuosa residenza, che, prima d’essere trasformata in villa rustica, era abbellita da magnifiche statue della Pace e di Zeus 10
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scavi Sotto il segno di Venere
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di Massimo Vitti e Patrizia Maisto
archeotecnologia Quando gli elefanti camminarono 86 sull’acqua di Flavio Russo
Rubriche
parola d’archeologo Dalla relazione della Corte dei Conti, il comportamento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali in fatto di gestione dei finanziamenti erogati non appare particolarmente lusinghiero. Ne abbiamo discusso con Pier Giovanni Guzzo 16 mostre Il Museo nazionale di preistoria di Les Eyzies-de-Tayac dedica una rassegna alle rappresentazioni della figura femminile nel corso del Maddaleniano, manifestazioni artistiche cariche di forti implicazioni simboliche 20
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62
il mestiere dell’archeologo
Beni culturali ed economia/1
Ben venga il marketing, ma...
92
di Daniele Manacorda
mostre Scrivo dunque sono
54
di Consuelo Cossu e Michela Migaleddu, con contributi di Marco Edoardo Minoja
le origini di roma/8 62
di Daniele F. Maras
Medicina egizia
70
di Paola Cosmacini
storia dei greci/8 La poesia al potere 78 di Fabrizio Polacco
l’età dei metalli Il ferro caduto dal cielo
102
medea e le altre Un uomo mancato?
106
di Francesca Cenerini
archeomedicina Papiri, rotoli e ricette
96
di Romolo A. Staccioli
di Claudio Giardino
Tarquinio Prisco
Lo straniero che divenne re
Antichi ieri e oggi Alle origini del Grand Tour
l’altra faccia della medaglia
Nelle spire del mito/3
La chioma che uccide
110
di Francesca Ceci
libri
112
n ot i z i ari o SCoperte Emilia-Romagna
Le mummie «involontarie» di Roccapelago di Carla Conti
un caso unico per l’Italia settentrionale, e un ritrovamenÈ to eccezionale quello che ha
avuto luogo sotto il pavimento della chiesa della Conversione di San Paolo Apostolo a Roccapelago (una frazione di Pievepelago in provincia di Modena), sull’Appennino Modenese. Non si tratta, come accade di norma, della mummificazione volontaria di un gruppo sociale, bensí della conservazione naturale di un’intera comunità, favorita da particolari condizioni microclimatiche dell’ambiente, soggetto a scarsa umidità e intensa aerazione grazie alla presenza di due feritoie con sfiato all’esterno. Sono venuti alla luce circa 300 inumati tra adulti, anziani, infanti e settimini, presumibilmente l’intera collettività vissuta a Roccapelago tra il XVI e il XVIII secolo, quando l’ambiente fu probabilmente chiuso, sigillando per sempre una miniera di informazioni sulla vita quotidiana nel piccolo borgo. Ora si apre la possibilità di ricostruire uno spaccato della storia di Roccapelago attraverso lo studio degli antichi abitanti di questo paesino di montagna. L’analisi dei resti umani consentirà di definire la diversa durata della
A destra: la curiosa postura in cui si presentava uno degli scheletri rinvenuti nella fossa comune scoperta sotto il pavimento della chiesa della Conversione di San Paolo, a Roccapelago (frazione di Pievepelago, Modena). In basso: particolare di un cadavere parzialmente scheletrizzato.
vita di uomini e donne, la frequenza e distribuzione dei decessi infantili, la ripartizione di quelli degli adulti, le patologie di cui soffrivano, le abitudini alimentari e le presunte attività lavorative. Si cercheranno conferme all’ipotesi endogamica degli abitanti del piccolo borgo (si sposavano tra di loro? e tra consanguinei?) e si cercherà di determinare robustezza e altezza dei singoli defunti, eventuali anomalie congenite o ereditarie, malattie dovute allo stile di vita e alla particolare pesantezza del lavoro in montagna. Inoltre, incrociando il profilo genetico degli antichi abitanti con quello della popolazione attuale, si cercherà di determinare eventuali trasmissioni cromosomiche. L’analisi di sacchi e suda-
ri, del materiale, foggia e tipo di tessitura degli abiti, lo studio di anelli, orecchini, bracciali, spilloni per capelli, grani di rosario e medagliette religiose, l’esame dei pollini e dei resti animali e vegetali fornirà un’immagine dettagliata di quasi tre secoli di vita contadina, delle credenze, tradizioni, usanze e abitudini di quell’antica comunità, regalando a quella odierna un minuzioso e affascinante album fotografico dei suoi progenitori. La chiesa di Roccapelago, frazione di Pievepelago, è uno degli edifici piú importanti del territorio dell’Alto Frignano modenese; sorge su uno sperone roccioso elevato con una sola via d’accesso, che fu inizialmente sfruttato per insediarvi una fortezza presidiata da Obizzo da Montegarullo (tra il 1370 e il 1400 circa).
A sinistra: la mano di uno degli individui sepolti nella fossa comune di Roccapelago. Le indagini archeologiche hanno accertato che il contesto fu in uso sino alla fine del XVIII secolo. In basso: il volto di un cadavere parzialmente scheletrizzato.
Sul finire del Cinquecento, quando ormai il complesso militare era in disuso, una parte della rocca fu riadattata e, sfruttando come base d’appoggio l’ultimo piano dell’antico fortilizio, fu realizzata la chiesa parrocchiale, che raggiunse la massima giurisdizione territoriale nel XVII secolo. A partire dal 2008, il complesso ecclesiastico è stato oggetto di un importante progetto di restauro architettonico, necessario per consolidare le strutture murarie, il tetto e la pavimentazione interna. Lo scavo archeologico, eseguito negli ultimi tre anni contestualmente ai lavori di restauro, ha portato alla scoperta di sette tombe con sepolture multiple e allo scavo integrale di un ambiente voltato interrato (originariamente una cannoniera funzionale alla rocca), che all’insediarsi della chiesa fu trasfor-
archeo 7
n ot iz iario
Dal setaccio della terra che riempiva la fossa comune di Roccapelago è stata recuperata questa lettera «componenda» o di «Rivelazione», una sorta di contratto con Dio che prevede protezione e la concessione di cinque grazie in cambio di preghiere. Era stata messa sopra una defunta e poi coperta dalla terra. Si credeva, infatti, che, portando sempre addosso lettere del genere, si potesse attirare la protezione divina in vita e in morte.
mato prima in cripta cimiteriale con sepoltura nel sottosuolo e poi in fossa comune con deposizioni multiple sopraterra. Le sepolture piú antiche furono individuate nel 2009 quando nell’angolo sud-est dell’ambiente furono rinvenute le ossa di due individui (una donna e un bambino), unitamente a frammenti di tessuto, una medaglietta e un anello ascrivibili al XVI-XVII secolo.
Nella campagna 2010-2011 sono emersi altri individui non ben conservati, collocati negli anfratti rocciosi, sfruttando ogni spazio disponibile, e alcuni frammenti di ceramica (maiolica arcaica e un frammento di graffita arcaica padana databile dalla seconda metà del XV alla prima metà del XVI secolo), grosso modo riconducibili all’orizzonte cronologico delineato dai ritrovamenti del 2009.
Il culto di Hercle sulle rive del lago n’importante scoperta è avvenuta sulla sommità del Monte Ladro, un’altura situata a ridosU so della sponda settentrionale del lago di
Questo livello fu coperto da uno strato di terreno di riporto, spesso non piú di 3-4 cm, della stessa composizione del precedente. Al di sopra, trovarono posto altri inumati, deposti nella parte centrale della stanza in strati sovrapposti, all’interno di sacchi, come dimostrano i frammenti di tessuto rinvenuti. A causa dello schiacciamento dovuto al peso degli strati superiori, questi individui non sono in buono stato di conservazione; la posizione ben distribuita nello spazio fa tuttavia supporre che ancora in questo momento fosse possibile un largo accesso all’ambiente.
di Giuseppe M. Della Fina
una prima fase del santuario databile alla fine del V secolo a.C. e una fase successiva molto ben documentata – grazie soprattutto alla sua ricca decorazione in terracotta – risalente al secoBolsena. L’interesse archeologico lo successivo, e un abbandono negli anni dell’area era stato intuito sin dalla fine dell’imperatore Antonino Pio, e quindi in del XIX secolo, ma ricerche sistematiche piena età imperiale romana. sono iniziate solo nelle settimane scorse. Tra i materiali recuperati si possono Sono stati riportati alla luce i resti di un segnalare per la loro capacità di suggerire santuario a pianta rettangolare (8,60 x le divinità venerate una piccola clava in 11,60 m), orientato nord-sud e costruito terracotta – che sembra rinviare a Hercle – rispettando le norme dei templi tuscanie un peso da telaio da riferire a una divici secondo i canoni trasmessici da Vitrunità femminile. Va aggiunto che le terrevio (foto qui accanto). A poca distanza cotte architettoniche riportate alla luce dall’edificio sacro è stata individuata una trovano confronti stringenti con quelli di vasca foderata con blocchi di tufo. Il sanVelzna (Orvieto), sotto il cui controllo tuario risulta inserito all’interno di una doveva trovarsi il santuario rinvenuto. muraglia che delimita l’intera sommità Gli scavi sono diretti da Enrico Pellegrini (Sodel monte regolarizzata in antico per printendenza per i Beni Archeologici dell’Etruria Meridionale) procedere alla monumentalizzazione della zona. I primi risultati della ricerca sembrano suggerire e Adriano Maggiani (Università degli Studi di Venezia) e si una frequentazione dell’area già dal VII secolo a.C., avvalgono del supporto del Comune di San Lorenzo Nuovo. 8 archeo
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SCAVI Lazio
Una villa sotto il segno della pace di Zaccaria Mari
lle falde del versante occidentale del Monte Gennaro (siamo A nel Lazio orientale, in provincia di
Rieti), l’amoenus Lucretilis di Orazio, si trovano i resti di un’antica villa, già nota agli archeologi dell’Ottocento, ma fino a qualche decennio fa solo uno degli innumerevoli insediamenti rustici e residenziali, che dal II secolo a.C. sorsero in quella parte dell’Ager SabinusTiburtinus piú vicina a Tivoli. Nel 1986 una scoperta inattesa fece balzare la località Formello agli onori della cronaca: estirpando un vecchio oliveto, furono rinvenute casualmente due splendide statue, copia di originali greci, rappresentanti l’Eirene di Cefisodoto, capolavoro del IV secolo a.C., e un probabile Zeus. Per recuperare le parti mancanti delle sculture (danneggiate dal mezzo meccanico), furono allora eseguiti limitati sondaggi, ma solo dal 2009 la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio ha avviato una regolare campagna di scavi, per riportare alla luce l’intera villa, collegandola, come altri siti storico-artistici del territorio, al Museo territoriale della Sabina, in cui le opere sono esposte. I primi scavi hanno evidenziato, innanzitutto, la conformazione e i limiti della villa: una spianata artificiale sorretta da un terrazzamento lungo 80 m, a blocchi poligonali di calcare bugnato, raggiunta da una strada privata, lastricata e sostruita, che si stacca a monte dalla via pubblica diretta da Tibur in Sabina. Sulla platea sorgeva la villa vera e propria: una domus di tradizione repubblicana (sul tipo, per
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A sinistra: la statua in marmo di Eirene, dea della pace, dalla villa in località Formello, Palombara Sabina. Copia romana dell’originale di Cefisodoto. Fine del I sec. a.C. La dea, rivestita del pesante peplo stretto alla vita e coperta dal mantello, sosteneva con il braccio sinistro la cornucopia (simbolo dell’abbondanza) e il piccolo Ploutos, dio della ricchezza, verso cui rivolgeva amorevolmente lo sguardo, con il braccio destro reggeva invece lo scettro. L’originale bronzeo fu creato dallo scultore ateniese Cefisodoto alcuni anni dopo la vittoria (375 a.C.) di Atene contro Sparta, quando fu istituito il culto ufficiale di Eirene e iniziò un periodo di prosperità. Rispetto ad altre repliche la copia di Palombara (alta 2,03 m) è la piú aderente all’originale per ricchezza di particolari e livello stilistico.
esempio, di quelle ben rappresentate a Pompei), costituita cioè da un settore abitativo (pars urbana), suddiviso in vari ambienti raccolti intorno all’atrio centrale, con annessi un nucleo termale e un peristilio racchiudente il giardino (viridarium). Le ricerche si sono dapprima indirizzate su quest’ultimo (350 mq), mettendo in luce i resti di un portico con colonne laterizie, stuccate e dipinte, che nel lato opposto all’abitazione si articola in un’esedra semicircolare (avente un diametro di 20 m), interrotta da una costruzione quadrata. Il pavimento è in mosaico bianco-nero con motivo a lacunari prospettici che presentano interessanti correzioni ottiche; in mosaico è anche il pavimento di un vicino cubiculum, riconoscibile per l’alcova sul fondo. Nonostante le spoliazioni, avvenute probabilmente già in epoca tardo-antica e sicuramente nei secoli scorsi, quando la villa dovette essere scavata alla ricerca di oggetti d’arte, sono stati rinvenuti pregevoli frammenti della decorazione pittorica dell’esedra, antefisse e lastre in terracotta. La scoperta piú importante, tuttavia, ha riguardato un ritratto del cosiddetto Pseudo-Seneca e il braccio destro dell’Eirene. Lo scavo ha rivelato altresí che le statue erano collocate in antico nell’area del giardino, ove furono rinvenute seppur dopo essere state
il museo territoriale della sabina Allestito nel 2008 nel Castello Savelli di Palombara Sabina, il museo si articola in tre sezioni. Quella dedicata alla preistoria e protostoria espone materiali ceramici dell’età del Bronzo e del Ferro, provenienti dalla zona fra i Monti Lucretili e la valle del Tevere, solcata da antiche rotte della transumanza. La sezione sulla civiltà sabina comprende reperti
dell’abitato protostorico-arcaico (VIII-IV secolo a.C.) individuato sotto il paese di Cretone, forse identificabile con uno dei vetusti centri (Ameriola, Medullum o Cameria) esistenti fra Lazio e Sabina, che
ebbe stretti contatti con l’area falisco-capenate d’oltre Tevere e con il Latium vetus. La terza sezione raccoglie reperti dell’età romana dalla villa in località Formello (tra cui le due statue rinvenute nel 1986) e da altri siti del territorio.
A destra e nella pagina accanto, a destra: particolare della testa e veduta d’insieme della statua di divinità maschile, probabilmente identificabile con Zeus e proveniente anch’essa dalla villa in località Formello. II-I sec. a.C. La figura (alt. 2 m circa), in marmo pentelico, con testa barbata e folta capigliatura, indossa un mantello che cinge i fianchi e lascia nudo il torso vigoroso. Si tratta, con ogni probabilità, di una divinità, di cui sono andati perduti, con la frattura dei piedi e dell’avambraccio sinistro, gli attributi specifici. Potrebbe trattarsi di uno Zeus (se pur difficilmente riconducibile alle iconografie greche del padre degli dèi), ma lo stesso tipo, derivante forse da un originale bronzeo del IV sec. a.C., è stato adottato, in epoca tardo-ellenistica, per rappresentare anche altre divinità (Asclepio, Poseidone o Ade), nonché personaggi romani altolocati. Entrambe le sculture sono conservate nel Museo territoriale della Sabina di Palombara Sabina.
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A sinistra: Palombara Sabina, località Formello. L’esedra del giardino della villa in corso di scavo e (in alto) un particolare del pavimento a mosaico che ornava l’ambiente. Nella pagina accanto: un frammento della decorazione pittorica che abbelliva la stessa esedra.
eirene recupera il braccio destro Il ritorno (nel gennaio 2010) nel suo territorio di provenienza, dopo un prestito quadriennale al Museum of Fine Arts di Boston, della statua marmorea di Eirene (vedi immagine a p. 10) raffinata copia romana, risalente al I secolo a.C., del capolavoro di Cefisodoto, è motivo di grande soddisfazione, sia per l’Amministrazione Comunale di Palombara Sabina, sia per la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio. Quest’ultima, sin dal 2009, è impegnata in indagini archeologiche mirate a valorizzare le strutture della villa in località Formello,
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appartenuta certamente a un personaggio di alto rango, ove nel 1986 la scultura fu rinvenuta insieme a quella maschile (Zeus, eroe?) già esposta nel Museo territoriale della Sabina, inaugurato nel 2008 nelle sale del Castello Savelli grazie alla sinergica collaborazione fra il nostro Istituto e il Comune. La statua verrà ora sottoposta a un nuovo intervento di restauro e completata con il ricongiungimento del braccio destro rinvenuto nei recenti scavi, per essere poi presentata all’ammirazione dei visitatori con un evento che avrà rilevanza non
solo a livello locale. Palombara Sabina, sito di notevole interesse e bellezza anche paesaggistica inserito nel Parco Naturale Regionale dei Monti Lucretili e cerniera in antico fra le culture latina, sabina e fallisca, ha tutte le potenzialità per divenire tappa di eccellenza di un percorso archeologico privilegiato all’interno della poco nota Provincia di Roma, che merita anche al di fuori dell’Urbe l’attenzione del piú qualificato turismo culturale. Marina Sapelli Ragni Soprintendente per i Beni Archeologici del Lazio
rimosse (forse per un recupero in età moderna mai condotto a termine), e non all’interno del settore abitativo. Il luogo piú adatto sembra essere la costruzione al centro dell’esedra che doveva articolarsi in un basso podio con prospetto a colonne lievemente aggettante. L’architettura, quindi, è quella di un sacello fra ali di portico che ricorda la disposizione dei templi di numerosi santuari di origine ellenistica e dei fori di età romana. La villa è databile intorno al 50 a.C.; in particolare i mosaici e le pitture trovano confronti nel repertorio cesariano e proto-augusteo. Per arredarla furono portate anche le statue, tuttavia non commissionate allora, ma recuperate da altri contesti, che non avevano solo funzione esornativa. Soprattutto l’Eirene, scolpita verso il 370 a.C. e innalzata nell’agorà di Atene per celebrare la conclusione della guerra con Sparta, aveva un alto valore simbolico: la dea della pace sorreg-
luoghi pubblici (acropoli di Cuma, «Foro» di Cherchell). Non è escluso, quindi, che l’Eirene, risultando altresí incerta l’identità della statua maschile (Zeus o altra divinità, ma anche una personificazione o un eroe), si colleghi in un’unica lettura interpretava con quest’ultima, rimandando entrambe non solo agli orientamenti ideologico-culturali del proprietario o a qualche momento del suo cursus honorum, ma anche a pratiche di culto. Ciò conduce all’interrogativo principale: a chi appartenne la villa? Al momento si può affermare che il proprietario fu un personaggio di alto rango, che frequentò la località per la villeggiatura estiva, la costrugeva in braccio il piccolo Ploutos, zione infatti appare come una dio della ricchezza e del benessere residenza di otium a giudicare che scaturiscono dalla fine delle dall’alto livello decorativo e ostilità. A Roma il soggetto fu uti- dalla mancanza di un settore rulizzato per divulgare temi cari alla stico (pars rustica). Anche la vista propaganda imperiale, come dimo- panoramica verso uno dei luoghi strano le copie di età augustea e il simbolo del Latium vetus (i Monti rinvenimento di alcune di esse in Cornicolani, sede dell’antica Corni-
culum, oggi Montecelio), deve avere il suo significato. Se lo studio della statua maschile ha fatto pensare a un senatore distintosi per meriti civili o militari all’epoca della conquista romana della Grecia e dell’Oriente ellenizzato, è stata ven-
Alta formazione per archeologi La Scuola Interateneo di Specializzazione in Beni Archeologici coinvolge le Università di Trieste, Udine e Venezia Quattro sono i curricula: preistorico/protostorico classico medievale orientalistico
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La didattica e il percorso formativo comprendono lezioni frontali, seminari, esercitazioni e conferenze, attività di scavo e tirocinio, stage, viaggi di istruzione. La maggior parte di queste attività avrà sede ad Aquileia, in modo continuativo, nei mesi di aprile e maggio 2012. La Scuola si avvale della collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia e di altri enti territoriali. È offerto, inoltre, un sostegno economico alle spese degli specializzandi per il periodo residenziale ad Aquileia o per la partecipazione a scavi all’estero. Le domande di ammissione debbono essere presentate entro il 28 novembre 2011 Per informazioni, ci si può rivolgere alla Contact Line della Scuola – tel. 040 366440 – o si può consultare il sito www.sisba.it
n ot iz iario Particolare del terrazzamento della villa, realizzato in opera poligonale.
tilata, nei giorni della scoperta delle sculture, anche un’altra ipotesi e cioè che la villa sia appartenuta al massimo esponente della poesia neoterica latina, Caio Valerio Catullo (Verona 87-84 a.C.-Roma 54 a.C.). Come si legge nei Carmi 44 e 39, egli possedette un fundus con una suburbana villa, che i detrattori del poeta definivano «Sabinus» e i laudatori «Tiburs». La tradizione antiquaria ha voluto identificarla nelle vestigia di una nobile residenza affacciata sullo
splendido scenario della cascata dell’Aniene presso Tivoli, vicinissima a quella creduta di Orazio, ma, in realtà, essa doveva sorgere al confine fra il territorio tiburtino e il sabino, quindi all’incirca proprio nella zona di Palombara: non si spiegherebbe altrimenti l’incertezza circa la sua collocazione topografica. L’ipotesi è suggestiva, ma la morte precoce del poeta, scomparso, appena trentenne, nel 54 a.C., non sembra accordarsi con la cronologia della villa in corso di scavo, che fu costruita circa in quel periodo.
Lastra fittile di coronamento del tetto (sima) decorata con eroti che sorreggono ghirlande di frutta, già dipinta a vivaci colori.Produzione romana, età augustea.
Ritratto di un vecchio barbato. Fine del I sec. a.C. Noto da numerose copie derivate da un originale ellenistico del III-II sec. a.C., il personaggio fu già identificato (XVI sec.) con Seneca (donde la denominazione di Pseudo-Seneca), ma raffigura probabilmente un poeta greco (forse Esiodo).
Va rilevato, inoltre, che presto, forse già agli inizi del I secolo, il carattere di residenza destinata agli otia aestiva fu mutato in quello, piú redditizio, di impianto produttivo, come dimostrano la lunga vasca e le strutture murarie per coltivazioni, che vennero addossate al fronte del terrazzamento, snaturandone l’arcaica e semplice maestosità.
Parola d’archeologo
di Flavia Marimpietri
L’Italia non fa i «Conti» con l’archeologia La relazione della Corte dei Conti sulla gestione delle nostre antichità denuncia piú di una lacuna: abbiamo ascoltato in proposito il parere di Pier Giovanni Guzzo
’ultima relazione sui siti archeologici presentata dalla L Corte dei Conti al Ministero per i
Beni e le Attività Culturali fotografa una situazione segnata dalle carenze. Tra i problemi evidenziati dai magistrati, c’è, in primo luogo, la mancanza un archivio centrale aggiornato dei siti e, dunque, di una conoscenza completa del patrimonio archeologico nazionale. La Corte, inoltre, registra lentezza burocratica e scarso coordinamento delle strutture centrali con quelle sul territorio, ritardo nell’erogazione dei fondi, mancanza di presupposti e scarsi risultati per il commissariamento di alcuni noti siti archeologici, come Pompei o la Domus Aurea a Roma. L’archeologia potrebbe essere «il primo volano del
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turismo culturale in Italia, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano scientifico ed economico», si legge nel rapporto. Ma cosí non è: in quarant’anni, l’Italia è passata dal primo al quinto posto nella classifica delle mete turistiche globali, nota il Corriere della Sera (Sergio Rizzo, 23 maggio 2011). Se incrociamo, poi, questi dati con le cifre ufficiali della contabilità del Ministero dei Beni Culturali, facciamo una «scoperta» inquietante. È vero che i fondi di cui il ministero dispone sono passati, in dieci anni, dallo 0,41 allo 0,25% del Prodotto Interno Lordo. E, infatti, come abbiamo piú volte riportato, le Soprintendenze archeologiche lamentano la cronica scarsità di fondi. Eppure i numeri della
Direzione generale per l’organizzazione e il bilancio del ministero dicono che i soldi in cassa ci sono, eccome. Ma non vengono spesi. Dati alla mano (rapporto tra saldo iniziale di cassa piú totale delle entrate sul totale delle uscite, tratto dal Sole 24 Ore del 24 aprile 2011, fonte: Ragioneria generale dello Stato, Corte dei Conti e MiBAC), il 55% delle entrate economiche a disposizione del ministero non è stato speso. La metà delle risorse del MiBAC, cioè, è rimasta nel cassetto, nel 2010: in tutto 545,2 milioni di euro. Non solo. I numeri rivelano che le prime a non spendere sono state proprio le Soprintendenze archeologiche e al paesaggio, in primis quelle speciali. La Soprintendenza archeologica di Roma non ha speso l’80% dei
A destra: il Teatro Greco di Taormina. In basso: l’Anfiteatro Flavio, a Roma. Nella pagina accanto: Vulci, il ponte e il castello della Badia.
denari a sua disposizione (95 milioni di euro di entrate, 19 di uscite,). Quella di Napoli e Pompei ha lasciato in cassa il 57,5% delle risorse (21,4 milioni di euro spesi su 50,4), mentre la Soprintendenza speciale per il Polo fiorentino non ha speso il 65,9% dei fondi (33,2 milioni di euro di entrate, 11,3 di uscite). I motivi di questa paradossale difficoltà – spendere le risorse disponibili – secondo i magistrati della Corte dei Conti vanno cercate nel «ritardo congenito nella messa a disposizione dei fondi», nella «lentezza delle gare che spesso subiscono ritardi per annosi contenziosi». Si riscontra poi «l’assenza di raccordo tra direzioni generali» del Ministero dei Beni Culturali e la «scarsa propensione a interagire fra centro (Direzioni antichità e bilancio) e sedi periferiche, cosa da cui deriva un forte deficit di controllo sull’attività svolta dalle Soprintendenze». Cerchiamo di capire meglio la questione con Pietro Giovanni Guzzo, docente di etruscologia e antichità italiche all’Università di Roma «La Sapienza» e già Soprintendente ai Beni archeologici di Napoli e Pompei. Professore, lei ha una lunga esperienza sul campo: perché le soprintendenze archeologiche non riescono a spendere i soldi disponibili e lasciano in cassa, in media, la metà delle risorse? «È proprio la sempre piú grave carenza di risorse professionali a ritardare la spesa. Manca quel personale professionalizzato in quantità necessaria per svolgere tutte le procedure richieste dalla legge per i lavori pubblici. Inoltre, molti dei passaggi delle procedure necessarie per giungere al contratto sono passibili di ricorsi:
non sono rapide, ma sono essenziali se si vuole portare a termine un restauro filologico e non una cementificazione dell’antico manufatto». Quindi i soldi ci sono, gli archeologi pure, però il ministero non riesce a utilizzarli… Ma che cosa non funziona nel meccanismo di finanziamento e di spesa delle Soprintendenze? «Non funziona l’adeguamento delle risorse professionali alla gravosità del compito di tutelare e conservare il patrimonio archeologico. Negli ultimi anni, poi, c’è stata una continua riduzione del personale, per osservare la linea generale di alleggerimento delle Pubbliche il cui svolgimento allunga i tempi». Amministrazioni. Ciò ha ridotto Nel caso della Soprintendenza anche le forze di vigilanza: di Napoli e Pompei, che lei ha abbiamo avuto il paradosso che, guidato fino a poco tempo fa, mentre si ampliava l’area visitabile come sono andate le cose? a Pompei (dal 14 al 31% di quanto «La Soprintendenza di Pompei già messo in luce tra il 1999 e il non ha fatto eccezione a quanto 2009), il numero dei custodi appena detto. Occorre anche diminuiva, cosí che non è stato considerare che, trattandosi di possibile offrire al pubblico quanto restauri e manutenzione di edifici restaurato». antichi, tutte le indagini Dalla relazione della Corte dei propedeutiche al progetto vero e Conti sembra emergere, inoltre, proprio richiedono tempo e sono una mancanza di coordinamento. assai complesse. Per esempio: il Il risultato, secondo i magistrati, è restauro di una casa antica richiede che «l’amministrazione centrale prima uno scavo per conoscere le opera in assenza di una concreta diverse e successive fasi di conoscenza dello scenario globale, costruzione e di adattamento; poi confidando in ciò che viene la lettura delle stratigrafie verticali; rappresentato e senza effettuare quindi l’analisi dello stato di rilevamenti diretti o ispezioni, se consistenza delle malte antiche; e non quando l’urgenza ha già cosí via. Tutte queste operazioni prodotto le conseguenze». Un
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L’area archeologica di Ercolano.
giudizio severo, è d’accordo? «La questione del controllo andrebbe posta al ministero, non a me. Le forme di verifica a livello centrale non spettano alle soprintendenze, ma agli uffici del ministero. Insomma lo Stato ha forme di controllo, ma se non le esercita… Per quanto riguarda la Soprintendenza di Pompei, invece, occorre ricordare che il Collegio dei Revisori dei Conti ha svolto con grande scrupolo il proprio compito». Quindi, in pratica, condivide il giudizio della Corte dei Conti? «In sostanza sí», fa trapelare Guzzo. Inoltre, sottolinea il rapporto, «il sistema centrale perde i contatti con la periferia, con la conseguenza di non avere piú informazioni di ritorno sull’effettiva realizzazione dei lavori, lo stato di avanzamento, l’efficienza e l’efficacia dei costi sostenuti». È possibile che il
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ministero non riesca a controllare come vengono spesi i fondi che eroga sul territorio? «Vale il discorso appena fatto, il monitoraggio dei lavori e della spesa a livello centrale spetta al ministero, non alla soprintendenza. Per Pompei, si ricorda che la gestione è autonoma, e quindi fanno fede i rendiconti, vistati appunto dai revisori dei Conti». Poi ci sono i numeri che non tornano. «Si è constatata una confusione in ordine all’affluenza dei dati conoscitivi dello stato dei siti archeologici» si legge nella relazione dei magistrati (che hanno contato 2555 siti archeologici). Perché non esiste un censimento ufficiale dei luoghi di interesse archeologico presenti sul territorio? «Non so: ma, forse, occorre distinguere tra “uffici scavi” formalizzati, cioè con personale assegnato, e “aree archeologiche” non formalizzate, cioè senza
personale dedicato». Sul commissariamento di Pompei, la Corte dei Conti ha scritto che con la dichiarazione d’emergenza, «non sono stati scongiurati danni a reperti importanti». Né nella città vesuviana, né «alla Domus Aurea». D’altro canto, ricordano i magistrati, su Pompei la Corte si era già pronunciata qualche mese fa, quando aveva chiarito che «i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza fossero sostanzialmente assenti». Che cosa pensa dell’utilità del commissariamento di Pompei? «La Corte dei Conti nel suo pronunciamento del luglio 2010 ha accolto le osservazioni dell’Avvocato dello Stato che difendeva il Ministero per i Beni Culturali: quest’ultimo ha affermato che la dichiarazione dello stato d’emergenza rientrava tra le competenze “politiche” del Governo e, come tale, non era soggetta al giudizio della Corte dei Conti. Quindi, la questione è di natura politica e non tecnica». Perché si interviene sul campo solo in casi (e con procedure) di urgenza e, spesso, a danni già fatti? «Non è vero che si riesce a intervenire solo con urgenza e “dopo”. Quanto ho ricordato prima circa l’ampliamento dell’area posta in sicurezza a Pompei dimostra che la Soprintendenza ha svolto il proprio lavoro con efficacia: anche se, di certo, non con la celerità che sarebbe stata desiderabile. E sulle cause di tale mancanza di velocità, vale quanto detto sopra. La difficoltà non risolta consiste nella professionalizzazione del personale e del suo adeguamento, per numero e per qualifiche, al compito di tutelare il patrimonio culturale del Paese. Poiché, però, l’Italia è il Paese europeo che spende di meno in questo campo, non vedo speranza».
n ot iz iario
MOSTRE Parigi
Donne senza volto di Daniela Fuganti
el cuore della Dordogna, il Museo nazionale di Preistoria N delle Eyzies-de-Tayac ci riporta al
tempo in cui ebbero termine le ere glaciali, circa 12 000 anni fa. Cosí scopriamo l’arte dell’ultima età maddaleniana (dal nome del riparo sotto roccia della Madeleine, a Tursac, in Dordogna, oggi iscritto nelle liste del Patrimonio Mondiale dell’UNESCO). È un’epoca popolata da silhouettes femminili che si diffondono a centinaia grazie al miglioramento climatico. Sono figure sensuali, in sintonia con il medesimo emblematico modello diffusosi dalla Francia alla Svizzera, passando dalla Germania, fino alla Polonia: corpi di donna senza testa. Una sessantina di opere d’arte preistorica provenienti dai siti piú importanti d’Europa – Wylcyze e Dzieryslaw in Polonia, Gönnersdorf e Andernach in Germania, Les Eyzies, e dal Museo di Saint-Germain-en-Laye, senza dimenticare alcuni esempi di incisioni parietali rinvenute in grotte del Sud-Ovest francese – fanno intuire come i rigidi canoni estetici di questa immagine della donna esprimessero, in realtà, una codificazione simbolica della sessualità.
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«Non è la prima volta che una corrente culturale attraversa l’Europa dei cacciatori-raccoglitori.Verso il 28 000 a.C., ci fu la diffusione spettacolare delle figurine femminili del Gravettiano, con le loro rotondità esacerbate – spiega JeanJacques Cleyet-Merle, conservatore del museo perigordino – ben diverse dai profili maddaleniani, appena accennati. Una forma d’espressione artistica, quest’ultima, stereotipata e quasi “archetipica”, che ha probabilmente avuto origine proprio in queste contrade, sulle pareti delle grotte del Sud-Ovest della Francia. Certo è che solo in questa regione tali temi si ritrovano sotto forma parietale, ed è anche logico, visto che questa parte dell’Esagono è stata abitata ininterrottamente per 400 000 anni, grazie al suo mare e alla sua latitudine che hanno permesso all’uomo paleolitico di sopravvivere malgrado l’avanzare dei ghiacciai». Proprio qui, nel 1901, l’abate Breuil, pioniere degli studi preistorici, scopre le prime incisioni femminili stilizzate della grotta in località Les Combarelles (situata a 1 km dal museo): raggruppate nella parte piú profonda del cunicolo, particolarmente stretta e di difficile accesso, le immagini apparivano implicitamente associate a simboli molto eloquenti – triangoli pubici, vulve, falli – e a creature so-
In alto: Les Combarelles (Dordogna). Figure femminili incise su una parete della grotta scoperta nel 1901. Maddaleniano, 13-11 000 anni fa. In basso, a sinistra: coppia di statuette in avorio e legno fossile, da Nebra (Germania), Halle, Landesmuseum Sachsen-Anhalt. In basso, a destra: la statuetta nota come Venere impudica, dal sito di Laugerie-Basse (Les Eyzies-de-Tayac, Dordogna). Parigi, Musée de l’Homme, département de préhistoire, Museum national d’histoire naturelle.
prannaturali con teste e occhi enormi. «La galassia di sagome di donna schematiche, declinate in tutte le forme, che invade l’Europa 12 000 anni fa, alla fine del Maddaleniano Superiore – sottolinea ancora Cleyet-Merle –, è la prova dei solidi contatti, ormai favoriti anche su lunghe distanze dalla definitiva liberazione delle terre dai ghiacciai, fra le popolazioni insediate su tutta la vasta pianura europea estesa dalle rive dell’Atlantico fino alla Polonia». Dove e quando «Mille e una donna dalla fine delle ere glaciali» Les Eyzies-de-Tayac, Musée national de Préhistoire fino al 19 settembre Orario tutti i giorni, 9,30-18,00; ma chiuso (giu e set) Info www.musee-prehistoireeyzies.fr
mostre Roma
Un’Artemide ai piedi dell’Aventino el 2009 fu scoperta nel cuore di Roma, in via Marmorata, tra N il popolare quartiere di Testaccio e
le pendici dell’Aventino, una splendida testa marmorea di Artemide Efesia (ora al Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps). All’opera e al suo ritrovamento sono stati dedicati due volumi, la cui pubblicazione è accompagnata da una mostra documentaria, che rimarrà allestita presso il bookshop dello stesso Palazzo Altemps fino a tutto il mese di settembre. I volumi e l’esposizione illustrano i risultati delle indagini archeologiche che hanno condotto al fortunato ritrovamento. L’Artemide venne alla luce nel cantiere aperto in occasione dei lavori per la sistemazio-
ne della linea tramviaria che corre lungo via Marmorata, e la curiosità suscitata dagli scavi in una zona sempre affollata della città viene ora soddisfatta dalla doppia pubblicazione e dalla mostra. In entrambi i volumi – il primo dei quali è di tipo divulgativo, mentre il secondo ha un taglio piú analitico – vengono ricostruite le vicende della pianura subaventina in età antica e moderna. Se, infatti, la concentrazione dei reperti rinvenuti risale alla prima età imperiale, modificazioni e stratificazioni sono documentate fino al VII secolo e all’età altomedievale. Leggiamo cosí le strutture edilizie del quartiere romano movi-
mentato da vie e vicoli circondati da portici, con magazzini e negozi: memorie di una vita quotidiana tramandate anche dai materiali (sculture, anfore, monete, ecc.), pubblicati in un catalogo che comprende schede, immagini e rilievi. (red.)
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n ot iz iario
MOSTRE Trento
Un viaggio senza tempo el visitare la mostra allestita al Castello del Buonconsiglio, viene N spontaneo pensare che, in fondo, le ac-
quisizioni della civiltà moderna e contemporanea non sono altro che una riproposizione, in forme tecnologicamente piú evolute, di quello che i nostri antenati avevano già scoperto. L’esposizione, infatti, tocca temi come quello della mobilità, della circolazione di uomini, beni e idee, del multiculturalismo, della globalità: realtà con le quali l’uomo si è misurato nei millenni in Europa come mostra di sé, nel capitolo dedicato ai primi mezzi di nel resto del globo. Le grandi vie della civiltà, forte di oltre 800 oggetti, trasporto, la ruota scoperta nel villaggio palafitticolo di Zurigo-Riesbach, una delle piú antiche d’Europa. provenienti da enti e istituzioni italiane e straniere, Nel corso del II millennio a.C., alle ruote a propone un percorso articolato in cinque grandisco pieno, come è appunto l’esemplare di sezioni principali, dedicate al viaggio e al elvetico, si affiancano quelle a raggi, modeltrasporto, alla circolazione delle materie lo in uso in Egitto come nel Vicino Orienprime, alla diffusione dei saperi, alle recite per carri da guerra trainati da cavalli. proche influenze fra stili di vita diversi e Anche se le ruote a disco pieno continuaalla romanizzazione. Contenitori tematici rono a essere utilizzate fino in epoca romache hanno offerto ai curatori del progetto na per trasporti pesanti. la possibilità di selezionare una gamma Piú avanti, nella sezione dedicata alla tipologicamente vastissima di reperti, che circolazione delle materie prime, si può abbracciano un orizzonte cronologico di constatare la straordinaria ampiezza delle molti millenni. È perciò difficile scegliere aree interessate, per esempio, dallo scambio gli oggetti da menzionare, ma vale comune dal commercio, già in età preistorica, delle que la pena di sottolineare alcune «presenze conchiglie marine o della pietra verde. Quest’uleccellenti». tima, utilizzata per le lame delle asce, si caricò anche di Ad accogliere il visitatore, per esempio, fa bella forti significati ideologici, trasformandosi in un vero e In alto: monete d’oro, proprio status symbol. da Grossbissendorf (Germania). I Nelle ultime sale, dedicate all’avvento dell’impero sec. a.C. Monaco, Museo romano e alla conseguente diffusione di un modus viArcheologico. vendi modellato sui canoni dei nuovi padroni del monQui sopra: ruota in legno, dal do, oggetti e opere d’arte riflettono l’affermarsi di una villaggio di Zurigo-Riesbach. «globalizzazione» ante litteram. Distanze e distinzioni fra 3200 a.C. Zurigo, Museo «centro e periferia» si riducono: prodotti soggetti ad archeologico. A sinistra: busto in argento ampia diffusione, insieme alla circolazione delle monedi Giove Dolicheno, da La te, denotano gli sviluppi sempre piú ampi di relazioni Thuile. Fine del II-inizi del di natura propriamente mercantile, sotto il controllo di III sec. d.C. Aosta, Museo figure imprenditoriali. Archeologico Regionale.
(red.)
Dove e quando «Le grandi vie della civiltà. Relazioni fra il Mediterraneo e il Centro Europa. Dalla Preistoria alla Romanità» Trento, Castello del Buonconsiglio fino al 13 novembre Orario tutti i giorni, 10,00-18,00 chiuso i lunedí non festivi, il 15.08 e il 31.10 Info tel. 0461 233770; www.buonconsiglio.it
Calendario Italia
chiusi
Roma
Goti e Longobardi a Chiusi
Nerone
Colosseo, Foro Romano, Criptoportico neroniano e Museo Palatino fino al 12.09.11
Ritratti
Le tante facce del potere Musei Capitolini fino al 25.09.11
Calce viva
Storia di Clusium tra il VI e l’VIII secolo Museo Nazionale Etrusco di Chiusi fino al 21.08.11 Fratta Polesine Ritratto femminile noto come Testa Fonseca. Inizi del II sec. d.C.
I Romani grandi costruttori nei Mercati di Traiano Mercati di Traiano fino al 25.09.11 bari
La vigna di Dioniso
Vite, vino e culti in Magna Grecia Palazzo Simi fino al 20.11.11 barumini
Quel che il mare conserva…
Un meraviglioso viaggio nell’archeologia subacquea Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «Giovanni Lilliu» fino al 30.09.11 bolzano
Ötzi20
Mostra per il ventennale del ritrovamento della mummia del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12 cagliari
Parole di segni
Iscrizioni fenicio-puniche dai musei della Sardegna Museo Archeologico Nazionale fino al 30.09.11
Una sposa dai numerosi doni Il rituale funerario ai tempi di Frattesina Museo Archeologico Nazionale di Fratta Polesine fino al 09.10.11
Oinochoe (brocca) apula a figure rosse con scena di libagione. Metà del IV sec. a.C.
milano
Nutrire il corpo e lo spirito Il significato simbolico del cibo nel mondo antico Museo Archeologico fino al 31.12.11
Montefiore Conca (Rn)
Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dagli scavi nella Rocca Rocca malatestiana fino al 30.06.12
In basso: pittura parietale con il dio Osiride. Firenze, Museo Egizio.
orvieto
Il fascino dell’Egitto
Il ruolo dell’Italia pre e post-unitaria nella riscoperta dell’antico Egitto Orvieto, Museo «Claudio Faina» e Palazzo Coelli (Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto) fino al 02.10.11 scansano (GR)
La valle del vino etrusco
Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11
chianciano terme
Le case delle anime Le «case delle anime» sono modelli architettonici dell’antichità che rappresentano capanne, case, torri, granai, templi e una moltitudine di altre costruzioni, dalle piú semplici e triviali alle piú auliche. Rinvenute in depositi funerari e votivi, a volte anche in zone di abitato, in tutto il bacino del Mediterraneo, in Mesopotamia, ma anche in Cina, in Thailandia, presso alcune culture della Mesoamerica e in altri Paesi ancora, sono la manifestazione di una forte continuità culturale, che ne estende la presenza dal VI millennio a.C. fino ai
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giorni nostri. Considerati per tutta l’età moderna alla stregua di «curiosità» di scavo, cominciarono a ricevere una specifica attenzione scientifica nella seconda metà dell’Ottocento, quando anche la denominazione «case delle anime» cominciò a essere usata non solo per indicare quegli esemplari che presentavano il modello di un edificio miniaturizzato, ma anche in senso generico, un piú vasto insieme di oggetti, di cui fanno parte le urne in forma di abitazione, ma anche la gran parte dei modelli architettonici delle culture antiche. Dal punto di vista
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Francia parigi
tivoli
La spada
Villa Adriana. Dialoghi con l’antico
Usi, miti e simboli Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 26.09.11
Antiquarium del Canopo e area archeologica fino al 06.11.11 trento
Le grandi vie della civiltà
Relazioni fra il Mediterraneo e il Centro Europa, dalla Preistoria alla Romanità Castello del Buonconsiglio fino al 13.11.11
Villa Adriana (Tivoli). Il Teatro Marittimo, in una foto di Luigi Spina.
vetulonia (castiglione della pescaia, gr)
Navi di bronzo
Dai Santuari nuragici ai Tumuli etruschi di Vetulonia Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 06.11.11 vicenza
Restituzioni 2011
Tesori d’arte restaurati Gallerie di Palazzo Leoni Montanari fino all’11.09.11
Belgio Bruxelles
Tutankhamon
La sua tomba e i suoi tesori Brussels Expo e Musée du Cinquantenaire fino al 06.11.11
Quando il corpo si fa parure
Gioielli e ornamenti di culture non europee Musée du Cinquantenaire (Musée pour Aveugles) fino al 28.10.12
antropologico, l’uso di realizzare case in miniatura costituisce una delle innumerevoli espressioni di una delle tendenze piú diffuse nelle culture: quella a miniaturizzare. dove e quando Museo Civico Archeologico delle Acque fino al 16.10.11 Orario tutti i giorni, tranne il lunedí, 10,00-13,00 e 16,00-19,00 Info tel. 0578 30471; e-mail: museoetrusco@libero.it.
Les-Eyzies-de-Tayac
Mille e una donna, alla fine delle ere glaciali Musée national de Préhistoire fino al 19.09.11 strasburgo
Strasburgo-Argentorate
Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.) Musée archéologique fino al 31.12.11
Germania monaco
La guerra di Troia
200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12
Statua in basalto di leone, da Tell Halaf. X-IX sec. a.C.
L’ubicazione e l’estensione del campo legionario di Argentorate rispetto all’area urbana della Strasburgo moderna.
Grecia Atene
Il mito e la monetazione Museo Archeologico Nazionale e Museo Numismatico fino al 27.11.11
Svizzera Hauterive
L’era del falso
Quando le contraffazioni svelano i sogni e le speranze degli archeologi Laténium, Espace Paul Vouga fino all’08.01.12
USA
In alto: statere in argento della Lega Arcade. 360 a.C. circa. In basso: le Dame in blu, riproduzione dell’affresco trovato presso i magazzini reali di Cnosso. Tardo Minoico IB, 1525-1450 a.C.
new york
Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo
Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 13.11.11
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Corrispondenza da Atene
di Valentina Di Napoli
La culla dello spirito greco Un’organizzazione no profit contribuisce alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio greco. E, per farlo, sceglie di ambientare le sue campagne di sensibilizzazione... a teatro n tempi di crisi, il patrimonio culturale, artistico, archeologico e Ipaesaggistico subisce spesso le conseguenze della scarsità di fondi; e la Grecia non fa certo eccezione. E, in frangenti simili, le iniziative private possono rivelarsi decisive. Lo dimostra Diazoma, un’associazione greca no profit, che ha scelto un nome significativo: in greco antico, infatti, si designava
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con tale termine un settore orizzontale della cavea dei teatri, separato dal settore successivo tramite un corridoio o passaggio. Diazoma è divenuta realtà nel 2008, grazie all’iniziativa di Stavros Benos, che ne è ora il presidente: una personalità da sempre impegnata in attività legate alla cultura e al patrimonio archeologico greco (è stato, tra
l’altro, sindaco di una delle città principali della Messenia, Kalamata, nonché ministro alla Cultura e sottosegretario agli Interni). Al fianco e a supporto degli «addetti ai lavori» Ma qual è lo scopo dell’associazione Diazoma? Innanzitutto quello di fungere da intermediario tra
A destra e nella pagina accanto, in alto: il Teatro di Epidauro, considerato come il prototipo ideale di questo genere di edifici per spettacoli. Nella pagina accanto, in basso: Stavros Benos, presidente dell’associazione Diazoma.
l’amministrazione pubblica e le comunità locali. Di sensibilizzare gli abitanti nei confronti del patrimonio culturale e ambientale della propria regione e, al tempo stesso, di spingere le autorità ad agire. Per dirla con le parole di Benos stesso: «Il nostro scopo non è quello di cercare gli sponsor, né di persuaderli, bensí di ispirarli, di coadiuvare le autorità competenti, di stimolare il Ministero alla Cultura, di coinvolgere nelle nostre attività un numero sempre maggiore di cittadini». Espressione della democrazia Nel caso specifico, le iniziative di Diazoma sono mirate a proteggere e valorizzare i teatri e, piú in generale, gli edifici da spettacolo antichi. Perché proprio i teatri? Lasciamo parlare ancora una volta il presidente dell’associazione: «I teatri sono splendidi esempi di un’architettura eccezionale; risultati supremi della civiltà greca antica; opere d’arte realizzate per accogliere a loro volta opere d’arte; edifici in cui si condensano l’originalità, la grazia, l’espressione stessa della democrazia e della partecipazione dei cittadini, cioè quanto di meglio ha prodotto lo spirito greco». Nei teatri, quindi, questa associazione ha potuto coniugare al meglio la passione per i monumenti antichi con la visione attiva e democratica dell’impegno pubblico. Una delle iniziative piú interessanti promosse da Diazoma è stata battezzata Adotta un teatro antico: creando salvadanai, l’associazione si propone lo scopo di raccogliere fondi da destinare a progetti di valorizzazione, restauro, studio di singoli teatri antichi. È riuscita, in
tal modo, a sensibilizzare alcuni mecenati e, soprattutto, la popolazione locale: basta dare un’occhiata ai salvadanai già allestiti, tutti reperibili sul sito dell’associazione (www.diazoma.gr), per constatare che le donazioni partono dai 2 euro per arrivare a cifre ben piú alte. A tal punto che, per alcuni teatri, si sono potute raggiungere somme anche ragguardevoli, se si pensa che per il Teatro di Delfi, per esempio, sono stati a tutt’oggi raccolti quasi 100 000 euro, partendo anche da donazioni minime di cittadini. Un tesoro pubblico Forse, il risultato piú significativo raggiunto finora da Diazoma è proprio questo: l’avere coinvolto la cittadinanza, interessandola al patrimonio
pubblico, un tesoro che alcuni vorrebbero svendere e che può essere umiliato e alienato solo con la complicità dell’indifferenza generale. L’obiettivo scelto da quest’associazione è per il momento il teatro greco antico, una delle piú alte realizzazioni dello spirito greco, se si pensa alla drammaturgia di età classica, e al tempo stesso una delle espressioni piú perfette dell’architettura greca, se si pensa a edifici dall’armonia ineguagliabile come il Teatro di Epidauro. Senza alcun fine di lucro, nel rispetto delle regole, Diazoma è un esempio di come la passione politica possa sposarsi con un impegno concreto per il patrimonio culturale e monumentale, anche quando le circostanze sembrerebbero suggerire che si sta andando nella direzione opposta.
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scoperte fibula prenestina
Il giallo della Comparso oltre un secolo fa in circostanze misteriose, l’oggetto che presentiamo in queste pagine divenne ben presto uno dei casi piú discussi dell’archeologia: la celebre Fibula Prenestina, una spilla aurea ritenuta «la piú antica testimonianza della lingua latina» (ma la cui provenienza era tutt’altro che certa), era l’opera di un geniale falsario? Ecco cosa rivelano le recentissime analisi…
N
el gergo poliziesco, l’espressione «cold case» definisce un’indagine su un delitto irrisolto avvenuto molti anni prima e ormai archiviato. E tale si può considerare la vicenda della Fibula Prenestina, il cui caso, aperto da piú di cento anni, può dirsi finalmente risolto dalle indagini piú recenti. Nello scorso giugno, a Roma, il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico «L. Pigorini» (che della Fibula è il custode) ha ospitato una tavola rotonda – organizzata da Elisabetta Mangani e presieduta dal soprintendente Luigi La Rocca –, Daniela Ferro, fisico del CNR, ed Edilberto Formigli, archeometallurgo dell’Università di Roma «La Sapienza», hanno infatti dimostrato che tanto la Fibula, quanto l’iscrizione su di essa incisa sono autentiche e risalgono al VII secolo a.C.
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Ma questo è stato solo il punto d’arrivo di un processo durato oltre cento anni, che vale la pena di raccontare. Le vicende che hanno portato il prezioso cimelio dalla presentazione ufficiale all’Istituto Archeologico Germanico nel 1887 fino alla definitiva riabilitazione nel mese scorso hanno avuto tutte le caratteristiche di un caso giudiziario, con testimoni eccellenti, perizie scientifiche, la partecipazione del pubblico degli studiosi, un pubblico ministero acuto e tenace come Margherita Guarducci e perfino l’intervento risolutivo della «scientifica», arrivato solo in extremis…
Un reperto eccezionale... Ma andiamo per ordine. La Fibula Prenestina fa la sua comparsa ufficiale per la prima volta il 7 gennaio 1887, in una se-
duta dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, a opera di Wolfgang Helbig (1839-1915), instancabile archeologo e studioso, conoscitore di antichità etrusche e collaboratore di Theodor Mommsen (1817-1903), grande maestro delle scienze umanistiche del XIX secolo. Si tratta di una spilla d’oro, lunga 10,7 cm, «a drago», con arco corto e staffa lunga, appartenente a una nota tipologia di lussuosi accessori per abbigliamento dell’età orientalizzante; ma il pregio maggiore del reperto era ed è la presenza di un’iscrizione incisa lungo la staffa della Fibula, che costituiva allora la piú antica iscrizione latina nota (superata oggi da un graffito di Osteria dell’Osa, se davvero è latino, come ha argomentato recentemente Giovanni Colonna). Si tratta di un testo di dono in
FIBULA D’ORO di Daniele F. Maras
latino arcaico (vedi box a p. 36), di eccezionale corredo era forte, e, cui si riportano di seguito trascri- nel 1898, Georg Karo ribadí tale zione, pronuncia e traduzione: ipotesi in base a notizie apprese ufficiosamente da Helbig. Per MANIOS MED VHE:VHAKED questo motivo, nel 1900, la FiNUMASIOI bula, che nel 1889 era entrata a Manios med fefaked Numasioi far parte del neonato Museo di «Manio mi ha fatto per Numasio». Villa Giulia come «dono del Cav. Francesco Marinetti», fu trasferiLa notizia dell’eccezionale sco- ta su richiesta di Luigi Pigorini perta fece il giro del mondo, al Museo Nazionale Preistorico attirando l’interesse di tutti gli Etnografico del Collegio Romastudiosi dell’epigrafia e della lin- no (che in seguito prese il suo gua latina arcaica. L’oggetto era nome), dove già era conservato il allora in possesso dell’antiquario materiale della Tomba Bernardini. Francesco Martinetti, che oltre un decennio prima, nel 1876, ...di dubbia provenienza era stato fra i protagonisti della Ciononostante sia Martinetti scoperta della Tomba Bernardini che Helbig mantennero pubdi Orvieto, nella quale si trovava blicamente il riserbo sulla reale un ricchissimo corredo funera- provenienza del gioiello che, se rio, con gioielli e vasellame di avesse effettivamente fatto parmetallo prezioso. te del corredo, avrebbe dovuto Il sospetto di un’originaria appar- essere stato sottratto dallo stesso tenenza della Fibula allo stesso Martinetti o da altri al momento
La Fibula Prenestina, custodita a Roma presso il Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico «Luigi Pigorini». Lungo la staffa è incisa un’iscrizione di dono in latino arcaico. Le recenti indagini condotte con la microscopia a scansione elettronica accoppiata alla scansione per raggi X, hanno confermato l’autenticità del manufatto, risalente all’epoca orientalizzante, VII sec. a.C.
della scoperta e avrebbe quindi causato un’accusa di furto ai danni dello Stato. Il «caso» iniziava quindi già allora ad avere risvolti giudiziari, anche se per ora si trattava solo di dubbi sulla provenienza della Fibula. E in effetti le monografie dedicate alla Tomba Bernardini da Charles Densmore Curtis nel 1919 e da Fulvio Canciani e Friedrich-Wilhem von Hase nel 1978 non la includevano nel a r c h e o 33
scoperte fibula prenestina
Ioi samun
un dono aristocratico Contrariamente a quanto si potrebbe pensare a prima vista, l’iscrizione sulla Fibula Prenestina non è una vera e propria firma d’artigiano, in quanto i personaggi menzionati vanno considerati come l’autore e il destinatario del dono di un oggetto di prestigio, effettuato in un contesto gentilizio. Manios non è quindi un orafo, ma tutt’al piú il «signore» latino nella cui corte aristocratica era installata un’officina di orafo (in tal caso la firma non sarebbe dell’artigiano, ma del padrone); e Numasio è il nome di un secondo «signore» che ha ricevuto in dono l’oggetto. Simili doni erano la norma nei rapporti tra personaggi di alto rango dell’Italia antica, e con ogni probabilità servivano di regola a cementare amicizie o alleanze con risvolti politici, sociali e − perché no? – matrimoniali: l’epica di Omero è piena di esempi di scambi di questo genere. Di norma le iscrizioni di dono orientalizzanti conservano il solo nome del donatore, che intendeva cosí essere ricordato da chi riceveva il dono e lasciare aperta la possibilità di scambiare di nuovo l’oggetto. Nei casi in cui invece è riportato il nome del destinatario, come per la Fibula, è forte la tentazione di pensare che si sia trattato di un dono funerario: Numasio, pertanto, era probabilmente già morto nel momento in cui ha ricevuto in dono la fibula. Ma in cosa consisteva in realtà il dono del quale quest’ultima faceva parte? Spesso si tende a dimenticare che gli oggetti archeologici sono soltanto ciò che è rimasto di un contesto ben piú grande: ciò che manca, a volte, potrebbe essere piú importante di ciò che si è conservato: con questo spirito Carmine Ampolo, già anni fa, ha sottolineato che le fibule erano in realtà una piccola, per quanto preziosa, parte di vesti sfarzose, delle quali non si è conservata quasi alcuna traccia archeologica. Con il nome di peronai, Omero
descrive in piú di un caso i gioielli che decoravano le vesti, ed erano queste in realtà il vero oggetto del dono. La Fibula Prenestina, pur cosí preziosa, era in realtà un accessorio del vero regalo e l’iscrizione incisa su di essa funzionava come una didascalia o meglio come... un biglietto di auguri!
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In alto: il particolare dell’iscrizione in latino arcaico che corre lungo la staffa della Fibula Prenestina. In basso: la Fibula Prenestina, del tipo «a drago», realizzata con una lega di oro, argento e rame, caratteristica delle oreficerie etrusche.
corredo (relegandola in appendice nel secondo caso); e quando nel 1960 il materiale fu trasferito al Museo di Villa Giulia (dov’è tuttora esposto), la Fibula rimase al Pigorini.
Helbig fu un falsario? Ma la vera «bomba», che causò una svolta fondamentale delle indagini, scoppiò nel 1979, quando l’insigne epigrafista Margherita Guarducci, in una riunione della Classe di Lettere dell’Accademia dei Lincei, dichiarò la Fibula un falso, realizzato negli anni Ottanta dell’Ottocento dallo stesso Wolfgang Helbig che, a detta della studiosa, possedeva le competenze necessarie a contraffare un documento archeologico cosí complesso in modo credibile. In effetti, nel corso della sua attività Wolfgang Helbig manteneva rapporti con l’ambiente degli antiquari romani, che spesso e volentieri erano implicati piú o meno indirettamente con traffici di materiale di provenienza dubbia o illecita, quando non addirit-
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tura con la falsificazione di reperti archeologici, destinati al mercato dei collezionisti italiani e stranieri. Per questo motivo, le articolate e meticolose argomentazioni portate dalla Guarducci – che tornò sulla questione piú volte negli anni seguenti, presentando anche alcune analisi scientifiche realizzate al meglio della tecnologia dell’epoca –, suffragate dal sospetto atteggiamento omertoso di Helbig e Martinetti riguardo la provenienza, convinsero una parte del mondo accademico e lasciarono interdetti altri studiosi. A schierarsi dalla parte dell’accusa furono in particolare soprattutto i linguisti – come per esempio Aldo Luigi Prosdocimi e Marco Mancini –, per i quali la forma verbale VHEVHAKED costituiva per molti versi un rebus difficile da sciogliere. Ma anche l’autenticità della Fibula ebbe alcuni strenui difensori, tra cui Giovanni Colonna, Carlo de Simone e Annalisa De Bellis Franchi. Verso la fine degli anni Ottanta, per porre termine alla querelle,
La Fibula e la Tomba Bernardini A destra: particolare di una patera (piatto per libagioni) di bottega cipriota, dalla Tomba Bernardini. VII sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. La sepoltura principesca di età orientalizzante fu scoperta a Palestrina nel 1876. Al suo interno, un defunto di sesso maschile, deposto in una fossa profonda, era accompagnato da un prezioso corredo e da oggetti di ornamento personale. Agli inizi del Novecento alcuni studiosi sospettarono l’appartenenza della Fibula Prenestina a tale corredo.
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scoperte fibula prenestina A sinistra: una sala del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma, in una fotografia della fine dell’Ottocento. La Fibula, donata al museo nel 1889 dall’antiquario Francesco Martinetti, fu trasferita nel 1900 al Museo Nazionale Preistorico Etnografico del Collegio Romano, dove si trovava, all’epoca, anche il corredo della Tomba Bernardini, spostato nel 1960 a Villa Giulia.
il possibile movente della presunta truffa Come in ogni indagine che si rispetti, Margherita Guarducci (e altri), dopo aver raccolto i dati che mettevano in dubbio l’autenticità della Fibula Prenestina, si chiesero che cosa avesse potuto spingere Francesco Martinetti, ma soprattutto Wolfgang Helbig, a organizzare il presunto raggiro. Nel caso di Martinetti avrebbero potuto esserci, probabilmente, motivi di carattere pratico, ma non di lucro immediato, visto che il pezzo fu donato e non venduto al Museo di Villa Giulia. Si può cioè pensare che Martinetti, facendosi una fama di «fornitore» di pezzi pregiati, volesse monopolizzare un certo tipo di clientela. Per Helbig il discorso è piú complesso: uno studioso del suo calibro non poteva infatti ignorare l’eco che una scoperta del genere avrebbe avuto ed è perciò difficile credere che l’intenzione fosse quella di beffarsi del mondo accademico per il gusto, peraltro diffuso, dello scherzo. Analizzando la situazione di Helbig al momento della presentazione della fibula, è piú probabile che il gesto potesse essere stato dettato da interessi personali, legati alla carriera. Nel 1887, infatti, Helbig attendeva che da Berlino si decidesse del suo futuro e sapeva che i suoi superiori intendevano estrometterlo dall’Istituto Archeologico Germanico. Presentando un documento cosí importante, avrebbe potuto pensare che la situazione potesse volgere in suo favore e che forse proprio a lui sarebbe stato affidato l’incarico di succedere a Wilhelm Henzen nel ruolo di direttore dell’Istituto. Se il movente fosse stato questo, il calcolo si sarebbe rivelato sbagliato, perché l’ambita carica fu affidata a Eugen Petersen. (red.) Illustrazione raffigurante la bottega di un orafo nell’Ottocento.
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In alto: ritratto dell’archeologo tedesco Wolfgang Helbig (18391915). Lo studioso, che presentò per la prima volta la Fibula all’Istituto Archeologico Germanico di Roma, nel 1887, fu sospettato di aver falsificato l’oggetto.
un’accademica senza timori reverenziali Nata Firenze nel 1902, Margherita Guarducci si laurea, nel 1924, presso l’Università degli Studi di Bologna, e frequenta quindi i corsi di perfezionamento della Scuola Nazionale di Archeologia, dapprima a Roma e poi presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, sotto la direzione di Alessandro Della Seta. Al soggiorno in Grecia risale l’incontro, a Creta, con Federico Halbherr, che si rivela determinante per l’orientamento iniziale dei suoi studi verso l’epigrafia e le antichità greche. Halbherr (dal 1889 professore a Roma di epigrafia greca) aveva progettato di pubblicare un corpus delle iscrizioni greche e latine di Creta, provvedendo a un’ampia raccolta del materiale, e, alla sua morte, nel 1930, il compito di portare a termine il lavoro avviato viene ereditato dalla Guarducci, che, nello stesso anno, aveva ottenuto la libera docenza, e, nel 1931, ebbe anche l’incarico dell’insegnamento tenuto da Halbherr nell’Università di Roma «La Sapienza». Nel 1942 la studiosa vince il concorso per la cattedra di epigrafia e di antichità greche nell’Università di Roma, dove ha insegnato fino al 1973. Per altri cinque anni insegnò presso la Scuola Nazionale di Archeologia, della quale tenne anche la direzione.
Edilberto Formigli, forte della propria esperienza di archeometallurgo e restauratore, nonché maestro orafo egli stesso, condusse approfondite analisi tecniche sulla Fibula, dimostrandone l’autenticità. Rimase però aperto il dubbio sull’iscrizione, che, a parere della Guarducci, avrebbe potuto essere stata incisa a opera o sotto la dettatura dello stesso Helbig, per accrescere il valore commerciale dell’oggetto, ovvero per creare un falso documento storico eccezionale. Le tecnologie di analisi a disposizione di Formigli all’epoca erano tra le migliori a disposizione, ma il progresso scientifico e informatico ha compiuto passi da gigante negli ultimi decenni, specialmente dal punto di vista strumentale. Ecco perché, a distanza di meno di trent’anni, nuove analisi sullo stesso oggetto hanno potuto portare risultati nuovi, importanti e verosimilmente definitivi. Ancora una volta è stato Edilberto Formigli a tornare sulla questione, dapprima presentando alcuni dati tecnici già nel 2009, che confermavano l’antichità della Fibula, poi
Nel 1952, per incarico di Pio XII, partecipa alle indagini archeologiche ed epigrafiche nella necropoli vaticana sotto la Basilica di S. Pietro, un impegno dal quale scaturiscono pubblicazioni importanti, accolte non senza polemiche, perché, per esempio, la Guarducci nega la paternità di Arnolfo di Cambio per la statua bronzea di San Pietro della basilica vaticana. Ugualmente aspra è la controversia aperta dalla sua analisi sulla «Fibula Prenestina», di cui arriva a negare l’autenticità, proponendo di riconoscere gli autori del falso, fatto a Roma, in Francesco Martinetti e Wolfgang Helbig, strettamente legati «da molteplici interessi di carattere economico». Qualche anno piú tardi, a falsari di ambiente romano la studiosa riferisce anche la realizzazione del cosiddetto Trono di Boston. Margherita Guarducci si spegne a Roma il 2 settembre 1999. Nella sua lunga carriera accademica, è stata socio nazionale dell’Accademia dei Lincei ed effettivo della Pontificia Accademia di Archeologia, nonché membro, fra gli altri, della Royal British Academy, dell’Istituto Archeologico Germanico, di quello di Studi Etruschi e dell’Accademia di Lettere e Belle Arti di Napoli. (red.)
affiancandoli alle numerose microanalisi chimiche e fisiche di dettaglio, condotte da Daniela Ferro presso il Laboratorio del Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Roma «La Sapienza», con il microscopio elettronico a scansione.
– al di sotto della pasta le incisioni, realizzate con una punta a secco, mostravano segni di micro-cristallizzazione della superficie dell’oro che hanno potuto prodursi soltanto nel corso di molti secoli dopo il tracciato dell’iscrizione. Tradotto in parole povere: la Fibula è autentica, l’iscrizione è stata Certezze e ancora dubbi tracciata in età antica, qualcuno Il referto finale è il seguente: – la Fibula Prenestina è antica e ha «ripulito» malamente l’oggetto dopo il suo ritrovamento e ha cerautentica; – una riparazione sulla staffa, otte- cato di farlo apparire piú bello (e nuta tramite l’applicazione di una leggibile) prima che accedesse al laminetta d’oro, è stata effettuata Museo Pigorini. Ma, se la Fibula è autentica, qual è già in epoca antica; – le macchie visibili a forte ingran- la sua provenienza? Non sarà stata dimento sulla superficie (soprattut- davvero sottratta dal corredo della to sulla parte iscritta) sono dovute Tomba Bernardini, con l’intento all’utilizzo di acido solfo-nitrico di- di venderla a parte? E se sí, da chi? luito per ripulire delle incrostazioni: E come si può spiegare la foruna procedura insolita e dannosa m a ve r b a l e l a t i n a a rc a i c a per un gioiello antico (inadatta a un VHE:VHAKED? E come mai l’iscrizione è stata incisa in due restauratore professionista); – la superficie è stata lucidata per tempi, correggendo un primo errenderla piú brillante con un tipo rore di scrittura? di pasta abrasiva, detta «rossetto L’oggetto è stato finalmente reinglese» (in uso nell’Ottocento), i cuperato alla scienza: spetta ora cui resti avevano riempito i solchi agli studiosi il compito di portare avanti la ricerca… dell’iscrizione; a r c h e o 37
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scavi
venere genitrice
Sotto il segno di venere di Patrizia Maisto e Massimo Vitti
Tre solitarie colonne in marmo bianco, alle pendici del Campidoglio e a pochi passi dal Colosseo: sono quel che oggi rimane di uno dei piú ricchi e maestosi templi di Roma antica. Eretto nel 46 a.C. per volere di Giulio Cesare, era dedicato a Venere Genitrice, madre di Enea e capostipite della stirpe degli Iulii. Oggi, lo studio delle strutture e dei materiali hanno permesso di ricostruire storia e aspetto del monumento perduto… A sinistra: ricostruzione acquerellata dei Fori Imperiali in età traianea. Roma, Museo dei Fori Imperiali. Nella pagina accanto: le colonne del tempio di Venere Genitrice, rialzate dopo gli scavi del 1932.
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hi, a Roma, percorre via dei For i Imper iali, dal Colosseo verso piazza Venezia, vede ergersi solitarie, alle pendici del Campidoglio, tre imponenti colonne di marmo bianco, rialzate dopo gli scavi mussoliniani del 1932 (vedi foto nella pagina accanto, in basso). Sono quello che resta di un tempio voluto, nel 46 a.C., da uno dei piú grandi personaggi dell’antichità: Caio Giulio Cesare, il conquistatore della Gallia, colui che, nel bene e nel male, aprí la strada all’avvento dell’impero, l’uomo che diede impulso alla grande trasformazione della città che nel giro di pochi anni sarebbe diventata, sotto il suo successore Augusto, splendente di marmi.
Un nuovo Foro Il bottino delle guerre galliche permise a Cesare di espropriare i terreni per iniziare la sua piú grande impresa urbanistica: la costruzione del Forum Iulium, immediatamente adiacente all’area pubblica piú antica e centrale di Roma, quella in cui, dalla sua fondazione, batteva il cuore politico della città: il vecchio, a r c h e o 39
scavi venere genitrice Il Foro di Cesare fu dedicato nel 46 a.C., da Giulio Cesare, per ampliare il vicino Foro Romano, ormai inadeguato alle necessità di amministrazione e di rappresentanza di una città divenuta capitale di un vasto impero. Era costituito da una piazza rettangolare, chiusa sul fondo dal tempio di Venere Genitrice, divina antenata della sua famiglia, la gens Iulia. Era il piú antico dei Fori Imperiali, e, per questo, subí nel tempo numerose trasformazioni: dopo la morte di Cesare fu completato da Augusto soprattutto per quanto concerne i portici (vedi disegni qui sotto). Traiano, parallelamente al suo Foro, intervenne invece con la costruzione di una latrina, della cosiddetta Basilica Argentaria e con la ricostruzione del tempio di Venere Genitrice, dotandolo di una ricchissima decorazione e inaugurandolo nuovamente nel 113 d.C. Nel 285, dopo essere stato distrutto da un incendio, venne pesantemente restaurato con interventi di consolidamento della facciata del tempio e il rifacimento dei portici.
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III sec. d.C. Il restauro del Foro di Cesare dopo l’incendio che lo distrusse nel 285 d.C.
Pianta generale dei Fori Imperiali sovrapposta alla viabilità moderna.
Età traianea Le modifiche apportate dall’imperatore Traiano, che ricostruí il tempio di Venere Genitrice.
46 a.C. Il complesso del Foro di Cesare, all’epoca della sua costruzione.
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Cesare intendeva anche celebrare se stesso, esaltando le sue presunte origini divine caotico, superaffollato Foro Romano. Per decongestionarlo e regalare ai cittadini un ulteriore luogo di riunione e di scambi, Cesare costruí quindi una lunga piazza, circondata da portici su tre lati, mentre sul fondo (sulle nuove scoperte, vedi «Archeo» n. 286, dicembre 2008), addossato al colle capitolino, edificò un tempio che voleva essere, al di là delle valenze cultuali, la celebrazione di se stesso tramite la celebrazione delle
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sue presunte origini divine. Il tempio, infatti, venne dedicato a Venere Genitrice, in quanto madre divina dell’eroe troiano Enea che, raggiunta la costa laziale, diede origine, tramite suo figlio Iulo, alla stirpe degli Iulii, a cui Cesare apparteneva.
Traiano nel II secolo d.C. che, sostanzialmente, mantenne lo schema architettonico e i temi decorativi dell’edificio originario. L’apertura del Museo dei Fori Imperiali nel 2007 (vedi «Archeo» n. 284, ottobre 2008) ha imposto lo studio approfondito delle strutture e dei materiali del temL’intervento di Traiano I resti che vediamo oggi non appar- pio ai fini espositivi. Ciò ha pertengono però al tempio di Cesare, messo la realizzazione di un’assoma alla sua ricostruzione, voluta da nometria ricostruttiva della fase
traianea (eseguita dalla società Inklink), e presentata al pubblico in occasione dell’inaugurazione del museo. Essa ci mostra un tempio in stile corinzio, elevato su un alto podio, sul quale si impostano le colonne della peristasi (colonnato esterno), in marmo bianco lunense, a cui appartengono le tre ancora visibili. Il tempio era del tipo ottastilo perip(segue a p. 44) a r c h e o 41
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IL TEMPIO RICOSTRUITO 1
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Sulle due pagine: assonometria ricostruttiva del tempio di Venere Genitrice come doveva apparire dopo la ricostruzione voluta da Traiano all’inizio del II sec. d.C. A destra: veduta parziale del Foro di Cesare con, al centro, le colonne superstiti del tempio di Venere Genitrice.
1. statua di culto 2. Le tre colonne ricostruite oggi visibili 3. I due ordini della cella 4. Pannello con amorini 5. Scalinata d’accesso 6. Fontana
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Fotografie d’epoca raffiguranti l’anastilosi del portico e del tempio di Venere Genitrice e parte dei numerosi frammenti scultorei rinvenuti durante lo sterro nel 1932.
tero sine postico, cioè con otto colonne sulla fronte e otto sui lati lunghi, ma privo di colonne sul retro. Si accedeva alla quota del colonnato tramite due scale laterali, confluenti in una rampa frontale che occupava il settore superiore del podio: una particolarità che dava maggiore slancio verticale alla facciata e rendeva il tempio ancora piú imponente rispetto alla piazza circostante. Ad accentuare questa verticalità contribuiva l’estrema vicinanza tra le colonne, secondo un ritmo architettonico che Vitruvio, il grande teorico dell’architettura antica, definisce «picnostilo». Sopra l’architrave, correva un fregio sontuoso, decorato da girali di acanto, reso con particolare naturalezza e fortemente chiaroscurato. La cornice sovrastante, anch’essa riccamente lavorata, terminava con un motivo di delfini con code intrecciate intorno a tridenti, con un evidente richiamo a Venere nata dalla spuma del mare, e portatrice, in quanto dea 44 a r c h e o
dell’amore, di fertilità e ricchezza, evocate dai rigogliosi girali di acanto del fregio. Ancora piú allusivo è il tema decorativo presente in numerosi frammenti relativi a bellissimi pannelli di marmo bianco che, per dimensioni e particolarità costruttive, vengono attribuiti ai muri della cella, inseriti tra le lesene che scandiscono verticalmente le pareti. Tutti sono incorniciati da un raffinato motivo vegetale e rappresentano piccoli putti con le ali, i cosiddetti «amorini», che altro non sono se non la ripetizione, in molteplici atteggiamenti, della personificazione dell’amore, Eros, figlio di Venere (vedi disegno e foto nella pagina accanto).
Il sacrificio dei tori Gli amorini, dai volti paffuti e accattivanti, sono tra le realizzazioni migliori dell’arte imperiale nel pieno della sua maturità espressiva; il tema ebbe larga fortuna da Traiano in poi, e, addirittura, se ne trova un’eco nelle opere degli artisti del Rinascimento. Proprio in questo periodo furono ritrovate le due uniche lastre quasi integre, che andarono ad arricchire le grandi collezioni private del tempo. Una di esse, proveniente dalla Collezio-
la cella del tempio
A sinistra: disegno ricostruttivo del muro esterno della cella del tempio. Tra le lesene sono inseriti i pannelli marmorei raffiguranti gli amorini che, in omaggio a Venere, sacrificano tori (qui sopra e qui sotto) o bruciano offerte in un incensiere (in basso).
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scavi venere genitrice ne Farnese, è ora esposta al Museo Archeologico di Napoli e mostra due amorini affrontati nell’atto di sacrificare tori (tauroctoni). Da altri frammenti, conservati nei depositi del Foro di Cesare, è stato possibile ricostruire una variante dello stesso motivo, con gli amorini disposti schiena contro schiena, in un morbido intrecciarsi di ali dal ricco piumaggio (vedi foto a p. 45). Il tema dell’amorino tauroctono (a differenza della Vittoria, molto diffusa già in ambito greco, e ripresa nel grande fregio della Basilica Ulpia nel Foro di Traiano) sembra essere una creazione originale ideata per il tempio di Venere, dove questi piccoli putti, che ne costituiscono l’abituale corteo, diventano ministri di un sacrificio celebrato in suo onore. La seconda lastra, conservata a Roma a Villa Albani (Collezione Torlonia), mostra amorini piú fantasiosi, dalle gambe trasformate in foglie di acanto da cui nascono rigogliose volute che occupano tutto lo spazio libero del pannello (vedi foto a p. 45, in basso). Essi depongono offerte in un thymiaterion (incensiere), sostenuto da un elegante candelabro posto al centro della composizione. Anche in questo caso si conservano frammenti di altri pannelli, dai quali si intuisce una diversità di atteggiamenti degli amorini e una differente decorazione dei candelabri.
Offerte agli dèi Entrambi i motivi r ientrano nell’ambito cultuale: il sacrificio del toro, infatti, è particolarmente importante nella liturgia pagana, inteso come momento di rigenerazione della vita; le offerte bruciate nel thymiaterion mirano, invece, a creare un collegamento ideale tra il mondo umano e quello divino, attraverso l’esalazione delle essenze bruciate durante le cerimonie sacre. Se è vero che le dimensioni delle lastre integre confermano l’attribuzione di questi pannelli tra le lesene dei muri laterali della cella, è anche vero che altri frammenti di misure differenti, ma sempre relati46 a r c h e o
vi ai medesimi temi, suggeriscono la presenza di lastre di maggiore dimensione destinate, forse, a ornare la parete frontale della cella, quasi certamente priva di lesene intermedie, dove il motivo poteva, quindi, distribuirsi su una lunghezza maggiore. Nonostante le ultime indagini, altri frammenti che potrebbero ulteriormente facilitare le ricostruzioni, non sono stati individuati nei magazzini: probabilmente sono confluiti, dopo gli scavi degli anni Trenta, nei depositi dei Musei Capitolini. La loro esistenza è nota solamente grazie alla documentazione fotografica dagli scavi del 1932, conservata a Palazzo Braschi e recentemente pubblicata in un volume che, attraverso un vasto repertorio fotografico, rende efficacemente l’idea dei lavori di quegli anni di cui, purtroppo, non venne eseguita la documentazione archeologica (vedi foto a p. 44). Molto probabilmente decorava il
lato frontale anche una terza serie di pannelli, di cui si conservano numerosi frammenti provenienti dagli scavi del Foro di Cesare.
Evocazioni della festa Si tratta, in questo caso, di amorini che sorreggono ghirlande, a cui viene spesso attribuita una funzione celebrativa e di festa. È plausibile che, in questo ambito, esse vogliano ricordare la cerimonia dell’inaugurazione del Foro, nel 46 a.C. Per una sfortunata coincidenza, i frammenti piú interessanti sono relativi soltanto alla metà inferiore delle lastre che consentono una ricostruzione generica del motivo: amorini stanti, leggermente di tre quarti, sorreggono ghirlande di fiori e frutta, dalle quali si snodano nastri dall’andamento sinuoso.Al momento non ci si è voluti cimentare in un tentativo completo di ricostruzione, ma l’ipotesi di lavoro seguita è quella di un pannello con tre amorini che sostengono due
ghirlande sviluppando, quindi, una A destra: frammento di lunghezza maggiore di quelli inseriti tra le lesene, ma perfettamente com- lesena con tralci patibile con lo spazio disponibile di vite, attribuita allo stipite della sulla parete frontale della cella. porta di ingresso L’insieme dei pannelli verrebbe cosí alla cella del a creare una ricca decorazione della tempio, e disegno fronte del tempio, in cui amori- ricostruttivo della ni in diverse posture sono posti decorazione. a incorniciare la porta d’ingresso, In basso: uno dei sottolineando in tal modo lo stretto pochi frammenti legame tra la figura di Eros, evocata conservati dei pannelli con un dagli amorini, e Venere. È probabile solo amorino in che il tema decorativo sia ispirato una proposta alla decorazione originaria voluta ricostruttiva di da Cesare tesa, indubbiamente, a vaAlfréd Bardon. lorizzare la fronte del tempio, luogo Le misure ridotte dalla valenza politica e autocelebrapotrebbero tiva, come il racconto di Svetonio suggerire una sembra suggerire: «Ma ciò che suloro messa in scitò contro di lui un odio profon- opera all’interno do e mortale fu soprattutto questo: della cella. un giorno tutto il corpo del senato venne a presentargli un complesso di decreti che gli conferivano i piú alti onori; egli lo ricevette davanti
Nella pagina accanto: due frammenti di lastra decorata con un pergolato d’uva, e disegno ricostruttivo della decorazione. Gli elementi
presenti sotto il pergolato (vaso, pantera e maschera) evocano il dio Dioniso, che insieme a Venere governa le passioni umane.
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scavi venere genitrice al tempio di Venere Genitrice, senza nemmeno alzarsi. Alcuni dicono che sia stato trattenuto da Cornelio Balbo, mentre tentava di alzarsi, altri invece che non tentò nemmeno» (Svetonio, Vita di Cesare, 78, 1-2, traduzione di E. Noseda).
zione volta a celebrare la prosperità apportata dalla dea venerata nel tempio. Ornavano gli stipiti, infatti, splendide lesene in marmo bianco proconnesio, decorate da rigogliosi tralci d’uva tra i quali ferveva l’attività di piccoli animali nascosti tra le foglie lussureggianti, a ribadire la fertilità della terra (vedi foto a p. 47). Una decorazione accurata Di un’ultima serie di pannelli non Presenta una decorazione simile è al momento possibile individuare anche una grande lastra, di collouna precisa collocazione per via cazione incerta, che raffigura un delle dimensioni piuttosto ridotte, pergolato con tralci di vite del tutto che escludono il loro inserimento simili a quelli presenti negli stipiti, tra le lesene delle pareti laterali della cella e, a maggior ragione, sul lato frontale. Essi raffigurano singoli amorini e sicuramente, in base all’esame dei frammenti, le lastre erano almeno quattro (vedi foto a p. 47). Non è escluso che facessero parte della decorazione interna del tempio, anch’essa, come vedremo, particolarmente ricca e accurata. Anche il grande portale d’ingresso all’aula di culto aveva una decora-
In alto: base decorata di lesena, rinvenuta nell’area del tempio durante gli scavi del 1932, attribuita alle paraste dell’area absidale. In basso: base di colonna proveniente dal tempio di Venere Genitrice, reimpiegata a Roma, nella facciata del Battistero Lateranense.
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al di sotto del quale si trova un cratere (recipiente per il vino) sormontato da una maschera teatrale e affiancato da una pantera (vedi foto a p. 46): elementi che sono un chiaro richiamo al dio Dioniso, con cui Venere condivide l’influsso nella sfera dell’irrazionale. Si viene cosí a completare l’apparato simbolico relativo alla dea che, oltre ad apportare prosperità, induce anche inesorabilmente verso il prevalere dell’istinto sulla ragione, mostrando, in tal modo, la sua potenza nel governare le pulsioni umane.
Alla bottega di Archesilao L’interno del tempio era costituito da una cella a navata unica, scandita lungo i lati da due ordini di colonne aggettanti e conclusa sul fondo da un’abside, elemento insolito per l’epoca cesariana, che ospitava la statua di Venere, andata in seguito distrutta. Sappiamo però che Cesare chiese allo scultore greco Archesilao di modellare una copia in terracotta di un originale bronzeo attribuito a Callimaco, scultore ateniese del V secolo a.C., da collocare nel tempio romano dedicato nel 46 a.C. alla Venus Genetrix. Questa immagine ebbe larga fortuna in età imperiale, come dimostrano le numerose copie in marmo rimaste, che mostrano la dea vestita con una morbida tunica e un mantello poggiato sulle spalle (vedi foto in questa pagina). Le colonne laterali del primo ordine, in pregiato marmo pavonazzetto, poggiavano su dadi in peperino, ancora visibili, e inquadravano nicchie monumentali, aperte tra le colonne in occasione del rifacimento traianeo. Ciò rese necessaria l’aggiunta di muretti di raccordo tra i dadi cesariani, per allargare il piano di appoggio delle nicchie che, essendo in parte ricavate nello spessore del muro, non potevano essere eccessivamente profonde. Esse erano sormontate da piccoli timpani in marmo bianco e desti-
nate a ospitare statue e opere d’arte che, raccontano le fonti, arricchivano il tempio, facendone una sorta di museo ante litteram (vedi disegno e foto in questa pagina). Sappiamo che Cesare aveva donato, oltre alla statua di culto di Arcesilao, un’effige dorata di Cleopatra, collocata a fianco di quella di Venere. Arricchivano e abbellivano la cella altre opere d’arte, quali sei contenitori con gemme
incise (dactylothecae) e due quadri (tabulae) di Timomaco di Bisanzio, anch’essi donati da Cesare. I quadri potevano presentarsi incorniciati da una decorazione architettonica applicata alle pareti, però, al momento, sembra piú probabile che fossero posti su cavalletti dato che non sono stati individuati resti di incorniciature tra i materiali conservati. Lo storico Cassio Dione ricorda anche, all’interno del tempio, una statua di Cesare dedicata da Ottaviano mentre Caligola, alla morte di Drusilla, fece collocare una statua della sorella in un’edicola a sé stante (Cassio Dione, Storia Romana, LIX, 11,2 e LXV, 7,1).
Dèi olimpici Le colonne sorreggevano un sontuoso fregio-architrave in marmo bianco lunense che, come i pannelli esterni, si annovera tra i capolavori dell’arte imperiale romana. Vi ritroviamo, ancora una volta, il tema degli amorini che, in questo caso, recano vari oggetti che richiamano simbolicamente altre divinità dell’Olimpo, presenti
A destra: prospetto ricostruttivo degli ordini interni della cella. Le nicchie aperte tra le colonne ospitavano probabilmente le opere d’arte ricordate dalle fonti. Chiude il primo ordine un fregio
con amorini che sostengono attributi divini (in alto). Nella pagina accanto, al centro: statua in marmo di Venere, copia romana dall’originale bronzeo di Callimaco, da cui lo scultore Archesilao modellò, su richiesta di Cesare, la statua di culto per il tempio di Venere Genitrice. Parigi, Museo del Louvre.
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Rilievi di Alfréd Bardon dai quali è possibile evincere i differenti materiali impiegati nella costruzione del tempio. 1-2: prospetto e pianta parziale del lato sud-ovest del podio. 3-5: prospetti dello spigolo meridionale del podio in corrispondenza della scala laterale. 6-7: pianta e sezione ricostruttiva parziale del podio del tempio.
nel tempio per rendere omaggio a Venere: nel frammento piú grande, conservato al Museo dei Fori Imperiali, un amorino sostiene la faretra, simbolo di Apollo o Diana, la dea cacciatrice; altri evocano Minerva, dea della sapienza, mostrando lo scudo con testa di Medusa; un altro, infine, versa del liquido da un’anfora (vino?), alludendo forse a Dioniso. Il secondo ordine completa l’architettura interna, con colonne in marmo portasanta vòlte ad accentuare il forte cromatismo dell’am-
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biente, basato, fondamentalmente, sui giochi di colore dei diversi marmi utilizzati. Alla trabeazione che conclude quest’ordine vengono attribuiti alcuni elementi di cornice in marmo bianco proconnesio, decorati sulla sommità da un motivo con delfini e conchiglie che, alludendo all’elemento marino, evoca ancora una volta Venere. Tuttavia, alcuni studi recenti propongono, per la peculiarità della lavorazione, una messa in opera di questi elementi al di fuori del tempio, nell’ambito di una struttura ad arco, al momento di difficile collocazione.
Dal ritrovamento al riuso Un ordine architettonico a sé stante, diverso nella decorazione e nelle dimensioni, esaltava due punti salienti della cella: l’abside, delimitata da paraste decorate da lesene, e il lato d’ingresso, dove due colonne inquadravano, all’interno, il grande portale di accesso all’aula di culto. La ricostruzione dell’ordine deriva fondamentalmente dal rinvenimento di una base di lesena in marmo bianco lunense, splendidamente decorata con motivi vegetali, la cui resa accurata è tipica del periodo traianeo (vedi foto a p. 48).
A sinistra: pianta del tempio di Venere Genitrice. In azzurro la fase cesariana, in verde l’intervento traianeo, in marrone la fase adrianea. In rosso la ricostruzione del modulo reticolare della pavimentazione in rapporto con l’abside.
Rinvenuta nel corso degli scavi del 1932 nell’area della cella del tempio, essa corrisponde, per decorazione e misure, a due basi di colonna reimpiegate nella ricostruzione del VI secolo del Battistero Lateranense, dove ancora oggi si trovano a delimitarne l’ingresso. Esse sorreggono fusti in porfido, non pertinenti perché piú piccoli del diametro delle basi, sormontati da capitelli compositi uguali ad altri frammenti rinvenuti nel 1932 nell’area del tempio. Basi e capitelli, quindi, sono stati logicamente attribuiti alla decorazione della cella, mentre per i fusti non resta che ipotizzare l’uso del marmo pavonazzetto, in accordo con le colonne del primo ordine. È probabile, inoltre, che il completamento della zona absidale sia da attribuire all’età adrianea, come sembra dimostrare la datazione di alcune parti della struttura del tempio. La cronologia dei bolli laterizi impiegati nel paramento dei muri della cella e i rapporti stratigrafici che intercorrono tra essi hanno infatti stabilito che le strutture del tempio non appartengono tutte a un’unica fase costruttiva (vedi disegno in alto). Al periodo adrianeo sono da ri-
condurre le paraste realizzate davanti all’abside e non è escluso che anche i piccoli pannelli con un solo amorino appartengano a questa ultimissima fase, sebbene, dai pochi elementi conservati, non si possa affermare con certezza una loro esecuzione in epoca adrianea. Tuttavia, la presenza di frammenti
L’abside della cella del tempio di Venere Genitrice con il laterizio bollato dal muro semicircolare (a sinistra) e il bollo figulino rinvenuto su di un mattone bipedale del basamento della statua (a destra).
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scavi venere genitrice Ricostruzione della pavimentazione della cella del tempio con lastre di marmo pavonazzetto e giallo antico.
gran parte del nucleo cementizio del podio, il rivestimento in blocchi di tufo litoide presso la scala laterale, i blocchi di tufo litoide e peperino della scalinata frontale e la fondazione in blocchi di tufo del muro sud-ovest della cella, compresi i dadi in peperino su cui poggiavano le colonne dell’ordine interno (vedi disegno a p. 50).
in marmo bianco nella variante del proconnesio, notevolmente diffuso sotto Adriano, e un certo nitore nella lavorazione, rendono plausibile questa ipotesi. Sembrerebbe quindi che, come è stato appurato per il Foro di Traiano, anche il tempio diVenere Genitrice venisse terminato da Adriano, sebbene fosse stato ufficialmente inaugurato nel 113 d.C.Alla fase traianea sono da
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ricondurre tutte le parti marmoree dell’alzato del tempio e i muretti tra i dadi in peperino dove sono impiegati mattoni con il bollo di Caio Pontio Felice (inizio del II secolo d.C.). Della stessa epoca è anche il rifacimento dell’abside, dal momento che i bolli rinvenuti sui laterizi rimandano ugualmente al principato di Traiano (vedi foto a p. 51). All’età cesariana, invece, risalgono I tre templi a confronto: il tempio di Venere Genitrice (A), il tempio di Apollo Sosiano (B), il tempio di Marte Ultore (C).
Pavimenti multicolori La ricca decorazione architettonica e scultorea della cella era completata da una pregiata pavimentazione in lastre di marmo, di qualità differenti, anch’essa di età traianea. Sono rimasti piccolissimi lacerti della pavimentazione che però, associati ai rilievi eseguiti al momento della scoperta del tempio nel 1940, hanno permesso di ricostruirne il motivo decorativo (vedi disegno in questa pagina, in alto). Questo era costituito da lastre rettangolari in giallo antico (5 x 2,5 piedi romani = 148x74 cm) incorniciate da fasce di pavonazzetto larghe un piede e mezzo
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(45 cm) con quadrati di risulta ai vertici delle lastre rettangolari. Il modulo della maglia reticolare era di 6,5 x 4 piedi romani (193 x 119 cm), rientrando cosí nella categoria delle pavimentazioni definite da Federico Guidobaldi «a grande modulo». Il pronao e la peristasi, invece, erano pavimentati con lastre di marmo lunense, senza creare un motivo decorativo. La diversa pavimentazione tra interno ed esterno del tempio (pronao e peristasi) rientra comunque nella prassi progettuale dell’architettura romana, come attestano i numerosi esempi presenti negli adiacenti Fori, dove, per l’esterno, si è sempre privilegiato un pavimento in lastre di marmo bianco e solo per gli interni si è scelto l’opus sectile. Tuttavia, mentre nel Foro di Augusto e nel Foro di Traiano si è constatato che il motivo decorativo delle pavimentazioni è strettamente connesso agli elevati che la delimitano, sia per i rapporti cromatici, sia per le relazioni metrologiche, ciò sembra non accadere nel tempio di Venere Genitrice, dove lo schema reticolare rettangolare non è in asse con
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i dadi delle colonne dei lati lunghi della cella, bensí appare progettato avendo come elemento di riferimento l’abside posta sulla parete di fondo della cella. La scansione reticolare della pavimentazione, pari a cinque moduli, corrisponde infatti alla larghezza dell’abside (6,25 m) e contribuisce a polarizzare lo sguardo del visitatore verso quest’ultima, punto focale del tempio: si sarebbe quindi adottato, per la prima volta, un accorgimento ottico che diventerà canonico nelle basiliche paleocristiane, dove lo sguardo del fedele veniva immediatamente ricondotto verso l’abside che accoglieva l’altare, cioè verso l’elemento piú importante dell’edificio di culto. Il tempio di Venere Genitrice è quindi un edificio prototipale nell’ambito dell’architettura templare, perché, oltre a essere il primo esempio di tempio picnostilo a Roma, presentava un’abside sul lato di fondo fin dall’epoca cesariana, nella quale era collocata la statua di culto. Non è escluso che a tale epoca sia anche da ascrivere l’articolazione interna con due ordini architettonici aggettanti, nonostante gli elementi della decorazione architetto-
nica appartengano esclusivamente all’epoca traianea. L’inserimento di un’abside e di un ordine applicato nella cella non rispondeva a necessità strutturali, ma soddisfaceva esclusivamente funzioni decorative, legate all’esaltazione di un esplicito messaggio politico.
Un modello per Augusto È quindi probabile che il tempio di Venere Genitrice abbia costituito il modello di riferimento per la progettazione del tempio di Marte Ultore, inaugurato il 2 a.C. nel Foro di Augusto, molto vicino nella forma architettonica al tempio cesariano (vedi disegno in basso). Anche il tempio di Apollo Sosiano, realizzato tra il 30 e il 20 a.C. presso il Teatro di Marcello, richiama il tempio di Venere nella composizione architettonica degli ordini interni, sebbene non presenti elementi importanti quali l’abside. Va tuttavia precisato che le analogie architettoniche tra i tre templi riguardano soprattutto un comune senso di partizione dello spazio interno, in cui la superficie della parete viene movimentata da ordini architettonici applicati, finalizzati non soltanto a conferire plasticità all’interno della cella, tramite effetti chiaroscurali, ma anche a creare spazi destinati alle numerose opere d’arte ricordate dalle fonti. Il restauro traianeo del tempio non fa che enfatizzare questa funzione, con l’aggiunta delle nicchie tra le colonne del primo ordine. Il tempio di Venere Genitrice è anche un esempio eloquente della propaganda politica veicolata dall’architettura; infatti, in una società in cui gli uomini di potere non avevano i moderni strumenti di comunicazione, il sistema piú efficace, per ottenere il consenso dei contemporanei, passava attraverso la politica delle immagini, ovvero un formidabile apparato decorativo a supporto di un’architettura altrettanto formidabile, che esaltava, attraverso la grandiosità delle forme e la sontuosità dei materiali, l’importanza del committente. a r c h e o 53
mostre antiche scritture di Consuelo Cossu e Michela Migaleddu, con contributi di Marco Edoardo Minoja
scrivo
dunque sono
Le prime forme di trasmissione del pensiero erano affidate alle immagini. Con l’elaborazione della scrittura fonetica – un sistema capace di tradurre in segni codificati le parole –, l’uomo compí un balzo enorme: un evento davvero rivoluzionario, scelto come tema di una avvincente esposizione allestita a Cagliari
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ul ponte o nella stiva di una nave fenicia o nuragica; in compagnia di lingotti di metallo o delle relative merci di scambio. Anche le lettere scritte devono avere viaggiato cosí. L’archeologia ci restituisce un quadro sfumato, fatto di tentativi, piccoli passi, prime incomprensioni: ma è certo che tra i prodotti piú importanti e duraturi dell’incontro tra le diverse popolazioni sulle coste della Sardegna 54 a r c h e o
nel corso dell’età del Ferro vadano iscritti, e si scusi il bisticcio lessicale, i primi segni scritti con valore fonetico.
Dal suono al segno «Parole di segni», la mostra sull’alba della scrittura in Sardegna, è allestita nella splendida cornice della Cittadella dei Musei, la bianca acropoli di Cagliari, dalle cui terrazze lo sguardo spazia dalla laguna di Santa Gil-
la, habitat preferito di colonie di fenicotteri rosa, fino alla lunghissima lingua di sabbia del Poetto, affacciata su un mare turchese come ai tempi dei Fenici. La mostra sviluppa, lungo la traccia indicata dal titolo, il proprio percorso espositivo, a partire dal tema della comunicazione mediante la scrittura e, nel susseguirsi delle sezioni in cui si articola, restituisce alle epigrafi la loro connotazione archeolo-
rappresentazione di idee complesse con simboli e disegni stilizzati, all’uso di semplici lettere per creare suoni specifici. E l’alfabeto, massima evoluzione del sistema fonetico, consente, a chi ne possiede la conoscenza, l’astrazione di un simbolo per ricondurla al suono, rendendo possibile leggere i segni anche senza capirne il significato e, attraverso infinite combinazioni, gica, attraverso la lettura dei far nascere la parola. contesti di ritrovamento, dei supporti che le contengono, dei L’alba dell’alfabeto messaggi trasmessi e dei loro La scrittura prende avvio e si estensori e referenti. sviluppa all’interno di civiltà urLa scrittura permette di fermare bane, come esigenza organizzatiil linguaggio, di analizzarlo e di va dell’élite religiosa e di palazzo. trasmetterlo nel tempo e nello La necessità di usufruire di uno spazio. Consente di amplificare la strumento che consentisse di cocomunicazione, quella esterna, municare con altri, l’estensione con altri individui, ma anche del suo utilizzo a scopi commerquella interiore. La storia della ciali, ha diminuito il contenuto scrittura consiste nel passaggio misterioso e magico di quei simdalle rappresentazioni pittografi- boli solo per iniziati; pur restanche ai sistemi fonetici, cioè dalla do per molti incomprensibile, e In basso: l’apertura del percorso espositivo della mostra «Parole di Segni», allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari. Sulla sinistra, la stele di Nora, datata tra il IX e l’VIII sec. a.C., recante in alfabeto fenicio la prima menzione del nome della regione. Nella pagina accanto: due lingotti di rame e una panella di piombo recanti segni iscritti.
quindi magico, come semplici segni potessero contenere un messaggio. Per tradizione l’invenzione dell’alfabeto nasce a Levante, e i Phoinikes, gli stranieri d’Oriente, la diffonderanno nel Mediterraneo nei loro movimenti verso Occidente. E i Phoinikes, nelle loro componenti fenicie e di area greca, trasmisero nell’età del Ferro le prime lettere anche sulle coste della Sardegna. La Sardegna nuragica in trasformazione, tra influenze e interferenze culturali, restituisce le prime testimonianze della circolazione della scrittura, attraverso segni iscritti su lingotti a pelle di bue e su panelle metalliche, nonché su brocche askoidi e bronzi miniaturistici di fattura locale. Nello scorcio tra il IX e l’VIII secolo a.C., l’incontro tra Fenici e indigeni lascia da subito segni scritti negli empori locali in cui si insediano mercanti e artigiani
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mostre antiche scritture Qui accanto e in basso: frammenti di brocchette askoidi con iscrizioni, da Nuraxi Nieddu, nei pressi di Oristano, e dal sito di Monte Zara, nel territorio di Monastir, nel Campidano.
In alto, a destra: lastra con iscrizione in lingua neo-punica, da Sulky, sull’isola di Sant’Antioco, nella provincia di Carbonia-Iglesias.
In basso: sigillo in terracotta di produzione indigena iscritto, da Santi’Imbenia, nel golfo di Alghero.
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levantini: a Sant’Imbenia, nel golfo di Alghero, un sigillo di produzione indigena riprende e adatta segni orientali, e la ceramica fonde tradizioni nuragiche e lettere fenicie. Luoghi di scambio sono anche i santuari, nei quali circolano manufatti di pregio prodotti o veicolati dai Fenici e dove le nascenti aristocrazie locali traspongono nella loro tradizione modelli e tipolog ie or ientali; nell’area sacra di Antas uno spillone in bronzo di tradizione nuragica reca incise lettere fenicie, coniugando la valenza rituale e ideologica dell’oggetto al segno potente e magico. Nelle regioni costiere in cui sono
presenti centri fenici organizzati, come Nora e Sulky, la scrittura si sviluppa in forme piú monumentali: ne è esempio la stele di Nora, tra le prime testimonianze epigrafiche nell’isola, che traccia in lettere fenicie l’espressione b’srdn, «in Sardegna». Dalle coste, gli insediamenti, e con essi la scrittura, si irradiano verso l’interno, dove l’affiancamento e la commistione di diverse etnie e gruppi culturali producono esiti linguistici ed epigrafici compositi.
Fenicio, greco e latino Iscrizioni con testi in piú lingue, specchio di una società mista e integrata, provengono dai numerosi centri di espansione inizialmente fenicia e, a partire dal VI secolo a.C., di egemonia cartaginese. La matrice culturale fenicio-punica continua a influenzare la società sarda fino a fasi avanzate della dominazione romana, quando ancora persiste l’uso della lingua punica nelle iscrizioni ufficiali. Su differenti supporti e provenienti da diversi contesti, le lingue e le scritture si accostano e si susseguono: al fenicio di provenienza orientale si affianca, a partire dal IV secolo a.C., la scrittura punica di
derivazione cartaginese, a cui seguí l’introduzione della scrittura neopunica. Cosí, sulla base di altare in bronzo rinvenuta a San Nicolò Gerrei, il dio nominato è insieme Eshmun fenicio, Asclepio greco ed Esculapio latino. Altri casi documentano la compresenza di differenti filoni di tradizioni scrittorie o la sopravvivenza di una lingua o di un sistema di scrittura ben al di là dell’utilizzo cor rente di quell’idioma, come accade in un’iscrizione commemorativa da Bithia, nella quale, alla fine del II secolo, compaiono ancora caratteri fenici, che rivelano una tradizione indipendente dal neo-punico, adattati per trascrivere parole ormai pienamente latine.
Comunicare con gli dèi In Sardegna, come ovunque, si scrive per necessità di comunicare, di trattenere il senso nel tempo e nello spazio, attraverso la dimensione pubblica e quella privata. Si scrive perché resti traccia, per perpetuare la memoria, per chiedere, pregare, ringraziare; si ferma la pa-
quando il museo mette in mostra se stesso «Parole di Segni» è una mostra ospitata nel Museo Nazionale di Cagliari, ma è, soprattutto, un progetto espositivo che nasce all’interno del museo: infatti, le iscrizioni fenicie e puniche raccolte in mostra, in larga maggioranza, fanno parte della collezione permanente, organizzate secondo una nuova proposta espositiva, in dialogo con alcuni limitati prestiti da altre collezioni della Sardegna e con altri oggetti della collezione del museo nazionale, temporaneamente in deposito presso altri musei e rientrati per l’occasione. Siamo ormai abituati a pensare alle mostre come a «eventi» caratterizzati da materiali provenienti perlopiú da collezioni diverse, nei migliori dei casi interrelati alla raccolta ospitante, in altri casi rispondenti a esigenze di «cassetta» piuttosto che a scelte motivate dalle strategie culturali della sede espositiva. La scelta di partire dalla collezione permanente viceversa è motivata dalla convinzione che, anche nell’organizzazione di una mostra temporanea, il museo e il suo contenuto culturale debbano giocare un ruolo guida, sia nelle scelte tematiche, sia nella selezione dei materiali proposti, garantendo cosí ai visitatori un forte senso di continuità culturale: una mostra epigrafica come «Parole di Segni» riceve cosí una forte connotazione archeologica, impressale dal progetto espositivo e dalla stessa sede; piú ancora che al contenuto epigrafico, l’attenzione è rivolta ai contesti di rinvenimento, ai supporti utilizzati, alla ricostruzione delle azioni sottese alla redazione dei testi epigrafici, ai differenti attori di questi frammenti di dialogo in forma scritta. In questo modo gli oggetti iscritti, ancora troppo spesso analizzati in forma autonoma, rivelano come anch’essi costituiscano, al pari di ogni altro tipo di rinvenimento, una parte importante del contesto archeologico, i cui tasselli vengono tutti pazientemente ricomposti alla ricerca di una lettura storica del mondo antico il piú possibile completa. Marco Edoardo Minoja
In alto: una delle sale del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, sede della mostra «Parole di Segni». A destra: spillone in bronzo dall’area sacra di Antas, a Fluminimaggiore (Carbonia-Iglesias) e (in basso) il particolare dell’iscrizione in fenicio.
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mostre antiche scritture un gioiello millenario Siamo tutti circondati dai ricordi del passato: e in una terra, come la Sardegna, straordinariamente ricca di vestigia archeologiche ancora cosí chiaramente leggibili nel territorio, non stupisce affatto il sentirsi ancora in stretto contatto con le proprie millenarie tradizioni. Ma, in alcuni casi, queste ultime si rivelano cosí radicate e persistenti da attraversare i secoli e i millenni e presentarsi ancora vive e attuali nella società contemporanea. Scopriamo cosí che oggetti pressoché identici agli astucci porta-amuleto di produzione punica esposti in mostra, destinati a contenere iscrizioni di carattere magico e invocazioni alle divinità, si ritrovano tuttora utilizzati come ornamento nel tradizionale vestiario femminile festivo particolarmente ricco di gioielli. Questi caratteristici manufatti, chiamati nuscheras (portaprofumi), contengono ancora oggi frammenti di materiale vario, immagini e foglietti o pezzetti di stoffa arrotolati con iscritte formule magicoreligiose e preghiere che mantengono lo stesso valore protettivo e scaramantico di millenni or sono. La versione contemporanea realizzata da abili orafi e artigiani, non si discosta sostanzialmente dai modelli di tradizione antica: la forma prevalente è quella dell’astuccio tubolare d’argento, liscio o decorato con applicazioni in filigrana e integrazione di pendenti vari in metallo prezioso, pietre e paste vitree. Alcuni studiosi ipotizzano stringenti analogie legate al sincretismo magicoreligioso fra le nuskeras sarde, i tefillin ebraici e i porta-Corano musulmani; nelle prime, tuttavia, il carattere magico-profilattico continua a essere predominante se ancora oggi si appuntano agli abiti e si portano con sé per sentirsi protetti e goderne gli effetti al momento propizio. E forse non è un caso che sia proprio la magia, forma di conoscenza del mondo ancestrale e popolare al tempo stesso, a farsi veicolo di tradizioni millenarie, che la cultura contemporanea non saprebbe in alcun modo adeguatamente sostituire. M. E. M.
Ancora oggi i porta-amuleto di tradizione punica si appuntano sugli abiti tradizionali
Qui sopra e in alto: due nuscheras in argento, della Collezione Sanjust, Pinacoteca Nazionale di Cagliari, realizzate da artigiani sardi, su modello degli antichi astucci porta-amuleto di produzione punica. A sinistra: frammento di vaso a vernice nera, dal sito di Tharros, nel Comune di Cabras, nella penisola del Sinis.
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rola per distinguersi, per riconoscersi, magari in una elencazione interminabile di genealogie o nella precisazione minuziosa di ruoli e incarichi; si usa il segno magico per proteggersi e per attaccare. Ci sono contesti in cui, piú che altrove, si concentra e si appunta il messaggio scritto, luoghi privilegiati della comunicazione, strutturalmente dedicati al dialogo con l’altro da sé: la necropoli, nella quale ricordare e onorare i defunti, le aree sacre, per rivolgesi agli dèi, la città in cui si muovono e comunicano gli uomini. Due anfore gemelle sono state deposte come offerte in una tomba nella necropoli di Sant’Avendrace, a Cagliari, e un’iscrizione ricorda questa loro funzione; un cippo da Tharros richiama le generalità del defunto; nelle aree sacre prevalgono i concetti di offerta e devozione alla divinità; in abitato, testi brevi, a volte minimi, annotano un nome, una misura su un vaso.
nità di un tempio si esprimono su superfici di pietra; a volte sono oggetti di pregio, come l’anello in oro da Nora o l’orecchino da Tharros, a recare incise le lettere, quasi sempre indicanti un nome, del proprietario o della divinità. In una società in cui la scrittura è ancora patrimonio prezioso, non diffuso a tutte le componenti della
comunità, i nomi di persona, accanto ai nomi di divinità, assumono un rilievo particolare. Alla scrittura si affida il compito di perpetrare il nome proprio e degli antenati, in particolare nel celebrare opere a favore della comunità: lo testimonia un piccolo cippo in marmo proveniente da un santuario di Cagliari, forse dedicato a
In alto: particolare di un orecchino con iscrizione, dal sito di Tharros (a sinistra); anello in oro con iscrizione, da una tomba di Nora (a destra). A destra: due urne fittili gemelle recanti un’iscrizione di offerta, provenienti dalla necropoli di Sant’Avendrace, a Cagliari.
Il messaggio e i supporti Il tipo del messaggio che si vuole comunicare influenza la scelta del supporto da utilizzare.Trattati, leggi e contratti, nati per essere tramandati, sono stesi di preferenza sul metallo; su lamine sono incise anche le dediche degli ex voto; la lapide di una necropoli, l’offerta alla divia r c h e o 59
mostre antiche scritture Eshmun, come rileverebbe il nome iscritto su una mano in argilla rinvenuta poco distante, che ricorda i nomi dei costruttori, i ruoli di chi ha realizzato l’opera e di chi vi ha sovrainteso. Il nome proprio, quello del coniuge e degli antenati caratterizzano le iscrizioni funerarie; nelle dediche votive, le piú numerose, si ricordano i nomi delle divinità, con aggettivi e attributi: nel santuario di Antas sono ricordati Melqart, «sulla roccia», Shadrafa, Sid, «potente babai», «il grande», «potente».
Il nome, il motivo e il luogo Le modalità e le variazioni con cui si tramanda il messaggio scritto appaiono piuttosto limitate, legate soprattutto al ripetersi di liturgie e formulari che ne mettono in risalto l’aspetto sacrale e rituale. Le iscrizioni di tipo funerario menzionano il defunto e il supporto epigrafico; le iscrizioni dedicatorie riportano il nome della divinità a cui è dedicato il bene che viene offerto, l’oggetto In alto: stele funeraria in marmo dal tophet di Sulky e (a destra) il particolare dell’iscrizione alla base. In basso: base di ex voto da Cagliari con iscrizione che ricorda il luogo, il dedicante e la divinità a cui venne offerta: «baalshamim, nell’isola dei falchi».
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della dedica e, a volte, il luogo in cui questa si effettua (nell’«isola dei falchi», in una base di ex voto da Cagliari) e il momento in cui è formulata, nome e genealogia del dedicante e infine il motivo della dedica. L’arcaico valore magico dello scrivere traspare nelle iscrizioni i cui formulari sono legati a contenuti scaramantici. Nei diversi stili di scrittura, nella separazione e ricombinazione di lettere, parole, formule, e nella loro distribuzione geometrica la parola è usata a protezione della persona o della casa. Piastrelle in pietra o argilla, iscritte con formule di maledizione o incantesimo, sono poste generalmente all’ingresso delle abitazioni o nelle tombe; amuleti e talismani vengono conservati, indossati, esposti. Le iscrizioni di questi oggetti non hanno bisogno di essere lette, né viste, né comprese: condizione della loro efficacia sono proprio il segreto e il silenzio che le avvolge, e la loro incomprensibilità le carica di implicazioni
Cippo e mano in argilla, da Cagliari. In basso: piastrella in terracotta iscritta, da una tomba a camera dal sito di Sulky, sull’isola di Sant’Antioco.
esoteriche e sacrali. Proteggono a prescindere dal loro significato, per la forza attribuita alla scrittura nella sua materialità. Particolare valore apotropaico rivestono le laminette in metallo o in materiale deperibile (stoffa, cuoio, papiro), contenute entro ap-
positi astucci porta-amuleto, decorate con motivi di ispirazione egizia, che dovevano assicurare vita eterna al defunto e protezione ai vivi: in alcune di esse sono presenti iscrizioni che invocano la tutela divina in favore del dedicante, come le laminette in argento di Tharros, con scene di processione e richieste di aiuto e benedizione alle divinità. Ed è con la sezione dedicata alla «Magia del Segno» che si conclude il percorso della mostra attraverso le differenti declinazioni della scrittura nella storia degli uomini in Sardegna. dove e quando «Parole di Segni. L’alba della scrittura in Sardegna» Cagliari, Museo Archeologico Nazionale fino al 15 ottobre 2011 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00 Info tel. 070 655911 a r c h e o 61
storia le origini di roma/8
TARQUINIO
lo straniero che divenne re
Il suo arrivo è annunciato da un presagio: etrusco di nascita, ma figlio di un Greco di Corinto, Lucumone diventa quinto re di Roma. E, con l’aiuto di una moglie sapiente, trasforma l’Urbe in una città etrusca e la monarchia tradizionale in una dinastia ereditaria
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PRISCO Morte tragica di Tarquinio il Vecchio, quinto Re de’ Romani. Incisione all’acquaforte da Istoria Romana di Bartolomeo Pinelli. 1818. Secondo la tradizione, Lucumone divenne, alla morte di Anco Marzio, quinto re di Roma con il nome di Tarquinio Prisco. Dopo circa 40 anni di regno il re venne ucciso in una congiura.
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on la fine del regno di Anco Marzio, le piú antiche fasi di vita della città di Roma arrivano a una svolta, che sembra trasportarle dal mito alla storia, pur conservando aloni di leggenda e di magia attorno ai personaggi che vi prendono parte. Romolo era creduto figlio di un dio, mentre Numa sarebbe stato consorte della Ninfa Egeria e alla sua discendenza risaliva anche Anco Marzio;Tullo Ostilio, viceversa, ebbe a che fare con gli dèi in occasione della sua morte. Alla fine del VII secolo a.C., invece, Tarquinio Prisco apre una nuova dinastia di re, che interrompe la serie romano-sabina delle origini e inaugura la nuova fase della cosiddetta monarchia etrusca.
Il mercante di Corinto La storia delle origini di Tarquinio Prisco fino al suo arrivo a Roma è romanzata e incorpora elementi leggendari, ma si rivela particolarmente ricca di spunti storici reali, ben adatti al quadro che si può ricostruire in base alla documentazione archeologica. Il padre del futuro re di Roma era il nobile mercante corinzio Demarato, che nel corso del VII secolo aveva intrattenuto vantaggiosi rapporti commerciali con i centri dell’Etrur ia mer idionale, fino all’avvento nella sua città della tirannide di Cipselo, che lo costrinse ad abbandonare Corinto con il suo seguito. Demarato fece allora vela verso Tarquinia, dove aveva molti amici grazie alla propria attività mercantile e lí si stanziò con la sua gente (vedi box a p. 64), sposando una
di Daniele F. Maras
fanciulla del posto, di nobile famiglia, ma – racconta Dionigi d’Alicarnasso – costretta ad accettare un matrimonio straniero perché povera. Da lei Demarato ebbe due figli, nell’ordine Arrunte e Lucumone, che ricevettero un’educazione sia greca che etrusca.
La profezia di Tanaquil Il primo morí poco prima del padre, lasciando un figlio con il suo stesso nome che di lí a poco sarebbe nato; non essendo a conoscenza di quella nascita imminente, il vecchio Demarato, però, subito prima di morire, a sua volta, lasciò tutte le sue ricchezze in eredità a Lucumone, che si rivelò particolarmente ambizioso e intraprendente. Di fronte alle difficoltà che gli derivavano presso l’aristocrazia tarquiniese dalla sua origine straniera, il giovane, con la moglie Tanaquil e tutta la sua famiglia, partí alla volta di Roma, dove sapeva che gli stranieri venivano accolti come cittadini di pari rango e potevano farsi strada in base alle proprie capacità. Non appena Lucumone giunse in cima al Gianicolo e fu in vista della città di Roma, avvenne un prodigio: un’aquila ghermí il suo cappello e lo portò a grande altezza per poi rimetterlo al suo posto. Il fatto fu prontamente interpretato come un segno della futura ascesa al trono da Tanaquil, che, in quanto appartenente a una famiglia ar istocratica etrusca, era un’esperta dell’interpretazione del volere degli dèi. Forte del favore divino, Lucumone entrò in città e venne accolto nel corpo civico, cambiando il proprio a r c h e o 63
storia le origini di roma/8 dalla grecia all’etruria Il trasferimento a Tarquinia del nobile corinzio Demarato, appartenente alla famiglia dei Bacchiadi, in fuga dalla tirannide di Cipselo, viene rappresentato dalle fonti letterarie come l’inizio per l’Etruria di una nuova fase della cultura e dell’arte. Tacito, per esempio, dice che da Demarato gli Etruschi appresero l’uso delle litterae che, piuttosto che la semplice scrittura (in realtà già in uso da tempo in Etruria), sottintendono con ogni probabilità l’introduzione della letteratura. Per Plinio, invece, il seguito di Demarato comprendeva anche alcuni famosi artigiani della terracotta, dai cui «nomi parlanti» si comprende la loro qualifica di esperti nella costruzione di tetti decorati: Eucheir (letteralmente «dalla buona mano», il modellatore), Diopos («il traguardatore», abile nella messa in opera) ed Eugrammos («il buon pittore»). L’archeologia ci mostra come in realtà, proprio a partire dalla seconda metà del VII secolo a.C., la decorazione fittile dei tetti delle residenze aristocratiche etrusche e degli edifici pubblici cambia radicalmente, con l’assunzione della cosiddetta Prima fase architettonica, durata fino a quasi tutto il VI secolo, alla quale appartengono lastre con fregi figurati e statue acroteriali come quelle di Murlo e Acquarossa, ma anche le serie di elementi decorativi attestati a Veio, a Roma e nel Lazio. Nello stesso periodo anche la pittura dimostra notevoli avanzamenti, visibili sia nelle testimonianze della pittura parietale, che nelle decorazioni dipinte di ceramiche e terrecotte. La storia romanzata di Demarato e della sua discendenza è quindi il modo con cui la letteratura antica ci racconta una situazione storica reale in cui l’influenza greca – e in particolar modo corinzia – trasformò profondamente la cultura artistica etrusca, avviando una nuova fase dell’arte orientalizzante.
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nome in Lucio Tarquinio, registrando cosí nel gentilizio la propria origine tarquiniese (il cognomen Priscus, «il primo», è invece probabilmente un aggettivo aggiunto dagli storici in epoca successiva, per distinguerlo dai discendenti omonimi, come si usa nelle dinastie regnanti). Secondo la tradizione, il futuro re si assicurò la benevolenza di Anco Marzio e della classe dirigente di Roma con atti di amicizia, doni e una capacità di crearsi simpatie e una rete di contatti, che ben si adatta alla sua presentazione come degno figlio di un ricco mercante greco.
Un’elezione sorprendente Nonostante queste premesse, desta comunque stupore che alla morte di Anco Marzio il nuovo arrivato venisse proclamato re dal senato, senza tenere in alcun conto le pretese dinastiche dei figli del suo predecessore (dei quali, per inciso,Tarquinio era stato precettore), né, tantomeno, la tradizionale alternanza tra Romani e Sabini instaurata al tempo di Numa.
Con il regno di Tarquinio, Roma entrò a far parte del novero delle città etrusche, alla pari dell’eterna avversaria Veio, con la quale mantenne uno stretto rapporto di dipendenza culturale fino alla fine dell’età monarchica.
Il re «architetto» Tarquinio Prisco fu un sovrano attento al progresso urbanistico della città, che venne dotata di infrastrutture importanti grazie all’intervento di esperti chiamati dall’Etruria. Un primo sistema fognario, di cui faceva parte la cosiddetta Cloaca Maxima, serví a drenare le acque della valle del Foro, che venne pavimentata e divenne cosí il centro della vita civile di Roma; e anche un’altra valle dell’area urbana fu bonificata e trasformata in uno stadio per giochi e gare equestri, sempre in un’ottica religiosa, venendo a costituire il futuro Circo Massimo. Ma il progetto che piú di ogni altro segnò l’attività edilizia della dinastia dei Tarquini fu il tempio di Giove Ottimo Massimo, sul Campidoglio, iniziato dal Prisco, ma In alto: un uomo tiene in spalla una sella curule (sedile pieghevole riservato ai re di Roma e, in seguito, ai magistrati che amministravano la giustizia), particolare di un affresco parietale della Tomba degli Auguri, nella necropoli dei Monterozzi di Tarquinia. VI sec. a.C. A sinistra: lastra fittile con rilievo di guerriero in armatura di tipo greco, da Veio, località Piazza d’Armi. VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
portato a termine e dedicato soltanto all’inizio della repubblica, quasi un secolo piú tardi! L’ambizioso progetto architettonico fu intrapreso dopo la conquista della città latina di Apiolae – di cui ancora si discute la posizione (anche se per alcuni andrebbe identificata con Pometia) –, dal cui bottino furono ricavati i fondi per la costruzione dell’edificio sacro: il
piú grande del suo genere, innalzato su un’ampia terrazza che inglobava la sommità meridionale del colle Capitolino. Per portare avanti il progetto venne chiamato dall’etrusca Veio il famoso scultore Vulca (vedi box a p. 66), al quale fu commissionata la statua di culto in terracotta di Giove, da collocare nella cella del tempio.
Simboli di potere Ma le riforme di Tarquinio Prisco riguardarono anche altri ambiti della vita civile e religiosa, come l’adozione delle insegne regali di tipo etrusco, che comprendevano la corona d’oro, il manto, lo scettro e, soprattutto, i fasci littori, simbolo del potere esecutivo del re, in grado di punire all’istante i condannati con la fustigazione (grazie alle verghe) o con la morte (tramite la scure). Una forma di opposizione religiosa a r c h e o 65
storia le origini di roma/8 fu esercitata invece dall’augure Atto Navio, di origine sabina, contro il progetto del re di raddoppiare le centurie equestri, che derivavano dalle originarie tre tribú di Romolo; viceversa, andò in porto la proposta di portare il numero delle Vestali da quattro a sei.
L’«adozione» di Servio Come si è accennato, il regno di Tarquinio Prisco fu anche segnato da alcune guerre, con le quali il sovrano etrusco intendeva rafforzare la supremazia di Roma sui Latini, ai quali apparteneva la citata città di Apiolae. Nell’attività militare si distinse particolarmente il nipote del re, figlio omonimo del defunto fratello Arrunte, che prese anch’egli il nome
latino di Tarquinio, a cui aggiunse il cognome di Egerio (da «egeo», a indicarne la povertà), poi mutato in Collatino in seguito alla conquista della città latina di Collatia (forse posta presso l’odierna località di Lunghezza, a est di Roma). Tra i comandanti dell’esercito romano dell’epoca, la tradizione ricorda anche con favore il futuro re Servio Tullio, accolto dalla famiglia reale e divenuto genero del re, benché figlio di una schiava, su consiglio della regina Tanaquil, che ne aveva previsto il grande futuro interpretando un prodigio avvenuto nella reggia: mentre il giovane dormiva, un alone di fuoco aveva avvolto la sua testa senza recargli danno.
Torso di terracotta appartenente a una statua raffigurante un personaggio maschile stante, molto muscoloso, nel quale Giovanni Colonna ha proposto di riconoscere un simulacro di culto di Ercole, forse
da attribuire allo scultore veiente Vulca, di cui sarebbe un’opera tarda databile poco prima della metà del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (depositi).
vulca, lo scultore di veio È ancora una volta Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, a tramandarci il nome di Vulca, lo scultore etrusco che nei primi decenni del VI secolo fu chiamato a Roma dalla nativa Veio per realizzare la statua in terracotta di Giove Ottimo Massimo per la cella del tempio capitolino. Allo stesso scultore la tradizione attribuiva anche una statua di Ercole, pure in terracotta (il cosiddetto Hercules fictilis), della quale possiamo farci oggi un’idea guardando a un muscoloso torso fittile proveniente dagli scavi del santuario di Portonaccio a Veio che si è ipotizzato possa essere un’opera tarda del maestro, evidentemente ritornato in patria dopo l’avventura artistica romana. Data la cronologia, certamente tutta contenuta entro la prima metà del VI secolo, non si può attribuire a Vulca la decorazione del tetto del tempio tardoarcaico di Portonaccio, da datare negli anni finali del VI secolo a.C. e che comprende il ciclo statuario di cui fa parte il famoso Apollo di Veio. Per questa si deve pensare semmai alla scuola di scultura che continuava la tradizione artistica inaugurata da Vulca, nella quale si è potuta individuare la mano di un grande artista, che dalla sua opera piú significativa è stato definito il «maestro dell’Apollo».
L’ascesa sociale di Servio, che già nel nome portava il ricordo della propria origine servile, fu causa di un moto di ribellione da parte dei figli di Anco Marzio, che raccolsero attorno a sé le voci di dissenso tra i nobili romani e organizzarono una congiura, ufficialmente per impedire l’ascesa al trono del figlio di una schiava (sebbene in realtà Ocresia, la madre di Servio, fosse una principessa latina divenuta prigioniera di guerra in seguito alla conquista di Corniculum).
La triste fine di un sovrano Il piano dei congiurati fu presto messo in atto da due pastori, assoldati come sicari dai figli di Anco Marzio, che si rivolsero in giudizio al re per una contesa e riuscirono cosí ad avvicinarsi a lui; poi, mentre litigavano e gesticolavano confusa-
mente, causando le risate dei presenti, approfittarono della distrazione per colpire Tarquinio alla testa con una scure e, nella confusione che seguí, fuggirono via, lasciando l’arma nella ferita, ma furono presto catturati dai littori. Già Tito Livio si domandava come mai i figli di Anco, che non desideravano l’ascesa al trono di Servio, si rivolsero proprio contro il re Tarquinio: la mossa, infatti, si rivelò inefficace e finí con l’anticipare proprio l’evento che voleva impedire. L’intervento provvidenziale della regina Tanaquil, che finse di curare Tarquinio, mentre Servio Tullio teneva la reggenza in suo nome, impedí l’istituzione del regolare periodo di interregnum, che doveva precedere la nomina di un nuovo sovrano da parte del senato (vedi «Archeo» n. 315, maggio 2011).
Rilievo raffigurante un magistrato seduto su una sella curule e attorniato da littori. Roma, Museo Nazionale Romano Terme di Diocleziano. Tarquinio Prisco, Etrusco di nascita ma di origine greca, è ricordato anche per l’introduzione dello scettro, della toga purpurea, della sella curule e dei fasci littori: insegne regali di tradizione etrusca.
Di fatto, in questo modo, Servio poté regnare irregolarmente al posto di Tarquinio, prima che la sua morte fosse annunciata ufficialmente. E la sua posizione fu poi ratificata dal popolo, favorevolmente impressionato dalla sua buona prova di governo in un periodo di crisi, mentre i figli di Anco dovettero fuggire in esilio a Pometia e la compagnia dei congiurati fu sciolta dal nuovo re. a r c h e o 67
storia le origini di roma/8 le puntate di questa serie • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio, un re voluto dagli dèi • Tullo Ostilio: la guerra come ragion di Stato • Anco Marzio. In equilibrio tra guerra e pace • Tarquinio Prisco, lo straniero che divenne re • Gli Etruschi a Roma • Servio Tullio e la riforma dello Stato • Tarquinio il Superbo • La nascita della Repubblica
Illustrazione settecentesca raffigurante un littore romano, recante sulla spalla i fasci littori, costituiti da un mazzo di bastoni legati da nastri rossi, con in alto una scure, simbolo del potere di fustigare e giustiziare dei magistrati.
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In realtà, la storia delle lotte per la successione a Tarquinio Prisco, che la tradizione racconta in modo cosí immaginifico, fu forse molto diversa e vide l’intervento di eventi militari e condottieri stranieri, come altre fonti lasciano intendere: ma di questo ci occuperemo nella prossima puntata… (8 – continua)
per saperne di piú Massimo Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano 1993 Giovanni Colonna, in Veio Cerveteri Vulci. Città d’Etruria a confronto, catalogo della mostra, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2001, pp. 65-66
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Un oculista cura un paziente, disegno ricostruttivo di epoca moderna di un particolare degli affreschi della Tomba di Ipi a Deir el-Medina, risalente al Primo Periodo Intermedio, IX-X dinastia (2160-2025 a.C.). Il Cairo, Istituto del Papiro.
PAPIRI, rotoli e ricette di Paola Cosmacini
Quali erano le malattie e quali le strategie di intervento dei medici nella Valle del Nilo? E dove correva il confine tra conoscenze scientifiche e pensiero magico? Alcuni rari documenti, sopravvissuti ai millenni (e al leggendario incendio della Biblioteca di Alessandria), illuminano questo particolare aspetto dell’antico mondo faraonico
C
ome ha scritto John F. Nunn: «Il Papiro Edwin Smith esercita un immediato fascino sul medico di oggi» (Ancient Egyption Medicine, University of Oklahoma Press, 1996). E non si può non concordare con lui: questo papiro medico del II millennio a.C., infatti, colpisce per la sua modernità e per il suo metodo razionale; tanto che il medico odierno non può non fermarsi a riflettere sulla formazione e sul comportamento «clinico» dei suoi antichi «colleghi». Srotolare i papiri medici dell’Egitto faraonico significa, oltre che cercare di comprendere un antico metodo diagnostico e terapeutico, trovare, nelle pieghe della scrittura e dei suoi significati, l’essenza di un’arte medica lontanissima, che, tuttavia, sembra ancora viva.
Di padre in figlio La medicina dell’antico Egitto, al pari di quella d’ogni tempo, richiedeva medici competenti. La formazione dei futuri medici della Valle del Nilo avveniva inizialmente in famiglia, dove il patrimonio tecnopratico si tramandava di generazione in generazione. Come testimonia lo storico greco Diodoro Siculo, che scrive nel I secolo a.C.: «I figli del popolo ricevono l’educazione
dai padri o dai genitori, i quali trasmettono al figlio il mestiere che ciascuno deve svolgere nella vita». Proseguiva poi all’interno della Casa di Vita, «nome suggestivo con cui si designavano quelli che potremmo chiamare centri di ricerca» (Gloria Rosati, Scienza, in Egittologia, Roma 2005): qui la formazione era basata sulla tradizione orale e sulle nozioni apprese dai testi. A testimoniare il grande e antico amore per i libri da parte degli Egizi basterebbe L’insegnamento di Kheti (un testo della XII dinastia mantenuto in uso fino all’età ramesside), nel quale si legge: «Farò che tu ami i libri piú che tua madre; ti porrò davanti agli occhi la loro bellezza». Si studiava quindi, allora come ora, sui libri; meglio, sui papiri. Ma quanti e quali erano i papiri che trattavano di medicina? Per cercare di rispondere a questa domanda occorre, innanzitutto, chiarire quale fosse la situazione in età meno remota e, in particolare, all’epoca della conquista macedone. «Quanti rotoli abbiamo?», domandava nel 300 a.C. Tolomeo I Sotere al suo bibliotecario ad Alessandria. Si dice che allora la Biblioteca di Alessandria contenesse già 5000 rotoli. Il disegno pensato da Alessandro e poi perseguito da Tolomeo – e messo in pratica dai suoi bibliotecari – non fu però soltanto la
raccolta delle opere di tutto il mondo allora conosciuto, ma anche la loro traduzione in greco (come si fece, per esempio, con l’immenso corpus di Zoroastro), per far sí che la famosa biblioteca non fosse solo un fattore di prestigio politico, ma diventasse strumento di egemonia culturale (Luciano Canfora, La biblioteca scomparsa, Palermo 1986).
I «sacri sei» di Alessandria L’operazione durò decine di anni e fu completata da Tolomeo II Filadelfo. Alla fine, tutto lo scibile fu «traghettato» nella biblioteca alessandrina, dove finirono per essere raccolti – questo almeno si narra – oltre mezzo milione di rotoli di papiro che riguardavano ogni branca del sapere. In quella biblioteca, con molta probabilità, un posto di rilievo lo ebbero i cosiddetti «libri sacri» e, tra questi, anche quelli che trattavano di medicina. Secondo Clemente Alessandrino (150-215 d.C. circa), uno dei primi «padri orientali» della Chiesa, gli antichi Egizi possedevano sei libri sacri e segreti sulla medicina, da lui visti portare, insieme ad altri trentasei libri sapienziali, in solenne processione rituale ad Alessandria (Miscellaneae-Stromata, VI, 4, 3537). Di questi sei libri medici, uno riguardava la struttura del corpo umano, uno le malattie, uno era a r c h e o 71
archeomedicina
Frammento di papiro medico. Nuovo Regno, XVIII dinastia (1543-1292 a.C.). Parigi, Museo del Louvre.
I principali papiri medici Ecco una breve storia delle traduzioni e dei contenuti dei piú importanti papiri medici a oggi noti. Papiro Edwin Smith Detto anche «Papiro chirurgico», fu tradotto nel 1930 da Breasted (The Edwin Smith Surgical Papyrus, Chicago) e poi da Westendorf nel 1966. Risale al 1550 a.C. circa, ma alcuni arcaismi del testo hanno permesso di retrodatarne la composizione tra il 2670 e il 2160 a.C. Fu acquistato da Edwin Smith nel 1862, a Luxor, e ora è alla Academy of Medicine di New York. Nello scritto il medico esamina il paziente, esegue l’esame obiettivo, enuncia la diagnosi e la conseguente prognosi, infine propone il trattamento. Si tratta di un approccio logico-razionale a 48 lesioni traumatiche del corpo. I traumi descritti sul recto del papiro sono di vario tipo: 27 trattano di lesioni al capo, 6 alla gola e al collo, 2 alla clavicola, 3 all’omero, 8 allo sterno e ai tessuti molli sovrastanti, alle costole, uno alle spalle e uno alla colonna vertebrale. Poi, purtroppo, il papiro si interrompe. Sul verso vi sono incantesimi, prescrizioni e ricette cosmetiche. È lungo 4,70 m. Papiro Kahun UC32057 È detto anche «Papiro ginecologico», in quanto è un trattato sistematico di 17 casi di malattie ginecologiche. Fu ritrovato nel 1889 da 72 a r c h e o
Sir William Matthew Flinders Petrie a Illahun («Kahun» è il nome che Petrie diede al sito archeologico). Tradotto nel 1898 da Francis Llewellyn Griffith (Hieratic Papyri from Kahun and Gurob, London), fu poi aggiornato da John M. Stevens nel 1975. Risale al 1825 a.C. circa. È conservato a Londra, allo University College. In esso leggiamo soltanto un «incantesimo». È lungo 1,14 m. Papiro Ebers Fu acquistato nel 1862 da Smith, che poi lo cedette nel 1872 a Georg Ebers, il quale tre anni dopo lo pubblicò con un glossario geroglifico-latino (Papyros Ebers, Leipzig 1875). Fu quindi tradotto in tedesco da Heinrich Joachim nel 1890 e trascritto da Walter Wreszinski nel 1913. Nel 1930 Cyrill Phillips Bryan tradusse a sua volta in inglese (The Papyrus Ebers, London) la traduzione di Joachim. Nel 1937 venne tradotto da Ebbel e nel 1987 da Ghalioungui. Scritto intorno al 1550 a.C. con grafia molto bella, vi è il riscontro inusuale della numerazione posta in cima a ogni colonna di scrittura. È conservato alla Universitätsbibliothek di Lipsia. Qui la diagnosi viene perlopiú data per scontata; enunciato è tendenzialmente solo il rimedio. Dei suoi passaggi, 877 riguardano prescrizioni eterogenee sulla ginecologia in generale, sui disturbi intestinali, sui parassiti, sui problemi
dedicato allo strumentario, un altro ai rimedi e, infine, due si occupavano piú specificatamente delle malattie degli occhi e di quelle delle donne. Nunn confronta questa testimonianza con il contenuto dei manoscritti a noi giunti e vi ritrova una sostanziale analogia di argomenti. È probabile che al tempo di Clemente la Biblioteca di Alessandria (che aveva subito la distruzione dei volumi depositati nei magazzini presso il porto, andati letteralmente in fumo durante la guerra civile del 47 a.C. tra Cesare e Pompeo, ma che ovviamente non era stata ancora distrutta da Aureliano nell’ incendio del 272 d.C.), contenesse molti papiri me-
dici di epoca faraonica e ancora i famosi sei libri sacri. La letteratura medica che allora resta (complessivamente circa 50 m lineari di papiri iscritti) non è molto, anzi è molto poco. Infatti, come scrive ancora Nunn, «ci sono buone ragioni per credere che noi possediamo soltanto una piccola parte dei papiri medici». Inoltre, della loro eventuale traduzione in greco, che fu verosimilmente molto utile a Erofilo di Calcedonia (attivo ad Alessandria nella prima metà del III secolo a.C.), non vi è traccia: «La civiltà che, fra tante conquiste intellettuali, ci ha tramandato anche l’idea stessa delle biblioteche e della gelosa con-
A destra: frammento di uno dei Papiri Chester Beatty, rinvenuti a Deir el-Medina nel 1928. Nuovo Regno, XIX dinastia, (1292-1186 a.C.) Londra, British Museum.
oculistici e dentistici, sul trattamento chirurgico degli ascessi, sulle fratture ossee e sulle ustioni; gli altri 47 passaggi sono di pertinenza diagnostica. Una parte importante del papiro è dedicata al cuore. È probabile si tratti di una guida per il medico nell’esercizio quotidiano della sua attività. È lungo circa 20 m. Papiro Hearst Fu ritrovato nel 1899 a Deir el-Ballas e consegnato a George Reisner nel 1901, durante la spedizione Hearst. Reisner lo pubblicò nel 1905 (The Hearst Medical Papyrus, Leipzig). Fu tradotto anche da Wreszinski nel 1912. È del 1470 a.C. circa. È conservato nella Biblioteca Bancroft della Università della California a Berkley. La maggior parte dei suoi 260 paragrafi riguarda affezioni della pelle, ma anche dell’intestino, del cuore e della vescica; vi sono anche indicazioni per immobilizzare gli arti fratturati. Contiene anche un trattato sui condotti metw (la funzione principale dei metw – con cui si identificano i condotti tubuliformi e quindi i vasi, i canali, i nervi – era quella di portare ai tessuti gli elementi che dovevano assicurare il buon funzionamento dell’organismo; distribuiti in tutto il corpo, essi trasportavano sangue, aria, acqua, lacrime, saliva, sperma, urine, feci e soffio divino, benigno o maligno, animatore o mortifero; allo stesso
modo potevano veicolare l’elemento patologico, capace di diffondersi in tutto l’organismo). È lungo 3,50 m. Papiri di Berlino Conservati nell’Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, sono tre. Il 3038, detto anche «Grande papiro medico di Berlino», è del 1300-1200 a.C. circa. Scoperto da Giuseppe Passalacqua a Saqqara, fu venduto al museo di Berlino nel 1827. È stato il primo papiro medico tradotto: la traduzione fu di Heinrich Karl Brugsch nel 1863 (Papyrus Brugsch) e fu pubblicato in parte a Lipsia. Poi fu pubblicato in toto da Wreszinski nel 1909 (Der Grosse Medizinischer Papyrus des Berliner Museums, Leipzig). Scritto sul recto e sul verso, si compone di 204 passaggi, la maggior parte dei quali contiene ricette varie e prognosi di parto: una miscellanea che ricorda un compendio medico a uso personale. È in parte di carattere magico. È il solo testo medico che reca la «firma» di chi scrive, almeno nel caso di una ricetta. Il nome che ritroviamo è htp nTr (leggi hetep-netjer), che alcuni traducono come «Colui che è appagato dal dio». Potrebbe trattarsi del nome del copista o del nome proprio del medico, che, in questo caso, potrebbe anche tradursi come «Il dio è clemente». È lungo 5,70 m. Il piccolo papiro 10456, detto anche «Papiro a r c h e o 73
archeomedicina servazione del pensiero del passato è stata cancellata con le sue opere» (Lucio Russo, La rivoluzione dimenticata, Milano 1996).
«Istruzioni» e «rimedi» Ma, sicuramente, «già molto prima dell’arrivo dei terapeuti greci esisteva uno spirito medico» (Jürgen Thorwald, Histoire de la médecine dans l’antiquité, Paris 1966), come provano i pochi – e perlopiú frammentari – scritti su papiro che ci sono giunti. Uno su tutti: l’antico Papiro Smith, che «prova l’esistenza di una medicina oggettiva e scientifica (...) basata su un’attenta e ripetuta osservazione del paziente, sull’esperienza e su una in precedenza insospettata conoscenza dell’anatomia» (Paul Ghalioungui, Magic and Medical Science in Ancient Egypt, London 1963). Nel testo, il medico «arriva a conclusioni razionali a partire dai fatti osservati» (James Henry Breasted, The Edwin Smith Surgical Papyrus, Chicago 1930) e «non si attendono miracoli, e la mentalità della formula magica è morta» (Sergio Donadoni, Storia della letteratura egiziana
antica, Milano 1957). I papiri medici di epoca faraonica giunti fino a noi trattano di prescrizioni e rimedi piuttosto che di metodo e diagnosi. Si tratta, quindi, soprattutto di manuali pratici, con lunghi elenchi di prescrizioni, e non di trattati teorici. Il loro ritrovamento è spesso avvenuto insieme a testi di altra natura, come se si trattasse di picco-
le collezioni, lasciti o reperti di biblioteche private. Di questi papiri, quattro risalgono al Medio Regno (Papiro Kahun e i tre Papiri del Ramesseum), undici al Nuovo Regno (Papir i Edwin Smith, Ebers, Hearst, due di Berlino 3038 e 3027, Carlsberg 8, Papiro di Londra, due Papiri Chester Beatty, due del Louvre) e due sono di epo-
I principali papiri medici Rubensohn», trovato a Elefantina e pubblicato da Westendorf nel 1975, è del 300 a.C. Contiene una ventina di prescrizioni, alcune per la tosse. Il 3027, detto anche «Piccolo Papiro medico di Berlino» o «Papiro Erman», è definito «il piú antico trattato di pediatria». Tradotto nel 1901 da Erman (Zauberspruche fur Mutter und Kind, Berlin), risale al 1550 a.C. e contiene un piccolo trattato di malattie infantili e poche ricette pediatriche. È lungo 2,17 m. Papiro Carlsberg n. 8 Tradotto e pubblicato da Erik Iversen nel 1939 (Papyrus Carlsberg n. 8, Copenhagen), è conservato presso l’Istituto egittologico dell’Università di Copenhagen. Risale al 1200 a.C. ed è scritto da due diverse mani: sul recto ci si occupa delle affezioni oculari, mentre sul verso si trattano argomenti di ostetricia e di ginecologia. È lungo solo 27 cm. Papiri del Ramesseum III, IV, V I «Papiri del Ramesseum» sono 17 e furono ritrovati (in cattive condizioni) nel 1896 a Tebe, nei magazzini del tempio funerario di Ramesse II. In tre di essi vi sono passi di argomento medico per una lunghezza totale di 3,31 m. 74 a r c h e o
Furono pubblicati da Alan Henderson Gardiner nel 1955 e tradotti da John W. Barns nel 1956 (Five Ramesseum Papyri, Oxford). Sono del 1850-1700 a.C. e pertanto sono forse i documenti medici piú antichi che possediamo. Ora sono al British Museum. Nel III e nel IV vi sono ricette per il trattamento di affezioni oculari, per problemi pediatrici e ginecologici, mentre nel V vi sono solo alcuni rimedi per i condotti metw. Papiro di Londra BM10059 Pubblicato da Wreszinski nel 1912 (Der Londoner Medizinischer Papyrus und der Papyrus Hearst, Leipzig), è databile al 1350 a.C. È ora conservato al British Museum, che lo acquistò nel 1860. È molto frammentario e comprende 61 paragrafi perlopiú medico-magici (con alcune prescrizioni ginecologiche e dermatologiche). È lungo 2,10 m. Papiri di Parigi Louvre E4864. È del 1400 a.C. È un piccolo testo che presenta sul verso alcune ricette pubblicate da Posener nel 1976. Si attendono il restauro, la traduzione e lo studio (a opera di Marc Étienne) del papiro ricevuto nel 2007 dal Dipartimento della antichità egiziane del Louvre. Esso
Disegno ricostruttivo di epoca moderna raffigurante una scena di parto, con la partoriente assistita dalle ancelle e dalla levatrice, da una pittura tebana risalente all’epoca della XIX dinastia (1292-1186 a.C.). Il Cairo, Istituto del Papiro.
ca tarda (Papiro Brooklyn e uno di Berlino, il 10456). Sono tutti scritti in ieratico tranne il Ramesseum V, scritto in geroglifico corsivo, e alcuni di essi tradiscono un’origine piú antica di quasi mille anni, come lascia intuire, nei lemmi della scrittura, la presenza di strutture grammaticali desuete e di glosse esplicative di termini arcaici. Essendo il mate-
riale papiraceo prezioso, sono spesso scritti sia sul recto che sul verso e sono vergati con inchiostro di colore nero, talvolta con l’aggiunta di qualche rigo, capoverso o carattere, in inchiostro rosso. È corretto suddividere questi manoscritti in due categorie: da un lato quelli caratterizzati dalla presenza ripetuta della parola SsAw
possiede la rara particolarità di avere sia sul recto che sul verso lo stesso soggetto; vi sono trattate tumefazioni e alterazioni della pelle e vengono suggeriti i preparati (soprattutto decotti di erbe) per guarirli. Un’analisi paleografica preliminare ha riconosciuto l’intervento di due diversi scribi: il primo (1450 a.C. circa) avrebbe redatto i testi sul recto, il secondo (intorno al 1250 a.C.) avrebbe ripreso il testo e lo avrebbe completato sul verso. È lungo 7 m circa. Papiri Chester-Beatty Si tratta di un gruppo di papiri del 1300-1200 a.C. trovati nel 1928 a Deir el-Medina. Erano appartenuti a una famiglia di artigiani del villaggio della necropoli della XIX dinastia. Sono ora conservati al British Museum. Per la medicina il piú importante è il VI (BM10686), che sul recto contiene 41 paragrafi di proctologia. Sul verso invece vi sono formule magiche. Pubblicato da Gardiner nel 1935 e tradotto da Frans Jonckheere nel 1947 (La médecine égyptienne N.2, Le papyrus médical Chester-Beatty, Bruxelles). È lungo 1,35 m. Altri passi di argomento medico, e cioè due testi sulla emicrania, sono nel V (BM10685) e alcune ricette si trovano nell’VIII (BM10688) e nel XV(BM10695).
(leggi shesau), che significa «istruzioni» e che quindi si occupano soprattutto di diagnosi e prognosi; e dall’altro quelli che sono caratterizzati dalla ripetizione della parola pXrt (leggi pekhret), che significa «rimedio» e che quindi si occupano soprattutto di terapia. Tra i primi troviamo: il Papiro Edwin Smith, il Papiro di Berlino 3038, il Papiro Kahun e il verso del Papiro Carlsberg n. 8. Tra i secondi si annoverano: il Papiro Ebers, il Papiro Hearst, i tre Papiri di Berlino, il recto del Papiro Carlsberg n. 8, i Papiri del Ramesseum, il Papiro di Londra, i Papiri del Louvre, i Papiri Chester Beatty e il Papiro di Brooklyn.
Il ruolo della magia E la magia? La parola che ripetuta piú volte ricorre nei papiri cosiddetti «magici» è r(A)w (leggi ru oppure rau), che significa «formula magica». Essa indica che siamo di fronte a un testo che colleziona parole e frasi rituali da declamare ad alta voce. Alcune di queste frasi possono però anche rintracciarsi all’interno di papiri medici a indicare un rituale magico-terapeuti-
Papiri di Brooklyn. Il Papiro Brooklyn 47.218.48 e 47.218.85 è stato tradotto in francese e pubblicato da Serge Sauneron nel 1989 (Un traité égyptien d’ophiologie. Papyrus du Brooklyn Museum No 47.218.48 et 47.218.85, Il Cairo). Sono due metà dello stesso papiro acquistato dal collezionista americano Charles Wilbour e risalgono al 380-342 a.C. Si tratta di un trattato sui morsi dei serpenti, costituito da un centinaio di paragrafi, che dimostra una conoscenza approfondita della materia: nella prima parte sono classificate 40 specie diverse di rettili e dei rispettivi veleni, nella seconda si elencano i rimedi e gli antidoti. Non sono stati finora pubblicati i papiri 47.218.47, 47.218.49 e 47.218.86, che trattano, rispettivamente, di malattie sessuali, malattie dell’udito e malattie del dorso, mentre si attende la traduzione completa del papiro 47.218.02, di argomento ginecologico. Sono tutti conservati al Brooklyn Museum di New York. Non è incluso nell’elenco il Papiro di Leida I343+I345 (detto anche «Raccolta magica»), trovato a Menfi e databile tra il 1550 e il 1185 a.C., che contiene formule magiche contro affezioni dai nomi talvolta non egizi. a r c h e o 75
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In alto: serpente, particolare da un affresco della Tomba di Sethi I, nella Valle dei Re, presso Luxor. Nuovo Regno, XIX dinastia, epoca di Sethi I (1279-1212 a.C.). In basso: cura di mani e piedi, disegno ricostruttivo di un rilievo della mastaba di Ank-ma-Hor a Saqqara, datato all’epoca della VI dinastia (2350-2195 a.C.). Il Cairo, Istituto del Papiro.
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co, poiché, come viene detto nel Papiro Ebers, «la formula magica è efficace assieme alla medicina, e viceversa». Per esempio, vi sono otto passaggi «magici» nel Papiro Smith e nove se ne ritrovano nel Papiro Hearst. L’esatto ruolo della magia è oggi controverso, essendo già difficile delineare i contorni esatti del contesto medico. Per esempio, secon-
do Gustave Lefebvre, che forse aveva in mente il «médecin-sorcier» di Victor Loret (L’Égypte au temps des Pharaons, Paris 1889), il ruolo della magia fu cosí importante da far ritenere che la medicina egizia fosse per intero di derivazione magica (Essai sur la médecine égyptienne de l’époque pharaonique, Paris 1956). Tuttavia, si trattava sicuramente di un tipo di magia «bianca», che ben poco aveva a che vedere con il nostro attuale immaginario legato agli incantesimi, ai filtri d’amore e alla negromanzia. «Quando si parla di magia nell’Egitto di età dinastica, noi usiamo questo termine con una valenza che è totalmente diversa da quella che essa possiede ai giorni nostri e che ci deriva dallo stato a cui essa si era ridotta nell’Egitto greco-romano e poi del Tardo Antico, un insieme di riti e di superstizioni spesso ridicole e talvolta ripugnanti» (Sergio Pernigotti, Introduzione all’egittologia, Bologna 2004). Era una magia che
Disegno su papiro di un rilievo del Tempio di Kom Ombo nel quale compaiono strumenti chirurgici. Età tolemaica (304-30 a.C.). Il Cairo, Istituto del Papiro.
agiva anche, per cosí dire, con… poesia. Su uno dei due rotoli che compongono il Grande Papiro Magico del Nuovo Regno (Papiro di Torino n. 1993), per guarire dal veleno dei serpenti si raccomanda di bere l’infuso ottenuto immergendo nel vino (o nella birra) un papiro su cui veniva scritto il racconto che narra la storia tra la maga Isi e Ra. Ed è un racconto bellissimo.
Papiri a uso «topico» L’utilizzo «diretto» del materiale papiraceo comunque ricorre: un noto passo consiglia di usare «un vecchio libro cotto nell’olio come applicazione locale sull’addome per aiutare un bambino a urinare» (Papiro Ebers 262). Il rotolo di papiro, insomma, non solo si leggeva, ma aveva anche una funzione topica! Le traduzioni pressoché integrali dei papiri medici di epoca faraonica sono oggi due. Lo studio piú completo, in nove volumi, concernente le «basi» della medicina dell’antico Egitto, e cioè il Grundriss der Medizin der alten Ägypter, fu compilato a Berlino tra il 1954 e il 1973 dai filologi Hildehard von Deines e Wolfhart Westendorf sotto la direzione di Hermann Grapow. Per Nunn, «nessuno studio serio è possibile senza la consultazione di questi volumi», che si caratterizzano per il loro approccio filologico. Vi è poi l’opera di Thierry Bardinet, pubblicata nel 1995 a Parigi: Les Papyrus médicaux de l’Égypte pharaonique, che colma un’ampia lacuna a vantaggio degli studiosi di lingua non germanica e nella quale l’autore, nella sua personale interpretazione di numerosi passi «chiave», non esita a contraddire i suoi predecessori. Purtroppo, come osserva Nunn, «al giorno d’oggi la situazione riguardo la traduzione in inglese degli
antichi papiri medici dell’antico Egitto è molto lontana dall’essere soddisfacente». Al di là del fascino che per il medico di oggi riveste la lettura di un papiro medico dell’antico Egitto, l’approccio nei suoi confronti dev’essere duplice, filologico e scientifico.
L’interpretazione dei testi Il rigore dell’approccio filologico è la chiave interpretativa piú corretta, poiché la parola esatta con la quale un medico descrive, o cerca di descrivere, un segno o un sintomo – e che è la diretta conseguenza del suo sguardo posato sul malato – è il dato principale da ricercare e il piú prezioso da ritenere. L’approccio scientifico medico è importante, perché il pericolo è quello di attribuire alla medicina dell’antico Egitto conoscenze di patologie che solo oggi possediamo. Detto questo, le nostre conoscenze della medicina egizia dipendono soprattutto dall’interpretazione dei testi medici, mentre quanto sappia-
mo circa le malattie che afflissero quell’antico popolo dipende, soprattutto, dai resti umani in nostro possesso e quindi dalle ricerche paleoantropologiche. Le traduzioni dei papiri medici, quindi, possono permettere, al massimo, il fascinoso tentativo di ricostruzione del pensiero medico nell’antico Egitto, ma non possono dare, a oggi, un’idea corretta della realtà patologica di allora.Tutt’al piú possono lasciarla intuire, lasciando però ampi spazi alla speculazione scientifica, letteraria e... onirica. E, anche se lo studio del pensiero medico dei terapeuti egizi resta possibile, occorre sottolineare che la letteratura medica a nostra disposizione (entrata a pieno titolo nella storia della medicina e quindi patrimonio culturale del medico di oggi) è troppo scarsa, diversificata e distribuita su un arco temporale troppo vasto (almeno 1500 anni), per poter costituire una solida base di supporto alla ricostruzione del complesso pensiero medico di allora. a r c h e o 77
storia storia dei greci/8
La poesia al
di Fabrizio Polacco
potere
Uno Stato fatto da molti Stati e che, per giunta, non conosce la parola «Stato». Ecco l’apparente paradosso della polis: quella straordinaria «comunità di uomini liberi» della Grecia arcaica tenuta a battesimo da figure eccezionali, in grado di svolgere il proprio ruolo pubblico senza rinunciare a esprimere i propri, individualissimi, talenti artistici e intellettuali
Busto di Solone, legislatore e poeta ateniese. Copia romana da un originale greco del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto: ricostruzione grafica dell’Acropoli di Atene, dominata dal Partenone, il grandioso santuario innalzato nell’età di Pericle, tra il 447 e il 438 a.C.
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e parole possono ingannare, perché sono un artificio umano e sul loro uso non sempre vi è completo accordo. Si può raggiungere una certa omogeneità nell’ambito della medesima lingua, ma quando trattiamo di popoli e con codici linguistici distanti nello spazio o nel tempo occorre adottare la massima cautela per non incorrere, fuorviati dai termini che usiamo, in fraintendimenti insidiosi. Agli storici, per esempio, capita spesso di utilizzare la parola «Stato», che, per inevitabili associazioni mentali, ci rimanda a entità come «istituzioni», «burocrazia» e «amministrazione», e di conseguenza anche ad alcune odierne contrapposizioni, quelle tra «Stato e società» o tra «Stato e individuo». E però, nella Grecia della piena età arcaica, l’affermazione dello Stato procede di pari passo con quella dell’individuo, e il consolidamento della polis nella maggior parte dei casi favorí, non soffocò, l’emergere di grandi personalità
individuali. Si tratta davvero di una contraddizione? È innanzitutto doveroso notare che i Greci non possedevano termini esattamente corrispondenti a «Stato» o a «individuo». Eppure alla loro civiltà dobbiamo sia gran parte delle istituzioni e delle tipologie statuali ancor oggi esistenti, seppur in forme diverse (costituzioni, assemblee, presidenze, magistrature, repubbliche, democrazie, ecc.), sia il sorgere delle prime grandi personalità dell’Occidente nei campi piú svariati: dall’architettura alla filosofia, dalla poesia all’indagine sui fenomeni naturali. Tanto che ci sarà qui possibile affrontare le vicende centrali dell’arcaismo greco attraverso il ritratto di tre personaggi per molti aspetti esemplari: Alceo, Talete e Solone. Scelta non azzardata, questa, perché, proprio allora, alcuni individui poterono davvero fare consapevolmente la differenza, e segnare in maniera decisiva il corso degli eventi. E lo fecero appunto perché finalmente liberi da vincoli
e condizionamenti assoluti e superiori, religiosi o politici: liberi di pensare, scrivere, parlare, senza dover temere censure né sanzioni; e, quindi, anche di mostrare e intraprendere vie nuove.
La polis «abbracciata con lo sguardo» Del resto, nonostante la radice verbale presente nel nostro termine «Stato», quello dei Greci fu tutto fuorché qualcosa di stabile o di rigidamente stabilito una volta per tutte. Inoltre, come si è sottolineato fin da principio, i Greci non ebbero un solo Stato, ma centinaia; e se le fonti storiche ci bastassero, potremmo scrivere tante storie dei Greci quante furono le loro poleis. Se si paragonano poi gli Stati odierni con quel che fu realmente una polis (termine che noi, in mancanza di meglio, continuiamo a tradurre «città-stato»), scorgiamo subito notevoli differenze. Innanzitutto nelle dimensioni. Quanto a numero di abitanti, praticamente
tutte le poleis greche di età arcaica e classica ne contarono assai meno non solo dei nostri Stati nazionali, ma anche delle nostre regioni o provincie. Includendo schiavi e meteci (stranieri), lo Stato ateniese raggiunse solo in alcuni periodi le 100/200 000 persone; ma il numero dei veri cittadini (cioè liberi, maschi, adulti e dotati di diritti politici) era notevolmente minore, al massimo attorno ai 30/40 000: è un nostro Comune di piccole o medie dimensioni. L’Atene di cui stiamo parlando fu per popolazione un monstrum nel mondo greco. La norma era di alcune centinaia, al massimo poche migliaia di cittadini: i dipendenti di una grossa fabbrica o gli studenti di un odierno istituto scolastico. Anche in fatto di estensione territoriale le proporzioni erano ben diverse. Aristotele afferma che la polis – comprensiva della zona residenziale urbana e del suo contado – doveva poter essere «abbracciata con lo sguardo». E infatti, a r c h e o 79
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l’agorà, Cuore della vita pubblica di atene
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Disegno ricostruttivo dell’agorà di Atene intorno al II sec. d.C. Fin da epoca molto antica, l’area fu il cuore della vita pubblica cittadina e fu oggetto di una prima sistemazione già nel VI sec. a.C., per iniziativa di Pisistrato. In età ellenistica e poi romana si susseguirono numerosi interventi di ristrutturazione e nuove fondazioni. Qui di seguito, l’elenco dei monumenti piú importanti: 1. stoà di Attalo; 2. biblioteca di Pantaino; 3. stoà meridionale; 4. stoà mediana; 5. Eliea (sede del massimo organo giudicante; vedi box a p. 84); 6. odeion di Agrippa; 7. tempio di Ares; 8. stoà dipinta; 9. stoà reale; 10. tempio di Zeus Eleutherios; 11. arsenale; 12. tempio di Apollo Patroos; 13. metroon; 14. tempio di Efesto (Hephaestion); 15. altare dei Dodici Dèi; 16. tholos.
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quando saliamo tra i resti monumentali delle acropoli, constatiamo che quella del filosofo non fu affatto un’esagerazione. La polis dei Greci aveva in gran parte dei casi l’estensione di un piccolo cantone.
Incontrarsi nell’agorà La quantità determinava anche la qualità dei rapporti tra i cittadini. I governanti non solo conoscevano bene i governati, ma si alternavano con essi al potere. Sottolinea anzi Aristotele che «una prova della libertà consiste nell’essere governati e nel governare a turno». Studiosi
moderni l’hanno definita una società «face to face», poiché i contatti e i confronti erano diretti, immediati, ci si incrociava spesso per le strade e si condividevano gran parte dei momenti della vita quotidiana. Se noi oggi ci sentiamo «a casa» solo all’interno dell’abitazione o del nucleo familiare, un Greco si sarebbe sentito piú a casa propria nella pubblica piazza (l’agorà), nel campo sportivo (il ginnasio), nel gruppo dei compagni (l’eteria), o nella tipica occasione di ritrovo tra amici (il simposio; vedi box a p. 82). Sarebbe difficile paragonare queste entità a
A destra: rilievo con un incontro di lotta appartenente alla base della statua di un kouros, dal Ceramico di Atene. 510-500 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
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In basso: ancora un rilievo pertinente alla base di una statua di kouros, dal Ceramico. 510-500 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale. La scena ritrae due uomini seduti, che aizzano un cane contro un gatto. La lastra conserva tracce della coloritura originaria.
«istituzioni», eppure esse costituivano l’ossatura della vita cittadina: luoghi centrali dello «Stato» (se cosí vogliamo continuare a chiamarlo) non meno dei veri e propri organi di governo. Per questo, quando si parla di «vincoli comunitari» nella polis antica, non bisogna farsi fuorviare da concezioni quale quella, oggi spesso menzionata, dello scrittore e uomo politico francese di origine svizzera Benjamin Constant (1767-1830), il quale, agli inizi dell’Ottocento, volle vedere un’antitesi tra la «libertà degli Antichi» (essenzialmente di partecipazione politica) e la «libertà dei Moderni» (piú concernente i «diritti individuali»).
Lo «Stato» e l’«individuo» Al contrario, nelle poleis i vincoli della comunità poterono coesistere benissimo con la libertà dell’individuo: nella maggioranza dei casi
non vi fu né contrapposizione, né incompatibilità. È un dato di fatto parallelo a quello linguistico già osservato, cioè l’inesistenza in greco antico di termini sovrapponibili ai nostri «Stato» e «individuo». Anzi, l’individuo poté affermarsi proprio perché glielo permise quel tipo di Stato. Né dobbiamo lasciarci fuorviare dalla gigantesca ombra proiettata da Socrate, il quale visse un rapporto effettivamente conflittuale con la sua polis: ciò accadde alcuni secoli dopo il periodo che stiamo trattando, e proprio allorché la polis stessa entrò in una drammatica crisi. La città-stato, in conclusione, era qualcosa di piú e di diverso di un’istituzione: era una comunità di liberi. E le tre personalità che abbiamo prescelto per raccontarne le vicende in età arcaica – certo con una qualche arbitrarietà, ma sforzandoci di risultare esemplari – dimostrano fino a che punto anche
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la polis dietro un calice di vino Ben piú omogenee e universalmente diffuse nel mondo greco delle assemblee o dei consigli, che nelle varie poleis potevano avere nomi e funzioni notevolmente diverse, furono le seguenti istituzioni, il cui ruolo era a metà strada tra il politico e il personale, e che meglio di altre ci dimostrano quanto inconsistente fosse contrapporre in esse Stato e individuo. L’agorà, o piazza centrale: luogo di mercato ma anche di incontri e conversazioni (il verbo agoràzein vuol dire anche «parlare»): vi si convocavano originariamente le assemblee e i consigli della città, ben prima che venissero costruiti l’ekklesiasterion per ospitarvi le prime, il bouleterion per le seconde. Il ginnasio, o campo sportivo: in origine nulla piú che un luogo spianato atto agli esercizi fisici e sportivi, praticati in nudità (da gymnòs, nudo), arricchito in seguito di impianti specifici per la corsa (stadio) e altre competizioni atletiche come la lotta (la palaistra, da pale, lotta). Frequentato innanzitutto dai giovani ma anche da altre classi di età, per i
contatti intergenerazionali che offriva divenne col tempo luogo di insegnamento anche teorico, per sofisti e retori, grammatici e poeti. Per questo il nome di «ginnasio» assunse la sua valenza odierna (vedi «Archeo» n. 295, settembre 2009). L’eteria, o «compagnia». Indica la comitiva dei pari, di norma aristocratici, che condividevano interessi politici e economici, ma anche di svago e affettivi (etaíros è il compagno, etaíra è la prostituta). Quando l’aristocrazia entrò in crisi, divennero una sorta di circoli privati di azione politica spesso in conflitto con le istituzioni pubbliche, fattesi via via sempre piú democratiche. Il simposio è l’occasione e – per traslato – anche il luogo in cui «si beve insieme». Vi si riunivano verso sera gruppi ristretti di amici; non solo per bere, ma anche per cantare e suonare, per amoreggiare e conversare. Per questo fu, insieme al ginnasio, uno dei luoghi di nascita della filosofia occidentale: da qui il significato odierno di «simposio» come convegno di esperti su tema specifico.
Nella pagina accanto: raffigurazioni ispirate al tema del simposio, sull’esterno di due kylikes (tazze per bere con due manici). Entrambe di produzione attica, mostrano un banchetto allietato da una suonatrice di flauto (in alto) e alcuni convitati che si cimentano nel gioco del cottabo. Sono rispettivamente conservate a Bari (Museo Archeologico Provinciale) e Atene (Museo Goulandris di Arte Cicladica). L’uso del «bere insieme» fu, di fatto, una delle culle della filosofia occidentale.
quel grande liberale che fu Constant in questa occasione si sbagliasse (vedi box a p. 84). Quasi tutte le maggiori civiltà del globo hanno riconosciuto come maestro e iniziatore una grandiosa figura di saggio, profeta, o legislatore morale. È facile elencare i nomi di Mosè, Buddha, Confucio, Maometto e, nella singolare concezione di Dio che si è fatto uomo, Gesú. Invece, la civiltà originata dai Greci, quella classica, manca di una tale personalità dominante e unanimemente riconosciuta. Perfino Omero fu oggetto di molte pungenti critiche, se non sul piano poetico, almeno in quanto possibile punto di riferimento religioso o morale; a ogni modo, egli stesso non pretese mai di essere particolarmente saggio, né un legislatore, né tantomeno un profeta.
Sette e piú di sette Conformemente alla natura policentrica e polimorfa che lo caratterizza, il mondo greco, di saggi o sapienti, semmai ne ricorda non uno, ma sette. Quasi inutile aggiungere che non sostennero identiche teorie, né propugnarono le medesime verità. Non solo: i famosi Sette Sapienti non furono neppure sette, ma di piú, perché su chi fosse incluso nel prestigioso elenco non ci si accordò mai, sicché le fonti menzionano gruppi diversi di personaggi; né vi era poi alcuna autorità in grado di imporre un proprio «ca-
none». Ci si perdonerà perciò se qui ne citiamo non sette, ma quattro, almeno quelli che ricorrono in tutti gli elenchi: Biante di Priene, Talete di Mileto, Solone di Atene e Pittaco di Mitilene. Dei due piú importanti, Solone e Talete, tratteremo piú ampiamente. Ma, tanto per capire l’aria poco accomodante che tirava in Grecia perfino nei riguardi dei cosiddetti «Sapienti», di Pittaco parliamo qui solo per ricordare che fu acerbamente criticato e combattuto dal suo conterraneo Alceo: uno dei tre grandi personaggi protagonisti di queste pagine. Alceo era un poeta. Ma, ancora una volta, le parole ingannano, perché non lo fu affatto nel senso nostro. Egli era innanzitutto un aristocratico, possidente e amministratore dei suoi beni in quel di Mitilene, città dell’isola di Lesbo. Fu anche un uomo di governo, uso a frequentare il consiglio e l’assemblea in quella repubblica aristocratica che era la città al tempo in cui nacque. Era poi un guerriero, capace di usare le armi e ogni tanto pure smanioso di farlo. Fu infine, quand’era il caso, un cospiratore politico, un paio di volte costretto all’esilio e riammesso in patria. La sua travagliata vicenda fu determinata dall’epoca in cui visse: a cavallo tra il VII e il VI secolo a.C. il potere dell’aristocrazia era messo in discussione dalla classe emergente dei mercanti e degli imprenditori, degli artigiani e degli armatori. Nell’isola, tra le piú grandi e floride dell’Egeo, costoro non tardarono a coalizzarsi per affossare il regime nobiliare; e, come spesso accadeva, si fecero forti delle discordie esistenti anche all’interno delle consorterie aristocratiche, le eterie, tra cui era appunto quella di Alceo. Non osando, da principio, gestire il potere direttamente, si sceglievano come capo uno dei nobili, disposto, per vari motivi, a guidarli contro i suoi pari. Una volta sopraffatti gli antichi governanti, con scontri o sedizioni armate, il «capopartito», che aveva guidato alla riscossa il
nuovo ceto, assumeva in genere un potere autocratico e prendeva il nome di «tiranno»: termine che fa cosí la sua comparsa nella Storia, e che però, in origine, non aveva tutte le connotazioni negative odierne. Ebbene, il sapiente Pittaco fu uno di questi tiranni, e, probabilmente, anche uno dei piú moderati. Possiamo tuttavia ben immaginare che opinione ne avesse Alceo, con quel suo carattere focoso e orgoglioso, e come lo considerasse innanzitutto uno spergiuro e un traditore della causa comune.
Il canto della politica Ma che cosa ha a che fare tutto questo con la poesia? Quasi nulla: se non che per un uomo d’azione e di impegno politico raffinato e istruito, quale Alceo, il modo abituale di sostenere e propagandare le proprie idee, di rincuorare se stesso e i compagni nel momento della lotta come in quello della sconfitta, era appunto il canto poetico. La stessa cosa, cioè cantare a sostegno della propria azione politica con l’ausilio del verso, fece anche l’ateniese Solone. In Attica la situazione era ben diversa da Mitilene. Da un lato, piú grave: il regime dei latifondisti reggeva, anzi si consolidava ai danni dei piccoli proprietari, indebitati al punto da perdere non solo le loro terre, ma anche la libertà, poiché le dure leggi di allora prevedevano che gli insolventi fossero venduti come schiavi fuori dalla patria. Assai dura fu quindi la sollevazione del popolo, che tentò la rivoluzione pretendendo non solo il rientro degli espatriati e la restituzione delle terre, ma addirittura l’esproprio e la redistribuzione di quelle degli aristocratici. Dall’altro lato però, la stessa gravità della situazione, ormai da guerra civile strisciante, indusse i nobili di Atene a scendere a patti e ad accettare di nominare arconte per l’anno 584 a.C. Solone, che era uno dei loro, seppur tra i meno abbienti, e che proprio per questo faceva sperare anche ai ceti emergenti che li avrebbe favoriti. Sostenuto per le a r c h e o 83
storia storia dei greci/8 sue doti di saggezza e di equilibrio da entrambe le parti, che tuttavia covavano in segreto aspettative assai opposte – gli uni, restaurare il vecchio regime, gli altri, sovvertirlo –, Solone fu cosí incaricato di riformare lo Stato. Già solo per questo fatto, si trattò di un cambiamento epocale: l’intuizione alla base dell’attività del sapiente legislatore – idea di cui egli stesso seppe persuadere entrambe le fazioni – fu che i problemi dello Stato potessero essere risolti non con la violenza, la guerra civile e gli esili (come appunto stava avvenendo a Mitilene), ma con una riforma istituzionale. Insomma, dopo avere inventato lo Stato come entità politica di cittadini retta da una costituzione, i Greci di età arcaica scoprirono che la sua forma poteva via via essere adattata alle nuove condizioni ed esigenze attraverso un programma razionale e consapevole. Questo nobile capace e deciso, ma nello stesso tempo gaudente e sereno (cosí ci appare di carattere, dalla lettura delle sue Elegie), fu il primo
il travisamento di constant Rileggendo la celebre conferenza La libertà degli Antichi paragonata a quella dei Moderni, pronunziata da Benjamin Constant nel 1819, uno dei pamphlet politici fondamentali del liberalismo, è doveroso distinguere tra le finalità e le idee politiche dell’autore – a tal punto condivisibili da essere state fatte proprie da tutte le odierne democrazie imperniate sulle libertà individuali – e la contrapposizione che egli volle vedere tra questo tipo di «libertà» e quella vigente nel mondo antico, che invece pecca di qualche superficialità e di arbitrarietà. Egli fa innanzitutto una gran confusione, prendendo indiscriminatamente a modello di uno dei termini del confronto, gli Antichi, una città italica – Roma –, una greca – Sparta – e addirittura il popolo dei Galli, i quali certo non conobbero né poleis, né costituzioni paragonabili a quelle classiche. Inoltre non si rese conto che proprio Sparta (in cui in effetti l’individuo godeva di meno diritti che altrove) costituiva un’eccezione, e non la regola, nel mondo greco; mentre pochi passi piú oltre egli mostra di ritenere un’eccezione Atene, tanto che cerca di spiegarci perché il suo indubitabile modello di libertà non contraddirebbe il suo assunto generale: cioè che «gli Antichi (…) non avevano alcuna nozione dei diritti individuali», e addirittura che «gli uomini erano, per cosí dire, mere macchine, di cui la legge regolava le molle e dirigeva gli ingranaggi» (sic!). La sintetica presentazione di tre personaggi dell’arcaismo che offriamo in queste pagine (ma ne avremmo potuti scegliere centinaia di altri) è piú che sufficiente a smentire questa sommaria analisi di Constant. Al contrario, potremmo osservare che il livello di libertà individuale dei Greci, per non parlare del loro grado di partecipazione alla politica, sono stati raggiunti da alcuni Stati moderni appena negli ultimi due secoli.
Schema che riassume l’assetto istituzionale ideato da Solone per la polis di Atene. Il legislatore introdusse un sistema basato sul censo, cioè sulla ricchezza (detto timocratico, da timé, censo), che soppiantò la precedente forma di governo, basata invece sul diritto di nascita.
costituzione di solone cittadini liberi
pentacosiomedimni : almeno 500 medimni di reddito annuo cavalieri : almeno 300 medimni di reddito annuo zeugiti : almeno 200 medimni di reddito annuo teti : non dispongono di reddito annuo
ekklesia :
9 arconti : eletti fra i membri delle prime due classi
areopago : consiglio di ex arconti
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assemblea dei cittadini
magistrature minori :
aperte anche alla terza classe
eliea : 600 giudici popolari (sorteggiati)
donne , schiavi , stranieri o meteci :
esclusi da qualsiasi diritto
politico riformatore della storia. Egli trasformò il regime ateniese da aristocratico in timocratico, basato cioè sul censo. E lo fece ponendosi come arbitro tra le due accanite fazioni (proprio «come un lupo circondato dai cani», ricorda): non accontentando del tutto né l’una né l’altra, ma dando a ciascuno «quanto basta» (vedi box nella pagina accanto).
La svolta di Talete Ben piú grande e piú ricca – sia di Atene che di Mitilene – era la patria di Talete, Mileto. Di Mileto si ricordavano ben novanta colonie nel Mar Nero. Se questo bacino prima di allora si chiamava «Mare Inospitale», e se poi il nome venne trasformato in quello decisamente meno minaccioso di «Mare Ospitale» («Ponto Eusino»), dobbiamo pensare che i Milesi fossero uomini audaci e intraprendenti, nient’affatto restii a sperimentare rotte inconsuete per aprire terre lontane ai loro commerci e agli scambi. La
la riforma di solone Particolare del colonnato della stoà (portico) di Attalo, nell’agorà di Atene. L’aspetto attuale dell’edificio è frutto dell’intervento di ricostruzione condotto negli anni Cinquanta del Novecento, per farne la sede del Museo dell’Antica agorà.
stessa cosa si può dire di Talete: solo che egli aprí nuove rotte al pensiero e condusse la mente umana a inaudite verità. Per avere messo all’origine di tutte le cose non piú un dio o il Caos, come volevano i racconti tradizionali o i profeti, ma un elemento assai poco mitologico come l’acqua, in qualunque altra epoca e presso qualsiasi altro popolo antico uno come lui sarebbe stato arso vivo. Eppure a Talete, che non visse durante l’Illuminismo, ma 2600 anni fa, nessuno osò torcere un capello. Anzi, fu ammirato dai concittadini perché predisse un’eclisse di Sole (forse quella del 585 a.C.), e, piú prosaicamente, perché, grazie alle sue previsioni meteorologiche, si arricchí investendo sui... frantoi. Certo, almeno per quanto riguarda l’astronomia non fu del tutto originale, poiché introdusse in Grecia conoscenze che i popoli mesopotamici già possedevano. Contraria-
mente a quelli, però, non ebbe a che fare né con un sistema politico chiuso e intollerante né con qualche Sommo Sacerdote geloso delle sue dottrine. E, quindi, ebbe agio di estendere le proprie speculazioni dal mondo fisico a quello cosmologico e, verrebbe da dire, metafisico: per divenire cosí a noi noto non solo come uno dei Sapienti, ma, soprattutto, come il primo dei filosofi. Se, poi, vogliamo tenere conto di sporadici accenni a una sua origine fenicia, dobbiamo dedurne che i le puntate di questa serie Questi gli argomenti dei prossimi capitoli di questa storia dei Greci: • Tra tirannidi e democrazie • Le guerre persiane • La democrazia navale di Atene • L’età di Pericle • La guerra tra Sparta e Atene • Una magnifica meteora: Alessandro il Macedone
Il progetto politico di Solone almeno momentaneamente non ebbe troppa fortuna, come spesso accade all’opera degli imparziali e disinteressati servitori dello Stato. E se anche egli aveva rinunziato a occupare stabilmente il potere e a farsi tiranno, come pure gli sarebbe stato possibile, dopo di lui a farlo ci pensò qualcun altro, abile a sfruttare quel malessere residuo e quel tanto di incompleto che la sua riforma aveva lasciato, come del resto molte altre odierne ben piú sofisticate. E cosí poi anche Atene conobbe la tirannide, a opera di Pisistrato e dei suoi figli. La riforma soloniana rimase tuttavia formalmente in vigore anche sotto costoro, e sarà la premessa della riforma democratica introdotta nella città dopo la cacciata dei tiranni, nel 508/7 a.C.
Greci della Ionia ebbero l’intelligenza di far proprie le idee e le esperienze altrui indipendentemente dall’etnia; e, forse, anche il buon senso di integrare nella polis le persone capaci provenienti da Paesi che non avrebbero tollerato gli spiriti liberi, né certe loro riflessioni un po’ troppo audaci. (8 – continua) a r c h e o 85
Un ponte di barche realizzato dai soldati romani per attraversare il Danubio, incisione di Pietro Santi Bartoli per l’opera Colonna Traiana eretta dal Senato e Popolo Romano all’Imperatore Traiano, pubblicata a Roma, nel 1673, dall’erudito Giovanni Pietro Bellori. La struttura appartiene alla categoria dei «ponti d’equipaggio», di cui si conserva una dettagliata descrizione nell’Anabasi di Alessandro dello storico greco Flavio Arriano.
archeotecnologia di Flavio Russo
Quando gli
Elefanti
camminarono sull’acqua... Le testimonianze degli autori classici dimostrano che l’attraversamento dei fiumi, ma anche di ampi bracci di mare, era una pratica consueta, resa possibile da un ricco ventaglio di soluzioni tecniche e ingegneristiche
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n alternativa al discusso ponte sospeso, è stato di recente proposto un progetto di ponte galleggiante per lo Stretto di Messina, non privo di vantaggi, ma, forse, non del tutto originale. Motivate ragioni, infatti, lasciano credere che un’opera simile sia stata costruita sullo stesso braccio di mare, nel 251 a.C., dal console Lucio Cecilio Metello, il quale, sconfitti i Cartaginesi espugnando Palermo, si trovò a disporre di un centinaio di pachidermi africani. Un bottino suggestivo e degno di sfilare nel suo trionfo a Roma, dove gli esotici animali erano ancora ignoti, a patto di poterveli portare... Poiché sarebbe stato impossibile farli viaggiare via mare, essendo i proboscidati troppi, troppo pesanti – 4-5 t ciascuno – e troppo voraci – 3 q di cibo al giorno – per le navi di cui Metello disponeva (e, per giunta, di carattere irascibile, con intuibili conseguenze a bordo), sarebbe stato piú facile condurli a Roma
sulle loro zampe. Occorreva, però, attraversare lo stretto, ed escludendo dunque l’impiego di imbarcazioni, mercantili o militari, s’imponeva un ponte galleggiante, mai fino ad allora gettato di tali dimensioni. Plinio il Vecchio, per la verità, parla di varie zattere precisando che «furono 142 o, come alcuni dicono, 120 gli animali trasportati su zattere che Metello aveva fatto costruire con file di botti unite fra loro» (Storia Naturale, III, 6).
Una soluzione impraticabile Le botti dei Romani avevano una capacità di 200 l circa e, poste sotto i tronchi di una zattera, ne avrebbero incrementato la portata in ragione di 2 q ciascuna: per trasportare una decina di elefanti per volta, ne sarebbero dunque occorse almeno 250, una quantità reperibile, ma difficile da assemblare solidamente. Una zattera di 10 x 25 m, per esempio, le avrebbe viste disposte a r c h e o 87
archeotecnologia ponti galleggianti in file da 10 x 25 righe: si sarebbe ottenuto un natante appena idoneo al carico, ma ingovernabile in quelle acque, la cui corrente raggiunge e spesso supera i 2 m/s. Una zattera priva di propulsione, sarebbe stata facilmente portata alla deriva e non necessariamente verso la costa calabra. Inoltre, sarebbe stato necessario ripetere il traghettamento almeno una dozzina di volte! Appare dunque piú ragionevole, come molti studiosi ritengono, ipotizzare un sistema di zattere collegate fra loro che, procedendo da entrambe le sponde, distanti 3200 m fra Gazirri e Punta Pezzo, una volta congiunte, avrebbero formato un ponte galleggiante sul cui impalcato, in tutta sicurezza, sarebbero transitati gli elefanti, i carriaggi dell’esercito e gli stessi legionari.
PONTE DI NAVI La chiglia delle triremi era, in genere, a 1,5 m sotto la linea di galleggiamento, per cui, utilizzandole per formare un ponte, si potevano accostare solo alle sponde rocciose, che, per la loro altezza, richiedevano rampe d’accesso e di uscita e molto inclinate.
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La struttura si sarebbe mantenuta stabile grazie a una rete di ancoraggi, alcuni fra le zattere e la riva, altri fra le stesse e il fondale, oscillante lungo tale direttrice fra gli 80 e i 120 m. In tutti i casi, si sarebbero utilizzate funi non eccedenti i 200 m di una normale gomena, ottenendo cosí un ponte galleggiante solo piú lungo dei tanti da oltre due secoli correntemente adottati nelle operazioni campali.
Le 674 navi di Serse Alla tipologia, infatti, appartennero i due ponti gettati per ordine di Serse sull’Ellesponto, nel 480 a.C., presso Abido, dove la distanza fra le due sponde è di circa 1200 m. Stando a Erodoto, la loro costruzione richiese complessivamente 674 navi, fra triremi e pentecon-
tori: «360 dalla parte del Ponto Eusino, 314 dall’altra, obliquamente rispetto al Ponto, ma secondo la corrente dello stretto, affinché questa mantenesse in tensione le funi: dopodiché gettarono ancore enormi, sia verso il Ponto, per via dei venti che soffiano dal largo, sia verso ovest e l’Egeo contro i venti di Zefiro e Noto. In tre punti fra le pentecontori lasciarono un varco di passaggio, perché volendo con imbarcazioni leggere si potesse tanto navigare verso il Ponto che dal Ponto entrare nello stretto. Ciò fatto, da terra tesero i cavi, avvolgendoli intorno ad argani di legno, senza piú separare l’impiego delle funi, ma destinando a ciascun ponte due cavi di lino bianco e quattro di papiro. Identici erano lo spessore e la bellezza delle funi, ma Sebbene le coperte delle triremi, affiancate fra loro, già costituissero un ponte, per renderlo idoneo a sopportare i carichi non omogenei in transito, vi si fissavano sopra numerose funi parallele, ancorate e tesate fra le opposte rive, e, su queste, si collocava il tavolato.
in proporzione quelle di lino erano piú grevi: pesavano un talento per cubito. Congiunte le due rive, segarono tronchi di legno in misura pari alla larghezza della struttura portante e li posero in fila sopra i cavi in tensione; allineati uno accanto all’altro, li fissarono, di nuovo, insieme. Infine vi misero sopra fascine di legna, che distribuivano anch’esse, per bene, e sopra le fascine pressarono la terra e sui due lati del ponte alzarono uno stecca-
to, perché gli animali e i cavalli non si spaventassero a vedere sotto di sé il mare» (Storie,VII, 8-10). Sebbene Erodoto non lo dica, quelle navi si devono supporre strettamente affiancate fra loro: larghe fra i 5-6 m, avrebbero formato un ponte di 1500 m le prime e di 2000 m le seconde, entità congrue all’ampiezza dello stretto tenendo conto della concavità impressa ai ponti dalla corrente. È interessante osservare che Persia-
Lo Stretto di Messina fotografato dal capoluogo siciliano.
Una zattera senza governo non avrebbe mai potuto effettuare la traversata dello Stretto di Messina
Le funi destinate a sostenere il tavolato, e, al contempo, a mantenere affiancate le navi, erano saldamente ancorate alla riva di spiegamento e tesate dalla riva opposta, alate con poderosi paranchi.
ni, Assiri e Greci gettavano i loro ponti galleggianti in maniera diversa dai Romani: posizionavano, infatti, gli scafi – barche o navi che fossero –, bordo contro bordo, poggiando sulle loro coperte le gomene sottostanti all’impalcato, per ripartire i carichi in moto. I Romani, invece, distanziavano alquanto le imbarcazioni, mantenendole allineate con funi correnti fra le due rive e tesate con paranchi, trasformandole in piloni galleggianti. Su di esse collocavano l’impalcato e la transenna (cancellorum tutamen), che contribuiva a irrigidire la struttura comportandosi come una moderna trave reticolare di ferro.
Cesti di vimini pieni di sassi Circa lo spiegamento, questa è la puntuale descrizione che si legge in Arriano (storico greco che scrive nel II secolo d.C.): «A un comando le barche sono fatte scendere con la corrente, con la poppa in avanti, la direzione è governata da una barca a remi che le manovra in posizione. Quando sono posizionate, cesti piramidali di vimini ripieni di sassi vengono affondati per trattenerle. Appena una imbarcazione viene ancorata, un’altra viene accostata con la prua verso la corrente, a una distanza sufficiente per assicurare una forte base per le sovrastrutture; poi alcune travi vengono rapidamente appoggiate di traverso tra una imbarcazione e l’altra con sopra un tavolato per renderne rigida la struttura» (Anabasi di Alessandro, V, 7). Ponti del genere, costruiti con apposite barche e attualmente definiti «ponti d’equipaggio», conobbero vasto impiego nell’esercito romano. Uno di essi è raffigurato in maniera particolareggiata sulla Colonna Traiana (vedi illustrazione a p. 86). Anche i Romani realizzarono, sia pure saltuariamente, ponti galleggianti con navi: uno enorme, di oltre 4 km, fu fatto spiegare nel 39 da Caligola, fra Baia e Pozzuoli, utilizzando battelli da carico e fu cosí ricordato da Svetonio: «Fece costruire tra Baia e la diga di Pozzuoli, che separava uno spazio di a r c h e o 89
archeotecnologia ponti galleggianti
In alto: disegno di un ponte di otri, da una edizione del De rebus bellicis. A destra: incisione ottocentesca raffigurante il ponte di barche allestito a Roma, all’altezza del porto fluviale di Ripetta (oggi non piú esistente), per il ritorno nell’Urbe di papa Pio VII, il 24 maggio 1814 (il pontefice era stato deportato dopo la scomunica della Francia di Napoleone, che aveva annesso la capitale ai territori dell’impero). Roma, Museo Napoleonico. Gli otri venivano fissati sotto una sorta di griglia, mantenuta in posizione da varie funi parallele, tese fra due rive. Su questa struttura galleggiante si disponevano, uno a fianco all’altro, fusti di piccoli alberi ottenendo cosí un tavolato.
Oltre alle funi trasversali, le singole portiere erano mantenute in posizione da ancore a monte, ottenute in genere con ceste di pietre, nonché con altre funi diagonali fissate alle sponde.
circa tremila e seicento passi, un ponte formato da navi da carico, riunite da tutte le parti e collocate all’ancora su due file; poi le si ricoprí di terra dando a tutto l’insieme l’aspetto della via Appia. Per due 90 a r c h e o
giorni di seguito non la smise di andare e venire su questo ponte» (Vite dei Cesari, Caligola). Vi era ancora un altro tipo di ponte galleggiante, definibile «pneumatico», non sostenuto da imbarca-
zioni, ma da otri o botti, in pratica dall’aria che contenevano. Ne possediamo due descrizioni, che, essendo distanziate da quasi otto secoli, ne confermano sia la validità che la persistenza d’impiego.
Nella prima Senofonte rievoca un episodio del 340, quando i suoi mercenari si trovarono costretti fra un grande fiume e il nemico. Al suo stato maggiore angosciato sul da farsi, si presentò un uomo di Rodi che cosí parlò: «Signori, io posso farvi passare il fiume, 4000 opliti per volta: basta che mi forniate quel che vi chiederò, oltre a 1 talento come compenso (26 kg circa d’argento)». Alla domanda su che cosa gli occorresse, rispose: «Mi servono 2000 otri. Vedo che da queste parti ci sono molte pecore e capre e buoi e asini. Una volta scuoiati, basterà gonfiare le pelli per consentire un facile passaggio all’esercito. Poi mi serviranno le corregge che usate per le bestie da soma: con esse terrò stretti gli otri uno all’altro e ormeggerò ciascun otre appendendoci una pietra e poi lasciandola colare al fondo come se fosse un’ancora. Quindi taglierò il fiume con la fila degli otri che legherò a entrambe le sponde. Infine vi getterò su sterpaglie e, al di sopra, terriccio.Vi
accorgerete che con questo marchingegno non annegherete: ogni otre potrà reggere due uomini senza affondare, mentre gli sterpi e il terriccio serviranno a non scivolare» (Anabasi, III,V, 8-11). Anche in questo ponte le portiere sono ancorate al fondale con pesanti sassi e sostengono un impalcato ligneo superiore coperto di terriccio per agevolare il transito dei cavalli, all’epoca senza ferri (vedi «Archeo n. 317, luglio 2011).
otri saranno collegati l’uno all’altro con cinghie attaccate ai lati nella parte inferiore, mentre, nella parte superiore, uncini posti su un lato, saranno agganciati ad anelli posti sull’altro; in questo modo gli elementi collegati tra loro prendono la forma di un ponte». «Questa stessa opera, grazie all’impeto della corrente, si estenderà piú facilmente fino all’altra riva, in senso obliquo al fiume: una volta fissati pali di ferro sulle due rive e stese corde robuste nella parte centrale sotto gli stessi otri (per sostenere Otri, pali e coperte Nel De rebus bellicis (opera di uno il peso di coloro che vi passano scrittore romano anonimo del IV o sopra) e nelle parti laterali sopra gli V secolo sulle macchine da guerra, otri (per motivi di stabilità), questa n.d.r.), un uguale ponte è proposto struttura offrirà in breve tempo licon finalità tattica con queste pa- bera facoltà di attraversamento di role: «Con pelli (...) accuratamente un fiume con un sistema di passagcucite, si confezionano otri del- gio nuovo e originale. Dobbiamo la grandezza di tre piedi e mezzo, inoltre avvertire che è opportuno in modo che, quando questi otri, stendere coperte sulla superficie insufflati d’aria, si saranno gonfia- degli otri, sotto i piedi di chi passa, ti, non formino protuberanze; al affinché le pelli scivolose per il tipo contrario il loro rigonfiamento do- di lavorazione non pregiudichino vrà produrre una forma piatta, di- la stabilità del procedere» (De rebus stendendosi in modo uniforme; gli bellicis, XVI). a r c h e o 91
Il mestiere dell’archeologo Beni culturali ed economia/1
Ben venga il marketing, ma... Come affrontare l’argomento, piú che mai attuale, dell’armonizzazione fra le esigenze della tutela e della valorizzazione e la ricerca del ritorno economico
di Daniele Manacorda
na nuova rivista, dal titolo un po’ provocatorio, Il capitale U culturale, è venuta ad arricchire il
dibattito sul rapporto fra patrimonio culturale ed economia. È un tema che non si risolve certo in poche pagine, ma che si presta comunque a molte considerazioni. Per entrare in argomento potremmo prendere le mosse da quanto scrive il direttore della rivista, Massimo Montella: «Alcuni storici dell’arte, anche delle giovani generazioni, considerano un ossimoro economia e cultura». E aggiunge che la sensazione che sussista un contrasto evidente tra gli interessi di carattere culturale e quelli di carattere economico non riguarda solo il mondo degli storici dell’arte, ma quello piú vasto delle professioni di area umanistica impegnate sui beni culturali. Naturalmente, le posizioni possono essere molto diversificate: ma il sospetto della cultura umanistica verso l’economia c’è. Alla base di questa diffusa diffidenza da parte degli umanisti verso possibili forme di innovazione nel campo dei beni culturali e delle relative politiche c’è forse anche un equivoco (altrimenti la nuova rivista avrebbe davvero una strada in salita davanti a sé). È bene dunque discuterne.
Roma, la Sala dei Grandi Bronzi dei Musei Capitolini (si riconoscono l’Ercole dal Foro Boario e la statua equestre di Marco Aurelio). La «produttività» di un bene culturale non può essere misurata, nel caso di un museo, basandosi unicamente sugli incassi derivanti dalla vendita dei biglietti, ma va valutata, per esempio, tenendo conto dei benefici che scaturiscono dall’afflusso dei visitatori, che sono anche potenziali consumatori e acquirenti di beni e servizi.
Un confronto «antico» Le resistenze nei confronti dell’innovazione a volte si appuntano, per esempio, sulle tecnologie; poi, magari, le cavalcano per dare un tocco di modernità ad approcci culturali anche molto vecchi. Il timore verso ciò che non si conosce o si pensa di non dominare può talvolta investire quello che in tempi anche assai lontani veniva definito come il contrasto fra otium e negotium, quasi che tutto ciò che riguarda il «saper fare», le attività pratiche, vada escluso dalle esperienze culturali. Si tratta, in tal caso, di posizioni rispettabili, ma anche un po’ patetiche. Se vogliamo entrare un po’ piú nel
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merito della faccenda, potremmo semmai prendere atto di una esperienza della quale siamo ormai tutti consapevoli, e cioè che la «risorsa» economica prodotta dai beni culturali non si può calcolare semplicemente in termini di cassa, di introiti provenienti da attività di gestione diretta di un bene (quale che esso sia: monumento, museo, parco…). Questi ricavi sono in genere assai bassi rispetto alle necessarie spese di gestione per il personale, i servizi, le manutenzioni e i restauri. Insomma, l’impresa che ruota intorno alla valorizzazione di un bene culturale è destinata a essere sempre, tranne casi eccezionali, in perdita economica. La sua redditività, infatti, va calcolata a scala piú ampia, in ragione dell’indotto generato in un’area geografica dalla presenza di un sistema ben gestito di beni culturali in termini di crescita dell’occupazione e del fatturato nei servizi e nel commercio connesso al turismo di qualità. È un reddito che alimenta materialmente le attività dei La Storia, tecnica mista su tela di Lodovico Pogliaghi. 1885 circa. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Il motto scelto per questa allegoria, «Che il nome sia esso stesso il monumento», può essere inteso come efficace sintesi dei concetti discussi in queste pagine.
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singoli e anche le finanze pubbliche attraverso la fiscalità generale, ma – e questo è il calcolo economico piú importante, anche se non facile – produce ricchezza anche in termini «immateriali» e di piú lungo respiro, favorendo, per esempio, la minore spesa generata da una «tutela sociale attiva» derivata da una crescita culturale e partecipativa, che, a sua volta, genera comportamenti responsabili, rispettosi dei monumenti, del paesaggio, dell’ambiente. Alla ricerca dell’equilibrio Insomma, nell’economia dei beni culturali non è tanto il bilancio di ogni singola iniziativa che deve essere in equilibrio (anche se questo va sempre cercato); non si può ragionare in termini di «tanto investo, tanto piú ricavo», soprattutto quando l’investimento sia
pubblico. È l’intero comparto che deve essere in equilibrio. Se vogliamo fare un semplice confronto (spero che gli economisti non mi giudichino male), potremmo dire che le tariffe dei mezzi di trasporto pubblico non possono essere adeguate al pareggio di bilancio (sarebbero probabilmente altissime). Il minor ricavo di una tariffa compatibile con le tasche dei cittadini si ripiana con le economie di scala nei consumi dei carburanti e con il minor numero di ore lavorate perse a causa di un traffico urbano caotico e disordinato. Corollario di queste considerazioni è che si sente sempre piú il bisogno di un ribaltamento di concezioni, in
primo luogo negli interventi pubblici, che parta dal fatto che lo Stato proprietario dei beni culturali non deve tanto trarre redditi diretti dalle sue proprietà, quanto metterle a disposizione della società perché producano redditi. Ma su questo potremo tornare in altra occasione. Insomma, occorre innanzitutto intendersi su che cosa intendiamo quando parliamo di economia dei beni culturali. Ben vengano, dunque, le considerazioni che aiutano noi umanisti ad accogliere una definizione di economia che non sia corriva e fuorviante, come quella corrente, sbrigativamente appiattita sugli aspetti finanziari del breve e medio termine; ma che descriva l’economia come quel
campo del sapere che ha come finalità lo studio dei processi attraverso i quali vengono prodotti, distribuiti e consumati i beni e i servizi destinati alla soddisfazione dei bisogni di una società. Una definizione di tal genere, suggerita dalla rivista, infatti, non può che interessare tutti. Naturalmente, si deve accettare il fatto che l’arricchimento culturale appartiene alla categoria dei bisogni. Per molti ciò è pacifico, per altri potrebbe non esserlo affatto. E qui sta il problema. Evitare steccati e chiusure Nel pensiero e nei comportamenti contemporanei ha ancora un grande peso una radicata identificazione fra arte e cultura, che è indubbiamente vera, ma che, al tempo stesso, appare assai limitativa del concetto di cultura, e genera quelle pastoie in cui ci dibattiamo a volte in modo inconcludente. Non di rado, anche la storia fatica a essere percepita come componente culturale fondamentale del nostro tempo, e cosí
l’antropologia. Per non parlare della pervicace esclusione delle scienze dalle discipline culturali (a volte agevolate dallo stesso atteggiamento di alcuni scienziati, quando portano acqua al mulino di chi considera tutto sommato inutile la cultura umanistica). Questa esclusione rinserra in recinti sempre piú piccoli una «cultura» – che volutamente scrivo tra virgolette –, che, a sua volta, sembra volersi altezzosamente distinguere da ciò che cultura non è. Ricordo un celebre volume di qualche decennio fa in cui la storia della cultura letteraria italiana dell’ultimo secolo passò tranquillamente sotto il titolo, che oggi definiremmo «integralista», di La cultura. Sull’altro versante va forse detto che, se è vero che la nozione di economia è neutra e che quindi l’economia può (non deve) essere l’alleata naturale della cultura, è anche vero che la «cattiva economia» non perde occasione per dare di sé un’immagine poco accattivante, quando con certa prosopopea crede di risolvere problemi estremamente complessi con ragionamenti contabili assai opinabili in campo culturale. E assume quell’atteggiamento praticone che i fisici teorici rimproverano qualche volta agli ingegneri, in un mondo che ha sempre e comunque bisogno degli uni e degli altri, spogliati della corazza delle proprie discipline. Quel che conta è avere la consapevolezza dell’unità degli obiettivi che i piú avvertiti tra economisti e storici dell’arte, manager e archeologi, ingegneri, architetti, giornalisti e politici dovrebbero provare il gusto di mettere a fuoco insieme. Ben venga dunque l’economia aziendale con le sue logiche e i suoi saperi, ben venga il marketing, che in sé non ha nulla a che vedere con la mercificazione del patrimonio e che, al contrario, potrebbe essere uno strumento potente della sua valorizzazione. (1 – continua)
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Antichi ieri e oggi
di Romolo A. Staccioli
Alle origini del Grand Tour Anche i Romani (benestanti) viaggiavano, e molto. Ma non per divagarsi in località esotiche, bensí per visitare i grandi monumenti che, già allora, erano considerati «antichi»... uelle cose per conoscer le quali amiamo intraprendere «Q viaggi e attraversare il mare, quando le abbiamo sotto gli occhi, le ignoriamo. Sia perché la nostra natura è tale che, privi di curiosità per quello che abbiamo vicino, siamo spinti verso quello che è lontano. Sia perché il desiderio per ogni cosa langue quando è facile l’occasione. Sia perché, potendo sempre visitarlo, siamo portati a differire ciò che possiamo
In alto: rilievo raffigurante un carro da viaggio romano, murato su una parete della cattedrale di Maria Saal, nel distretto di Klagenfurt-Land in Carinzia, Austria. A sinistra: statuetta in terracotta raffigurante una donna sul dorso di un cammello, da Alessandria d’Egitto. III-II sec. a.C. Collezione privata.
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vedere tutte le volte che lo vogliamo. Comunque sia, di molte cose nella nostra città e nei suoi dintorni che non conosciamo né per averle viste né per averne sentito parlare, se si trovassero in Grecia, in Asia Minore o in Egitto o in qualunque altro paese ricco di meraviglie e capace di far loro pubblicità, ne avremmo sentito parlare, ne avremmo letto a fondo e le avremmo visitate da tempo». La lettera che Plinio il Giovane scriveva all’amico Gallo (VIII, 20) suona soprattutto come rimprovero per coloro che, ignari delle bellezze del proprio Paese, s’affannano per andare a visitare quelle di terre
lontane. Ma, al tempo stesso, ci documenta dell’esistenza, presso gli antichi Romani, di una qualche forma di turismo. Un turismo, peraltro, da non intendere, come facciamo oggi, quale «complesso delle manifestazioni e delle organizzazioni relative a viaggi e soggiorni compiuti a scopo ricreativo o di istruzione», come dicono i vocabolari (Devoto-Oli). Solo considerando, per esempio, che
mancanza di navi passeggeri, occorreva trovarne una da carico, prossima a partire, che fosse disponibile a imbarcare «turisti» e fosse diretta, se non proprio alla meta desiderata, almeno verso una tappa intermedia, dove tentare, con un’altra imbarcazione, il proseguimento del viaggio (dormendo sopra coperta e provvedendo in proprio al mangiare). Ma per questo
nell’antichità non esistevano organismi specializzati, agenzie di viaggi, tour operator, viaggi in comitiva, villaggi vacanze e strutture ricettive a un livello minimo di... decenza. Però, un turismo «non mosso da motivi utilitari, bensí a scopi di svago o da interessi d’ordine culturale nei confronti dei luoghi visitati», quello esisteva.Anche se decisamente d’élite; riservato a pochi fortunati. Per viaggiare, nell’antichità, occorreva, infatti, disporre di tanto danaro e di molto tempo libero. Basti pensare a ciò che significava spostarsi, soprattutto per mare (essendo le vie d’acqua quelle piú frequentemente battute). In
occorrevano giorni e giorni d’attesa o settimane e perfino mesi. Lentezza, disagi e pericoli E poi, ci voleva la buona stagione (dalla metà di novembre alla metà di marzo la navigazione era sospesa), mare calmo e venti favorevoli. Salvo imprevisti e inconvenienti vari durante il viaggio, come improvvise burrasche, bonacce e... cattivi incontri. «Il 14 ottobre siamo arrivati ad Atene, dopo aver avuto venti contrari e una navigazione lenta e scomoda», scriveva Cicerone alla moglie. Solo per farsi un’idea della lentezza delle traversate, è
In basso: replica di un bassorilievo raffigurante una nave a vela, dal sepolcro di Naevoleia Tiche, a Pompei. I sec. Roma, Museo della Civiltà Romana.
sufficiente pensare che il servizio postale pubblico (che, ovviamente, era il piú rapido), in condizioni ottimali, impiegava da Ostia ad Alessandria 26/27 giorni. Quanto ai viaggi di terra, le
condizioni non erano piú favorevoli. Lentezza, disagi e pericoli erano forse maggiori. Occorreva fare tappe molto piú frequenti e non tutti potevano usufruire di strutture, come stazioni di cambio (mutationes) o di sosta, con ristoranti e stanze da letto (mansiones), che quasi sempre erano riservate al servizio postale (cursus publicum) dello Stato. Di solito si usava viaggiare su un carro a quattro ruote (carruca) e due cavalli, con copertura di tela o di pelle su armatura lignea o di metallo e varie aperture, capace di portare sei persone, compreso il guidatore. Per viaggi lunghi, la carruca poteva
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diventare dormitoria, con l’aggiunta di materassi che consentivano di dormire, in alternativa a tende e altri alloggi di fortuna. Facendo riferimento, anche in questo caso, al servizio pubblico, per il tragitto via terra da Roma ad Alessandria (comprese le inevitabili traversate del Canale d’Otranto e dello Stretto dei Dardanelli), s’impiegavano oltre 60 giorni. Turismo culturale e sanitario Nonostante tutte le difficoltà, c’era comunque chi viaggiava, per diletto, per curiosità, per desiderio di conoscenza, magari per dimenticare un amore infelice (oltre che per dovere d’ufficio, come nel caso di amministratori e funzionari governativi, ma con la possibilità di approfittarne per divagazioni private). E anche per studio, per fede religiosa e per motivi di salute, dando quindi vita a forme di turismo che oggi diremmo culturale, religioso e... sanitario (o salutare). Un soggiorno in Grecia o in un
In alto: disegno ricostruttivo dell’area sacra ad Asclepio a Epidauro, in Grecia. Il santuario, dedicato alla divinità salutare, era una tra le principali mete di pellegrinaggio per i fedeli in cerca di guarigione. In basso: disegno ricostruttivo del santuario di Apollo a Delfi, in Grecia.
altro Paese di lingua greca, era considerato importante per la formazione culturale, specialmente nel campo della filosofia e della retorica. Cicerone, per esempio, destinava tutti i proventi che gli derivavano dall’affitto di appartamenti e tabernae che possedeva nel quartiere dell’Argileto, presso il Foro Romano, per mantenere il figlio agli studi ad Atene. Un pellegrinaggio a un santuario famoso (oracolare, come a Delfi, o iniziatico, come a Eleusi) poteva soddisfare particolari esigenze religiose. La visita a un rinomato luogo di culto d’una divinità salutare (come a Epidauro), poteva infondere la speranza di una guarigione. Per non parlare di quello che oggi chiameremmo «turismo sessuale», visto che certi «pellegrinaggi» avevano come meta santuari, come quello di Afrodite, a Corinto, in cui si praticava la ierodulia, ossia la «schiavitú (o
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prostituzione) sacra».Antesignani dei turisti «pacifici» dell’età imperiale erano stati i «conquistatori».Tito Livio scrive in proposito (XLV, 27,5) che Lucio Emilio Paolo, il vincitore del re Perseo di Macedonia, a Pidna, nel 167 a.C., prima di rientrare a Roma dove l’aspettava il trionfo, «decise di fare un giro della Grecia per vedere tutto ciò che, reso celebre dalla fama, appare piú grande per quello che ne arriva alle orecchie, di quanto non si riveli agli occhi». Il viaggio durò sei mesi e le tappe principali, partendo dalla Tessaglia, furono: Delfi, «sede del famoso oracolo», Lebadia, dove Emilio Paolo si recò a vedere l’imboccatura della grotta «donde quelli che interrogano l’oracolo scendono a consultare gli dèi», Calcide, «per ammirare l’Euripo e l’isola di Eubea», Aulide, «porto famoso perché un tempo vi stettero alla fonda le mille navi della flotta di Agamennone», Oropo, in Attica, «dove un antico indovino è onorato come un dio», Atene, con «i monumenti di grandi generali e le statue di dèi e uomini notevoli per la varietà dei
materiali e delle tecniche artistiche», Corinto e l’istmo «che con la sua stretta lingua di terra separa due mari contigui da oriente e da occidente», Sicione e Argo, «città famose», Epidauro, «celebre per il famoso tempio di Asclepio... ricco dei doni che i malati consacrano al dio in ringraziamento dei rimedi salutari», Sparta, «nota non per la magnificenza dei suoi edifici, ma per la disciplina e le istituzioni», infine Megalopoli e Olimpia, dove «fissando la statua di Giove, come fosse vivo, rimase profondamente emozionato». La crociera sul Nilo Poco piú di un secolo piú tardi, Cesare, risolti i problemi e le beghe per la successione al trono dei Tolemei, complice Cleopatra, si sarebbe concessa una crociera sul Nilo – un classico del turismo di tutti i tempi – «su una nave fornita di stanze da letto», come scrive Svetonio (Ces. LII), «con la quale s’inoltrò... fin quasi all’Etiopia». Anche Nerone aveva messo in programma un viaggio in Egitto, al termine del suo lungo peregrinare
per la Grecia – piuttosto una tournée – tra il settembre del 66 e il dicembre del 67 a.C., ma dovette rinunciarvi per le inquietanti notizie che arrivavano da Roma. Poté farlo invece Adriano, nel novembre del 130 d.C., con la moglie Sabina, ma la crociera sul Nilo fu funestata dalla morte crudele e prematura nelle acque del fiume del suo giovane favorito, Antinoo. Il turismo degli antichi può ben dirsi «internazionale», ma nessuno andava «all’estero».Tutto si risolveva entro i confini dello Stato romano, cioè dell’impero, tanto vasto da estendersi su tre Continenti. Paesi piú lontani ed esotici erano per i mercanti. Del resto, le mete erano tutte comprese nelle province orientali.Ai turisti di allora non importava nulla del presente e quindi della vita, dei costumi, delle peculiarità dei popoli contemporanei. E nemmeno del paesaggio e delle bellezze della natura.Ai turisti interessava il grande passato, con le sue testimonianze di storia, di arte, di civiltà lasciate dalle generazioni precedenti in città cariche di memorie e di... uomini illustri, e
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itineraria picta
Il mondo in 7 metri Tra gli Itineraria picta, il piú importante e famoso è quello conosciuto come Tabula Peutingeriana (dal nome del piú antico suo possessore noto, nel secolo XVI): una copia medievale (XII-XIII secolo) derivata probabilmente da un originale del III secolo (con correzioni e aggiunte del IV-V) di una mappa di tutto l’impero – con l’Oriente in alto, come era in uso presso gli antichi – dipinta a piú colori su un rotolo di pergamena lungo quasi 7 m (ora nella Biblioteca Nazionale di Vienna; vedi foto qui accanto). Caratteristici e di grande interesse sono i «segni particolari», costituiti da «vignette» che, in numero di 555, corredano la carta. Sono di tre tipi (con molte varianti) e di gran lunga piú numerose (429) si presentano quelle con una «doppia torre» (o due torri gemelle), indicanti la presenza di una villa o, in ogni caso, di una stuttura di campagna, buona per una eventuale sosta. Ci sono poi le vignette con una sorta di «tempio» o, piuttosto, di una «casetta» (44), indicanti le mansiones o comunque un luogo attrezzato per accogliere i viaggiatori; e quelle con un «edificio composito» attorno a un cortile interno (52), di solito accanto a nomi di località che cominciano col termine «aquae», che indicano un posto di tappa importante, particolarmente attrezzato e dotato di terme. Un’altra trentina di vignette non rientrano nelle categorie precedenti e tra di esse alcune sono connotate con una cerchia di mura urbane o con un faro (come a Ostia e ad Alessandria) o un bacino portuale e tre con personificazioni di città: Roma, Costantinopoli e Antiochia.
celebrate dalla letteratura; con i monumenti, le case, le tombe, vere o millantate, di eroi ed eroine, i luoghi «dello spirito», della tradizione e del mito. In Occidente non c’era nulla di tutto ciò. E dunque s’andava in Oriente, in Grecia, in Asia Minore, in Egitto, come dice Plinio. In Grecia, ad Atene per ammirare il Partenone e la vacca di bronzo di Mirone sull’Acropoli, a Olimpia la statua fidiaca di Zeus e a Cnido quella
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dell’Afrodite di Prassitele, a Rodi per il Colosso, lasciato a terra, cosí com’era crollato nel terremoto del 223 a.C. Ma anche per vedere la Valle di Tempe, la piana di Maratona o le Termopili, la casa di Pindaro a Tebe. In Asia Minore, c’erano l’Artemision di Efeso, annoverato tra le Sette Meraviglie del mondo, il tempio di Apollo Filesio a Didima, presso Mileto e laValle del Meandro. E poi c’era Troia, che per un Romano significava il luogo «sacro» delle radici, della stirpe, donde era fuggito Enea destinato a dare origine a una nuova Troia, piú fortunata, sulle rive del Tevere. Non a caso vi si recò, tra gli altri, dopo la vittoria riportata su Pompeo a Farsalo, nel 48 a.C., anche Cesare, la cui gens rivendicava la sua discendenza dal figlio di Enea, Ascanio, chiamato Iulus. Il «Paese dei sogni» La maggiore popolarità la godeva, tuttavia, l’Egitto, il «paese dei sogni», dove tutto era diverso e al quale una tradizione millenaria conferiva un fascino speciale.Alessandria era ancora d’impronta fortemente greca, ma c’era il Faro da ammirare, la Biblioteca celeberrima nell’ambito del Mouseion, i Basileia, le regge dei Tolemei che avevano
ispirato gli architetti della Domus Aurea di Nerone, e c’era da venerare la tomba di Alessandro Magno. Poi, veniva l’Egitto «vero» e sempre piú affascinante, via via che si risaliva laValle del Nilo. Menfi era la base per compiere il giro delle Piramidi («vana e stolta ostentazione di ricchezza», come le definisce Plinio ilVecchio, N.H. XXXVI,75); poi c’erano laValle dei Re, con le tombe dei faraoni, e le rovine di Tebe, che, da sola, poteva valere il viaggio, con la gigantesca statua di Memnone che (dopo un terremoto che nel 27 a.C. aveva aperto nel colosso una lunga fenditura) all’alba, quando la pietra cominciava ad asciugarsi della umidità della notte, emetteva un suono simile alla vibrazione di una corda di cetra troppo tesa. Qui l’intensità della frequentazione, durante tutta l’età imperiale romana, è denunciata dalla quantità di graffiti lasciati dai visitatori: un’abitudine tanto deplorevole – e tanto in voga ancora oggi – quanto preziosa per le nostre informazioni e per le ricostruzioni storiche. La scritta piú antica è databile all’anno 120, mentre al viaggio di Adriano risalgono quattro epigrammi della poetessa di corte di quell’imperatore, Giulia Balbilla,
incisi tra le gambe della statua. Oltre che dedicarsi diligentemente alle visite di prammatica, in Egitto, piú che altrove, i turisti si lasciavano facilmente catturare dalle manifestazioni di abilità (come quella dei ragazzi che, per pochi spiccioli, s’arrampicavano sulle Piramidi) e dall’esibizione di piante, animali e cose rare. Particolarmente ammirati erano i coccodrilli, specie quelli addestrati a farsi porgere il cibo o a rimanere immobili mentre qualcuno, aperta loro la bocca, ne puliva tranquillamente i denti. E quanti racconti agli amici increduli, al ritorno. Seppure ce ne fosse bisogno, lo scrive a chiare lettere Plutarco (Mor. 976b): «Recentemente il nostro Filino è tornato da un viaggio in Egitto e ci ha raccontato d’aver visto, ad Antipoli, una vecchia che dormiva su un letto basso accanto a un coccodrillo che se ne stava presso di lei come fosse un elemento decorativo». Guide stradali... Viaggiatori e turisti avevano a disposizione apposite «guide» o, piuttosto, «itinerari», che elencavano in successione le varie tappe e le distanze tra di esse, e potevano essere, come scrive Vegezio, nel IV secolo (III,6), non tantum adnotata sed etiam picta, cioè «non solo scritte» (itineraria adnotata), «ma anche in forma di mappe o carte geografiche» (itineraria picta). Purtroppo, di guide vere e proprie è arrivata fino a noi solo quella, celeberrima, di Pausania (della seconda metà del II secolo d.C.) intitolata Periegesi della Grecia, in dieci libri, con la descrizione dettagliata e minuziosa, regione per regione, di tutti i luoghi, e dei monumenti meritevoli d’attenzione, intercalata da parti narrative e digressioni storiche e mitologiche. Meglio documentate sono, invece, le «guide stradali».Tra di esse, c’è, infatti, il cosiddetto Itinerarium Antonini, del tempo di Caracalla (ma in uso fino a Costantino), che
annota, con le relative stationes e le distanze intermedie, tutte le principali vie dell’impero. Poi c’è l’Itinerarium a Gades Romam, con le città e le distanze lungo il percorso da Cadice, in Spagna, a Roma, inciso su quattro bicchieri d’argento, in forma di miliario, ritrovati aVicarello (le antiche Aquae Apollinares), sul lago di Bracciano (ora a Roma, nel Museo Nazionale Romano). Infine, c’è l’Itinerarium Burdigalense (o Hierosolymitanum), del IV secolo d.C., a uso dei pellegrini, ormai
Uno dei quattro biccheri cilindrici in argento, detti «di Vicarello», dal luogo di rinvenimento, nel 1852, presso la fonte delle Aquae Apollinares, a Bracciano, nel Lazio. I sec. d.C. Roma, Museo nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme. Sulla superficie esterna degli oggetti è inciso l’itinerario da Cadice, in Spagna, a Roma, con le relative distanze, in miglia, tra le stazioni intermedie.
cristiani, che si recavano da Bordeaux, in Francia (l’antica Burdigala), in Terra Santa (ma potrebbe anche trattarsi della descrizione di un viaggio realmente compiuto, nell’anno 333 della nostra era). ...e «ciceroni» improvvisati Sempre a proposito di «sussidi» per i viaggiatori, è appena il caso di aggiungere che i turisti trovavano ovunque, in loco, guide e «ciceroni» che offrivano a pagamento i loro servizi.Talvolta esperti, come i sacerdoti nei templi, quasi sempre piú o meno improvvisati e approssimativi, petulanti, prolissi e amanti delle divagazioni. Come quello di cui si lamenta, ancora, Plutarco (Mor. 395a): «La guida dava fondo al suo solito programma senza badare alle nostre richieste di accorciare le spiegazioni e di risparmiarci la lettura di ogni iscrizione». Di rincalzo, già Varrone (Men. 34) aveva fatto esclamare a un turista esasperato: «Oh, se Zeus m’avesse protetto dalle sue guide, a Olimpia, e Atena ad Atene!». O quelli che a Troia mostravano, con gran disinvoltura, i luoghi dei principali episodi del celebre assedio e, con una buona dose di sfacciataggine, perfino le tombe dei vari eroi cantati da Omero (come testimonia Lucano, Phars. IX, 96 e segg.). Mentre a Sparta, c’era chi conduceva a vedere, conservato in un tempio, l’uovo (verosimilmente di struzzo) dal quale era nata Elena. D’altra parte è pure vero che i turisti – allora come oggi – provavano una sorta di masochistico piacere a essere turlupinati: «Gli stranieri (osserva Luciano) non amavano udire la pura verità, nemmeno gratis!». Quanto ai souvenir, nulla di diverso da quelli dei nostri giorni: piccole riproduzioni di edifici e opere d’arte, bottigliette con acqua miracolosa, indumenti particolari e prodotti tipici, come il miele di Atene, i vetri siriani, il papiro dell’Egitto.
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L’età dei metalli
di Claudio Giardino
Il ferro che scende dal cielo Scie di luce infuocata, esplosioni...: cosí s’annunciava la caduta di pietre davvero speciali, che, fin dalla preistoria, furono sfruttate come materia prima i nostri giorni il ferro è probabilmente il metallo di A uso piú comune e scandisce i
ritmi delle nostre giornate: dal momento in cui, al mattino, apriamo i rubinetti dell’acqua per lavarci a quando, la sera, ci corichiamo su letti la cui rete è generalmente fatta della stessa versatile materia prima. In realtà, il materiale che chiamiamo «ferro» è una lega, cioè una combinazione di piú elementi; tuttavia, mentre le leghe sono generalmente costituite da metalli (nel caso del bronzo o dell’ottone, da rame unito, rispettivamente, a stagno e zinco), questa è composta da un elemento metallico, il ferro, e da uno non metallico, il carbonio. A seconda della quantità di quest’ultimo, possiamo avere leghe con proprietà del tutto differenti. La differenza fra il resistente acciaio dei coltelli e la fragile ghisa delle vecchie stufe risiede, infatti, soltanto nella percentuale di carbonio alligato al ferro, assai bassa nel primo caso (inferiore all’1,78%), molto alta nel secondo (sino al 5%). Il ferro è il metallo piú abbondante all’interno della Terra, di cui costituisce oltre il 34% della massa. Ma la sua concentrazione nei diversi strati del pianeta varia con la profondità: il nucleo è essenzialmente costituito da una lega di ferro e nichel; mentre nella crosta terrestre il ferro raggiunge
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poco meno del 5% (una quantità comunque considerevole, se pensiamo che altri metalli, quali rame, piombo, zinco, stagno e argento, vi sono invece presenti in misura inferiore allo 0,02%). Quasi mai nativo A differenza di altri metalli, come il rame e l’oro, che sono reperibili in natura già allo stato detto «nativo» – cioè in forma metallica –, il ferro si rinviene quasi unicamente sotto forma di minerali, all’interno dei quali si trova nello stato ossidato: per ottenerlo, quindi, è necessario estrarlo con complesse operazioni metallurgiche. Il ferro nativo è sostanzialmente una curiosità mineralogica: è stato scoperto a Disko (o Qeqertarsuatsiaq), una grande isola della Groenlandia occidentale, ed è segnalato anche a Bühl, presso Kassel in Germania e a Chotzen, in
Boemia. Concretamente il poco, raro ferro metallico che si trova in natura deriva dalle meteoriti che, di quando in quando, raggiungono la superficie del nostro pianeta (vedi i box alle pp. 104 e 105). Questo suo carattere «celeste» spiega perché, sin dall’antichità, esso fosse circondato da un’aura magica e superstiziosa, di cui resta qualche flebile traccia anche presso di noi. Tuttora noi Italiani «tocchiamo ferro» per allontanare la malasorte o Ricostruzione virtuale di una meteorite in caduta sulla Terra. Dalle meteoriti, in antico considerate magiche perché di provenienza «celeste», si estraeva il ferro sin dall’epoca preistorica. Nella pagina accanto: moneta bronzea dell’usurpatore Lucio Giulio Aurelio Sulpicio Severo Uranio Antonino, raffigurante al rovescio il tempio di Elagabalo a Emesa con la sacra meteorite. Metà del III sec. d.C.
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classificazione
Si fa presto a dire meteorite Le meteoriti ferrose, essendo costituite da una lega di ferro e nichel, sono assai resistenti alla corrosione; possono quindi essere rinvenute pressoché inalterate anche molto tempo dopo la loro caduta. Hanno un’elevata densità e sono ricoperte da una crosta di fusione nera con riflessi azzurrastri. Nell’esaminare l’uso del ferro meteoritico nell’antichità, si deve tenere conto del fatto che le meteoriti sono assai rare: è stato stimato attorno alle 500 il numero di quelle che ogni anno raggiungono la Terra e sono di dimensioni apprezzabili, cioè superiori alle dimensioni di una palla da tennis; di queste, inoltre, ne vengono mediamente recuperate solo 5 o 6. Si deve inoltre considerare che le meteoriti possono essere non solo ferrose (le cosiddette sideriti, composte perlopiú da una lega di ferro e nichel) o ferro-rocciose (le sideroliti, contenenti sia metallo che roccia in proporzioni paragonabili), ma anche, e soprattutto, rocciose (le condriti, formate principalmente da rocce silicatiche): queste ultime, da sole, costituiscono l’86% delle meteoriti. La maggior parte delle meteoriti vengono trovate sulla base dell’osservazione diretta al momento della loro caduta sulla Terra. Non a caso, infatti, ancora oggi i rinvenimenti tendono a essere concentrati nelle aree con maggiore densità di popolazione; ciò doveva avvenire anche in antico.
Frammento di meteorite ferrosa, da Canyon Diablo, Arizona. Le meteoriti rinvenute attorno al cratere di Canyon Diablo erano ben note e utilizzate dalle tribú locali indiane sin dalla preistoria.
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appendiamo alle pareti di casa un ferro di cavallo per propiziarci la fortuna (usanza, quest’ultima, che condividiamo con gran parte dei Paesi occidentali). Il termine sumerico AN-BAR, il piú antico vocabolo scritto a noi noto usato per designare il ferro, derivava dai pittogrammi congiunti del «cielo» e del «fuoco». E anche biz-n.pt, la parola usata nell’antico Egitto, rimandava verosimilmente a un’origine meteoritica, giacché il suo significato letterale era «metallo del cielo». Armi da caccia e utensili L’impiego di ferro meteoritico nella fabbricazione di manufatti è stato spesso osservato nelle culture etnografiche. Per secoli le popolazioni esquimesi utilizzarono il metallo della gigantesca meteorite rinvenuta presso Savissivik, a Capo York, nel nord-ovest della Groenlandia, per
produrre strumenti di caccia, adoperando una tecnologia sostanzialmente mutuata dalla lavorazione della pietra. Questa meteorite ferrosa, una delle piú grandi conosciute, cadde sulla Terra 10 000 anni fa circa, suddividendosi in grossi frammenti. Gli Inuit che vivevano nella regione chiamarono i blocchi Ahnighito (la Tenda; del peso di 31 t), la Donna (3 t), il Cane (400 kg) e Agpalilik (l’Uomo; 20 t). I nativi americani Hopewell della Valle dell’Ohio utilizzarono anch’essi il «metallo del cielo» per fabbricare coltelli, scalpelli e ornamenti mediante martellatura a freddo. L’uso di meteoriti nella fabbricazione di oggetti di grande prestigio è attestato anche in periodi a noi vicini: nel 1814, allo zar Alessandro I di Russia, fu donata una spada forgiata con il metallo di una meteorite trovata in Sudafrica al Capo di Buona Speranza. I sultani di Surakarta, nell’isola di Giava, fecero trasportare nel giardino del loro palazzo una meteorite caduta ad alcune decine di chilometri, a Prambanan, per ricavare da essa pregiati kriss, i tipici pugnali con lama serpeggiante diffusi in tutto l’arcipelago indonesiano (e resi per noi immortali dai romanzi di Emilio Salgari); cinque di essi vennero offerti nel 1907 in dono all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Dal tesoro di Priamo... John G. Burke (1917-1989), uno dei pochi studiosi interessatosi delle meteoriti dal punto di vista storico, ricorda come pezzi di ferro meteoritico siano stati rinvenuti in numerosi contesti antichi, per
Pugnale (e fodero) con lama in ferro e manico in oro, pietre semipreziose e paste vitree, dal Tesoro di Tutankhamon. XVIII dinastia. Il Cairo, Museo Egizio. Analisi sul metallo della lama hanno rivelato la copiosa presenza di nichel, che potrebbe quindi indicarne l’origine meteoritica.
testimoni illustri
Quella mattina d’agosto... La caduta di una meteorite è un evento altamente spettacolare: accompagnata da fragorosi rumori di tuono, la meteorite illumina di forti bagliori il cielo. Per avere un’idea dell’impressione suscitata sull’uomo dal fenomeno, possiamo rifarci alla descrizione riportata nel settembre del 1872 dall’Osservatore Romano sulla caduta di una meteorite avvenuta la mattina del 31 agosto di quell’anno, verso le ore cinque e un quarto del mattino, a Orvinio, un Comune della provincia di Rieti, allora parte dello Stato Pontificio. L’articolo era firmato dall’astronomo padre Angelo Secchi (1818-1878), che riportava anche una lettera del geologo Michele Stefano De Rossi (1834-1898), fratello di Giovanni Battista, celebre archeologo paleocristiano. Secondo questa testimonianza, la meteora era stata vista muoversi nel cielo, aumentando progressivamente in volume e luminosità e lasciando dietro di sé una scia fumosa di colore scuro. A un certo punto era divenuta brillante e grande quasi come la luna piena, per poi scomparire lasciando una nube allungata simile a un enorme serpente. Pochi minuti dopo si era udita una deto-
esempio a Creta, negli scavi del palazzo minoico di Hagia Triada (1600-1400 a.C.); altri frammenti, alcuni dei quali di forma discoidale, sono stati scoperti nelle tombe del cimitero reale di Ur (2500 a.C.), mentre una testa di mazza del tesoro di Troia (2400-2200 a.C.) pare sia anch’essa verosimilmente di ferro meteoritico, essendo stata realizzata in lega di ferro-nichel, caratteristica del metallo di origine siderale.Anche quando si incominciarono a conoscere e applicare le tecniche per estrarlo dai suoi minerali, il ferro
nazione violenta, sorda, paragonabile all’esplosione di una mina, seguita da altre due piú vicine e minori, simili a scoppi di fucili, tanto che la gente pensò allo scoppio di una polveriera. Sui Colli Albani, a Velletri, Albano, Grottaferrata e Frascati i vetri delle finestre e le porte delle camere furono scosse dalle detonazioni. A Zagarolo fu visto in cielo un grosso globo di fuoco arrivare molto rapidamente dalla parte meridionale della città; un testimone asserí che lo scoppio, simile a una grossa cannonata a poca distanza, fece tremare tutta la sua casa, movendo il letto con effetto sussultorio. La meteorite di Orvinio non era neppure particolarmente grande, poiché i sei frammenti maggiori della condrite, rinvenuti nel 1872-73, assommano a 3397 gr. Non stupisce quindi che le meteoriti siano state spesso relegate nel mondo del sacro, come quella trasportata a Roma in un tempio appositamente eretto sul Palatino dall’imperatore Marco Aurelio Antonino (detto Elagabalo) agli inizi del III secolo d.C., quale statua di culto del dio solare siriano El Gabal (Ilah hag-Gabal).
mantenne a lungo il carattere di metallo prezioso e, per molti versi, legato al sacro. ...a quello di Tutankhamon Nella tomba di Tutankhamon (1341-1323 a.C.), Howard Carter trovò, sulla mummia del sovrano, due preziosi pugnali. Entrambi avevano uno splendido manico in oro, arricchito da una raffinata decorazione a smalti alternati da granulazione; tuttavia, mentre uno aveva anche la lama d’oro, l’altro l’aveva di ferro. Le analisi condotte sulla seconda hanno
rivelato che essa non conteneva nichel, elemento normalmente presente nelle meteoriti. Il ferro del pugnale di Tutankhamon era quindi stato ottenuto, con ogni probabilità, per riduzione dal minerale e, in tal caso, si tratterebbe di uno dei primi oggetti prodotti grazie a questa tecnologia. Pochi secoli dopo, lo sviluppo e la diffusione della siderurgia avrebbero aperto la strada all’avvento di un periodo storico del tutto nuovo e per molti aspetti rivoluzionario: l’età del Ferro.
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Medea e le altre
di Francesca Cenerini
Un uomo mancato? Se dovessimo considerare veritiere le testimonianze di storici e scrittori, per Fulvia, consorte di Marco Antonio, il giudizio sarebbe senza appello. Ma, a ben vedere, quegli impietosi ritratti non risentono forse della lotta senza quartiere ingaggiata dai protagonisti maschili del suo tempo?
li avvenimenti politici che fanno da sfondo alla vicenda G personale di Fulvia sono per noi, oggi, estremamente complessi e non sempre facili da delineare e comprendere in profondità. Siamo al tramonto della repubblica romana, lo scenario politico è dominato da figure di spicco, che portano avanti istanze politiche e sociali divergenti, in piú di un caso soccombendo, a causa di atti di violenza che si consumano anche all’interno della stessa Roma: Clodio viene ucciso dai sicari di Milone; Cesare è assassinato da Bruto e Cassio; Cicerone viene fatto
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uccidere da Antonio; e molti altri ancora, fino ad arrivare allo scontro finale tra Antonio e Ottaviano, il cui esito segna la fine del governo repubblicano e l’inizio di un nuovo regime, vale a dire il principato augusteo. La moglie del triumviro Ma, per cercare di comprendere una personalità complessa come quella di Fulvia, è necessario, innanzitutto, fare una riflessione che ci aiuti a collocare la sua vita e la sua attività nella giusta prospettiva. Il giudizio negativo che le fonti ci hanno dato di lei non può non riflettere la
In alto: Fulvia guarda la testa di Cicerone (con la lingua trafitta dalle forcine), decapitato su ordine del marito di lei, Marco Antonio. Olio su tela di Pavel Alexandrovich Svedomsky (1849-1904). 1880 circa. Kizhi (Carelia), State Open air Museum of History and Architecture and Ethnography.
tradizione ostile ai suoi mariti, principalmente Clodio e Antonio. Se anche Fulvia è il bersaglio delle accuse di Cicerone, è comunque la politica di orientamento popularis dei suoi mariti il vero obiettivo della critica delle fonti. In buona sostanza, senza Clodio e Antonio
Fulvia non sarebbe stata ricordata, ma non, ovviamente, il contrario. La famiglia di Fulvia, la gens Fulvia appunto, apparteneva alla nobiltà plebea. Suo padre era Marco Fulvio Bambalione e sua madre Sempronia. La recente indagine prosopografica avrebbe identificato questa Sempronia con la sorella della Sempronia implicata nella congiura di Catilina, secondo quanto asserito da Sallustio ne La congiura di Catilina. Fulvia, secondo la prassi del tempo, si sposa tre volte,
nel suo caso perché rimane presto vedova. Il primo marito è il già ricordato Publio Clodio, ucciso nel 52 a.C.; il secondo è Caio Scribonio Curione, partigiano cesariano, morto in Africa nel 49 a.C., dove era andato a combattere Giuba I di Numidia, sostenitore di Pompeo. Il terzo, il piú noto, è Marco Antonio, che sposa tra il 47 e il 46 a.C. Come sempre, la tradizione relativa alle donne nell’antichità risente delle deformazioni dovute al loro
Ritratto in marmo di Marco Antonio, dal Foro Romano. 80-70 a.C. Roma, Centrale Montemartini.
adeguamento, o meno, al modello femminile idealizzato della matrona, dedita alla casa e ai figli. E Fulvia non sfugge a questa regola. Ci viene descritta come vedova in gramaglie in occasione della sua testimonianza al processo contro Milone, accusato dell’omicidio di Clodio. Lacrime e suppliche È accompagnata dalla madre, in ossequio al tradizionale mos maiorum, e le sue lacrime suscitano la commozione di tutti i presenti, come non manca di sottolineare Asconio, un commentatore dell’orazione di Cicerone in difesa di Milone (Pro Milone, 40: et fletu suo magnopere eos qui assistebant commoverunt, «con il suo pianto suscitò grande commozione tra gli astanti»). Si comporta nello stesso modo, all’inizio di gennaio del 43 a.C., quando Antonio vuole contendere la provincia della Gallia Cisalpina al legittimo assegnatario, Decimo Bruto, assediandolo a Modena. Cicerone passa al contrattacco e pronuncia contro Antonio le famose Filippiche che, di lí a poco, gli costeranno la vita, e ottiene che il senato dichiari Antonio hostis (nemico), e che venga a sua volta assediato dai due consoli Aulo Irzio e CaioVibio Pansa. In questo contesto agisce Fulvia, quando, secondo un modello rappresentativo ancora aderente ai canoni idealizzati, assieme alla suocera Giulia, la madre di Antonio, e al piccolo Antillo, il figlio che aveva avuto da Antonio, si reca presso le case dei senatori piú influenti a supplicare, gettandosi ai loro piedi, che Antonio non fosse dichiarato nemico pubblico, con tutte le conseguenze del caso. Ce lo racconta Appiano, storico greco del II secolo d.C., il quale nel resoconto di tali vicende (Guerre civili) parteggia per Antonio, facendo filtrare per noi preziose informazioni, censurate dalla propaganda del vincitore, Ottaviano Augusto (per questo episodio, Guerre civili, 3, 51, 211 e
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Statua in marmo di Marco Tullio Cicerone. I sec. a.C. Oxford, Ashmolean Museum. Nella pagina accanto: moneta romana in bronzo battuta a Eumeneia, in Frigia, raffigurante al dritto Fulvia, e, al rovescio, la dea Atena con lancia e scudo. 41-40 a.C. circa.
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58, 242). Quanto a propaganda, comunque, anche Antonio non è da meno. Lo stesso nome dato al bambino,Antillo, rispecchia un significato ben preciso.Antillo, infatti, significa «piccolo Antone», e si riteneva che Antone fosse un mitico figlio di Ercole, che una mirata ricerca antiquaria, molto in voga a quel tempo, identificava come il capostipite della famiglia degli Antonii, come ha giustamente messo in luce lo storico Giusto Traina (Marco Antonio, Roma-Bari 2003, p. 36).Anche Ottaviano non si astiene dalla ricerca delle origini divine della sua gens, la Iulia, in questo caso adottiva: Enea, per il tramite del figlio Ascanio-Iulio, diventa il suo progenitore. La battaglia ideologica, senza esclusione di colpi, tra i due contendenti,Antonio e Ottaviano, è già cominciata. La lingua dell’oratore Da ora in poi, il racconto delle fonti dipinge Fulvia soltanto con accenti fortemente negativi: utilizzo disivolto delle sue frequentazioni e conoscenze politiche per fare affari illeciti e intascare offerte in denaro (pratica evidentemente inveterata); suo ruolo attivo nelle proscrizioni, allo scopo di arricchirsi smodatamente. La sua crudeltà trova in Cassio Dione il vertice rappresentativo (47, 8, 4). Lo storico, che scrive agli inizi del III secolo d.C., si dilunga diffusamente, contrariamente alle altre fonti, sul trattamento riservato da Fulvia alla testa mozzata di Cicerone, fatto uccidere su incarico di Antonio il 7 dicembre del 43 a.C. nella sua villa di Formia. La retorica sul sadismo di Fulvia raggiunge il suo culmine nella descrizione delle forcine da capelli utilizzate per trafiggere la lingua dell’oratore. Tuttavia, l’episodio piú significativo legato alla vita di Fulvia è la cosiddetta «guerra di Perugia», del 41 a.C.
Occorre sottolineare, però, che le nostre fonti sono contraddittorie e non è facile ricostruirne il reale retroscena politico. Ottaviano deve assegnare le terre ai veterani delle campagne contro i Cesaricidi, confiscandole agli oppositori, ma non solo. Contro questa politica si mobilitano i proprietari terrieri danneggiati, dando il pretesto a Fulvia e al fratello di Antonio, Lucio, di
mobilitarsi contro Ottaviano. Si arriva a un vero e proprio intervento militare di Ottaviano, che assedia i ribelli a Perugia, fino alla resa della città nel 40 a.C. La propaganda ostile a Fulvia raggiunge in questa occasione il suo vertice: Orosio, molti secoli dopo, dirà che la donna esercitava
un potere assoluto (6, 18, 17: dominatum); Marziale (11, 20) ci dice che Fulvia era mossa dal desiderio di vendicarsi per il fatto che Ottaviano non aveva voluto giacere con lei (le ghiande missili, vale a dire i proiettili di piombo lanciati con la fionda contro gli assediati di Perugia, ritrovati nel campo di battaglia, recano, tra le altre, l’iscrizione di volere colpire le parti intime di Fulvia); Appiano (5, 19) ci dice che Fulvia è mossa dalla gelosia per Cleopatra, la regina d’Egitto, convinta che, se fosse riuscita a vincere a Perugia, Antonio sarebbe rientrato dall’Oriente. Nulla di femminile Si arriva al giudizio finale, impietoso, diVelleio Patercolo (2, 74, 2), per il quale «Fulvia non aveva nulla di femminile, se non l’aspetto fisico» oppure di Plutarco (Vita di Antonio, 10): «Non era donna che pensasse a filare la lana o a badare la casa, né si accontentava di dominare un uomo qualunque, ma voleva governare un governante e comandare un comandante». Insomma, che cosa sappiamo noi, oggi, della vera Fulvia? Ben poco, in quanto è prigioniera di luoghi comuni rappresentativi, primo tra tutti quello che condannava ogni intromissione femminile nel campo, esclusivamente maschile, dell’imperium. Di sicuro ha saputo approfittare delle opportunità che la politica del tempo le offriva, con l’apertura di nuovi spazi per l’intraprendenza femminile, anche in attività pubbliche che la morale tradizionale aveva da sempre precluso alle donne. Ma il ruolo «forte» e trasgressivo che le è stato attribuito da certa storiografia contemporanea va indubbiamente ridimensionato, alla luce del fatto che si tratta pur sempre di un ritratto, o di una molteplicità di ritratti, che vanno comunque letti in funzione delle figure maschili di riferimento.
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L’altra faccia della medaglia
di Francesca Ceci
Nelle spire del mito/3
La chioma che uccide Un groviglio di serpi in testa è la caratteristica principale di Medusa, la piú famosa (e sfortunata) tra le Gorgoni a valenza complessivamente positiva attribuita ai serpenti L nell’antichità, quali simbolo
salutifero, di rinascita e di divini rituali misterici, ha un contraltare efficace nella stravolgente e orrorifica testa di Medusa. Già fanciulla bellissima, l’unica Gorgone mortale fu violata da Poseidone in un tempio consacrato ad Atena e la dea decise, probabilmente senza tenere conto del fatto che si trattava di una violenza, di punire terribilmente l’incolpevole ragazza, tramutandola in un tremendo mostro alato, capace di pietrificare chi la guardava e contraddistinto dalla chioma formata da un informe groviglio serpentino. Come narra Ovidio (Metamorfosi IV, 799-801), Atena dopo avere assistito all’abuso, «si voltò e si coprí con l’egida il casto
In alto: testa di Medusa, particolare di un mosaico pavimentale da Italica, città romana fondata nel 206 a.C. nei pressi dell’attuale Siviglia, in Spagna.
volto, ma, perché quell’oltraggio non restasse impunito, mutò in luride serpi i capelli della Gorgone».
Frazione di statere in elettro da Lesbo, Mytilene, con testa di Medusa (a sinistra) e testa di Eracle (in alto) in incuso (in negativo). 521-478 a.C. circa.
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Portatrice di vittoria In seguito l’eroe Perseo uccise Medusa con l’aiuto di uno scudo-specchio fornitogli da Atena stessa per affrontare la creatura solo di riflesso, donandone poi la testa alla dea vergine, che la appose al centro dell’egida, la corta corazza che le ricopre il petto. Infatti la testa, seppure mozzata, continuava a trasformare in pietra chiunque la guardasse. La funzione terrorizzante e il potere già posseduto dalla testa di Medusa con il suo sguardo che uccide ne hanno fatto un tema
A destra: moneta in bronzo di Massimino I. Al dritto (qui accanto), il busto dell’imperatore; al rovescio, Perseo con in una mano la testa di Medusa e nell’altra il falcetto. 325-326 d.C. In basso: dritto di un denario di Lucio Cornelio Lentulo e Caio Claudio Marcello, su cui compare la triscele, con al centro la testa di Medusa. 49 a.C.
iconografico assai diffuso, usato spessissimo sulle corazze militari come immagine apotropaica apportatrice di vittoria. Per lo stesso motivo compare con frequenza, e nelle redazioni piú complesse, su templi, edifici pubblici, mosaici, gioielli e naturalmente monete. Il macabro trofeo Nel tempo la tipologia fu ingentilita nei tratti, conoscendo in tal forma grande fortuna, poiché incentrata sull’effetto decorativo rappresentato soprattutto dalla massa dei capelli serpiformi e dal volto bello e dolente con cui veniva raffigurata la sfortunata Gorgone. Presente dapprima su monete greche, etrusche e romane perlopiú con il grande volto stravolto di Medusa con le fauci aperte, in età imperiale tale tipo divenne secondario, in quanto si preferí rappresentare il momento in cui Perseo, tagliata la testa al mostro, la solleva quale macabro trofeo. Questo tema, già apposto in primis su uno statere di elettro da Cizico in Mysia (Asia Minore), battuto nel 500-450 a.C., compare di frequente sulla monetazione provinciale. Su un bronzo di Massimino I coniato ad Anemurium, in Cilicia, nel 235/236 d.C., è infatti effigiato Perseo mentre innalza la testa di Medusa, contraddistinta dalle serpi che le
scendono lateralmente, come boccoli molli, mentre nell’altra mano tiene l’harpa, il falcetto affilatissimo donatogli da Hermes usato per reciderla. La triscele e la Medusa In tutt’altro contesto, un’altra iconografia interessante, che ha come protagonista la testa di Medusa con le sue serpi, è quella della Trinacria, nome di origine greca – da treis (tre) e àkra (promontori) –, che è ancora oggi simbolo della Sicilia. La contorta immagine a tre gambe piegate ad angolo retto, denominata anche «triscele», si rifà alla forma geometrica dell’isola, contraddistinta al centro da un viso che, in alcuni casi, riporta alcuni
serpentelli e in altri le spighe, simbolo della feracità dell’isola. In origine la testa era chiaramente quella di Medusa, in seguito divenne semplicemente un bel volto femmineo. Interessante è un denario battuto a nome di Lucio Cornelio Lentulo Crure e Caio Claudio Marcello, consoli nel 49 a.C., oppositori di Cesare e partigiani di Pompeo. Si tratta di un’emissione militare irregolare, coniata in una zecca mobile al seguito dell’esercito pompeiano, in Sicilia o piú probabilmente nella città di Apollonia. La Trinacria era un simbolo della famiglia dei Marcelli, in quanto il console M. Claudio Marcello nel 208 a.C. conquistò Siracusa, nell’ambito della seconda guerra punica. Giove, invece, stava a simboleggiare il favore accordato ai Pompeiani dalla massima divinità del pantheon, con l’auspicio, rivelatosi fallace, di assicurare la vittoria a Gneo Pompeo Magno, sconfitto invece a Farsalo nel 48 a.C. e di lí a poco ucciso a tradimento in Egitto. La triscele con testa di Medusa fu poi battuta in Sicilia nella zecca di Palermo e in quella di Iaitia in età augustea, accompagnata sul dritto, di volta in volta, dalla testa di Atena, di Ercole e poi dal nobile profilo di Augusto stesso. (3 – fine)
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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Livio Zerbini, Radu Ardevan
storia romana Dal 753 a.C. al 565 d.C. Bruno Mondadori, Milano, 340 pp. 25,00 euro ISBN 978-88-6159-517-0
La storia plurisecolare di Roma continua a essere uno dei campi di ricerca piú battuti dagli studiosi e il conseguente arricchimento delle conoscenze è stato il presupposto alla realizzazione di questo manuale. Come si legge infatti nell’introduzione,
Livio Zerbini e Radu Ardevan hanno scelto di ripercorrere quasi millecinquecento anni di fatti, luoghi e personaggi per offrire al pubblico degli addetti ai lavori, ma non solo (e giova sottolinearlo), un manuale aggiornato alle piú recenti acquisizioni scaturite dalla ricerca storica e archeologica. Altro elemento di novità, intuibile dal sottotitolo, è l’orizzonte cronologico
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all’interno del quale si snoda il percorso del volume: se l’alfa è la data alla quale viene tradizionalmente fatta risalire la leggendaria fondazione della città da parte di Romolo, l’omega non è l’altrettanto tradizionale data della caduta dell’impero romano, cioè il 476 d.C. – anno in cui viene deposto Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente –, bensí il 565 d.C., ovvero l’anno della morte di Giustiniano, il cui regno, come scrivono gli autori, fu «l’ultimo tentativo politico per la riconquista del mondo romano, ormai diviso e barbarizzato». Fatte dunque le debite premesse, ci si può dedicare alla ampia e articolata rievocazione di una vicenda che, fin dagli esordi, tradisce la sua unicità. Il mondo antico ha visto salire alla ribalta civiltà raffinate e grandi imperi, ma il caso di Roma è stato davvero eccezionale, non solo per la sua lunghissima durata, ma anche, e soprattutto, per la forza del suo modello. Nei secoli del suo apogeo, infatti, l’impero romano è stato molto piú di una pur impressionante macchina di potere: è stato un sistema – economico, sociale e culturale – capace di difondersi capillarmente in un ambito geografico vastissimo. Come oggi
testimoniano decine e decine di monumenti, disseminati in un’area che si estende dalla Gran Bretagna al Vicino Oriente, genti e territori non furono soltanto assoggettati, ma furono romanizzati, replicando un’operazione che, dall’impostazione urbanistica dei centri abitati all’uso della lingua latina, fu sempre curata con particolare attenzione. Nel manuale scorrono i nomi dei grandi artefici di questa costruzione – consoli, generali, imperatori –, accanto e dietro ai quali non viene però dimenticato il contributo fondamentale degli uomini che, materialmente, lavorarono alla fondazione di nuove colonie, alla costruzione delle infrastrutture e garantirono, per un lungo periodo, la solidità dell’intero sistema. Né mancano accenni ai risvolti sociali dell’espansione romana, che si tradusse nell’incontro/scontro con genti assai diverse, dal quale originarono fenomeni di grande interesse sul piano culturale o, per esempio, religioso. La fotografia, o, meglio, la galleria fotografica offerta dal volume è dunque ricca e l’ampia bibliografia che lo correda potrà permettere di approfondire i tanti temi e argomenti che l’impostazione
manualistica dell’opera ha imposto di condensare. Stefano Mammini Lidia Storoni Mazzolani
Tiberio o la spirale del potere Edizioni La Conchiglia, Capri, 323 pp., ill. 26,00 ISBN 978-88-609-1011-0
Freddo, implacabile negli odi e nelle vendette, superbo, parsimonioso: cosí gli storici dell’antichità hanno tratteggiato la figura dell’imperatore Tiberio. Pur descrivendone la valorosa carriera militare, il rispetto verso le leggi e l’autorità del senato, ci hanno consegnato il successore di Augusto avvolto da un alone sinistro. Ma chi era, in realtà, Tiberio? Che cosa o chi ha provocato le sue scelte personali e politiche? Le risposte, le descrizioni accurate, le motivazioni psicologiche sono nel volume di
Lidia Storoni Mazzolani, riproposto in una nuova, elegante veste editoriale. A cento anni dalla nascita della famosa storica e latinista, la sua biografia-capolavoro torna in libreria con la narrazione avvincente e la ricca documentazione iconografica e bibliografica che l’hanno fatta apprezzare nel tempo. Epigrafia, numismatica, arte, siti archeologici concorrono infatti a raccontare l’imperatore nel suo contesto storico e tutte le persone coinvolte – familiari, politici – riescono ad acquistare una dimensione reale. A Tiberio, fra tutti i Giulio-Claudi, è toccato il compito piú arduo: designato, ma non scelto; comandante vittorioso di legioni in regioni ostili, ma superato in popolarità da Germanico; sposato felicemente a Vipasania, ma costretto, per ragioni dinastiche, a impalmare la spregiudicata Giulia e, soprattutto, il primo a confrontarsi con Augusto e a imporre la trasformazione del principato repubblicano in monarchia assoluta. Storoni Mazzolani non giudica, tantomeno giustifica: indaga ogni aspetto del suo personaggio e ce lo restituisce con le sue ombre e le sue luci, artefice e vittima della crudeltà insita nell’esercizio del potere assoluto. Marisa Ranieri Panetta Maria Pia Rossignani, Anna Maria Rossi
Liguria Guide Archeologiche Laterza, Editori Laterza,
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232 pp., ill. 28,00 euro ISBN 978-88-420-9044-1
Da sempre abituati a considerare la Liguria come meta turistica, siamo assai meno consapevoli del diffuso e affascinante patrimonio storico-archeologico che la regione accoglie all’interno del suo territorio. Salutiamo con interesse, dunque, la pubblicazione della prima edizione delle Guide Archeologiche Laterza dedicata a questa aspra e stretta striscia di terra, racchiusa tra il mare e le montagne, che, proprio in questi ultimi anni, sembra «concelebrare» una vera e propria rinascita
delle esplorazioni e della valorizzazione archeologiche (ricordiamo ai nostri lettori il servizio dedicato all’archeologia del Finalese, pubblicato in «Archeo» n. 312, febbraio 2011). Curata e redatta da Maria Pia Rossignani, archeologa presso l’Università del Sacro Cuore di Milano (e nota ai nostri lettori per gli scavi diretti sull’isola di Malta) e dall’archeologa Anna Maria Rossi, la
guida si presenta come una serie di itinerari che, partendo dal capoluogo, Genova, prosegue verso la Riviera di Levante e, poi, verso quella di Ponente. Fondamentale, per inquadrare la molteplicità e complessità delle testimonianze monumentali con le quali il lettore è chiamato a confrontarsi, è l’introduzione storica alle tre sezioni degli itinerari: dalla Preistoria (cui si ascrivono due tra i piú famosi siti paleolitici della regione, la Grotta dei Balzi Rossi (nella foto in alto) – che, insieme a quella di Toirano, attesta le piú antiche tracce di frequentazione umana nel territorio ligure – e la Grotta delle Arene Candide) si passa all’età del Rame e a quella del Bronzo, per giungere all’età del Ferro (epoca dell’affermazione dei «Liguri» come entità etnico-culturale) e a quella romana. Il capitolo conclusivo offre una sintesi delle emergenze tardo-antiche e medievali, cosí determinanti anche per la lettura dell’attuale paesaggio monumentale della Liguria, sia quello costiero, sia quello dell’entroterra. Accurata e completa dal punto di vista della documentazione scientifica (ogni itinerario è corredato dall’indicazione dei musei archeologici da visitare), alla guida manca, forse, quell’appeal che le avrebbe donato
qualche immagine (a colori?) degli spettacolari scorci paesaggistici che la Liguria riserva ai suoi visitatori, o anche dell’allestimento di uno dei suoi musei (basti pensare a quello realizzato all’interno del Complesso Monumentale di S. Caterina in Finalborgo a Finale Ligure, che da solo vale un viaggio nella regione), delle splendide rovine romane di Luni, ecc. Comunque, in copertina del volume, sotto l’immagine dell’Abbazia di San Fruttuoso, fa bella mostra di sé una delle stele protostoriche della Lunigiana… Lo straordinario reperto è conservato, insieme a numerosi suoi consimili, al Museo delle Statue Stele di Pontremoli. Di cui, però, la guida non tratta. La cittadina, pur rientrando geograficamente e culturalmente nell’ambito della regione storica della Lunigiana, appartiene amministrativamente alla provincia toscana di Massa Carrara. Ed è, pertanto, esclusa dalla guida. Imelde Marani