Archeo n. 319, Settembre 2011

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ramesse II e gli ittiti

bronzi di perugia

maratona

re etruschi

speciale vallo di adriano

Mens. Anno XXVII numero 9 (319) Settembre 2011  5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria  9,90; Belgio  9,90; Grecia  9,40; Lussemburgo  9,00; Portogallo Cont.  8,70; Spagna  8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 319 settembre 2011

speciale

il vallo di adriano

roma

la leggenda dei re dimenticati

 5,90

grecia

nell’età dei tiranni

egitto

ramesse II e la pace con gli ittiti

scoperte

i bronzi di perugia

la vera storia della battaglia

maratona



Editoriale Il passato? Non è in vendita... Niente è eterno, tanto meno i manufatti del passato. Templi e sculture, marmi e bronzi scompaiono, per cause naturali o perché vittime di guerre e cupidigia: quando i Crociati nel 1204 saccheggiarono Costantinopoli (al tempo scrigno unico di tesori ereditati dall’antichità ellenistica), fondendo, tra le altre innumerevoli distruzioni, gli antichi bronzi collocati sulla spina dell’ippodromo «per farne vile moneta» (come ricorda Mario Pagano in questo numero, a p. 42), si produsse una delle piú profonde lacerazioni nella memoria materiale dell’antico che la storia abbia conosciuto.Valse a finanziare i 57 anni dell’«impero latino», conclusosi miseramente (cosí come era nato) nel 1261. Difficile immaginare di quale ricchezza in piú disporremmo oggi, se tale impresa – definita dal grande storico britannico Steven Runciman «un gesto di madornale insipienza politica» – non avesse avuto luogo… È di qualche settimana fa la proposta (europea!) di vendere l’Acropoli di Atene per contribuire al risanamento del debito pubblico ellenico. E – in tono minore –, a casa nostra, il sindaco di Agrigento ha suggerito di mettere all’asta non la Valle dei Templi, ma il suo «logo», vale a dire l’immagine dei templi greci e lo sfruttamento (a fini di lucro) che se ne può trarre. Diversa, anche, la motivazione: il ricavato non servirebbe a rinsanguare le malandate casse del nostro Paese, ma al restauro degli stessi monumenti. Entrambe le proposte – con i dovuti distinguo – hanno in comune una certa «ingenuità»: nessuno metterà mai all’asta il Partenone (chi? A nome di chi? Chi potrà mai acquistarlo?), nessuno potrà mai controllare, ne tantomeno monetizzare l’«idea» trasmessa dai monumenti del nostro passato (a meno che, per «immagine», non si intenda quella infinitamente riprodotta su cartoline, ologrammi o modellini in resina da vendere ai turisti)… Come mai, ci chiediamo, in momenti di crisi economica corriamo ad appellarci al «valore» della nostra eredità dell’antico? E come contribuiscono, episodi come quelli appena citati, a definire il nostro rapporto con le testimonianze del passato, rapporto che, come sottolinea Daniele Manacorda in questo numero, «non può prescindere dalle forme della sua gestione»? D’accordo: la «messa in vendita» (piú virtuale che reale) della nostra eredità storica non equivarrà mai a una sua distruzione reale, materiale. Ma la sola proposta ha tutta l’aria di un «gesto di madornale insipienza politica». Andreas M. Steiner

L’Acropoli di Atene. Una proposta «europea» ne ha suggerito la messa in vendita.



Sommario

Editoriale

Il passato? Non è in vendita...

3

da atene Nella piana di Caristo

di Andreas M. Steiner

di Valentina Di Napoli

Attualità

storia

notiziario

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Ramesse II e gli Ittiti

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scoperte Una missione internazionale attiva nella regione di Assuan ha individuato, scolpita sulla roccia, la piú antica rappresentazione di un faraone coronato 6

Il faraone diplomatico

26

di Sergio Pernigotti

scoperte Perugia

Il grifo e il leone

36

60 speciale

mostre Il Museo Etrusco di Chiusi taglia il traguardo dei suoi primi... 110 anni e festeggia l’evento con una esposizione che ne ripercorre la storia, densa di eventi cruciali nello sviluppo delle conoscenze sull’Italia preromana 8

di Mario Pagano

di Fabrizio Polacco

Rubriche

mostre La vita quotidiana nella preistoria è sempre meno «misteriosa», anche grazie alle ricostruzioni sempre piú fedeli che scaturiscono da scavi e ricerche: ne sono prova le magnifiche tavole illustrate esposte a Cetona 12

Origini di Roma

il mestiere dell’archeologo

mostre Il fascino plurisecolare di Roma attraversa l’oceano e tiene banco in Canada, al Musée de la Civilisation du Québec 15

Il Vallo di Adriano

storia

E nulla fu piú come prima

46

I fratelli Vibenna/9

La leggenda dei re dimenticati

60

di Domenico Gambardella

Beni culturali ed economia/2

54

di Daniele F. Maras

Valori nascosti

94

di Daniele Manacorda

storia dei Greci/9 L’età della bellezza 78 di Fabrizio Polacco

l’uomo e la materia Bianche da morire di Massimo Vidale

26

Ai confini della civiltà

Battaglia di Maratona

36

86

Antichi ieri e oggi

La viabilità al tempo dei Romani/1

La «strada vecchia» è sempre 98 la migliore... di Romolo A. Staccioli

l’età dei metalli Democrazie di... ferro

102

di Claudio Giardino

medea e le altre La comunità ringrazia

106

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Figlio di Ercole e Padre dei Sardi

110

di Francesca Ceci

libri

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n ot i z i ari o SCoperte Egitto gebel es silsila

Il primo faraone di Maria Carmela Gatto e Antonio Curci

Wadi Shalt

kom ombo

Wadi el-Kh ar

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Su Wadi Abu

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nag el - hamdulab assuan

Aswan-Kom Ombo Archaeological Project (AKAP), misL’ sione dell’Università di Yale e del

Dipartimento di Archeologia dell’Università di Bologna, lavora dal 2005 nella zona a nord di Assuan con l’intento di ricostruire il modello di insediamento della regione nel periodo predinastico e nell’Antico Dinastico (IV millennio a.C.) e di definire il rapporto tra Egiziani e Nubiani nella loro terra di confine. Infatti, nell’antico Egitto la prima cataratta del Nilo ad Assuan sanciva la frontiera meridionale con la Nubia. Ricognizione geo-archeologica e scavi di salvataggio rappresentano parte delle attività svolte dall’AKAP. Numerosi sono i siti, sia insediamenti che necropoli, finora ritrovati e indagati, in particolare nella località di Nag el-Qarmila, circa 15 km a nord di Assuan, sulla riva occidentale del Nilo. La scoperta piú clamorosa è però arrivata dallo studio dell’arte rupestre. Nei mesi scorsi è stata completata la prima documentazione digitale e grafica di Nag el-Hamdulab, sito di arte rupestre scoperto – ma mai

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pubblicato – alla metà del Novecento dal famoso egittologo egiziano Labib Habachi, nei deserti alle spalle del villaggio omonimo, situato sulla sponda occidentale del Nilo a nord di Assuan. Si tratta di diversi pannelli distribuiti all’interno di una valle, una sorta di anfiteatro naturale, che guarda verso il Nilo, ma con accessi anche al deserto. Le immagini costituiscono la prima, straordinaria raffigurazione di un giubileo regale completo di tutti gli elementi che lo caratterizzeranno nei periodi successivi, tra cui Da sinistra a destra: particolare della scena principale con la figura del faraone recentemente danneggiato; una vecchia foto dall’archivio Habachi con la figura del faraone prima della distruzione; il restauro virtuale della figura del faraone, ottenuto applicano la vecchia foto Habachi digitalizzata sopra una foto georettificata della scena cosí come si presenta attualmentè.

il faraone con indosso la corona bianca dell’Alto Egitto, accompagnato dal cosiddetto «Seguito di Horus», ossia la corte regale, come si conosce da fonti proto-dinastiche. Il ciclo figurativo risale probabilmente al 3200 a.C., che corrisponde alla parte finale della cultura preistorica di Naqada, cioè in un momento collocabile tra il re Scorpione, ossia il primo re della dinastia Zero (a cui è da attribuirsi con ogni probabilità, la tomba U-j ad Abido) e Narmer, sovrano della Prima dinastia (31002890 a.C. circa).


Nag el-Hamdulab. La parete che reca la figura del faraone coronato. Nella pagina accanto, da sinistra: veduta generale del sito; pianta dell’area di Assuan con l’ubicazione di Nag el-Hamdulab. Qui sotto: particolare dell’iscrizione geroglifica associata alla scena principale.

Le scene individuate ad Assuan sono uniche e importantissime poiché consentono di «fissare» sulla roccia il momento di passaggio tra i temi raffigurati nel periodo predinastico, ovvero processioni di barche e animali quali simboli del potere regale, al repertorio propriamente dinastico, dove la figura regale, posta al centro della scena, domina gli eventi. È proprio il potere del faraone a emergere dalle scene di Nag el-Hamdulab, ritratto nelle vesti di supremo sacerdote, figura-simbolo del potere terreno e

divino. Immediato è stato il suo riconoscimento nella scena, grazie alle insegne regali che lo contraddistinguono: la corona bianca dell’Alto Egitto, qui documentata nella sua forma piú antica. La scoperta è eccezionale anche perché fra le scene figurative è stata individuata una delle prime iscrizioni geroglifiche. Nell’iscrizione si fa riferimento a un luogo e a una barca appartenente a un non meglio specificato «seguito di». L’espressione sembra essere un chiaro riferimento alla «corte di Horus» come confermano i primi testi, tra cui in particolare gli annali della pietra di Palermo, nei quali la raffigurazione di un’imbarcazione è appunto associata all’espressione «corte di Horus». Con lo stesso termine, nei documenti della Prima dinastia, si riferisce ai viaggi del re e della sua corte, apparentemente finalizzati alla riscossione delle tasse, pratica che in seguito prenderà la forma della ben nota tassa biennale sul bestiame. Il testo, nel riferirsi a una barca della «corte di Horus», rappresenta la prima e piú antica

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n ot iz iario In alto: restituzione grafica delle scene rilevate sulla parete rocciosa del sito di Nag el-Hamdulab, presso Assuan (Egitto).

testimonianza della pratica di riscossione di tasse da parte del faraone e la prima e piú antica forma di controllo economico sull’Egitto e probabilmente anche sulla Nubia. Lo studio, grazie all’innovativo utilizzo della stereofotogrammetria ha permesso di documentare dettagliatamente, sia in formato tridimensionale che cartaceo, un complesso di raffigurazioni rupestri finora del tutto sconosciute. La ricostruzione della scena principale, recentemente danneggiata in modo irreparabile a seguito di atti vandalici, è stata possibile grazie alla disponibilità delle foto originali scattate da Habachi, gentilmente fornite dall’Epigraphic Survey della Chicago House di Luxor.

mostre Toscana

Buon compleanno! di Monica Salvini

o scorso 21 agosto il Museo Nazionale EtruL sco di Chiusi ha festeggiato i

110 anni di «vita» della sede che lo ospita, con una nuova mostra. Era infatti il 22 agosto 1901, quando fu inaugurata, in via Porsenna, la costruzione a un piano con facciata neoclassica, colonnato e timpano triangolare, progettata dall’architetto senese Giuseppe Partini. L’edificio è uno dei rari esempi in Toscana, e piú in generale in Italia, di costruzione Dove e quando appositamente progettata, tra l’Ottocento e il Novecento, per ospitare un museo. Le sedi museali di quel periodo, infatti, sono perlopiú ex conventi, «+110» edifici storici o, comunque, costruzioni nate con altri scopi e solo in un se- Chiusi, Museo Nazionale condo momento destinate ad accogliere antichità o beni artistici. Etrusco Il progetto di costituire un museo etrusco a Chiusi si fece strada tra fino al 15 giugno 2012 i notabili della città fin dal 1831, per raccogliere e mostrare gli oggetti Orario tutti i giorni, venuti in luce, dapprima casualmente e poi con ricerche sistematiche, nel- 9,00-20,00 le campagne chiusine. Ma per la prima realizzazione bisogna attendere il Info tel. 0577 530164 1871, quando furono adibite a Museo Etrusco tre stanze in via Mecenate, divenute ben presto incapaci di accogliere tutti i materiali rinvenuti. In quei decenni, infatti, nel territorio di Chiusi si continuavano a raccogliere innumerevoli reperti, anche se molti dei materiali ritrovati, soprattutto i «pezzi» piú prestigiosi, prendevano la strada verso altri Musei nazionali ed esteri. Nel 1901, dunque, terminati i lavori di costruzione del nuovo stabile, i reperti etruschi e romani trovati in città e nel territorio furono trasferiti da via Mecenate alla nuova struttura neoclassica: il piano terreno accoglieva l’esposizione in grandi e alti armadi vetrati, mentre nel seminterrato furono sistemati i depositi. L’esposizione illustra con oggetti e documenti il progetto museologico dal quale dipende la nascita dell’Etrusco Museo Chiusino (come recita il titolo del primo catalogo del 1833), nonché i successivi progetti museografici che hanno accompagnato l’esposizione dal 1901 al 2003.

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mostre Emilia-Romagna

Dove e quando

Storie dell’antica Placentia

«Abitavano fuori porta. Gente della Piacenza romana» Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico, piazza Cittadella fino al 31 dicembre 2011 Orario ma-gio, 9,00-13,00; ve-do, 9,00-13,00 e 15,00-18,00 Info tel. 0523 492658

di Annamaria Carini

in occasione della Settimana della Cultura, la mostra, Iconnaugurata la quale si vuole promuovere la conoscenza del ricco patrimonio archeologico della piú antica fondazione romana in Italia settentrionale, presenta i corredi di cinque tombe appartenenti a una piccola necropoli scavata nel 2007 in via Venturini, sotto la direzione scientifica di Daniela Locatelli della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. L’area, incuneata tra le due strade che in epoca romana uscivano dalla città puntando verso la riva destra del Trebbia, ha restituito tredici sepolture, generalmente in semplice fossa e quasi tutte a cremazione sia indiretta che diretta.

Qui sopra: Piacenza, mecropoli di via Venturini. Un’olpe (brocca a bocca rotonda) carenata in corso di scavo. In alto: vasi in ceramica, lucerne e balsamari da vari corredi tombali A sinistra: balsamari in vetro rinvenuti all’interno di un’anfora.

In tutti i corredi si ha una dotazione, piú o meno ricca, di vasellame da mensa (bicchieri e ollette in pareti sottili, coppe e piatti a vernice nera e in terra sigillata) legato al banchetto funebre. Costante è anche la deposizione in piú esemplari di balsamari in vetro, mentre ricorrono occasionalmente altre categorie di oggetti connesse a pratiche cerimoniali: olpai (brocche a un manico, a bocca rotonda, n.d.r.), vasi su alto piede, definiti tradizionalmente incensieri, una

micropatera. Altrettanto saltuaria è la presenza di contenitori da conserva. Tra gli oggetti a specifica valenza simbolica compaiono di frequente le lucerne; in una sola tomba è testimoniata la moneta per pagare a Caronte il pedaggio del viaggio ultramondano. Isolata è anche l’offerta di strumenti che richiamano azioni abituali nella vita quotidiana, nel caso specifico la filatura (fusi) o il gioco (una pedina) oppure impiegati nell’igiene personale e per l’ornamento (uno strigile e spilloni). Nella necropoli erano sepolti individui giovani, adulti e maturi di entrambi i sessi, presumibilmente appartenenti a un gruppo umano legato da rapporti di parentela o di affinità sociale. La posizione stratigrafica e i dati emersi dall’analisi dei corredi individuano almeno due fasi di utilizzo che coprono un arco cronologico di circa un secolo, tra l’età augustea e i primi decenni del II secolo d.C.

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n ot iz iario

incontri Bologna

Quando Bologna si chiamava Bononia rcheopolis è un progetto nato per celebrare i 2200 anni dalla fondazione della Bologna romaA na. Nel 189 a.C., nasceva, infatti, la

colonia di Bononia, che sarebbe diventata di lí a poco uno dei centri affacciati lungo la via Aemilia (187 a.C.), direttrice di traffici, merci e uomini, allora come ora. In occasione dell’evento il Museo Civico Archeologico di Bologna intende promuovere una serie di iniziative volte alla valorizzazione del patrimonio archeologico della città, da concentrare nei giorni tra il 22 e il 25 settembre, ma inquadrate in un progetto di piú ampio respiro e realizzato in collaborazione e in concomitanza con Artelibro, Festival del Libro d’Arte. Saranno quattro giorni di eventi e iniziative rivolte al grande pubblico per celebrare la fondazione di Bologna romana all’insegna della scoperta dell’archeologia attraverso i suoi aspetti piú ludici e coinvolgenti. Archeopolis è l’occasione per coinvolgere la città in percorsi, eventi, iniziative alla scoperta delle proprie radici. Il ricco programma di eventi prevede laboratori e mostre realizzate appositamente per bambini e ragazzi, concerti e percorsi che oltre a celebrare l’archeologia in città e la fondazione della colonia romana di Bologna, vogliono ricordare anche i 130 anni del Museo Archeologico, che, nato nel 1881, è una delle realtà museali piú importanti dell’Italia Settentrionale. Numerose saranno anche le visite guidate in città alla scoperta dei resti archeologici e dei monumenti

che testimoniano il passato romano di Bologna e che illustreranno le piú recenti interpretazioni sulle caratteristiche della città antica. Una voce di rilievo sarà quella dell’archeologo Andrea Carandini, la cui lezione magistrale fa parte degli appuntamenti della serata inaugurale di Archeopolis che si terrà al Teatro Comunale. Al termine della lezione è previsto un momento di musica con il Coro Athena, in linea con le celebrazioni legate all’unità d’Italia e alla nascita del Museo Archeologico. Gli spazi del Museo normalmente dedicati alle mostre diverranno un contenitore per idee progetti e momenti di gioco in occasione dell’esposizione dell’illustratore Sandro Natalini dedicata all’Archeogame, un gioco per ragazzi ispirato ai temi dell’archeologia e agli oggetti delle collezioni bolognesi. Negli spazi attigui, un omaggio alle radici storiche delle terme e della loro frequentazione, parte integrante della vita cittadina romana. Maggiori dettagli e il programma completo della manifestazione sono disponibili all’indirizzo web: www.archeopolis.net (red.)

mostre Vetulonia

Quel mare che unisce e non divide di Fulvia Lo Schiavo, Matteo Milletti, Simona Rafanelli

a nuova esposizione allestita a Vetulonia si inserisce nel novero L degli Eventi organizzati per l’XI

edizione delle «Notti dell’Archeologia» in Toscana, che ha privilegiato quale filone tematico «Le acque degli Antichi». Il tema regionale delle acque, intese come risorsa idrica, ma anche e soprattutto come spazio e strumento per un profondo e proficuo dialogo commerciale e culturale, diviene lo sfondo ideale per ambientare una mostra incen-

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trata sui contatti fra civiltà ed etnie differenti e sugli scambi intrapresi fra l’etrusca Vetulonia e la Sardegna sin dall’età del Bronzo: il mare assurge a emblema di un siffatto sfondo, riassumendone identità, influenze e contrasti. Il nuovo allestimento intende dunque inquadrare ulteriormente la complessa trama di rapporti intercorrenti fra la fascia costiera peninsulare tirrenica e la grande isola

Qui sopra: navicella in bronzo da Cagliari. Milano, Museo Civico Archeologico.


del Tirreno, cercando di evidenziare, e al contempo chiarire, da un lato, il ruolo detenuto – nella fitta rete degli scambi commerciali – dalla componente sarda nuragica e, dall’altro, il peso e l’importanza ricoperti dalla marineria vetuloniese nella distribuzione di oggetti importati e prodotti nel comprensorio di Vetulonia nei primi secoli dell’età del Ferro. Fulcro tematico e perno scenografico dell’esposizione, le barchette bronzee possono a tutti gli effetti essere considerate «la prima evidenza che collega la Sardegna nuragica al mare e Vetulonia alla Sardegna e al mare», rappresentando idealmente una serie di ideogrammi che, è suggestivo immaginare, raccontano la storia incrociata dei due popoli del Mediterraneo. Alle categorie ideali del mare, dell’acqua, del vino alludono rispettivamente le navicelle nuragiche – tradizionalmente interpretate quali lucerne o bruciaprofumi –, che riproducono imbarcazioni ornate da protomi zoomorfe; le fiaschette di tipo cipriota riprodotte in miniatura negli omonimi pendagli bronzei; le brocchette a collo obliquo e ventre arrotondato, contenenti la prestigiosa bevanda, vero e proprio status symbol delle aristocrazie etrusche; e, infine, le armi e gli oggetti dell’ornamento personale rappresentati, spes-

so nella forma simbolica di amuleto, da «faretrine» e bottoni nuragici. I diversi oggetti si intrecciano e convivono all’interno di un itinerario che esula volontariamente da una netta distinzione fra isola e continente nella distribuzione dei materiali. Fondato sul tema piú generale dell’eterno flusso e riflusso delle onde del mare, esso si snoda attraverso un intricato sistema di realtà e simbolo, di allusioni e rimandi, di importazioni e riproduzioni, guidando il visitatore verso la conoscenza di quegli oggetti che rappresentano il lascito materiale di una stretta relazione fra le comunità etrusche e isolane che risale a un’epoca assai remota e che, nella ricomposizione e omogeneizzazione delle pur numerose ed evidenti differenze, coniuga gli estremi di un

In alto: navicella in bronzo, da Cagliari, e, in basso, navicella in bronzo dalla tomba del Duce di Vetulonia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale.

rapporto capace di promuovere da ambo le parti le dinamiche di sviluppo insite in ogni percorso di crescita e di integrazione culturale. La creazione di una sezione specifica, al termine del circuito di visita, riservata alla sola città etrusca sorta direttamente sul mare, Populonia, mira a sottolineare la particolare dialettica instauratasi fra le città dell’Etruria settentrionale costiera e le principali isole del Tirreno, una tematica che formerà l’oggetto del Convegno di Studi Etruschi e Italici previsto per l’ottobre 2011 e incentrato in particolare sui rapporti fra la città sul Golfo di Baratti e la Corsica. Il forte segno iconico rappresentato dal tridente proveniente dall’omonima tomba a circolo di Vetulonia, che chiude, al polo opposto dell’esposizione, la cornice del percorso aperto con un’accolta straordinaria di navicelle sarde in bronzo provenienti dai contesti santuariali nuragici e da quelli funerari etruschi, senza voler trascurare la molteplicità delle valenze delle quali è capace di rivestirsi un tale simbolo, intende anche semplicemente rappresentare una sorta di «passaggio di testimone» del dominio sul mare dalla Sardegna nuragica dell’Età del Bronzo alle città etrusche della costa tirrenica, prima fra tutte Vetulonia, il cui ruolo privilegiato, nel rapporto con la grande isola del Tirreno, è ormai largamente noto e sottolineato. Dove e quando «Navi di bronzo. Dai Santuari nuragici ai Tumuli etruschi di Vetulonia» fino al 6 novembre Vetulonia (GR), Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» Orario tutti i giorni, 10,00-14,00 e 16,00-20,00; lu chiuso Info tel: 0564 948058

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n ot iz iario

MOSTRE Toscana

La preistoria disegnata di Stefano Mammini

ome scrive Marco Peresani nel catalogo, «Contrariamente a C quanto avviene per i periodi piú

recenti, l’irripetibile «esperimento» di scavo archeologico di un deposito paleolitico non gode del supporto dei robusti confronti etnografici, delle fonti scritte o addirittura illustrate». A tale realtà, fin dagli esordi delle ricerche in ambito preistorico, gli archeologi hanno risposto coinvolgendo nelle proprie indagini specialisti di discipline diverse e il contributo di esperti di geologia, botanica, zoologia e numerose altre branche del sapere scientifico ha prodotto effetti decisivi nell’opera di ricostruzione del modus vivendi dei nostri piú antichi antenati. Da alcuni anni a questa parte, anche nel nostro Paese, si è fatto strada anche un modo nuovo di dare un volto (è proprio il caso di dire) e un’ambientazione a quei lontani momenti di vita vissuta, che consiste nel raccontarli per immagini. Un’operazione che non è soltanto la sintesi di quello che, sul campo e in laboratorio, gli archeologi hanno potuto osservare, ma che, spesso, diviene un momento essenziale nella definizione delle possibili risposte ai molti quesiti che ogni scavo solleva. Un esempio eccellente di questa prassi viene dalle tavole di Mauro Cutrona riunite nella mostra attualmente in corso al Museo Civico per la Preistoria del Monte Cetona. Cutrona ha cominciato a cimentarsi con la preistoria e i suoi protagonisti piú di venti anni fa e ha messo le sue doti di artista al servizio di molti dei piú importanti contesti indagati

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In alto e a sinistra: tavole dedicate alla fauna del Pleistocene, raffiguranti l’orso speleo e il mammut. Olio su cartone. San Lazzaro di Savena (BO), Museo della Preistoria «L. Donini». In basso: l’Uomo di Mondeval, cacciatore dell’età mesolitica. Acquarello e pastello. Selva di Cadore (BL), Museo Civico della Val Fiorentina «V. Cazzetta».

nel nostro Paese in anni recenti, tra i quali, per esempio, possiamo ricordare il giacimento preistorico di Isernia La Pineta o il Riparo Dalmeri. Osservando i disegni, gli acquerelli o le tavole a olio, si viene colpiti dal felice equilibrio fra la gradevolezza del segno e l’attenta definizione dei particolari tecnici che, di volta in volta, permettono di identificare gli ambiti culturali che le opere intendono descrivere. E, soprattutto, si fa ancora una volta giustizia di tante ricostruzioni che propongono un mondo preistorico abitato da bruti che sembrano del tutto disinteressati a garantirsi condizioni di sopravviven-

za per quanto possibile sicura e confortevole. L’esposizione può anche essere l’occasione per fare la conoscenza di un museo che documenta un comprensorio di grande importanza per la preistoria del nostro Paese, fin da quando, negli anni precedenti il secondo conflitto mondiale, Umberto Calzoni condusse le ricerche che portarono a ripetute scoperte nell’area di Belverde. Dove e quando «Disegnare l’archeologia. La preistoria nelle illustrazioni di Mauro Cutrona» fino al 9 ottobre Cetona, Museo Civico per la Preistoria del Monte Cetona Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 16,00-19,00; chiuso il lunedí Info tel. 0578 237632



p u b b l i c i t à r e da z i o n a l e

n ot iz iario

incontri Paestum

La Borsa saluta re Antioco

al 17 al 20 novembre si rinnova a Paestum l’appuntamento con la Borsa Mediterranea del Turismo D Archeologico, giunta alla sua XIV edizione. Come

sempre, l’evento intende favorire la commercializzazione di prodotti turistici specifici e l’approfondimento di temi inerenti la tutela, la fruizione, la valorizzazione dei beni culturali e la cooperazione tra i popoli. Il programma della Borsa si preannuncia ricco di iniziative. Al V Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, sul tema «Tutela del patrimonio archeologico e turismo culturale in tempi di instabilità e congiuntura economica», organizzato in collaborazione con ICCROM e «Archeo», partecipano i direttori delle testate archeologiche italiane ed estere, il Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura Francesco Bandarin, il Direttore Generale dell’ICCROM Mounir Bouchenaki e sono stati invitati i Ministri della Cultura della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, della Repubblica dell’Iraq, della Repubblica Libanese e della Repubblica Tunisina, i Ministri delle Antichità della Repubblica Araba di Egitto, del Regno Hascemita di Giordania, della Palestina e il Ministro del Turismo della Cambogia. E poi ancora numerosi momenti di scambio, dei quali offriamo, qui di seguito, alcune brevi anticipazioni. Agli Incontri con i protagonisti prenderà parte Francesco Callieri, ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte iranica all’Università di Bologna, direttore della Missione archeologia italiana a Persepolis. Le nuove frontiere internazionali della ricerca scientifica e tecnologica legate al mondo antico saranno protagoniste in ArcheoVirtual, esposizione sull’archeologia virtuale, a cura del Virtual Heritage Lab dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR.

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Nell’ambito della sezione ArcheoFilm verranno proiettati i film vincitori del premio della giuria e del pubblico della XXI Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto. Le Università, nell’ambito di ArcheoLavoro, presenteranno Corsi di Laurea e Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale, mentre gli esperti del settore illustreranno le figure professionali e le competenze emergenti. Con i Laboratori di Archeologia Sperimentale il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo e Archeologia Sperimentale Tomaselli presenteranno la cultura antropologica e materiale dell’antichità. Strategico per la promozione del prodotto turistico culturale sarà il Workshop tra domanda e offerta con la partecipazione di 80 buyers esteri selezionati dall’Enit provenienti da 15 Paesi: Austria, Belgio, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Olanda, Russia, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Svizzera. Al Salone Espositivo, dislocato su un’area di circa 16 000 mq, partecipano Istituzioni, Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio, Aziende di Promozione Turistica, Soprintendenze, Parchi Archeologici, Organizzazioni di Categoria, Associazioni Professionali e Culturali, Consorzi Turistici, Società di Servizi, Case Editrici per promuovere il patrimonio culturale, le destinazioni turistico archeologiche e i servizi connessi. Saranno inoltre presenti circa 30 Paesi esteri oltre alla Turchia, Ospite ufficiale di questa edizione. Per ulteriori informazioni: www.borsaturismo.com


MOSTRE Canada

2600 anni di storia in una mostra di Francesca Ceci

esposizione allestita in Canada riunisce quasi 300 capolavori, L che spaziano dai cinerari della pri’

ma età del Ferro alla bandiera italiana con lo scudo Savoia, e comprendono molti oggetti che vengono presentati al pubblico per la prima volta. Si tratta di un progetto audace e originale, che racchiude 2600 anni di storia in una sola esposizione e presenta in una cultura «altra», come quella nord-americana, i momenti pr incipali che hanno fatto grande Roma, dalla fondazione all’Unità d’Italia. Particolarmente rilevante è la qualità degli oggetti archeologici esposti, scelti con un’attenzione particolare agli aspetti salienti

della vita quotidiana, come corredi da tavola e scrittorii, gioielli, pedine da gioco, monete. Largo rilievo hanno naturalmente anche la religiosità e il mondo funerario. Tra i pezzi in esposizione, vanno anche menzionate le urne a capanna del IX secolo a.C. dai Musei Vaticani, gli affreschi e i pregevoli mosaici conservati nei depositi dei Musei Capitolini come quello con la scena di porto o con la planimetria di un impianto termale. Degne di rilievo poi le oreficerie provenienti dal Museo di Palazzo Massimo e dal Museo dell’Alto Medioevo, e ancora i rilievi di sarcofagi con scene relative al primo cristianesimo sempre

A sinistra: il Musée de la civilisation de Québec, sede della mostra dedicata alla storia di Roma. Al centro: particolare del mosaico raffigurante l’Ecclesia Romana. Fine del XII sec. Roma, Museo Barracco. In basso: una veduta settecentesca del Campo Vaccino, visto dall’area del tempio di Saturno.

dai Musei Vaticani. Anche il periodo medievale è attestato con dovizia di materiali eccezionali, come i due mosaici con l’Ecclesia Romana e con papa Innocenzo III databili alla fine del XII secolo, nonché lo straordinario affresco anonimo con la Trinità Antropomorfa del XIV secolo. Il secondo settore della mostra riguarda poi l’età moderna, con pezzi di grande rilievo storico ed estetico. Il catalogo presenta, attraverso saggi specifici e connotati da un’estrema chiarezza, la ricchezza culturale di Roma, dalle sue piú antiche testimonianze sinora attestate risalenti all’età del Bronzo, proseguendo poi con l’età imperiale e il Medioevo, continuando poi nelle stagioni dell’Umanesimo, Rinascimento e Barocco sino al Grand Tour neoclassico, nel quale larga parte era dedicata alla scoperta degli antichi fasti romani, per concludersi con la proclamazione di Roma capitale. La mostra e il suo catalogo, pensati e redatti con un taglio spiccatamente divulgativo ed efficace nella «narrazione» di un arco cronologico cosí vasto, rientrano nel quadro delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, avvenimento sentito anche Oltreoceano. Dove e quando «Rome. De ses origines à la capitale d’Italie» Québec, Musée de la civilisation de Québec fino al 29 gennaio 2012 Orario ma-do, 10,00-17,00; lu chiuso Info www.mcq.org

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n ot iz iario

Archeofilatelia

a cura di Luciano Calenda

L’imperatore globetrotter Il 14 luglio scorso, nel filone delle emissioni che ricordano il patrimonio artistico e culturale italiano, è stato emesso un francobollo (1) che riproduce uno degli scorci piú belli di Villa Adriana, lo spettacolare complesso che si trova a Tivoli, alle porte di Roma: il Teatro Marittimo, ripreso anche dall’annullo speciale (2). Questa emissione fa riflettere sulla quantità di monumenti e vestigia famose che, non solo in Italia, sono collegate al nome di questo imperatore e che sono state quasi tutte ricordate filatelicamente. Rimanendo a Roma, ecco il Pantheon che, voluto da Agrippa, fu ricostruito da Adriano ed è stato riprodotto su questo francobollo del 1978 (3); poi Castel Sant’Angelo, detto anche Mausoleo di Adriano perché destinato nella sua forma originaria, ben diversa dall’attuale, a ospitare le spoglie dell’imperatore. Il francobollo (4) e l’annullo (5) ne danno una buona visione; e anche il ponte (6) davanti al monumento fu opera di Adriano. Il principe viaggiò molto nel Mediterraneo per cui anche altri Paesi hanno celebrato le opere che furono costruite all’epoca per ricordarne la visita: la porta monumentale di Antalya, l’arco trionfale di Jerash in Jordania (7) e le rovine dell’acquedotto nei pressi del villaggio di La Mohammedia in Tunisia (8). Ma, tra le opere sorte al di fuori dell’Italia, la piú famosa è certamente il cosiddetto Vallo di Adriano iniziato nel 122 d.C. in Inghilterra e completato in 6 anni (al quale è dedicato lo Speciale di questo numero, alle pp. 60-77). Si trattava, all’epoca, della frontiera piú settentrionale dell’impero romano e separava la Britannia dalla Caledonia (Scozia). Tra i molti ricordi filatelici del Vallo ecco il bel francobollo inglese del 2005 (9), la copertina di un libretto, sempre inglese (10), e infine il francobollo italiano emesso nel 2009 (11).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

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Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it



Calendario Italia

milano

Roma

Ritratti

Le tante facce del potere Musei Capitolini fino al 25.09.11

Ritratto femminile noto come Testa Fonseca. Inizi del II sec. d.C.

Calce viva

Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12

bari

La vigna di Dioniso

Il fascino dell’Egitto

Il ruolo dell’Italia pre e post-unitaria nella riscoperta dell’antico Egitto Orvieto, Museo «Claudio Faina» e Palazzo Coelli (Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto) fino al 02.10.11

barumini

Quel che il mare conserva…

Un meraviglioso viaggio nell’archeologia subacquea Centro di Comunicazione e Promozione del Patrimonio Culturale «Giovanni Lilliu» fino al 30.09.11

scansano (GR)

La valle del vino etrusco Stele da Nora con iscrizione in alfabeto fenicio.

Mostra per il ventennale del ritrovamento della mummia del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12

Antiquarium del Canopo e area archeologica fino al 06.11.11 trento

Iscrizioni fenicio-puniche dai musei della Sardegna Museo Archeologico Nazionale fino al 15.10.11

Le grandi vie della civiltà

Relazioni fra il Mediterraneo e il Centro Europa, dalla Preistoria alla Romanità Castello del Buonconsiglio fino al 13.11.11

chianciano terme

Le case delle anime

Museo Civico Archeologico delle Acque fino al 16.10.11

trento

Etruschi in Europa

chiusi

Museo Etrusco di Chiusi + 110

Una sposa dai numerosi doni Il rituale funerario ai tempi di Frattesina Museo Archeologico Nazionale di Fratta Polesine fino al 09.10.11

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Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11

Villa Adriana. Dialoghi con l’antico

Parole di segni

Fratta Polesine

Pittura parietale con il dio Osiride. Firenze, Museo Egizio.

tivoli

cagliari

Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12

Oinochoe (brocca) apula a figure rosse con scena di libagione. Metà del IV sec. a.C.

orvieto

Vite, vino e culti in Magna Grecia Palazzo Simi fino al 20.11.11

Ötzi20

Il significato simbolico del cibo nel mondo antico Museo Archeologico fino al 31.12.11

Montefiore Conca (Rn)

I Romani grandi costruttori nei Mercati di Traiano Mercati di Traiano fino al 25.09.11

bolzano

Nutrire il corpo e lo spirito

Il corredo di una tomba della necropoli di Tolle con canopo.

Giunge per la prima volta in Italia, dopo essere stata presentata a Bruxelles, la mostra multimediale che, grazie alla tecnologia anaglifica (occhialini bicolore), consente agli utenti di fare esperienze 3D dei principali siti dove e quando Trento, Museo delle Scienze fino al 09.01.12 Orario ma-do, 10,00-18,00 Info tel. 0461 270311; www.mtsn.tn.it


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

vetulonia (castiglione della pescaia, gr)

Grecia Atene

Navi di bronzo

Il mito e la monetazione

Belgio

Paesi Bassi

Bruxelles

amsterdam e leida

Dai Santuari nuragici ai Tumuli etruschi di Vetulonia Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 06.11.11

Tutankhamon

La sua tomba e i suoi tesori Brussels Expo e Musée du Cinquantenaire fino al 06.11.11

Quando il corpo si fa parure

Gioielli e ornamenti di culture non europee Musée du Cinquantenaire (Musée pour Aveugles) fino al 28.10.12

Francia parigi

La spada

Usi, miti e simboli Musée de Cluny, Musée national du Moyen Âge fino al 26.09.11 strasburgo

Strasburgo-Argentorate

Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.) Musée archéologique fino al 31.12.11

Museo Archeologico Nazionale e Museo Numismatico fino al 27.11.11

Gli Etruschi

Allard Pierson Museum (Amsterdam) e Rijksmuseum van Oudheden (Leiden) fino al 18.03.12 (dal 14.10.11)

Statere in argento della Lega Arcade. 360 a.C. circa.

Svizzera Hauterive

L’era del falso

Quando le contraffazioni svelano i sogni e le speranze degli archeologi Laténium, Espace Paul Vouga fino all’08.01.12

USA new york

Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo

Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 13.11.11

Germania monaco

La guerra di Troia

200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12

archeologici etruschi, fedelmente ricostruiti. Il percorso si articola in sei sale, nelle quali grandi monitor e schermi raccontano il mondo del popolo degli Etruschi con filmati, animazioni e immagini in 2 e 3 dimensioni. Due postazioni consentono di passeggiare alla scoperta delle necropoli della Banditaccia di Cerveteri e di quella di Monterozzi a Tarquinia. Semplici comandi a cura dell’utente portano il visitatore all’interno della famosa Tomba dei Rilievi, unica al mondo, o a trovarsi faccia a faccia con i preziosi dipinti delle tombe tarquiniesi. Si può inoltre effettuare la visita virtuale della Tomba della Scimmia di Chiusi, e su uno schermo a grandezza quasi naturale, si può sperimentare una realizzazione multimediale, basata su immagini panoramiche, che permette di percorrere le vie delle antiche necropoli e di

scendere attraverso il dromos (corridoio d’accesso) nelle camere funerarie, normalmente chiuse ai visitatori. Rispetto all’allestimento di Bruxelles, i contenuti dell’esposizione a Trento sono stati ampliati con alcune nuove tombe in 3D e 2D e con una nuova postazione di «realtà aumentata» realizzata da NoReal di Torino. Il visitatore, attraverso una telecamera che osserva i movimenti del corpo e li elabora in tempo reale, può muovere con le mani oggetti virtuali in 3 dimensioni conservati al Museo di Chianciano Terme. A corredo della parte tecnologica, la mostra propone gigantografie digitali in 3D degli oggetti e dell’iconografia etrusca, proiezioni di video che raccontano i momenti degli scavi, l’apertura delle tombe, dei loculi e il ritrovamento di ossa al loro interno.

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Corrispondenza da Atene

di Valentina Di Napoli

Nella piana di Caristo Le ricerche di superficie condotte nella parte meridionale dell’isola di Eubea rivelano la centralità della zona, fin dall’età preistorica

a storia di questo mese è quella di un survey; o, se preferite, una L ricognizione di superficie, per

impiegare un termine italiano. Ne è protagonista il Karystian Kampos Survey, sorto nell’ambito del Southern Euboea Exploration Project, un programma che, come il nome stesso dichiara, indaga la parte meridionale dell’isola antistante le coste orientali dell’Attica, l’Eubea. Il Karystian Kampos Survey, che opera anche sotto gli auspici dell’Istituto Canadese in Grecia, è un progetto diacronico, e ha indagato ben 260 ettari della vasta piana di Caristo: una delle aree piú fertili di tutta l’isola e, tuttavia, mai esplorata in maniera sistematica, sebbene si tratti della principale risorsa agricola dell’Eubea meridionale.

Approccio interdisciplinare Primo motivo di interesse di questo survey è il fatto che gli specialisti coinvolti nelle indagini

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hanno provenienze e formazioni diverse, il che assicura che lo studio dei rinvenimenti sia il piú completo possibile. Cosí, Zarko Tankosic (Indiana University) si occupa del materiale preistorico, coadiuvato da William Parkinson (Field Museum, Chicago), specialista per il materiale litico; i resti di età arcaica e classica sono oggetto di studio da parte di Maria

GRECIA Atene

Mare Egeo

piana di Caristo

Mar Ionio

Cartina della Grecia con l’ubicazione della piana di Caristo. A sinistra: resti di ossidiana lavorata rinvenuti nel corso delle ricerche condotte dal Karystian Kampos Survey. A oggi, sono state individuate oltre 30 aree con tracce di frequentazione umana.


A sinistra: un frammento di materiale litico con tracce di lavorazione, di epoca preistorica. Nella pagina accanto, in alto: l’équipe del Karystian Kampos Survey in ricognizione nella piana di Caristo, che si estende nella parte meridionale dell’Eubea, fra la città omonima e il porto di Marmari.

Chidiroglou (Ministero Ellenico), mentre Athanassios Vionis (Università di Cipro) studia i reperti di età romana e bizantina. Dopo due anni di indagini, i primi risultati hanno pienamente soddisfatto le aspettative; è stato infatti rinvenuto materiale abbondante, che risale addirittura al Neolitico Finale, e offre un quadro articolato delle fasi di frequentazione e del tipo di occupazione di quest’area. Una presenza diffusa Un elemento sorprendente scaturito dalle indagini è l’alto numero di concentrazioni di materiali rinvenute; ricordiamo al proposito che gli archeologi preferiscono parlare di findspots, e cioè di concentrazioni di materiali, piuttosto che impiegare il termine «siti», denominazione che implica un impiego del territorio piú definito. Ebbene, le esplorazioni del Karystian Kampos Survey hanno individuato nella piana di Caristo ben 36 nuovi findspots, almeno 15 dei quali sono di età

preistorica o hanno una componente preistorica. Ma c’è ancora un altro motivo d’interesse: i materiali litici lavorati di epoca preistorica, soprattutto ossidiana, sono stati rinvenuti in grandi quantità, mentre la ceramica, la classe di reperti piú comune nelle ricognizioni di superficie, è presente in percentuali molto ridotte. Una circostanza che fa di questa piana un’area unica non solo in Eubea, ma anche in tutta la Grecia preistorica, anche perché la presenza di materiale litico lavorato presuppone attività specializzate di vario tipo. A rendere i risultati di questo survey ancora piú singolari, nell’ambito delle indagini di superficie che interessano il territorio ellenico, è il findspot 07N35: sigla dietro alla quale si cela il piú consistente rinvenimento di resti litici dispersi di età preistorica finora compiuto in Grecia. Insomma, la piana di Caristo, senza dubbio di grande importanza per l’economia

dell’Eubea, potenziale risorsa agricola, ma anche area in favorevole posizione strategica, collocata tra la città di Caristo e il porto di Marmari, doveva essere oggetto d’interesse già in epoca antica, in età sia preistorica sia storica. Risultati lusinghieri Sebbene non siano stati individuati nuovi insediamenti veri e propri, viste l’assenza di resti architettonici e la quasi totale mancanza di ceramica, i sorprendenti risultati, soprattutto per l’epoca preistorica, restano un dato di fatto. L’alto numero di findspots preistorici a dispetto dei detriti alluvionali, la possibile presenza di attività specializzate, gli abbondanti resti di materiale litico e la loro notevole concentrazione, fanno di questa piana un’area oggetto di grande interesse per gli archeologi. E il fatto che in questo caso sia impegnata un’équipe internazionale, rende ancor piú meritevole il lavoro del Karystian Kampos Survey.

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il faraone diplomatico storia ramesse e gli ittiti

di Sergio Pernigotti

Un documento preziosissimo, redatto in caratteri geroglifici e cuneiformi, rappresenta l’unico trattato di pace pervenutoci dall’Egitto faraonico. Venne stilato 3000 anni fa, tra Ramesse II e il sovrano ittita Hattushili III, ben quindici anni dopo l’epocale battaglia di Qadesh. Segnando la fine di una vera e propria «guerra fredda» del mondo antico

N

ell’antico Egitto si scriveva molto, anzi moltissimo. Definire la sua civiltà come una «civiltà della scrittura» non è un’esagerazione: sulle rive del Nilo, infatti, si è sviluppata una società che fu tra le prime (se non la prima) ad avere inventato la scrittura, che, in ogni caso, era già in uso intorno al 3250 a.C. circa, come hanno dimostrato le recenti scoperte nella necropoli di Abido. Ci volle molto tempo prima che la scrittura fosse in grado di esprimere contenuti

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ci di terracotta e delle scaglie di calcare, i cosiddetti ostraka. Questi erano gli strumenti di cui disponeva uno Stato grande e sempre piú complesso per registrare l’enorme quantità di atti amministrativi che col tempo si andavano accumulando negli archivi della corte e dei templi: chi visiti le tombe delle grandi necropoli e guardi i rilievi o le pitture che ne decorano le «Verbali» per ogni evento A partire dalla III dinastia (2700- pareti non può non notare come in 2630 a.C.) l’incessante opera di ogni scena di vita quotidiana in cui perfezionamento degli scribi ha sono raffigurate persone al lavoro sia portato la scrittura a un alto grado sempre presente uno scriba che, per di capacità espressiva: l’invenzione cosí dire, redige il verbale di quello del papiro, anch’essa assai antica, ha che sta accadendo davanti ai suoi tra l’altro permesso di elaborare, occhi. Non va infine dimenticato accanto alla scrittura geroglifica – che, dal VII secolo a.C., un nuovo destinata a essere incisa su supporti tipo di scrittura, il demotico, ha, rigidi quali la pietra, l’osso e l’avo- per quasi un millennio, arricchirio –, una seconda scrittura corsiva, to le possibilità espressive di scrilo ieratico, che si scriveva con il bi e funzionari di ogni tipo. pennello soprattutto sul papiro, ma Se moltiplichiamo tutto ciò per i anche sulla liscia superficie dei coc- millenni in cui si è articolata la cicomplessi quali, per esempio, i testi religiosi, le narrazioni di carattere storico, romanzi, novelle e poesie; dapprima essa serviva solo per le esigenze amministrative di una società che diventava sempre piú complessa e che si avviava ad assumere la struttura dello Stato, nel senso moderno del termine.

Sulle due pagine: disegni dell’egittologo Ippolito Rosellini (1800-1843), dal Poema di Pentaur inciso sulla parete nord del tempio di Abu Simbel, in Egitto meridionale, che narra della battaglia di Qadesh contro gli Ittiti. In tale occasione, Muwatalli, re degli Ittiti, fu accusato dal faraone Ramesse II (1279-1212 a.C.; nella pagina accanto) di avergli inviato falsi informatori per ingannarlo sulla posizione occupata dalle truppe, posizione scoperta dall’esercito egiziano (in basso) solo dopo la cattura di spie ittite (in alto).

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storia ramesse e gli ittiti L’esercito degli dÈi Le quattro divisioni che prendono parte alla battaglia di Qadesh portano il nome di alcune importanti divinità egiziane. Amon, dio di Tebe, il cui nome significa «il nascosto», è il re degli dèi, beneficiario delle vittorie dei sovrani e rappresentato con una corona di piume sul capo. Ra, il dio Sole, originario di Eliopoli,

viltà egiziana e aggiungiamo anche la produzione dei libri (religiosi e profani) e le iscrizioni ufficiali su pietra possiamo avere un’idea della mole di testi scritti nell’Egitto antico, una quantità paragonabile a quella di uno Stato moderno di medie dimensioni. Di tale «produzione» ci è giunta solo una parte piccolissima, abbastanza ben distribuita nel tempo, è vero, ma il moltissimo che è andato perduto ci priva della possibilità di cogliere aspetti importanti della civiltà egiziana. In apparenza, abbiamo una grande quantità di documenti, ma molti, soprattutto quelli religiosi, sono perlopiú ripetitivi e gli altri sono miseri ruderi di una struttura enorme. Questo naufragio deriva essenzialmente dal fatto che la scrittura era prevalentemente affidata ai fragilissimi papiri: benché l’Egitto sia il Paese del mondo antico in cui essi si sono meglio conservati, quello che abbiamo perso è incomparabilmente superiore a ciò che ci è giunto. Tutti gli archivi statali sono andati perduti, a differenza di quanto è avvenuto in Mesopotamia e nel Vicino Oriente, in cui come materiale scrittorio si usavano le ben piú durature tavolette di terracotta. Tutti i documenti ufficiali sono scomparsi a meno che il sovrano non decidesse di farli incidere sulla pietra, soprattutto per ragioni propagandistiche, come la narrazione di vittorie militari (vere o presunte). Ma, per esempio, la corrispondenza diplomatica è andata interamente perduta: noi possediamo lettere di re e régoli al faraone – in babilonese e su tavolette di terracotta (l’ar28 a r c h e o

raffigurato con la testa di falco sormontata dal disco solare. Ptah, dio di Menfi, patrono degli artisti e artigiani, con il corpo di mummia e uno scettro in mano. Seth, fratello di Osiride che uccise per gelosia, rappresentato in forma di animale e ritenuto per la sua malvagità il dio della negatività e del caos.

chivio di Amarna), ma non quelle di sovrani egiziani ai loro «colleghi» del Vicino Oriente, che possiamo leggere solo se si sono conservati negli archivi di questi ultimi. Cosí, possediamo il testo di un solo trattato internazionale concluso dall’Egitto. Eppure l’Egitto era una grande potenza e aveva relazioni pacifiche o ostili con tutti gli Stati grandi e piccoli del Vicino Oriente, e non è pensabile che nei molti secoli della sua lunga storia non abbia concluso trattati internazionali.

Scontro tra superpotenze È perciò particolarmente prezioso l’unico trattato che ci è giunto, quello stipulato da Ramesse II nel ventunesimo anno di regno (1258 a.C. circa) con il re degli Ittiti Hattushili III, trattato che poneva fine, almeno formalmente (le operazioni militari erano terminate da molto tempo), alla guerra che aveva opposto l’Egitto al regno ittita. Per dare un’idea concreta dell’importanza di tale conflitto, che ha coinvolto la maggior parte delle potenze del Vicino Oriente, si potrebbe paragonarlo a una guerra tra USA e URSS ai tempi della guerra fredda. Le due maggiori potenze dell’epoca si contendevano l’egemonia in quella immensa area geografica che era il Vicino Oriente, come dire tutto o quasi il mondo allora conosciuto, almeno dal punto di vista geopolitico. In realtà, si trattò di una lunga guerra tra una potenza emergente (gli Ittiti) e quella che, almeno dai tempi delle vittoriose campagne di Tuthmosi III, era la maggiore potenza presente sullo scacchiere vicino-orientale, appunto l’Egitto.

La città di Qadesh, particolare della parete V, della stanza A, del tempio di Abu Simbel. Il sito, difeso da mura ben fortificate, era costruito sul fiume Oronte e circondato da un canale.

Un conflitto cosí lungo e importante che, per la sua durata, è stato definito la «guerra dei Cent’anni» del Vicino Oriente Antico, ma che potrebbe definirsi altrettanto bene come una «guerra mondiale» per avere coinvolto tutte le potenze grandi e piccole che si sono schierate con l’uno o l’altro dei due Stati a confronto. In realtà, non si è combattuto per tutto quel tempo, ma lo stato di tensione si è protratto molto a lungo, tra guerra fredda e scontri arma-


com’era organizzato

l’esercito di ramesse

faraone

(visir-araldi - «portavoce» in terra straniera - aiutanticomandanti - capo degli scribi)

gruppo di armate

«comandante in capo» o «generalissimo» (aiutanti - comandanti - scribi militari)

oppure «generalissimo» o «generale» (aiutanti - comandanti scribi militari - capi del personale logistico)

divisione (3500 - 5000 uomini) «generale» (aiutanti- comandantiscribi militari)

brigata

(numero variabile di compagnie )

comandante (aiutanti- comandantiscribi militari)

compagnia (circa 250 uomini) ma di due grandi potenze, di cui quella ittita era in espansione verso Occidente e l’altra non poteva accettare che fosse messo in discussione il suo sistema difensivo, fatto di guarnigioni e di Stati satelliti a lei piú o meno fedeli. Il casus belli Come spesso accade, non vi è stata Quando Ramesse II salí al trono la una sola vera causa della guerra: ciò situazione era a un punto critico e che in realtà la rendeva inevitabile la guerra fu il primo dei problemi era il vuoto politico creatosi nella che il giovane faraone dovette affascia siro-palestinese e il fronteg- frontare, rompendo gli indugi e afgiarsi non piú di alcuni piccoli Sta- frontando il nemico davanti alle ti sotto l’alto patronato dell’Egitto, (segue a p. 32) ti, tra la fine della XVIII dinastia e l’inizio e buona parte della XX, quella in cui Ramesse II ha finalmente posto fine allo scontro tra l’Egitto e il regno di Hatti.

(vessillifero)

plotone (50 uomini) (capoplotone) guardia del faraone, carrista, contingenti stranieri, scriba, soldato di guarnigione, soldato imbarcato, fante

Comando

Soldato maggiore

Soldati


storia ramesse e gli ittiti Le fasi della battaglia di qadesh

preludio A nord di Megiddo, l’esercito egiziano si divide, per prendere tra due fuochi Qadesh.

lo scriba pentaur A Pentaur non va riconosciuto tanto il merito di aver contribuito alla redazione dei testi sulla battaglia di Qadesh, quanto quello di aver trascritto il poema su papiro (sotto, in scrittura ieratica) durante il regno del successore di Ramesse II, Merneptah. Champollion fu il primo a rilevare la corrispondenza tra le iscrizioni monumentali e la copia al suo ritorno in Francia dalla spedizione in Egitto.


il faraone vincitore!

prima fase

Il re ittita Muwatalli coglie di sorpresa nella piana la divisione Ra e la sbaraglia.

fase finale

Egizi e Ittiti si scontrano nei pressi di Qadesh. La sanguinosa battaglia si conclude senza veri vincitori nĂŠ vinti.

Sulle due pagine: disegni di Ippolito Rosellini dal tempio di Abu Simbel. La raffigurazione del faraone (in basso) che, sul carro, insegue i nemici ittiti sopraffatti e in fuga rispecchia il valore simbolico e celebrativo del monumentale progetto di Ramesse II ad Abu Simbel. Da solo affronta i nemici perchÊ solo lo ha lasciato il suo esercito e, grazie all’intervento di Amon, riesce a evitare una disfatta.


storia ramesse e gli ittiti un nemico di pari rango Nella seconda metà del II millennio a.C. il regno ittita raggiunse la sua massima estensione, superato solo dal coevo impero egiziano. Su una rete di rapporti di subordinazione e amicizia, regolati da trattati di giuramento e legami familiari, si fondano la coesione interna e le relazioni esterne di questo vasto territorio, lasciando spazio a frequenti contrasti. Hattushili III sale al trono in seguito a una crisi dinastica: nel tentativo di mantenere il controllo dei territori settentrionali, affidatogli dal fratello Muwatalli, alla sua morte si ribella al nipote e legittimo erede e, con un colpo di Stato, si impossessa del trono. Sull’impronta del suo sigillo (a destra), all’interno dell’iscrizione circolare cuneiforme, compare il segno ideografico di «gran re» (triangolo sormontato dalla doppia voluta) sotto il disco solare alato, simbolo della divinità. A sinistra: statua del faraone Ramesse II nel grande tempio di Amon a Tanis. Il sovrano, dopo la battaglia di Qadesh, si adoperò con successo per migliorare i rapporti diplomatici con il regno degli Ittiti. La XIX dinastia (in basso i cartigli dei sovrani che ne fecero parte), raggiunse il massimo splendore con i suoi primi quattro faraoni. Questi riuscirono, infatti, a coniugare l’espansionismo militare con una politica di alleanze e a realizzare, all’interno, un’imponente attività edilizia, compresa la costruzione delle proprie tombe nella Valle dei Re. La XIX dinastia ebbe termine con la morte di Tauseret, vedova del faraone Siptah.

mura della città di Qadesh, alla testa di un possente esercito. L’esito della battaglia è uno degli argomenti su cui, da sempre, vi è il completo disaccordo tra gli egittologi e gli storici del Vicino Oriente Antico: basterà dire qui che, al termine di una giornata molto sanguinosa, mentre gli Ittiti rimasero padroni del campo di battaglia e il faraone si ritirava verso l’Egitto, Ramesse II fu molto lieto di accogliere la domanda di armistizio da parte del nemico. Tale scelta gli consentiva, infatti, di ritirarsi verso il suo Paese senza altri danni e di presentare il proprio ritorno come una marcia trionfale, lasciando un nemico completamente sconfitto, come era buona regola per ogni sovrano egiziano.

«Cessate il fuoco»! La guerra «mondiale» ebbe fine con quest’unica battaglia dall’esito incerto, a parte qualche scaramuccia avvenuta l’anno seguente: in realtà nessuno dei due contendenti era in grado di continuare a combattere, dopo le pesanti perdite che entrambi avevano riportato, e la loro distanza dalle basi di partenza. E, del resto, la forza propulsiva degli Ittiti si era in gran parte esaurita ed essi avevano serie preoccupazioni per quanto avveniva in Mesopotamia, alle loro spalle. Tale battaglia si svolse nell’anno quinto del regno di Ramesse II (1274 a.C. circa): dopo di allora, per quindici anni, non successe piú nulla e nulla sappiamo dei rapporti tra Egiziani e Ittiti. Improvvisamente, nel ventunesimo anno di Ramesse II (1258 a.C. circa) fu

i faraoni della xix dinastia

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Ramesse I

Sethi I

Ramesse II

1292-1291

1290-1279

1279-1212


stipulato un trattato di pace tra l’Egitto e il regno di Hatti. Non vi è alcuna spiegazione logica del perché ci sia voluto cosí tanto tempo per stipularlo: la guerra era terminata da molto tempo e non vi era alcun pericolo, a quanto ne sappiamo, che ne seguisse un’altra. Vero è che i due Paesi erano lontani e che ci voleva molto tempo per gli ambasciatori per recarsi dall’uno all’altro: ma quindici anni sono molti, anche per il mondo antico. Su un punto i due sovrani dovevano essere d’accordo: formalizzare l’archiviazione del lungo conflitto che li aveva opposti, disegnando un nuovo equilibrio nel Vicino Oriente, là dove la battaglia decisiva si era combattuta.

Redazioni a confronto Per un caso fortunato noi conosciamo molto bene il trattato sia nella versione egiziana, che si è conservata su due stele in caratteri geroglifici, sia nella versione ittita, che è stata ritrovata negli archivi regali della corte ittita, in caratteri cuneiformi e in babilonese, che era la lingua diplomatica allora in uso (foto qui accanto). Il fatto che Ramesse II l’abbia fatto incidere sulla pietra testimonia dell’importanza che egli gli attribuiva (una versione su papiro doveva certamente esistere negli archivi regali). La circostanza di possedere due redazioni del testo, in egiziano e in ittita, è della piú grande importanza perché permette un confronto che ci assicura che esse sono sostanzialmente uguali, se non proprio identiche, a dimostrare la buona fede dei due contraenti.

Il trattato si apre con la datazione, l’anno 21 di Ramesse II, come s’è visto, e il verbale della sua consegna al sovrano egiziano, che si trovava nella sua residenza nel Delta, PiRamesse-mery-Amon, per opera di tre diplomatici, quelli che probabilmente hanno provveduto alla sua stesura materiale presso la cancelleria della capitale ittita, Hattusa: si trattava di un Ittita di nome Tiliteshub, di un Egiziano, Ramose, del quale non si sa bene se fosse un ambasciatore di Ramesse o un funzionario ittita di origine egiziana, e di un diplomatico originario di Karkemish,Yapushili.

Dall’argento alla pietra Il verbale ci informa che il trattato era stato scritto su una tavoletta d’argento, evidentemente per uno speciale riguardo verso il faraone, e tale esemplare doveva essere comunque quello che faceva fede in caso di controversie sulla sua applicazione. Un esemplare analogo sarà stato se non consegnato al re ittita almeno archiviato dai suoi funzionari dopo la «firma» del sovrano: tutti i trattati internazionali erano redatti in doppio originale nelle lingue dei due contraenti. La tavoletta d’argento non è stata ritrovata, ma sappiamo dal testo egiziano che il suo contenuto è stato copiato e archiviato: proprio da tale copia è stata tratta la versione geroglifica che ci è giunta in due copie, una a Karnak e l’altra nel Ramesseum, due luoghi dell’area tebana del piú grande prestigio e della piú alta visibilità, segno della straordinaria importanza che il sovrano egiziano dava al documento. La procedura

seguita (tavoletta d’argento > copia in egiziano (ieratico) > copia geroglifica > stele) risulta evidente dal documento stesso che ci è giunto. Dopo questa introduzione di carattere protocollare vi è il preambolo vero e proprio, in cui sono enunciati i precedenti nei rapporti tra i due Paesi. Converrà leggerlo, anche per avere un’idea delle formalità che caratterizzavano i rapporti tra i due piú importanti sovrani del tempo:

la versione ittita del trattato Il trattato di pace che segue la famosa battaglia di Qadesh è noto da copie che riportano non un unico testo sottoscritto dalle due parti, ma redazioni che riflettono i diversi punti di vista dei due contendenti. Il testo, in accadico su tavoletta cuneiforme (in alto) ritrovata negli archivi della capitale ittita Hattusa (XIII secolo a.C.), è la traduzione della lettera di Ramesse II a Hattushili III. Esso fornisce quindi il punto di vista «personalizzato» del faraone che, non avendo alcun interesse a descrivere i rapporti tra i due regni dopo la sua vittoria a Qadesh, si limita a definirli amichevoli!

(1292-1186 a.c.)

Merneptah

Sethi II

Amenmete

Siptah

Tauseret

1212-1202

1201-1196

usurpatore 1200-1197

1195-1189

1188-1186 a r c h e o 33


storia ramesse e gli ittiti

La battaglia di Qadesh, sulla sinistra il carro del faraone Ramesse II, particolare dei rilievi incisi su uno dei piloni d’ingresso del Ramesseum di Tebe, in Alto Egitto. XIII sec. a.C.

«Trattato che il grande principe di Hatti, Hattushili (III), il valoroso (…) ha fatto sopra una tavoletta di argento per User-Maat-Ra SetepRa (= Ramesse II, n.d.A.) (…), il grande sovrano d’Egitto, il valoroso, grande trattato di pace e di fratellanza che farà in modo che buona pace e buona fratellanza esisteranno tra noi per sempre. Al principio, dall’eternità, per quanto concerne le relazioni del grande sovrano dell’Egitto con il grande principe di Hatti – il dio non ha permesso che esistessero ostilità tra loro, per mezzo della stipulazione di un trattato.Tuttavia al tempo di Muwatalli, il grande principe di Hatti, mio fratello, egli combatté con Ramesse Mery-Amon, il grande sovrano d’Egitto. Ma a partire da oggi, 34 a r c h e o

ecco, Hattushili, il grande principe di Hatti, stipula un trattato per far sí che siano stabili i rapporti che Ra ha fatto e che Sutekh ha fatto per la terra d’Egitto con la terra di Hatti e per non permettere che vi siano ostilità tra di essi in futuro (…) per fare in modo che una buona pace e una buona fratellanza esistano fra di essi per sempre», rapporti nuovi e pacifici che ovviamente varranno anche per i loro figli e i figli dei loro figli (traduzione, qui e di seguito, dell’Autore).

I punti fondamentali Ciò premesso, la clausola seguente stabilisce tre punti di fondamentale importanza per i rapporti tra i due Paesi: • 1) patto di non aggressione («Il grande principe di Hatti non attaccherà la terra d’Egitto per sempre (…) A sua volta User-Maat-Ra Setep-en-Ra, il grande sovrano d’Egitto, non attaccherà la terra di Hatti»; • 2) conferma dei trattati precedenti

stipulati tra l’Egitto e la terra di Hatti al tempo del re Shuppiluliuma e del re Muwatalli II, fratello di Hattushili e di quello presente («noi lo rispetteremo e ci comporteremo secondo queste clausole immutabili»); • 3) alleanza militare e mutua assistenza contro i nemici esterni e interni. Ecco la clausola riferita all’Egitto: «Se un altro nemico viene contro la terra di User-Maat-Ra Setep-en-Ra, il grande sovrano d’Egitto, egli scriverà al grande principe di Hatti, dicendo: “Vieni a me in alleanza contro di lui”. Il grande principe di Hatti agirà con lui e il grande principe di Hatti sconfiggerà il suo nemico (…) Ora, se Ramesse Mery-Amon (…) si adira con i suoi servitori quando essi compiono qualche crimine contro di lui ed egli muove per ucciderli – allora il grande principe di Hatti agirà con lui». Questa parte, cruciale per i rapporti tra i due Paesi, presenta una giunta, molto mal conservata, in cui


Ramesse II si impegna ad appoggiare l’erede al trono ittita che sarà designato da Hattushili, clausola che serviva a evitare che Ramesse II intervenisse negli affari interni ittiti, di solito piuttosto intricati sul punto della successione al trono.

Asilo politico per i rifugiati La parte per noi piú interessante è quella che riguarda l’estradizione dei rifugiati nei due Paesi, che ci presenta un quadro che conosciamo molto male della lotta politica interna, in Egitto e a Hatti, con gli sconfitti che si rifugiavano in uno dei due Paesi per chiedere quello che noi chiamiamo «asilo politico». Vediamo il testo della clausola relativa all’Egitto: «Se una persona di alto rango d’Egitto fugge presso il grande principe di Hatti oppure una città di quelle che appartengono alle terre di Ramesse MeryAmon, il grande sovrano d’Egitto, ed essi vengono dal grande principe di Hatti, il principe di Hatti non li riceverà, ma il grande principe di Hatti li rimanderà indietro a UserMaat-Ra Setep-en-Ra, il grande sovrano d’Egitto, loro signore». La clausola non riguarda solo i «grandi», ma le persone di ogni condizione sociale, come è specificato subito dopo: «Se un uomo o due uomini che non si conoscono (= di umili origini, n.d.A.) fuggono dalla terra d’Egitto e essi vengono alla terra di Hatti per essere i servitori di un’altra persona – essi non devono essere lasciati nella terra di Hatti, ma essi devono essere riportati (indietro) a Ramesse MeryAmon, il grande sovrano d’Egitto»: e viceversa in base al principio della reciprocità che domina tutto il trattato, nel caso di Ittiti che si fossero rifugiati in Egitto. A questo punto sembrerebbe che il trattato fosse finito, perché seguono il lungo elenco degli dèi chiamati come testimoni e quindi garanti di quanto è stato pattuito, la maledizione invocata su chi lo violerà e la benedizione per chi invece osserverà «queste clausole che sono scritte su questa tavoletta d’argento». Ma

non è cosí, perché segue, prima dei sigilli, un’ultima clausola, palesemente fuori posto, perché riprende il tema degli estradati e «torna indietro» prima dei testimoni, delle maledizioni e delle benedizioni. Perché mai? È difficile pensare che si tratti di una clausola aggiunta dopo una prima redazione scritta del trattato e negoziata in un secondo tempo; è piú facile pensare che, nella fase finale della sua elaborazione, quando già si lavorava sulla tavoletta d’argento, sia stata omessa per errore e recuperata, proprio all’ultimo, dagli scribi.

Sovrani magnanimi L’accordo che essa contiene è della piú grande importanza, perché riprende il tema degli «estradati», che erano stati lasciati al loro destino al momento del rientro in Egitto o nel regno di Hatti: come sarebbero stati trattati dal sovrano del Paese da cui erano fuggiti? A tale domanda Ramesse II e Hattushili rispondono in un modo davvero sorprendente per chi pensa che il mondo orientale fosse dominato da un potere dispotico e crudele, introducendo il principio di un loro trattamento umanitario: «Se un uomo fugge dalla terra d’Egitto, o due, o tre, ed essi giungono dal grande principe di Hatti – allora il grande principe di Hatti li prenderà e li restituirà a User-Maat-Ra Setep-en-Ra, il grande sovrano d’Egitto. Per quanto concerne l’uomo che verrà portato a Ramesse Mery-Amon, il grande sovrano d’Egitto, il suo crimine non verrà usato contro di lui; la sua casa, le sue mogli e i suoi figli non verranno distrutti; lui non sarà ucciso; i suoi occhi, orecchie, bocca o piedi non saranno martoriati; nessun crimine gli sarà contestato. Ugualmente se un uomo fugge dalla terra di Hatti, uno o due o tre, ed essi vengono da User-Maat-Ra Setep-en-Ra, il grando sovrano d’Egitto, allora Ramesse MeryAmon, il grande sovrano d’Egitto, li prenderà e li manderà indietro al grande principe di Hatti.Tuttavia, il grande principe di Hatti non userà

il loro crimine contro di loro e la sua casa, le sue mogli e i suoi figli non saranno distrutti ed egli non sarà ucciso; nessuno colpirà le sue orecchie, i suoi occhi, la sua bocca o i suoi piedi, e nessun crimine gli sarà contestato».

Pace e fratellanza Il trattato era stato stipulato perché tra i due Paesi vi fosse «pace eterna e fratellanza»: e, quali che siano state le vere ragioni per cui era stato concluso, esso ha raggiunto il suo scopo, perché, da allora in poi, non vi fu alcun conflitto tra l’Egitto e il regno di Hatti. Per il resto del suo lungo regno – una nuova età dell’oro nell’ottica degli Egiziani delle epoche posteriori –, Ramesse II poté interamente dedicarsi alla costruzione di un Egitto potente e pacificato, e alla sua immagine di re-dio che riprendeva il tema della regalità divina ereditato dall’Antico Regno e dallo stesso faraone «eretico» Akhenaten. Per raggiungere questo scopo aveva certo dovuto pagare un prezzo: si sarà notato che, nel testo del trattato, Ramesse II tratta il re ittita come un suo pari, cosa mai accaduta nei precedenti rapporti tra l’Egitto e gli altri Stati: dopo Qadesh, una vittoria per gli Ittiti, sancita questa volta da un accordo internazionale. Ma Ramesse era un sovrano paziente: l’equilibrio turbato dalla guerra venne ristabilito nell’anno 34 (1245 a.C. circa) del suo regno, quando sposò una principessa ittita che giunse in Egitto con un grande corteo e il matrimonio venne descritto nelle fonti egiziane come quello tra una donna mortale, destinata a diventare regina, e il dio che regnava sull’Egitto: una vera teogamia, in cui il re ittita (sempre Hattushili III) è in una ovvia posizione di inferiorità nei confronti di Ramesse II. da leggere Sergio Pernigotti, L’Egitto di Ramesse II tra guerra e pace, Paideia, Brescia 2010 a r c h e o 35


scoperte perugia

Il portale che immette nella Sala dei Notari del Palazzo dei Priori di Perugia, sormontato da due mensoloni su cui poggiano le copie delle statue bronzee del leone e del grifone, i cui originali sono custoditi nell’atrio interno del palazzo. Nella pagina accanto: Perugia, Piazza Grande. La Fontana Maggiore, realizzata da Nicola e Giovanni Pisano tra il 1275 e il 1278. Sullo sfondo, il Palazzo dei Priori. Nel 1281 qui sorgeva la fontana di Arnolfo di Cambio, ornata, ai lati, dalle statue del leone e del grifone, simboli della città .


leone

Il grifo e il di Mario Pagano

I due animali in bronzo, unanimemente considerati di epoca medievale, sono da sempre il simbolo stesso della città di Perugia. In questo articolo presentiamo, in esclusiva, i risultati di un nuovo esame delle magnifiche statue. Da cui emerge, insieme alla datazione all’età antica, l’ipotesi di una loro storia avventurosa e… movimentata

L

e singolari statue in bronzo del grifone e del leone di Perugia, i cui originali, restaurati, sono conservati nell’atrio del Palazzo dei Priori del capoluogo umbro, sono state sostituite da copie all’esterno dello stesso, collocate sopra la scalinata di accesso alla Sala dei Notari. Apparsi improvvisamente in documenti del 1276-7, quando furono posti nella cattedrale a guardia del venerato corpo del vescovo e patrono Sant’Erculano (e venivano portati in processione con una ricca veste rituale, venduta poi come reliquia, in occasione della festa dello stesso santo) i due bronzi furono considerati – e lo sono tuttora – i simboli della città. Il grifone è forse ricordato già in un discusso documento del 1274, probabilmente relativo a una sua sistemazione, piú che alla sua fusione, a giudicare dai tempi troppo brevi (4 giorni) in cui il camerlengo fu presente alle operazioni, sempre che non si tratti di una diversa rappresentazione. È certo, invece, che nel 1281 le due sculture furono dorate (e il grifone munito di ali aperte e piú appariscenti). Furono allora poste sopra la fontana inferiore della Piazza Grande, opera di Arnolfo di Cambio e dell’architetto fra’ Bevignate, smembrata poi solo un ventennio dopo. Il grifo e il leone, che ricorrono con grande frequenza nelle urnette

etrusche e nelle are funerarie romane perugine, pare fossero assurti a simboli delle istituzioni e delle milizie comunali già prima dell’apparizione dei due grandi bronzi, il che ne spiega bene la loro acquisizione.

Emblemi del Comune Il grifone è anche il simbolo comunale di Narni, importante piazzaforte del ducato bizantino di Perugia, e di Genova, altro ducato costiero bizantino della stessa epoca. Da Procopio sappiamo, infatti, che Genova era l’estrema città della pro-

vincia Tuscia et Umbria, cosí strutturata dopo la riconquista giustinianea. Appare dunque probabile che il grifone, per il suo alto valore simbolico, costituisse già nel VI secolo il simbolo delle milizie bizantine della neo-costituita provincia. Le due sculture hanno dimensioni simili (162 x 185 x 48 cm per il leone, 164 x 185 x 48 cm, escludendo le ali, posticce, per il grifone). In un primo tempo le opere furono attribuite da alcuni ad Arnolfo di Cambio, appunto perché erano in origine inserite nella decorazione della fona r c h e o 37


scoperte perugia Dall’ippodromo alla fontana di arnolfo A destra: Istanbul. I rilievi che ornano una delle facce della base in marmo dell’obelisco di Teodosio I (un monolite del faraone Tuthmosi III proveniente da Karnak), che l’imperatore fece collocare sulla spina dell’Ippodromo di Costantinopoli nel 390 d.C. Nella scena si vede la famiglia imperiale che assiste alle gare dalla tribuna che le era riservata.

Ricostruzione grafica ipotetica della fontana di Arnolfo di Cambio, detta del «Buon Governo», che chiudeva in basso la Piazza Grande di Perugia, costruita a partire dal 1280, e demolita agli inizi del Trecento, con il grifo e il leone bronzei, spostati nel 1300 sul portale della Sala dei Notari.

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A sinistra: Perugia, Palazzo dei Priori. Le statue in bronzo del leone e del grifone. Secondo l’ipotesi che qui si presenta, le sculture risalirebbero alla prima età augustea e proverrebbero da Costantinopoli. In basso: Istanbul. La colonna serpentiforme in bronzo (resto del monumento greco di Platea e Salamina eretto nel 479 a.C. per commemorare le vittorie sui Persiani) fatta installare da Costantino al centro dell’Ippodromo di Costantinopoli.

tana inferiore della grande piazza di Perugia, ornata da bellissime sculture in marmo del maestro, in parte superstiti, ma totalmente differenti dallo stile di quest’ultimo; Giacomo Caputo e Filippo Magi avanzarono invece l’ipotesi che le sculture potessero risalire a età classica, e Magi in particolare ha dedicato ai bronzi, in occasione del loro restauro, lo studio piú approfondito. Ma il discusso documento del 1274 sopra ricordato e l’analisi al radiocarbonio allora condotta sulle terre di fusione, compatibile con una datazione al Duecento, parvero risolvere definitivamente la questione, tanto che nella mostra su Arnolfo di Cambio tenutasi nel 2005 a Perugia, i due bronzi sono attribuiti senza esitazione a un anonimo «Maestro del 1274», accennando solo alla possibilità che si tratti di sculture antiche. Anche nella monografia piú accurata finora dedicata ai due bronzi,

opera di Gustavo Cuccini, pur riconoscendo che «l’impostazione solenne e passante e il volgersi entrambi nello stesso verso, come nell’eccezionale occasione di una parata, e in piú la tecnica raffinatissima della fusione a cera persa con il risultato dello spessore sottile del bronzo e la leggerezza del manufatto, la presenza di sottosquadri, la rifinitura a freddo con lime e ceselli, sono tutti elementi che rinnovano ancora oggi in noi la memoria dell’antico e che hanno reso legittimi in passato i dubbi negli studiosi di archeologia e arte classica», si sostiene una datazione al Duecento. Infine, anche la restauratrice Anna Maria Carruba, che si è occupata del grifo e del leone per una endoscopia e la rimozione di un antiestetico palo in ferro di sostegno, ritiene siano due esempi di fusione in un unico pezzo di bronzi di età medievale, sempre sulla base, però, della precedente analisi radiocarbonica su un campione di terra di fusione.

A guardia del patrono A parere di chi scrive, la datazione a età medievale dei due bronzi va, invece, respinta: i restauri e le integrazioni eseguiti al momento della loro collocazione a Perugia, il fatto che siano stati lasciati visibili gli antiestetici fori certamente dovuti alla loro precedente ubicazione, l’aggiunta di ali posticce e piú vistose al grifone e della coda al leone nel 1281, sembrano incompatibili con una realizzazione recente e accurata. Ben diversi, e di lavorazione assai piú sommaa r c h e o 39


scoperte perugia L’ippodromo di Costantinopoli Disegno ricostruttivo dell’Ippodromo di Costantinopoli, cosí come doveva apparire tra il V e il VII secolo (nel particolare a destra, in basso, le gabbie di partenza). L’edificio, di cui si conservano pochi resti, sorse nel 203 d.C. per volere di Settimio Severo, che lo realizzò sul modello del Circo Massimo di Roma. Dopo il 324 d.C. fu ampliato da Costantino I, fino ad arrivare a una lunghezza di 400 m per una larghezza di 117,50 m. La spina era ornata da obelischi e da gruppi scultorei in marmo e bronzo, in parte fusi e in parte acquistati o razziati durante l’occupazione dei crociati. Il particolare qui sotto illustra il pulvinar, cioè la loggia riservata alla famiglia imperiale per assistere alle gare (illustrato anche dai rilievi della base di uno degli obelischi della spina; vedi foto a p. 38, in alto).

ria, appaiono, infatti, i bronzi contemporanei o di poco successivi. L’immediata importanza che i due bronzi assumono fin dalla loro comparsa, posti a guardia del venerato corpo del patrono vescovo Sant’Erculano nella cattedrale, portati in processione nella festività dello stesso, rivestiti di una stoffa che poi venne rinnovata e venduta a pezzi come reliquia, costituisce un altro indizio che fa escludere una realizzazione recente e locale, e suggerisce, invece, una prestigiosa provenienza e una storia anteriore. La lega, poi, nella quale è totalmente assente lo zinco ed è presente lo stagno in una percentuale fra l’8, 5 e il 10%, è identica a quella degli altri bronzi conosciuti di età ellenistica e romana. Né la datazione radiocarbonica può considerarsi in questo caso 40 a r c h e o

decisiva, considerando la rilavorazione e il rifacimento di alcune parti dei bronzi nell’epoca che da essa si ricava. L’allungamento delle due figure animali, che presuppone la piena conoscenza dei moduli lisippei, la minuziosa lavorazione a cesello dei peli e delle ali, l’indicazione vigorosa delle vene, l’accuratezza tecnica, fanno propendere per una datazione non anteriore all’età ellenistica. Però, la fattura scolastica del corpo e della criniera degli animali, la poca plasticità del volto del leone, la poca vivezza del movimento fanno propendere per un esito tardo e provinciale della plastica ellenistica e a una datazione, come si vedrà, alla prima età augustea e a un contesto marginale, che si suppone essere il santuario di Apollo ad Azio, sontuosamente decorato da Augusto dopo la vittoriosa

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battaglia navale contro Marco Antonio e Cleopatra. L’epoca in cui compaiono i due bronzi, la venerazione da cui sono subito circondati, e la loro estraneità alla bronzistica locale inducono chi scrive ad avanzare l’ipotesi che essi siano stati acquistati a Costantinopoli negli estremi anni di vita dell’impero latino, che cadde nel 1261, dai mercanti perugini, all’epoca particolarmente attivi, o da loro intermediari.

Le difficoltà di Baldovino In quegli anni l’impero latino versava in gravissime difficoltà economiche, che comportarono la vendita di molte delle sculture che ancora adornavano i principali monumenti della città, di quasi tutte le prestigiose reliquie e del tesoro imperiale. In

e


In basso: la quadriga di bronzo dorato giunta a Venezia con il bottino di guerra raccolto dai Veneziani, guidati dal doge Enrico Dandolo, dopo la conquista di Costantinopoli, al termine della quarta crociata, nel 1204, insieme ad altre opere di valore. Venezia, Tesoro della basilica di S. Marco. In origine, è probabile che le sculture ornassero i carceres (gabbie di partenza) dell’Ippodromo della città.

quella circostanza, per esempio, giunsero a Parigi la Corona di spine e le altre reliquie della Passione. E, bisognoso di denaro, l’imperatore latino Baldovino diede addirittura in pegno a mercanti veneziani il proprio figlio Filippo, e vendette le lastre di piombo che ricoprivano il tetto dei palazzi imperiali. Sono gli anni in cui pervengono a Venezia i 4 cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo e il leone di bronzo di piazza S. Marco, altra opera antica, al quale vengono aggiunte le ali. L’arrivo da Costantinopoli dei due bronzi deve probabilmente essere collocato in tale arco temporale. Va ricordato che nel 1254 il Comune perugino, in un periodo di grande floridezza (aveva ospitato la corte papale di Innocenzo IV per un lunghissimo periodo, dal 5 novembre 1251 al 27 aprile 1253), decise di realizzare la costosa opera dell’acquedotto di monte Pacciano, e anche se nel 1273, quando si riprese l’opera con maggiore lena, i primi lavori erano in parte devastati, è probabilmente in vista dei lavori con-

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scoperte perugia nessi a tale opera che le sculture giungono a Perugia, forse con l’idea di decorare la fontana terminale, già allora prevista nella Piazza Grande. È interessante notare che l’architetto idraulico di queste notevolissime opere è un Veneziano, incaricato dal Comune di Perugia, Boninsegna di Venezia, che era attivo pure a Orvieto per la realizzazione dell’acquedotto cittadino, insieme con frate Bevignate e altri tecnici. Nel 1280 si cominciò a costruire la fontana «del Buon Governo», che chiudeva in basso la Piazza Grande di Perugia, con le sculture marmoree di Arnolfo di Cambio, e i due bronzi furono sistemati in alto su di essa. Nel 1300, subito prima della demolizione della fontana, i due bronzi furono sistemati in alto, sulla facciata del Palazzo dei Priori, sopra il grande portale della Sala dei Notari, e a essi furono appese, come trofei, le catene strappate a una delle porte di Siena dopo averne vinto e respinto l’esercito, nel 1358 (catene tuttora appese alle repliche).

Sulla spina dell’Ippodromo Una conferma della provenienza dei due bronzi perugini dall’Ippodromo di Costantinopoli è data dalla descrizione che ne fa, all’epoca della quarta crociata, un colto testimone oculare, Robert de Clary, quando i Francesi erano accampati fuori dalle mura e frequentavano la città: «In un altro luogo della città c’era un’altra meraviglia: c’era una piazza presso il palazzo Bocca di Leone che viene chiamata “I giochi dell’imperatore”. Questa piazza è lunga ben una balestrata e mezza e larga una; intorno a questa piazza ci sono ben trenta o quaranta gradinate dove vanno i Greci per assistere ai giochi. E sopra queste gradinate c’era una loggia molto graziosa e molto bella dove l’imperatore e l’imperatrice si seggono durante i giochi insieme con gli altri nobili e le dame. Se avvenivano contemporaneamente due ludi, mentre si giocava, l’imperatore e l’imperatrice scommettevano su quale dei due giochi fosse il migliore e cosí tutti coloro che insieme a essi assistevano ai giochi. Lungo questa piazza c’era una mura42 a r c h e o

glia che era alta ben 15 piedi e larga 10. Sopra quel muraglione c’erano statue di uomini e di donne, di cavalli e di buoi, di cammelli e di orsi e di leoni e di molte altre specie di animali di bronzo, che erano cosí ben fatte e cosí realisticamente atteggiate che non c’è un sí buon artista tra i pagani e tra i cristiani che sappia eseguire e scolpire statue piú belle di quelle sculture. E nei tempi passati queste solevano fare giochi per magia (per enchantement), ma ora non si muovevano piú. E i Francesi guardarono con meraviglia questi giochi dell’imperatore quando li videro». Prima ancora, nel 900 circa, un colto prigioniero arabo parla della spina dell’Ippodromo sulla quale erano collocate «statue di bronzo, che raffigurano cavalli, uomini, bestie selvagge, leoni e quant’altro». Che tali sculture non fossero tra quelle fuse dai Latini dopo la presa della città nel 1204 per farne vili monete è provato dal fatto che non sono citate, contrariamente ad altre presenti nell’Ippodromo, nell’accurato elenco redatto da Niceta Coniate nella sua opera De signis constantinopolitanis. L’Ippodromo, infatti, conservò la sua importanza per la scenografia e le cerimonie imperiali anche durante il periodo dell’impero latino. Questi animali, come le altre sculture antiche che adornavano la spina dell’Ippodromo, rivestivano carattere sacrale e profetico, ed erano in parte smontabili, per essere utilizzate nelle cerimonie ufficiali. L’imperatore bizantino Isacco II, come riferisce Niceta Coniate, in preda alla magia e all’astrologia, si fece portare a palazzo uno di questi animali di bronzo della spina dell’Ippodromo, il cinghiale di Calidone, per acquisirne la forza, tagliandone il grugno, al fine di ridurre il popolo all’obbedienza e per combattere contro i Latini. E tra le sculture dell’Ippodromo distrutte dai crociati nel 1204 figuravano anche «la statua dell’asino e dell’asinaio fatte porre da Augusto ad Azio dopo la vittoria su Antonio. Vennero fuse le statue della scrofa e della lupa che allattarono Romolo e Remo, un uomo che lottava con un leone, nonché un coccodrillo e un

elefante, convertendole in piccole monete di bronzo. Finirono nella fornace anche un’aquila di bronzo, creazione di Apollonio di Tiana, la quale tratteneva nei suoi artigli un serpente velenoso e portava sulle ali spiegate dodici linee incise indicanti le ore del giorno».

Animali in movimento Nell’Ippodromo non si svolgevano solo corse di carri ma, fino a tarda età, cerimonie ufficiali, parate e sfilate di animali esotici. Ancora nel 1211, i Latini vi potevano ammirare su di una torre, un orologio idraulico con uccelli meccanici che cantavano. La musica bizantina costituiva un elemento essenziale nelle gare e cerimonie dell’Ippodromo. Due organi idraulici permettevano, cosí, di far muovere gli animali di bronzo presenti sulla spina dell’Ippodromo al suono della musica. Simili automata (tale era il loro termine tecnico) erano particolarmente diffusi a Bisanzio anche in epoca avanzata: Liutprando vescovo di Cremona ricorda che, nell’udienza datagli nella grande aula detta «Magnaura» nel 949 dall’imperatore Costantino VII nel palazzo imperiale, il trono si levava in alto, verso il soffitto, insieme con due leoni di bronzo o di legno dorato che stavano ai suoi piedi e due alberi metallici ai lati, accompagnato dal canto di uccelli meccanici. Gli stessi automi sono ricordati da Costantino Porfirogenito nel De cerimoniis, compilato nel 957-9 circa. Trovano cosí, a mio parere, la giusta spiegazione i curiosi e regolari fori quadrangolari, con una risega interna, presenti lateralmente, alla stessa altezza, nelle due sculture (sette nel grifo, undici nel leone), di dimensioni che variano dai 3 ai 7 cm, tranne un piccolo foro circolare, di cui si dirà, nella criniera del leone. Questi fori, piú che determinati da tasselli posti in corrispondenza dei cannelli di sfiato al momento della fusione o posti a riparare difetti della stessa (sono troppo grandi), sembrano effettivamente ben adattarsi a un meccanismo che permetteva agli anima-


Il Leone A destra: il leone bronzeo di Perugia. Il foro circolare visibile al centro della criniera in entrambi gli animali era probabilmente pertinente a un meccanismo idraulico che consentiva la movimentazione delle sculture che ornavano la spina dell’Ippodromo di Costantinopoli, come documentano le fonti di epoca medievale. In alto: in evidenza un piccolo foro nella criniera, forse di attacco per le redini, secondo l’ipotesi che l’animale facesse parte di un gruppo scultoreo legato al mito di Admeto e Alcesti. A sinistra: Admeto e il carro aggiogato con un cinghiale e un leone, affresco di età tardo-neroniana. Murecine (Pompei), Magazzino Archeologico.

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scoperte perugia

Il grifone In alto: la biga di Apollo trainata da un grifone, particolare del frontone dell’arco di Marco Aurelio a Tripoli. 163 d.C. circa. A destra: il grifone bronzeo di Perugia. È visibile il foro circolare posto al centro della scultura, in cui era probabilmente posizionato l’asse per la movimentazione meccanica. Le grandi ali furono aggiunte nel 1281. In basso: statuetta in terracotta di grifone con le zampe anteriori su una ruota, simbolo della dea NemesiPetbe, dall’Egitto. Parigi, Museo del Louvre. Nemesi e Apollo erano strettamente connessi ai giochi che si svolgevano all’interno dell’Ippodromo. Il grifone potrebbe essere stato scolpito, in origine, come attributo di una delle due divinità.

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li di muoversi, come documentato dalle fonti medievali. I due grandi fori circolari presenti sul davanti degli animali, all’innesto del collo, sono anch’essi relativi, piuttosto che alla presenza di un tubo di fontana (in tal caso sarebbe stato da aspettarsi che l’acqua fuoriuscisse dalla bocca degli animali), alla sistemazione dell’asse interno del meccanismo che permetteva di realizzare il movimento degli animali, attraversandolo longitudinalmente. Cosí trova spiegazione anche il foro di innesto presente sul retro di ambedue gli animali, che comportò il taglio della coda. Per le grandi dimensioni del foro anteriore, credo si debba escludere che tali pertugi fossero realizzati a Perugia, in particolare nel periodo in cui essi furono posti in alto, ai lati della fontana di Arnolfo di Cambio. Rimane da affrontare lo spinoso problema dell’originaria funzione e collocazione dei due animali, strettamente connesso alla loro cronologia, da porre a mio parere, come si è detto, in epoca augustea. È da discutere la connessione originaria fra le due sculture, anche se la fattura a cesello della parte superiore del grifone è piú accurata. Però, l’impostazione dei corpi degli animali appare identica, cosí come il passo e la fattura del corpo, tanto da far pensare con certezza a una stessa officina e cronologia: di conseguenza, identico dovrebbe essere il contesto originario dei due animali bronzei.

Ai piedi di Nemesi Il grifo è presente, oltre che come attributo di Apollo, ai piedi della dea Nemesi, che era strettamente connessa proprio ai giochi dell’Ippodromo. La documentazione di questa tipologia scultorea in età ellenistica e romana è abbondante.Alcune statue, gemme e rilievi raffigurano il grifone con la ruota, simbolo di Nemesi, in un caso accoppiato col corvo, simbolo di Apollo. La pertinenza a una statua di Nemesi spiegherebbe anche l’estremo allungamento dell’animale. In alternativa, si potrebbe pensare a un grifone

con la ruota, ben compatibile con la posizione della zampa anteriore dell’animale, oppure posto a lato di una statua di Apollo. Credo dunque probabile che il grifo sia stato originariamente connesso a una statua di queste divinità, sempre che esso non costituisse, già in origine, una rappresentazione isolata, per poi essere utilizzato, insieme al leone, con altre statue di animali, sulla spina dell’Ippodromo. Il grifone ha grande importanza nell’immaginario medievale: Alessandro Magno, e gli stessi imperatori sul suo modello, salivano in cielo su un carro trainato da grifoni: tale leggenda molto popolare, per il collegamento del Macedone e delle sue imprese con gli imperatori d’Oriente era particolarmente significativo. Come ricorda anche Dante nel Purgatorio, il grifone rappresentava i due aspetti della Chiesa, quello divino e quello umano. Dunque, la collocazione del grifone di bronzo, insieme al cinghiale, al leone e all’orso sulla spina dell’ippodromo di Costantinopoli assumeva un particolare valore simbolico. Piú problematica risulta l’originaria funzione del leone, il cui aspetto particolarmente mansueto non pare adattarsi a una funzione di combattimento. Potrebbe trattarsi di un leone funerario, da inserire in una tipologia assai diffusa, ma una ipotesi alternativa, e a mio avviso preferibile, potrebbe essere che il leone facesse parte di un gruppo bronzeo relativo a un episodio del popolare mito di Admeto: la prova che il re Pelia richiedeva per concedere la mano della figlia Alcesti fu di portargli un carretto aggiogato con un cinghiale e con un leone; l’impresa riuscí per la protezione di Apollo. Tale celebre mito è raffigurato in una pittura pompeiana di età tardo-neroniana o flavia dell’edificio di Murecine, e in una delle pitture della tomba dei Pancrazi in via dell’Arco di Travertino, lungo l’antica via Latina a Roma, di età antonina, e spiegherebbe bene sia l’aspetto mansueto, sia l’allungamento dell’animale. Sappiamo dal passo sopra menziona-

to di Niceta Coniate che un cinghiale smontabile e trasportabile era presente sempre sulla spina dell’Ippodromo, ed è possibile che esso appartenesse in origine allo stesso gruppo scultoreo. Se tale interpretazione coglie nel vero, il piccolo foro presente nella criniera del leone potrebbe essere interpretato come l’attacco per le redini.

Dal tempio di Apollo Lo stile delle due sculture di bronzo, fra loro affini anche se pertinenti a due diversi gruppi, e il loro collegamento ad Apollo, insieme con le considerazioni stilistiche e cronologiche già accennate, inducono a collegarle all’ideologia augustea e al tempio di Apollo aziaco. La Nemesi, infatti, richiama la vittoria contro i Cesaricidi a Filippi e contro Marco Antonio e Cleopatra; anche il popolare mito di Admeto e Alcesti è inquadrabile in questo contesto, per la vittoria, grazie ad Apollo, sulla forza bruta del cinghiale e il coraggio del leone. Si è sopra ricordato che sulla stessa spina dell’Ippodromo era sistemato il gruppo di bronzo dell’asino e dell’asinaio, fuso dai crociati, e proveniente dallo stesso santuario. Sappiamo che Augusto restaurò il tempio di Apollo ad Azio, e, nei pressi, realizzò un recinto sacro a Nettuno e a Marte decorandolo con i rostri di bronzo delle navi nemiche. L’allungamento delle figure dei due animali trova cosí spiegazione nel fatto che esse dovevano risultare visibili in profilo da lontano, dal mare sottostante. Credo quindi che la documentata interpretazione che qui si presenta contribuisca a risolvere il problema dell’inquadramento storico, stilistico e cronologico dei due bronzi, tanto fascinosi e ammirati dal pubblico, quanto finora misteriosi. Essi sono dunque reliquie importanti della scultura greca di età augustea e testimoni eloquenti della magnificenza degli apparati meccanici dell’Ippodromo di Costantinopoli. E l’emergere di nuova documentazione potrà ulteriormente rafforzare tale ipotesi. a r c h e o 45


storia battaglia di maratona

A sinistra: busto in marmo del generale Milziade (540 circa489 a.C.), che nel 490 a.C. guidò gli Ateniesi contro i Persiani di Dario I nella battaglia di Maratona. Parigi, Museo del Louvre. In alto: schieramento di opliti, una scena tratta dal film 300, girato dal regista Zack Snyder nel 2007.


di Fabrizio Polacco

E nulla fu piú come prima

Quando Greci e Persiani si scontrarono nella piana di Maratona, l’esito sembrava scontato, tanta era la disparità delle forze in campo. Alla fine, invece, prevalsero le truppe guidate da Milziade, che resero immortale quel settembre di 2500 (e non 2501!) anni fa

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i può celebrare in modo non convenzionale una delle piú celebri battaglie della storia, cioè quella combattuta a Maratona nel 490 a.C. tra Greci e Persiani? Come riuscirvi, quando a essa è stata attribuita nei secoli – venticinque, ormai – l’origine di una interminata catena di effetti, ma anche quella di concetti e categorie mentali ancora oggi operanti? L’aprirsi di una frattura, destinata a durare, tra mondo occidentale e orientale. L’identificazione del primo con la libertà, del secondo con l’oppressione e la tirannide. L’idea stessa di Europa, in quanto Continente distinto e contrapposto all’Asia. La categoria del «barbaro», antitesi dell’uomo civilizzato. La

definizione di «età classica», e quindi il riconoscimento della loro eccellenza, assegnata ai due secoli successivi alla battaglia. L’esaltazione di Atene e del suo innovatore regime democratico. La nascita della prima opera storiografica dell’umanità. L’affermarsi dell’ideale patriottico ed eroico della lotta contro il nemico invasore: sono tutti schemi mentali, quasi stereotipi ormai, tanto connaturati al nostro modo di rapportarci al passato, che è davvero alto il rischio di riuscire banali ricordando quell’evento primario.

l’intento rievocativo dei fondatori delle Olimpiadi moderne – che gli hanno dedicato una apposita gara (la «maratona») –, non fu il famoso Filippide a correre quella quarantina di chilometri che separavano il campo di battaglia da Atene per portare ai concittadini l’annunzio della insperata vittoria, stramazzando poi per la fatica. Oppure il considerare che quella battaglia, in sé e per sé, non fu né particolarmente grandiosa, né risolutiva. Non fu grandiosa, in quanto vide contrapporsi uno schieramento di 8/10 000 Ateniesi (piú 1000, forse 2000, fanti della cittadina di PlaNascita di un mito E allora è meglio prendere le mosse tea) a un esercito invasore persiano da alcuni aspetti marginali. Per che, sebbene piú cospicuo, non poesempio, il fatto che, nonostante tremmo definire numerosissimo: per a r c h e o 47


storia battaglia di maratona battaglia di maratona 2 1

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Fase 1: gli Ateniesi, per rendere la loro linea di battaglia lunga quanto quella 3 spesse le ali. 3 dei Persiani, assottigliano3 il centro e rendono piú 1

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Fase irrompono 2 4 2: le ali degli Ateniesi e dei Plateesi 3 contro quelle persiane che fuggono; intanto, però, il centro persiano respinge quello ateniese. 2 3 4 3

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Fase 3: i Persiani rompono, al centro, lo schieramento ateniese, ma le ali greche, facendo perno sul punto in cui il loro fronte si è spezzato, convergono accerchiandoli e stringendoli sui fianchi. A destra: interno di una coppa attica attribuita al pittore Oltos, con rappresentazione di un arciere persiano. Seconda metà del VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

L’obiettivo di Dario I era quello di punire Atene e la vicina Eretria 48 a r c h e o

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la scala di un impero che si estendeva dall’odier no Afghanistan all’Egeo, l’aver mobilitato alcune centinaia di navi cariche di armati e di cavalleria non costituiva uno sforzo eccezionale. Ben piú numerose furono, per esempio, le forze messe in campo da Serse dieci anni dopo, nel 480 a.C., per la seconda spedizione contro la Grecia: che fu, questa sí, davvero risolutiva.

Una «spedizione punitiva» Il fatto è che né il mondo greco nel suo complesso, né il Re dei Re Dario (padre di Serse) consideravano ancora quel primo scontro come epocale e decisivo. L’obiettivo principale era punire Atene e la vicina Eretria, poiché avevano osato inviare una ventina di navi a sostegno della ribellione antipersiana dei loro consanguinei, gli Ioni d’Asia. Ma lo stesso Dario, contrariamente a quanto aveva fatto in una precedente campagna militare contro gli Sciti, stavolta non si era nemmeno degnato di guidare personalmente la «spedizione punitiva».


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La grande palude

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L’altra colpevole Certo, se leggiamo il principale narratore degli eventi, Erodoto, tutto ci si presenta già perfettamente chiaro e prospettico; lo sguardo del primo storico dell’antichità sembra quasi quello di noi posteri, ammaestrati dagli eventi successivi. E però anche Erodoto era, sia pur di poco, un postero. Nacque, infatti, qualche anno dopo la battaglia, e crebbe quando la minaccia persiana era ormai stata scongiurata. Poté vedere già l’impero ateniese al suo culmine, e la città divenuta polo di attrazione di artisti, poeti e filosofi, superba dei suoi nuovi templi e della compiuta

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Dal punto di vista geopolitico, quella che si andava a combattere era una delle tante guerre di confine: qualunque ne fosse stato l’esito, non avrebbe messo a rischio la stabilità dell’impero nel suo complesso; si trattava solo di restaurare l’ordine e la sicurezza di una provincia occidentale e, allo stesso tempo, di dare una lezione ai Greci. E cosí, al comando della spedizione furono messi Dati, un generale di origine meda, e Artaferne, nipote di Dario. Quelli che vennero direttamente aggrediti ovviamente non ignoravano che in ballo c’era la propria sopravvivenza. Ma sconcerta che, tra le centinaia di città-stato elleniche, nessuna, a parte la piccola Platea, mosse in soccorso delle vittime predestinate. Solo gli Spartani avevano garantito un loro aiuto, che poteva essere davvero prezioso: ma si misero in marcia e giunsero a Maratona colpevolmente in ritardo, a battaglia già finita. Insomma, mettendo per un momento da parte le due dirette interessate, nessuno in Grecia pensava di trovarsi nell’imminenza di uno scontro epocale, né dinnanzi alla prospettiva dell’asservimento di un’intera civiltà, né a un confronto generale tra libertà e schiavitú. E c’è da chiedersi anche quanta consapevolezza vi fosse di tutto ciò perfino negli stessi Ateniesi.

Baia di Maratona

La piccola palude

Mare Egeo

GRECIA

Maratona

In alto: pianta della piana di Maratona, dove nel 490 a.C. sbarcò l’esercito persiano al comando di Dati e nella quale si svolse la celebre battaglia vinta dagli Ateniesi.

Atene Mar Ionio

cronologia delle guerre persiane 558-529 a.C. 550 a.C. 539 a.C. 529-522 a.C. 522-486 a.C. 513-512 a.C. 490 a.C. 486-465/464 a.C. 481 a.C. 480-478 a.C.

iro II il Grande costituisce l’impero persiano C iro II il Grande sconfigge i Medi C Ciro II il Grande conquista Babilonia Cambise II re dei Persiani Dario I, re dei Persiani Campagne di Dario I in Europa e in India I guerra persiana: l’ateniese Milziade sconfigge

a Maratona i Persiani di Dario Serse I, re dei Persiani Alleanza panellenica contro i Persiani II guerra persiana: sconfitta del re spartano Leonida alle Termopili; vittorie dei Greci a Salamina, a Platea, a Sesto e a capo Micale

democrazia. Ma tutto questo avvenne dopo Maratona, non prima. Prima di Maratona ben poco faceva presagire gli splendori futuri: il regime democratico introdotto da Clistene cresceva in un ambiente ostile. Ad aggredirlo per primi non erano stati i Persiani, ma altri Gre-

ci, i Tebani e gli Euboici. E, come se non bastasse, il tiranno cacciato dalla città, Ippia, rifugiatosi presso il Gran Re, tramava con questo il ritorno. Perciò era bastato un piccolo azzardo ateniese, quelle navi spedite in soccorso dei ribelli, per scatenare la reazione. E poiché a r c h e o 49


storia battaglia di maratona

Ma come si calcolano gli anniversari dell’era antica? È ormai prassi consolidata celebrare centenari o millenari di eventi accaduti prima di Cristo attraverso un calcolo che semplicemente somma gli anni targati «a.C.» con quelli targati «d.C.»: per esempio, nel settembre 2010 si è celebrato il 2500° anniversario della battaglia di Maratona combattuta nel 490 a.C. (per la precisione il 6 del mese attico di Boedromione, corrispondente forse a un nostro 16 settembre), poiché la somma di 2010 e 490 dà appunto 2500. Si tratta tuttavia di una convenzione di comodo, in quanto per completare

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davvero 2500 anni ne manca ancora uno. Infatti, per esempio, è intuitivo notare che tra uno stesso giorno dell’anno 1 a.C. e poi dell’anno 1 d.C. non sono trascorsi due anni, ma uno solo; quindi, addizionare semplicemente 1 piú 1 e dire che, essendo tale somma 2, sarebbero passati due anni, è cronologicamente inesatto. E cosí, per estensione, tra una stessa data dell’1 a.C. e del 9 d.C., nonostante le apparenze non sono trascorsi 10 anni, ma 9. E infine, arrivando all’anniversario in questione, tra il 490 a.C.

e il 2010 d.C. sono trascorsi solo 2499 anni, e per il 2500° anniversario effettivo della battaglia bisognerebbe attendere appunto questo nostro settembre 2011. Il ragionamento può sembrare paradossale, ma è la conseguenza del fatto che, ai tempi in cui si decise di fissare la cronologia ora in uso, passando da una numerazione degli anni che è retrograda prima di Cristo, a quella progressiva della nostra èra dopo Cristo, si decise di non utilizzare un cosiddetto «anno 0» al posto dell’attuale anno 1 a.C.: il che avrebbe evitato ogni incertezza.

In alto: la baia di Maratona, situata 40 km circa a nordest di Atene. In basso: Maratona. Una rappresentazione teatrale svoltasi, nell’ottobre del 2010, ai piedi del Tumulo degli Ateniesi, innalzato in onore dei 192 caduti che la città dell’Attica lasciò sul campo, dopo la celebre battaglia. Nella pagina accanto: particolare di un oplita, dipinto su un vaso a figure rosse. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.


ELMO CORINZIO

Atene era una democrazia, e quel gesto di sfida era stato una scelta condivisa, la punizione avrebbe coinvolto l’intera cittadinanza. Pochi giorni prima, in quella fine estate del 490 a.C., la terribile sorte aveva già travolto Eretria, l’altra «colpevole». Colonne di fumo nero si erano levate dalle case e dai campi devastati, dalle pire dei corpi dei difensori caduti invano durante l’assedio: le si erano ben viste, dai monti dell’Attica. Donne e bambini erano stati fatti schiavi e depositati temporaneamente su una isoletta deserta dell’Egeo, come si raduna un gregge in uno stazzo in attesa di passare poi a mungerlo o a tosarlo. Quei miserabili, nonostante la successiva sconfitta persiana, finirono ugualmente deportati in una landa desolata dell’Asia, lontani mesi di cammino dal bel cielo blu dell’Egeo; e lí lasciati per sempre, come già successo ai piú irriducibili tra gli Ioni.

Tentennamenti democratici La cosa peggiore era che non solo i Greci, ma neppure gli Ateniesi erano uniti. Alcuni, nascostamente, parteggiavano per il tiranno, disapprovavano il ruolo di primo piano concesso al dèmos rimpiangendo i bei tempi dell’ordine imposto con la forza e col paternalismo dal vecchio tiranno, Pisistrato: e tifavano in cuor loro per il rientro del figlio, Ippia. Altri ancora, meno nascostamente, erano dell’idea che convenisse arrendersi, che si era fatto male a non aver offerto simbolicamente terra e acqua dell’Attica agli emissari che il Gran Re, prima dell’invasione, aveva inviato a tutte le città, proponendo salvezza in cambio di quella sottomissione formale e di un regolare tributo. E c’erano, infine, gli avversari peggiori, sommamente pericolosi proprio nel massimo pericolo, poiché erano notoriamente in buona fede e quindi capaci di portarsi dietro l’intera città: i pavidi, i troppo prudenti, i procrastinatori della battaglia. Affermavano che l’unica salvezza era da cercarsi dietro le mura,

LANCIA

CORAZZA IN LINO PRESSATO

SCUDO TONDO

sperando che lo scorrere del tempo, qualche evento inatteso, o l’arrivo dei tanto invocati Spartani rovesciassero un pronostico sfavorevole alla città. Atene, certo, non aveva piú un sovrano, né un tiranno: ma ciò voleva dire non avere neppure qualcuno in grado di porre rapidamente termine ai contra-

sti. Formalmente, la guida dell’esercito era ancora nelle mani dell’arconte polemarco, carica antichissima, risalente al regime aristocratico. E la riforma del sagace Clistene gli aveva sí affiancato dieci strateghi eletti dai cittadini, ma non lo aveva esautorato del tutto. Erano quelli i veri generali, che si altera r c h e o 51


storia battaglia di maratona navano di giorno in giorno al comando supremo. Ma le decisioni sul campo di battaglia andavano prese a maggioranza: e sempre all’arconte, in caso di parità tra i voti, spettava il parere decisivo. A questo punto, ecco intervenire un personaggio che salva dalla paralisi l’esercito ateniese. Tra i dieci strateghi ve ne è uno, Milziade, padre di Cimone, che ha una storia diversa dagli altri. È un nobile, ma non è sospettato di favorire il tiranno. Ha vissuto in un suo possedimento sull’Ellesponto, dove, dopo aver tentato di sostenere le ribellione ionica, ha già combattuto contro i Persiani per aprirsi la strada verso il ritorno ad Atene.

Le mosse vincenti Soprattutto, ha l’intelligenza di chi sa apprendere dai pericoli passati pur senza farsi intimidire dai rischi futuri. Se a cinque degli strateghi la fine di Eretria suggeriva ancor piú riluttanza nell’affrontare una battaglia, a lui e agli altri quattro insegnava invece che nulla era peggio che andare a chiudersi Stele forse raffigurante un oplita in corsa, rivenuta nel 1902 nei pressi del Theseíon (tempio di Efesto), nell’Agorà di Atene. 500 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

la vera storia di una corsa divenuta La storia dell’araldo di Maratona può collegarsi probabilmente all’estremo tentativo nemico di cogliere di sorpresa la città. Subito dopo la battaglia, infatti, i Persiani si imbarcarono per attaccare Atene dall’altro versante, prima che gli opliti ateniesi riuscissero a tornarvi. Ma gli invasori furono preceduti: quella stessa notte, infatti, tutti gli Ateniesi, e non uno solo di loro, percorsero a marce forzate la quarantina di chilometri fino alla città riuscendo a sbarrare anche lí la strada al nemico. Naturalmente è probabile che un araldo li abbia preceduti, affinché la notizia della vittoria conseguita e dell’esercito ancora intatto evitasse che gli Ateniesi rimasti in città si arrendessero

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come gli Eretriesi nella trappola delle mura. E quindi Milziade propose la battaglia in campo aperto: subito, però, visto che i Persiani erano già accampati a Maratona, a poche decine di chilometri dalla città. Erodoto racconta che a salvare gli Ateniesi fu la capacità retorica di Milziade, ancor prima che la sua esperienza militare. Riuscí infatti a persuadere il polemarco, coi dieci strateghi ancora bloccati sulla parità, a dare il consenso alla battaglia. I colleghi finiti in minoranza stranamente non se ne risentono, anzi, tutti e dieci si accordano per cedere, ogni giorno, il comando allo stesso Milziade, per assicurare continuità alle operazioni. Con grande tempismo, il generale sceglie un momento particolare per attaccare. Forse i Persiani stavano ripartendo da Maratona, per puntare direttamente sulla città, circumnavigando l’Attica, e aggirare cosí i difensori accampati ai bordi della piana. O forse, basandosi sulla indiscussa superiorità numerica, contavano di tenere allo stesso tempo impegnati gli Ateniesi lí con parte del loro esercito, mentre l’altra, soprattutto la cavalleria, veniva imbarcata e portata contro lo sguarnito porto del Falero, per effettuare un blitz sulla città. Milziade comprese che quella mossa gli offriva un’occasione irripetibile: il nemico si rischierava, si divideva, e la sua cavalleria cosí forse non avrebbe svolto alcun ruolo. In piú, contò sull’effetto sorpresa. Avvenne infatti allora quello che nes-

suno si attendeva: invertendo ogni logica, furono quelli che erano ridotti in difesa ad attaccare. Il piccolo aggredí il grande, una città andava all’assalto di un impero, movendo la falange oplitica a passo veloce lungo i 1500 metri che la dividevano dagli avversari. Quei guerrieri vestiti di ferro (30 kg tra armi e armatura, calcolano i moderni) attraversarono gli ultimi 300 metri di corsa, per evitare le frecce degli avversari. I Persiani – si racconta –, al vederli, «li presero per pazzi».

Il racconto di Erodoto Erodoto dice che la battaglia durò un lungo tempo, forse fino a sera. Il libro VI delle sue Storie è facilmente reperibile in buone versioni: e poiché è stato scritto per incantare – oltre che per raccontare – a quello rimando, poiché non si potrebbe scriver meglio. Grazie a storici come lui sappiamo come e perché gli Ateniesi vinsero, quel giorno, subendo 192 perdite tra i loro, contro ben 6400 dei nemici: i quali poi, giunti in ritardo con le navi anche sotto la città, volsero le prore all’indietro, rinunziando all’impresa (vedi box in questa pagina). A noi non resta che il tempo di una considerazione finale. L’importanza della battaglia fu assai piú psicologica che storica, poiché per la prima volta aprí gli occhi agli Ateniesi, e poi agli altri Greci su quanto stava accadendo. Fino a quel momento, essi avevano già realizzato straordinarie conquiste

leggenda vedendo arrivare la flotta nemica. Però quell’araldo non si chiamava Fidippide o Filippide, come spesso si ripete. Invece si chiamava cosí quell’altro che, secondo Erodoto, aveva compiuto una prestazione ben maggiore, andando e tornando da Sparta di corsa in quattro giorni (percorrendo in totale oltre 400 km!), per sollecitare l’aiuto degli alleati. Poi un altro autore antico, Luciano, parlando dell’episodio di Maratona, fece confusione tra i nomi, attribuendogli erroneamente quello di Filippide citato da Erodoto, anziché quelli, piú attendibili, di Euclea o Tersippo, menzionati invece da altre fonti. Comunque sia, è sicuro che i Greci eccellessero nella corsa, libera o in armi: da Achille piè veloce in poi.

per l’umanità: erano diventati cittadini, da sudditi; avevano creato la filosofia, il teatro e la democrazia; avevano avviato l’indagine razionale della natura, respingendo il mito sullo sfondo; avevano raffigurato il corpo umano in forme sempre piú organiche e naturali. Erano all’avanguardia, quasi in tutto. E però non lo sapevano: non sapevano di essere diventati diversi. Attraversare quel pericolo mortale, trovarsi di fronte un nemico fino ad allora sempre temuto ma remoto, guardarlo a fondo negli occhi nel corpo a corpo di uno scontro di fanteria, permise agli Ateniesi, come dinanzi a uno specchio, di vedersi quali oramai erano; di scoprire, con sgomento e assieme con entusiasmo, di essersi incamminati per una strada totalmente nuova; di essere divisi da quei nemici non solo e non tanto per il furore bellico, dall’«ira» cantata da Foscolo nei suoi Sepolcri: ma per quella loro scelta di essere liberi, per la «virtú greca». Proprio negli anni successivi a Maratona i Greci smisero di raffigurare nel marmo uomini e dèi con lo stereotipato quanto seducente «sorriso ionico», eredità stilistica dell’aristocrazia d’oltremare, quella stessa che non era riuscita a sottrarsi ai Persiani. Che cosa significava, quella nuova espressione seria e assorta che attraversò da allora i loro volti, perfino quelli degli atleti nel pieno dello sforzo, come il celebre Discobolo? Non rappresentava forse il destarsi, nel loro animo, della coscienza tragica? Non era il segno dell’acquisita consapevolezza che la via della libertà, da essi intrapresa, non è affatto una passeggiata spensierata, ma un cammino rischioso e terribile, che pone nelle mani dell’uomo tutto il bene e tutto il male fino a quel momento attribuiti a un imperscrutabile destino? E la Storia, anche la Storia, che non casualmente nasce con Maratona, non è forse anch’essa un prendere coscienza di sé, guardandosi allo specchio del passato? a r c h e o 53


storia origini di roma/9

La leggenda dei di Daniele F. Maras

re dimenticati L

a storia di Servio Tullio, figlio della schiava Ocresia, adottato dal buon Tarquinio e suo successore per intercessione della regina Tanaquil, non è meno romanzesca di quelle degli altri re che lo avevano preceduto sul trono di Roma. A proposito di questi ultimi, però, disponiamo di alcune fonti alternative, che provano l’esistenza di tradizioni molto diverse da quelle entrate nella versione piú nota della storia romana. La piú preziosa di queste fonti viene da un discorso dell’imperatore Claudio del 48 d.C., che difendeva in Senato la richiesta della cittadinanza romana avanzata dagli abitanti della Gallia Comata (l’odierna Francia centro-settentrionale). Per ottenere tale obiettivo, il dotto imperatore – che si dilettava di storia antica e in particolare di questioni etrusche – passò in rassegna alcune occasioni in cui i Romani avevano accolto tra loro cittadini stranieri, fino ai massimi livelli istituzionali.

Una storia ritrovata I Galli, grati della benevolenza imperiale, fecero incidere il discorso su tavole di bronzo, che probabilmente vennero esposte nelle principali città della regione: una di esse fu ritrovata a Lione (l’antica Lugdunum) e ha conservato fino a noi gran parte delle parole di Claudio. È cosí che sappiamo che l’imperatore conosceva un racconto ben diverso dell’ascesa al trono di Servio Tullio: «Se diamo retta agli Etruschi», dice Claudio, «si trattava del compagno fedelissimo di un certo Celio 54 a r c h e o

Vivenna, con cui condivise tutte le sue avventure; dopo alterne vicende, uscí dall’Etruria con tutti i resti dell’esercito celiano, occupò il colle Celio a Roma (che dal suo comandante si chiamò cosí) e, dopo aver cambiato nome – dato che in etrusco era chiamato Mastarna –, prese quello di Servio Tullio e ottenne il regno, con enorme vantaggio per lo

Mentre si scavavano le fondamenta del Tempio di Giove, sopra il Monte Tarpeo, fu ritrovata la testa di un uomo recisa di fresco, furono consultati gl’Indovini, quali risposero che quel luogo doveva essere un giorno la Capitale d’Italia, e da questo prese poscia il nome di Monte Capitolino. Incisione all’acquaforte di Bartolomeo Pinelli (1781-1835), da «Istoria Romana». 1818.


Una tradizione (che gli autori antichi hanno cercato invano di cancellare!) narra dell’arrivo, a Roma, di condottieri etruschi che sconfiggono i Tarquinii e si insediano sui colli della città, attribuendo a essi addirittura il propri nomi. Forse la « trionfale marcia del popolo romano» non fu, dunque, cosí priva di ostacoli come viene abitualmente rappresentata…

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storia origini di roma/9 Stato». Nel sottolineare come il re fosse di origine straniera, Claudio, tra le righe, racconta anche che si trattava del luogotenente di un comandante militare etrusco, il quale, dopo varie peripezie (a cui accenna solo di sfuggita), sarebbe arrivato a Roma per poi salire al trono. La medesima storia è narrata anche da Tacito, il quale racconta di un aiuto prestato da Celio Vibenna al re Tarquinio Prisco, che gli aveva assegnato come sede il colle Celio, che da lui prendeva nome. Il grammatico latino Festo conosceva invece una versione secondo la quale anche il cosiddetto vicus Tuscus, il «quartiere etrusco» di Roma, aveva preso il nome dai seguaci di Celio Vibenna e di suo fratello Aulo, i quali sarebbero venuti da Vulci. Infine, lo scrittore cristiano Arnobio e il grammatico latino Servio

ricordavano una tradizione secondo la quale il Campidoglio, in latino Capitolium, avrebbe preso il nome dalla testa di un certo Olo di Vulci (caput Oli) – ritrovata nel corso degli scavi per le fondamenta del Tempio di Giove –, in cui non è difficile riconoscere il nome deformato di Aulo Vibenna. In ben due casi, dunque, si riteneva che il nome di altrettanti colli di Roma derivasse dai fantomatici fratelli etruschi: vale allora la pena di scoprire chi fossero veramente.

Eroi dipinti Sin dal XIX secolo nella necropoli di Vulci si conosce un’eccezionale tomba dipinta della seconda metà del IV secolo a.C., denominata Tomba François dal nome dello scopritore (l’archeologo fiorentino Alessandro François, 1796-1857), che conserva un ricco fregio figurato nella sala centrale, immaginata come un atrio a forma di «T», sul quale si aprono tutte le camere funerarie (vedi box a p. 58). Ai lati della porta della camera di fondo, si oppongono due grandi affreschi, che continuano sulle pareti laterali: a sinistra è la scena del sacrificio umano dei prigionieri troiani, compiuto da Achille sulla tomba di Patroclo alla presenza dei demoni etruschi della morte; a destra, invece, è rappresentata un’azione militare com-

un dono firmato «aulo vibenna» La storicità dei fatti ricostruiti in base alle fonti su Mastarna e i fratelli Vibenna, al di là della normale diffidenza sugli eventi reali, «romanzati» e deformati dalla soggettività delle fonti letterarie antiche, può però appoggiarsi su alcuni documenti concreti. Del primo e piú importante, i dipinti della Tomba François, si è già parlato, osservando come si tratti di una rievocazione epica di fatti storici, rifunzionalizzata nel contesto delle lotte contro Roma in età alto-ellenistica. Esistono anche altri oggetti iscritti, che dimostrano come i fratelli Vibenna e in particolare il piú giovane Aulo, siano stati mitizzati in Etruria meridionale, trasformando le loro gesta in materia di leggenda. Una coppa etrusca a figure rosse da Vulci, raffigura

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due satiri ubriachi, uno dei quali trasporta sulle spalle un otre; la didascalia in etrusco recita: avles v(i)pinas naplan, «otre di Aulo Vibenna». Evidentemente l’arcaico condottiero etrusco era considerato un modello di grande bevitore, tanto da essere associato alla smodata passione dei satiri per il vino: quasi un novello Ercole, che reggeva l’alcol grazie alla sua forza prodigiosa. Su uno specchio di bronzo inciso proveniente da Bolsena è raffigurata la scena dell’agguato di Avle e Caile Vipinas al profeta Cacu (evidentemente lo stesso personaggio del mostruoso brigante Caco raccontato da Virgilio, ma qui trasformato in un vate apollineo): nel suo insieme la scena ricorda diversi casi di cattura di indovini da parte degli eroi del mito, che desideravano


A sinistra: Vulci, Tomba François. Mastarna libera dalle catene Celio Vibenna, affresco proveniente dalla cella III. Seconda metà del IV sec. a.C. Nella pagina accanto: Coppa Rodin. Kylix etrusca a figure rosse, da Vulci. Nel tondo interno è raffigurata una coppia di satiri ebbri, uno dei quali è seduto su un cratere rovesciato, mentre l’altro trasporta sulle spalle un otre, definito dalla didascalia «naplan di Avle Vipinas»: nella prima parola va probabilmente riconosciuto il nome etrusco dell’oggetto. 400 a.C. circa. Parigi, Musée Rodin. In basso: stelo di calice in bucchero con dedica di Aulo Vibenna, dal santuario di Portonaccio a Veio, rinvenuto insieme al materiale del deposito votivo arcaico dedicato alla dea Menerva. Prima metà del VI sec. a.C. Roma, Museo nazionale Etrusco di Villa Giulia.

conoscere il proprio destino. Anche qui i fratelli vulcenti sono proiettati in una sfera mitologica e trasformati in remoti eroi del passato (e anche a Roma Varrone conosceva una variante secondo la quale i Vibenna sarebbero giunti a Roma all’epoca di Romolo!). Ma tra tutti, il documento piú impressionante per il valore storico che riveste è un calice di bucchero, del quale resta solo lo stelo, offerto in dono a Menerva nel santuario di Portonaccio nella prima metà del VI secolo a.C. e recante un’iscrizione incisa in etrusco arcaico: mine mulvanece Avile V [i ]piiennas, «mi ha donato Aulo Vibenna». Si tratta senza dubbio di un dono votivo offerto dal

plessa, culminante nella liberazione di Caile Vipinas da parte del fedele Macstrna: appare facile riconoscere i nomi etruschi di Celio Vibenna e Mastarna. Accanto a loro altri compagni hanno sorpreso nel sonno e si accingono a uccidere un gruppo di nemici, evidentemente responsabili della cattura di Celio: tutti sono indicati per nome e degli avversari è data anche la provenienza. Cosí Larth Ulthes uccide Laris Papathnas di Volsinii, un certo Rasce colpisce Pesna Arcmsnas, forse di Sovana, e Avile Vipinas (Aulo Vibenna) sta sopraffacendo un guerriero biondo denominato Venthi Cal[e]. Girato l’angolo, la scena si conclude con il duello tra Marce Camitlnas e un certo Cneve Tarchunie di Roma, che soccombe, nel quale si deve evidentemente riconoscere un membro della famiglia dei re Tarquinii: forse uno dei figli del Prisco o un altro parente non altrimenti noto. Il raffronto immediato con la scena mitologica dimostra che a Vulci la compagnia dei Vibenna era ritenuta paragonabile agli eroi omerici e che, come Achille trucidava i progionieri troiani, cosí gli Etruschi, novelli Greci, si auguravano di sbaragliare i Romani, ripetendo i successi dei mitici fratelli Vibenna all’epoca dei re di Roma. È evidente l’intento celebrativo della raffigurazione, che non può essere quindi ritenuta una fonte

condottiero vulcente, di passaggio a Veio nel suo viaggio verso Roma al seguito del fratello Celio, iscritto in grafia locale a cura del personale dell’importante santuario veiente, che alle sue dipendenze ospitava anche una scuola di scrittura. È questo uno dei rarissimi casi in cui gli eventi storici si fanno concreti e si possono toccare con mano: è un po’ come se un personaggio della storia e del mito avesse lasciato per noi un messaggio: «Io sono stato qui!».

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storia origini di roma/9 pitture degne del botticelli e del perugino Nel resoconto della scoperta che lo rese famoso, Alessandro François manifestò la soddisfazione di un archeologo conscio dell’importanza dei risultati delle sue ricerche. Dall’articolo – scritto nel 1857 per il Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica – affiora la gioia di quando era entrato per la prima volta nell’atrio della tomba: «Era ricoperto di esimie pitture munite ciascuna figura di ben chiara iscrizione etrusca, senza della quale circostanza si sarebbe creduto che questo sepolcro avesse appartenuto ad altra epoca, tanta è la bellezza delle medesime pitture da far rammentare i bei tempi del Botticelli e del Perugino». Era un premio alla sua perseveranza: già da alcuni anni, infatti, aveva sperato di scavare a Vulci. Nel 1852 si era incontrato con Alexandrine de Bleschamp, vedova di Luciano Bonaparte e proprietaria di una tenuta di 8000 ettari nella zona, ma i contatti non avevano avuto seguito. Nel 1855 la principessa di Canino morí e la proprietà passò rapidamente di mano. Nel 1857 il principe Alessandro Torlonia, il nuovo proprietario, consentí a François d’indagare nelle sue terre. Fu una scelta indovinata: già nelle prime settimane di scavo, in località Ponte Rotto, fu individuata la tomba che porta ancora oggi il nome del suo scopritore. Il risalto della scoperta fu notevole. Nel 1863 gli affreschi che ornavano la sala furono staccati per ordine del principe Torlonia e acquisiti alla sua collezione privata. (red.)

oggettiva per ricostruire un evento particolare: è infatti possibile che le origini disparate dei nemici alludano a scontri diversi e alle «alterne vicende» a cui faceva cenno Claudio; ma anche la liberazione del comandante Celio da parte di Mastarna, il futuro Servio Tullio, sottintende una sconfitta precedente, a cui ora si pone rimedio. Ciò che sembra chiaro è che, agli occhi degli abitanti di Vulci del IV secolo a.C., la compagnia di Celio Vibenna ebbe parte attiva in scontri militari, che videro, tra l’altro, la sconfitta di almeno una fazione dei Tarquinii di Roma.

Un altro re di Roma? Ma che cosa successe in realtà a Roma? Il discorso di Claudio accenna all’arrivo in condizioni difficili dei «resti dell’esercito celiano» sul colle Celio, condotti da Mastarna; la qual cosa ha portato alcuni studiosi a ipotizzare che il comandante Celio Vibenna fosse morto nel frattempo. In verità, come abbiamo visto, la fonte di Festo parla di lui come ancora vivo, quando il re Tarquinio gli concesse ospitalità sul colle; per cui altri hanno immaginato che Mastarna avesse il comando in occasione della prigionia del condottiero vulcente (raffigurata con evidenza nella Tomba François). Probabilmente non sapremo mai quale fosse il racconto originario delle gesta di questi uomini d’arme arcaici, a meno che nuove scoperte non portino alla luce i passi dell’opera degli annalisti, tra cui Fabio Pittore, che trattavano la questione. Sta di fatto che i fratelli Vibenna dovevano essere stati figure Vulci. Tomba François. Una delle scene ispirate agli eventi del VI sec. a.C. che ebbero come protagonisti una coalizione guidata da Vulci, Roma e altre città etrusche. Seconda metà del IV sec. a.C. Larth Ulthes (nome di origine chiusina), vestito di una corta tunica bianca orlata di rosso, affonda la spada nel fianco di Laris Papathnas Velznach (di Volsinii).

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per saperne di piú Giuseppe Valditara, A proposito di un presunto ottavo re di Roma, in Studia et Documenta Historiae et Iuris LIV, 1988, pp. 276-284. Francesco Marcattili, Servio Tullio, i Vibenna e le letture della tradizione, in Etruschi. Le antiche metropoli del Lazio, catalogo della mostra (Roma, 2008-2009), Milano 2008, pp. 188-197.

Daniele F. Maras, Ancora su Mastarna, sodalis fidelissimus, in Annali della Fondazione Claudio Faina di Orvieto XVII, 2010, pp. 187200. Rossella Laurendi, La monarchia etrusca a Roma e il nomen di Servio Tullio: epos e storia. Dati e considerazioni sulla Tavola di Lione e la Tomba François, in Polis, III, 2010, pp. 123-146.

A destra: Vulci. Tomba François. Un personaggio di nome Rasce (appartenente al gruppo dei Vibenna) uccide Pesna Arcmsnas Sveamach (di Sovana?), che si protegge con un mantello, forse perché colto nel sonno dall’assalto notturno condotto da Aulo Vibenna. Seconda metà del IV sec. a.C.

importanti della storia arcaica di Roma e che la loro completa scomparsa dalla versione tradizionale (che voleva Servio Tullio figlio di una schiava di Tanaquil) indica una precisa scelta politica e culturale, intesa a «ripulire» il passato di Roma da scomodi personaggi di conquistatori stranieri. E un ulteriore indizio dell’autorità avuta dai fratelli vulcenti a Roma viene da una notizia riportata dal cosiddetto «Cronografo di Vienna», datato al IV secolo d.C., secondo la quale sulla famosa testa ritrovata nelle fondamenta del Tempio di Giove Capitolino era scritto in lettere etrusche «testa del re Olus»: fatto che attribuisce rango regale al fratello minore di Celio Vibenna. Nel commentare la notizia – liquidata come una fantasia incredibile – Arnobio rimanda per ulteriori approfondimenti ad altri autori che avevano raccontato la vicenda, nelle cui opere si sarebbe potuto trovare «di chi fosse figlio Olus, quale la sua famiglia e l’origine, come fu che perse la vita per mano di un servetto del fratello (ovvero di chi fosse servo colui che lo uccise: la critica è in dubbio sull’interpretazione del passo), cosa si sia meritato dai suoi concittadini e come gli fosse stata negata

sepoltura in patria». Già da questi accenni possiamo immaginare come la storia fosse lunga e complessa e che fosse stata ampiamente trattata da alcuni autori (tra cui gli annalisti), anche se fu poi abbandonata dalla tradizione ufficiale.

Da «servo» a «Servio» Tra gli elementi che si possono ricavare dalla stringata notizia di Arnobio, il piú intrigante è senza dubbio l’accenno alla morte di Aulo Vibenna per mano di un servo, che offre la possibilità di una interpretazione forse un po’ romanzesca, ma in verità non troppo azzardata. Tutte le fonti latine insistono sull’origine servile di Servio Tullio, che anche nel nome ricorderebbe la sua condizione originaria non libera. Inoltre, l’analisi di Massimo Pallottino del nome etrusco Macstrna ha dimostrato che esso significa letteralmente «Colui che appartiene al magister» (termine latino arcaico che indica il capo militare), ovvero un attendente o un luogotenente – piú che un servitore – del comandante Celio Vibenna. La stessa espressione usata da Claudio, sodalis fidelissimus, «il compagno piú fedele», indica in realtà, in contesti arcaici, uno speciale rapporto di dipendenza nell’ambito di

un’associazione militare di stampo aristocratico. Il «servetto» disprezzato dalle fonti di Arnobio era quindi molto probabilmente lo stesso Mastarna, che si rivoltò contro Aulo, proclamatosi re presumibilmente dopo la morte del fratello Celio, e lo uccise per poi ottenere il regno di Roma «con enorme vantaggio per lo Stato» (come recitava il discorso dell’imperatore Claudio). (9 – continua) le puntate di questa serie • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio, un re voluto dagli dèi • Tullo Ostilio: la guerra come ragion di Stato • Anco Marzio. In equilibrio tra guerra e pace • Tarquinio Prisco, lo straniero che divenne re • La leggenda dei re dimenticati • Servio Tullio e la riforma dello Stato • Tarquinio il Superbo • La nascita della Repubblica a r c h e o 59


speciale vallo di adriano

Testa in marmo di Adriano, imperatore dal 117 al 138 d.C. Roma, Galleria Borghese. Sulle due pagine: fotografia aerea della fortezza di Vercovicium (Housesteads Roman Fort), in Northumbria. L’accampamento, costruito a ridosso del Vallo di Adriano, è il piĂš imponente e meglio conservato.


Ai confini della civiltà di Domenico Gambardella

Gli imponenti resti del Vallum Aelium – il Vallo di Adriano - che, per secoli, fu la piú settentrionale linea di difesa dell’impero romano, si estendono ancora oggi per oltre 100 km, da una costa all’altra della Gran Bretagna. La visita ai siti archeologici che scandiscono il suo tracciato, calati in un contesto paesaggistico di grande suggestione, offre la possibilità di rivivere un capitolo straordinario della nostra storia…

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speciale vallo di adriano

C

ielo plumbeo e vento incessante. Sono loro a scandire il tempo nei due ettari del forte romano di Vercovicium, in Northumbria, terra inglese ai confini con la Scozia. È l’accampamento militare meglio conservato lungo la frontiera voluta nel 122 d.C. dall’imperatore Adriano, 117 km che serpeggiano tra vallate e resti di vita quotidiana romana. Oggi è conosciuta come il Vallo di Adriano, duemila anni fa lo era per essere il confine piú a settentrione fra barbari e mondo civilizzato. Vercovicium sorgeva immediatamente a ridosso del Vallo. Lo si può osservare solo quando si arriva nel punto piú alto. Da lassú lo sguardo si perde nella brughiera della contea del Northumberland e tra rettangoli verdi e file di pietre bianche e nere che delimitano il perimetro degli appezzamenti. Il terreno ondulato disturba, ma non impedisce di leggere l’assetto di un accampamento romano ai confini dell’impero: pianta rettangolare con angoli arrotondati, quattro porte d’ingresso, due vie principali che dividevano in tre grandi settori gli

spazi di chi comandava, centralità dei luoghi in cui si prendevano le decisioni, e poi granai, latrine, ospedali. Era tutto il necessario per consentire a soldati ausiliari e a un distaccamento di legionari una vita decorosa. A Vercovicium erano quelli della Legio II Augusta. Un militare romano di stanza lungo il Muro aveva un compito preciso: presidiare la frontiera piú a nord dell’impero. Per trecento anni non ne ebbe altri.

Finis Terrae Quando nel 122 si pose la prima pietra, Adriano sedeva sul trono di Roma da cinque anni durante i quali aveva visitato Gallia, Germania, Rezia e Norico. Nel corso di quei viaggi maturò l’idea, che fu poi la sua stella polare nel governare: rafforzare Roma, consolidando i territori che i suoi predecessori avevano conquistato. Ma facciamo un passo indietro: a cos’erano Roma e la Britannia prima di Adriano. Per i Romani quell’isola dal clima umido non era attraente. Nell’immaginario collettivo rappresentava il limite del

mondo: non si conoscevano dimensioni, né natura dei luoghi, era difficile da raggiungere e l’abitava gente d’indole bellicosa che amava portare tatuaggi sul corpo, e maschere sul viso. Giulio Cesare fu il primo a ostentare le insegne di Roma in Britannia. Da Romano conquistatore giunse sulle coste del Kent nel 55 a.C. con un pretesto ufficialmente inattaccabile: le tribú dell’isola aiutavano la resistenza dei Galli. Non era cosí, Giulio Cesare lo fece perché aveva necessità di bilanciare le glorie militari di Pompeo nel Caucaso. Piú che una spedizione fu una ricognizione, che però non ebbe buon esito: a causa di una tempesta le navi furono danneggiate, specie quelle addette al trasporto dei cavalli, e i legionari non riuscirono a penetrare quel territorio completamente sconosciuto. Ci riprovò l’anno successivo, senza però ottenere grandi risultati. Canterbury fu il limite estremo raggiunto da Cesare, che di lí ripartí alla volta di Roma. In città il generale fu accolto comunque come un vincitore, nonostante avesse consegnato al senato

I romani in britannia 55-54 a.C. 27 a.C. 40 d.C. 43 d.C.

47 d.C. 61 d.C. 70-84 d.C. 100 d.C. 122 d.C.

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pedizione di Giulio Cesare in Britannia S ugusto progetta spedizioni, non A

compiute, in Britanna L’imperatore Caligola dà ordine di invadere la Britannia, ma la spedizione viene sospesa Per ordine dell’imperatore Claudio, truppe guidate da Aulo Plauzio, invadono la Britannia agli inizi dell’estate; nel mese di agosto i Romani conquistano Camulodunum (Colchester) La Britannia meridionale è conquistata dai Romani; Aulo Plauzio rientra a Roma ed è sostituito da Publio Ostorio Scapula Tentativo di rivolta degli Iceni, guidati dalla regina Boudicca L’Inghilterra settentrionale, la Scozia e il Galles sono conquistati dai Romani I Romani perdono la Scozia L’imperatore Adriano inizia la costruzione del vallo che segna il confine tra territori romani e barbari

140-143 d.C. 196 d.C. 211-212 d.C. 260-274 d.C. 296 d.C. 306 d.C. 367-369 d.C. 383 d.C. 398-400 d.C. 409 d.C.

I Romani avviano la riconquista della

Scozia; si costruisce il Vallo di Antonino Le legioni acclamano imperatore Clodio Albino, governatore della Britannia La Britannia è divisa in due province L’usurpatore Postumo dà vita all’«impero gallico», comprendente la Britannia La Britannia viene riconquistata da Costanzo. La Britannia diviene diocesi e viene divisa in quattro province Alla morte di Costanzo, le truppe di stanza in Britannia ne acclamano imperatore il figlio, Costantino Teodosio riconquista la Britannia Magno Massimo proclamato imperatore dalle legioni britanniche; viene respinta una invasione dei Pitti Nuove guerre e vittorie contro Pitti, Scoti e Sassoni, al termine delle quali le truppe vengono richiamate in Italia La Britannia si rivolta contro Costantino III; fine del dominio romano in Britannia


l’impero romano

Mare del Nord

Mar Baltico

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Britannia

La britannia romana

Germania . Bel Inf. up gica Nugdu aS nen ani m sis r Ge Noricum Raetia no Pan Aquitania

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(innalzato a partire dal 142 d.C.)

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Vallo di Adriano

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(innalzato a partire dal 122 d.C.)

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(Housesteads Roman Fort)

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(Binchester)

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Cataractonium

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Carta della Britannia romana. Sono segnalati i tracciati del Vallo di Adriano (122-127 d.C.) e del Vallo di Antonino, posto piú a nord, la cui costruzione fu completata intorno al 150 d.C.

Vercovicium

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Oceanus Britannicus (Canale della Manica)

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speciale vallo di adriano solo trattati con alcune tribú e una maggiore conoscenza dei popoli che abitavano quella misteriosa isola al di là della Manica. Ad Augusto avventurarsi in Britannia non interessava, e con i clan dell’isola si limitò a mantenere solo rapporti diplomatici e commerciali, e cosí fece anche Tiberio.

L’inizio della conquista A rompere una politica fatta di fragili equilibri fu Claudio, che nel primo semestre del 43 d.C., fu il primo imperatore a tentare la conquista dell’isola. Sulle coste meridionali sbarcarono quattro legioni seguite dalle truppe di appoggio, per un totale di quasi 40 000 uomini. All’uomo che dirigeva l’impresa, il governatore Aulo Plauzio, l’ordine di Claudio fu chiaro: conquistare quella terra, che aveva respinto Cesare quasi un secolo prima. Ci vollero due anni di feroci combattimenti per assoggettare una parte dell’isola, quella del sud. La Britannia divenne cosí una provincia imperiale, sottoposta al governo di un legatus Augusti pro praetore di rango consolare. La presenza romana fu poi suggellata nello scegliere Camulodunum come capitale e nel fondare colonie come quella di Londinium (Londra). La conquista non portò saggezza nella gestione. Il dominio di Roma fu brutale, oppressivo, e gli effetti non tardarono ad arrivare: una rivolta distrusse Camulodunum e solo l’arrivo della XIV Legione frenò gli insorti. La nuova capitale divenne Londinium, favorita in questo dalla sua eccellente posizione strategica come testa di ponte sul Tamigi. Fu il primo periodo d’oro della futura Londra. Tacito, infatti, la descrive come un frequentatissimo emporio commerciale in cui una moltitudine di mercanti trattava oro, ferro, stagno, pelli di animali: merci pronte per essere immesse nel Continente. Erano gli anni dell’imperatore Nerone (54-68 d.C.), ma di frontiere stabili in Britannia ancora non

si parlava. Nel senato, semmai, circolava la voce di un possibile abbandono dell’isola: una notizia confermata dalla riduzione del numero delle legioni, che da quattro passarono a tre. Ma la storia racconta che quelle dicerie erano, in realtà, infondate: l’aver sottratto una legione non impedí, nel decennio fra il 50 e il 60 d.C., una lenta conquista verso il nord. La romanizzazione del territorio fu poi portata avanti attraverso la costruzione di strade e la fondazione di nuove città. La difesa dei confini, soprattutto quelli a nord, era il problema militare piú pressante per l’uomo che Roma destinava al controllo della Britannia. A quel tempo le linee di frontiera, lontane dall’idea che si ha oggi di quello esistente tra due Stati sovrani, correvano spesso a ridosso dei territori occupati dalle tribú non assoggettate. In alcuni casi, e solo se i Romani lo ritenevano necessario, si costruivano forti anche

Acquarello raffigurante soldati romani impegnati a respingere un attacco nemico lungo un tratto del Vallo di Adriano. 1920. Collezione privata. La linea fortificata, che si estendeva per 120 km congiungendo la costa occidentale a quella orientale, separava le aree poste sotto il controllo romano da quelle in cui erano stanziate le tribú del nord della Britannia. La frontiera era intervallata da accampamenti militari a distanze regolari e torrette di guardia.

non fu semplice, nonostante il numero delle legioni dislocate sul territorio fosse stato riportato a quattro. In alcuni frangenti la fortuna voltò le spalle a Roma, tanto che Agricola pensò addirittura di rinunciare alla conquista. Nel 79 i legionari si spinsero fino ai fiumi Tyne e al Solway, impostando un tracciato di fortificazioni che non si discostò molto dalla linea che, quarant’anni dopo, Adriano utilizzò per il «suo» Vallo. Decisiva si rivelò la vittoria riportata nell’84 d.C. da Agricola sul Mons Graupius contro i Caledoni. Per Tacito, suocero di Agricola, il comandante romano ottenne quel successo con un autentico capolavoro militare: al grido «Non sarà senza gloria essere caduti ai confini ultimi della terra e della natura» l’esercito romano, in minoranza, fu in grado di accerchiare il nemico e batterlo.

Con l’imperatore Claudio, alla metà del I secolo, la Britannia divenne una provincia di Roma

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oltre le frontiere. Cosí facendo quando il confine si spostava in avanti, e nuove tribú venivano inglobate nella provincia, quei forti diventavano operativi come accampamenti di difesa. L’idea di allestire complesse opere fortificate era ancora lontana, cosí come quella di impiegare l’esercito a tali scopi, che si limitava a compiti di controllo. La condotta militare cambiò nel 75 d.C., l’anno dell’arrivo in Britannia del governatore Giulio Frontino. Questi studiò, in particolare per il Galles, uno schieramento di campi fortificati coadiuvati da piccoli forti retti da truppe ausiliarie, pronte a essere appoggiate da grandi fortezze legionarie retrostanti in caso di attacco. Fu la premessa all’avanzata decisa verso il nord dell’isola. Due anni piú tardi, con Gneo Giulio Agricola governatore, si passò ai fatti: la conquista

Frontiere stabili In quel momento i confini dell’impero romano in Britannia raggiunsero il limite massimo e anche le Highlands scozzesi sembravano a un passo dall’essere conquistate. Ma Agricola rientrò in patria, richiamato dall’imperatore Domiziano, e i suoi successori non andarono oltre. Addirittura, sotto Traiano, i forti settentrionali piú esposti al rischio di possibili attacchi furono abbandonati e il confine si abbassò fino all’istmo Tyne-Solway. Tutto rimase immutato fino al 122, anno in cui Publio Elio Adriano si


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speciale vallo di adriano

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A sinistra: Vercovicium, i resti della Porta Nord del forte, lungo il percorso del Vallo adrianeo. In basso: Vercovicium. Gli alloggi del comandante dell’accampamento. Nella pagina accanto: acquarello raffigurante una torre di guardia del forte di Vercovicium. XX sec. Collezione privata. Lungo 186 m e largo 112 circa, l’accampamento aveva pianta rettangolare con angoli arrotondati muniti di torrette e porte d’ingresso per ogni lato, dalle quali partivano le strade principali che dividevano il sito in settori. A Vercovicium si conservano, oltre ai resti delle caserme, quelli dell’unico ospedale romano in Gran Bretagna.

trionali della provincia, quanto l’integrità stessa dell’occupazione romana. Adriano si rese conto della situazione e riportò definitivamente indietro i confini di ben 130 km rispetto ai limiti raggiunti e oltrepassati da Agricola.

recò in Britannia e nominò governatore Aulo Platorio Nipote. Come già detto, in politica estera le idee dell’imperatore erano chiare: consolidare le conquiste del suo predecessore Traiano, fissando frontiere segnate da solide barriere. Ma Adriano capí che non bastava, e andò oltre: decise che le unità stanziate lungo i confini dovevano divenire presidi permanenti di frontiera; inoltre, truppe ausiliarie e legioni erano tenute a spostarsi solo di rado, e non come accadeva nel I secolo d.C., quando era normale che, in caso di crisi, fossero trasferite da un capo all’altro dell’impero. Intanto in Britannia, intuita la debolezza romana, le tribú del Nord recuperavano porzioni sempre piú vaste di territorio. A rischio non erano piú soltanto le regioni setten-

Il limes, da costa a costa In altre regioni dell’impero individuare linee di confine riconoscibili e identificabili era un compito che poteva essere affidato a fiumi quali Reno, Danubio ed Eufrate. In Britannia la situazione era diversa: corsi d’acqua cosí imponenti mancavano e il limes piú estremo dell’impero fu realizzato sulla carta, congiungendo i 117 km che dividevano gli estuari del Solway a ponente e del Tyne a levante. Si decise di fissarli sul territorio in modo permanente innalzando da mare a mare un muro quasi interamente in pietra. Il Vallo di Adriano (in latino Vallum Aelium), una delle opere piú straordinarie e ambiziose dell’antichità, stava prendendo forma. I lavori iniziarono nel 122 e si prolungarono per cinque anni. La costruzione fu affidata quasi interamente ai soldati delle tre storiche legioni presenti sul suolo britannico: la II, di stanza a Caerleon (Isca Silurum), nel sud del Galles, la VI di York (Eburacum) e la XX, alloggiata a a r c h e o 67


speciale vallo di adriano Chester (Deva). Il primo obiettivo degli ingegneri fu quello di delineare il tracciato dell’opera. Lungo i 70 km che separavano Wallsend-onTyne dal fiume Irthing si decise di realizzare una struttura con fronti di pietra e riempimenti di pietrame e calce. Per i rimanenti 47 km, sino a Bowness, in mancanza di massi, si escogitò di elevare la linea fortifica-

ta con zolle di terra alte 4 m circa e per una larghezza di 6. Il passo successivo fu il dislocamento delle guarnigioni lungo il bastione. L’idea iniziale prevedeva che il Vallum venisse situato tra le unità dell’esercito e il nemico. Generali e architetti compresero subito che quel posizionamento poteva solo arginare scorrerie e atti di brigan-

taggio, ma non fermare un’invasione. Inoltre, le aperture, situate a intervalli di 1 miglio romano (1480 m), erano sufficienti per il traffico civile, ma non per l’esercito. Per impedire un’azione in massa occorreva l’azione combinata di reggimenti pronti a uscire e affrontare cosí i nemici sul campo. L’assetto del Vallo, nel suo progetto originario,


In alto: Vercovicium, un’altra immagine dei resti della Porta Nord, e un tratto del perimetro del Vallo adrianeo. A sinistra: la Porta Nord presidiata da soldati romani, in un acquarello del XX sec. Collezione privata.

avrebbe dunque notevolmente ostacolato la flessibilità di movimento delle truppe. Si decise di porre subito rimedio e il progetto fu modificato in corso d’opera: sedici forti retrostanti furono abbandonati e se ne costruirono di nuovi a ridosso del Vallum stesso. Con il passare dei mesi gli elementi che definivano il muro prendevano forma. La costruzione dei forti fu accompagnata dallo scavo di un nuovo terrapieno, che si estese per tutta l’ampiezza della barriera. Era un fossato centrale, con argini da entrambi i lati, interrotto da varchi, ma solo in corrispondenza dei forti e delle principali vie di comunicazione che attraversavano la frontiera a nord.

Gli uomini del Vallo Il Vallo non era impenetrabile. A intervalli di 1 miglio c’erano le già citate porte singole, protette da castelli miliari costruiti insieme al muro. In totale erano circa un’ottantina e potevano contenere solo poche decine di uomini. Nell’intervallo tra un fortino e l’altro sorgevano due torrette di guardia incassate nel muro, di forma quadrata e con uno spazio interno di 13-14 mq. Costruite in pietra, distavano tra loro 500 m ed erano presidiate a

turno dai soldati dei fortini vicini. Gli accampamenti dei soldati, edificati dopo la messa in opera del muro, variavano sia nelle dimensioni che nella posizione. Potevano ospitare una singola unità ausiliare di fanteria, quasi 500 uomini, divisi in sei centurie e comandati da un praefectus cohortis, un uomo di rango equestre proveniente dall’Italia o da regioni già romanizzate come Gallia o Spagna. Dirigere un’unità ausiliare significava salire il primo gradino di una carriera che, nel migliore dei casi, poteva culminare con la nomina a prefetto del pretorio e con il comando della guardia del corpo dell’imperatore. Ma chi erano gli uomini che presidiavano il Vallo? La guarnigione di stanza sulla linea fortificata, quella che occupava i castelli miliari, le torrette e i forti, contava tra i 10 e i 12 000 uomini. Se ai legionari toccò costruire, la difesa spettò agli ausiliar i (auxilia), soldati che nell’esercito integravano le legioni, fornendo fanteria leggera, cavalleria e reparti speciali come gli arcieri. In combattimento assicuravano duttilità d’azione e mobilità, impossibili per la fanteria legionaria, armata pesantemente. Chi aveva cittadinanza romana non amava arruolarsi come ausiliario, soprattutto per a r c h e o 69


speciale vallo di adriano urbanistica di un accampamento Gli alloggiamenti dei soldati posizionati lungo il Vallo di Adriano erano a distanze quasi regolari di 4 miglia (6000-6500 m), in stretto rapporto alla possibilità di provviste d’acqua e foraggio. Davano alloggio a una centuria di fanteria (dalle 60 alle 100 unità) che si muoveva in uno spazio non minore di 1-2 ettari. Edifici e strade erano disposti come nelle piccole città: una via procedeva da nord a sud larga non meno di 5,50 m: era il decumanus maximus e collegava la porta praetoria alla porta decumana. Un’altra via, la principalis, di larghezza pari o spesso inferiore alla prima, collegava la porta principalis dextra con quella sinistra. La sede del comando era posizionata al centro. Spesso era costituita da una corte contornata da portici sui quali si affacciavano stanze che ospitavano la cappella dedicata al culto dell’imperatore, gli stendardi e i cimeli, mentre il comandante impartiva le sue disposizioni in una grande aula a pianta cruciforme. A fianco dell’edificio del comando erano collocati il quaestorium, il forum e, di solito, la casa del comandante. A ridosso del centro erano i granai, col pavimento sollevato dal suolo e la copertura a tetto. Gli alloggi per i militari, le stalle per i cavalli e i laboratori erano dislocati in fabbricati lunghi e stretti, distribuiti a schiere parallele. In ogni casermetta era alloggiata una centuria composta da 80 uomini. Terme e botteghe erano collocate appena fuori le mura, in spazi dove fu frequente lo svilupparsi di insediamenti civili, abitati da veterani e donne, e dove l’attività principale era legata al commercio.

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ragioni economiche: soldo e condizioni di servizio erano meno attraenti rispetto a chi serviva nelle legioni o nella guardia pretoriana. La gran parte degli auxilia di stanza nella Britannia del Nord fu arruolata perlopiú dalle province nordoccidentali.

La frontiera di Antonino Alla morte di Adriano, nel 138, lungo il muro erano in corso lavori di modifica che ne prevedevano il prolungamento di altri 6,4 km. Ma il suo successore,Antonino Pio, fermò i lavori, poiché voleva costruire un’altra barriera, ancora piú a nord. I motivi che spinsero il nuovo imperatore a prendere questa decisione sono ancora incerti: una prima ipotesi è che il Vallo adrianeo era troppo lontano dai centri di resistenza scozzesi, e avanzare verso nord


avrebbe permesso di tenere sotto controllo le irrequiete tribú delle pianure; ma non si può escludere che Antonino avesse pianificato l’impresa, dopo essere stato scelto non senza incertezze. Una guerra breve e vittoriosa poteva quindi dare lustro a un regnante che non aveva mai comandato un esercito. Alla fine,Antonino non scese mai in guerra e sotto di lui si realizzò soltanto una estensione della provincia. La linea di frontiera che nel 142 sostituí il Vallo di Adriano misurava 59 km. Venne tracciata nel punto piú stretto dell’isola, sfruttando due rientranze del mare: a ponente, l’estuario del Clyde, a levante il Firth of Forth. Il nuovo limes non fu costruito in pietra, ma con terra sovrapposta a una base in ghiaia larga 15 piedi romani. Sul modello del Vallo adrianeo, fu scavato un

A destra: un legionario romano, particolare di una litografia a colori di epoca moderna. Collezione privata. In basso: disegno ricostruttivo del forte di Vercovicium.

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speciale vallo di adriano A sinistra: i tre altari del mitreo scoperto nel 1949 nelle vicinanze dell’accampamento romano di Brocolitia (Carrawborgh). In basso: l’area del tempio. Le testimonianze relative al culto solare di Mitra sono documentate su tutto il territorio della Britannia romana, con una maggiore concentrazione nelle aree di frontiera, data la particolare fortuna di cui godette questa religione iniziatica in contesti militari.

largo e profondo fossato antistante la barriera. I forti furono inizialmente situati a poco piú di 10 km l’uno dall’altro; in seguito si provvide ad aumentarne il numero, dislocandoli ogni 3 km, per un totale alla fine di 19. Tra di essi, ogni chilometro e mezzo, i fortini. In sede di progettazione il Vallo di Antonino fu dunque molto simile al suo predecessore meridionale, trattandosi di una barriera lineare intervallata da forti e fortini. Furono alcuni particolari a differenziarlo: una strada militare di collegamento con gli accampamenti militari; piattaforme faro come base per fuochi di segnalazione; introduzione di piccoli recinti. I forti furono posizionati tutti sul retro del muro e in stretto rapporto con la barriera. Il Vallo di Antonino fu completato verso il 150, ma il suo pattugliamento non ebbe lunga vita. Nel 163 la frontiera piú fortemente presidiata della Britannia fu abbando72 a r c h e o

nata, per ragioni ancora non chiare. A quel tempo l’imperatore era Marco Aurelio e i confini in pericolo erano altri, in particolare quelli sul Danubio. Lí tribú germaniche, con una moltitudine di uomini senza precedenti, avevano varcato il fiume con l’intento di stabilirsi nei territori dell’impero. Per la prima volta Roma aveva a che fare con una minaccia di tali proporzioni.

I restauri al «vecchio» muro Nella terra d’Oltre Manica il confine a nord tornò a essere quello dell’ancora efficiente Vallum Aelium, che, abbandonato per poco piú di dieci anni, aveva patito solo di una modesta incuria. Modifiche e migliorie però non mancarono, facendo tesoro dell’esperienza progettuale fatta sul Vallo di Antonino. S’iniziò con la definitiva messa in opera in pietra di tutta la linea di frontiera, si proseguí con il tracciare una strada lungo il muro e si concluse con


il mantenere un numero di forti avanzati per consentire di osservare meglio l’ex territorio della provincia. Forti e torri furono rimessi in sesto e gli accampamenti rioccupati da guarnigioni di entità analoga a quelle spostate in avanti un ventennio prima. Alcune torrette, infine, furono abbandonate e gli ingressi dei forti vennero ristretti, in modo da essere utilizzabili solo dal traffico pedonale. Mentre sul «vecchio» muro si restaurava, la situazione al di là della frontiera non era tra le piú tranquille. Le tribú scozzesi iniziavano a premere, cercando di approfittare dell’instabilità politica di Roma. Gli episodi piú gravi si verificarono nell’ultimo decennio del II secolo. Ma, a quel tempo, della Britannia si parlava non per le azioni delle sue tribú ostili o per i muri da costruire, bensí per chi dal 191 la governava: il generale Clodio Albino. Alla morte dell’imperatore Commodo, e a

pochi mesi dalla breve apparizione del suo successore Pertinace, l’impero era dilaniato dalla guerra civile. Per la successione erano tre i contendenti: il comandante delle legioni siriache, Pescennio Nigro, Settimio Severo a capo delle legioni danubiane e, appunto, il governatore britannico Clodio Albino.

Attacchi dal Nord Settimio Severo sconfisse nel 194 Pescennio a oriente e creò una fragile alleanza con Clodio Albino. Il quale, però, non si accontentò, puntando ad assumere il controllo assoluto dell’impero. Due anni dopo, nel 196, le legioni di Eburacum (York), Isca Silirum (Caerleon) e Deva Victrix (Chester), con l’aggiunta di buona parte degli uomini tolti dai presidi di frontiera, erano pronte a partire alla volta di Roma. Lo scontro decisivo tra Albino e Settimio Severo avvenne a Lugdunum (Lione), in Francia, il 19 febbraio del 197. Fu

una battaglia sanguinosa, a lungo incerta; alla fine Settimio Severo ebbe la meglio e a Clodio Albino non restò che uccidersi, gettandosi sulla propria spada. Morto Albino, il governo della Britannia fu affidato a Virio Lupo, al quale fu dato l’incarico di riportare l’ordine nell’isola. Ma il muro, ormai sguarnito, non garantiva alcuna sicurezza e le tribú settentrionali ne approfittarono. Avanzarono e si spinsero cosí in avanti che per salvare le frontiere a Virio Lupo non rimase altra scelta che quella di offrire denaro al nemico in cambio della pace. La fragilità politica delle terre britanniche fu allora evidente. Settimio Severo cercò inizialmente di risolvere il problema dividendo la Britannia in due province: quella Inferiore e quella Superiore, con due capitali, rispettivamente Eburacum e Londinium. Poi Settimio andò oltre, (segue a p. 76)


speciale vallo di adriano vindolanda e le sue tavolette L’odierna Chesterholm, nel Northumberland, è la Vindolanda delle carte topografiche romane, uno degli accampamenti piú importanti presenti lungo il Vallo. Situata lungo la Stanegate, la principale strada che nell’estremo nord dell’isola metteva in comunicazione l’est con l’ovest, fu per quattro secoli un caposaldo dell’organizzazione difensiva romana contro i barbari. Il primo insediamento fu realizzato interamente in legno, poi distrutto per essere ricostruito in pietra nel 122, cioè nello stesso anno in cui ebbe inizio la realizzazione del Vallo. Dal I al IV secolo d.C. fu abitato ininterrottamente, per questo è oggi una fonte inesauribile di notizie per comprendere la vita di chi stazionava lungo la frontiera piú a nord dell’impero. Gran parte delle strutture scavate risalgono al III secolo d.C. Completamente intatti sono le 4 porte d’ingresso ( Nord-Sud; Est-Ovest) e il circuito murario. All’interno gli scavi si sono concentrati nell’area centrale e hanno messo in luce la residenza del comandante della guarnigione e il suo quartier generale. Maggiore attenzione gli archeologi l’hanno riservata alle abitazioni di civili che sorgevano all’esterno di Vindolanda. Dagli strati di terreno argilloso, al di sotto dei quali i Romani avevano gettato grandi quantità di rifiuti, sono riemersi centinaia di scarpe, utensili e oggetti di vario tipo. Tra il 1973 e il 1975 avvenne però la scoperta piú sensazionale:

furono rinvenuti oltre duecento frammenti di tavolette lignee, scritte prevalentemente a inchiostro, con testi relativi a cinque diversi periodi di vita del forte stesso, quelli compresi tra gli anni immediatamente successivi all’85 d.C. e quelli che portarono alla costruzione del Vallo di Adriano, dunque al periodo tra il 120 e il 130 d.C. I frammenti appartengono a 117 testimonianze grafiche diverse e l’importanza di queste tavolette è molteplice. Sul piano documentario forniscono importanti informazioni sulla vita degli stanziamenti militari romani nell’Isola britannica e in particolare sulla presenza a Vindolanda della cohors IX Batavorum, comandata dal prefetto Flavius Cerialis, e della I Tungrorum, comandata dal prefetto Crispinus. I documenti rinvenuti descrivono conti di vettovaglie, lettere di auguri, notizie ai familiari lontani, rapporti giornalieri sulle mansioni assegnate agli appartenenti alla guarnigione, ma anche epistole e testi di cui ancora non si è riusciti a riconoscere l’esatta natura. Per avere un quadro esauriente dell’interpretazione data al materiale epigrafico si può consultare il sito internet: http://vindolanda.csad.ox.ac.uk/

A sinistra: penna e calamaio in bronzo, provenienti dalla città gallo-romana di Vertillum. Châtillon-sur-Seine, Musée du Châtillonnais. Nella pagina accanto: frammenti di tavolette lignee scritte a inchiostro, rinvenute, negli anni Settanta del Novecento, presso il forte romano di Vindolanda.

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Lettere dal fronte «Sulpicia Severa alla sua Lepidina, salute! Il terzo giorno prima delle Idi di settembre (= 11 settembre), sorella, per la giornata della mia festa di compleanno, ti invito di cuore a far sí che tu venga da noi, per rendere con la tua presenza la mia giornata ancora più felice, se verrai (?).

Saluta il tuo Ceriale. Il mio Elio e il figliolo lo salutano. Ti aspetto, sorella! Stammi bene, sorella, anima mia carissima, cosí come io mi auguro di star bene, e addio. A Sulpicia Lepidina (moglie) di Ceriale, da parte di Severa».

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speciale vallo di adriano come muoversi lungo il vallo I 117 km del Vallo di Adriano attraversano oggi paesaggi di grandissimo fascino. Sia Carlisle, a ovest, che Newcastle, a est, costituiscono buoni punti di partenza per escursioni lungo tutto il perimetro murario. Il tratto piú spettacolare è quello tra Brampton e Corbridge. Per percorrerlo in auto occorre transitare sulla A69 che corre parallela al Muro 4-5 km piú a sud. Ovunque i cartelli stradali indicano le località interessate al Vallo e i siti archeologici maggiormente frequentati dai visitatori sono anche quelli piú attualmente studiati: Chesterholm (Vindolanda), situato 1 km a sud del Muro, e Housesteads Roman Fort (Vercovicium), a ridosso della barriera. Inoltre, per visitare fortini e torri, non mancano itinerari a piedi o in bicicletta. Il piú battuto è l’Hadrian’s Wall Path, un percorso di trekking di 134 km inaugurato di recente e che si estende da Wallsend a est fino a Bowness-on-Solway a ovest. Per percorrerlo interamente sono necessari 7 giorni comprensivi del tempo necessario per visitare tutti i siti del Vallo. Per gli amanti della bicicletta è invece sufficiente seguire il tracciato della Hadrian’s Cycleway.

per saperne di piú Andrew Robert Burn, The Romans in Britain, Oxford 1969 Luigi Dodi, L’urbanistica romana in Britannia, Milano 1974 David J. Breeze, Brian Dobson, Hadrian’s Wall, London 1976 Paul T. Bidwell, The Roman Fort of Vindolanda, Historic Buildings & Monuments, London 1985

Fino all’arrivo dei Sassoni, nel V secolo, nessuna tribú barbara era riuscita a valicare la frontiera romana


e pianificò una nuova conquista. Condusse quattro campagne militari, ma la sua morte nel 211, a York, segnò la fine prematura dell’impresa. I territori conquistati furono abbandonati, le truppe ritirate e l’estensione della provincia rimase quella di prima.Anche la vita riprese com’era sempre stata: l’esercito continuò a vigilare sulle regioni settentrionali e gli ausiliari a ricostruire e riparare forti, provvedendo anche alla costruzione di opere di pubblica utilità, come gli acquedotti. Nel IV secolo, in una terra che in base all’applicazione delle riforme volute dall’imperatore Diocleziano era stata nel frattempo suddivisa in

quattro province, con quattro capitali, la minaccia non arrivava piú solo dal nord, ma anche dal mare.

vengono specificate ubicazione e data. È la testimonianza che l’esercito romano nell’isola era sotto pressione. Quei soldati erano lí con uno La fine del dominio romano scopo: fornire appoggio supplemenA chi governava, gli ordini che tare alle unità del Vallo minacciate giunsero da Roma furono chiari: dagli attacchi congiunti di Sassoni, installare forti costieri e rivitalizzare Pitti e Scoti. ilVallo. Si obbedí: alcuni forti furono Gli uomini che presidiavano il Valriparati, altri quasi interamente rico- lo continuarono ad assolvere alla struiti dopo essere stati per anni loro funzione fino alla fine, tanto abbandonati. Alla fine del IV secolo, che nessuna tribú barbara mise secondo la Notitia Dignitatum (la saldamente piede all’interno delle fonte piú autorevole per la cono- frontiere, almeno fino all’arrivo dei scenza amministrativa del tardo im- Sassoni, nel V secolo. All’interno pero romano), si registra l’esistenza dei forti, nel frattempo, non vivein Britannia di tredici o quattordici vano piú solo militari, ma anche unità operative, anche se non ne quei civili che avevano abbandonato gli insicuri insediamenti posti oltre le mura. Ancora non si sa come finí la vita di quelle installazioni di frontiera. Forse la paga non arrivò piú e i soldati si dispersero lentamente, cercando di sopravvivere altrove, o forse si stabilirono con le famiglie a coltivare i campi. Probabilmente non si ebbe un abbandono repentino, ma vi furono un declino graduale e la consapevolezza che il dominio di Roma nella provincia della Britannia volgeva ormai al termine. Nel 410 l’imperatore Flavio Augusto Onorio, dopo aver respinto l’ennesima richiesta di aiuto da parte dei Britanni, emanò un documento con il quale si chiedeva agli abitanti di badare alla propria difesa e al proprio governo. La Britannia romana non esisteva piú e anche il Vallum cessava di esistere. Nel suo compito, ma non nella sua imponenza. per informazioni VisitBritain Via Cesare Cantú, 3 20123 Milano – tel. 02 88081539 www.visitbritain.com

I resti degli ambienti del quartier generale del forte di Vindolanda.

Vindolanda Chesterholm Museum Bardon Mill, Hexham, Northumberland, NE47 7JN. www.vindolanda.com; info@vindolanda.com a r c h e o 77


storia storia dei greci/9 di Fabrizio Polacco

L’età della

bellezza Da sempre, il termine «tirannia» è sinonimo di governo iniquo e oppressivo. Una connotazione negativa, in netto contrasto con lo splendore delle arti e dell’artigianato che caratterizzò la Grecia proprio nell’epoca in cui il potere politico era concentrato nelle mani di un solo uomo

L

Kouros di Kroisos, statua funeraria di guerriero da Anavyssos (Attica). 540-530 a.C. circa. Atene, Museo Archeologico Nazionale. La statuaria greca arcaica è caratterizzata da statue, spesso di grandezza superiore al naturale, di giovani ragazzi (kouroi) e ragazze (korai), rappresentati in piedi, con postura rigida, e con il tipico sorriso enigmatico.

a Storia non procede linearmente, ma è un susseguirsi di regressioni e ricadute, di deviazioni e false partenze: soprattutto quando gli uomini provano a cimentarsi in qualcosa di assolutamente nuovo. E la libertà politica, nella Grecia arcaica, era una novità assoluta. Non dobbiamo perciò stupirci del fatto che, a fianco e in contrapposizione a essa, nelle poleis fiorissero i tiranni. Lo stor ico zur ighese Jakob Burckhardt (1818-1897) affermò che la società greca era dominata da uno spirito competitivo («agonale») che permeava ogni campo dell’esistenza (vedi box a p. 80, in alto). E l’aspirazione a «essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri», per dirla con Omero, non era limitata al ceto aristocratico, ma universalmente condivisa.

Meccanismi inceppati Anche l’àmbito del governo della polis subí gli effetti di una siffatta mentalità, e cosí, per alcuni,


conquistare il potere assoluto divenne anch’esso un modo, per quanto anomalo e non privo di rischi, di «eccellere sugli altri», di dare sfogo all’insaziabile ambizione al primato che ben si coniugava al nascente spirito individualistico dell’epoca. I tiranni erano personaggi abili, intelligenti e spesso assai colti (vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011), ma anche violenti e spregiudicati, che seppero ben incunearsi in quella crisi di crescita che colpí le città-stato elleniche durante il loro veloce processo di espansione e di trasformazione,

al fine di instaurarvi un potere personale. In un contesto politico instabile, in cui le città stavano sperimentando nuovi meccanismi istituzionali, era facile che questi talvolta s’inceppassero. Ad Atene, il tentativo di Solone di passare dal governo dei nobili – l’aristocrazia – a quello dei piú ricchi – la timocrazia – e di trovare cosí un equilibrio tra ceti sociali in ascesa e antichi signori, rivelò ben presto alcune carenze. Problematico, per esempio, era il modo di calcolare la ricchezza privata, elemento decisivo, visto

Particolare della statua di un moscoforo (letteralmente «portatore di vitello»), dall’Acropoli di Atene. 570560 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli. L’opera è uno dei capolavori dell’età arcaica e propone un soggetto documentato anche da numerosi bronzetti.

che in base a essa si veniva inseriti in una delle quattro classi in cui erano suddivisi i cittadini: il che a sua volta determinava il loro diverso grado di partecipazione alla vita politica. Cosí, solo l’inserimento nella classe piú elevata, quella dei «pentacosiomedimni», consentiva di accedere a r c h e o 79


storia storia dei greci/9 templi grandiosi e giovani sorridenti Al culmine dell’età arcaica nella Ionia, a Corinto e nella stessa Atene si progettano, innalzano o riedificano templi in pietra di magnificenza e proporzioni mai viste: ancora oggi, i pur scarsi resti dell’Heraion di Samo e del Didymaion di Mileto infondono suggestione e ammirazione. In Attica siamo in ciò penalizzati dalla distruzione degli edifici dell’Acropoli, avvenuta successivamente a opera degli invasori persiani; ma uno sguardo all’Olympieion voluto e cominciato da Pisistrato, poi abbandonato alla caduta della tirannide, Nella pagina accanto, in basso: replica di un tripode in bronzo eseguita sulla base di un modello dell’VIII sec. a.C. Olimpia, Museo Archeologico.

infine portato a compimento dai Romani solo sette secoli dopo, ci lascia intendere che l’emulazione tra questi autocrati dell’arcaismo abbellisse non poco la stessa Atene. È questa anche l’età d’oro dei kouroi e delle korai, statue di giovani ragazzi e ragazze nel fiore dell’età, che, nella loro straordinaria evoluzione stilistica, stanno compiendo il percorso che va da uno schematismo ancora geometrico ed egittizzante – proprio dell’alto arcaismo – a una quasi compiuta naturalezza delle forme, che prelude ormai alla classicità.

alle magistrature pubbliche di controllo delle finanze. Il loro nome rivela l’unità di calcolo utilizzata: si trattava di coloro il cui reddito fosse costituito dalla produzione di almeno 500 («pentakòsioi», in greco) «mèdimnoi», cioè misure di cereali secchi (un medimno corrisponde a 52 litri circa). Ma come introdurre in questo computo il nuovo tipo di ricchezza, pur considerevole e in aumento, prodotta dai commercianti o dagli artigiani? A noi sembrerebbe ovvio convertire e misurare ogni tipo di bene materiale in denaro. Purtroppo però il denaro implica una moneta: e a quel tempo la

moneta ad Atene molto probabilmente ancora non esisteva.

«Quelli tra i monti» Al di là di simili questioni tecniche, si può pensare che quanti non partecipavano della ricchezza terriera, o non ne disponevano in misura considerevole, non vedessero ancora adeguatamente valorizzato il proprio ruolo politico, né riconosciuti i propri interessi. Le tensioni quindi, nonostante i tentativi di pacificazione e le riforme, non tardarono a riemergere. A quel tempo la popolazione dell’Attica era divisa in tre gruppi sociali. C’erano, innanzitutto, «quelli delle pianure» (i

una morale (e una religione) competitiva Troviamo una nobile e solenne estrinsecazione dello spirito «agonale» dei Greci nelle competizioni sportivo/religiose che, a partire almeno dal 776 a.C. (che è anche la prima data certa della storia ellenica), coinvolgevano atleti provenienti dalle varie poleis nel grande santuario di Zeus a Olimpia. La concezione morale dominante nell’epoca poneva come supremo valore individuale la vittoria, essa stessa divinizzata (è la famosa Nike). Perfino il termine greco per «virtú», «aretè», indicava piú propriamente il «successo», la «riuscita» in un determinato campo d’azione. Ma, nonostante questa valvola di sfogo, l’aspirazione al primato restava comunque una tensione insaziabile, dominante nell’animo di ciascun Greco.


A sinistra: Samo. Resti del santuario di Hera (Heraion), la cui prima fondazione risale forse all’XI-X sec. a.C. Assai complessa è la storia delle sue diverse fasi architettoniche: particolarmente ricchi e imponenti furono i templi del VI sec. a.C. nelle realizzazioni dovute agli architetti Reco e Teodoro e al tiranno Policrate.

pediaci), grandi proprietari delle terre migliori. Poi «quelli della costa» (i parali), dediti al commercio, alla pesca, all’artigianato. E infine «quelli tra i monti» (i diacri): coltivatori dei campi piú ingrati, situati in zone scomode e non particolarmente fertili. Questi ultimi trovarono presto il proprio «campione» nella figura di un nobile di quelle parti, Pisistrato. Divenuto una sorta di capopopolo, costui si alleò in questa prima fase con il massimo esponente dei parali, Megacle, della famiglia degli Alcmeonidi, e, nel 561 a.C., decise di sfruttare un successo militare da lui personalmente ottenuto – la conquista dell’isola di Salamina, di fronte alle coste attiche – per dare la scalata al potere. Pisistrato si finse addirittura vittima di un attentato da parte degli avversari per chiedere agli Ateniesi di concedergli una guardia del corpo personale, costituita da 50 «mazzieri». Usò questo e altri mezzi sleali per mettere fuori gioco i rivali aristocratici, e vi riuscí. Risultò quindi, in un certo senso, anche lui «primo» nell’agone per la vittoria: ma un «agone» trasferito dal campo atletico a quello della politica.

La costituzione introdotta da Solone, mai formalmente abrogata, si era dunque rivelata instabile. Ma non meno instabile fu la tirannide di Pisistrato.Vittima dello stesso gioco di alleanze e di complicità che l’aveva condotto al potere, fu deposto ed esiliato due volte prima di stabilirsi definitivamente al vertice della città nel 533 a.C., sei anni prima della sua morte. Il suo governo, che pur con tali intervalli si sviluppò nell’arco di oltre un trentennio (561-527 a.C.), doveva essere comunque apprezzato dalla maggioranza degli Ateniesi: lo dimostra il fatto che, quando morí, il figlio maggiore Ippia, in collaborazione con il minore Ipparco, poté ereditare la tirannide, esercitandola ancora per una ventina d’anni.

In alto e in basso: profilo e veduta frontale di una testa in bronzo di Zeus, dal santuario di Zeus a Olimpia. 520-510 a.C. circa. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Il policentrismo arcaico Ci siamo soffermati su Atene perché, grazie alle fonti, possiamo seguirne piuttosto bene le vicende. Ma questa città non fu l’unica, né la prima a veder sorgere un tiranno. Anzi, questa fu, in genere, la sorte proprio dei centri economicamente piú evoluti dell’epoca. a r c h e o 81


storia storia dei greci/9

una spietata mietitura Periandro, tiranno di Corinto, era tanto colto e illustre che finí con l’essere menzionato tra i Sette Sapienti (vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011). Forse per spiegare il suo rapido passaggio a un’oppressiva crudeltà, si raccontava questa storiella emblematica: «Dopo aver regnato per trent’anni e vissuto una vita intessuta di giorni felici, gli successe (a Cipselo, n.d.A.) nel regno il figlio Periandro. Questi, in principio, si dimostrava piú mite del padre; ma quando, per mezzo di ambasciatori, venne a contatto con Trasibulo, tiranno di Mileto, egli divenne ancora piú sanguinario di Cipselo. Infatti, inviato a Trasibulo un araldo, gli fece chiedere quale fosse il sistema di governo piú sicuro da instaurare, per reggere la città nel modo migliore. Trasibulo, quando il messo di Periandro giunse da lui, lo condusse fuori dalla città, entrò in un campo coltivato, e, mentre passava attraverso i solchi di grano, non faceva che chiedere e richiedere all’araldo il motivo della sua venuta da Corinto. Intanto, recideva tutte le spighe che vedeva sorpassare le altre e, tagliatele, le gettava a terra; fino a che, in tal modo, ebbe distrutto la parte piú bella e rigogliosa del podere di grano. Dopo aver percorso cosí il campo, congedò l’araldo, senza aggiungere una parola. Quando il messo ritornò a Corinto, Periandro era tutto ansioso di conoscere il consiglio atteso. Ma quello disse che Trasibulo non gli aveva dato consigli, anzi, si meravigliava che l’avesse mandato presso un tipo simile, come a dire un pazzo e distruttore dei suoi stessi beni. Cosí dicendo, gli spiegava quello che aveva visto fare a Trasibulo. Periandro, però, avendo compreso il significato di quei gesti, si convinse che Trasibulo gli consigliava di uccidere quelli tra i cittadini che fossero piú in vista. Da allora, non ci fu perfidia che egli non sfogasse contro i cittadini: tutti quelli che Cipselo aveva risparmiati dalla morte o dall’esilio, li finí completamente Periandro» (traduzione di Luigi Annibaletto, da Erodoto, Le Storie, Oscar Classici Mondadori). 82 a r c h e o

Lo storico Tucidide sintetizza bene la questione: «Poiché la Grecia divenne piú potente e si arricchí piú di prima, si stabilirono perlopiú nelle poleis le tirannidi, quando le entrate divennero maggiori e la Grecia creò delle flotte e si dedicò di piú al mare». La tirannide è qui vista insieme come causa ed effetto di una maggiore potenza e ricchezza, conseguita soprattutto attraverso i traffici e il dominio sui mari. Tucidide, piú che Atene, pensava forse a Corinto, Megara, Samo o Mileto: città marinare che in età arcaica la sopravanzavano nei commerci e la surclassavano nelle colonizzazioni, alle quali la città dell’Attica, del resto, neppure aveva partecipato. Non dobbiamo dimenticare che il mondo arcaico è decisamente «policentrico» dal punto di vista politico ed economico: l’atticocentri-


A sinistra: le rovine del tempio di Apollo a Corinto, edificato intorno al 540 a.C. In basso: alabastron etrusco-corinzio raffigurante un guerriero, opera attribuita alla cerchia del vulcente «Pittore di Pescia Romana». 590-580 a.C. Londra, British Museum. Fra la metà del VII e la metà del VI sec. a.C., le importazioni di ceramiche greche stimolarono vasai e pittori etruschi, i quali avviarono la produzione di vasellame che imitava i prototipi ellenici, soprattuto nel caso di quelli provenienti da Corinto.

smo caro agli umanisti, influenzati dall’eccellenza che di lí a poco la città avrebbe raggiunto nelle lettere e nelle arti, e il dualismo competitivo tra Sparta e Atene, caratteristici della successiva età classica, sono ancora lontani. Le vere potenze dell’epoca erano le altre poleis sopra citate: tutte perfettamente cor r ispondenti all’identikit delineato da Tucidide.

Senza forti opposizioni Da quanto detto deriverebbe la strana (almeno per noi) conclusione che i regimi tirannici non costituirono per il mondo greco un regresso, bensí un fattore di sviluppo. Altri dati sembrano confermarlo. Per esempio, i regimi tirannici durarono al potere, senza forti opposizioni da parte della maggioranza dei cittadini, per due, in talune poleis anche tre, generazioni

familiari. Procurarono benessere al complesso della cittadinanza, e, nel caso di Atene, anche maggior prestigio in politica estera. Per la prima volta dopo molto tempo la città si affacciò fuori dall’Attica con la conquista di capisaldi strategici nell’Egeo: come il massiccio aurifero del Pangeo in Tracia, e il Sigeo presso Troia, a opera degli stessi Pisistratidi; e la penisola del Chersonneso tracico, lungo i Dardanelli, a opera di un potente aristocratico, Milziade (zio dell’omonimo, futuro vincitore di Maratona; vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 46-53). Infine, i tiranni diedero un notevole impulso alle arti e all’artigianato. In questo periodo la ceramica corinzia, e, successivamente, quella attica, diffusero i propri capolavori nel Mediterraneo, e non solo nelle colonie greche (basti pensare alla provenienza ellenica della maggior parte dei vasi dipinti rinvenuti nei sepolcri degli Etruschi)

risultano ancor piú pesanti quando le adotta chi ha acquisito illegalmente quel potere. I metodi applicati a Corinto da Periandro, elencati da Aristotele, sono eloquenti: «Reprimere gli individui superiori, togliere di mezzo gli spiriti indipendenti, non permettere pasti in comune né consorterie politiche né educazione né alcuna altra cosa del genere, bensí controllare tutto ciò da cui derivano di solito questi due sentimenti, la grandezza d’animo e la fiducia (…) cercare pure che niente passi inosservato di ciò che dice o fa ciascuno dei sudditi, ma avere delle spie». Aristotele sottolinea che anche la realizzazione di opere pubbliche grandiose e dispendiose e l’attivismo bellico in politica estera vengono perseguiti dai tiranni «affin-

Repressione e congiure Ma allora per quale motivo, pur avendo conseguito brillanti risultati, quasi tutte le tirannidi della Penisola greca furono abbattute entro la fine del VI secolo? E perché la parola «tiranno» ha lasciato dietro di sé una nomea tanto sgradevole, che perdura ancor oggi? In realtà, i tiranni ressero finché risultarono utili al demos, il quale, tramite il loro violento esercizio del potere, voleva impedire un ritorno al governo e una rivalsa della classe aristocratica. In effetti, furono soprattutto i nobili, estromessi dal potere e privati di una libertà di cui solo essi sostanzialmente già godevano, a esercitare una decisa opposizione alla tirannide. Per tutelarsi, i tiranni dovettero quindi adottare misure repressive e di vigilanza tipiche di ogni potere assoluto, ma che a r c h e o 83


storia storia dei greci/9 umiliati, esaltati, rapiti e duplicati Quello che potremmo definire «l’inno nazionale» ateniese cantava l’impresa dei due autori della congiura contro i Pisistratidi (514 a.C): Armodio e Aristogitone. Costoro avrebbero in tal modo portato la libertà e la parità di diritti (l’isonomía) alla città. Il testo, cantato nei simposi, diceva: «Sempre la vostra gloria vivrà sulla terra, carissimi Armodio e Aristogitone, poiché avete ucciso il tiranno e dato la isonomia ad Atene». I due divennero eroi-simbolo della nascente democrazia ateniese, anche perché erano tragicamente caduti nel corso del tirannicidio. Fu loro dedicato un gruppo scultoreo in bronzo nell’agorà: le fonti lo ricordano come opera del celebre artista Antenore. In realtà, Tucidide approfondisce l’episodio della congiura per sottolineare che il gesto dei protagonisti non fu dettato da motivi politici. Aristogitone, secondo il costume diffuso tra gli aristocratici, era l’amante del piú giovane Armodio. Ma di costui si era invaghito anche Ipparco, che provò invano a sedurlo. Il giovane riferí la cosa ad Aristogitone, e i due, in un primo momento, covarono risentimento in silenzio, temendo che quello avrebbe profittato del potere per ottenere quanto voleva. La reazione scattò quando Ipparco rivolse un’offesa anche alla sorella del giovane, che umiliò nel corso di una festa religiosa. Decisero allora di reagire, uccidendo comunque entrambi i fratelli, per garantirsi anche dalla vendetta di Ippia; tuttavia, temendo di essere stati denunciati, fecero in tempo a eliminare il solo Ipparco, prima di essere a loro volta aggrediti dalle guardie. Armodio cadde ucciso, Aristogitone, nel corso di una tortura, fu soppresso dallo stesso Ippia. Gli Ateniesi sapevano che a porre davvero termine alla tirannide era stato solo un successivo intervento militare di Sparta, ma li considerarono ugualmente eroi della loro libertà, forse perché ai loro occhi il significato politico del loro gesto non era annullato, ma confermato dal movente privato. I tiranni infatti erano considerati ostili a questo tipo di relazioni virili proprio per motivi politici, come sottolinea Platone nel Simposio: «E naturalmente non giova a chi detiene il potere che si formino tra i sudditi nobili aspirazioni e tantomeno salde amicizie e società, quali soprattutto l’amore è solito suscitare». Ma la loro storia non finisce qui. Quando Serse occupò Atene, trentaquattro anni piú tardi, volle umiliare gli Ateniesi che ancora gli resistevano trafugando il gruppo scultoreo dei Tirannicidi e portandolo con sé in Persia. Perciò gli Ateniesi, una volta sconfitti e ricacciati gli invasori, ne commissionarono un altro, questa volta agli scultori Kritios e Nesiotes. È di questo secondo gruppo che ci sono rimaste copie in marmo fondamentali per lo studio dell’arte greca. Un paio di secoli dopo Alessandro Magno, conquistato l’impero persiano, ritrovò anche i primi «Tirannicidi». Volle che fossero restituiti subito agli Ateniesi: quasi che anche lui, con quella la sua mirabile impresa, avesse donato ancora una volta ai Greci la libertà dalla «tirannide» persiana.

Acclamati come eroi della libertà, i «tirannicidi» caddero, in realtà, per motivi tutt’altro che politici 84 a r c h e o

I tirannicidi Armodio e Aristogitone, ricordati per la congiura ai danni dei due figli di Pisistrato: il tiranno Ippia e il fratello Ipparco. Copia romana in marmo da un originale bronzeo del V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.


ché i cittadini siano occupati, e vivano in potere di un capo» (vedi box a p. 82). Cosí, una volta che i ceti emergenti si furono consolidati economicamente e si sentirono piú forti nella società proprio grazie all’opera dei tiranni, non li difesero quando i nobili, dall’interno o dall’esterno delle città, si mossero per abbatterli. Vi furono una serie di tentativi piú o meno riusciti di riconquistare la libertà da parte degli aristocratici. Alcune congiure, non sempre ben organizzate, almeno parzialmente fallirono: compresa quella tentata ad Atene, e divenuta poi celeberrima, dai primi «tirannicidi» della storia (vedi box nella pagina accanto).

(510/9 a.C.). Mentre costoro si ritirarono nel Sigeo, ad Atene si riapriva cosí il duro confronto politico tra aristocratici e demos. I primi, guidati da Isagora e sostenuti dai «liberatori» spartani, prevalsero nell’elezione dei nuovi arconti dopo la caduta della tirannide. Fu allora che l’Alcmeonide Clistene si oppose a essi con un atto senza precedenti. Si pose a capo delle aspirazioni popolari, non, come Pisistrato, con l’intento di istaurare un dominio personale, ma offrendo allo stesso demos ateniese di gestire direttamente il potere. Propose una riforma che possiamo per la prima volta definire già di ispirazione democratica, anche se in quell’epoca si parlava piú che altro di «isonomia»: una Un atto senza precedenti Tuttavia, ad Atene, e non solo, i eguale partecipazione dei cittacospiratori e i fuoriusciti poteva- dini alla vita politica. Gli aristono ricorrere a un’arma davvero cratici, intimoriti, chiesero agli speciale, che avrebbe messo in Spartani di attuare un vero e difficoltà anche il regime piú sta- proprio colpo di Stato, che tembile. Potevano rivolgersi a Sparta, poraneamente riuscí, portando sempre pronta a muovere dal all’espulsione di Clistene e dei Peloponneso per sostenere il ri- suoi sostenitori. entro degli amici aristocratici; Anche stavolta però accadde questi, a loro volta, erano simpa- qualcosa di inusitato. Una spontizzanti e ammiratori del regime tanea e violenta reazione degli tradizionalista spartano, che po- Ateniesi costrinse Isagora e gli tremmo definire di tipo egalita- Spartani a rifugiarsi nell’acropoli; rio-aristocratico, e quindi antiti- vi rimasero assediati finché cedettero e abbandonarono la città. rannico per eccellenza. Sappiamo che già nel 524 gli Clistene fu richiamato e incariSpartani erano intervenuti, seppu- cato di porre mano al suo grande re senza successo, nell’isola di progetto riformatore. Da allora Samo, contro Policrate: costui era in poi, Atene avrebbe fatto molto un tiranno bene o male tollerato parlare di sé. (9 – continua) dai Persiani, i quali, già padroni delle poleis delle coste anatoliche, ancora non osavano intraprendere le puntate di questa serie spedizioni di conquista sul mare. Piú tardi l’inasprimento del go- Questi gli argomenti dei verno di Ippia ad Atene, congiun- prossimi capitoli di questa storia to all’appoggio propagandistico dei Greci: ottenuto da parte dal santuario di • Le guerre persiane Delfi, fece sí che un esercito spar- • La democrazia navale di Atene tano giungesse ad aiutare gli Alc- • L’età di Pericle meonidi, divenuti ostili al tiranno, • La guerra tra Sparta e Atene e i loro seguaci quando questi si • Una magnifica meteora: mossero per liberare la città: insieAlessandro il Macedone me riuscirono a cacciare, questa • Mirabili frantumi: gli eredi volta definitivamente, i Pisistratidi dell’impero alessandrino a r c h e o 85


storia l’uomo e la materia

Bianche Molte (e molti) spendono follie per assicurarsi un’abbronzatura perenne. Un tempo, però, le cose andavano assai diversamente: soprattutto per il gentil sesso, il candore della pelle era ritenuto un requisito di bellezza da ottenersi con ogni mezzo. Anche a costo di spalmarsi sul viso creme e unguenti che nascondevano una terribile «controindicazione» A sinistra: ritratto della regina d’Inghilterra Elisabetta I Tudor (1533-1603). Londra, National Gallery. La sovrana era solita stendere sul viso una pasta cosmetica derivata dal piombo, la biacca, che le donava la caratteristica carnagione spettrale. Nella pagina accanto: la parte superiore rivestimento in legno stuccato e dipinto della mummia di una donna egiziana, forse da Tuna el-Gebel. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Anche in questo caso, nella caratterizzazione del ritratto, spicca il biancore del volto.


da morire di Massimo Vidale

I

n quali modi i metalli possono definire noi e il nostro corpo? Un nostro amico, noto per la sua bontà, avrà un cuore d’oro, mentre un’abilissima ricamatrice o tessitrice dello stesso prezioso metallo avrà le mani; di un bambino irrequieto si dice che abbia l’argento vivo (il mercurio) addosso; i piú bravi nello studio hanno spesso volontà e memoria di ferro. E delle persone estremamente caute possiamo dire che procedono «con i piedi di piombo», mentre se la lentezza non ci apparirà motivata, ma fine a se stessa, la metafora plumbea sarà riservata, invece, al posteriore... Eppure il piombo è un metallo che, nella storia dell’umanità ha definito ben altri ruoli e aspetti delle persone, e in particolare delle donne, in modo molto piú letterale e, data la sua ben nota nocività, indubbiamente drammatico. Mi riferisco all’uso dei preparati di piombo per i cosmetici, una industria di grande importanza nel mondo antico, e in particolare, per ragioni che vedremo, nei momenti piú cruciali dello sviluppo della civiltà e delle piú antiche città dell’età del Bronzo.

L’ingresso a corte Se qualche lettore ha visto il film Elizabeth (1998, scritto da Michael Hirst, diretto da Shekar Kapur e con Cate Blanchett nei panni della protagonista) immagino sarà stato colpito, come me, dall’ultima scena. Elisabetta I Tudor, regina d’Inghilterra (1533-1603, figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena), raccontata agli albori del suo


storia l’uomo e la materia In basso: cofanetto in legno per cosmetici con recipienti di alabastro, vetro e ceramica, dal corredo funebre della tomba di Kha e Merit, da Deir el-Medina. Nuovo Regno, XVIII dinastia, regno di Amenofi II-III (1424-1348 a.C.).

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Torino, Museo Egizio. A destra: cristalli di cerussite, carbonato di piombo dal quale si ricavava la «biacca» o «cerussa», un pigmento di colore bianco utilizzato sin dall’antichità per le pitture murali e corporee.


Cristalli di galena, un solfuro di piombo che, in polvere e mescolato ad altri ingredienti, si utilizza, nonostante l’elevata tossicità, per fabbricare il kohl, con il quale, ancora oggi, vengono truccati gli occhi in molte regioni del globo.

regno, fa il suo ingresso ufficiale davanti all’aristocrazia inglese. Ha abbandonato qualsiasi traccia di umanità e spontaneità, e si è trasformata in un gelido manichino bianco, personificazione pura del potere regale e degli interessi sovrani della nazione. Il volto di Elisabetta è coperto da una soprannaturale maschera bianca (la cui realizzazione ha contribuito a far vincere alla pluripremiata pellicola l’Academy Award for Best Makeup, vale a dire l’Oscar per il miglior trucco, curato dalla specialista britannica Jenny Shircore). I pittori la chiamano, con una parola di remote origini longobarde, biacca o bianco di piombo, i truccatori cerussa, i chimici cerussite. E, come tutti i derivati di piombo, la pasta cosmetica era velenosa. Dicerie e leggende avrebbero raccontato per secoli di come Elisabetta I si sia lentamente avvelenata proprio per l’uso sistematico di questo cosmetico, che, oltre a garantirle la spettrale carnagione che distingueva la «regina vergine», mascherava anche piccole

imperfezioni del volto e forse le tracce lasciate da un attacco giovanile di vaiolo (il piombo, in ogni caso, sarebbe stato causa di sventure per la grande regina: un’altra leggenda vuole che l’irlandese Hugh O’Neill, conte di Tyrone, avesse ordinato del piombo dall’Inghilterra per rifare il tetto del suo castello, ma lo avesse invece usato per far fabbricare proiettili da sparare contro la sua sovrana nella guerra dei Nove Anni, tra il 1594 e il 1603).

Una preparazione complessa La biacca, del resto, è solo uno dei tanti passi fatti dall’uomo in uno sforzo plurimillenario di inventare e perfezionare pigmenti bianchi duraturi, con la giusta brillantezza, e il giusto rapporto tra pastosità e fluidità. I materiali usati sin dalla preistoria comprendono gesso, carbonati di calcio (calce), argille chiare, altri materiali argillosi naturalmente chiari e brillanti, tra i quali, in primis, il caolino, e altri silicati, tra i quali il talco. Inoltre la preparazione di

«bianchi» di buona qualità era di per sé piuttosto complessa, e il problema si complicava quando i bianchi dovevano subire uno o piú cicli di cottura, in quanto il processo eliminava i materiali organici usati come leganti (per esempio albume, oli o grassi) e anche minime quantità di ferro, quasi onnipresente nella maggior parte dei composti naturali inorganici, bastavano a macchiarne irreversibilmente il candore. Lo stato della questione, almeno per quanto riguarda la tecnologia greca e romana, è ben riassunto in opere di scrittori e scienziati vissuti tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., tra i quali Plinio, Vitruvio e Dioscoride. Gli autori riconoscono diversi tipi di colori bianchi, alcuni dei quali ottenuti da gesso o da argille chiare e marne, altri da argille fossilifere e farine fossili, mentre altri ancora erano erano ottenuti dal paretonium e dalla nostra cerussa. Argille o crete usate come bianco erano il melinum (dall’isola di Melo), la creta samia (da Samo), quella detta cimolia (da un’altra isola delle Cicladi), quella a r c h e o 89


storia l’uomo e la materia eretria (dall’Eubea). L’enfasi sulle isole non è casuale: infatti, solo in bacini geologici ristretti e segregati, come appunto possono trovarsene nelle piccole isole, è possibile reperire materiali a base argillosa sottoposti a minori dinamiche di trasporto e rielaborazione sedimentaria. Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 48) parla anche di una creta anularia, fatta aggiungendo alle argille chiare polveri di paste vitree ottenute macinando finte gemme trasparenti da anello. Il paretonium veniva dalle vicinanze di Alessandria d’Egitto, ed era un fine sedimento marino ricco di carbonati di calcio e fosfati di magnesio (Naturalis Historia, XXXV, 36); i pittori lo usavano spesso nei lavori di affresco.

Bagni d’aceto Il pigmento bianco piú sorprendente era senza dubbio la cerussa artificiale o biacca. Vitruvio (VII, 12) scrive che «i Rodiesi mettono sarmenti entro delle botti, versano aceto sul fondo, e collocano sui sarmenti lastre di piombo. Quindi chiudono le botti in modo che i vapori non fuoriescano. Dopo qualche tempo le riaprono e trovano che tutto il piombo si è e cambiato in cerussa». Plinio (XXXIV, 175) specifica che il metallo veniva preparato in forma di scaglie sottilissime, che venivano sospese su giare di terracotta contenenti aceto forte, che le avvolgeva lentamente di vapori. Il piombo disciolto sulla superficie delle scaglie ricadeva nell’aceto, e si depositava nel fondo. La biacca veniva quindi raccolta, essiccata, macinata e setacciata, re-impastata con aceto a formare pallottole che si lasciavano seccare sotto il sole estivo. Il processo aveva luogo presso gli stabilimenti in cui si estraeva e raffinava il piombo. Usata nella pittura, e specie negli affreschi, la biacca, nel tempo, sarebbe inesorabilmente annerita, per la riconversione del carbonato in ossido di piombo, ed è per questo motivo che, a volte, corpi e abiti delle immagini antiche risultano incomprensibilmente scuri. 90 a r c h e o

Montignac (Dordogna, Francia), Grotta di Lascaux, Sala dei Tori. La raffigurazione dipinta di un toro, affiancato da tre cavalli. Paleolitico Superiore, cultura maddaleniana, 17-15 500 anni fa circa. Già nelle decorazioni parietali preistoriche è attestato l’uso di pigmenti a base di ossidi e solfuri metallici.

Il processo sfruttava quindi la trasformazione del piombo in acetato, quindi in carbonato (grazie all’effetto del calore solare e dell’esposizione all’aria, la cui azione tradizionalmente era accelerata dall’immergere vasi contenenti piombo e aceto in fosse colme di sterco, che liberava, appunto, concentrazioni di diossido di carbonio). Altri processi citati dalle fonti antiche comprendevano l’uso dell’ossido di piombo, un prodotto collaterale dalla raffinazione dell’argento dalla galena (solfuro di piombo). L’ossido poteva essere macinato e diluito in acque ricche di sale e carbonato di calcio, ottenendo in tal modo pigmenti bianchi che potevano essere aggiunti ad altri materiali per modificarne il colore o sfruttarne le supposte proprietà antisettiche. Abbastanza complesso, non vi pare? La domanda che sorge spontanea è – dato che non disponiamo di fonti scritte altrettanto esaurienti prima di Plinio e Vitruvio – a quando esattamente risalgano simili conoscenze, e, con esse, gli inizi di una «chimica a processi umidi» tanto esperta e avanzata.

Cosmetici per bambini È difficile dare una risposta immediata. L’uso dei pigmenti a base di ossidi e solfuri metallici, a scopo di pittura corporea come di decorazione parietale, risale certamente al Paleolitico Inferiore, ed è stato dimostrato che questi pigmenti erano macinati e intenzionalmente preparati a fuoco, quindi arricchiti di leganti organici. Polveri di galena (comunemente dette kohl) sono ancora oggi il principale ingrediente di un cosmetico per abbellire gli occhi diffuso dal Nord Africa

all’India, particolarmente usato sui bambini in tenera età, al punto che diverse organizzazioni internazionali stanno monitorando i gravi danni alla salute dei piccoli che ne derivano, come una vera e propria piaga sociale. La galena figura molto spesso come ingrediente principale dei cosmetici per gli occhi trovati nelle tombe degli aristocratici in Egitto e in Mesopotamia, almeno a partire dagli ultimi secoli del IV millennio a.C. Agli inizi degli anni Trenta del Novecento, Kenneth Graham, il chimico che condusse i primi studi analitici sui materiali di Ur (oggi in Iraq), aveva analizzato i pigmenti cosmetici trovati da Leonard Woolley nel Cimitero Reale (2400-2300 a.C. circa). Vi trovò non solamente


Nella pagina accanto: foto satellitare dell’odierno Iraq, nei cui confini è compreso il sito.

ossidi di ferro e manganese, azzurrite, malachite, apatite e idrossiapatite (queste ultime ottenute da ossa e conchiglie macinate), ma anche tracce di cerussite e idrocerussite. Pereferí tuttavia considerare quest’ultime come «minerali secondari», cioè trasformazioni chimiche di originarie polveri di galena avvenute nel corso dei secoli nel terreno di sepoltura, piuttosto che prodotti chimici artificiali. In effetti, cerussite e idrocerussite sono il principale prodotto naturale dell’alterazione del piombo, sia sotto l’effetto di acque circolanti ricche di cloro e calcio (come le tubature dei vecchi acquedotti), sia in ambienti fortemente aridi ricchi di efflorescenze carbonatiche e saline. La conclusione di Graham, ispirata

a una visione piuttosto minimalistica della tecnologia antica, fu echeggiata dalle interpretazioni date alle analisi chimiche effettuate sui pigmenti e sui cosmetici dell’Antico Egitto, nei quali cerussite e biacca sembrano essere alquanto rare. I bianchi di piombo furono cosí considerati a lungo come una innovazione del tardo I millennio a.C.

Una tecnica antichissima Uno studio relativamente recente, sostenuto finanziariamente dall’Oréal, ha rimesso tutto questo in discussione. Sono stati studiati, con tecniche analitiche aggiornate, circa 50 campioni di cosmetici trovati in antiche tombe egiziane. Sebbene la massa dei materiali (in particolare pigmenti scuri per gli

occhi) siano stati identificati come polvere di galena e altri ingredienti, gli esperti hanno trovato tracce di cloruri e clorocarbonati di piombo, sostanze bianche che, a loro giudizio, non possono essersi formate casualmente nel corso del tempo, ma dovevano essere state intenzionalmente prodotte a partire dall’ossido di piombo con tecniche non dissimili da quelle testimoniate dalle fonti antiche.Tanto piú che le polveri erano state ermeticamente sigillate in piccoli contenitori di materiali semipreziosi, deposti in ambienti protetti e relativamente stabili, e certo ben protetti dall’azione dell’umidità. E hanno concluso che la tecnologia in questione deve risalire almeno agli inizi del II millennio a.C. Negli ultimi anni, identificazioni a r c h e o 91


storia l’uomo e la materia

In alto: un bambino indiano con il contorno degli occhi delineato con il kohl o kajal. A sinistra: frammento di calcare dipinto raffigurante il profilo di Ramesse VI. Nuovo Regno, XX dinastia (1143-1136 a.C.). Gli Egiziani utilizzavano comunemente il kohl sotto gli occhi, rappresentato nei dipinti con una lunga linea scura, per proteggersi dal sole e dalle mosche.


di biacca-cerussite in contenitori di cosmetici ancora piú antichi (III millennio a.C.) sono state segnalate per l’Asia Centrale, l’altopiano Iranico e la valle dell’Indo. Innaturali maschere bianche, come quella di Elisabetta I, sembrano avere costellato le cerimonie e gli eventi sociali delle élite di 5000 anni fa, «alla faccia» di qualsiasi considerazione igenica, e a riprova dell’alto prezzo pagato dalle donne per le conquiste della civiltà della quale siamo tanto fieri. L’intossicazione da piombo nei cosmetici, quindi, è stata un costante rischio, per le donne delle classi piú elevate, per almeno 5000 anni, La rivoluzione industriale ha esteso questo «regalo» anche alle donne delle classi medie, e il pericolo non è stato ancora scongiurato, se è vero che ancor oggi continuano a essere diagnosticati casi di encefalopatia acuta e neuropatia motoria causati, in donne anziane, dal prolungato uso di rossetti e fondotinta fatti con derivati del piombo (Neurology, 69, 2007). E spesso contengono solfuro di piombo i trucchi per occhi di produzione orientale chiamati kohl, kajal, al-kahl o surma, che in un modo o nell’altro continuano a giungere alle ragazze e ai giovani «alternativi» del nostro Paese. Non sappiamo se la cerussite venisse prodotta con la tecnica dell’esposizione del piombo all’aceto: è cosa perfettamente possibile, dato che il vino era noto nell’Asia Media almeno dalle fasi centrali del Neolitico, e vi erano stati almeno due o tre millenni per sperimentare le possibili applicazioni industriali dell’aceto. Ma è certo che l’industria protostorica dei cosmetici – dato che in essa dovevano confluire l’estrazione delle sostanze aromatiche, di grassi animali e vegetali, e il trattamento complesso di diversi preparati metallici – rappresenta un perfetto esempio della complessità tecnica cresciuta nelle prime città, all’insegna dell’intersezione tra i piú svariati cicli produttivi. Possiamo anche anche chiederci

quale fosse esattamente lo scopo ultimo della tecnologia dei cosmetici in questo particolare momento storico e contesto sociale. Vero è che quello dei cosmetici può essere considerato uno dei pochi imperativi universali di ogni società umana, al punto che Charles Darwin in The descent of man, and selection in relation to sex (Londra, 1871) propose questo argomento come una fondamentale prova dell’unità del genere umano. Persino nell’Inghilterra vittoriana, una delle società piú sessuofobiche e misogine mai esistite, le donne riuscivano ad aggirare il divieto assoluto di trucchi e rossetti, pizzicandosi ad arte il volto e le labbra, e decorando gli abiti con lustrini che illuminavano impercettibilmente i tratti del volto con veri e propri «effetti speciali»; e le restrizioni messe in opera nel

nili e maschili). La tinta della carnagione è parte della stessa sindrome. In tutte le popolazioni del globo, le femmine della nostra specie hanno mediamente la pelle piú luminosa e verdastra dei maschi, la cui pelle tende invece al rossastro, e il contrasto tra pelle, occhi e labbra è maggiore nelle femmine che non nei maschi. Una possibile spiegazione è che maschi hanno concentrazioni superiori di emoglobina nel sangue, al punto che alcuni scienziati pensano che la nostra notevole sensibilità al colore si sia evoluta per la necessità di parrezzare al meglio queste sfumature cromatiche nel riconoscimento sessuale; inoltre nelle donne che hanno la pelle piú chiara si riscontra una accresciuta produzione della vitamina D3, preziosa nella gravidanza e nell’allattamento, un altro possibile fattore, conscio o inconscio, dell’attrattività tra i sessi. L’uso dei cosmetici servirebbe, quindi, proprio ad accentuare questi aspetti somatici e la loro interazione, creando cosí voltimaschera non solo esenti da difetti, ma anche e soprattutto superfemminili.Volti di regine, quindi, ma anche di donne del sacro, sacerdotesse e dee, senza escludere l’altra faccia della medaglia – quella della sensualità e della seduzione, che spesso richiedono modelli estetici assolutamente artificiali. Ruoli virtuali, certamente, ma necessari a sorreggere strutture sociali sempre piú piramidali e diversificate, come quelle dei primi Stati e delle prime città. I volti bianchi di carbonato di piombo, nei quali labbra e occhi risaltavano come gemme, erano destinati a suscitare reazioni favorevoli – ammirazione, desiderio o timore che fosse – negli astanti e nel pubblico, e condizionarne il comportamento. In ultima analisi, le tecnologie dei cosmetici, nella loro complessità tecnica, possono essere interpretate alla stregua di quelle della scrittura: si stratta in ogni caso di procedure finalizzate all’organizzazione e alla gestione dall’alto delle vite altrui.

Secondo Darwin, il genere umano si ritrova «unito» nella produzione dei cosmetici secolo passato dai Paesi comunisti ebbero come unico risultato la fioritura di un attivissimo mercato nero di questi prodotti. Al di là dell’assoluto arbitrio dei modelli culturali umani, esiste, quindi, un archetipo universale, scientificamente misurabile e condiviso da ogni cultura, della bellezza femminile? Sembrerebbe proprio di sí, almeno a giudicare dalle ricerche di Richard Russell, antropologo al Dipartimento di Psicologia dell’Università di Harvard.

Le «coordinate» della bellezza L’attrattività di un volto dipenderebbe, secondo Russell, da una serie di fattori quali un aspetto giovanile, l’omogemeità della pelle, una somiglianza generale del viso a quelli della media delle popolazioni, una perfetta simmetria bilaterale, e un accentuato dimorfismo sessuale (differenze accentuate e immediatamente percepibili tra tratti femmi-

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Il mestiere dell’archeologo Beni culturali ed economia/2

Valori nascosti L’archeologo può e deve trarre utili insegnamenti anche dal confronto con le «dure» leggi dell’economia. Che possono offrire indicazioni cruciali per centrare gli obiettivi della tutela e della valorizzazione

di Daniele Manacorda


ella nuova rivista di cui abbiamo dato notizia nel N precedente numero di «Archeo»

(318, agosto 2011), Massimo Montella si rivolge agli specialisti di economia aziendale invitandoli a non «temere di addentrarsi nel sancta sanctorum, dove gli addetti al culto decidono strategie e prodotti per ragioni che i profani non possono che fideisticamente accettare». Noi addetti ai lavori, che nel sancta sanctorum dimoriamo, dobbiamo accettare la critica implicita in queste parole, spogliandoci un po’ del ruolo di custodi del recinto. Il motivo è forse un po’ crudo da digerire, ma è realistico: l’impresa che di fatto gestisce il patrimonio culturale, per esempio un museo o un parco archeologico, per come adesso è gestita – continua il direttore della rivista – «crea cosí poco valore da rischiare il fallimento e con esso la perdita finanche della materia prima», cioè del patrimonio stesso, perché il prodotto incontra una domanda effettivamente esigua. Mi pare che il punto stia proprio qui. E bene facciamo a prenderne coscienza. Infatti, se il valore di un bene consiste nella sua utilità, questa non è una caratteristica intrinseca all’oggetto, ma si identifica con quella di volta in volta percepita nel corso delle generazioni. La storia stessa di ciò che è andato perduto nel corso dei secoli o di ciò che al contrario è stato conservato può essere vista come la storia del valore percepito. E quando la quantità di coloro che non comprendono l’utilità delle testimonianze culturali raggiunge una soglia critica, diviene assai piú difficile sopportare i costi della loro conservazione. Noi addetti ai lavori siamo i primi a interrogarci sulle sale Particolare del David di Michelangelo, tra i simboli di Firenze celebri in tutto il mondo. Sullo sfondo, Palazzo Vecchio con la torre dell’orologio in facciata, anch’esso emblema della città toscana.

perennemente vuote di alcuni musei, che magari conservano opere di altissimo valore storico e artistico, ma che nessun turista frequenta. E non ci rallegriamo affatto – come pure taluno fa – di quelle sale, rese godibili dal fatto di essere deserte: se le truppe del turismo «mordi e fuggi» che invadono città d’arte e musei di prestigio possono essere sgradevoli, la cultura consumata in solitudine da pochi eletti non lo è da meno. Il fatto di cui discutere è perché mai in Italia ci siano pochi, pochissimi musei che fanno il pieno tutto l’anno e la stragrande maggioranza degli altri che fatica ad attrarre turisti, studenti, cittadini, dibattendosi tra difficoltà finanziarie spesso insormontabili. Verso una società per appartenenze? Insomma, in buona sostanza gli economisti ci dicono che si tutela ciò di cui si avverte l’utilità, e solo in questo caso se ne sopportano i costi. Siamo dunque avvisati. C’è semmai da domandarsi chi sia questo soggetto impersonale che percepisce e paga in una società multistratificata. E fatico a rispondermi, dal momento che la risposta immediata sarebbe: lo Stato. Ma poi ci cattura l’impressione che le nostre democrazie occidentali non stiano andando verso un allargamento della base di consenso alle forme dello Stato democratico (ammesso che queste esistano una per volte per tutte), ma si stiano adattando a una forma di società organizzata per appartenenze. Il nostro colto mondo occidentale va quindi incontro a una situazione in cui l’amministratore (i governi) faticherà sempre di piú a spendere per un patrimonio il cui valore non è piú percepito dagli amministrati (i cittadini)? La prospettiva non è esaltante, anche se possiamo sempre sperare (almeno qui in Italia) che qualche buona riforma (per esempio, una legge elettorale meno indecente di quella attuale) riduca la distanza siderale tra cittadini e

istituzioni politiche. Il popolo è forse migliore dei suoi rappresentanti. Poi, a ben riflettere in una prospettiva storica, ci si accorge che tutte le legislazioni di tutela, per restare nel campo del patrimonio culturale, sono state di fatto sempre imposte da una élite intellettuale a una comunità tutt’altro che pronta a percepire il valore dei beni tutelati. Leggi e regole sono state pensate, scritte e gestite da chi era piú consapevole del valore del patrimonio e della missione di cui si era fatto carico, di volta in volta individuando i punti di equilibrio che rendessero compatibili quelle norme (in genere restrittive di poteri forti, economici e anche ideologici) con gli assetti generali della società del momento. C’è quindi anche un tasso di paternalismo nella storia della legislazione europea in materia di tutela del patrimonio culturale, nel senso che il mondo della cultura è a volte (solo a volte) riuscito a convincere la politica a usare il potere per una missione che interpretava non i bisogni epidermicamente percepiti dalla popolazione, ma quelli che si riteneva fossero i loro bisogni piú profondi e reconditi.Avere piú cultura significa infatti possedere maggiore capacità di affrontare le difficoltà della vita con la consapevolezza che permette di cogliere meglio il senso della comunità a cui si appartiene e produce coesione e solidarietà sociale. Insomma, se fosse vero che un tasso di maggiore cultura fornisce gli strumenti per giudicare valori che circolano all’interno di una comunità, la verifica di questo assunto sta nella capacità da parte di chi ha piú cultura di trasmettere questi valori all’indirizzo non di troppo pochi, come oggi spesso accade, ma di molti, in ipotesi della comunità tutta intera. Ne consegue che la valorizzazione del patrimonio culturale non può prescindere dalle forme della sua gestione e che l’una e l’altra

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La necropoli delle Grotte, all’interno del Parco Archeologico di Baratti, a Populonia.

decidono in ultima istanza, nei fatti, anche della tutela, della sua vastità e della sua efficacia. Anche per questo motivo il tema della gestione del patrimonio culturale è oggi al centro del dibattito circa un’effettiva possibilità di sviluppo degli interventi pubblici e privati nel campo dei beni e delle attività culturali. La cultura della gestione si intreccia con i temi delle risorse disponibili, delle compatibilità di spesa, della capacità amministrativa e delle competenze professionali da attivare in questo settore. Ma si intreccia in primo luogo con il tema di un piú ampio uso sociale del patrimonio, da garantire attraverso scelte operative che, per esempio, nel caso della costituzione di un parco archeologico, dovranno tenere conto di una pluralità di fattori molto complessa, anche in

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considerazione della sostenibilità del progetto e delle sue ricadute sul contesto ambientale e umano nel quale è inserito. I «bisogni immateriali» Insomma, anche gli archeologi sanno ormai che un occhio professionale attento ai piani di gestione di una iniziativa nel campo dei beni culturali assicura stabilità ed efficienza e aiuta a raggiungere gli obiettivi specifici di ricerca, tutela e valorizzazione che sono all’origine del progetto, creando allo stesso tempo occupazione qualificata attraverso una programmazione culturale di qualità capace di soddisfare quei «bisogni immateriali» che stimolano la conoscenza e la crescita complessiva di una comunità. La valorizzazione, in definitiva, è il punto di arrivo di un processo complicato, che sa

guardare al di là dei contenuti stessi del patrimonio verso cui si esercita. E non consiste tanto nel mettere a disposizione pezzi di patrimonio culturale, magari in modo innovativo, a chi già sa godere di quelle ricchezze, quanto piuttosto nel fare in modo che il loro valore venga compreso nel miglior modo possibile dal maggior numero possibile di persone, accettando che venga arricchito anche dai valori sempre nuovi che da questi contatti possano scaturire. Solo chi si è cimentato con questo obiettivo sa quanto sia difficile e al tempo stesso appassionante, quanto sia irto di dubbi e al tempo stesso istruttivo, innanzitutto per chi se lo propone. In questa sfida il patrimonio culturale può davvero trovare nel pensiero economico un alleato formidabile. (2 - fine)



Antichi ieri e oggi

di Romolo A. Staccioli

La viabilità al tempo dei Romani/1

La «strada vecchia» è sempre la migliore... Gli indomiti legionari, i grandi conquistatori, gli imperatori, sono i protagonisti piú noti della straordinaria parabola cominciata sulle rive del Tevere. La cui testimonianza piú diffusa si trova ancora oggi... sotto i nostri piedi ra le singolarità che fanno delle antiche strade romane, sparse su T tre continenti attorno al Mare Nostrum, non solo il «monumento piú lungo» (e il «piú diffuso») della romanità, ma anche il «piú duraturo», c’è quella della sopravvivenza. Sotto diversi punti di vista: quattro, in particolare. Gli stessi antichi, del resto, erano consapevoli di aver costruito... per l’eternità, e si potrebbe dire che lo avessero previsto. Diodoro Siculo, scrivendo a proposito di Appio Claudio, osserva come quel grand’uomo, con la realizzazione

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Nella pagina accanto: un tratto della via Appia, costruita a partire dal 312 a.C. dal console Appio Claudio Cieco per collegare Roma a Capua. Detta regina viarum, nel II sec. a.C. la strada fu prolungata fino a Brindisi.

della via Appia, nel 312 a.C., avesse lasciato in suo ricordo un «monumento imperituro». Come imperiture – o «perenni» – dovevano essere le pietre usate per la pavimentazione – i grandi e inconfondibili «basoli» poligonali di selce o di calcare – che per definizione (anche dal punto di vista formale) dovevano essere lapides perpetui. I metodi costruttivi Ma, prima ancora che le pietre – e condizione indispensabile per la durata del loro assetto e della loro funzione –, doveva essere duratura la «fondazione» della strada. La quale variava, naturalmente, rispetto a uno schema tipo, adattandosi alla natura del terreno, con soluzioni che tenevano conto di problemi e di situazioni particolari. Come mostra, per esempio, un tratto di strada presso Rochester, in Inghilterra, dove il consueto apparato della massicciata poggiava su una palificata di tronchi di quercia conficcati nel terreno paludoso. O come si verificava nella zona, dal terreno assai instabile, delle HautesFargnes, in Belgio, dove la «sottofondazione» venne eseguita,

oltre che con una palizzata, con un fitto tessuto sovrapposto di travi lignei longitudinali e trasversali. Quanto allo schema tipo, esso era già di per sé piuttosto complesso. La sua realizzazione avveniva normalmente «in trincea», con un apposito scavo riempito di successive stratificazioni di materiali diversi. Alla base di tutto era una massicciata (statumen), fatta con grosse scaglie di pietra dura ed eventualmente sormontata da un altro strato (rudus), di pietre piú piccole, costipate e tenute compatte con calce e pozzolana. Seguiva uno strato intermedio (nucleus), elastico, fatto di sabbia e pietrisco (oppure di ghiaia e frantumi di cocci e calcinacci), livellato con apposita battitura e col passaggio di pesanti rulli. Infine veniva il «rivestimento» esterno (pavimentum o summum dorsum), realizzato con i basoli affondati in un letto di sabbia. Un passo delle Silvae del poeta Stazio (IV, 3,40 e segg.) che celebra la costruzione, nel 95 d.C., della via Domitiana, lungo il litorale campano da Mondragone a Pozzuoli, rende bene, sia pur sinteticamente, il succedersi delle operazioni: «La prima incombenza fu quella di tracciare i solchi eliminando ogni intralcio e di scavare il terreno con un profondo fossato. Poi quella di riempire il fossato con materiale diverso e predisporre la base per lo strato superiore al fine di evitare che il

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suolo cedesse e una fondazione malsicura vacillasse sotto le pietre sovrapposte. Quindi si provvide a serrare la carreggiata su entrambi i lati con blocchi di pietra e a trattenerla con numerosi perni». Ponti, tagliate e cippi miliari Tornando alla «sopravvivenza», il suo aspetto piú immediatamente evidente è, naturalmente, quello rappresentato dai resti, cioè dalle testimonianze materiali. Siano esse dirette, come i tratti, anche lunghi e ben conservati, degli antichi basolati (magari coi marciapiedi e i paracarri). Siano esse indirette, come le infrastrutture e le «opere d’arte» di vario genere: i ponti, soprattutto, e i viadotti, e poi le «tagliate», i terrapieni (o «aggeri»), le muraglie di sostruzione o di contenimento, i passaggi sotterranei e le gallerie, le pietre miliari e le iscrizioni commemorative, e perfino i sepolcri, solitamente allineati lungo la carreggiata. Disegno ricostruttivo della sezione di una strada romana con l’indicazione degli strati di cui era composta. 1. Statumen: massicciata di base composta da grandi blocchi di pietra dura. 2. Rudus: strato composto da pietre frantumate, legate con la calce. 3 Nucleus: strato elastico, composto da sabbia e pietrisco livellato e battuto da grossi rulli. 4. Pavimentum: rivestimento esterno realizzato con basoli, grandi pietre con superficie piatta e forma a cuneo posate su un letto di sabbia.

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Disegno ricostruttivo che mostra in sezione una strada romana con sottofondazione in legno, utilizzata in presenza di terreni paludosi o fangosi.

Di esempi se ne possono fare a volontà: dal Ponte di Augusto e Tiberio, a Rimini, sul Marecchia, a quello di Alcantara, sul Tago, tra la Spagna e il Portogallo, dal taglio del promontorio del Pisco Montano, presso Terracina a quello del Passo di Tighanimine, in Algeria, tra i monti dell’Aures e il deserto, dalla via alpina di Donnaz, inVal d’Aosta, scavata nella viva roccia, al monumentale viadotto dell’Appia, presso Ariccia, nei Castelli Romani, dalla galleria del Furlo (l’antico Forulus), presso Fossombrone, nelle Marche a quella sotto il Monte Grillo (la Crypta di Cocceio), nei Campi Flegrei, in Campania. Fino alla «lapide di Polla», nel Salernitano, che commemora la costruzione della via Popilia, da Capua a Reggio Calabria, e ai cippi miliari ancora in situ, come, tra i tanti, quelli di San Lorenzo di Sebate, in Alto Adige e di Leptis Magna, in Libia. C’è poi l’aspetto che riguarda la

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continuità d’uso. Ma qui basta ricordare come, nonostante gli abbandoni e le distruzioni, la rete stradale romana sia stata, nel suo insieme e specialmente in Europa (della quale può essere annoverata tra le «radici»), alla base di tutta la grande viabilità moderna. Le «solite» strade A cominiciare dalle famose vie consolari in partenza da Roma, grandi arterie di ieri come lo sono ancora oggi, trasformate in strade statali (con tanto di numero d’ordine) e indicate sempre con gli stessi nomi, «familiari» da oltre due millenni: dall’Appia alla Flaminia, dall’Aurelia alla Cassia. Piú esattamente, si può dire che, almeno fino alla fine del Settecento, buona parte della rete stradale europea era ancora quella romana. E che la sua «continuazione» è arrivata sostanzialmente fino ai nostri giorni e all’avvento delle autostrade. A proposito delle quali c’è da accennare, almeno, a un altro tipo di «sopravvivenza» (o di «ripresa»): quello dei principi ispiratori e dei criteri di realizzazione.Vale a dire delle caratteristiche di fondo. Per non parlare dei percorsi che, non di

rado, sono gli stessi, come, in Italia, nel caso del lungo tratto dell’Autostrada del Sole tra Bologna e Piacenza che segue, parallelo e adiacente, il percorso dell’antica via Aemilia, tuttora in funzione. Tra le caratteristiche di fondo che accomunano strade romane e autostrade c’è quella del collegamento diretto, anche a grandi distanze, di centri importanti (e, in particolare, dei due «capolinea», come nel caso della prima via Appia, da Roma a Capua, l’odierna Santa Maria Capua Vetere), con l’esclusione dei centri minori intermedi, eventualmente «recuperati» con vie minori di raccordo. Quindi, la tendenza alla linea retta (come nel caso della già citata via Emilia, che da Cesena a Piacenza, seguiva – e tuttora segue – un rettifilo sostanzialmente unico di 235 km), col superamento degli ostacoli naturali mediante opere d’arte anche di grande impegno. Infine, la ricerca costante della posizione in elevato (o «in levata») della carreggiata e quella della sua permanenza in quota (o «tenuta dell’altezza»). (1 – continua)



L’età dei metalli

di Claudio Giardino

Democrazie di... ferro Il progressivo abbandono del bronzo in favore di un metallo assai piú facile da reperire e lavorare non segnò soltanto una svolta tecnologica, ma favorí anche importanti sviluppi nell’assetto sociale delle civiltà antiche

avvento del ferro non è stato solo una tappa tecnologica, ma L’ la premessa per una rivoluzione culturale e sociale destinata a travolgere le strutture aristocratiche del mondo antico. Il bronzo era stato il principale metallo usato per fabbricare armi e strumenti per oltre mille anni, cioè lungo tutto l’arco del II millennio a.C. Il bronzo è una lega costituita da rame e stagno: per produrlo, era quindi necessario disporre dei due elementi, entrambi di difficile reperimento. Il rame, seppure non abbondante, è tuttavia relativamente diffuso nei suoi minerali, quali ossidi, carbonati (soprattutto malachite e azzurrite) e solfuri (principalmente la calcopirite). Assai raro è invece lo stagno, il cui principale minerale, la cassiterite, si rinviene soltanto in pochissime aree del mondo antico, concentrate soprattutto nell’Europa Occidentale (Penisola Iberica, Isole Britanniche, Francia, Germania). Il valore dello stagno era quindi assai elevato, anche in considerazione dei lunghi tragitti che doveva compiere per giungere dai Paesi produttori a quelli consumatori. Sappiamo che il costo dello stagno, calcolato in rapporto all’argento, era di circa 1:10, e che, in tempi di crisi, poteva anche raggiungere il valore di 1:4. L’uso del bronzo era quindi

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appannaggio di comunità dall’economia prospera e, al loro interno, solo le persone piú facoltose, cioè i membri dell’aristocrazia, potevano permettersi di disporre di armi personali nel prezioso metallo. Ne fornisce una testimonianza eloquente l’Iliade, dove l’uccisione dell’eroe nemico comporta poi una contesa per possedere le armi e la corazza dello sconfitto, che rappresentano un vero e proprio bottino di guerra. Il libro XXIII, per esempio, ci mostra Achille che, durante i giochi funebri in onore di Patroclo, decide di donare a Eumelo una delle armature che aveva conquistato, affermando: «Gli darò la corazza che ho tolto ad Asteropeo, di bronzo, e vi corre intorno un cerchio di lucente stagno; gli sarà molto preziosa». La rivoluzione siderurgica Con l’avvento del ferro il mondo omerico aristocratico si avvia al tramonto. I minerali da cui si estrae il ferro si trovano pressoché dappertutto, a differenza di quelli necessari alla produzione del bronzo: chiunque può cosí disporre di armi per combattere, fino ad allora riservate a una ristretta minoranza. Sebbene il ferro nativo (e quello meteoritico, vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011) sia assai raro, i minerali ferrosi,

Coltello con lama in ferro (di cui si conserva solo un frammento), manico in bronzo e fodero ornato da incisioni raffiguranti cavalli, dalla Tomba Ricovero 232, Este (Veneto). VI sec. a.C. Este, Museo Nazionale Atestino. Intorno al 1000 a.C., le armi in ferro, metallo piú economico e semplice da reperire, sostituirono gradatamente quelle realizzate in bronzo e riservate a una minoranza.

costituiti da ossidi e idrossidi quali la magnetite, l’ematite, la limonite e la goethite, sono invece comuni e diffusi. Come ogni rivoluzione, anche quella siderurgica, non è stata improvvisa, ma ha avuto origine in periodi lontani, per poi realizzarsi in un arco di tempo relativamente breve. Già agli inizi del II millennio a.C. compaiono a Cipro, nella necropoli di Lapitos, oggetti di ferro non di origine meteoritica, cioè nei quali il metallo era stato estratto dai suoi minerali. Non è un caso che tale precoce comparsa avvenga proprio nella regione che era la principale produttrice di rame per il Vicino Oriente. L’esistenza di una vera e importante industria metallurgica sull’isola deve aver indotto a scoprire, in modo forse inizialmente casuale, la possibilità di ottenere ferro non solo dalle meteoriti, ma anche artificialmente. Com’era da tempo noto ai metallurghi ciprioti, l’aggiunta di


ossidi di ferro durante i processi di estrazione del rame permette il formarsi della scoria, che assorbe ed elimina le impurità presenti nel minerale cuprifero. In particolari condizioni ambientali e di temperatura all’interno del forno fusorio, i minerali ferrosi impiegati come scorificante possono, talora, produrre casualmente piccole quantità di ferro metallico. La comparsa nella scoria di gocciole di un metallo biancastro e argenteo assieme a quelle giallo-rossicce del rame deve aver attratto l’attenzione degli esperti fonditori, che avranno poi tentato di riprodurle, questa volta in modo non casuale. La presenza di oggetti in ferro aumenta progressivamente nel Mediterraneo orientale nel corso del II millennio a.C., sebbene restando sempre alquanto limitata. Solo verso la fine del periodo, intorno al XII secolo, si diffondono le armi in ferro, che iniziarono a sostituire lentamente quelle in bronzo intorno al 1000 a.C. Il crollo degli imperi d’Oriente Il ferro inizia la sua ascesa proprio mentre l’uso del bronzo è all’apogeo, quando, sia in Europa che nel Vicino Oriente, la versatilità della lega di rame e stagno era sfruttata al meglio delle sue potenzialità e nulla lasciava presagire un suo prossimo tramonto. Per comprendere i motivi di questo epocale cambiamento occorre tenere conto del mutare degli scenari politici ed economici su scala globale. Per tutto il II millennio una articolata rete di traffici internazionali, sia terrestri che marittimi, si snodava attraverso l’Europa e l’Asia mettendo in comunicazione regioni anche molto lontane fra loro per approvvigionare i ricchi imperi del Vicino Oriente del prezioso stagno. Se osserviamo una mappa del Mediterraneo orientale durante il XIV secolo a.C. notiamo l’esistenza di poche, grandi entità statali multi-regionali che

Elmo corinzio in bronzo, dal Peloponneso. VI sec. a.C. Olimpia, Museo Archeologico. Il bronzo, una lega di rame e stagno, fu utilizzato per la costruzione di armi e strumenti per tutto il II mill. a.C.

governano e controllano, direttamente o indirettamente, l’intera area: l’Egitto faraonico, gli Ittiti, Babilonia, l’Assiria, i Mitanni; i regni micenei dominano l’Egeo e influenzano anche la Penisola italiana.Tra il XIII e il XII secolo il panorama geopolitico muta in modo brusco e radicale, con il collasso del mondo miceneo, dell’impero ittita in Anatolia e Siria, e di quello egizio in Siria e Palestina. È questo il periodo in cui

Troia viene violentemente distrutta, cosí come molti altri fiorenti centri del Mediterraneo, quali Gaza in Palestina e Lipari nelle Eolie. In questo stesso momento le fonti orientali ci parlano di misteriosi pirati e predoni, definiti «Popoli del mare», una sorta di confederazione di corsari che, con le sue scorribande lungo le coste e il controllo del mare aperto, causò un’enorme instabilità politica ed economica.

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Il Vicino Oriente nel XIV secolo a.C. con le grandi potenze del periodo: Egitto (verde), Hatti (giallo), regno cassita di Babilonia (porpora), Assiria (grigio), e Mittani (rosso). Le aree contornate dai toni piú chiari mostrano il controllo diretto, mentre quelle dai contorni piú scuri rappresentano le sfere di influenza. L’estensione della civiltà acheo/ micenea è indicata dall’arancione.

Essi tentarono persino di conquistare l’Egitto, ma furono respinti dal figlio di Ramesse II, il faraone Merenptah (1212-1202 a.C. circa) e, una ventina di anni piú tardi, da Ramesse III (11841153 a.C. circa); la grande iscrizione di Karnak e quella del tempio funerario Medinet Habu (Tebe) ci tramandano le gesta di queste epiche lotte. In questo quadro ben si comprende come gli approvvigionamenti di rame e stagno non potessero piú essere garantiti; la richiesta di metallo, forse anche aumentata dalla crescente necessità di armi, dovette spingere a intensificare la sperimentazione e la produzione del nuovo metallo in sostituzione del bronzo, divenuto ancora piú costoso e prezioso per la carenza di stagno. Il ferro dolce è tuttavia un cattivo sostituto del bronzo, poiché meno resistente. Per renderlo realmente utilizzabile fu necessario scoprire e sviluppare nuove tecniche che permettessero di trasformarlo in acciaio, cioè la cosiddetta carburazione.Ancora una volta uno dei primi esempi di acciaio conosciuti per ilVicino Oriente proviene dall’isola di

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Cipro, dal sito di Idalion, dove è stata rinvenuta una lama in questo materiale databile al XII secolo a.C. L’accesso alle armi Una volta che la tecnologia del ferro iniziò a essere diffusa, il suo ulteriore sviluppo fu inarrestabile: nel IX-VIII secolo a.C. il ritorno all’uso del bronzo non era ormai piú né ipotizzabile, né possibile. Come sempre avviene, nessuno dovette rendersi conto che l’adozione del nuovo metallo avrebbe modificato profondamente le vecchie strutture sociali: essendo assai piú facile da reperire e quindi piú economico, si sarebbe necessariamente diffuso verso strati sempre piú larghi della popolazione. In poco tempo anche le classi meno agiate ebbero cosí accesso, tra l’altro, alle efficienti armi metalliche, di cui era loro in precedenza precluso il possesso. È anche da queste premesse tecnologiche che nel VI secolo a.C. nacque in Grecia la democrazia. La parola «democrazia» deriva dalla fusione dei termini «demos» (popolo) e «kratos» (potere) e indica

un’organizzazione sociale che consente a ogni cittadino di partecipare all’amministrazione della cosa pubblica; l’accesso ugualitario all’armamento ne è una componente necessaria. Nell’età del Bronzo il re e i nobili erano i soli a essere armati e combattevano sui loro carri, in uno scontro corpo a corpo fra eroi. Con l’età del Ferro un numero sempre maggiore di cittadini poté disporre delle armi pesanti e si diffuse, dal VII secolo a.C., un nuovo modo di combattere, che coinvolgeva in modo diretto l’intero esercito. La fanteria oplitica, costituita da fanti con l’armatura pesante, era fornita inizialmente dalla classe media delle città-stato elleniche, ma finí per reclutare, in seguito, anche cittadini meno abbienti a spese dello Stato. La sua affermazione sui campi di battaglia la rese la forza preponderante negli eserciti di Atene, di Sparta e di altre città greche, diffondendosi poi nelle comunità della Magna Grecia e della Sicilia, sino all’Etruria e a Roma. L’uso del ferro, verosimilmente pensato e utilizzato all’inizio solo per sostituire una lega divenuta momentaneamente troppo costosa, pose quindi le basi per cambiamenti che avrebbero coinvolto non solo la sfera economica, ma anche quella sociale, militare, culturale dell’intera umanità. Se dovessimo cercare una morale per questa storia, dovremmo concludere che, quando si applica una nuova tecnologia, ora come nel passato, si mettono in moto cambiamenti a catena di cui non è mai possibile prevedere gli esiti ultimi, sia positivi che negativi.



Medea e le altre

di Francesca Cenerini

La comunità ringrazia Alla metà del II secolo a.C., in Asia Minore, gli abitanti di Cuma eolica tributarono grandi onori ad Archippe, che molto aveva fatto per la sua città. Una scelta che diede visibilità alla donna, anticipando un costume che sarebbe stato ripreso, seppur con scopi diversi, anche nel corso dell’età imperiale romana rchippe di Cuma è nota da otto decreti incisi su grandi A pilastri di marmo emanati dal

consiglio cittadino (boulé) e dall’assemblea popolare (demos) di Cuma eolica, città greca dell’Asia Minore, oggi in Turchia. I due pilastri dovevano essere corredati da altri blocchi marmorei, oggi perduti, ed è presumibile ritenere che, in origine, fossero collocati ai lati dell’ingresso del sepolcro monumentale di Archippe stessa. Si tratta di un uso attestato a partire dalla seconda metà del II secolo a.C., cioè quello di fare incidere sul monumento funerario tutte o una parte selezionata delle onorificenze che il defunto aveva ottenuto in vita, all’interno di quella che Ivana Savalli-Lestrade definisce «una scenografia monumentale complessa, imperniata sulla commistione tra onori in vita e onori post mortem» (Grecia al femminile, RomaBari 1993, p. 231). I decreti sono stati emessi allo scopo di onorare una grande benefattrice della città, di nome Archippe, appunto, figlia di Dikaioghenes e risalgono alla seconda metà del II secolo a.C. La donna deve avere svolto un ruolo importante nella sua città, in un

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momento politico complesso, che vedeva la creazione, da parte dei Romani, della provincia d’Asia, con tutte le conseguenze economiche del caso.Tali testi legislativi ci illustrano gli interventi

della donna in favore della città: ha contribuito, con il proprio denaro, alla costruzione e all’ampliamento del bouleuterion (l’edificio sede della boulé) e all’edificazione di un’area sacra intitolata alla Concordia (Homonoia), personificazione divina di un concetto quanto mai

necessario alla politica del tempo; ha sovvenzionato il funzionamento delle strutture e ha donato ai bouleuti, cioè ai membri della boulé, una certa somma di denaro e, secondo la consuetudine del tempo, ha offerto nell’edificio appena inaugurato un banchetto a tutta la cittadinanza. Un altro decreto, redatto nella variante locale del dialetto eolico, concede ad Archippe una nuova importante onorificenza: si propone di erigere una statua in bronzo che la ritrae, da collocarsi in prossimità del bouleuterion, affiancata da una personificazione colossale del Demos (Popolo) di Cuma, raffigurato nell’atto di incoronarla. A fianco di questo gruppo scultoreo sarebbe stata eretta anche la statua del padre di Archippe, Dikaioghenes, a testimonianza che «i meriti acquisiti da una donna diventano motivo di onore e di vanto per i propri familiari, rovesciando cosí il rapporto che vedeva normalmente la donna ricevere onore dai maschi della propria famiglia» (Franca Ferrandini Troisi, La donna nella società ellenistica.Testimonianze epigrafiche, Bari 2000, p. 48).


Viene inoltre deciso che in occasione delle feste Dionisie l’agonotheta, vale a dire il direttore della manifestazione, incoroni Archippe con una corona d’oro e la faccia sedere in prima fila, riservandole quel privilegio, la cosiddetta proedría, che ha una lunga tradizione nei rapporti diplomatici tra le città greche.Tale concessione sarebbe stata rinnovata ogni anno, in occasione della stessa manifestazione. Onori in vita e post mortem Questa donna e la sua ricchezza dovevano insomma stare molto a cuore agli abitanti di Cuma eolica, tanto che, quando si ammala gravemente, il popolo si affretta a offrire un sacrificio agli dèi per la sua immediata guarigione, come leggiamo in uno dei decreti in suo onore. Ancora, vengono stabilite onorificenze post mortem: si tratta del precoce conferimento di un’altra corona d’oro, questa volta alla memoria della defunta, unitamente a un luogo speciale adibito alla sepoltura, vale a dire nell’area riservata ai benefattori della città. Questi documenti rispecchiano molto bene le potenzialità che la società ellenistica concedeva alle donne ricche, che potevano svolgere un ruolo economicamente attivo nei confronti delle comunità di appartenenza.Va comunque detto che i benefattori, tecnicamente evergeti, della tarda età ellenistica sono accomunati, uomini e donne, da qualità, per cosí dire, standard, che compaiono sui monumenti eretti in loro onore: areté (valore), nobiltà, dedizione, inclinazione al bene, generosità, eccetera. Archippe, in quanto donna, si può fregiare anche del riserbo (sophrosyne) e della moderazione (eutaxía). Si tratta, è bene sottolinearlo, di dogmi morali relativi al comportamento della

Statua in marmo di Livia in trono rappresentata come Cerere, dall’Augusteo di Roselle, in Toscana. I sec. d.C. Grosseto, Museo Archeologico e d’Arte della Maremma. Nel mondo romano l’onore di ricevere una statua in vita venne concesso, per la prima volta, nel 35 a.C., a Ottavia, sorella dell’imperatore Augusto e a Livia, la moglie. Nel mondo greco, lo stesso privilegio era stato accordato, alla metà del II sec. a.C., ad Archippe di Kyme. La donna aveva finanziato l’edificazione del Bouleuterion e la costruzione, nell’agorà, di un’area sacra dedicata alla dea Concordia. Nella pagina accanto: tetradramma coniato nella città di Kyme.


Una veduta degli scavi nella città di Kyme (Cuma eolica), l’antica colonia greca, fondata sulla costa egea dell’odierna Turchia, in cui visse Archippe.

donna greca, che la debbono accompagnare per tutta la vita. Ma Archippe ha un ruolo del tutto attivo all’interno della sua città e, si potrebbe dire, autonomo, ed è in grado di fare valere le proprie istanze nei confronti delle istituzioni civiche. Come ha bene sottolineato Ivana Savalli (opera citata, p. 258) «lo sbilanciamento dallo stereotipo dell’areté femminile, passiva e “gregaria”, a quello dell’areté mascolina, attiva e “direttiva”, è evidente nei decreti in onore della donna». Archippe è in grado di interagire con la città di Cuma e con le sue istituzioni perché è ricca e nobile. Non siamo in grado di stabilire se sia stata indotta ad agire per pura filantropia, oppure per obbligi legati all’assolvimento di una liturgia, ovvero un incarico di carattere pubblico da finanziare obbligatoriamente a proprie spese, pratica che vanta una tradizione antichissima nel mondo greco, oppure perché aveva assunto una carica pubblica. Nel mondo ellenistico, in Asia Minore e nelle isole del Mare Egeo, infatti, a differenza di quello romano, cariche civiche piú propriamente istituzionali sono aperte anche alle donne, come è attestato dalla

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documentazione epigrafica coeva. Influenze orientali, istruzione di alto livello anche per le donne e la presenza nelle corti ellenistiche di donne carismatiche – che avevano un ruolo attivo in tali pratiche evergetiche –, sono alcuni dei fattori che determinano tale situazione. L’immagine delle Augustae In ogni caso, il benefattore, indipendentemente dal genere sessuale di appartenenza, attraverso l’impiego di denaro privato per scopi pubblici, acquisisce un’immagine pubblica, si potrebbe quasi dire, adoperando un lessico moderno, una visibilità mediatica. Abbiamo appena avuto modo di vedere che ad Archippe è stata concessa, come grande privilegio, l’erezione di una statua. Si tenga presente, per potere effetuare una comparazione con il mondo romano, che il diritto alla pubblica immagine (non funeraria) viene concesso con un plebiscito nel 35 a.C. a Ottavia e a Livia, rispettivamente sorella e moglie di Ottaviano, futuro imperatore Augusto.Tale diritto verrà riconfermato nel 9 a.C. alla sola Livia (Ottavia nel frattempo era morta), per consolarla, ci dicono le

fonti, in particolare Cassio Dione (55, 2, 5), della morte del figlio Druso Maggiore. Livia aveva avuto questo figlio dal primo marito Tiberio Claudio Nerone (anzi, si era addirittura sposata con Ottaviano mentre era incinta di questo secondogenito), ma Druso godeva di una posizione di assoluto prestigio a corte, anche grazie al suo matrimonio con Antonia Minore, figlia di Marco Antonio e di Ottavia e alle sue indubbie capacità militari. La possibilità di erigere statue femminili consentirà alle donne della gens giulio-claudia di godere di una sempre maggiore visibilità pubblica, con appositi spazi a loro destinati. Una visibilità anticipata, in un certo qual modo, dalle ricche donne ellenistiche, come dimostra appunto il caso di Archippe di Cuma eolica. Come attestano le tante statue giunte fino a noi, anche le immagini delle Augustae hanno contribuito, con il loro importante ruolo nella creazione di una domus Augusta, a propagandare il culto imperiale nei numerosissimi Augustea prontamente costruiti nelle città dell’impero romano, spesso per iniziativa evergetica di notabili locali.



L’altra faccia della medaglia

di Francesca Ceci

Figlio di Ercole e padre dei Sardi Un’emissione augustea celebra Sardus Pater, divinità profondamente legata alla religiosità dell’isola dei nuraghi ella zona del Sulcis, che occupa una parte della N Sardegna sud-occidentale, si

conservano, poco lontano dal paese di Fluminimaggiore (in provincia di Carbonia-Iglesias), i resti del tempio di Antas, dedicato a Sardus Pater. L’edificio, già localizzato dal geografo greco Tolomeo (Geografia, III, 3, 1-8, II secolo d.C.) e denominato Sardopàtros ieron (santuario di Sardus Pater), era in uso probabilmente sin dall’età nuragica. Gli scavi effettuati ne hanno identificato la fase punica (500 a.C. circa), mentre l’aspetto attuale si deve agli interventi effettuati da Augusto nell’ambito

della sua politica di rivalorizzazione delle divinità tradizionali e di pacificazione dopo la guerra civile contro Pompeo che coinvolse anche l’isola. Al tempo di Caracalla l’edificio fu nuovamente risistemato, continuando a essere frequentato sino alla fine del IV secolo d.C. Molto interessante è la figura di questo dio eponimo, sicuramente antico e direttamente derivato da una divinità indigena paleosarda (Babai) e poi punica (Sid), contraddistinta dall’essere guerriero e cacciatore. Sardus è

A sinistra: moneta in bronzo con, al dritto, testa virile e leggenda M(arcus) Atius Balbus Pr(aetor?); al rovescio (in alto), testa con elmo piumato e lancia sulla spalla e leggenda Sard(us) Pater. 38 a.C.

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considerato in una serie di fonti epigrafiche e letterarie antiche come figlio di Ercole, partito dalla Libia con un gruppo di coloni e giunto nell’isola, allora chiamata Ichnussa. Dopo essersi ben integrato con gli autoctoni e avendo evidentemente raggiunto un ruolo eminente nel nuovo ambito sociale venuto a formarsi, cambiò addirittura il nome dell’isola, attribuendole il proprio: Sardò, poi divenuto Sardinia (Pausania, X, 17, 1-2; Silio Italico, Punica, XIII). L’eroe civilizzatore Una tipica figura di eroe fondatore e civilizzatore, dunque, poi divinizzato quale progenitore nazionale, venerato in templi e attestato da raffigurazioni e epigrafi. L’iconografia, nota in particolare da bronzetti votivi, è contraddistinta da un insolito copricapo piumato, come quello che ricorre in una testa di eroe sardo da Decimoputzu (Cagliari) del VII secolo a.C. e poi in una statuetta che lo rappresenta databile al IV-III secolo a.C. da Gesturi (Medio Campidano),


entrambe al Museo Archeologico di Cagliari. Come attributi ha un giavellotto e/o una lancia, che ne connotano il carattere bellicoso. L’elemento distinguente di Sardus Pater è comunque il copricapo, noto già da raffigurazioni fenicio-puniche, che lo rende immediatamente identificabile. Il culto, come detto di antichissima origine indigena, perdurò nel corso dei secoli e poi con la romanizzazione della Sardegna; la longevità della devozione popolare, profondamente sentita, è attestata dal ritrovamento, poco lontano dal tempio di Antas, di una tomba della prima età altomedievale con un anello con dedica a Sida Babi, ovvero Sid-Sardus. Con le piume sul cappello A testimonianza del valore e della vitalità della figura di Sardus Pater quale divinità progenitrice dei Sardi si aggiunge la serie di monete provinciali in bronzo, di fattura piuttosto grossolana, contraddistinte al dritto da un volto identificato dalla leggenda in M Atius Balbus Pr e, al rovescio, da una testa virile sormontata dal copricapo piumato, con una lancia con puntale appoggiata alla spalla, che viene designato come Sard(us) Pater. Questa serie di bronzi è attribuita a Ottaviano, e fu battuta per suo ordine nel 38 a.C., in una zecca sarda ancora non identificata con certezza, per celebrare il passaggio della Sardegna dalla fazione di Sesto Pompeo a quella cesariana. Ciò avvenne a seguito del tradimento di Menodoro, legato militare pompeiano che, nel 40 a.C., aveva conquistato la Sardegna,

A sinistra: testa di eroe sardo con copricapo piumato, da Decimoputzu (Cagliari). VII sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico.

A destra: bronzetto di Sardus Pater, divinità progenitrice sarda, con lungo abito e copricapo piumato, da Gesturi, nella provincia del Medio-Campidano. IV-III sec. d.C. Cagliari, Museo Archeologico.

passato al campo avverso, quello di Ottaviano. Il fausto avvenimento fu quindi commemorato, proprio a livello locale, con queste emissioni che, con sottile intuito politico e demagogico, esaltavano da un lato il dio/eroe progenitore dei Sardi e, dall’altro, un personaggio politico che aveva rivestito un

ruolo importante nella Sardegna intorno al 60 a.C. quale pretore o propretore dell’isola, Marcus Atius Balbus, ricordato da Cicerone come «uomo per prima cosa onesto» (Filippiche, III, 6, 16). Si trattava, inoltre, del nonno materno di Augusto, che aveva sposato Giulia, sorella di Cesare, dalla quale ebbe Azia, madre, appunto, del futuro imperatore. Interessi propagandistici Balbo governò con successo e senso della giustizia l’isola, favorendo le aristocrazie e concedendo con larghezza la cittadinanza romana a singole famiglie locali. Di lui si occupa brevemente Svetonio (Vita di Augusto, 4, I), che lo ricorda per la carriera politica e per essere imparentato per parte di madre con Pompeo Magno. Quest’ultimo fatto, inoltre, faceva gioco a Ottaviano nell’ambito della politica di pacificazione con la parte pompeiana all’indomani della fine delle guerre civili, in quanto la moneta, seppure di ambito locale, celebrava un personaggio legato anche al grande Pompeo. Alcuni studi hanno tentato invece di riportare queste emissioni appunto all’epoca della pretura di M. Atius Balbus: un’ipotesi da escludere, in quanto sappiamo che il primo personaggio ad avere l’onore di apporre il proprio ritratto sulle monete romane quand’era ancora in vita fu Giulio Cesare, nel 45 a.C., cioè un quindicennio piú tardi.

per saperne di piú Rossella Pera, Monete con Sardus Pater nelle collezioni civiche genovesi, in L’Africa Romana, 14, III, Roma 2002, pp. 23072316. Raimondo Zucca, Sardus Hercolis filius, in L’isola di Herakles, Ghilarza 2004, pp. 44-47.

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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Clementina Panella (a cura di)

I SEGNI DEL POTERE Realtà e immaginario della sovranità nella Roma imperiale Edipuglia, Bari, 300 pp., ill. col. e b/n. 60,00 euro ISBN 9788872286166

«E ora che sarà di noi senza barbari? Loro erano comunque una soluzione». Questa frase drammatica e insieme desolata, tratta da una poesia di Konstantinos Kavafis, sintetizza, in apertura del volume, il senso di questo bellissimo studio, che chiude anni di appassionato lavoro in una zona del cantiere di scavo diretto da Clementina Panella alle pendici del Palatino. Uno studio degli straordinari reperti lí recuperati nel 2005, condotto coralmente da un’équipe di studiosi, che si inoltra fin nella piú intima materia, ci riporta, attraverso il mondo delle simbologie e delle rappresentazioni del potere imperiale di Roma, negli anni che consideriamo gli inizi della tarda antichità. Sono gli anni in cui molti dei monumenti che costituiscono l’attuale paesaggio archeologico di quel tratto di Roma (Colosseo, Archi di Tito e di Costantino, Templi di Venere e Roma e di Elagabalo, Meta sudans)

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quasi miracolosamente convissero l’uno accanto all’altro e, al tempo stesso, gli anni in cui tutto cominciò a essere diverso, in un mondo sospeso tra il sogno di conservazione della tradizione e la necessità di una trasformazione che giungesse dall’esterno come soluzione alla crisi della civiltà antica. Il ritrovamento delle insegne imperiali seppellite o nascoste nell’ambito di un edificio che viene interpretato come un santuario antichissimo, dove le memorie di Romolo, fondatore della città, vennero associate a quelle di Augusto, fondatore dell’impero, la cui casa natale sorgeva nelle vicinanze, è stato uno degli episodi piú spettacolari della piú recente archeologia di Roma (vedi «Archeo» n. 261, novembre 2006). Lo scavo ha restituito una stratigrafia impressionante, che si sviluppa ininterrottamente dall’età regia fino ai nostri giorni. I reperti (parti di tre scettri in ferro e in oricalco coronati da sfere di vetro verde e calcedonio, quattro punte di lance da cerimonia in ferro e in oricalco, quattro punte di lance portastendardi, usati per avvolgerle) sono riemersi da una fossa rudimentale nella quale erano stati frettolosamente occultati. Alla loro ricomposizione

e interpretazione hanno lavorato per mesi archeologi, storici, restauratori, fisici, chimici, paleobotanici. Solo in laboratorio, infatti, è stato possibile cominciare a capire attraverso il restauro dei materiali (metalli, legno, tessuti, pietre dure, pelle), che le lance erano custodite in astucci di pioppo, a loro volta rivestiti di cuoio e che gli stendardi, probabilmente di forma diversa, erano in seta e in lino, di colore rosso. L’eccezionalità della scoperta risiede nella

preziosità dei materiali con cui sono stati realizzati gli oggetti, nella loro unicità e nel loro stato di conservazione. Come emerge dalla accuratissima analisi dei confronti archeologici, non si conosce, infatti, alcun ritrovamento di oggetti cerimoniali di età imperiale altrettanto significativo. La ricca gamma di confronti iconografici su materiali assai diversi (raccolti

in una preziosa galleria di immagini in fondo al volume) ne permette però l’approfondita analisi antiquaria, che suggerisce l’appartenenza dell’intero contesto a un corredo imperiale. La datazione agli inizi del IV secolo d.C., desumibile dall’analisi stratigrafica e confermata dalle analisi del radiocarbonio effettuate sui materiali lignei, suggerisce che il titolare di quelle insegne fosse Massenzio (306-312), l’ultimo imperatore che esercitò il suo potere a Roma, dove morí tragicamente per mano di Costantino nella celebre battaglia di Ponte Milvio. Dopo lo scontro – suggerisce Clementina Panella –, qualcuno dei suoi seguaci potrebbe aver nascosto o seppellito le insegne. Certo nessuno ebbe modo di recuperarle. Che cosa accadde poi non sappiamo: l’archeologo e lo storico piú in là non possono spingersi e lasciano volentieri alla nostra fantasia e alle future ricerche qualche domanda senza risposta. Da una semplice buca senza forma, praticata nell’angolo buio di un’area carica di storia, paradigma delle persistenze e delle trasformazioni che ne hanno segnato il continuo sviluppo, questi splendidi oggetti, passati dallo scavo al laboratorio e alla biblioteca, ci permettono


di risalire dalle cose ai gesti e al loro significato rituale, per essere infine offerti al godimento pubblico in una sala appositamente allestita per loro nel Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo. Daniele Manacorda Giulio Paolucci (a cura di)

In viaggio con i grandi archeologi Sulle tracce degli Etruschi nelle Terre di Siena Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 167 pp., ill. col. e b/n 20,00 ISBN 978-88-3661-846-0

Un’archeologia lontana dai luoghi comuni. Cosí si potrebbe riassumere il senso di questa guida, che, peraltro, non è nemmeno un Baedeker

per chi voglia scoprire il ricco patrimonio delle Terre di Siena. Il volume curato da Giulio Paolucci è, infatti, una piacevolissima «provocazione»: spaziando fra i musei e le aree archeologiche di un comprensorio che, da questo punto di vista, è fra i piú ricchi del nostro Paese, le

testimonianze etrusche o romane si trasformano in altrettanti pretesti per offrire al lettore (e al viaggiatore) un ritratto a tutto tondo del territorio, segnalandone anche le risorse paesaggistiche, artigianali e gastronomiche. E poi, vera arma vincente di questo esperimento, ci sono i profili dei personaggi scelti come «ciceroni», cioè i grandi archeologi annunciati nel titolo. Dal marchigiano Giuseppe Pellegrini (1866-1918) – che condusse scavi e ricerche a Sovana e San Gimignano – al perugino Umberto Calzoni (1881-1959) – artefice di importanti ritrovamenti a Cetona – ciascun capitolo viene arricchito dai ritratti degli studiosi ai quali si riconosce il merito di avere fornito contributi essenziali alla conoscenza dei siti di volta in volta descritti. È un approccio che vivacizza la lettura, trasformando gli archeologi prescelti in altrettanti narratori delle vicende rievocate. Una «personalizzazione» che, anche grazie alle foto d’epoca spesso inserite, restituisce quel sapore un po’ pionieristico che, inutile negarlo, ancora oggi suscita passione e interesse nei confronti dell’archeologia. Stefano Mammini Maria Bonghi Jovino

Tarquinia. I tempi della scoperta Realtà e immaginario di un archeologo Edizioni Unicopli, 149 pp., ill. b/n 15,00 euro ISBN 978-88-400-1504-0

Nel 1982 Maria Bonghi Jovino avviò l’esplorazione dell’area urbana di Tarquinia: fu il primo scavo estensivo di una grande città-stato etrusca. Quelle indagini fortunate sono state al centro di numerose pubblicazioni che hanno arricchito in maniera sensibile le nostre conoscenze sul mondo etrusco. Da alcuni anni, l’archeologa ha avvertito la necessità di narrare l’avventura delle sue ricerche tarquiniesi mettendo in secondo piano la formazione di studiosa e facendo affiorare la vocazione per la scrittura. Nella pagine di Tarquinia. I tempi della scoperta si trovano le sue sensazionali scoperte, ma soprattutto le emozioni, le considerazioni che esse hanno stimolato in lei. Vi è la narrazione di un’impresa collettiva quale è sempre una campagna di scavo, con le difficoltà, le incomprensioni, le acquisizioni provvisorie (destinate solo in pochi casi a divenire certezze), i momenti felici per un traguardo conseguito o per un ritrovamento di particolare rilievo. Nel libro traspare poi

il rapporto tra una professoressa e i suoi allievi, caratterizzato dall’orgoglio di riuscire a trasmettere un sapere e, al contempo, la preoccupazione d’insegnare una disciplina di studi in grande difficoltà, o in trasformazione, a voler essere ottimisti. Vi sono inoltre le altre figure incontrate negli anni: colleghi, amministratori, operai, pastori, figure talvolta appena tratteggiate, altre volte esaminate nella loro complessità, o, meglio, umanità. Un volume, quindi, destinato soprattutto a chi oggi è un giovane archeologo in formazione anche se – come osserva l’autrice, riportando la scritta letta su un muro – «il futuro non è (sarà) quello di una volta», o forse proprio per questo. Giuseppe M. Della Fina Andrea Carandini

Res Publica Come Bruto cacciò l’ultimo

re di Roma Rizzoli, Milano, 194 pp., 31 ill. in b/n e a col. 18,90 euro ISBN 978-88-17-04813-2

Nel 2010 Andrea

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Carandini aveva preso in esame, in Re Tarquinio e il divino bastardo, i primi due monarchi etruschi di Roma, cioè Tarquinio Prisco e Servio Tullio. Ora il suo racconto prosegue spostando l’attenzione su Tarquinio il Superbo e Lucio Giunio Bruto e, piú in generale, sul passaggio tra la monarchia e la repubblica a Roma. La narrazione si sviluppa, come nel volume precedente, raccontando le vicende attraverso l’esame delle fonti letterarie antiche e dei risultati scaturiti dalla ricerca archeologica, ma con un taglio narrativo che offre maggiori libertà d’interpretazione. In particolare, viene dato risalto ai fatti, ma anche ai risvolti psicologici, alle motivazioni piú segrete che possono avere influenzato le singole scelte. I protagonisti del racconto storico emergono cosí con grande forza e riescono ad avvincere il lettore, a fargli comprendere le motivazioni del proprio operato, a parlargli. Le vicende dei due personaggi spingono inoltre Carandini – soprattutto negli ultimi due capitoli – a interrogarsi sugli assetti istituzionali romani e a confrontarli con quelli di epoca moderna e contemporanea soffermandosi, in particolare, sul diverso concetto di libertà e di partecipazione. Ma anche sui modi della tirannia che per l’autore trova «la matrice di tutte le matrici» proprio nella pur diversa azione di Servio Tullio e di

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Tarquinio il Superbo. Nel libro vi è un dialogo stretto tra un passato che può sembrare lontano e un presente che può apparire confuso e da quel confronto emergono considerazioni che inducono alla riflessione: «Perché vi sia una libertà “vera” è essenziale che tutti siano sottoposti alle leggi (…) Se in uno Stato vi è un uomo piú forte delle leggi, la libertà dei cittadini scompare». G. M. D. F. Cristoforo Scanello, detto «il Cieco da Forlí»

Cronica Universale della Fidelissima et Antiqua Regione di Magna Grecia, overo Giapigia a cura di Angelo Russi e Fabio Carboni, Edizioni L’Una, 183 pp., 25 ill. a col. 15,00 euro ISBN 978-88-96319-14-7

Chi era Cristoforo Scanello, noto come il Cieco da Forlí?

La risposta si può trovare in quest’opera, ripubblicata a cura di Angelo Russi e Fabio Carboni. Il personaggio era un «cantimbanco famoso», nato a Forlí e vissuto tra il 1540 e il 1593. Un «cantimbanco» comunque molto

particolare, che è riuscito ad assurgere, tra il Seicento e il Settecento, a vera e propria fonte di riferimento, accanto a storici antichi o a lui contemporanei decisamente piú accreditati e i cui echi, in particolare nella storiografia meridionale, sono durati ben piú a lungo. La riscoperta della singolare figura si deve soprattutto a Ludovico Pepe, autore di un saggio nel 1892, e al forlivese Adamo Pasini che, nel 1937, pubblicò gli esiti delle sue lunghe e approfondite ricerche. Da cui è emerso che lo Scanello viaggiò a lungo in Italia e compose varie Croniche, relative a diverse regioni d’Italia. Nei suoi lavori basati soprattutto sulla Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti, sono riassunte – in chiave mitica – le principali vicende storiche dei territori esaminati e delle città che comprendevano. Della Cronica piú riuscita, o almeno di quella piú citata, Russi e Carboni propongono ora questa nuova, accurata edizione critica, basata sull’unica copia a stampa del lavoro (Venezia, 1575) conosciuta e conservata presso la Biblioteca Angelica di Roma. Si tratta di un’iniziativa editoriale meritoria, che offre la possibilità di consultare l’opera in maniera diretta e di riaprire il dibattito su una figura di divulgatore (oggi potremmo definirlo cosí) che – come abbiamo visto – seppe influenzare a lungo la vita culturale italiana. G. M. D. F.

dall’estero Chris Scarre

landscapes of neolithic brittany Oxford University Press, Oxford, 344 pp., ill. b/n 75,00 GBP ISBN 978-0-19-928162-6 www.oup.com

A coronamento di un interesse fiorito già negli anni in cui si accingeva a conseguire il suo PhD a Cambridge, Chris Scarre rivisita il fenomeno della diffusione dei monumenti megalitici nella regione della Bretagna. Si tratta di

un capitolo cruciale nello svolgersi delle culture preistoriche europee, perché l’innalzamento di decine e decine di menhir e di dolmen – primi fra tutti quelli di Carnac – non è soltanto un fatto tecnico, ma è una delle espressioni esteriori di un vasto processo culturale che ha luogo nel corso del Neolitico e di cui la regione francese è uno degli attori, insieme al resto dell’Europa continentale e alle Isole Britanniche. Scarre ne dà conto in maniera sistematica, mettendo a fuoco il problema alla luce delle ricerche e delle acquisizioni piú recenti. S. M.



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