Archeo n. 320, Ottobre 2011

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l’iscrizione di populonia

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servio tullio

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Mens. Anno XXVII numero 10 (320) Ottobre 2011  5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria  9,90; Belgio  9,90; Grecia  9,40; Lussemburgo  9,00; Portogallo Cont.  8,70; Spagna  8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 320 ottobre 2011

esclusiva

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BARBARICHE

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la fine del mondo antico

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Editoriale La via nascosta Questo numero si apre con una notizia importante, che pubblichiamo in anteprima: quella del ritrovamento (avvenuto pochi giorni fa) di un’ampia iscrizione etrusca. Si tratta di una scoperta eccezionale, tenuto conto della rarità di questo tipo di documento del passato. Per noi di «Archeo» l’avvenimento è, inoltre, ancora piú significativo perché si è verificato in un contesto, quello delle attività di scavo, ricerca e valorizzazione nel sito di Populonia, a cui da molti anni abbiamo dedicato la nostra attenzione e su cui abbiamo, piú volte, «scommesso» (ricordiamo, per esempio, il fascicolo dell’ottobre 2007, n. 272). La scoperta dell’iscrizione è il frutto di una realtà di lavoro e di impegno culturale viva: un dato che, in considerazione di un quadro complessivo tutt’altro che confortante, ci rallegra e rassicura. Un’immagine diversa (anche se non proprio di segno opposto) emerge dal reportage di Stefano Mammini in Valle di Susa, che presentiamo in apertura di Notiziario: il senso di sconcerto ingenerato dalla lettura dei recenti fatti di cronaca (archeologica) riportati viene mitigato dal riconoscimento di un inusitato «sentimento vero» di dedizione e impegno – da parte degli addetti ai lavori ma anche degli stessi «semplici» abitanti della Valle – a favore della tutela e della salvaguardia del proprio patrimonio storico-archeologico; il che ci porta diritto alle questioni su cui si interroga Daniele Manacorda nella sua rubrica: come si configurerà, in un futuro anche molto prossimo, il rapporto tra società e patrimonio culturale? Chi saranno gli attori di quell’inevitabile «ripensamento» a cui lo stesso concetto di «bene culturale» andrà sottoposto? Chi si adopererà ad alimentarlo, a conferirgli senso e rilevanza esistenziale? Appare molto difficile, oggi, pensare che un tale compito possa essere assolto esclusivamente da quelle che, con termine logoro, continuiamo a chiamare le «istituzioni preposte». Ci sembra, invece – proprio alla luce delle esperienze appena citate –, che una nuova via ci venga indicata proprio dalla parte opposta: da chi opera, perlopiú lontano dai riflettori, motivato da volontà e autentico amore verso la propria terra. È una via nascosta, ma che, a ben guardare, affiora sempre di piú. Come il tracciato di quell’antica strada, creduta scomparsa, e che riscopriamo leggendo il servizio sulla via Annia… Andreas M. Steiner Un tratto della via consolare Annia, il cui tracciato appare sotto i campi coltivati nei pressi di Ceggia (Venezia).



Sommario

Editoriale

La via nascosta

3

di Andreas M. Steiner

Attualità

origini di roma/10 Servio Tullio

la notizia del mese

Scoperta a Populonia una delle piú lunghe iscrizioni etrusche di carattere cultuale 6 di Maria Letizia Gualandi e Daniele Manacorda

notiziario

Giovanni Leonardi, Marco Pacciarelli, Fabio Parenti, Massimo Tarantini; con un’intervista di Stefano Mammini a Luigi La Rocca

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cronache italiane Il patrimonio archeologico e storico-artistico della Valle di Susa è una risorsa importante, alla cui tutela e valorizzazione si dedicano gli organi di tutela e numerosi volontari. Sforzi che ora rischiano d’essere compromessi dalla realizzazione della linea ferroviaria ad Alta Velocità Torino-Lione 10

Il secondo fondatore

60

di Daniele F. Maras

storia dei greci/10 La sfida dell’uguaglianza

88

di Fabrizio Polacco

60

66 Rubriche il mestiere dell’archeologo Saper ascoltare

parola d’archeologo Esiste un rimedio alla annunciata «estinzione» del Ministero per i Beni e le Attività Culturali? Ecco il parere di Salvatore Settis 16

da atene Una tempesta forse 24 «provvidenziale» di Valentina Di Napoli

Antichi ieri e oggi archeotecnologia Lavorare con lentezza

La viabilità al tempo dei Romani/2

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di Flavio Russo

88

itinerari Via Annia

Storie di una strada scomparsa

La storia raccontata 106 dai nomi di Romolo A. Staccioli

medea e le altre Alla corte di Catilina

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di Francesca Cenerini

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di Stefania Berlioz

libri

protagonisti Tutti gli uomini della 46 preistoria d’Italia

114

Avviso ai lettori

di Anna Maria Bietti Sestieri, Michele Cupitò, Raffaele Carlo de Marinis, Andrea De Pascale, Anna De Santis, Patrizia Fortini, Alessandro Guidi,

28

102

di Daniele Manacorda

speciale Aspettando i barbari

di Marco Di Branco

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In questo numero, per motivi di spazio, non compaiono le consuete rubriche «L’archeologia nella stampa internazionale», «L’età dei metalli» e «L’altra faccia della medaglia», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il prossimo mese


La Notizia del mese

Lettere di un dio sconosciuto A Populonia, la sensazionale scoperta di un’iscrizione etrusca

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uel meraviglioso lembo d’Italia che accoglie i resti dell’antica Populonia continua a restituire fantastici documenti di una storia millenaria. Come i lettori di «Archeo» sanno, il promontorio di Piombino ha visto fiorire – e poi decadere – l’unica grande città etrusca sul mare, con il suo porto, le sue industrie metallurgiche, i suoi templi, poi monumentalizzati quando Roma – tra il III e il II secolo a.C. – estese la sua influenza su quella comunità, prima di inglobarla definitivamente nel suo impero. Da anni la Soprintendenza per i

6 archeo

Beni Archeologici della Toscana coordina, sotto la direzione di Andrea Camilli, un vasto progetto di ricerche che coinvolge numerose università. Gli scavi sull’acropoli, attualmente in corso a opera di due équipe, dell’Università di Pisa e Roma Tre, resi possibili quest’anno da un finanziamento della Cassa di Risparmio di Livorno e dal sostegno del Comune di Piombino, hanno condotto a una scoperta straordinaria, di cui diamo su questa rivista una prima anticipazione. Dallo scavo del crollo di un muro, eretto probabilmente nella tarda età romana nell’area che si stende alle

spalle del cosiddetto Tempio C, è stato recuperato, infatti, un frammento di lastra in pietra che contiene uno straordinario testo epigrafico in lingua etrusca. L’eccezionalità del ritrovamento consiste nel fatto che l’iscrizione, benché frammentaria, conserva un testo molto lungo, composto da 54 lettere appartenenti a 14 parole, separate da segni di interpunzione e distribuite su sette righe. Poiché – come vedremo – si tratta di un testo di ambito religioso, ci troviamo in presenza di una delle piú lunghe iscrizioni cultuali su pietra sin qui rinvenute,


di Maria Letizia Gualandi e Daniele Manacorda

siamo dunque felici di rendere nota la fotografia della pietra iscritta, cosí come è uscita dal terreno, e una prima trascrizione del testo, suscettibile di eventuali miglioramenti. Nell’iscrizione, che va letta da destra verso sinistra, si legge:

Il frammento di pietra iscritta all’atto del suo rinvenimento nello strato di crollo del muro in cui era stato reimpiegato.

un dato che rende questo ritrovamento davvero eccezionale. Il suo grande interesse storico e scientifico non mancherà di destare l’attenzione degli specialisti, epigrafisti e linguisti, studiosi della civiltà etrusca. Per questo motivo abbiamo deciso di portare a conoscenza della comunità scientifica, e dell’opinione pubblica in generale, questa rara iscrizione a pochi giorni dalla sua scoperta, in modo da favorire la piú ampia circolazione delle informazioni. Ci sembra un bel regalo che il sottosuolo di Populonia può offrire ai partecipanti al XXVIII Congresso di studi etruschi e italici, che si terrà a Bastia e poi proprio qui, a Piombino, dal 25 al 29 ottobre prossimi. Sulle pagine prestigiose di «Archeo»

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ellenistica avanzata (II-I secolo a.C.), l’età dunque della progressiva romanizzazione di Populonia. La presenza di alcuni indizi, come per esempio il termine cvera (offerta sacra), orienta l’interpretazione verso la sfera cultuale. È quindi possibile che l’iscrizione appartenesse, sin dall’origine, all’area del santuario che in età etrusco-romana accoglieva tre grandi templi, oggi visitabili nel Parco Archeologico dell’Acropoli. La pietra era probabilmente inserita in una base, forse un altare, che costituiva essa stessa l’offerta o il sostegno all’oggetto donato. Ci dovremmo dunque aspettare che il testo riportasse ovviamente il nome della divinità destinataria del dono, la natura dell’offerta, il nome del donatore ed eventualmente le circostanze della dedica. Nella penultima riga superstite si legge il termine zich[---], che fa riferimento all’atto della scrittura, o meglio dell’incisione del testo.

L’iscrizione etrusca appena rinvenuta sull’acropoli di Populonia. Il frammento, spesso 5,5 cm, misura rispettivamente 23, 25 e 26 cm per ogni lato. archeo 7


L’iscrizione nelle mani del suo primo scopritore, Massimo Dadà. Nella pagina accanto: veduta panoramica dell’area di scavo da cui proviene la nuova iscrizione.

8 archeo

Una rete di collaborazioni fruttuose L’attività della Soprintendenza Archeologica nell’area populoniese vede da anni la collaborazione con numerosi Istituti universitari e di ricerca, assicurando una funzionale copertura del territorio e un approfondito e variegato quadro di indagini, che va dalla preistoria al Medioevo. Il fulcro dell’attività è ovviamente il Parco Archeologico di Baratti e Populonia con il Museo Archeologico del territorio di Populonia, gestiti dalla Società Parchi Val di Cornia con una ormai decennale e fruttuosa collaborazione con la Soprintendenza e con il proprio personale che opera sul territorio (vedi «Archeo» n. 272, ottobre 2007). Le attività dell’Associazione Archeologica Piombinese (Fabio Fedeli), oltre alla regolare e meritoria pubblicazione della rivista Rassegna di Archeologia


vedono la collaborazione con l’Università di Firenze (Giuseppe Galimberti) in ricerche sulla preistoria dell’area. La Soprintendenza segue direttamente gli interventi di scavo nella necropoli del Fontino sulla spiaggia di Baratti, gli interventi di restauro e manutenzione nell’area del Parco, e tutti gli scavi di emergenza che in continuazione si rendono necessari nell’area, mentre la vicina villa romana del Fontino di Baratti viene indagata in collaborazione con l’Università di Siena (Franco Cambi). Sempre con l’Università di Siena (Franco Cambi, Cynthia Mascione) vengono condotte le attività di ricerca sul perimetro delle mura e sulle cave. Gli scavi di un abitato protostorico sulla spiaggia, presso il Circolo Velico di Baratti, vengono effettuati in collaborazione con l’Università di Milano (Cristina Chiaromonte), mentre altri interventi relativi alla fase etrusca (edifici e acropoli) si effettuano in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza» (Gilda Bartoloni). Gli scavi del complesso monumentale delle Logge, da cui proviene l’iscrizione di cui parliamo, si

L’offerta potrebbe essere indicata dal termine sulicletram, seguito alla linea successiva dal nome di chi l’ha donata. Il termine cletram, inteso da alcuni nel senso di «bacino» o «canestro», compare forse qui all’interno di una nuova parola composita, che potrebbe dunque indicare una particolare qualità o funzione di questo contenitore. Ma l’interpretazione del termine è controversa. La lunga parola sulicletram potrebbe avere tutt’altro significato. Il nome della divinità dovrebbe precedere il termine cvera. Ci aspetteremmo dunque un genitivo del teonimo che indichi la proprietà dell’oggetto consacrato al dio. Ed effettivamente, prima di cvera, resta la parte terminale di un nome al genitivo in -l, che è caratteristico di varie divinità, quali, per esempio, Fufluns, Nethuns, Selvans. Nessun nome di divinità corrisponde con certezza al testo superstite. Sappiamo ancora poco dei culti presenti sull’acropoli di Populonia. Plinio ci parla dell’esistenza di un tempio di Giove, che si è pensato di riconoscere nel cosiddetto Tempio B. Da molti anni una serie di indizi di varia natura hanno fatto supporre l’esistenza in quel luogo anche di

effettuano in collaborazione con l’Università di Pisa (Maria Letizia Gualandi) e di Roma 3 (Daniele Manacorda). Tornando alla spiaggia di Baratti, le ricerche sul complesso medievale di San Cerbone vengono effettuate in collaborazione con l’Università dell’Aquila (Fabio Redi), mentre lo scavo della vicina villa romana di Poggio del Molino viene condotto in collaborazione con l’Università di Firenze (Giandomenico Di Tommaso) e l’Associazione Archeodig (Carolina Megale), grazie al finanziamento della fondazione Earthwatch. Nell’ambito del «progetto necropoli», che vede la schedatura e la revisione dei contesti e delle stratigrafie degli scarichi delle scorie ferrose e dei tumuli monumentali, si attua la collaborazione di un cospicuo gruppo di lavoro della Soprintendenza con il significativo apporto della facoltà di Architettura dell’Università di Firenze (Paola Puma), che cura i rilievi delle strutture. A tutto questo si aggiunge l’ordinaria attività di sorveglianza e tutela del territorio, che produce una consistente mole di lavoro, specie nelle procedure autorizzative.

un santuario dedicato al culto di Afrodite-Venere, la grande dea mediterranea protettrice dei naviganti. Sarebbe bello avere una prova epigrafica di questa ipotesi. Ma l’interpretazione del nuovo testo potrebbe andare, anzi forse va, in tutt’altra direzione. L’iscrizione potrebbe rivelarci, infatti, il nome di una divinità della quale non si ha ancora nessuna traccia. Per questo lasciamo agli specialisti l’analisi del testo e un giudizio sulle sue possibili spiegazioni, che attendiamo con curiosità.

Speriamo che il suolo di Populonia, calpestato ogni anno da migliaia di turisti nel Parco Archeologico aperto al pubblico dalla Società Parchi Val di Cornia nel 2007, continui a darci sorprese affascinanti e renda soddisfazione al lavoro generoso di tanti studenti che, pur nelle ristrettezze desolanti che strangolano sempre piú la ricerca archeologica in Italia, continuano a dare il meglio di sé e a credere nel valore del nostro patrimonio storico e culturale e nella importanza della sua valorizzazione. archeo 9


Cronache italiane «Siamo tutti Valsusini!» di Stefano Mammini

omenica 18 settembre il cielo era coperto in Valle di Susa, e a D tratti cadeva anche la pioggia. Ma

l’incertezza meteorologica non ha scoraggiato i tanti che hanno voluto cogliere l’occasione di visitare i siti archeologici piú importanti del comprensorio, aperti al pubblico in occasione della II Giornata del patrimonio archeologico della Valle di Susa. Un’iniziativa giovane, dunque, ma che ha assunto quest’anno un significato particolare. Rispetto al debutto, infatti,

l’offerta è stata forzosamente ridotta – almeno in termini numerici – per l’impossibilità di accedere a una delle aree archeologiche piú significative, quella della Maddalena di Chiomonte. Per gli addetti ai lavori, il nome della Maddalena evoca una importante necropoli del Neolitico Tardo e una serie di ripari sotto roccia frequentati dalla preistoria all’età moderna, ai quali faceva da corollario un Museo Archeologico che offriva la possibilità di inquadrare quelle testimonianze dal punto di vista cronologico e culturale. Occorre parlare al passato, perché tutto questo, al momento, non esiste piú: l’area della Maddalena,

infatti, nei giorni caldi che hanno preceduto l’intervento delle forze dell’ordine teso a garantire l’apertura di uno dei primi cantieri per la realizzazione del tunnel funzionale alla linea ferroviaria ad Alta Velocità Torino-Lione, era stata occupata da quanti cercavano di opporsi all’avvio dei lavori. Ne sono seguiti, ai primi di luglio, lo sgombero forzato e la militarizzazione dell’intero sito, che è ora recintato e presidiato. Nella circostanza, la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte ha ritenuto opportuno trasferire i materiali del museo e, da piú di una fonte, sono giunte notizie circa i danni arrecati alle tombe a cista della necropoli preistoVeduta della Valle di Susa dalla Sacra di San Michele.


rica da parte di mezzi pesanti impiegati nella nuova sistemazione dell’area. «Archeo» non è certo la sede per un dibattito sull’utilità dell’opera, ma crediamo che, fedele alla sua linea, possa offrire spazio a qualche considerazione. Chi scrive è stato invitato all’evento del 18 settembre e la visita ha rappresentato il corollario di un precedente sopralluogo, in quel caso dedicato alle testimonianze di epoca medievale della zona, molte delle quali legate al passaggio della via Francigena. In entrambe le occasioni, grazie all’impegno di persone che da anni lavorano per tutelare e valorizzare il patrimonio della Valle, è stato possibile scoprire una realtà composita e articolata, tutt’altro che marginale. Un mosaico in cui, accanto alle tessere piú note, come la città di Susa – con i suoi resti romani o l’appena restaurato Castello della contessa Adelaide – , la Sacra di San Michele o l’abbazia di Novalesa, esiste una costellazione di siti che documentano una storia plurisecolare. Un passato che ha visto la Valle essere teatro di eventi di grande rilevanza: basti pensare all’arco romano di Susa, che, con la sua epigrafe celebrativa dell’accordo tra la Roma di Augusto e Cozio, è la memoria di una delle tappe cruciali del processo di romanizzazione di questo segmento dell’area alpina; oppure al borgo di Chiusa San Michele, nel quale si conservano i resti di un muro che la tradizione attribuisce all’epoca in cui qui si combatté, nel 773 d.C., una battaglia decisiva fra le truppe di Desiderio, re dei Longobardi, e Carlo Magno (la cui vittoria spianò la strada all’avvento dei Franchi in Italia). A queste ricchezze, oltre ai funzionari e ai tecnici degli enti e istituzioni preposti alla tutela e alla salvaguardia, si dedicano, con passione auten-

tica, moltissimi abitanti della Valle, che, nella maggior parte dei casi, operano come volontari (tali sono, per esempio, le guide che accompagnano i turisti nella visita alla Sacra di San Michele o l’équipe che si occupa delle attività didattiche e di archeologia sperimentale condotte dal Museo Laboratorio della Preistoria di Vaie). E, poiché chi scrive ha una lunga esperienza di volontariato archeologico alle spalle, possiamo affermare che poche volte abbiamo visto una partecipazione cosí sentita e diffusa. Né è un fenomeno occasionale, perché, per esempio, il prossimo corso di formazione per volontari interessati a operare in questo ambito ha fatto registrare un numero di richieste di partecipazio-

In alto: la Sacra di S. Michele, il grande complesso abbaziale nei pressi di Chiusa San Michele, la cui prima fondazione sembra risalire alla fine del X sec. Qui sopra: la necropoli del Neolitico Tardo in località Maddalena di Chiomonte, in una foto precedente gli incidenti dello scorso luglio.

ne assai piú alto di quello previsto dagli organizzatori. Fatti del genere, in un’epoca che si crede vissuta all’insegna della disillusione, del cinismo o piú semplicemente dell’indifferenza, non possono non far riflettere. E inducono a chiedersi come mai i Valsusini sembrino voler incarnare con particolare zelo quella «partecipazione dal (segue a p. 14)

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▲ Avigliana La cittadina è dominata dai resti del castello, attestato già nel 961 e poi piú volte rimaneggiato, fino a quando, nel 1691, fu distrutto dai soldati del maresciallo francese Catinat. Nel territorio comunale sono state anche condotte nuove indagini sul sito della statio ad Fines, legata alla riscossione dei dazi doganali.

▲ Novalesa L’abbazia benedettina, fondata nel 726 da Abbone di Susa, esercitò una larga influenza su tutta la Valle di Susa. Distrutta nel 906 dai Saraceni, risorse in breve tempo, ma senza eguagliare l’antico splendore. Chiusa in età napoleonica, fu abbandonata nel 1855. Dal 1973 è stata nuovamente affidata ai Benedettini. Dal 2009 ospita anche una pregevole collezione archeologica. Cesana La Casa delle Lapidi è ancora oggi un enigma: non si hanno notizie, infatti, sulle origini dell’edificio, sulle sue fasi di occupazione e su chi ne fosse proprietario. È però probabile che fosse un romitorio o una cappella.

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archeologico «Tur d’Amun» si conservano i resti del castello dei De Bardonnèche, la cui esistenza è attestata almeno dalla prima metà del XIV sec. Il complesso è stato parzialmente riportato alla luce da scavi condotti tra il 1999 e il 2006.

▲ Borgone Susa «Maometto» è il nome dato a un’edicola in cui compare un personaggio, che può essere forse identificato con il dio Silvano. Nella frazione di San Valeriano sorge invece l’omonima cappella romanica, con resti di un affresco che rappresenta il Cristo Pantrocratore. Pierre Me enue en n nue ue ue rafo Tra

▲ Bardonecchia Nel parco

Susa Molte e importanti sono le tracce dell’antica Segusio: dall’arco all’anfiteatro, dai resti dell’acquedotto a quelli del foro. Un recente intervento di archeologia preventiva ha individuato il tempio di Saturno. Si è inoltre appena concluso il restauro del Castello della Contessa Adelaide, futura sede del museo dedicato alla storia di Susa e del suo territorio.

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Oulx La Torre Delfinale, innalzata sul finire del XIV sec., all’indomani dell’annessione del Delfinato al regno di Francia, aveva finalità legate alla presenza dei funzionari regi sul territorio piuttosto che a esigenze militari vere e proprie.

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▲ Vaie Il Museo Laboratorio della Preistoria espone repliche di

strumenti e oggetti d’uso comune, attraverso i quali viene illustrata la vita quotidiana delle comunità preistoriche, con particolare riferimento alle culture attestate nel territorio della Valle di Susa, come, per esempio, il vicino Riparo Rumiano, frequentato tra il Neolitico Finale e l’età del Rame.

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Caselette Scavi condotti tra il 1973 e il 1979 hanno portato alla luce i resti di una grande villa rustica, fondata in età Va l d e l a C ervey rett e augustea, ma piú volte rimaneggiata, fino al III sec. d.C. Il complesso era una fattoria, in cui si praticavano agricoltura e allevamento, nonché modeste attività artigianali.

n ot iz iario

Una valle e la sua storia

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Chiusa San Michele Il toponimo conserva il ricordo delle chiuse longobarde, gli sbarramenti delle valli messi in opera nei punti di passaggio obbligati delle principali vie di comunicazione verso i valichi. Recenti indagini archeologiche nella cappella di S. Giuseppe hanno individuato i resti di una struttura forse pertinente a quelle fortificazioni.

▲ Almese Gli scavi, tuttora in corso,

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Castello del Conte Verde facesse parte delle chiuse longobarde, ma non vi sono prove certe in proposito; leggendaria è anche l’associazione con Amedeo VI di Savoia (1334-1383), in quanto all’epoca del Conte Verde il castello era sottoposto all’abbazia di S. Giusto di Susa. Dal 2006 sono in corso indagini archeologiche, volte a una migliore definizione della storia e delle fasi di vita del complesso.

Sant’Ambrogio di Torino Il borgo nasce in funzione del soprastante monastero di S. Michele della Chiusa, tra il X e l’XI sec. Scavi archeologici nell’odierna piazza IV Novembre hanno riportato alla luce i resti della chiesa principale dell’insediamento medievale, S. Giovanni Vincenzo, e, non lontano, si conservano anche alcune parti del castrum.

hanno portato alla luce una grande villa, che doveva occupare una superficie di almeno 3000 mq. Il proprietario, per una parte della sua frequentazione, potrebbe essere stato un funzionario preposto alla gestione dei dazi doganali della Quadragesima Galliarum e dunque legato alla vicina statio ad Fines.

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La cartina illustra le principali località di interesse archeologico e storico-artistico del territorio valsusino, alla cui conoscenza è stata dedicata la II Giornata del Patrimonio archeologico della Valle di Susa.

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basso» di cui si parla proprio in questo numero di «Archeo» (vedi l’articolo di Daniele Manacorda, alle pp. 102-105). Personalmente, sulla base delle esperienze che abbiamo avuto modo di fare, crediamo che tutto nasca dall’amore nei confronti della propria terra, che, per una volta, non si traduce in becero campanilismo, ma è un sentimento vero, che mira non solo alla salvaguardia del proprio patrimonio, ma anche alla sua conoscenza e alla sua condivisione, la piú ampia possibile (come, del resto, la giornata del 18 settembre intendeva fare). Forse in Valle di Susa c’è una ragione in piú per dedicarsi con tale impegno a simili iniziative: come tante altre aree del nostro Paese, anche questo comprensorio ha vissuto momenti economicamente difficili, determinati dalla deindustrializzazione, ma anche dal fatto che l’Autostrada A32 (del Fréjus) ne ha fatto, dagli anni Novanta, una zona di transito, riducendo sensibil-

mente il numero di coloro che, servendosi della viabilità ordinaria, magari si fermavano in questa o quella cittadina, scoprendone i monumenti. Per rovesciare la tendenza, si è compreso che il patrimonio poteva essere una risorsa strategica e di qui sono nate molte iniziative mirate a favorirne la conoscenza. Accanto a queste sono state battute anche altre strade, come quelle dell’enogastronomia di qualità, replicando insomma un modello che già altrove – si pensi alla Toscana – si è rivelato vincente. Ebbene per i protagonisti di uno sforzo collettivo importante, la realizzazione della linea ferroviaria ad Alta Velocità incombe come un’ombra nerissima. Solo per citare una delle maggiori fonti di preoccupazione, la prospettiva che buona parte della Valle venga per anni occupata da cantieri di notevole estensione, con il conseguente traffico di mezzi pesanti, non può cer-

Qui sotto: il Museo Archeologico allestito presso l’abbazia di Novalesa. In basso: trittico votivo in bronzo di Bonifacio Rotario d’Asti. 1358. Susa, Museo Diocesano.

to essere vista come un motivo di richiamo per quanti decidano di scoprire le bellezze naturali e storico-artistiche del territorio. La paura, insomma, è che muoia sul nascere un sistema virtuoso, che, oltre tutto, può avere ricadute economiche significative, generando quell’indotto le cui potenzialità sfuggono, evidentemente, a quanti affermano che con la cultura «non si mangia». Come già detto, spettano comunque ad altri le valutazioni di tipo tecnico ed economico. Da parte nostra possiamo soltanto sperare che queste righe stimolino qualche ulteriore riflessione sul progetto. Ma possiamo fare anche un’altra cosa: invitare i nostri lettori a «essere tutti Valsusini», almeno per qualche giorno, rendendosi conto di persona delle realtà che abbiamo appena tratteggiato. È una realtà che andrebbe assaporata «all’antica», cioè lentamente, paese dopo paese, ma che già nell’arco di un fine settimana può offrire un assaggio significativo delle sue potenzialità.

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Parola d’archeologo

di Flavia Marimpietri

Quale futuro per il MiBAC? Si moltiplicano le previsioni a tinte fosche per le sorti del dicastero preposto alla tutela dei beni culturali. Ne abbiamo parlato con Salvatore Settis ei prossimi tre anni, al piú tardi entro il decennio, il N Ministero per i Beni e le Attività

Culturali (MiBAC) potrebbe chiudere i battenti per mancanza di personale. I funzionari hanno un’età media di 58 anni, sei dirigenti su dieci sono nati tra gli anni Quaranta e Cinquanta e le nuove assunzioni sono rare o del tutto bloccate: con il risultato che i professionisti dei beni culturali sembrano destinati a scomparire, in un futuro piú che prossimo. La data cruciale, secondo le previsioni, è il 2014. Al massimo il 2015, con una «coda» fino al 2020, ha ricordato Francesco Erbani («Se le Soprintendenze

rischiano di chiudere», la Repubblica, 8 settembre 2011). E già prima di quella data, una ventina di Soprintendenze potrebbero sparire, alcune a partire forse dal prossimo gennaio o marzo: le piú a rischio sono quelle storico-artistiche, che verrebbero accorpate a quelle architettoniche. Lo scenario appare apocalittico, quasi una «fine del mondo» dell’archeologia, eppure il quadro coincide con quello tracciato dallo stesso Ministero per i Beni Culturali un paio di mesi fa, per bocca del suo Sottosegretario, Francesco Giro: «Il problema del personale è

ancora piú preoccupante di quello delle risorse. Con questa carenza di personale, da qui a tre anni rischiamo di chiudere» (riporta Vittorio Emiliani su l’Unità del 14 luglio 2011). Un profondo malessere è stato espresso anche dai Soprintendenti sul territorio, che lo scorso settembre si sono riuniti alla Certosa di Padula, in provincia di Salerno: 60 dirigenti del Ministero, per la prima volta tutti insieme, per affrontare la situazione ormai critica. Le Soprintendenze, cosí hanno denunciato gli addetti ai lavori, sono strette nella morsa del taglio alle risorse, che impedisce missioni e sopralluoghi regolari, e del carico burocratico ossessivo, che ostacola la conoscenza e la cura dei territori da tutelare. Su questo tema abbiamo chiesto l’opinione di Salvatore Settis, già presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Rettore della Scuola Normale di Pisa. Professore, lo scenario dell’archeologia in Italia è davvero cosí «apocalittico»? Il MiBAC rischia davvero la chiusura nel giro di tre anni? «Purtroppo Erbani ha ragione, A sinistra e nella pagina accanto: immagini di scavi condotti, a Porto (Roma) e a Pompei, sotto la direzione e con il concorso delle Soprintendenze archeologiche: una prassi oggi consueta, ma che appare minacciata dalla costante riduzione del personale in forza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

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nell’articolo che lei ha citato, perché sono oltre vent’anni che non si fa quasi nessuna assunzione al Ministero per i Beni Culturali. Ogni anno vanno in pensione da 500 a 800 funzionari e ne arrivano zero: come si fa ad amministrare, senza chi amministra? Il personale va in pensione presto poiché è incoraggiato a farlo da appositi provvedimenti ministeriali, come nel caso emblematico e drammatico del bravissimo archeologo Stefano De Caro (fino a poco tempo fa direttore generale per le Antichità del MiBAC, n.d.r.), spinto ad andare in pensione a 60 anni. Per ogni dieci funzionari che vanno in pensione, ne viene assunto meno di uno: procedendo a questo ritmo la chiusura del Ministero è praticamente certa. Non c’è niente da fare. E chiudere Ministero e Soprintendenze vuol dire non rispettare la tutela del nostro patrimonio e, quindi, la Costituzione». Cosa si potrebbe fare per evitare la «catastrofe»?

«È assolutamente indispensabile una deroga per assumere almeno mille (ma ce ne vorrebbero migliaia) giovani figure professionali nel settore della tutela dei beni archeologici, esclusivamente sulla base del merito e con bando su base internazionale, cosí da immettere sangue fresco, nuove idee e

svecchiare un’amministrazione che altrimenti è destinata a chiudere bottega. Basta guardare i migliori musei tedeschi, francesi e spagnoli». Un giudizio decisamente critico sulla gestione pubblica del patrimonio archeologico italiano è stato espresso, di recente, anche dai magistrati della Corte dei Conti,

Alta formazione per archeologi La Scuola Interateneo di Specializzazione in Beni Archeologici coinvolge le Università di Trieste, Udine e Venezia Quattro sono i curricula: preistorico/protostorico classico medievale orientalistico

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La didattica e il percorso formativo comprendono lezioni frontali, seminari, esercitazioni e conferenze, attività di scavo e tirocinio, stage, viaggi di istruzione. La maggior parte di queste attività avrà sede ad Aquileia, in modo continuativo, nei mesi di aprile e maggio 2012. La Scuola si avvale della collaborazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Friuli-Venezia Giulia e di altri enti territoriali. È offerto, inoltre, un sostegno economico alle spese degli specializzandi per il periodo residenziale ad Aquileia o per la partecipazione a scavi all’estero. Le domande di ammissione debbono essere presentate entro il 28 novembre 2011 Per informazioni, ci si può rivolgere alla Contact Line della Scuola – tel. 040 366440 – o si può consultare il sito www.sisba.it

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nell’ultima relazione ufficiale sullo stato dei siti archeologici presentata al Ministero per i Beni Culturali (vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011). I revisori, libri contabili alla mano, hanno evidenziato disorganizzazione e carenze, da parte del MiBAC, nella conoscenza e nella tutela dei siti archeologici del nostro Paese... «Ho avuto esperienza diretta sul campo quando ero presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Anche se in Italia non se ne è parlato per niente». Perché, secondo lei, se ne è parlato molto piú all’estero che in Italia? «Sí, il rapporto è stato preso in considerazione piú dalla stampa straniera che dalla nostra. Questo perché l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale nei confronti della “grandiosa crisi” della tutela della cultura in Italia è crescente: i media e gli studiosi stranieri sono molto preoccupati. L’importanza del patrimonio archeologico italiano viene riconosciuta in tutto il mondo, tranne che nel nostro Paese. Gli Italiani si stanno assuefacendo, come “mitridatizzandosi”, cioè prendendo veleno a piccole dosi, di fronte alla scomparsa della tutela del patrimonio archeologico italiano. All’estero ancora si scandalizzano, e questo certo non fa bene alla fama del nostro Paese». Sempre in tema di tutela dei beni archeologici, c’è il capitolo della spesa delle Soprintendenze, anch’esso già affrontato su queste pagine: in particolare il fatto, in apparenza paradossale, che oltre la metà – il 55% – delle risorse finanziarie, nel 2010, è rimasta nel cassetto: 545,2 milioni di euro, secondo i numeri della Direzione generale per l’organizzazione e il bilancio del MiBAC (fonte: Ragioneria Generale dello Stato, Corte dei Conti e MiBAC, dal Sole24Ore). Le prime a non

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spendere sembra siano state archeologico ma altrove. È proprio le Soprintendenze accaduto, per esempio, che i fondi archeologiche, in particolare quelle per Pompei siano finiti a Brera. speciali come Roma, Napoli e Con questo commissariamento le Pompei. regole contabili sono state fatte e Professor Settis, ci aiuti a disfatte, senza nessuna attenzione comprendere: perché, anche per il funzionamento della quando i soldi in cassa ci sono, macchina amministrativa.Va bene le Soprintendenze non riescono lavorare nella direzione a spenderli? dell’autonomia, ma non bisogna «Per capire, bisogna innanzitutto distruggere quanto è stato fare una distinzione: per altri tipi realizzato fino a quel momento. A di amministrazioni pubbliche i Pompei sono arrivati commissari finanziamenti assegnati a un che non sapevano nulla di determinato anno (per esempio al archeologia, che hanno bloccato i 2011) devono essere finanziamenti oppure li hanno necessariamente esauriti in quel spesi in modo assurdo. Come lasso di tempo. Se questo non hanno scritto i giornalisti Gian accade, è segno di una cattiva Antonio Stella e Sergio Rizzo, un amministrazione. Nel campo dei commissario ha speso 200mila Beni Culturali non è cosí. Può euro per comprare bottiglie di accadere, infatti, che una vino; e non so chi abbia pagato Soprintendenza inizi uno scavo e, quasi 1 milione di euro per per esigenze scientifiche e di “figure” di Pompei che si animano conservazione, ritenga di dover e cantano in inglese. Hanno riportare all’anno successivo la spesa a esso destinata: questo non è Salvatore Settis, archeologo e già sintomo di una cattiva presidente del Consiglio Superiore dei amministrazione. Trasportare parte Beni Culturali. delle accise da un anno all’altro, nel settore dei beni archeologici, è cosa pienamente riconosciuta dalle regole della contabilità. Tuttavia, i segni di malfunzionamento nella gestione pubblica dei beni culturali, certo non mancano». A proposito di Soprintendenze speciali, i magistrati della Corte dei Conti, nella loro ultima relazione sui siti archeologici, puntano il dito contro il Commissariamento di Pompei dove, a fronte delle spese, «non sono stati scongiurati danni a reperti importanti». Che cosa ne pensa, professore? «Il commissariamento di Pompei non è servito a niente. Quello che non ha funzionato, è la logica del “piú incasso-meglio gestisco”, perché, a piú riprese, con i finanziamenti per Pompei è stato fatto altro, da parte del governo centrale e dei commissari. Quindi i soldi a disposizione non sono stati spesi sul sito



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buttato il denaro in modo folle. Queste sono spese improprie. Bisognerebbe punire questi individui, non le Soprintendenze». Ma Pompei è un’eccezione oppure è la regola? «Pompei è un’eccezione importante, dove non sapevano come spendere i denari a disposizione. Diverso è il caso in cui si sa come spendere i soldi, ma per motivi scientifici si decide di farlo l’anno successivo. Questo accade, solitamente, non ai fondi per la manutenzione ordinaria o per gli stipendi, quanto piuttosto ai finanziamenti straordinari, che poi sono la maggior parte: una scoperta, uno scavo, la manutenzione di un sito, sono tutte operazioni con costi che non si possono prevedere dal principio. Basti pensare alle indagini per la metropolitana di Roma: se si scava in piazza Venezia, e si trovano resti unici come quelli già venuti alla luce, si va piano per non distruggere la documentazione archeologica. Non ci si può permettere di andare in fretta per spendere i soldi entro l’anno, in casi come il centro di Roma». Quindi, professor Settis, secondo lei, quale è l’anello debole della catena, nella tutela dei beni archeologici in Italia? «Il rapporto della Corte dei Conti mette il dito sulla piaga,

poiché è vero che possiamo constatare errori di varia natura nella gestione pubblica del nostro patrimonio archeologico, ma non si possono ignorare due elementi di disfunzione altrettanto gravi. Primo: la mancanza di personale. Secondo: il taglio dei fondi. Nel 2008 il governo ha tagliato un miliardo e mezzo di euro ai Beni Culturali. Non è vero che, se ci sono sospetti di spreco delle risorse pubbliche, la prima cosa da fare sia tagliare i fondi, nella convinzione che chi ha meno denari spende meglio. Non è detto che sia cosí. A volte, con meno soldi, si fanno scelte arbitrarie. Se, per esempio, devo restaurare dieci siti archeologici ma ho denari sufficienti solo per due, e quindi ne devo tralasciare otto, il risultato è che, fra 5-10 anni, per questi otto siti dovrò spendere il triplo». In un momento di crisi economica per il Paese come l’attuale, cosa si potrebbe o dovrebbe fare per sollevare le «sorti» delle Soprintendenze? «Intanto i soldi vanno spesi sui siti archeologici cui sono stati destinati, e non altrove. Poi bisognerebbe sviluppare le capacità manageriali del Soprintendente. Non tanto affiancandogli una seconda figura “consolare” di pari grado, cioè un city manager che non dipende da

lui, come è stato fatto nel caso del commissariamento di Pompei: si genera solo conflitto tra le due figure, con il risultato che non si decide nulla. La doppia figura – soprintendente piú city manager – è un errore. La soluzione sarebbe, a mio avviso, affinare le capacità manageriali del soprintendente stesso. Io sono un archeologo e sono stato Rettore della Scuola Superiore Normale di Pisa per 11 anni: non ho una laurea alla Bocconi in economia, eppure i bilanci della mia Università sono stati sempre sani. Il Ministero per i Beni Culturali non ha mai fatto nulla per creare e incrementare le capacità manageriali che noi tutti abbiamo. La concezione dominante delle Soprintendenze è vecchia, tra quelle mura è rimasta la stessa identica mentalità di quando sono nate, decenni fa. Oggi non bisogna aggiungere manager, ma sviluppare professionalità. Alle Poste Italiane, per esempio, dove esistevano delle operatività arcaiche, il problema è stato risolto con un milione di ore di formazione del personale. Nel settore dei Beni Culturali ne basterebbero 10mila: per soprintendenti, custodi, funzionari, per tutti. Finché non si fa questo, la situazione di Pompei, come di tutte le realtà archeologiche dell’Italia, rimarrà affidata al caso».

Errata corrige con riferimento all’articolo L’«invenzione» della Padania (vedi «Archeo» n. 317, luglio 2011), desideriamo precisare che il rilievo riprodotto alle pp. 42-43 non rappresenta una «scena di transumanza», come indicato in didascalia, bensí il tracciamento del solco primigenio della colonia di Aquileia. Dell’errore ci scusiamo con l’autore dell’articolo e con i nostri lettori.

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incontri Paestum

La Borsa saluta re Antioco

al 17 al 20 novembre si rinnova a Paestum l’appuntamento con la Borsa Mediterranea del Turismo D Archeologico, giunta alla sua XIV edizione. Come

sempre, l’evento intende favorire la commercializzazione di prodotti turistici specifici e l’approfondimento di temi inerenti la tutela, la fruizione, la valorizzazione dei beni culturali e la cooperazione tra i popoli. Il programma della Borsa si preannuncia ricco di iniziative. Al V Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, sul tema «Tutela del patrimonio archeologico e turismo culturale in tempi di instabilità e congiuntura economica», organizzato in collaborazione con ICCROM e «Archeo», partecipano i direttori delle testate archeologiche italiane ed estere, il Vice Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura Francesco Bandarin, il Direttore Generale dell’ICCROM Mounir Bouchenaki e sono stati invitati i Ministri della Cultura della Repubblica Islamica dell’Afghanistan, della Repubblica dell’Iraq, della Repubblica Libanese e della Repubblica Tunisina, i Ministri delle Antichità della Repubblica Araba di Egitto, del Regno Hascemita di Giordania, della Palestina e il Ministro del Turismo della Cambogia. E poi ancora numerosi momenti di scambio, dei quali offriamo, qui di seguito, alcune brevi anticipazioni. Agli Incontri con i protagonisti prenderà parte Francesco Callieri, ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte iranica all’Università di Bologna, direttore della Missione archeologica italiana a Persepolis. Le nuove frontiere internazionali della ricerca scientifica e tecnologica legate al mondo antico saranno protagoniste in ArcheoVirtual, esposizione sull’archeologia virtuale, a cura del Virtual Heritage Lab dell’Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali del CNR.

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p u b b l i c i t à r e da z i o n a l e

Nell’ambito della sezione ArcheoFilm verranno proiettati i film vincitori del premio della giuria e del pubblico della XXI Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto. Le Università, nell’ambito di ArcheoLavoro, presenteranno Corsi di Laurea e Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale, mentre gli esperti del settore illustreranno le figure professionali e le competenze emergenti. Con i Laboratori di Archeologia Sperimentale, il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo e Archeologia Sperimentale Tomaselli presenteranno la cultura antropologica e materiale dell’antichità. Strategico per la promozione del prodotto turistico culturale sarà il Workshop tra domanda e offerta con la partecipazione di 80 buyers esteri selezionati dall’ENIT provenienti da 15 Paesi: Austria, Belgio, Canada, Cina, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Olanda, Russia, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Svizzera. Al Salone Espositivo, dislocato su un’area di 16 000 mq, partecipano Istituzioni, Regioni, Province, Comuni, Camere di Commercio, Aziende di Promozione Turistica, Soprintendenze, Parchi Archeologici, Organizzazioni di Categoria, Associazioni Professionali e Culturali, Consorzi Turistici, Società di Servizi, Case Editrici per promuovere il patrimonio culturale, le destinazioni turistico-archeologiche e i servizi connessi. Saranno inoltre presenti circa 30 Paesi esteri oltre alla Turchia, Ospite ufficiale di questa edizione. Per ulteriori informazioni: www.borsaturismo.com


Calendario Italia Roma

Museo Archeologico fino al 31.12.11

Nerone

Colosseo, Foro Romano, Criptoportico neroniano e Museo Palatino fino al 15.01.12 (prorogata) La grande storia della diversità umana Palazzo delle Esposizioni fino al 12.02.12 (dall’11.11.11)

orvieto

bari

Il fascino dell’Egitto

La vigna di Dioniso

Il ruolo dell’Italia pre e post-unitaria nella riscoperta dell’antico Egitto Orvieto, Museo «Claudio Faina» e Palazzo Coelli (Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto) fino al 02.10.11

Vite, vino e culti in Magna Grecia Palazzo Simi fino al 20.11.11 bolzano

Ötzi20

Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Museo Archeologico fino al 31.12.11

cagliari Stele da Nora con iscrizione in alfabeto fenicio.

chianciano terme Museo Civico Archeologico delle Acque fino al 16.10.11

Le grandi vie della civiltà L’edificio neoclassico realizzato per il Museo Nazionale Etrusco di Chiusi.

I Fari del Mondo Antico Forte Michelangelo fino al 10.11.11

Volti e immagini del poeta Mantova, Ala Napoleonica di Palazzo Te fino all’08.01.12 milano

Nutrire il corpo e lo spirito Il significato simbolico del cibo nel mondo antico

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In basso: particolare di una delle pitture parietali della Tomba degli Auguri di Tarquinia.

trento

Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12

Virgilio

Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11

Antiquarium del Canopo e area archeologica fino al 06.11.11

Museo Etrusco di Chiusi + 110

mantova

La valle del vino etrusco

Villa Adriana. Dialoghi con l’antico

chiusi

Etruschi sulle onde del Mediterraneo

scansano (GR)

tivoli

Le case delle anime

Civitavecchia

Piatto da esposizione in maiolica istoriata con satiro a pesca.

piacenza

Mostra per il ventennale del ritrovamento dell’Uomo del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12

Iscrizioni fenicio-puniche dai musei della Sardegna Museo Archeologico Nazionale fino al 15.10.11

Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12

Homo Sapiens

Parole di segni

Montefiore Conca (Rn)

Relazioni fra il Mediterraneo e il Centro Europa, dalla Preistoria alla Romanità Castello del Buonconsiglio fino al 13.11.11

Etruschi in Europa Museo delle Scienze fino al 09.01.12 Oinochoe (brocca) apula a figure rosse con scena di libagione.

treviso

Manciú, l’ultimo imperatore Casa dei Carraresi fino al 15.05.12 (dal 29.10.11)

vetulonia (castiglione della pescaia, gr)

Navi di bronzo

Dai Santuari nuragici ai Tumuli etruschi di Vetulonia Museo Civico Archeologico «Isidoro Falchi» fino al 06.11.11


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

I Galli

venezia

Una esposizione sorprendente Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12 (dal 19.10.11)

Venezia e l’Egitto La mostra illustra i rapporti tra Venezia e l’Egitto nel corso di quasi due millenni: dai ritrovamenti archeologici che documentano relazioni in età classica, fino all’apertura del Canale di Suez, un’iniziativa proposta dal governo marciano già nel primo Cinquecento e realizzata solo nel 1869 su progetto dell’ingegnere trentino Negrelli, all’epoca capo delle ferrovie del Lombardo-Veneto. Nel mezzo stanno figure ed eventi spesso eccezionali: dalla traslazione del corpo di San Marco da Alessandria nell’828, alle avventure ottocentesche di esploratori come Giambattista Belzoni, uno dei padri dell’archeologia italiana, e Giovanni Miani; dalle peripezie di mercanti e diplomatici all’inseguimento di merci, tesori e terre, alle curiosità di umanisti e scienziati alle prese con i misteri dei geroglifici, delle piramidi e dell’antica scienza dei faraoni. dove e quando

strasburgo

StrasburgoArgentorate

Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.) Musée archéologique fino al 31.12.11

Germania monaco

La guerra di Troia

200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12

Grecia

Palazzo Ducale fino all’01.01.12 Orario tutti i giorni, 8,30-19,00 (fino al 31.10); tutti i giorni, 8,30-17,30 (dall’01.11) Info call center 848 082 000 (dall’Italia); e-mail: info@fmcvenezia.it; www.visitmuve.it

Atene

Il mito e la monetazione Museo Archeologico Nazionale e Museo Numismatico fino al 27.11.11

Paesi Bassi amsterdam e leida

Gli Etruschi

Svizzera

Bruxelles

Tutankhamon

Hauterive

La sua tomba e i suoi tesori Brussels Expo e Musée du Cinquantenaire fino al 06.11.11

L’era del falso

Quando il corpo si fa parure

Gioielli e ornamenti di culture non europee Musée du Cinquantenaire (Musée pour Aveugles) fino al 28.10.12

Francia Al tempo del regno di Alessandro Magno La Macedonia antica Musée du Louvre fino al 16.01.12

Statere in argento della Lega Arcade. 360 a.C. circa.

Allard Pierson Museum (Amsterdam) e Rijksmuseum van Oudheden (Leiden) fino al 18.03.12

Belgio

Parigi

L’ubicazione e l’estensione del campo legionario di Argentorate rispetto all’area urbana di Strasburgo.

In alto: ritratto della regina Ty. XVIII dinastia. Qui sopra: figurina femminile in terracotta. Cultura Chupicuaro, Messico.

Quando le contraffazioni svelano i sogni e le speranze degli archeologi Laténium, Espace Paul Vouga fino all’08.01.12

USA new york

Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 13.11.11

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Corrispondenza da Atene Una tempesta (forse) «provvidenziale»... I celeberrimi (e contesi) «marmi Elgin» potrebbero non essere tutti al British Museum, ma, almeno in parte, giacere in fondo al mare, al largo di Citera itera, 18 settembre 1802. Il brigantino inglese Mentor, C salpato dal porto del Pireo e diretto

in Gran Bretagna via Malta, naufraga nelle acque antistanti la zona sud-occidentale dell’isola, presso Avlemonas. Ma che cosa trasporta quella nave? E perché occuparsene? Facciamo un passo indietro. La storia delle sculture del Partenone in età moderna è nota, a grandi linee, un po’ a tutti. Nel 1799 l’ambasciatore inglese presso la Sublime Porta,Thomas Bruce, piú noto come Lord Elgin, ottiene dal governo di Atene il permesso di effettuare calchi delle sculture dei monumenti sull’Acropoli, da impiegare nella sua villa in Scozia; quindi, grazie all’uso

ambiguo di un firmano (decreto dei sultani turchi o persiani, n.d.r.), intraprende scavi e rimuove sculture, soprattutto dal Partenone. Dall’Acropoli a Londra L’indifferenza del governo ottomano per la sorte dei monumenti antichi e una serie di connivenze permettono cosí a Elgin di impossessarsi di quanto di meglio si fosse conservato della decorazione scultorea di uno dei capolavori dell’arte classica. I marmi finiscono quindi in Inghilterra e, dal 1816, divengono uno dei vanti del British Museum, oggetto di una delle polemiche di restituzione tra le piú accese di tutta la storia della diplomazia archeologica.

di Valentina Di Napoli

GRECIA

Mare Egeo

Atene

Mar Ionio

Citera

La vicenda del viaggio tra Atene e Londra, tuttavia, è un po’ meno nota. Rimosse dall’Acropoli, le sculture vennero stipate in casse e portate al Pireo; qui, nel settembre del 1802, furono caricate su due navi della Marina militare britannica e su un brigantino di proprietà dello stesso Elgin, il Mentor, appunto. Quest’ultimo, in particolare, imbarcò 17 casse contenenti 14 lastre del fregio del Partenone, 4 frammenti del fregio del tempio di Athena Nike e altri reperti, tra cui un trono marmoreo. Due giorni dopo essere salpato dal Pireo, il Mentor incappò in una violentissima tempesta e affondò, presso le coste di Citera. Subito

Suppellettili recuperate dal relitto del brigantino Mentor, affondato nel settembre 1802 al largo di Citera, poco dopo essere partito alla volta della Gran Bretagna per trasportare parte delle sculture prelevate sull’Acropoli di Atene da Lord Elgin: una bussola (a sinistra) e una pistola (qui sotto).


In alto e a destra: subacquei al lavoro sul relitto del Mentor, oggetto di ricerche condotte dalla Soprintendenza Ellenica alle Antichità Subacquee e dal Kytherian Research Project.

dopo il naufragio, pescatori di spugne locali riuscirono a recuperare solo 4 delle 17 casse del carico. Furono infruttuosi sia il tentativo di sollevare il relitto dal fondo marino con l’impiego di cavi, intrapreso da una nave della Marina britannica su richiesta di Elgin, deciso a non perdere il prezioso bottino, sia quello degli uomini inviati dall’armatore italiano Basilio Menachini. Solo i pescatori di spugne di Calimno, celebri ancora oggi in tutto l’Egeo, riuscirono a riportare alla superficie altre 5 casse, nell’estate del 1803. Si dovette attendere l’anno successivo per recuperare il resto del carico, poi trasportato in Inghilterra addirittura grazie ai buoni uffici dell’ammiraglio Orazio Nelson. Ecco, dunque, come

arrivarono a Londra i «marmi Elgin»; ma il Lord inglese, caduto in rovina per pagare le operazioni di asporto dei marmi e poi di recupero del carico, dopo una serie di vani tentativi di rifarsi delle spese, esponendo a pagamento le opere giunte da lontano, nel 1816 fu infine costretto a venderle al governo britannico. Risultati incoraggianti Un pezzo di questa vicenda sta ora tornando alla luce: il relitto del Mentor, esplorato dapprima dal comandante Jacques Cousteau (1975), poi dagli archeologi dell’Istituto di Ricerche Archeologiche Subacquee (1980), quindi dalla Soprintendenza Ellenica alle Antichità Subacquee (2009), durante l’estate appena trascorsa è

stato oggetto di scavi sottomarini anche da parte di altri archeologi di questa stessa Soprintendenza, sotto la direzione di Dimitris Kourkoumelis e in collaborazione col Kytherian Research Project. Questa volta il relitto, indagato specialmente nell’area della poppa, ha restituito oggetti di proprietà dei 10 membri dell’equipaggio, tra cui pistole, vasellame da cucina, una bella bussola con catena in oro, fucili, monete dell’epoca. A riservare una sorpresa molto piacevole sono state le pietre della zavorra, tra le quali erano nascoste tre monete antiche, due d’argento e una di bronzo: un segnale incoraggiante, una speranza che future ricerche possano gettare nuova luce sulla lunga vicenda dei marmi del Partenone e, chissà, restituircene un altro frammento.

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scoperte via annia Padova, Musei Civici, Museo Archeologico. Iscrizioni e monumenti funerari in una sala del percorso espositivo dedicato ai luoghi della via Annia.

ALTINO

PADOVA

ESTE

Venere colta nell’attimo di slacciarsi il sandalo, statuetta in bronzo proveniente da Rottanova, presso Cavarzere (Venezia). I-II sec. d.C. Padova, Musei Civici, Museo Archeologico.

ADRIA


AQUILEIA CONCORDIA

Sulle due pagine: il probabile percorso della via Annia, tracciato su una carta moderna dei territori che la strada attraversava. A destra: statua marmorea in abito sacerdotale detta di Tiberio o Augusto divinizzato, dal ciclo di epoca giulio-claudia raffigurante i membri della famiglia imperiale. Aquileia, Museo Archeologico Nazionale.

di Stefania Berlioz

Storie di una strada

scomparsa

Costruita nel II secolo a.C. per collegare la colonia di Aquileia con il centro della Penisola, la via Annia fu una delle arterie piú importanti della rete viaria romana. Contrariamente ad altre vie consolari, di essa il trascorrere dei secoli aveva cancellato ogni traccia. Oggi, un ambizioso e impegnativo progetto di ricerca e valorizzazione ne rievoca l’antico percorso‌ a r c h e o 29


scoperte via annia

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ppia,Aurelia, Flaminia, Emilia… Centinaia, migliaia di cartelli stradali ricordano a chi viaggia, oltre che la direzione da seguire, come la memoria dell’antica viabilità romana si sia mantenuta intatta nel corso dei secoli, sia a livello topografico che onomastico. Difficile invece, per quanti si trovino a percorrere l’anonima Strada Statale 14, che oggi collega Mestre a Trieste, anche solo immaginare che, lungo lo stesso percorso, si snodasse in antico una gloriosa via consolare romana, la via Annia. Su di essa sono passati imperatori e re barbari, eserciti di soldati e di coloni, commercianti e semplici viandanti. E prima ancora, sulle piste e sentieri che hanno preceduto la strada

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romana, mercanti greci ed etruschi, pirati istri e torme di temibili Galli, in perenne conflitto con gli autoctoni veneti... Questa via perduta disegna il filo di una storia antichissima, inequivocabile indizio dell’importanza di questo tracciato sin dalla tarda età del Bronzo (vedi box a p. 32-33).

La strada «anfibia» Realizzata nella seconda metà del II secolo a.C. per collegare la colonia latina di Aquileia con il centro della Penisola, la via Annia conosce la sua parabola di discesa a partire dalla tarda età imperiale. Fu un declino lento, ma inarrestabile: in epoca medievale di questa strada si erano perse completamente le tracce, oltre

che il nome. L’oblio si è protratto per secoli, sino a che un gruppo di studiosi, con tenacia, pazienza e infinita curiosità non ha iniziato ad assemblarne i frammenti, quasi fossero le tessere di uno degli splendidi mosaici di Aquileia, sino a restituirne la fisionomia e il ruolo secolare – quello di interfaccia, culturale ed economica al tempo stesso – tra Oriente e Occidente. Quanti si aspettano che dalle pagine che seguono prenda forma una bella, dritta e solida strada romana, andranno forse delusi. La via Annia si configura come una strada anomala, spesso interrotta, a tratti evanescente; a caratterizzarla, piuttosto che la solidità di pietre, terreno e pavimentazioni, è la mobilità


dell’elemento acquatico nei suoi aspetti multiformi e cangianti: fiumi, paludi, lagune e poi mare, mare all’orizzonte. Una strada «anfibia», in bilico – come la regione che attraversa – tra terra e acqua. E se l’acqua ne rappresentò l’elemento vitale e propizio, si vedrà come fu sempre l’acqua a determinarne la progressiva rovina.

Conquiste territoriali Le grandi strade romane – le viae publicae, note anche come consulares – nascono da necessità di ordine militare, piuttosto che da interessi economici; esse rispondono, per usare le parole di uno dei grandi studiosi che hanno legato il proprio nome a quello della via Annia, In alto: lavori in corso lungo la via Annia, in un’immagine del cartone multimediale di Titus Acidinus, che racconta le avventure di un mercante di Aquileia in viaggio verso Roma. A destra: un tratto del basolato della via Annia a Concordia Sagittaria. A sinistra: i resti del foro romano di Aquileia, circondato da portici e pavimentato con lastre in calcare di Aurisina.

Luciano Bosio, «non a bisogni contingenti e settoriali, ma a un vasto e lungimirante disegno di conquista e dominio». La via Annia non sfugge a questa regola: la sua storia ha inizio ben prima che ne fossero posate le prime pietre, e va narrata nell’ambito di uno dei piú rilevanti episodi della storia dell’espansione romana di epoca repubblicana: la conquista della Gallia Cisalpina – cioè la Gallia posta «al di qua» delle Alpi –, che prende avvio tra la seconda metà del III e il II secolo a.C. sino a trovare il momento di massima tensione espansiva nel I secolo a.C. Nella prima metà del III secolo a.C., il limite del controllo eserci-

tato da Roma verso il nord della Penisola italica era segnato dalla catena appenninica, nel suo tratto tosco-emiliano. Il versante adriatico rappresentava una spina nel fianco dei Romani, essendo il varco naturale attraverso il quale passavano le migrazioni tribali e le armate galliche. La deduzione, nel 268 a.C., della colonia di Ariminum (Rimini), mirava a prevenire e, nel caso, ad arginare questo pericolo. E in effetti, proprio a Rimini venne fermato, nel 236 a.C., un poderoso attacco gallico. Dovette risultare chiaro, agli occhi dei Romani, che l’unico modo per eliminare definitivamente il problema era la conquista della Pianura Padana; quella che iniziala r c h e o 31


scoperte via annia La via Annia prima della via Annia Racconta lo storico Livio, nel libro X della sua Storia di Roma, che allo scorcio del IV secolo a.C. il re spartano Cleonimo giunto in Italia in soccorso della colonia di Taranto, minacciata dai Romani, dopo alterne vicende ebbe ad avventurarsi nel Mare Adriatico, sino ai lidi dei Veneti. La geografia di quei luoghi non era sconosciuta ai Greci che, già da secoli, battevano la rotta adriatica alla volta degli empori di Spina e di Adria, nel delta del Po, antico Eridanos. Ma procedendo oltre, lungo la vasta insenatura adriatica, le notizie a disposizione si facevano via via piú vaghe, non prive di ambiguità. Terre talmente compenetrate dall’acqua – mare, fiumi, paludi – da diventare mobili, fluttuanti, piú adatte ad accogliere fuggiaschi e avventurieri piuttosto che un popolo civile. Con sorpresa, Cleonimo ebbe ad ascoltare il resoconto degli esploratori inviati in ricognizione: superato il lido si estendevano paludi, ma subito oltre si scorgevano campi ben coltivati, e, all’orizzonte, il profilo di rilievi collinari. Vi era inoltre la foce di un fiume molto profondo, a cui i Greci davano il nome di Medoakos (latino Meduacus, antico nome del Brenta), nella quale le navi potevano manovrare come in una base

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sicura. Allettato dall’idea di un facile bottino, Cleonimo comandò di volgere le prore in quella direzione; le pesanti navi rischiavano di incagliarsi nei fondali del fiume, il grosso degli armati raggiunse con imbarcazioni piú leggere i campi coltivati e gli abitati circostanti, dandosi alla razzia. La notizia giunse velocemente a Padova, e altrettanto velocemente due schiere di armati raggiunsero, attraverso sentieri nascosti, gli insediamenti attraccati e la base presso cui erano ancorate le navi. In breve ebbero il sopravvento, i razziatori vennero dispersi e le navi incendiate. Cleonimo fu costretto a battere in ritirata con quel poco che restava della sua flotta. L’episodio ci offre un quadro abbastanza attendibile di quello che doveva essere il paesaggio della frangia costiera alto-adriatica prima della romanizzazione: un ambiente lagunare punteggiato di insediamenti e attraversato da piste terrestri convergenti verso gli attracchi della navigazione fluviale, lagunare e marittima. Un quadro che la ricerca archeologica va puntualmente confermando e arricchendo di particolari preziosi. Indagini archeologiche effettuate nella


A destra: ricostruzione virtuale del ponte interno lungo la via Annia, nel contesto di scavo nell’attuale Tenuta di Ca’ Tron, nei pressi di Altino. Il ponte era realizzato in pietra e laterizi su fondazioni lignee (in primo piano, nel riquadro) ed era a una sola arcata. Nella pagina accanto: Trittolemo su un carro alato e Demetra, scena di culto eleusino su un cratere attico a figure rosse del «Pittore delle Niobidi», dalla tomba 313 della necropoli di Spina in Val Trebbia. 460 a.C. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale.

tenuta di Ca’ Tron, 3 km a est di Altino, hanno intercettato i resti di un ponte realizzato in travi lignee connesse a incastro, da porre in relazione con il paleoalveo della Canna. L’infrastruttura, databile all’età del Bronzo Finale (XIII-X secolo a.C.), doveva essere funzionale a un percorso, le cui tracce vennero cancellate al momento della costruzione della via Annia. I tecnici romani che, un secolo e mezzo dopo le scorrerie di Cleonimo,

mente si era configurata come una strategia difensiva si tramutò rapidamente in un grandioso piano di conquista territoriale, quasi sancito, nel 220 a.C., dalla costruzione della via Flaminia, che consentiva un rapido collegamento tra Roma e Rimini. Interrotti bruscamente dalla discesa di Annibale dai valichi alpini, i piani di conquista della Cisalpina ripresero con accresciuto vigore e determinazione dopo la disfatta dell’esercito cartaginese. Le operazioni militari, oltre che da Rimini, presero le mosse da Genua (Genova), fedele alleata di Roma – ma nell’ostile terra dei Liguri –, in modo da accerchiare tutte le aree di insediamento celtico della Pianura Padana.

Le colonie di Roma Le vittorie romane si susseguirono a ritmo serrato, contestualmente al moltiplicarsi delle deduzioni coloniali: nel 218 a.C. Cremona e Placentia (Piacenza), immediatamente a nord e a sud del Po; nel 189 a.C. Bononia (Bologna); nel 181 a.C. Aquileia, il piú nord-orientale degli avamposti romani. La colonia ven-

vennero inviati per individuare quale fosse il percorso piú adatto per il passaggio della via Annia, seguirono piste, ponti e guadi già collaudati dal cammino degli uomini da almeno un millennio. La strada era, per cosí dire, già aperta.

ne dedotta ai margini del territorio dei Veneti, antica popolazione italica di origine indoeuropea, che lo storico greco Polibio annovera nell’elenco delle forze alleate di Roma contro i Celti. Aquileia venne collocata in posizione strategica, a 10 km circa dal mare e lungo il corso del fiume Natisone che, in epoca romana, sfociava in prossimità di Grado. Attraverso il fiume la città era collegata direttamente al mare e alla flotta romana. Tuttavia, in caso di pericolo, l’aiuto non poteva essere assicurato solo dal mare; Aquileia necessitava di uno stabile collegamento terrestre con gli altri centri romani della Cisalpina. Già nel 187 a.C. il console Emilio Lepido aveva dato inizio alla costruzione della via Emilia, che collegava Rimini a Piacenza. Lo stesso console, forse nel 175 a.C., dovette prolungarne il percorso sino ad Aquileia. Nel 148 a.C. viene realizzata la via Postumia, che si spingeva da Genova ad Aquileia; un sistema stradale sempre piú strutturato, a garantire il collegamento tra le colonie – vere e proprie roccaforti militari – della Cisalpina.

In questi anni cruciali si materializzò il disegno della via Annia, destinata a completare il controllo dell’area veneta, divenuta ormai frontiera e, allo stesso tempo, ponte di lancio degli interessi militari e soprattutto economici di Roma verso l’Oltralpe: il suo legname e le sue ricchezze minerarie.

Una paternità discussa «Non è guari facile invero di ben comprendere la precisa direzione delle strade; ond’è che ingannasi sovente chi le vuole descrivere». Con queste parole si apriva la relazione stilata, nel 1885, dai membri della Commissione Veneziana per la Topografia della Venetia Romana, pionieri dello studio e della ricostruzione della via Annia. Parole quasi profetiche: oltre un secolo di studi e ricerche sul campo hanno consentito la ricostruzione del tracciato generale della strada, ma ancora persistono ampie zone d’ombra, relative soprattutto alla cronologia e al tracciato iniziale della strada. Il percorso della via Annia è ricordato, nel suo tratto Padova-Aquileia, da ben tre itinerari antichi. Sul traca r c h e o 33


scoperte via annia Le strade romane nel periodo repubblicano.

LE INDAGINI ARCHEOLOGICHE LUNGO LA VIA ANNIA • Adria (loc. Pontinovi) scavo di un tratto stradale (Soprintendenza BBAA del Veneto) • Agna scavo di un tratto stradale (Soprintendenza BBAA del Veneto) • Padova microscavo in laboratorio di tombe di epoca preromana e romana provenienti dalla necropoli orientale, attraversata dalla via Annia (Soprintendenza BBAA del Veneto) • Ca’ Tron (Altino) scavo di un tratto della via Annia e delle infrastrutture a essa riferibili, tra cui un ponte che consentiva l’attraversamento di un antico percorso fluviale, denominato Paleoalveo della Canna; scavo di due insediamenti rustici che gravitavano sulla strada (Dipartimento di Archeologia, Università di Padova) • Concordia Sagittaria scavi del tracciato stradale in corrispondenza della necropoli orientale, del lato settentrionale del foro e della necropoli occidentale (Soprintendenza BBAA del Veneto) • Aquileia scavo della Domus delle Bestie Ferite (Dipartimento di Archeologia, Università di Padova)

L’imprevisto della scoperta Un recentissimo colpo di scena ha per un momento fatto vacillare la ridda delle vecchie ipotesi: presso Codigoro, 30 km a sud di Adria è stato rinvenuto un cippo miliare, probabilmente in situ, con iscritto CCL/T.Annius T.f./cos. Come di consueto, il cippo reca un numerale, 250, che corrispondeva al numero di miglia percorse fino a quel luogo, il nome del magistrato a cui la strada si riferiva – Tito Annio, figlio di Tito – e la sua carica di console; la scoperta potrebbe risolvere il tanto dibattuto

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problema del capolinea iniziale della nostra strada. Ma il rinvenimento, che in un primo momento appariva risolutivo, ha invece generato, come spesso accade, una nuova serie di interrogativi. Innanzitutto, il luogo di ritrovamento, 30 km a sud di Adria, cade piuttosto in un’area di pertinenza della via Popilia. Inoltre, il numero di miglia indicate non sembra corrispondere, come indicazione della distanza, a nessuno dei centri vicini noti. Il mistero della via Annia permane, e non consente facili scorciatoie.


La segnaletica stradale in epoca romana: i miliaria Per l’oratore e maestro di retorica Quintiliano, un discorso è simile a una strada: coloro che ascoltano apprezzano le pause, perché rendono piú piacevole il fluire della parole, cosí come coloro che viaggiano «si sentono molto meno affaticati quando leggono le distanze segnate nelle pietre miliari; da una parte procura piacere conoscere le dimensioni della fatica sostenuta, dall’altra è di stimolo a portare a termine con maggiore slancio ciò che rimane il sapere quanto resta da affrontare» (Quint., Institutio oratoria, IV, 5). Una invenzione tutta romana quella dei miliaria. Secondo la tradizione fu il tribuno della plebe Caio Gracco, intorno al 123 a.C., a regolamentarne e renderne obbligatorio il posizionamento lungo le vie pubbliche. I miliari sono cippi in pietra, generalmente di forma troncoconica e che potevano superare i 3 m di

ciato iniziale, il silenzio delle fonti è totale. La discussione degli studiosi è imperniata su due quesiti fondamentali: chi costruí la via Annia, e da dove iniziava.

Quale costruttore? Come tutte le viae publicae, l’Annia derivava il suo nome dal magistrato che ne aveva decretato la costruzione, personaggio variamente identificato con Tito Annio Lusco, console nel 153 a.C. o con Tito Annio Rufo, pretore nel 131 a.C. Poco piú di venti anni intercorrono tra l’attività del primo e del secondo Annio: tanto basta per cambiare completamente il quadro – storico e topografico – entro cui collocare la costruzione della nostra strada. Dobbiamo sempre ricordare, infatti, che una strada romana non nasceva nel nulla, ma in funzione di una precedente rete strutturata di percorsi, di cui rappresentava un segmento strategico e preferenziale. Secondo la teoria tradizionale, ampiamente accreditata fra gli studiosi, la via Annia sarebbe stata il prolungamento della via Popilia, realizzata nel 132 a.C. dal console Popilio Lenate per collegare la colonia di Rimini con il porto di Atria (Adria). Il compito di prolungare questa arteria sino ad Aquileia, attraverso Padova, sareb-

altezza, conficcati a terra lungo il margine della strada alla regolare distanza di 1 miglio (1480 m circa) l’uno dall’altro. L’iscrizione riportata sui cippi era essenziale: un numero, a volte preceduto dalla sigla MP (milia passum, letteralmente «migliaia di passi»), che indicava la distanza in miglia dall’inizio della via o dalla città piú vicina e generalmente il nome e la titolatura del magistrato (i pretori o i consoli in epoca repubblicana) o dell’imperatore che aveva realizzato o restaurato la strada.

be stato assunto, l’anno successivo, dal pretore Annio Rufo. Altri sono invece fautori di una cronologia «alta», riferibile al 153 a.C. Essi pongono la realizzazione della via Annia in piú stretta relazione con la fondazione di Aquileia, e ne individuano il capolinea a Bologna: sarebbe stato Annio Lusco, personaggio di spicco nella storia della fondazione di Aquileia (nel 169 a.C., su incarico del Senato di Roma, condusse ad Aquileia un supplemento di coloni), ad aver creato, o almeno stabilizzato, il percorso Bologna / Padova / Aquileia. Adria o Bologna sono quindi i possibili capolinea meridionali della via Annia, sino a Padova. Due ipotesi di tracciato, al loro interno non lineari: si può dire che ogni studioso abbia proposto una «sua» strada, adducendo riscontri archeologici, convincenti ragionamenti itinerario-topografici, memorie, vere o presunte, che la moderna toponomastica sembra serbare del passaggio dell’antico percorso. Al momento nessuna di queste ipotesi risulta avallata da una prova decisiva, incontrovertibile, come se la via Annia volesse ancora oggi conservare, non svelati, parte dei suoi stessi passi (vedi box nella pagina accanto). Quale che fosse il suo capolinea meridionale – Adria o Bologna – la

Cippo miliare della via Annia rinvenuto a Camin, presso Padova. 293-305 d.C. Padova, Musei Civici, Museo Archeologico. Il testo, inciso su una colonna di marmo, menziona la distanza di 3 miglia da Patavinum, e ricorda gli imperatori Diocleziano e Massimiano e i due Cesari Costanzo Cloro e Galerio.

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scoperte via annia

La via Annia dal cielo Nell’ambito del Progetto Via Annia è stata realizzata dal Dipartimento di Geografia dell’Università di Padova, in collaborazione con il locale Aeroclub, una campagna di telerilevamento che ha interessato l’intero tracciato stradale, da Adria ad Aquileia. Nell’arco di 100 ore di volo, effettuate con normali velivoli da turismo in diverse condizioni ambientali e di luce, sono stati realizzati circa 35 000 scatti fotografici, che hanno rivelato migliaia di tracce relative a strutture archeologiche (tratti di strade, edifici, parcellizzazioni agrarie…) e naturali (antichi percorsi fluviali, canali artificiali…) sepolte. Queste tracce sono state elaborate, interpretate e georeferenziate, per poi confluire, sotto forma di immagini e carte geografiche, in un complesso Sistema Informativo Geografico (GIS), finalizzato non solo alla conoscenza del territorio, ma anche e soprattutto alla sua tutela.

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A sinistra: Ceggia. È ben riconoscibile il tracciato della via Annia, la cui sede, ora demolita dalle arature, è molto chiara rispetto agli adiacenti terreni scuri, un tempo paludosi. L’antico ponte, corrispondente al rettangolo erboso, consentiva il superamento dell’alveo fluviale che si è successivamente spostato verso ovest occupando l’attuale asta fluviale. Sulle due pagine: nei pressi di Chiarisacco, in località Arrodola Nuova, il tracciato della via Annia si stacca da quello della Strada Statale 14 «Triestina» e prosegue in modo rettilineo verso Aquileia passando per Malisana, visibile sullo sfondo.

via Annia si avvicinava a Padova da romana si sviluppava, esattamente sud, attraverso l’attuale piazza di come l’insediamento veneto che l’aveva preceduta, all’interno di Prato della Valle. un’ansa e una successiva controansa del fiume Meduacus (antico nome Sepolcri ai lati della via L’ingresso in città era sottolineato del Brenta), imponente corso d’acda un lungo allineamento di sepol- qua il cui attraversamento era reso ture. Le leggi romane imponevano possibile attraverso cinque ponti infatti che le necropoli fossero ubi- lapidei a tre e cinque arcate, lunghi cate al di fuori dei circuiti urbani; oltre 40 m. la collocazione piú ambita e presti- Asse portante della viabilità urbana, giosa era quella in corrispondenza la via Annia attraversava l’intera citdell’entrata e uscita delle arterie tà, da sud a nord, lambendo i quarstradali – la via Annia ne è un esem- tieri legati alle attività dello scalo pio –, che garantivano grande visi- fluviale e il foro, per poi piegare a est e uscire dal perimetro urbano bilità ai monumenti funerari. Nel corso dei secoli le sepolture, attraverso il ponte Altinate. Padova con i loro segnacoli piú o meno era ormai alle spalle: i bei basoli in monumentali, si affastellarono l’una pietra che caratterizzavano il lastrisull’altra in un groviglio inestrica- cato del tratto urbano dell’Annia bile, cosí che il passaggio dalla città (via silice strata) era sostituito, fuori dei morti a quella dei vivi avve- città, da piú semplici pavimentaniva praticamente senza soluzione zioni in terra battuta (via terrena) o di continuità: un ultimo sguardo ghiaie pressate (via glareata). ai volti e alle parole dei defunti, Da Padova, il viaggiatore che volscolpite a imperitura memoria nella geva i suoi passi in direzione di pietra, che già il viaggiatore si tro- Aquileia era finalmente certo di vava immerso nel fervore della vita aver imboccato la via giusta. Il percorso Padova-Aquileia è infatti ben quotidiana patavina. Secondo il geografo greco Strabo- documentato da tre itinerari antichi ne, Padova, antica Patavium, era una (vedi box a p. 39), vere e proprie delle città piú popolose e floride guide stradali con indicazione dei dell’intera regione, come dimostra- centri urbani e delle aree di sosta to «dalla grande quantità di merci che si incontravano lungo il camche invia al mercato di Roma, fra mino. Quanti ne erano sprovvisti cui vesti di ogni specie». La città potevano farsi un’idea precisa della a r c h e o 37


scoperte via annia Ricostruzione della disposizione del corredo all’interno del dolio, dalla tomba 237 della necropoli di via Tiepolo-via San Massimo, di Padova. Fine del III-inizi del II sec. a.C. Padova, Musei Civici, Museo Archeologico.

distanza percorsa e del cammino mancante grazie ai miliari (vedi box a p. 35) che punteggiavano la strada a intervalli regolari.

Tra fiumi, paludi e lagune Uscita da Padova, la via Annia si sviluppava parallelamente al corso del Meduacus Maior, il maggiore degli antichi rami brentizi che collegavano Padova alle lagune e al mare. La relazione funzionale tra strada e fiume risulta sottolineata dall’esistenza, a breve distanza l’una dall’altra, di due tappe di sosta dai nomi «parlanti»: Maio Meduaco – il nome stesso del corso fluviale – e ad Portum, «al Porto». Identificati rispettivamente presso Sambruson di Dolo e Porto Menai, questi due punti di sosta corrispondevano a nodi nevralgici di un complesso sistema di percorsi fluviali e terrestri (vedi box a p. 40). Superato il corso del Meduacus e il frastuono dei suoi scali portuali, la via Annia si avvicinava rapidamen-

te agli specchi dell’attuale laguna veneziana, attraverso un paesaggio piano e silenzioso. Il forte odore salmastro e il fruscio dei canneti suggerivano al viandante la prossimità al mare. Dopo una sosta per rinfrancarsi dalle fatiche del viaggio, presso la mutatio ad Nonum (oggi Ponte di Pietra, tra Mestre e Campalto), Altino e le sue comodità erano ormai vicine: 9 miglia, che si potevano fare in poche ore di cammino.

La vista di Altino, il maggiore dei nodi portuali alto-adriatici insieme ad Adria e Aquileia, doveva suscitare una grande impressione nei forestieri. Una sorta di città-isola, collocata in posizione riparata all’interno della gronda lagunare, ma vicinissima al mare, in corrispondenza della foce del fiume Sile. Le fonti antiche ne celebrano il clima favorevole, che faceva di Altino una meta turistica assai ambita e apprezzata.

Un progetto per la Via Annia Ricostruire il tracciato e la fisionomia di una strada «scomparsa» non è cosa da poco, perché impone uno sforzo collettivo e un approccio multidisciplinare: studio delle fonti letterarie, itinerarie, epigrafiche, indagini archeologiche, studi geomorfologici… Se poi a questo intento si aggiunge la volontà di restituire vita al «manufatto», rendendolo visibile e comprensibile anche ai non specialisti, la questione si fa assai piú complessa. È questo l’obiettivo, ambizioso e lungimirante, del Progetto via Annia, avviato nel 2005. Un progetto articolato, che ha visto la cooperazione di enti e istituzioni preposti alla ricerca, alla tutela e al governo territoriale che, con i loro servizi amministrativi, hanno reso possibile il dispiegarsi delle varie azioni di un progetto che ha visto impegnati studiosi di diversa formazione, ricercatori, restauratori, addetti museali e tecnici informatici. Numerosissime le azioni previste, tra queste l’allestimento, all’interno dei musei archeologici di Adria, Padova, Altino, Concordia e Aquileia – tutti gli

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antichi centri toccati dal passaggio della via Annia – di apposite sale destinate all’esposizione di reperti e testimonianze legate al tracciato, e alla postazione di stazioni multimediali, che consentono al visitatore la possibilità di effettuare una passeggiata virtuale lungo l’antica strada romana e all’interno delle sale dedicate all’Annia presenti nei vari musei. La ricerca è stata uno degli assi portanti di tutte le azioni e si è articolata su diversi fronti: sono state realizzate indagini archeologiche in punti critici del tracciato allo scopo di acquisire nuovi dati su problematiche precise; sono state realizzate indagini geomorfologiche ed è stata portata a termine una campagna di telerilevamento da aereo. Accanto alla ricerca è stata fondamentale la valorizzazione del tracciato, che ha avuto come obiettivo far conoscere la via Annia anche ai non «addetti ai lavori»: cartellonistica territoriale, segnaletica, guida Touring e la depliantistica oggi presente nei musei e nei punti informativi dei Comuni ne sono i tasselli.


La via Annia negli itineraria antichi 120 000 chilometri: a tanto ammontava l’estensione complessiva della rete stradale romana. Per districarsi in questa immensa rete i viaggiatori avevano a disposizione gli itineraria, vere e proprie guide stradali che consentivano di programmare anche i viaggi piú lunghi. Ne esistevano di due tipi: adnotata e picta, vale a dire scritti e figurati. I primi erano semplici elenchi nei quali venivano annotati, strada per strada, i centri urbani collegati (con le relative distanze) e le aree di sosta posizionate lungo il cammino. Negli itineraria picta alle annotazioni scritte si aggiungeva una rappresentazione cartografica figurata, un vero e proprio atlante stradale dell’epoca. A includere il percorso della via Annia relativamente al tratto Padova-Aquileia sono l’Itinerarium Antonini, risalente al III secolo d.C.; l’Itinerarium Burdigalense, pure del III secolo d.C., rendiconto di viaggio di un anonimo pellegrino di Burdigala (odierna Bordeaux) che, al tempo di Costantino, si era recato a visitare i luoghi santi di Gerusalemme e poi di Roma; infine la Tabula Peutingeriana, unico esempio di itinerarium pictum a noi pervenuto: si tratta della copia medievale di un originale forse risalente al III secolo d.C. Le incongruenze relative alle distanze tra i centri urbani dislocati lungo la strada, dovrebbero trovare una spiegazione con il fatto che ciascuno dei tre documenti registra situazioni non contemporanee. • itinerarium Antonini Patavis civitas Altinum civitas Concordia civitas Aquileia civitas • itinerarium Burdigalense civitas Patavi mutatio Ad Duodecimum mutatio Ad Nonum civitas Altino

m.p. XXXIII m.p. XXXI m.p. XXXI mil. XII mil. VIIII mil. VIIII

mutatio Sanos civitas Concordia mutatio Apicilia mutatio Ad Undecimum civitas Aquileia • Tabula Peutingeriana Patavis Altino Concordia Aquileia

mil. X mil. VIIII mil. VIIII mil. XI mil. XI XXX XXX XXX

Il Nord Italia, in un segmento della Tabula Peutingeriana, copia medievale di una mappa dell’impero romano, forse del III sec. (con aggiunte del IV-V sec.), conservata presso la Biblioteca Nazionale di Vienna. Sono individuabili le città di Aquileia, Altino, Bononia (Bologna), Mutina (Modena), Mantua (Mantova) e Verona.

Il geografo Strabone paragona la posizione di Altino a quella di Ravenna, città «interamente costruita su palafitte e attraversata da canali, cosí da essere percorribile attraverso ponti e barche» (Geografia,V, 6, 7). Il passaggio della via Annia, principale arteria cittadina, risultava scandito da edifici destinati allo spettacolo e dall’area forense. Un viabilità minore, sia terrestre che fluviale, consentiva il collegamento con i principali quartieri cittadini. Attraverso le fotografie aeree e le immagini da satellite, si può cogliere, almeno a grandi linee, questo straordinario e suggestivo assetto urbano, non molto dissimile da a r c h e o 39


scoperte via annia quello che doveva caratterizzare la Venezia delle origini. Oltrepassata Altino, la via Annia acquistava progressivamente il suo carattere «anfibio» per poi assumere – almeno apparentemente – una piú netta connotazione terrestre. Il suo tracciato, sino ad Aquileia, si fa infatti arretrato rispetto alla linea di costa. Una scelta obbligata, vista la complessa situazione idrografica della regione e la natura insidiosa del terreno, soggetto a frequenti impaludamenti e divagazioni fluviali.

Un territorio difficile In questo tratto la via Annia mise a dura prova le pur notevoli e rinomate capacità ingegneristiche romane. Da Altino ad Aquileia, per attraversare i numerosi corsi d’acqua di diversa entità, le aree paludose e gli specchi lagunari, era necessario provvedere alla costruzione di infrastrutture quali ponti, guadi, arginature, fossi, canali, banchine. La particolare natura del territorio condizionò anche la struttura stessa della carreggiata, costruita quasi sempre in aggere – cioè sopraelevata rispetto al piano di campagna – per proteggerla dall’azione distruttiva delle acque. Superato il fiume Livenza attraverso un ponte, i cui resti erano ancora visibili nel secolo scorso, l’Annia si avvicinava al corso del Lemene, antico flumen Reatinum, e alla città di Concordia, fondata tra il 42 e il 40 a.C. esattamente a metà strada fra Altino e Aquileia. Il corso del fiume Lemene collegava Concordia al mare e al suo sbocco portuale, il portus Reatinum, probabilmente da individuare nell’attuale località di Caorle. Gli scavi archeologici condotti negli ultimi decenni hanno messo in evidenza un impianto urbanistico che potremmo definire canonico per le fondazioni coloniali romane: un circuito murario che racchiude isolati di forma regolare separati da assi viari (decumani e cardi) che si incrociano perpendicolarmente, con il complesso forense al centro. La via 40 a r c h e o

I luoghi della sosta Lo storico greco Polibio, che ebbe modo di visitare e soggiornare in Gallia Cisalpina intorno al 150 a.C., rimase estremamente colpito dalla ricchezza e fertilità della regione. Per darne ai suoi lettori una concreta misura spiega: «I viaggiatori alloggiano negli alberghi senza stare a contrattare sui singoli generi forniti, ma chiedono a che prezzo sia accolta una persona; perlopiú gli albergatori ricevono gli avventori in modo che abbiano tutto quanto loro abbisogna per mezzo asse, ossia un quarto di obolo, prezzo che raramente superano» (Pol., II, 15). Con la stessa cifra, in una taverna posta, per esempio, lungo la via Appia, un viaggiatore riusciva a malapena a fare un pasto decente, bevande escluse… I luoghi della sosta e del ristoro erano fondamentali lungo le strade romane a lunga percorrenza. Negli itinerari vengono indicate due principali tipologie di stazioni stradali: le mansiones e le mutationes; nelle prime si poteva mangiare, pernottare e far riposare i cavalli. Nelle seconde si poteva inoltre provvedere al cambio dei cavalli. Queste due principali tipologie di stazioni erano in genere riservate ai funzionari del cursus publicus, il servizio postale istituito dall’imperatore Augusto. Chi non era dotato dell’apposito lasciapassare poteva comunque usufruire delle numerose taverne e locande private che si affollavano in corrispondenza dei luoghi di sosta ufficiali.

Rilievo raffigurante una scena di viaggio, da Vaison-La-Romaine (Francia). Avignone, Musée Lapidaire.

Annia faceva il suo ingresso trionfale attraverso la porta urbica orientale, caratterizzata da una monumentale facciata a quattro fornici, fiancheggiata da due torri ottagonali. Attraversava interamente la città e usciva attraverso la porta occidentale, pure monumentalizzata, per proseguire il suo cammino. Poco oltre Concordia la via Postumia, proveniente dal centro di Oderzo, confluiva nella via Annia, per proseguire congiuntamente sino ad Aquileia. Si entrava ora in quello che è l’attuale comprensorio della Bassa friulana, regione caratterizzata in epoca romana da vaste distese di aperta campagna punteggiate da piccole e accentrate realtà insediative. Lungo questo ultimo tratto di strada l’itinerarium Burdigalense segnala due stazioni stradali, la

mutatio Apicilia, localizzata presso il moderno paese di Latisanotta, a est del fiume Tagliamento, e la mutatio ad Undecimum, presso la moderna Chiarisacco. Ancora un ponte, per superare il corso del fiume Aussa, e infine la via Annia raggiungeva la tanto agognata meta finale.

«Baluardo contro i barbari» Fondata nel 181 a.C.,Aquileia si sviluppava in una vasta pianura a circa 10 km dal mare, presso il corso del Natisone, che collegava la città alla laguna e al mare. La sua funzione, militarmente ed economicamente strategica, viene colta perfettamente da Strabone: «Aquileia (…) venne fortificata a baluardo contro i barbari della regione sovrastante; è raggiungibile da navi da carico, che risalgono il fiume Natisone per piú


di sessanta stadi. Funge da emporio per i popoli illirici del bacino dell’Istro; essi vi acquistano le merci provenienti dal mare: vino, che caricano in botti di legno su carri coperti, e olio, mentre vi esportano schiavi, bestiame e pelli. Aquileia si trova fuori del territorio dei Veneti dai quali è separata da un fiume che scende dalle Alpi ed è navigabile per 1200 stadi in direzione della città di Noreia (…) In questa zona sono ubicati, in felice posizione naturale, cantieri in cui si lava l’oro e industrie del ferro» (Geografia V, 1, 8).

Persistenze urbanistiche Fondamentali per lo straordinario decollo economico di Aquileia nei primi secoli dell’impero il porto e l’imponente rete stradale che la proiettavano verso oriente e ver-

so le regioni centro-settentrionali d’Europa. La via Annia dovette giocare un ruolo importante nello sviluppo urbanistico della città repubblicana, il cui impianto originario, nonostante le profonde trasformazioni subite nel III e IV secolo d.C., è ancora leggibile nelle sue linee generali; la città si presentava con uno schema urbano di forma quadrangolare, imperniato su due assi stradali principali (il cardine e il decumano massimo) incrociati perpendicolarmente. Organica la suddivisione degli spazi, legata alla funzionalità dei differenti settori: a est le strutture portuali, con i giganteschi magazzini, a ovest gli edifici dello spettacolo e le terme, al centro il complesso del foro. L’importanza della via Annia ancora nella tarda età imperiale è attestata

dai numerosi interventi di restauro e manutenzione promossi a partire da Massimino il Trace sino a Valentiniano e Valente. Oltre il IV secolo d.C. questi interventi furono sempre piú difficili da garantire, per via delle mutate condizioni sociopolitiche determinate dalle invasioni barbariche. Nel 452 le armate di Attila devastano Aquileia. Il destino della via Annia è segnato: nel 552 Narsete, generale dell’impero romano d’Oriente impegnato in Italia nella lotta contro i Goti, per recarsi a Ravenna, capitale dell’Italia bizantina, preferí intraprendere un percorso costiero – con l’appoggio logistico della flotta che procedeva in parallelo via mare – piuttosto che avventurarsi sull’antica via Annia, probabilmente ormai non piú percorribile. a r c h e o 41


scoperte via annia

L’INTERVISTA

ripartire verso altre mete A colloquio con Francesca Veronese, del Museo Archeologico di Padova Ad accogliere «Archeo» nella splendida cornice dell’ex convento degli Eremitani, sede dei Musei Civici di Padova, è Francesca Veronese. Si definisce «funzionario», in realtà è l’archeologa responsabile del Museo Archeologico (con il carisma della direttrice), nonché coordinatrice del Progetto Via Annia... • Come è nata l’idea del progetto? Come spesso accade, del tutto casualmente, da una intuizione di un «non addetto ai lavori», l’onorevole Andrea Colasio che, visionando un progetto di recupero e valorizzazione concernente l’Appia Antica pervenuto in Commissione Cultura, si è domandato se in Veneto – terra di precoce e profonda romanizzazione – non esistesse un percorso stradale altrettanto significativo. Il mio pensiero si è rivolto immediatamente alla via Annia, asse fondamentale della viabilità alto-adriatica in epoca romana, caduta in disuso e dimenticata a partire dal Medioevo. Una strada ben nota agli specialisti, ma priva di quelle emergenze archeologiche che ne rendono immediatamente visibile e comprensibile il tracciato. Dalla via Appia alla via Annia il passo è stato breve: nel luglio del 2004 è stata avanzata una proposta di legge, sottoscritta da numerosi parlamentari veneti e friulani, che si è concretizzata in un progetto di tutela e recupero dell’antico percorso, finalizzato a rendere

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la via Annia un «patrimonio culturale accessibile a chiunque». • Una via che non c’è: un vantaggio o uno svantaggio per il progetto? La via Annia è stata spesso definita un «non-luogo». Inizialmente questo è stato uno svantaggio, che si è presto tramutato in una sfida. Le parole d’ordine sono state sinergia e interdisciplinarietà. Sono state messe a sistema tutte le conoscenze pregresse sul tracciato, avviando poi una serie di ricerche finalizzate ad acquisire nuovi dati, nel tentativo di dirimere alcuni dei tanti nodi critici relativi al percorso della via Annia. Se la ricerca è stata uno dei pilastri del progetto, non meno importante è stata la valorizzazione del tracciato, che si è declinata in una serie di azioni mirate a rendere nota l’esistenza della strada anche al di fuori dell’ambito scientifico. Molti sono stati gli interlocutori che, con competenze diverse e da diverse prospettive, hanno preso parte al progetto. E quando mi riferisco alla sinergia, non intendo riferirmi in via esclusiva agli enti che operano sul piano scientifico – i dipartimenti universitari –, ma mi riferisco anche a quegli enti che operano sul fronte della tutela – le soprintendenze – e del governo territoriale – Regione, Province, Comuni –. Parimenti fondamentale è stata l’interdisciplinarietà


Gli allestimenti museali Fiore all’occhiello del Progetto Via Annia sono i nuovi allestimenti museali destinati a illustrare la storia dell’antica strada romana, dislocati nei musei archeologici di Adria, Padova, Sambruson di Dolo, Altino, Concordia e Aquileia. A inaugurare la serie, nel 2008, è stato il Museo Archeologico di Padova, che ha sede nell’ex convento degli Eremitani. Il percorso si sviluppa in quattro sale. La prima (sala III) ospita la stazione multimediale e una serie di pannelli – tra i quali domina una grande pianta topografica – che descrivono in dettaglio l’intero percorso dell’Annia, contestualizzandolo all’interno della rete stradale romana. Punto di forza è la ricostruzione, a grandezza naturale, di un tratto della strada, caratterizzato da basoli in pietra trachitica. Si prosegue con la sala della «romanizzazione» (sala IV), dedicata all’esposizione di reperti che testimoniano la progressiva integrazione della cultura veneta con quella romana. Esemplificativa del processo è la stele funeraria di Ostiala Gallenia (I secolo d.C.), adottata come logo del progetto. Come recita l’epitaffio iscritto, il monumento appartiene a Gallenio, figlio di Manio, e a Ostiala Gallenia. La coppia maritale è mista: il marito romano e la moglie veneta (tale è l’origine del prenome Ostiala), come sottolineato anche dal differente abbigliamento: la toga per l’uomo, il tradizionale abito veneto per la donna, caratterizzato da uno scialle annodato al petto A destra: stele funeraria di Ostiala Gallenia, da via San Massimo, Padova. I sec. d.C. Padova, Musei Civici, Museo Archeologico. Nella pagina accanto: una sala del percorso espositivo dedicato ai luoghi della via Annia nel Museo Archeologico di Padova. In primo piano, un ritratto di Augusto in marmo, da Adria (Rovigo), della metà del I sec. d.C.

e la tipica acconciatura con disco sulla fronte. La coppia è raffigurata su di una biga in corsa, guidata da un auriga. Un’allusione al viaggio, forse verso gli inferi, forse lungo l’Annia… Nella ultime due sale (V-VI) la visita è organizzata secondo un ordine topografico, con reperti provenienti dai diversi centri dislocati lungo il tracciato dell’Annia, tra Adria e Aquileia. Imponente è il miliario marmoreo «a firma» degli imperatori Diocleziano e Massimiano e dei due cesari Costanzo Cloro e Galerio (293-305 d.C.), rinvenuto presso Camin, in provincia di Padova. Anche il visitatore piú frettoloso esce dal museo con una nuova percezione dell’antico che ancora oggi aleggia lungo le strade di Padova. A chiudere la serie dei nuovi allestimenti museali sarà, in questo mese di ottobre, l’Antiquarium di Sambruson di Dolo, che offre ampie testimonianze dell’antica stazione di sosta Maio Meduaco e di alcuni insediamenti rustici rinvenuti nel territorio circostante. Ma non sveliamo i particolari: tutti i lettori di «Archeo» sono invitati all’inaugurazione...


scoperte via annia La Casa delle Bestie Ferite

L’INTERVISTA

Una pantera trafitta da una lancia, da parte a parte. La ferita sanguina copiosamente, le zampe non sembrano piú reggere il peso del corpo che si inarca e si appiattisce verso terra. Le fauci sono spalancate, in un ultimo rantolo di sofferenza... Questa immagine impressionante (in basso) appartiene a un mosaico pavimentale che decorava una lussuosa abitazione nel settore settentrionale di Aquileia, chiamata appunto «delle Bestie Ferite». Il complesso venne individuato, ma solo parzialmente scavato, negli anni Sessanta del secolo scorso. Grazie al Progetto Via Annia (la domus gravitava sul tracciato stradale), è stato possibile riaprire lo scavo. Straordinari sono i risultati, che hanno consentito la ricostruzione della planimetria della domus e la cronologia delle sue fasi abitative. Il primo impianto, con ambienti disposti attorno a una corte centrale, risale al I secolo d.C.; la fase piú sfarzosa della domus, si colloca nei decenni centrali del IV secolo d.C., in coincidenza con il periodo di massimo splendore di Aquileia. In questo momento la corte centrale viene pavimentata con grandi lastre lapidee, e si costruiscono una serie di ampi ambienti intorno a essa, tra i quali una sala absidata, con probabile funzione di rappresentanza, decorata dal mosaico delle Bestie Ferite. Di squisita fattura sono anche le altre pavimentazioni musive policrome, a decorazione geometrica e figurata, rinvenute durante i recenti scavi. Di particolare interesse è la raffigurazione di una donna stante, che reca un cesto di rose, forse un’allusione alla padrona di casa.

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sul piano della ricerca scientifica, poiché l’elemento innovativo che ha caratterizzato questo progetto è stato non solo proteggere e valorizzare ciò che della via Annia era noto, ma anche promuovere, contestualmente alla valorizzazione, la ricerca su quegli aspetti che necessitavano di approfondimenti. • In sintesi, di quali strumenti possono disporre i turisti per orientarsi lungo questo antico percorso? Iniziamo dal viaggio: il turista è indirizzato e guidato lungo il percorso grazie a un’apposita cartellonistica stradale: sono stati individuati 32 punti di rilevanza storico-archeologica dislocati tra Adria e Aquileia, in corrispondenza dei quali è stato posizionato un pannello bifronte, corredato da testi in italiano e in inglese e da una nutrita serie di immagini. La scoperta del territorio è affidata a materiale informativo distribuito nelle sedi museali e da una Guida del Touring, non a caso inserita nella collana Itinerari; la «contestualizzazione» delle informazioni avviene nei musei archeologici dislocati lungo il tracciato dell’Annia: anche il visitatore piú frettoloso può percepire l’importanza del tracciato viario grazie ai numerosi pannelli esplicativi, ai reperti esposti e a una postazione multimediale, che ora consente un viaggio virtuale lungo la strada e nelle sale dei musei che al visitatore non è possibile raggiungere di persona. • Quali sono le prospettive di ricerca aperte dal progetto? Le nuove acquisizioni che sono giunte dalle campagne di scavo, dalle indagini geomorfologiche e dalla campagna di telerilevamento realizzata lungo il tracciato della via Annia hanno aperto nuovi e a volte inaspettati orizzonti di ricerca. Un esempio fra tutti è quello di Altino, città decantata dalle fonti, ma poco conosciuta a livello archeologico. Dall’analisi ed elaborazione dei dati provenienti dalla campagna di telerilevamento si è materializzata sotto ai nostri occhi, quasi per incanto, l’intera struttura urbana: il circuito murario, i principali edifici pubblici, l’articolazione in quartieri, la rete di canali artificiali che la connetteva alla laguna e l’ubicazione del porto. Ma molte altre tracce viste dall’alto si configurano come potenziali «progetti di ricerca»: a sud di Padova, per esempio, in quel tratto di Annia cosí problematico perché non sicuro nel suo sviluppo, il territorio si rivela particolarmente antropizzato: le tracce telerilevate sono veramente molte e parlano di strade, parcellizzazioni agrarie, edifici, paleoalvei, insomma di infinite realtà legate alla presenza dell’uomo che meriterebbero di essere approfondite. Non meno importanti sono le prospettive di ricerca che hanno aperto le indagini archeologiche: comprendere nei dettagli lo sviluppo planimetrico della Domus delle Bestie Ferite di Aquileia, definire compiutamente l’articolazione del foro di Concordia e delle sue necropoli, richiedono senz’altro sviluppi ulteriori rispetto a quanto è stato fatto con il Progetto via Annia. La vera sfida è ripartire verso altre mete…


dove e quando

• Museo Archeologico Nazionale di Adria

A spasso con Titus Acidinus

La fantasia non ha limiti… Per spiegare la via Annia ai piú giovani (ma possiamo assicurarvi che, durante la visita al Museo Archeologico di Padova, a essere incollati al video erano anche molti adulti) e facilitare la visita ai musei è stato realizzato un cartone multimediale, che ha come protagonista un bizzarro personaggio, il mercante Titus Acidinus (nome prestigioso che richiama quello di uno dei triumviri fondatori di Aquileia), che parte da Aquileia con il suo carro carico di vino per andare ad Adria e da qui proseguire per Roma. Lungo la via Annia va incontro a una serie di avventure-disavventure, fino alla sospirata e felice conclusione del viaggio. Un personaggio inventato, che si muove in uno spazio virtuale ma archeologicamente e storicamente ricostruito in ogni dettaglio, sotto la supervisione di docenti e studiosi.

Via Badini 59, Adria (RO) tel. e fax 0426 21612 Orario 8,30-19,30; chiusura: Natale, Capodanno,1° Maggio www.smppolesine.it/adria Musei Civici agli Eremitani Piazza Eremitani 8, Padova tel. 0482045450-51; fax 049 8204585 Orario 9,00-19,00; chiusura: tutti i lunedí non festivi, Natale, S. Stefano, Capodanno, 1° Maggio http://padovacultura.padovanet.it/musei/ archivio/000046.html Museo Archeologico Nazionale di Altino Via Sant’Eliodoro 37, Quarto d’Altino (VE) Tel. e fax 0422 829008 Orario 8,30-19,30; chiusura: Natale, Capodanno, 1° Maggio http://sbmp.provincia.venezia.it/mir/musei/ altino/home.htm Antiquarium di Sambruson Via Brusaura, Sambruson di Dolo (VE) tel. 041 411090 www.laviadelbrenta.it/antiquarium-disambruson Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro Via Seminario 22, Portogruaro (VE) tel. e fax 0421 72674 Orario 9,00-20,00: chiusura: Natale, Capodanno www.comune.portogruaro.ve.it/portal/it/citta/ storia-cultura/Musei/MuseoNazionale Museo Archeologico di Aquileia Via Roma, 1 Aquileia (UD) tel. 0431 91016 Orario 8,30-19,30; chiusura: lunedí www.museoarcheo-aquileia.it/

per saperne di piú Francesca Veronese (a cura di), Via Annia. Adria, Padova, Altino, Concordia, Aquileia. Progetto di recupero e valorizzazione di un’antica strada romana (Atti della Giornata di Studio, Padova, 19 giugno 2008), Il Poligrafo, Padova 2009; Guido Rosada, Matteo Frassine, Andrea Raffaele Ghiotto, ...viam Anniam influenti bus palustribus aquis eververatam… Tradizione, mito, storia e katastrophé di una strada romana, Canova

Editrice, Treviso 2010; Francesca Veronese (a cura di), Via Annia. Adria, Padova, Altino, Concordia, Aquileia. Progetto di recupero e valorizzazione di un’antica strada romana (Atti della Giornata di Studio, Padova, 17 giugno 2010), Il Poligrafo, Padova 2011; Fabrizio Ardito, Natalino Russo, Via Annia. Da Adria ad Aquileia, Touring Club Italiano (Collana Itinerari), Touring Editore, Milano 2010

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protagonisti preistoria in italia

Tutti gli uomini della preistoria

d’italia

I centocinquant’anni dell’archeologia preistorica italiana sono il tema centrale del convegno organizzato dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria nel prossimo mese di novembre a Roma testi di Anna Maria Bietti Sestieri, Michele Cupitò, Raffaele Carlo de Marinis, Andrea De Pascale, Anna De Santis, Patrizia Fortini, Alessandro Guidi, Giovanni Leonardi, Marco Pacciarelli, Fabio Parenti, Massimo Tarantini; con un’intervista di Stefano Mammini a Luigi La Rocca

I

n occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la 46ª Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (IIPP), convegno internazionale che si svolgerà dal 23 al 26 novembre a Roma presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini», sarà dedicata a 150 anni di Preistoria e Protostoria in Italia.

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In tale occasione oltre 250 studiosi provenienti da Università, Soprintendenze e Musei, ripercorreranno le diverse tappe degli studi, dai pionieri ai fondatori della paletnologia italiana negli anni Sessanta e Settanta del XIX secolo, dagli sviluppi nell’età del Positivismo all’accentramento e organizzazione degli studi e delle ricerche da parte di Luigi Pigorini, dalla reazione idealistica alla crisi degli studi nella prima metà del XX secolo alla ripresa degli studi nel secondo dopoguerra e all’inserimento della ricerca italiana nel contesto europeo e internazionale. Al centro dell’attenzione saranno anche singole personalità, gli in-

In alto: Bologna, 1871. I partecipanti al V Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia Preistoriche. Nella pagina accanto: Balzi Rossi di Ventimiglia (Liguria), Barma Grande. La triplice sepoltura del Paleolitico Superiore, con un soggetto maschile e due adolescenti. Ventimiglia, Museo Preistorico dei Balzi Rossi.

flussi esercitati dalle grandi scuole di pensiero europee e nordamericane sugli studiosi italiani, l’evolversi della tutela dei beni archeologici preistorici alla luce delle diverse leggi sui Beni Culturali e delle vicende delle Soprintendenze Archeologiche.


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protagonisti preistoria in italia

Gli scavi della terramara (abitato dell’età del Bronzo) di Castellazzo di Fontanellato (Parma) condotti da Luigi Pigorini tra il 1888 e il 1896. Secondo lo studioso emiliano, la fondazione di Roma sarebbe stata l’esito della migrazione verso sud di genti che occupavano simili insediamenti.

Oggi, tra continui tagli ai finanziamenti e pseudo-riforme universitarie sembra aperta la strada di un declino inesorabile. A maggior ragione nei momenti di crisi è necessario rinforzare la coscienza storica. In Italia manca una politica della ricerca scientifica, il confronto con i Paesi economicamente sviluppati è avvilente, gli ultimi anni segnano poi una drammatica accelerazione della crisi. Il numero dei ricercatori italiani in rapporto alla popolazione è inferiore a quello di tutti i principali Paesi, compresa la Spagna. La ricorrenza del 150° dell’Unità nazionale può quindi costituire l’oc48 a r c h e o

casione per rivisitare criticamente il percorso degli studi di questa disciplina. Dall’alto dell’osservatorio della storia sarà possibile cogliere aspetti positivi e aspetti negativi destinati a condizionare anche la situazione attuale. In queste pagine desideriamo condividere, in estrema sintesi, con i lettori di «Archeo», la lunga storia degli studi di preistoria e protostoria in Italia. R. C. de M.

La nascita di una disciplina La «scoperta» della preistoria è una delle grandi imprese intellettuali dell’Ottocento, quando si comprese che la storia dell’uomo era infinitamente piú lunga di quanto testimoniato dalle fonti storiche. Per studiare quel tempo senza fonti scritte fu necessario mettere a punto nuovi strumenti di indagine storica. Si imparò allora a leggere la sequenza degli

strati antropici di terreno, si apprese a distinguere sulla base dei manufatti le tecniche e le culture antiche, e molto altro ancora. Nacque cosí una nuova disciplina scientifica, l’archeologia preistorica e protostorica. Ricostruire la storia di questa disciplina dalla metà dell’Ottocento fino a oggi non è un’operazione di carattere meramente erudito o di semplice curiosità. L’attuale configurazione di qualsiasi disciplina è, infatti, il prodotto della sua stessa storia e la sua conoscenza permette di sviluppare un senso critico rispetto agli strumenti e ai concetti oggi adoperati nella pratica scientifica. M.T.

L’età dei pionieri Nonostante alcune significative ricerche svoltesi in varie parti dell’Italia centrale, l’impulso decisivo alla nascita della ricerca preistorica ven-


ne da alcuni geologi, naturalisti e ingegneri del Nord, membri della nascente borghesia imprenditoriale, come Giuseppe Scarabelli, il quale, nel 1850, pubblicava la prima memoria sugli «strumenti in pietra» dell’Imolese o il bolognese Giovanni Gozzadini che negli stessi anni identificava e scavava le tombe della prima età del Ferro. Nel 1860 Bartolomeo Gastaldi scopriva, a Mercurago, un abitato sommerso con resti di strutture su pali e ceramiche preistoriche; poco tempo dopo il naturalista emiliano Pellegrino Strobel e il suo giovane assistente, Luigi Pigorini (a cui negli anni successivi si sarebbe aggiunto il sacerdote reggiano Gaetano Chierici), che avevano identificato nella Pianura Padana le cosiddette «terramare», abitati arginati dell’età del Bronzo, visitavano lo scavo di Gastaldi e riscontravano le somiglianze tra le ceramiche trovate nelle palafitte e nelle terramare.

La ricerca preistorica fu caratterizzata, fin dagli inizi, dalla contrapposizione tra la tradizione di studi naturalistici e quelli archeologici. Fu proprio durante il primo convegno dei naturalisti, tenutosi a La Spezia (segue a p. 54)

Qui sopra: tavola con i bronzi, dalle palafitte del Garda, dell’Atlante Inedito redatto da Stefano De Stefani, nel 1881. In alto: prospetto stratigrafico degli scavi condotti da Alessandro Prosdocimi nelle necropoli di Este, dal 1876 al 1882.

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protagonisti preistoria in italia

L’INTERVISTA

Punto e a capo A ospitare la XLVI Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, dal 23 al 26 novembre, è il Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini» di Roma. Per l’occasione, abbiamo incontrato Luigi La Rocca, che ne è responsabile da poco piú di un anno e al quale abbiamo rivolto alcune domande sullo stato attuale dell’istituzione. • Il Museo «Pigorini» ha ormai piú di un secolo e la Soprintendenza Speciale quasi cinquant’anni: non le chiedo di tracciare un bilancio, ma di illustrare, invece, le prospettive dell’istituzione. Possiamo dire che essa è ancora oggi un punto di riferimento centrale per gli studi di preistoria in Italia? Quando si parla del ruolo del «Pigorini» e della possibilità che la Soprintendenza sia ancora oggi un punto di riferimento per la preistoria italiana, occorre scindere ruoli e funzioni insiti nella definizione stessa di Soprintendenza al Museo Nazionale Preistorico Etnografico. Da una parte c’è la Soprintendenza con le sue attività istituzionali – di conservazione, tutela, restauro del patrimonio preistorico, protostorico ed etnografico; dall’altra c’è il Museo, a sua volta articolato nelle sezioni di preistoria ed etnografia. L’attività della Soprintendenza prosegue e, per molti aspetti, il «Pigorini» continua a essere un punto di riferimento. Lo è sicuramente per quanto riguarda l’attività dei laboratori di ricerca, in particolare di antropologia fisica e di archeozoologia, ai quali, grazie ai meccanismi messi in atto anche a livello di tecnologia e alla presenza di funzionari con competenze professionali molto elevate, l’intero mondo scientifico si rivolge per lo studio dei reperti, e anche per avvalersi della nostra collaborazione in ricerche di piú ampio raggio sul terreno. Un discorso analogo si può fare per i laboratori di conservazione, che, nonostante la carenza di fondi e di personale, di cui tutte le strutture e gli istituti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali ormai soffrono, conservano

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a colloquio con Luigi La Rocca, specifiche competenze sulla conservazione del materiale etnografico, in particolare dei reperti organici. E possono offrire strutture come le camere climatizzate, all’interno delle quali i materiali possono essere trattati e conservati in assoluta sicurezza. Diversa è la situazione del Museo, del quale si devono tenere presente gli aspetti «storici», tali da far sí che, per quanto riguarda la sezione preistorica, oggi il «Pigorini» non può accreditarsi come Museo «nazionale» della preistoria e della protostoria italiana. Oggi il museo non può esserlo, poiché la strutturazione delle Soprintendenze territoriali, il fatto che l’Italia abbia promosso una politica di diffusione dei musei molto ampia sul territorio – il cosiddetto «museo diffuso» –, ha fatto sí che ogni comparto territoriale, ogni Soprintendenza abbia sviluppato all’interno dei propri musei archeologici sezioni di preistoria, che risultano piú aggiornate e maggiormente contestualizzate. Il «Pigorini», con collezioni ancora ispirate al modello di acquisizione definito dal suo fondatore, e che sono ferme agli anni Cinquanta, non può piú rappresentare l’intera preistoria a livello nazionale, per via delle lacune e della mancanza di aggiornamento, che si sono inevitabilmente determinate. Anche se, a mio avviso, non perde di attualità l’assunto di partenza del fondatore, se cosí vogliamo definirlo, nel senso di immaginare di creare a Roma un Museo Nazionale della preistoria che sia anche un laboratorio in cui gli studiosi possano trovare i confronti. In questo senso, con uno sforzo di volontà politica, di investimento finanziario, con il coinvolgimento di tutte le strutture territoriali del MiBAC, credo si potrebbe ripensare completamente il Museo, rifarne davvero il Museo Nazionale della preistoria e della protostoria italiana, proponendo un percorso che tenga conto delle diverse realtà regionali, grazie agli apporti che possono venire dall’esterno per un allestimento di questo tipo. Oggi siamo ancora a livello di sogni, ma credo che potrebbe essere uno dei modi in cui si potrebbe rilanciare la struttura. Sarebbe uno sforzo importante, che io cercherò di produrre, o quanto meno di proporre. Vediamo come verrà accolto. Di contro, per l’esposizione delle sezioni etnografiche, già dagli anni Novanta, i miei predecessori hanno intrapreso una politica di allestimento sul lungo periodo. Da allora, compatibilmente con le disponibilità di fondi, è stata avviata un’opera di ammodernamento, secondo concezioni museografiche piú avanzate, che è tuttora in corso. Peraltro le raccolte etnografiche beneficiano di un aspetto piú «accattivante» rispetto a quello della sezione archeologica e stanno portando al «Pigorini» riconoscimenti di carattere internazionale molto importanti. Un apprezzamento dal quale nascono situazioni come quella che, per esempio, vede il Museo «Pigorini» capofila del progetto READ-ME, Réseau In alto: Luigi La Rocca. A sinistra: Roma, EUR. Il Palazzo delle Scienze, sede del Museo «Pigorini».


soprintendente al Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini», a cura di Stefano Mammini Européen des Associations de Diasporas & Musées Ethnographiques, che prevede il coinvolgimento delle comunità diasporiche nell’analisi e nell’interpretazione del materiale etnografico, e che si concluderà nel 2013 con una grande mostra da tenersi qui; un’esposizione che condivideremo con il Musée Royal de l’Afrique Centrale di Tervuren (Bruxelles), l’Etnografiska Museet di Stoccolma, e il Musée du quai Branly di Parigi. • Scorrendo i dati degli ultimi 5 anni, gli ingressi al Museo non raggiungono le 5000 unità (escludendo quelli gratuiti). La cifra, non certo lusinghiera, viene da sempre addebitata, almeno in parte, all’ubicazione del Museo, penalizzato dallo spostamento all’EUR (il primo nucleo del «Pigorini», nel 1875, fu allestito nel palazzo del Collegio Romano; le collezioni furono trasferite all’EUR, nel Palazzo delle Scienze, tra il 1975 e il 1977, per lasciare i locali del Collegio Romano al neonato Ministero per i Beni Culturali e Ambientali). Non crede che però possa influire l’assenza di elementi di richiamo forte o che una maggiore attività di comunicazione potrebbe giovare? Insomma, ci vorrebbe un Uomo del Similaun o una migliore visibilità delle collezioni? Lei fa riferimento ai visitatori paganti, che in effetti si attestano poco al di sopra delle 5000 unità all’anno da un po’ di anni, ma il dato va letto nel suo complesso. Infatti, non si può scindere il forte impatto che sul numero totale dei visitatori hanno le scolaresche, né ignorare i molti ingressi gratuiti, elementi che si traducono in una fidelizzazione di pubblico stimabile intorno alle 50 000 unità all’anno. Che non sono numeri alti, ma non sono nemmeno bassissimi per quello che è il panorama generale, soprattutto dei musei non centrali dal punto di vista dell’ubicazione. Inoltre, le scolaresche hanno un impatto importante anche in termini di ritorno economico. Con la sezione didattica interna, e con quella del concessionario dei servizi aggiuntivi, portiamo avanti una campagna di sensibilizzazione e di avvicinamento alle scuole molto intensa. È un lavoro che facciamo con molto piacere, che ogni anno porta al Museo circa 30 000 bambini: ed è vero che i soldi pagati per le guide non entrano direttamente nelle casse del Pigorini, ma tramite il concessionario tornano al MiBAC, secondo i processi della legge Ronchey. Senza contare che si tratta di un ritorno di immagine molto forte. Certo, sono numeri che andrebbero incrementati. Per quanto riguarda l’ubicazione, la collocazione all’EUR non aiuta perché periferica rispetto ai circuiti tradizionali del turismo romano, ma anche su quello si può lavorare. L’EUR ha in sé potenzialità notevoli, perché è un quartiere particolare, con una struttura architettonica che di per sé potrebbe essere un’attrattiva. È un quartiere che ha altri contenitori museali importantissimi, come il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, dell’Alto Medioevo, della Civiltà Romana. D’intesa con il Comune, la società che

gestisce i musei comunali – Zetema – e la Direzione Generale per la Valorizzazione creata all’interno del MiBAC, stiamo cercando di innestare un circuito virtuoso per verificare quali siano le possibilità di far decollare proprio all’EUR un secondo polo culturale. Parallelamente, ci stiamo attivando anche per ciò che riguarda la comunicazione. Fino a oggi è stata fatta con mezzi piuttosto artigianali, vale a dire grazie al know how interno, basato sulle capacità personali e la buona volontà di operatori che, per esempio, hanno realizzato il sito web. Ma, probabilmente, questo non basta: il livello artigianale dev’essere superato, perché, soprattutto al giorno d’oggi, la comunicazione è un mestiere vero e proprio. L’allestimento di una delle sale della sezione etnografica del Museo «Pigorini».

• Oltre a progetti come il READ-ME, quali sono le iniziative piú importanti in programma? Seppur con molte difficoltà, oltre ai progetti internazionali, cerchiamo di promuovere anche altri eventi culturali. Stiamo preparando, fra 2012 e 2013, una grande mostra imperniata sulle nostre collezioni. Si pensava a una mostra su Enrico Hillyer Giglioli, sul viaggio della pirocorvetta Magenta, che dia conto della collezione e della figura di questo esploratore, perché nel 2013 ricorre il 100° anniversario della donazione al Pigorini della sua raccolta. E vorremmo anche organizzare, probabilmente d’intesa con il Museo di Modena, un’esposizione dedicata a Lamberto Loria. • In occasione di una mia precedente visita al Museo, il suo predecessore mi aveva descritto una situazione pesantemente condizionata dalle

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protagonisti preistoria in italia La ricostruzione di un paleosuolo, all’inizio del percorso di visita della sezione preistorica del Museo «Pigorini».

dove e quando

L’INTERVISTA

Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» piazza Guglielmo Marconi, 14 Roma EUR Orario tutti i giorni, 10,00-18,00; chiuso i festivi Info tel. 06 549521; www.pigorini.beniculturali.it

ristrettezze di bilancio (tali da pregiudicare il regolare pagamento delle spese ordinarie di manutenzione): qual è la situazione attuale? La situazione è identica, se non peggiore, rispetto a quella che le era stata descritta. Da una parte c’è il problema dei continui tagli di bilancio, che ormai non consente neanche di garantire il funzionamento ordinario dell’Amministrazione, dall’altra, forse anche piú grave, quello delle risorse umane. Per quanto molto qualificato e fortunatamente ancora motivato, il nostro personale è anziano, sta per andare in pensione e non si vede all’orizzonte alcuna possibilità di sostituirlo. Noi continuiamo a svolgere le attività istituzionali di cui abbiamo parlato all’inizio, ma, per esempio, è già molto complicato continuare gli scavi archeologici. Per quest’anno abbiamo sospeso le indagini sul campo – avevamo ancora attività nella Grotta della Madonna a Praia a Mare, alla Marmotta di Bracciano, e si voleva riprendere lo scavo di Poggio Olivastro, un sito neo-eneolitico in provincia di Viterbo –, «trasformandole» in attività di studio e di ricerca del pregresso, cosí da produrre anche pubblicazioni, che comunque sono un rendiconto della nostra attività, edito non soltanto sulla nostra rivista – il Bullettino di Paletnologia Italiana –, ma anche da altre pubblicazioni scientifiche. Oggi non abbiamo risorse umane sufficienti per organizzare permanenze di un mese o un mese e mezzo sui cantieri di scavo: piú delle ristrettezze di bilancio, mi preoccupa realmente la ristrettezza delle risorse umane. • Anche perché si perde anche un patrimonio di conoscenze… È cosí, non solo non c’è ricambio, ma non c’è nemmeno un ricambio qualificato e qualificante. Un ricambio lungimirante prevederebbe che, accanto a queste professionalità cosí specializzate, si affiancassero figure piú giovani, che possano avere mesi, se non anni, per imparare o comunque per innestarsi nei filoni di ricerca dell’istituto. È un problema notevole. Ma non perdo la fiducia,

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soprattutto perché io sono qui da un anno, quindi ancora poco, ma non troppo, per essermi fatto un’idea abbastanza precisa di ciò che mi circonda e di quel che ho a disposizione. E mi conforta l’entusiasmo che ancora c’è da parte di persone che lavorano qui da tanti anni, che operano sulle collezioni, che fanno il loro lavoro di ricerca: siamo fortunati in questo, perché, dovendo fronteggiare problemi burocratici, amministrativi, di tutela reale del territorio, non tutti gli operatori delle Soprintendenze riescono a portare avanti ricerche scientifiche importanti con risultati importanti. Per esempio, è stata recentemente pubblicata una ricerca sull’uso delle piume degli uccelli da parte dei Neandertaliani: uno studio svolto in collaborazione con l’Università di Ferrara, ma condotto perlopiú nel nostro Laboratorio di Archeozoologia. Sono fonte di ampia soddisfazione per chi dirige questo museo le attività richieste agli antropologi anche all’estero: abbiamo partecipato a una campagna, insieme al CNR, in Tunisia, ad Althiburos e siamo coinvolti nello studio delle problematiche legate al tophet, con il nostro laboratorio che studia le ossa rinvenute all’interno delle urne cinerarie in Tunisia; il Laboratorio di Antropologia Fisica parteciperà ancora piú attivamente alle ricerche sull’Homo Sapiens nella valle di Buya, in Eritrea grazie a un finanziamento del MAE, a sottolineare il prestigio anche a livello internazionale, dell’Istituto. Al tempo stesso abbiamo stipulato un accordo con la Soprintendenza Speciale di Napoli e Pompei per lo studio degli scheletri provenienti dagli scavi di Ercolano, nell’ambito del progetto Packard. Insomma, tutto ciò – oltre che soddisfatto – mi lascia intravedere una serie di attività che andranno avanti. È chiaro che come direttore del Museo sento forte la sfida del rinnovamento, che non necessariamente deve passare per un accresciuto numero di visitatori – se sarà cosí, ben venga –, ma che deve senz’altro garantire maggiore visibilità a un istituto che davvero la merita.


il «dominio» della preistoria italiana Nel dicembre 1860, Bartolomeo Gastaldi visitò il Regio Museo di Antichità di Parma per analizzarne i materiali preistorici. Questo episodio rappresenta non soltanto il vero incipit degli studi scientifici di preistoria e protostoria nel nostro Paese, ma anche l’avvio della carriera di Luigi Pigorini (1842-1925). Il riconoscimento ufficiale del suo ruolo-guida in seno ai pre-protostorici italiani si ebbe nel 1871, con il V Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia Preistoriche di Bologna, contraddistinto sia da un elevatissimo profilo scientifico – vi parteciparono i principali preistorici europei – sia da una forte valenza politica, che si esprimeva nella precisa volontà – incarnata dall’allora

ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti – di legare a doppio filo nuova scienza e unità nazionale, forse con l’intenzione di utilizzare la prima per identificare, nella storia piú remota dell’Italia, quei momenti unificanti che potessero giustificare anche storicamente la seconda. Pigorini fu tra i principali organizzatori della riunione, che rappresentò anche l’avallo, soprattutto politico, di quello che da sempre era il suo progetto, cioè dare struttura alla scienza paletnologica italiana, coordinando, sostenendo ma anche controllando le attività dei singoli. In una parola: «costruire» la preistoria nazionale. Gli strumenti attraverso i quali lo studioso, numismatico in origine e formatosi dal punto di vista archeologico tra l’approccio naturalistico

di Strobel e quello storico di Chierici, riuscí a raggiungere in brevissimo tempo questo ambizioso obiettivo furono tre. Nel 1875, assieme a Strobel e a Chierici, fondò il Bullettino di Paletnologia Italiana, prima rivista specializzata a carattere nazionale; tra il 1875 e il 1876, grazie all’appoggio di Ruggero Bonghi, ministro della Pubblica Istruzione, diede vita, a Roma, al Museo Nazionale Preistorico ed Etnografico, formidabile strumento scientifico e didattico, ma, nel contempo, anche rappresentazione fisica della piú antica storia d’Italia; nel 1877, infine, riuscí a far istituire, all’Università di Roma, la cattedra di Paletnologia. Tuttavia, la prospettiva nazionale caratteristica del grande disegno di organizzazione della disciplina elaborato da Pigorini influí in modo decisivo sullo studioso anche per quanto concerne le interpretazioni di tipo storico. Egli, infatti, con quella grande costruzione che va sotto il nome di «teoria pigoriniana», la quale vede nella fondazione di Roma l’esito di un processo di plurisecolare migrazione verso il sud della Penisola dei terramaricoli – costruzione non scevra da anche pesanti distorsioni

In alto: ritratto di Luigi Pigorini (1842-1925). In basso: tavola ad acquarello con i materiali della necropoli di Povegliano, realizzata a Roma nel 1880.

dei dati ed estremizzata negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento con lo scavo della terramara di Castellazzo di Fontanellato –, fu il primo a elaborare una visione globale della preistoria e della protostoria d’Italia. Nel 1923 Pigorini, despota rispettato ma isolato della paletnologia italiana, lasciò Roma e si trasferí a Padova presso il figlio. Qualche anno dopo la morte, la famiglia donò l’immenso archivio privato dello studioso all’Università e oggi tale archivio, «riscoperto» nel 1996 dopo anni di oblio e ora custodito presso il Dipartimento di Archeologia, con i suoi oltre 13 000 documenti, rappresenta probabilmente la piú importante fonte per la ricostruzione degli studi paletnologici in Italia. G. L., M. C.

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protagonisti preistoria in italia

In alto: foto ritratto di Pellegrino Strobel (1821-1895), professore di Scienze Naturali all’Università di Parma. In basso: foto ritratto di Gaetano Chierici (1819-1886), fondatore del Museo di Reggio Emilia.

nel 1865, che si decise di utilizzare il termine «paletnologia» (= etnologia dei popoli antichi), ancora oggi utilizzato negli atenei italiani per identificare l’insegnamento della preistoria e della protostoria. La figura che emerge con prepotenza è quella di Luigi Pigorini, che, a differenza dei suoi colleghi, scelse di prendere la laurea in scienze amministrative e di coltivare le sue amicizie politiche, entrando giovanissimo nella neonata Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti. Nello stesso periodo, a Firenze, nasceva su impulso di Paolo Mantegazza la rivista Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia, destinata a divenire la sede di tutte le ricerche di preistoria a carattere piú strettamente «naturalistico». Il coronamento di questa prima fase degli studi italiani di preistoria è senza dubbio il V Congresso Internazionale di Antropologia e Archeologia Preistoriche del 1871 a Bologna, una straordinaria «vetrina» delle prime ricerche paletnologiche effettuate in tutto il Paese. A. G.

Gli studi di preistoria tra il 1861 e il 1925 Tra il 1861 e il 1885 l’archeologia preistorica italiana ebbe come forza trainante il formidabile terzetto di studiosi for mato da Strobel, Chierici e Pigorini. Il pr imo, professore di Scienze Naturali all’Università di Parma, diede l’apporto di una impostazione attenta ai dati scientifici e ambientali. Chierici, fondatore del Museo di Reggio Emilia, ebbe una quasi irripetibile capacità di sintesi tra l’anima positivistico-scientifica e quella storico-umanistica, unendovi un’enorme attività di ricerca sul 54 a r c h e o

campo. Il «modello Chierici» – che annoverò tra i piú grandi continuatori Paolo Orsi (vedi box nella pagina accanto) – fu da allora un elemento qualificante degli studi preistorici e contribuí allo sviluppo di tutta l’archeologia, aiutandola a emanciparsi – almeno in parte – dalle fonti letterarie e della storia dell’arte classica. Pigorini, il piú giovane dei tre, teso a dare un’interpretazione di tipo storico ai dati archeologici, contribuí soprattutto con le sue eccezionali doti organizzative e con una visione globale della piú antica storia d’Italia, finendo per diventare la personalità dominante della nuova scienza paletnologica per oltre cinquant’anni (vedi box a p. 53). Tra la folla di studiosi allora operanti, molto spesso cultori di altissimo livello, si possono ricordare Antonio Zannoni a Bologna, Giuseppe Scarabelli in Romagna, Paolo Lioy e Alessandro Prosdocimi in Veneto, Carlo Marchesetti a Trieste – al tempo parte dell’impero austro-ungarico –, Pompeo Castelfranco in Lombardia, Arturo Issel in Liguria, Antonio Taramelli in Sardegna. Dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento l’iniziativa passò invece gradualmente nelle mani di una nuova generazione di studiosi operanti nelle strutture dello Stato e iniziò la stagione dei grandi scavi, soprattutto di necropoli protostoriche. Esemplari furono quelli di Novilara e Terni, diretti rispettivamente da Edoardo Brizio e Enrico Stefani, ma, soprattutto, va ricordata la straordinaria attività di Paolo Orsi, che portò alla scoperta delle antichità preelleniche della Calabria e della Sicilia. In questo periodo molti raggiunsero uno standard tecnico e professionale molto elevato, talvolta vertiginoso, come nel caso di Giacomo Boni, che scavò e documentò con incredibile dettaglio la stratigrafia del Foro Romano (vedi box a p. 56). Questa fase vide anche vaste sintesi e raccolte di dati, tra cui quelle di Giuseppe Angelo Colini, dello sve-


un «pilastro» della ricerca preistorica Paolo Orsi (1859-1935) è universalmente riconosciuto tra le maggiori personalità nella storia dell’archeologia mondiale. La parte saliente della sua carriera iniziò nel 1888, quando fu assegnato al Regio Museo Archeologico di Siracusa. Frequenti incarichi aggiuntivi lo portarono a dirigere per un breve, ma intenso periodo, il Museo di Napoli e a condurre molti scavi in altre aree della Sicilia e soprattutto in Calabria. Egli è noto per l’enorme vastità e qualità del suo operato e per l’impostazione sistematica e multidimensionale. Si dedicò infatti con uguale impegno a indagare tutte le testimonianze dalla preistoria all’età classica fino al Medioevo, e a studiare ogni genere di fonti archeologiche, attraverso scavi, ricognizioni, indagini presso cultori locali, vaglio sistematico della bibliografia. L’obiettivo era la storia complessiva del territorio e delle comunità, con un approccio non limitato alla «grande storia» e alle arti maggiori, ma volto a studiare l’insieme delle società, dei paesaggi, delle produzioni. Non va tuttavia dimenticato che, dall’inizio alla fine, egli fu e si ritenne paletnologo, ovvero archeologo preistorico, in quanto allievo di Pigorini. Per la prima volta Orsi integrò organicamente le civiltà indigene delle età del Bronzo e del Ferro del Sud nella ricostruzione storica. Fondamentali, allora come ora, furono la sua dettagliata cronologia della protostoria siciliana e la scoperta sia degli stretti rapporti con la civiltà micenea – molto evidenti a Thapsos – sia dell’elevata complessità delle società indigene, dimostrata dalla vastissima necropoli e dal grande edificio monumentale di Pantalica. Impeccabile fu anche la sua condotta sul piano della documentazione, della gestione amministrativa, dell’allestimento museale, e, soprattutto, della divulgazione delle scoperte. Con oltre 300 pubblicazioni, spesso molto corpose, egli infatti rese note quasi tutte le principali acquisizioni della sua lunga carriera. In estrema sintesi, Paolo Orsi continua a essere un vero e proprio pilastro non solo per la mole di conoscenze che ci ha consegnato, ma anche per il suo ruolo di paradigma scientifico, professionale e finanche etico. Il suo operato è inoltre la piú chiara testimonianza del contributo dato dagli studiosi di formazione preistorica alla crescita delle scienze archeologiche. M. P.

Qui sopra: un ritratto di Paolo Orsi in età matura. In basso: Paolo Orsi durante gli scavi di Cirò, in Calabria, nel 1921.

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protagonisti preistoria in italia A destra: il muro megalitico dell’edificio monumentale dell’età del Bronzo Finale, scavato da Paolo Orsi a Pantalica. In basso: l’archeologo Giacomo Boni (1859-1925) durante gli scavi al Foro Romano.

un architetto «prestato» all’archeologia Giacomo Boni (1859-1925) occupa un posto isolato nel campo dell’archeologia italiana dell’inizio del XX secolo. Per i suoi studi di architettura, era in possesso di una formazione tecnica piuttosto che umanistica come quella che caratterizzava allora la figura dell’archeologo, e per molti aspetti era forse troppo moderno per essere compreso e accettato dal mondo accademico contemporaneo. La sua modernità si rivela nei molteplici interessi alla base delle sue ricerche: geologia, etnologia, antropologia, studio delle faune e della flora, lavorazione dei materiali, sperimentazione, fotografia, restauro, conservazione dei monumenti. Il metodo di intervento sul terreno da lui adottato e descritto in un articolo sulla Nuova Antologia nel 1901, subito tradotto in inglese, segna una tappa fondamentale e ha rappresentato per l’archeologia italiana un punto di riferimento costante e insuperato per oltre mezzo secolo. Negli scavi del Foro Romano applicò, per la prima volta in una ricerca di questo tipo, il metodo stratigrafico che era stato perfezionato nell’ambito degli studi paletnologici. L’attenzione particolare dedicata alla raccolta di tutti i materiali strato per strato e alla documentazione, le regole che enuncia per l’asportazione del terreno a strati, per la conservazione in sito di testimoni, cosí da permettere il controllo delle proprie osservazioni, erano all’inizio del secolo scorso un’assoluta novità che non mancò di attirargli critiche e incomprensioni. Esemplari sono anche i criteri che adotta e teorizza nell’allestimento dell’Antiquarium del Foro, istituito nel 1908 all’interno del chiostro di S. Maria Nova. Nella presentazione al pubblico dello scavo del sepolcreto presso il tempio di Antonino e Faustina non espose i singoli corredi, ma per ogni tomba ricostruí l’intero contesto, considerando allo stesso livello di importanza tutti i tipi di reperti: manufatti, resti antropologici, botanici, faunistici. A. De S., P. F.

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dese Oscar Montelius e del tedesco Friedrich von Duhn. Tali avanzamenti, tuttavia, si accompagnarono a processi involutivi, che infine presero il sopravvento. La progressiva affer mazione di tendenze idealistiche e spiritualistiche andò a detrimento di valori come l’esattezza del dato scientifico, della documentazione, della classificazione, della cronologia. Ciò si accompagnò a una egemonia sempre piú marcata degli studi classici e preparò il terreno al declino, durante il Ventennio, non solo degli studi di preistoria, ma di tutta l’impostazione scientifica dell’archeologia. M. P., M. C.

Dal fascismo al Congresso di Roma Lo studio della preistoria non fu immune nei primi decenni del Novecento dal sorgere del fascismo. Ricerche, idee e ipotesi si orientarono verso la volontà e le aspirazioni imperialistiche del regime, che mirava a una giustificazione storica e spirituale del fondamento della razza. In tale clima Ugo Rellini, docente di paletnologia all’Università «La Sapienza» di Roma, realizzò il Museo delle «Origini e della Tradizione». La preistoria di stampo nazionalista andò di pari passo con il colonialismo.


dalle Arene Candide a Lipari Luigi Bernabò Brea (1910-1999) è una delle grandi figure della preistoria italiana. I suoi lavori comprendono gli scavi di Poliochni (1936-60) e dei livelli neolitici della Caverna delle Arene Candide (1940-51). Dal 1941 al 1973 dirige la Soprintendenza di Siracusa, continuando poi le ricerche nelle isole Eolie con Madeleine Cavalier. Spesso definito come un instancabile classicista prestato alla preistoria, questo studioso si distingue invece per l’approccio non settoriale e per la progettualità sistematica e coerente nella ricerca. La ricostruzione del passato si sviluppa in due direzioni. Una è la dimensione organizzativa e della comunicazione: l’archeologia si fa nelle istituzioni e l’archeologo deve comunicare i suoi risultati alla comunità scientifica, ma anche al pubblico, con musei e parchi archeologici, che sono la parte attiva della conservazione. L’altra dimensione è l’idea di una ricostruzione storica globale, basata sulla documentazione archeologica e sui supporti scientifici disponibili. L’estensione cronologica va dal Neolitico all’età storica. L’arcipelago eoliano è un campione rappresentativo della storia del Mediterraneo in una dimensione praticabile. I complessi di età preistorica e storica sono trattati con lo stesso metodo: l’archeologia

è uno strumento autonomo, ma deve anche servirsi delle fonti. Questo approccio permette la ricostruzione sia di processi diacronici, sia di eventi e rapide trasformazioni. L’impresa richiede capacità organizzative e la scelta di collaboratori e alleati: Bernabò Brea chiama archeologi italiani e stranieri per ampliare le attività sul terreno e definire quadri sincronici e diacronici di ampio respiro. Non tutto, in questa storia globale, ci convince ancora; tuttavia le tendenze recenti della ricerca archeologica internazionale stanno ritornando, anche se con strumenti critici piú sofisticati, su molte delle letture da lui proposte. A. M. B. S. A sinistra: le capanne del villaggio dell’età del Bronzo del Milazzese di Panarea scavate originariamente da Luigi Bernabò Brea e oggi al centro di nuove indagini. In alto: un ritratto di Luigi Bernabò Brea (1910-1999).

Gli studiosi sostenitori del regime, tra cui Ugo Antonielli, Giuseppe Patroni e Pietro Barocelli, occuparono spazi culturali e istituzionali e molti classicisti – che studiavano il periodo di maggiore interesse per il regime – allargarono il loro campo d’azione alla preistoria. Durante il fascismo, di fatto, solo gli studiosi interessati al Paleolitico, provenienti dal mondo delle

scienze naturali, rimasero slegati dall’isolamento e dal provincialismo italiano, pur non rimanendo esenti da ingenuità e affermazioni talvolta profondamente razziste. Dall’incontro tra Luigi Cardini, dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana (vedi box a p. 58), e l’allora soprintendente per la Liguria Luigi Bernabò Brea (vedi box qui sopra), nel 1939 presero avvio

le ricerche alla Caverna delle Arene Candide, a Finale Ligure, che posero basi fondamentali per la metodologia della disciplina e per l’impostazione crono-tipologica del Neolitico mediterraneo. Tra anni Trenta e Quaranta si rafforzò un approccio storico-culturale attraverso l’opera di diversi studiosi tra cui Pia Laviosa Zambotti, che permise la definizione delle culture a r c h e o 57


protagonisti preistoria in italia L’Istituto Italiano di Paleontologia Umana L’IsIPU fu fondato a Firenze l’1 maggio 1913 col nome di Comitato per le Ricerche di Paleontologia Umana in Italia, per iniziativa di due importanti studiosi: Gian Alberto Blanc e Aldobrandino Mochi. Nel 1927 il comitato venne trasformato in Istituto Italiano di Paleontologia Umana, con sede a Firenze. Le attività dell’Istituto erano pubblicate, come quelle del precedente comitato, nel periodico Archivio per l’Antropologia e Etnologia, organo della Società Italiana di Antropologia, fondata da Paolo Mantegazza. A partire dal 1936 furono istituite sezioni distaccate dell’Istituto: Salerno (1936), Roma (1937), Pisa (1938), Milano e Ferrara (1940), Capri e Sardegna (1941). Dal 1954 la sede venne trasferita a Roma, nella Facoltà di Lettere, a casa Blanc e al Museo Civico di Zoologia, per stabilirsi poi nella sede di piazza Mincio, dove è rimasto fino all’agosto 2011 quando, per motivi logistici e finanziari, la sede amministrativa è stata trasferita al Museo Civico di Zoologia e quella operativa (laboratori, biblioteca, depositi) presso il Convitto Nazionale Regina Margherita di Anagni (FR). Nel 1954 iniziò la pubblicazione della rivista internazionale Quaternaria, fino al 1981, poi divenuta Quaternaria nova (1990-2004) e della serie monografica

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Memorie dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana, tuttora attiva. L’Istituto è intervenuto in oltre 900 giacimenti quaternari italiani ed esteri. Molte ricerche hanno portato a scoperte internazionalmente note: i

Balzi Rossi e le Arene Candide (Liguria), i siti del Pleistocene romano (Saccopastore, Monte delle Gioie, Sedia del Diavolo, Torre in Pietra), le grotte del Circeo (Guattari, Blanc, Breuil), i giacimenti della valle del

Sacco (Fontana Ranuccio, Ceprano, Colle Marino, Coste San Giacomo, Castro dei Volsci), i siti del bacino di Venosa e molte grotte in Puglia, fra cui la piú importante è Grotta Romanelli. F. P.


L’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria Contrariamente a quanto vuole un errato senso comune, l’archeologia non è opera di avventurosi cercatori solitari ma un’impresa collettiva. Gli studiosi si organizzano in équipe interdisciplinari e in piú ampie istituzioni, necessarie per condividere competenze ed esperienze, per confrontarsi e costruire progetti comuni. In queste sedi spesso si definiscono gli orientamenti della ricerca. Per capire il funzionamento dell’archeologia nel presente e nel passato è dunque essenziale tenere conto dell’attività di queste istituzioni scientifiche. Per la ricerca preistorica e protostorica in Italia la principale istituzione di coordinamento è l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, fondato a Firenze nel 1954 su iniziativa dell’etruscologo Massimo Pallottino e di Paolo Graziosi, antropologo, archeologo e studioso di arte preistorica di fama internazionale che resse poi le sorti dell’IIPP per oltre trent’anni. A Graziosi, la cui attività è ricostruibile grazie al ricco archivio conservato nel Museo Fiorentino di Preistoria, si deve anche la fondazione, nel 1946, della Rivista di Scienze Preistoriche, in seguito organo ufficiale del nuovo Istituto, e l’avvio, nel 1957, di quelle riunioni scientifiche annuali, di volta in volta dedicate a temi generali o a singole regioni, che caratterizzano la vita dell’IIPP. Fin dall’origine, l’Istituto intese superare quella dicotomia tra ricerche sulla preistoria piú antica e ricerche protostoriche che caratterizzava la ricerca italiana (e non solo italiana). Obiettivo lungimirante fu il confrontare e armonizzare il metodo naturalistico e quello storico, creando una comunità scientifica comune agli studiosi del Paleolitico come a quelli dell’età del Bronzo, nella convinzione di un terreno comune alle ricerche su tutta la storia dell’uomo non documentata da fonti scritte. M. T.

di Lagozza, Polada e Golasecca per l’Italia settentrionale, e di quella di Rinaldone per l’Eneolitico dell’Italia centrale. Il dopoguerra, con una vivace ripresa sociale e culturale, è caratterizzato da una apertura internazionale della ricerca italiana, di cui il I Congresso internazionale di Preistoria e Protostoria mediterranea del 1950 a Firenze rappresenta un punto di svolta. Numerose università italiane si dotano di cattedre di preistoria e prendono avvio attività di studiosi che diverranno figure fondamentali di riferimento (Salvatore Maria Puglisi e Renato Peroni per citarne solo un paio). Nel 1954 Paolo Graziosi, con la determinante collaborazione di Massimo Pallottino, fonda l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria (vedi box qui accanto). Con il VI Congresso dell’Unione Internazionale delle Scienze Preistoriche e Protostoriche (Roma, 1962) iniziarono a stemperarsi le accese e dolorose tensioni all’interno della disciplina tra studiosi ancora legati alle deviazioni ideologiche del fascismo e ricercatori lontani da tali approcci. Negli anni successivi lo studio della preistoria italiana si apre sempre di piú ai metodi scientifici d’indagine, ma – caratteristica tutta italiana – il dibattito tra sostenitori dell’approccio naturalistico e difensori dell’approccio culturale continua ancora oggi con divisioni e difficoltà di dialogo. L’artificiale classificazione disciplinare che oppone la sfera umanistica alle «scienze esatte», aggravata dalla generale crisi della ricerca, prosegue all’alba del XXI secolo… A. De P. dove e quando

In alto: Massimo Pallottino e Paolo Graziosi, fondatori dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria.

Nella pagina accanto, in alto: Henri Breuil e Alberto Carlo Blanc a Saccopastore, nell’aprile del 1935.

Nella pagina accanto, in basso: le grotte dei Balzi Rossi di Ventimiglia, in una stampa del 1870 circa.

«XLVI Riunione Scientifica dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria. 150 anni di Preistoria e Protostoria in Italia» Roma, Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» dal 23 al 26 novembre Info www.iipp.it a r c h e o 59


storia origini di roma/10

di Daniele F. Maras

servio


tullio

Il secondo fondatore Riforme militari, l’introduzione della moneta, il riconoscimento politico e istituzionale dei ceti inferiori nonché importanti trasformazioni urbanistiche contraddistinguono l’operato del sesto re di Roma. Alla cui figura la tradizione ascrive perfino qualità di capo religioso, grazie a un suo presunto matrimonio mistico con la dea Fortuna… Tarquinio il Superbo getta Servio Tullio dall’alto dei gradini del Campidoglio, per usurpargli il trono. Incisione all’acquaforte da Istoria Romana di Bartolomeo Pinelli. 1817. Secondo la tradizione romana, il re, scaraventato dalle scale della Curia dal genero Lucio Tarquinio detto «il Superbo», fu ucciso dalla figlia Tullia Minore, che passò sopra il suo corpo con un carro.

C

ome si è visto, gli autori antichi insistevano sul carattere anomalo della figura di Servio Tullio, ritenuto uno straniero apolide, forse figlio di una schiava, oppure addirittura attendente di un condottiero straniero, che sarebbe giunto al potere in modo rocambolesco, grazie all’inganno della regina Tanaquil ovvero alla morte del suo comandante. Nonostante le diverse opinioni sulla sua origine, però, tutte le fonti concordano nell’attribuire a Servio Tullio qualità di grande statista e di re magnanimo, che prefigurava tutte le caratteristiche del buon governo della Repubblica romana. Anzi, ci fu addirittura chi sostenne che, in realtà, l’istituzione delle magistrature repubblicane, con la diarchia annuale dei consoli e le prerogative del Senato e del popolo di Roma, fosse stata realizzata in base a «commentarii» che Servio Tullio aveva lasciato: quasi un testamento spirituale attuato molti anni dopo la scomparsa del re. A questo alludeva il poeta Accio quando diceva che il re «aveva staa r c h e o 61


storia origini di roma/10 le mura serviane La costruzione di una cinta di mura arcaica a Roma viene attribuita dalle fonti a tutti e tre i re etruschi, ma con particolare insistenza a Servio Tullio; e la notizia sembra essere piuttosto credibile, in considerazione dell’esistenza di analoghi apprestamenti difensivi per alcune importanti città dell’Etruria e del Lazio, a volte anche in epoca piú antica. D’altra parte, i dati archeologici confermano che la cronologia delle mura comunemente definite «serviane» non risale oltre la prima metà del IV secolo a.C., quando, all’indomani del sacco gallico del 390 a.C., i Romani sentirono la necessità di rinforzare le difese della città per evitare il ripetersi di un tale smacco. Tratti della cerchia muraria, che probabilmente almeno in parte ripercorreva un sistema difensivo di epoca precedente, sono stati riconosciuti in diversi punti del percorso e alcuni sono ben riconoscibili anche oggi immersi nella città moderna, come a via del Teatro di Marcello, presso la salita del Grillo, a largo Magnanapoli (dove probabilmente si trovava una delle porte), a largo di Santa Susanna, presso via Salandra, a piazza dei Cinquecento e in viale Aventino. Le mura sono realizzate perlopiú in blocchi squadrati di tufo di Grotta Oscura, le cui cave si trovavano in territorio veiente e si resero disponibili per i Romani solo dopo la conquista della città nel 396 a.C., ma non mancano restauri piú recenti in opera cementizia e alcuni piccoli tratti in cappellaccio, che potrebbero essere da riferire a una sistemazione precedente. Il sistema difensivo repubblicano prevedeva un poderoso muro a sviluppo verticale, alle cui spalle si ergeva un interro, detto agger, che digradava dolcemente fino a un muretto di «controscarpa», che completava la fortificazione all’interno: la sommità delle mura poteva essere quindi raggiunta facilmente dai soldati provenienti dall’interno, mentre i nemici si trovavano di fronte a un alto muro privo di appigli. In base al confronto con altre realtà della stessa epoca, è probabile che anche un’ipotetica sistemazione difensiva arcaica fosse sostanzialmente simile, con un agger appoggiato al muro di cinta.

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In basso: Roma, piazza Albania. Un tratto della cinta muraria cosiddetta «serviana», in blocchi di tufo di Grotta Oscura, attribuita al sesto re di Roma ma in realtà innalzata in epoca repubblicana, probabilmente in seguito al sacco gallico del 390 a.C.

bilito la libertà per i cittadini» (laddove il latino libertas traduce il concetto greco di democrazia). Per molti versi il sesto re fu considerato un nuovo fondatore della città, a cui diede un nuovo ordinamento istituzionale e per la quale attuò importanti trasformazioni strutturali e urbanistiche. Una delle piú importanti riforme di Servio Tullio riguardò l’ordinamento censitario del popolo, che venne diviso in centurie, in base alla classe economica. Piú che a funzioni amministrative e fiscali (come si potrebbe pensare ragionando in termini moderni), la manovra serviva ad ampliare e articolare meglio l’organizzazione militare. In epoca arcaica, infatti, l’esercito si identificava di fatto con l’insieme


dei cittadini liberi e atti alle armi (definito in latino propriamente populus), cosa che implicava la possibilità di sostenere il costo economico dell’armamento necessario.

Il potere alla plebe Il bisogno di ampliare le forze armate di cui disponeva la città fu affrontato dal re estendendo ai ceti inferiori la partecipazione alle attività militari, di fatto garantendo a questi ultimi un riconoscimento politico e istituzionale: il potere elettorale a Roma era infatti legato indissolubilmente al ruolo militare che ora, attraverso i cosiddetti «comizi centuriati», era concesso anche ai meno abbienti. Tale operazione, che introdusse nel quadro politico romano la plebe, con conseguenze molto importanti sulla lunga durata, incontrò l’opposizione delle gentes patrizie del Senato, causando da una parte il malcontento del ceto fino ad allora privilegiato e dall’altra garantendo a Servio Tullio la fama di protettore del popolo, quasi un sovrano «democratico». Nello stesso ordine di interventi sociali si pone la trasformazione delle tre antiche tribú dei Titienses, Ramnenses e Luceres, istituite da Romolo sulla base di parentele e legami genealogici, in quattro tribú urbane classificate in base al luogo di residenza, nelle quali vennero distribuiti tutti i cittadini romani liberi. Si trattava rispettivamente della Suburana, che abbracciava il Celio e presumibilmente arrivava alla Suburra (alle spalle di via dei Fori Imperiali) da cui prendeva il nome, della Palatina e dell’Esquilina, attorno agli omonimi colli, e della Collina, cosí detta in onore di quello che ancora oggi è il «colle» per antonomasia: il Quirinale. L’operazione fu funzionale anche a un censimento delle persone e del loro patrimonio, per procedere a un’adeguata amministrazione fiscale e alla conseguente determinazione di diritti e doveri. Infine, tra le operazioni economiche dell’intraprendente sovrano viene ricordata l’introduzione della mone-

Eracle con Minerva armata, gruppo statuario votivo in terracotta, facente parte del tempio arcaico di Sant’Omobono. 530 a.C. Roma, Antiquarium Comunale.

ta a Roma, sotto forma di aes signatum (letteralmente «bronzo contrassegnato»), fatto che sembra in parte confermato dall’archeologia in base alla diffusione, nel corso del VI secolo a.C., dei lingotti di bronzo con il simbolo del ramo secco.

Le prime mura L’attività militare di Servio Tullio si sviluppò in funzione tanto difensiva, quanto aggressiva: al re furono infatti attribuite le prime vere mura di cui fosse stata dotata Roma, ben piú ampie e poderose di quelle di terra che la tradizione riferiva all’età di Romolo.

Purtroppo, però, nonostante l’esplicita menzione delle fonti storiche, non si è trovata ancora traccia di questa originaria cinta muraria, la cui costruzione dovrebbe risalire alla metà circa del VI secolo a.C., secondo la cronologia tradizionale. Le mura in blocchi di cappellaccio con rifacimenti in tufo, che vanno sotto il nome di «mura serviane» e i cui resti sono ben visibili, per esempio, presso la Stazione Termini e a largo Magnanapoli in fondo a via Nazionale (vedi box nella pagina accanto), non possono in realtà risalire oltre il IV secolo a.C. e, se pure avessero ricalcato un precedente percora r c h e o 63


storia origini di roma/10 so murario arcaico, non è stato possibile riconoscerlo finora in nessuno dei tratti conosciuti. Dotarsi di un vero sistema difensivo proiettò Roma nell’ambito delle città piú avanzate e strutturate dell’Italia centrale, al fianco delle metropoli etrusche e similmente alle evolute poleis della Grecia, che costituivano un modello di riferimento costante della civiltà per le comunità italiane. Sul piano offensivo, invece, il regno di Servio Tullio segnò un ritorno alle ostilità nei confronti degli Etruschi, essendo data ormai per assodata la supremazia sui Latini, alla quale aveva provveduto la politica militare del suo predecessore Tarquinio Prisco. Nonostante l’asserita origine etrusca del re – o forse proprio per questo motivo (si ricordino le traversie militari dei fratelli Vibenna in Etruria meridionale; vedi «Archeo» n. 319, settembre 2011) – l’esercito romano, fresco di riforme, si scontrò con quelli di Veio e Cerveteri, confinanti a nord, a cui si aggiunse anche Tarquinia, un tempo patria della dinastia dei Tarquini.

Lo sposo di Fortuna? Come nel caso di Numa, l’altro grande re giusto, beneamato dal popolo romano, anche a Servio Tullio vennero ascritte qualità di capo religioso e di mediatore tra gli uomini e le divinità: soprattutto, per i moderni, appare particolarmente intrigante il suo ambiguo rapporto con la dea Fortuna, che, a detta di Plutarco e Ovidio, sembrava sottintendere una sorta di matr imonio mistico (anche detto ierogamia), alla maniera dei sovrani orientali. Il sesto re istituí in onore della dea per saperne di piú Vittorio Emanuele Vernole, Servius Tullius, «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2002 Massimo Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, RCS, Milano 1993 (rist. 2000) 64 a r c h e o

un famoso tempio nell’area sacra di Sant’Omobono, nel Foro Boario ai piedi del Campidoglio, che essa condivideva con la Mater Matuta, dea del mattino e della prosperità; ma le fonti ricordano anche un secondo tempio, costruito dal re Trans Tiberim, sulla riva etrusca del Tevere, e dedicato alla divinità con il nome di Fors Fortuna. E, tanto per ribadire l’associazione del sesto re con figure religiose femminili, Plinio il Vecchio raccontava come proprio in un tempio di Fortuna, ai tempi di Varrone, era conservata una toga regale di Servio Tullio, tessuta niente di meno che dalla regina Tanaquil in persona. L’attività edilizia del re in ambito sacro vide anche la costruzione di un grande tempio sul colle Aventino alla dea Diana, che aveva la funzione di «cooptare» a Roma il culto della dea nazionale dei Latini, venerata nel bosco sacro di Ariccia con il nome di Diana Nemorense. La posizione del tempio al di fuori del confine segnato dal pomerio, nel luogo abitato dai profughi di Alba Longa sin dai tempi di Tullo Ostilio, indica che si trattava di una divinità esterna al cuore religioso originario della città e, contemporaneamente, che il suo culto era aperto a tutti i Latini, nei confronti dei quali Roma si poneva come centro politico e religioso. Racconta Dionigi d’Alicarnasso (60-7 a.C.) che nel santuario dell’Aventino era conservata ai suoi tempi una stele di bronzo con un’iscrizione in lettere greche (vale a dire in caratteri arcaici, che in età augustea erano considerati piú simili al greco che al latino), che conservava la trascrizione dei patti presi dalla lega dei popoli latini partecipanti alla fondazione del luogo sacro. Ma il rapporto con Diana Nemorense avrebbe avuto ben altri inattesi risvolti simbolici per il sesto re, come lasciano intravedere le notizie sulla sua tragica fine. Secondo la versione tradizionale dell’ascesa al trono di Servio Tullio,

Tullia fa passare il suo carro sul corpo del padre. Olio su tela del pittore francese Jean Bardin (1732-1809). 1765. Magonza, Landesmuseum.

la regina Tanaquil ne avrebbe favorito il riconoscimento da parte del Senato e del popolo di Roma, apparentemente a scapito dei propri figli, presumibilmente eredi in linea dinastica. Ma, in realtà, nella storia della monarchia romana non era mai stato sancito alcun diritto ereditario, salvo nel caso della parentela asserita dei re sabini: Tito Tazio, Numa Pompilio e Anco Marzio.

La legge del piú forte Si suppone che quella del sesto re dovesse essere intesa originariamente come una reggenza, in attesa della maggiore età dei figli di Tarquinio Prisco. Di fatto, però, Servio Tullio intese sanare la difficoltà facendo sposare le sue due figlie femmine (che come di norma nel mondo latino non avevano un prenome e pertanto vanno sotto il nome di Tullia Maggiore e Tullia Minore) con i due figli maschi del suo predecessore, Tarquinio e Arrunte. La sistemazione matr imoniale non piacque ai diretti interessati e cosí, di comune accordo, Tullia Minore e Tarquinio uccisero i rispettivi consorti e convolarono felicemente a nozze, dice Tito Livio, «senza l’opposizione di Servio Tullio, piú che con la sua approvazione». La nuova coppia di principi mise immediatamente in moto una macchinazione per rovesciare il re, raccogliendo attorno a sé i dissensi che la politica di apertura alla plebe di quest’ultimo aveva causato: non appena si sentirono pronti, passarono all’azione. A questo punto, alla storia romanzesca della famiglia reale, si sovrappone un cliché religioso che sembra conferire alla vicenda alcuni aspetti simbolici e cultuali della regalità arcaica, rendendo difficili da distinguere gli eventi reali sotto il manto della leggenda. Il nuovo marito di Tullia Minore,


spostare all’Esquilino, preferendo non abitare nella reggia ufficiale. Lungo la strada però cadde, sopraffatto dalle ferite, lungo il vicus Cyprium (neanche a farlo apposta, presso un antico luogo di culto di Diana!). Proprio in quel punto lo scoprí l’attendente che guidava la mula al traino del carro di sua figlia, la perfida Tullia Minore, che tornava anche lei a casa dopo aver proclamato il marito re. Il servitore si fermò sbigottito e indicò alla padrona il corpo del re, apparentemente senza vita in mezzo alla via: per tutta risposta lei gli ordinò di procedere oltre passando sopra il cadavere. L’uomo fu preso da paura e non volle macchiarsi di un simile delitto, al che Tullia andò su tutte le furie e gli scagliò contro il basso seggiolino su cui poggiava i piedi, poi prese le redini e sferzò Il vico scellerato Ma per il povero re spodestato non la mula con ferocia travolgendo il era finita qui: ancora vivo dopo la corpo di suo padre e tornando a caduta rovinosa che aveva subito, casa grondando sangue. Servio Tullio si mosse per tornare Da allora in poi, gli autori sono alla sua residenza, che aveva fatto concordi in questo, quel luogo Tarquinio, affrontò Servio Tullio sul suo stesso trono e lo tacciò di essere un usurpatore, poi, «essendo molto piú forte e giovane», dice Livio, lo sollevò di peso e lo scaraventò giú dalle scale della Curia, prendendo il suo posto con il consenso dei senatori presenti. La situazione non può non ricordare negli aspetti formali la periodica detronizzazione del rex Nemorensis, letteralmente il «re del bosco», una sorta di grande sacerdote del bosco sacro di Diana ad Ariccia, che veniva destituito con la forza e ucciso ogni qualvolta un nuovo pretendente riusciva a sopraffarlo in uno scontro diretto. Come si è detto, il rapporto di Servio con il culto della dea – che aveva importato a Roma – offre una suggestiva analogia storico-religiosa.

le puntate di questa serie • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio, un re voluto dagli dèi • Tullo Ostilio: la guerra come ragion di Stato • Anco Marzio. In equilibrio tra guerra e pace • Tarquinio Prisco, lo straniero che divenne re • La leggenda dei re dimenticati • Servio Tullio. Il secondo fondatore • Tarquinio il Superbo • La nascita della Repubblica venne chiamato vicus sceleratus e in questo modo, con un sordido delitto, iniziò il regno dell’ultimo dei re di Roma. (10 – continua) a r c h e o 65


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BArba Aspettando i

Il 476 d.C. rappresenta una data cruciale nella storia del mondo antico. In realtà, la caduta dell’impero romano d’Occidente non fu evento improvviso e inaspettato, ma andò a inserirsi in un processo di disgregazione in atto già da tempo. Sotto la spinta delle popolazioni barbariche, infatti, l’egemonia di Roma aveva cominciato a vacillare, imboccando la via di un declino irreversibile...

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bari Particolare del sarcofago ÂŤGrande LudovisiÂť, in marmo proconnesio, con scena di battaglia tra Romani e barbari. MetĂ del III sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps.

di Marco Di Branco

La decorazione si articola su tre registri: nella fascia superiore sono rappresentati i Romani vincitori, in quella mediana il combattimento tra Romani e barbari, e, in basso, i barbari vinti.

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speciale ASPETTANDO I BARBARI

Che aspettiamo, raccolti nella piazza? Oggi arrivano i barbari. E perché mai tanta inerzia in Senato? E perché i senatori siedono e non fan leggi? Oggi arrivano i barbari. Che leggi devon fare i senatori? Quando verranno le faranno i barbari.

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l’età delle invasioni 275 357 374/5 380 382 402 406 407 410 412-418 421 429-439 451-453 455 455-476 476 488-489

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Oceano Atlantico

Brigantium (La Coruña)

Konstantinos Kavafis

Statua in porfido rosso (la testa non è pertinente e le braccia sono un’aggiunta moderna) raffigurante un Dace prigioniero. Già Collezione Borghese. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

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Franchi e Alemanni invadono la Gallia

Vittoria di Giuliano sugli Alemanni

ad Argentoratus Vittoria degli Unni sui Goti di Ermanrico in Ucraina Gli Ostrogoti si stabiliscono in Pannonia I Visigoti invadono la Penisola balcanica Il generale Stilicone ferma i Visigoti a Verona I barbari varcano il Reno I Caledoni scacciano i Romani dall’Inghilterra Alarico, re dei Visigoti, saccheggia Roma I Visigoti si stabiliscono in Gallia e in Spagna I Franchi si insediano nella Gallia settentrionale I Vandali conquistano l’Africa del Nord e la Spagna Gli Unni invadono l’Occidente Sacco di Roma da parte dei Vandali di Genserico I Vandali occupano la Sardegna Fine dell’impero romano d’Occidente Teodorico, re degli Ostrogoti, invade l’Italia

MAURI

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In alto: carta che illustra la pressione esercitata dai popoli barbari sui confini dell’impero romano nel corso del III sec. d.C.


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L’impero romano all’avvento di Diocleziano (284)

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Dislocazione delle principali legioni

Territori dell’impero evacuati e perduti

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Limites periferici

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Popoli barbari invasori

Flotte pretorie e consolari

Principali battaglie contro i barbari incursori e data

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e invasioni barbariche costituiscono l’elemento di gran lunga piú «spettacolare» della storia tardo-antica, e infatti non hanno mancato di attirare l’attenzione e di stimolare la fantasia degli antichi e dei moderni. In alcuni casi, proprio la «spettacolarità» del fenomeno delle invasioni ha fatto sí che nelle analisi della caduta

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dell’impero romano d’Occidente passasse in secondo piano quella crisi economica, sociale e morale che ha invece un ruolo fondamentale nel costituirsi del nuovo assetto che si definisce appunto come tardo-antico. Per esempio, secondo alcuni storici moderni la civiltà romana sarebbe stata addirittura «assassinata» dai

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barbari, che avrebbero trovato al loro arrivo un corpo statale ancora vivo, vitale e perfettamente funzionante e lo avrebbero annientato con la forza. In realtà, gli stessi antichi si rendevano chiaramente conto che le cause di decadenza erano «esterne», ma anche «interne»: sia nelle riflessioni di un cristiano come Ambrogio, sia in quelle di un a r c h e o 69


speciale ASPETTANDO I BARBARI Statua in marmo dell’imperatore Valentiniano II (371-392 d.C.), dalle terme di Afrodisia (Turchia). Fine del IV sec. d.C. Istanbul, Museo Archeologico.

tra Roma e Costantinopoli Particolarmente commovente è il vero e proprio inno che Rutilio Namaziano (poeta pagano di nobile famiglia gallo-romana e prefetto di Roma nel 414) rivolge a Roma, che da pochi anni aveva subito il terribile sacco alariciano: «Del tuo mondo bellissima regina, o Roma, ascolta; o Roma, nell’empireo cielo accolta, madre non solo d’uomini ma pure di dèi. Noi siamo al ciel vicini a causa dei tuoi templi. Che tu sia sempre cantata, sempre, finché si viva: dimenticarti e vivere chi mai potrebbe, o dea? Negli uomini svanisca ogni memoria, del sole, prima che il ricordo, nel cuor, della tua gloria. Poiché tu sai risplendere ovunque, come il sole. Dove il vasto Oceano ondeggia, lí tu vai. Apollo che tutto domina si volge a te: da sponde romane muove, e nel tuo mare si nasconde. La Libia coi suoi deserti non arrestò la tua corsa; non ti respinse il gelido muro che cinge l’Orsa. Quanta terra piena di vita diede agli uomini la Natura, tanta è la terra che ti vede combattere. Desti una patria ai popoli dispersi in cento luoghi: i barbari hanno accettato le tue vittorie e i gioghi; ai sudditi hai offerto il tuo diritto, di tutto il mondo hai fatto una Città». (Rutilio Namaziano, De reditu suo, I, vv. 47-67).

Rovescio di un solido con Valentiniano I e Valente, rispettivamente imperatori d’Occidente e d’Oriente, incoronati dalla Vittoria. 367 d.C. Bologna, Museo Civico Archeologico.

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pagano convinto come lo storico Ammiano Marcellino (vissuti ambedue nella seconda metà del IV secolo) si ritrova l’individuazione di un nesso fra le rovinose invasioni barbariche e lo stato di profonda crisi della compagine imperiale. Se Ambrogio mette naturalmente l’accento sulla crisi morale e religiosa, Ammiano considera soprattutto i problemi socio-economici, come la burocratizzazione eccessiva e l’oppressione tributaria. E, tuttavia, l’importanza storica delle «grandi invasioni» non può essere sottovalutata. Dalla fine del II secolo l’impero romano si vede attaccato su due fronti: dai Parti (e poi dai Persiani) in Oriente e dai Germani in Europa Centrale.Tutto il III secolo è caratterizzato da una serie ininterrotta di conflitti con i barbari: l’imperatore Decio (249251) cadde combattendo contro i Goti; il suo successore, Valeriano (253-260), morí prigioniero dei Persiani; ma l’impero seppe reagire e Claudio II (268-270) ottenne sui Goti una vittoria talmente schiacciante, da allontanare per piú di un secolo la minaccia da questi rappresentata.

Tre imperatori sul trono L’opera riformatrice di Diocleziano (284-305), proseguita e portata a termine da Costantino (312337), consolidò lo Stato romano, che godette di un lungo periodo di relativa tranquillità. Il fallimento della campagna persiana dell’imperatore Giuliano (361-363) inaugurò un nuovo periodo di estrema difficoltà per i Romani, che si concluse con il disastro di Adrianopoli (vedi box a p. 72-73). Inoltre, come vedremo tra poco, la caduta del generale di origine vandala Flavio Stilicone (359-408), supremo comandante militare con poteri dittatoriali sotto Teodosio, propugnatore di una politica di accordo con i barbari, provocò una reazione a catena, che, in meno di un secolo, portò al definitivo annientamento dell’impero romano d’Occidente, passando attraverso due saccheggi

di Roma – quello dei Goti di Alarico e quello dei Vandali di Genserico – e la pericolosissima discesa degli Unni di Attila, arginata a fatica e a carissimo prezzo. Alla morte dell’imperatore Gioviano, nel febbraio del 364, gli successe un militare, Valentiniano I, che cooptò al trono il fratello Valente e, tre anni dopo, anche il figlio Graziano, di appena nove anni.Valentiniano tenne per sé la parte occidentale dell’impero e assegnò al fratello l’Oriente. I due sovrani intrapresero un importante programma di difesa dei confini dell’impero e accolsero moderatamente la tendenza giulianea ad alleviare il peso della riforma monetaria di Costantino, fissando calmieri e imponendo una migliore valutazione della moneta spicciola.

Per quanto concerne la politica religiosa, Valentiniano e Valente si rivelarono ferventi cristiani, proponendosi come arbitri delle controversie interne alle Chiese. A tal proposito va ricordato che proprio in questo periodo fu ordinato vescovo di Milano Aurelio Ambrosio, il nostro Sant’Ambrogio. Nel 375 Valentiniano morí e fu sostituito dall’altro suo figlio, Valentiniano II. Cosí gli imperatori tornarono a essere tre:Valente, Graziano e Valentiniano II.

«Ecco la fine del mondo» La crisi latente che attanagliava l’impero precipitò a partire dal 377. In quell’anno, gli Unni passarono il Volga e spinsero i Visigoti verso il Danubio. Valente si rese conto del

Ritratto in marmo dell’imperatore Graziano (359-383 d.C.), rinvenuto nei pressi della basilica nel cortile del palazzo principesco di Treviri. Seconda metà del IV sec. d.C. Treviri, Rheinisches Landesmuseum. Flavio Graziano, figlio di Valentiniano I, nel 375 d.C., succedette al padre come imperatore romano d’Occidente, lasciando la prefettura dell’Italia, dell’Africa e dell’Illiria al fratello Valentiniano II. Sulla parte orientale dell’impero governava il fratello di Valentiniano I, Valente, ucciso in combattimento dai Visigoti nella battaglia di Adrianopoli, nel 378.

a r c h e o 71


speciale ASPETTANDO I BARBARI

Per tutelare il rapporto con i Visigoti, Teodosio ordinò il massacro dei Tessalonicesi, rei di averne ucciso il comandante Missorio in argento di Teodosio I il Grande (347-395 d.C.), realizzato in occasione del decimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore. 388 d.C. Madrid, Real Academia de la Historia. Teodosio I, nominato Augusto d’Oriente dall’imperatore Graziano nel 379 d.C. (dopo la morte di Valente nella battaglia di Adrianopoli) è raffigurato al centro, assiso in trono, nell’atto di consegnare un diploma a un alto funzionario. Ai lati, i due co-imperatori Valentiniano II (o Onorio) e Arcadio. Nel registro inferiore, la personificazione della Terra, circondata da putti che recano i doni dell’abbondanza.

pericolo e cercò in fretta e furia di organizzare un’armata per far fronte alla loro spinta: perfino i monaci vennero arruolati. Tuttavia, viste le difficoltà nell’opera di mobilitazione, il sovrano ritenne opportuno di giocare la carta dell’accoglienza, proponendo ai Visigoti di militare come soldati mercenari al servizio dell’impero. Dopo un iniziale successo, la situazione volse al peggio: i barbari, che si erano stanziati in Tracia, entrarono in conflitto con la popolazione locale e la regione fu messa a ferro e fuoco. Valente decise allora di intervenire, ma fu vinto e ucciso dai Visigoti presso Adrianopoli il 9 agosto del 378. I Goti giunsero alle porte di Costantinopoli e l’impero sembrava sul punto di crollare. Lo stesso vescovo Ambrogio, venuto a conoscenza dei fatti, avrebbe esclamato: «Ecco la fine del mondo». Dal 387 al 394 l’impero venne scos-

Adrianopoli come Canne Un secolo dopo essere stati respinti da Claudio II, i Goti varcarono nuovamente il Danubio sotto la spinta degli Unni e ottennero di stanziarsi in Tracia in qualità di federati, cioè di truppe di complemento dell’esercito romano. Tuttavia, entrarono ben presto in conflitto con l’amministrazione imperiale e cominciarono a devastare il Paese che li ospitava. Ad affrontarli giunse l’imperatore Valente (364-378), associato all’impero dal fratello Valentiniano I (364-375). Presso Adrianopoli (oggi Edirne, in territorio turco, vicina al confine con la Grecia e la Bulgaria, n.d.r.) Valente venne sconfitto e ucciso, e ancora una volta si temette per le sorti di tutto l’impero. Il nuovo sovrano, Teodosio I (379-395), dovette piegarsi a una trattativa estenuante e riconoscere nuovamente ai Goti il loro ruolo di federati, concedendo loro molti altri privilegi. Solo cosí poté fermarne l’avanzata. La disastrosa sconfitta di Adrianopoli fu paragonata alle peggiori disfatte di Roma: lo storico Ammiano Marcellino, che scrive nella seconda metà del IV secolo, non esita a paragonarla alla battaglia di Canne, nella quale Annibale aveva annientato le truppe romane guidate dal console Lucio Emilio Paolo: «I due schieramenti, scontratisi come navi rostrate e respingendosi a vicenda, fluttuavano con reciproco 72 a r c h e o

movimento simili a onde. Il fianco sinistro si avvicinò addirittura ai carri, pronto a spingersi oltre se qualcuno gli avesse portato aiuto, ma, abbandonato dalla rimanente cavalleria e incalzato da una moltitudine di nemici, fu sopraffatto e distrutto, come se una diga possente si fosse abbattuta su di lui. I fanti rimasero scoperti in gruppi cosí stipati gli uni sugli altri che difficilmente potevano sguainare le spade o tirare indietro le braccia. Né a causa della polvere che si era levata si poteva vedere il cielo, che risuonava di urla orrende. Perciò i dardi, che d’ogni parte scagliavano la morte, cadevano su sicuri bersagli, con effetto fatale, poiché non si potevano prevedere né era possibile alcuna difesa. Ma quando i barbari, riversatisi in immense schiere, calpestarono cavalli e uomini, né era possibile in mezzo alla calca trovare un po’ di spazio per ritirarsi e la ressa toglieva ogni possibilità di fuga, i nostri, dimostrando disprezzo della morte pur nell’estremo pericolo, riprese le spade, fecero a pezzi quanti incontravano e con reciproci colpi di scure si spezzavano gli elmi e le corazze. Si poteva vedere un barbaro, superbo per la sua ferocia e con le gote contratte in un urlo di dolore, il quale, essendogli stato tagliato un garretto o amputata la


so da una serie di rivolte e da pericolosi sommovimenti delle popolazioni barbariche all’interno dei suoi confini, ma Teodosio seppe egregiamente fronteggiare la situazione. Un momento di estrema tensione si ebbe nel 390, quando la popolazione di Tessalonica, esasperata dalla scomoda presenza dei federati gotici, uccise il comandante supremo delle truppe mercenarie, il barbaro Buterich.

Strage a Tessalonica La reazione dell’imperatore fu pesantissima: egli infatti, per salvare il rapporto con i Visigoti, che considerava vitale per l’impero, ordinò il massacro dei cittadini tessalonicesi. Questo atto atroce, anche se dettato da indiscutibili ragioni politiche, provocò la reazione sdegnata di Ambrogio, che scomunicò l’imperatore. Quest’ultimo si pentí e fu riammesso nella comunità, e ciò suscitò senza dubbio nei barbari un certo scontento: nel 391 il goto Alarico si ribellò, ma il grande generale di origine vandala Flavio (segue a p. 76)

A destra: schema della battaglia combattuta ad Adrianopoli. 1. L’ala destra della cavalleria romana protegge lo spiegamento delle legioni, mentre la sinistra attacca i carri dei Visigoti. 2. La cavalleria dei Visigoti costringe quella romana al ripiegamento. 3. Mentre la cavalleria visigota attacca i fianchi dello schieramento nemico, la fanteria muove frontalmente. In basso: cartina che mostra l’ubicazione di Adrianopoli (oggi Edirne, in Turchia).

LA BATTAGLIA DI ADRIANOPOLI

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Tracia destra da un colpo di spada o ferito un fianco, volgeva minacciosamente gli occhi feroci, ormai prossimo alla morte. A causa della strage reciproca dei combattenti, i corpi erano disseminati per terra e i campi erano coperti di cadaveri. Diffondevano un profondo terrore i gemiti dei morenti e di quanti erano stati colpiti da profonde ferite. In questa situazione cosí confusa, e in un disordine cosí grave, i fanti, sfiniti dalla fatica e dai pericoli, poiché a poco a poco non bastavano loro né le forze né la mente per decidere e s’era spezzata la maggior parte delle lance a causa dei continui scontri, si gettavano, accontentandosi delle sole spade, contro le compatte schiere dei nemici, senza curarsi della propria vita, perché vedevano che tutt’attorno non c’era possibilità di fuga. I barbari, spirando furore dagli occhi, inseguivano i nostri, che erano storditi perché il calore del sangue veniva meno nelle vene. Alcuni cadevano senza sapere chi li avesse colpiti, altri crollavano unicamente sotto il peso degli inseguitori, altri infine furono uccisi dai propri compagni. Infatti spesso non si dava tregua a chi resisteva, né alcuno risparmiava quelli che si arrendevano. Inoltre le strade erano ostruite da molti soldati morenti che giacevano lamentandosi delle sofferenze provocate dalle ferite; assieme a loro, cavalli

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ammucchiati l’uno sopra l’altro riempivano i campi formando, per cosí dire, dei terrapieni. A queste perdite, a cui mai si sarebbe potuto rimediare, e che costarono care allo Stato romano, pose fine la notte non illuminata dalla luna. Al primo scendere delle tenebre, l’imperatore – cosí almeno si poteva supporre, in quanto nessuno dichiarò di averlo visto o di essersi trovato presente – cadde fra i soldati, colpito a morte da una freccia, e subito spirò. Gli annali non ricordano una disfatta simile, a eccezione della battaglia di Canne». (Ammiano Marcellino, Le storie, trad. it. di Antonio Salem, Tea, Milano, II, 1994, pp. 181-187). a r c h e o 73


speciale ASPETTANDO I BARBARI PITTI

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Spilla aquiliforme decorata a cloisonné in oro e granati, dal Tesoro di Domagnano (Repubblica di San Marino), costituito, probabilmente, dal corredo funebre di una donna ostrogota. Fine del V-metà del VI sec. d.C. circa. New York, collezione privata. Secondo il costume femminile germanico, le fibule, collegate da pendenti di collana, erano poste specularmente sulle spalle a reggere il mantello. 74 a r c h e o

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le invasioni in europa dal iv all ’ viii sec . d . c . e i regni romano - barbarici


Impero romano al tempo di Diocleziano (284-305)

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Migrazioni e invasioni dei popoli barbari (IV-VI sec.) Unni

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Spedizioni marittime dei Vandali

Do Migrazioni e invasioni musulmane (VII-VIII sec.) n Direttrici musulmane D nIncursioni marittime arabe epr

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In alto: due fibule ad ansa simmetriche, dalla sepoltura 300 di Saint-Martin-de-Fontenay. 480-490 d.C. Caen (Francia), Musée de Normandie. A destra: spada da parata, con fodero e impugnatura decorati in oro con un tipico motivo unno a squame, dal sito di Pannonhalma, nell’antica provincia romana della Pannonia, in Ungheria. Secondo quarto del V sec. d.C. Széchenyi (Ungheria), Xantus János Múzeum. a r c h e o 75


speciale ASPETTANDO I BARBARI il Lamento di san gerolamo «Mentre cosí vanno le cose a Gerusalemme, dall’Occidente ci giunge la terribile notizia che Roma viene assediata, che si compra a peso d’oro la incolumità dei cittadini, ma che dopo queste estorsioni riprende l’assedio: a quelli che già sono stati privati dei beni si vuol togliere anche la vita. Mi viene a mancare la voce, il pianto mi impedisce di dettare. La città che ha conquistato tutto il mondo è conquistata: anzi cade per fame prima ancora che per l’impeto delle armi, tanto che a stento vi si trova qualcuno da prendere prigioniero. La disperata bramosia fa sí che ci si getti su cibi nefandi: gli affamati si sbranano l’uno con l’altro, perfino la madre non risparmia il figlio lattante e inghiotte nel suo ventre ciò che ha appena partorito. Moab fu presa, di notte sono state devastate le sue mura. O Dio, sono penetrati i pagani nella tua eredità, hanno profanato il tuo santo tempio; hanno ridotto Gerusalemme in rovine. Hanno dato i cadaveri dei tuoi servi in pasto agli uccelli del cielo, i corpi dei tuoi fedeli alle bestie selvatiche. Hanno versato il loro sangue come acqua intorno a Gerusalemme, e non c’è chi seppellisca. Come ridire la strage, i lutti di quella notte? Chi può la rovina adeguare col pianto? Cadeva la città vetusta, sovrana nel tempo. Un gran numero di cadaveri erano sparsi per le strade e anche nelle case. Era l’immagine moltiplicata della morte. Il poeta, esaltandosi nel descrivere la potenza di Roma, cantò: “Se Roma è poco, che cosa vi sarà di bastante?”. Sentenza che noi siamo costretti a sostituire con quest’altra: se Roma perisce, che altro mai si salverà?». (Gerolamo, Lettere, VI 127).

Stilicone seppe frenare il suo impeto, e, nel 392, Teodosio stabilí con Alarico un nuovo trattato di pace. A questo punto, a insorgere fu la nobiltà pagana di Roma, che elesse imperatore il pagano Eugenio e tentò il tutto per tutto, appoggiando la rivoluzione del generale barbaro Arbogaste in funzione antiteodosiana.Teodosio marciò contro i ribelli e, tra il 5 e il 6 settembre del 394, li vinse presso il fiume Frigido, nell’attuale Friuli-Venezia Giulia. Qualche mese dopo, il 17 gennaio del 395, l’imperatore, al culmine dei suoi successi politici e militari, morí. Lasciò il potere ai figli, Arcadio e Onorio, sotto la tutela del fido Flavio Stilicone.

Ravenna, la nuova capitale All’alba del V secolo, dopo la morte di Ambrogio, Milano appariva ormai poco sicura all’imperatore Onorio (395-423), costretto ad assistere senza poter intervenire in alcun modo ai movimenti delle popolazioni germaniche al di là delle Alpi. Per questo, nel 402, egli decise lo spostamento della corte a Ravenna, sede della flotta adriatica e, fino ad allora, semplice porto militare (Classe, da classis = «flotta») collegato a Cesarea, un modesto

municipio di origine mercantile. Una scelta dettata da opportunità strategiche: toccata dalla via Emilia, difesa su tre lati dalle paludi del Po, affacciata sul Mare Adriatico, Ravenna appariva imprendibile da terra e facilmente raggiungibile via mare da Costantinopoli: era quindi il punto di contatto ideale fra l’Italia e la parte orientale dell’impero. L’ascesa politica, architettonica e artistica della città fu rapida e spettacolare: capitale imperiale dal 402; capitale del regno gotico d’Italia di Teodorico dal 493, capoluogo dei territori imperiali d’Occidente dopo la riconquista bizantina del 540, essa si impose per quasi due secoli come il maggior centro di cultura cristiana della parte occidentale dell’impero. In questo luogo di incontro privilegiato tra Oriente e Occidente il contatto fra la tradizione romana e le suggestioni provenienti da Costantinopoli e dall’Oriente dà vita a uno dei momenti piú alti dell’arte della tarda antichità. Alla sua morte, Teodosio – come detto – aveva affidato i figli – il diciottenne Arcadio in Oriente e l’undicenne Onorio in Occidente – alla tutela di Stilicone. Ma Arcadio, che di fatto aveva già raggiunto


A sinistra: dittico di Stilicone. Inizio del V sec. d.C. Monza, Tesoro del Duomo. Convinto assertore di una politica filobarbarica, il generale Flavio Stilicone (359-408 d.C.), di origine vandala, fu supremo comandante militare sotto Teodosio I e tutore dei due figli dell’imperatore, Arcadio e Onorio. Sulla valva destra del dittico è raffigurato armato di lancia e scudo, sul quale sono ritratti, entro clipeo, i due

giovani imperatori. Sulla valva sinistra sono rappresentati la moglie Serena, nipote e figlia adottiva di Teodosio I, e il figlio della coppia, Eucherio. Nella pagina accanto: illustrazione raffigurante la marcia di Alarico su Roma, durante il sacco barbarico che distrusse la città, nel 410 d.C. In basso: un Visigoto in un’illustrazione a colori di epoca moderna.

Contro i costumi barbarici «Che nessuno usi stivali e brache nella città di Roma. Se qualcuno tenterà di violare tale divieto, in accordo con la sentenza dell’illustre prefetto, sia spogliato dei suoi beni e punito con l’esilio perpetuo. Ordiniamo che sia proibito a tutti, anche agli schiavi, portare i capelli lunghi e indossare vesti di pelle all’interno della sacra città. D’ora in poi nessuno potrà indossare impunemente abiti del genere. Ma se qualcuno non terrà conto della nostra decisione, se è un uomo libero non potrà sfuggire alle maglie della legge, se è uno schiavo sarà condannato ai lavori forzati. E ordiniamo di far valere questa regola non solo all’interno della città, ma anche nelle regioni vicine». (Disposizione dell’imperatore Onorio, emanata il 12 dicembre del 416, in Theodosiani libri XVI, a cura di Theodor Mommsen e Paulus M. Meyer, Berolini apud Weidmannos, I, 1905, p. 788).

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speciale ASPETTANDO I BARBARI A destra: il cosiddetto Palazzo di Teodorico, a Ravenna, capitale dell’impero dal 402 d.C. L’edificio, erroneamente creduto la facciata del palazzo teodoriciano, è in realtà il nartece della chiesa di S. Salvatore ad Calchi, probabilmente di epoca altomedievale. Nella pagina accanto: Ravenna. L’interno del Mausoleo di Galla Placidia, decorato, tra il 425 e il 450 d.C., con mosaici e marmi policromi. In fondo al braccio meridionale, la lunetta con gli Apostoli. Galla Placidia – figlia di Teodosio I e sorella di Onorio –, reggente, per il figlio Valentiniano III, dell’impero d’Occidente, si impegnò nella riorganizzazione dell’impero, minacciato dai Vandali di Genserico.

la maggiore età, non accettò la guida del tutore che dunque rimase da subito limitata al solo Occidente. Intanto, già nel 395 Alarico invase i territori dell’impero, costringendo Stilicone ad accorrere a difesa della Grecia. A Costantinopoli l’odio nei confronti dei barbari cresceva sempre di piú, e ciò condusse Arcadio a sconfessare la politica «filobarbarica» del padre: cosí, nel 400, il popolo della capitale dell’impero d’Oriente cacciò il generale gotico Gainas dalla città. Alarico si sentí allora direttamente minacciato e marciò contro l’Italia. Nel 402 Stilicone lo affrontò prima a Pollenzo e poi a Verona e lo vinse, e successivamente, presso Fiesole, sconfisse anche un’altra armata gotica guidata da Radagaiso (406). Subito dopo, una nuova ondata barbarica, composta da Alamanni, Alani, Vandali e Burgundi, si riversò sull’impero. Per fermarla, Stilicone propose a Onorio di rinnovare l’alleanza con Alarico, ma l’imperatore d’Occidente, che non voleva inimicarsi Arcadio, si oppose. Il rifiuto onoriano offese Alarico, che mosse le sue truppe fino a Emona, per esigere il rinnovo del patto. A questo punto, Stilicone tentò il tutto per tutto, e chiese al senato di appoggiare la sua politica: il senato 78 a r c h e o

deliberò di pagare ad Alarico 4000 libbre d’oro. Ma il partito antibarbarico, che nella corte imperiale milanese era estremamente forte, non accettò la delibera del senato e subornò una ribellione dei soldati romani di stanza a Pavia, a protezione di Milano: costoro uccisero, sotto gli occhi di Onorio, tutti i funzionari stiliconiani.

Alarico, il «castigo di Dio» Quando del fatto vennero a conoscenza le truppe federate barbariche agli ordini di Stilicone, che si trovavano presso Bologna, i soldati volevano marciare contro Pavia per vendicare i compagni assassinati, ma Stilicone non volle. In tal modo firmò la propria condanna a morte: Onorio ne ordinò l’arresto, e il grande e lungimirante generale fu ucciso il 22 agosto del 408. Morto Stilicone, tutte le forze dissolvitrici dell’Occidente romano si

scatenarono. Nel 410 Alarico marciò su Roma, la prese e la mise al sacco. L’evento catastrofico per eccellenza, impensabile anche dai piú acerrimi nemici di Roma, era dunque avvenuto. Il saccheggio di Roma compiuto dai Visigoti di Alarico fu un avvenimento che suscitò un’emozione profonda nei contemporanei: erano otto secoli (dai tempi dell’incendio gallico) che la città non subiva un’occupazione straniera. Orosio – un giovane prete spagnolo discepolo e collaboratore di Sant’Agostino – è il primo autore che scrive su questo argomento. Egli compose le sue Storie contro i pagani (Historiae adversus paganos), su incitamento di Agostino, tra il 416 e il 417. In quest’opera gioca un ruolo fondamentale il motivo agostiniano dei «giudizi di Dio», per cui gli eventi storici – anche quelli piú catastrofici – sono dirette


espressioni della volontà divina. In tal senso l’interpretazione del sacco alariciano ha un posto centrale: la distruzione di Roma non è altro che la punizione divina dei peccati dei suoi abitanti, e Alarico stesso, la cui religiosità viene esaltata, assume le fattezze del flagellum Dei, lo strumento del castigo di Dio. Anche un altro grande protagonista della storia della Chiesa e celeberrimo traduttore della Bibbia dal greco e dall’ebraico al latino, San Gerolamo (347-420), fu molto colpito dalla caduta di Roma nelle mani dei Goti, e in una sua epistola si abbandona a un vero e proprio lamento sulla sorte della città, costretta a subire la terribile umiliazione del sacco barbarico (vedi box a p. 76). Al pessimismo che caratterizza il lamento del cristiano Gerolamo fa invece da riscontro la tranquilla fiducia nel futuro del pagano Claudio Rutilio Namaziano (V secolo),

poeta latino di nobile famiglia gallo-romana, che trova nel grande passato di Roma la forza per guardare avanti.

Il «sacco» nei versi di un pagano Nato forse a Tolosa, Rutilio Namaziano fu prefetto di Roma nel 414, ma l’anno seguente fu costretto a lasciare la città per far ritorno nei suoi possedimenti in Gallia, devastata dall’invasione dei Vandali. Tale viaggio – condotto, con numerose soste, via mare, dato che le strade consolari erano impraticabili e insicure dopo l’invasione dei Goti – viene descritto nel poema Il ritorno (De reditu suo). L’opera, che pure ci è giunta incompleta, è ricca di osservazioni topografiche e citazioni di classici latini e greci e raggiunge toni lirici quando esprime il clima di decadenza e lo squallore dei tempi, che

l’autore, da buon pagano, attribuisce ai barbari e al cristianesimo trionfante (vedi box a p. 70). Oltre alle testimonianze letterarie, sulla presa di Roma da parte di Alarico e sulle sue conseguenze esiste anche documentazione di altro genere: per esempio, in una disposizione dell’imperatore Onor io (395-423) emanata il 12 dicembre del 416 e inserita nel Codice Teodosiano (raccolta di leggi pubblicata nel 438 da Teodosio II), troviamo il divieto di utilizzare acconciature e abiti di foggia barbarica (vedi box a p. 77). La motivazione di tale provvedimento va senz’altro individuata nel prevalere alla corte imperiale d’Occidente di una fazione antibarbarica che vedeva nei barbari solo dei nemici da annientare ed escludeva qualsiasi rapporto di collaborazione con loro. Il sacco di Roma, che fu causato proprio dall’irresponsabile rifiuto a r c h e o 79


speciale ASPETTANDO I BARBARI Un edificio simbolo Il mausoleo cruciforme attribuito dalla tradizione a Galla Placidia – la figlia di Teodosio I che, dopo la morte del fratellastro Onorio (423), guida le sorti dell’impero d’Occidente in nome del figlio Valentiniano III – è oggi uno dei simboli dell’architettura ravennate e, piú in generale, dell’arte tardo-antica. Si tratta di un piccolo ambiente quadrato con copertura a volta semisferica, sul quale si innestano quattro bracci, a formare l’immagine di una croce. L’edificio appare oggi isolato e quasi povero nel rigore dei suoi paramenti esterni in mattoni, ma questa semplicità contrasta fortemente con la ricchezza dell’interno, tutto rivestito di splendidi e raffinati mosaici in cui predominano il blu, il verde e l’oro. Tale contrasto vuole suggerire la consapevole rinuncia alle lusinghe mondane ed esteriori per concentrarsi sulla bellezza dell’anima. In origine, però, il piccolo edificio non era isolato, ma faceva parte del grande complesso della chiesa di Santa Croce, fatta costruire da Galla Placidia. Il mausoleo era annesso all’atrio della basilica, con la funzione di cappella funeraria imperiale. Tre bracci della croce ospitano infatti altrettanti grandi sarcofagi marmorei di altissima qualità, che le dimensioni e il perfetto rapporto con le nicchie destinate a ospitarli indicano come realizzati appositamente per questa destinazione. Ma l’elemento piú importante del mausoleo sono i bellissimi mosaici, e non solo per l’insuperabile finezza tecnica, che un secolo dopo i mosaicisti attivi nelle basiliche bizantine di Ravenna non sapranno piú raggiungere: con le loro immagini ancora intese come imitazioni della realtà e non come richiami simbolici a essa, i mosaici del mausoleo sono la prova piú concreta della continuità della tradizione antica nella Ravenna della prima metà del V secolo, dove la rottura si sarebbe consumata in modo evidente soltanto al tempo della dominazione gota, negli edifici di Teodorico.

A sinistra: medaglione in oro di Galla Placidia, dal Tesoro di Velp. 425 d.C. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

della corte imperiale di trattare con Alarico, aveva poi suscitato un odio assoluto verso tutti gli aspetti del mondo barbarico, compresi gli usi e costumi della vita quotidiana. Infine, alcune iscrizioni latine rinvenute a Roma costituiscono una testimonianza interessante dell’attività di ricostruzione che seguí le distruzioni collegate al sacco del 410 (vedi box a p. 83). 80 a r c h e o


Cupola con cielo stellato. 425-450 d.C. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia.

Gli anni successivi al sacco alariciano videro il tentativo da parte del potere imperiale di creare una nuova unità fra le due parti dell’impero. Alla morte di Onorio, avvenuta nel 423, gli successe, dopo un breve interregno, Valentiniano III, figlio del generale Flavio Costanzo e di Galla Placidia, sorellastra di Onorio. Costui, essendo molto giovane, governò sotto la tutela della madre, la

quale cercò di riorganizzare l’impero per far fronte a una nuova minaccia, quella dei Vandali.

na (nell’attuale Algeria) e nel corso dell’assedio morí Sant’Agostino, uno dei piú grandi Padri della Chiesa, che era vescovo della città. Nel 435 il governo romano, ormai Dalla Norvegia all’Africa Nel 429 questa popolazione, origi- sotto l’esclusivo controllo del genenariamente stanziata fra la Norvegia rale Ezio, riconobbe ufficialmente il e la Svezia meridionale, si spinse capo dei Vandali Genserico come re fino alle coste dell’Africa romana, della Numidia e della Mauretania, e portandovi terrore e distruzione. nel 442 lo stesso Genserico si impaNel 430 i Vandali attaccarono Ippo- droní dell’Africa proconsolare. a r c h e o 81


speciale ASPETTANDO I BARBARI Nel frattempo la frontiera danubiana era travolta da un’altra minaccia: gli Unni. Fino a quel momento Ezio era riuscito a intavolare con loro trattative diplomatiche, ma nel 444 divenne loro sovrano Attila, che decise di volgere le sue armate contro la parte occidentale dell’impero. Di fronte all’attacco degli Unni, nel 451 Ezio riuscí a riunire le forze dei federati goti, burgundi e franchi, sconfiggendo Attila nella località detta Campi Catalaunici (pianura

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della Gallia, nell’odierna Champagne, localizzata da alcuni storici presso l’odierna Châlons-surChampagne, da altri presso Troyes, in Francia). I preparativi e lo svolgimento di questa famosa battaglia sono oggetto di un’ampia trattazione nell’opeera Sulle gesta e le azioni dei Goti (De gestis actibusque Getarum). Ne è autore lo storico Giordane, che scrive a Bisanzio intorno al 550, mentre la riconquista giusti-

nianea dell’Italia poneva fine al regno ostrogoto. L’autore, forse di origine gota, solitamente dà risalto epico alle vicende dei popoli barbari nell’età delle grandi migrazioni, e se in questo caso ci presenta il punto di vista romano-goto su Attila, altrove dà voce ai sentimenti di ammirazione e rimpianto che i barbari provavano nei confronti del capo unno, morto nel 453. La figura di Ezio («l’ultimo dei Romani», secondo la celebre defi-


Il restauro dei monumenti a Roma dopo il sacco «Agli ottimi Signori Nostri Onorio e Teodosio (Teodosio II, che regnò dal 408 al 450, n.d.r.), Principi vittoriosissimi. Flavio Annio Euchario Epifanio, appartenente al rango senatorio, prefetto della Città e giudice in sostituzione dell’Imperatore, ha restaurato e restituito al suo precedente aspetto l’ufficio dell’amplissimo Senato, che aveva costruito Flaviano, uomo illustre, e che l’incendio fatale ha distrutto”. Ai Nostri due Signori prosperi e fiorenti, Onorio e Teodosio, Augusti in perpetuo. Cecina Decio Acinazio Albino, di rango senatorio, prefetto della Città e giudice in sostituzione dell’Imperatore, ha consolidato con un duplice rinforzo di arcate, erette dalle fondamenta, la sala dei bagni tiepidi (cella tepidaria), le cui mura pendevano pericolosamente e potevano causare il crollo di altre sale. Devoto alla loro divinità e alla loro maestà». (Da alcune iscrizioni latine rinvenute a Roma e raccolte in Hermann Dessau, Inscriptiones Latinae Selectae, Berolini apud Weidmannos, II 1, 19744, pp. 380 e 411).

Dalle coste dell’Africa romana i Vandali, originari del Nord Europa, si spinsero fino a Roma A destra: Il sacco di Roma nel 410 da parte dei Vandali (sic). Joseph-Noël Sylvestre. 1890. Séte (Francia), Musée Paul Valéry. Nella pagina accanto: Dittico di Probo. 406 d.C. Aosta, Museo del Tesoro della Cattedrale. Il dittico eburneo fu donato dal console Anicio Petronio Probo all’imperatore Onorio, rappresentato su entrambe le valve, con corazza, paludamentum, spada al fianco sinistro, diadema di perle e capo nimbato.


speciale ASPETTANDO I BARBARI Un incontro con Attila Nel 448/9 Prisco, un letterato originario di Panion in Tracia, accompagnò un alto funzionario imperiale di nome Massimo in un’ambasceria alla corte di Attila. L’autore, nella sua opera storica (di cui si conservano solo alcuni frammenti), composta durante il regno dell’imperatore d’Oriente Leone I (457-474), ci ha lasciato una vivida descrizione del viaggio da Costantinopoli ai territori transdanubiani e dell’incontro con il capo degli Unni, che si apprestava a invadere l’Italia. Di grande interesse è la rappresentazione del mondo barbarico come una sorta di rovescio della medaglia del colto e urbanizzato mondo ellenistico-romano: il regno di Attila è un regno dai confini sfuggenti, continuamente in movimento; i suoi spazi non hanno limiti e le sue usanze sono incomprensibili. «Attraversammo alcuni fiumi e arrivammo in un immenso villaggio, dove si diceva che la dimora di Attila fosse la piú

bella di tutte le sue residenze. Era costruita di travi e di tavole lucidate e cinta da una palizzata di legno fabbricata non come difesa, ma per decorazione. Quando Attila fece il suo ingresso in quel villaggio, gli vennero incontro fanciulle che procedevano in file sotto finissimi veli di lino bianchi, cosí lunghi e tesi, che sotto ciascun velo sollevato alle due estremità dalle mani delle donne, camminavano sette e piú fanciulle. Le schiere di donne sotto questi veli di lino erano molte e cantavano canti scitici. Allorché il re si avvicinò alla


casa di Onegesio (un Greco divenuto uno dei principali consiglieri di Attila, n.d.r.) – la via che conduceva alla reggia vi passava accanto – la moglie di Onegesio uscí fuori con un nutrito stuolo di servi: alcuni portavano vivande, altri vino, che è il massimo onore fra gli Sciti. Ella lo salutò e lo pregò di gustare quelle offerte che gli aveva portato per dargli il benvenuto. Per dimostrare la sua simpatia alla moglie di un uomo amico, mangiò seduto a cavallo, mentre i barbari del seguito tenevano sollevato alla sua altezza il vassoio, che era d’argento. Dopo aver anche bevuto dal calice che gli veniva porto, proseguí il cammino verso il palazzo, piú alto delle altre case e situato in un luogo elevato». (Prisci Panitae, Fragmenta, a cura di Fritz Bornmann, Le Monnier, Firenze 1979, pp. 152-153).

L’incontro di Leone Magno con Attila. Affresco di Raffaello Sanzio (1483-1520) e aiuti. 1513-1514. Città del Vaticano, Palazzi Apostolici Vaticani, Stanza di Eliodoro.

nizione di Procopio di Cesarea), assassinato dalle trame di Valentiniano III (425-455), fu ampiamente idealizzata dalla tradizione a lui favorevole sviluppatasi in Oriente. Tuttavia, nulla sembrava poter frenare la furia degli Unni: nel 452 Attila marciò sull’Italia. A questo punto, avvenne un fatto che viene spesso considerato prodigioso, ma che mostra in realtà l’enorme prestigio delle grandi personalità cristiane del periodo: infatti il vescovo di Roma Leone andò incontro al sovrano degli Unni, lo raggiunse presso Milano e lo convinse a tornare indietro. Il «flagello di Dio» – cosí le fonti dell’epoca chiamano il grande capo unno – morí un anno dopo, nel 453. Ma le disgrazie per Roma non erano finite: nel 454 Valentiniano III volle sbarazzarsi dell’ingombrante figura di Ezio, che fu ucciso, ma, nel 455, anch’egli fu assassinato e la vedova costretta a sposare il nuovo imperatore, il senatore Petronio Massimo. Si disse allora che ella, offesa, avesse chiamato a Roma i Vandali. Questi ultimi – ormai padroni di buona parte dell’Africa romana – sotto la guida del loro re Genserico si spinsero in Sicilia, Sardegna e Corsica. Infine, puntarono su Roma. Gettate le ancore alla foce del Tevere, il re vandalo raggiunse la città il 2 giugno del 455, abbandonandola per ben quattordici giorni al saccheggio delle sue truppe germaniche e africane. Quando Genserico ripartí le sue navi erano cariche di tesori immensi: metalli preziosi, opere d’arte e schiavi. Anche la moglie e le figlie dell’imperatore Valentiniano furono deportate.

L’ultimo imperatore I ventuno anni che intercorrono tra la morte di Ezio e la deposizione dell’ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, sono scanditi da una serie interminabile di successioni imperiali, tutte di breve durata e tutte caratterizzate dallo strapotere dei generali barbarici, a r c h e o 85


speciale ASPETTANDO I BARBARI Elmo in stile pontico sarmatico, con elementi della tradizione romana, germanica e iranica. Rinvenuto in Dalmazia centrale, nel 1903, e forse appartenuto a un soldato dell’esercito romano. Inizi del VI sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum.

La resa di Roma Nella coscienza dei contemporanei gli eventi del 476 non furono percepiti nella loro importanza epocale. L’interpretazione di questa data come momento terminale dell’impero romano d’Occidente si affermò invece nel mondo bizantino: in tal senso la troviamo formulata per la prima volta nella Chronica del funzionario illirico Marcellino, a cui attinse in seguito il goto Giordane: «[476].Odoacre, re dei Goti, si impadroní di Roma e assassinò subito Oreste. Il figlio di questi, Augustolo, fu esiliato nel Castel Lucullano in Campania. L’impero romano d’Occidente, che il primo Augusto, Ottaviano, aveva assunto nell’anno 709 della fondazione di Roma, perí con questo Augustolo cinquecentoventidue anni dopo che i suoi predecessori avevano iniziato a regnare, e da allora i re Goti furono padroni di Roma». (Marcellinus Comes, Cronaca, MGH, AA 11, p. 91). 86 a r c h e o

che creavano e deponevano sovrani a loro piacimento. Sul trono si succedettero Avito (455-456), Maioriano (457-461), Libio Severo (461-465), Procopio Antemio (467-472), Olibrio (472), Glicerio (473), Giulio Nepote (474-475) e infine, appunto, il giovane Romolo, detto Augustolo (475-476). Quest’ultimo era stato innalzato al trono per volontà del padre, il patrizio Oreste, che nel 475 aveva destituito l’imperatore Giulio Nepote.

La «caduta senza rumore» A questo punto entrò in gioco il generale goto Odoacre, che proveniva dal Norico e si trovava in Italia come capo di truppe mercenarie: costui depose Romolo, ma non volle creare un nuovo imperatore. Si appellò all’unità dell’impero nella persona dell’imperatore d’Oriente, Zenone (474-491), e si limitò a governare come re dei barbari che erano in Italia.


La definitiva caduta della parte orientale dell’impero romano è certamente un evento che costituisce una fondamentale cesura storica. Eppure i contemporanei non colsero l’importanza di ciò che accadeva davanti ai loro occhi e si limitarono a raccontare i fatti senza particolari emozioni e senza grandi riflessioni. Basandosi su questo dato, un celebre studioso ha definito la caduta dell’impero d’Occidente come «una caduta senza rumore», implicitamente svalutando la portata di tale avvenimento. E tuttavia bisogna guardarsi dal considerare le reazioni dei contemporanei come sempre capaci di registrare fedelmente la reale entità degli avvenimenti: la catastrofe del 476 resta un evento centrale nella storia, perché dopo di esso mutano radicalmente gli assetti del mondo antico. Vien fatto però di chiedersi i motivi della sottovalutazione della caduta di Roma da parte degli storici dell’epoca. La risposta a questa domanda è che, probabilmente, risultava ormai chiaro a tutti da molto tempo (almeno dal primo sacco di Roma del 410) che la sorte dell’impero era segnata: il crollo finale del 476 fu visto come la logica conclusione di un processo di degenerazione inarrestabile.

Continuità e discontinuità Ma quando finisce l’Antichità? A questa domanda è impossibile rispondere con una data precisa. La crisi del mondo antico è un processo lungo e complesso, che, come abbiamo viso, ha le sue radici molto lontano nel tempo. La ricerca di un momento di cesura evidente è resa piú difficile anche dall’esistenza di elementi di forte continuità culturale (come, per esempio, forme letterarie e artistiche, religione, usi e costumi locali, ecc.), che sembrano permanere quasi immutati per secoli.Tuttavia, dalla documentazione in nostro possesso, appare chiaramente che l’epoca tardo-antica è un periodo di cambiamenti fondamentali, non solo nelle compagini

politiche, ma anche nelle strutture economiche e sociali. Il problema della decadenza e caduta dell’impero romano, o, in altri termini, della fine del mondo antico, ha sempre affascinato gli studiosi, che spesso, soprattutto nel XIX secolo, hanno visto nella fine di Roma una lezione e un monito per la civiltà europea.

Un «metro» per la storia Il motivo principale del grande interesse che tale problema ha suscitato dapprima negli stessi antichi, poi negli umanisti e negli uomini del Rinascimento, infine nei moderni, va individuato nel carattere «esemplare» da sempre attribuito alla vicenda della caduta di Roma: la crisi dell’impero romano appare, infatti, quasi come il metro per intendere la storia del mondo. Cosí, gli umanisti guardano alla fine del mondo antico per cogliervi elementi utili alle battaglie politiche che li vedono protagonisti; per l’uomo del Rinascimento la crisi di Roma è dovuta all’allontanarsi dalle virtú e dalle tradizioni antiche, allo stesso modo in cui la pigrizia dei capi e l’infedeltà dei governanti sono le cause della caduta dell’Italia rinascimentale nelle mani dello straniero. La nascita e l’affermarsi degli Stati nazionali fu poi un altro fattore che stimolò un’attenzione particolare per la storia del piú grande «Stato» dell’antichità: ciò contribuisce a spiegare la fortuna del tema della decadenza e caduta dell’impero romano fra Settecento e Ottocento, secoli che hanno prodotto alcune delle opere piú significative su questo argomento. Si pensi soprattutto alla monumentale opera dello storico inglese Edward Gibbon, intitolata appunto The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (Storia della decadenza e caduta dell’impero romano). Il XX secolo si apre invece con un’opera fondamentale, che mette in discussione il concetto stesso di «decadenza» al centro della riflessione di Gibbon: Spätrömische Kunstin-

dustrie (L’industria artistica tardoromana) di Alois Riegl, pubblicata nel 1901. L’autore, partendo da un’analisi di tipo storico-artistico, giunge ad affermare la necessità di evitare giudizi di valore nella definizione di un’epoca sorica, e dunque sostituisce all’idea di una decadenza romana quella di un mondo che si rinnova e si trasforma. In tal modo Riegl crea un nuovo concetto (e, suo malgrado, una nuova disciplina specialistica) che sarà destinato a una grande fortuna: il «tardo-antico», la tarda antichità, un’epoca creatrice di una cultura per molti versi del tutto nuova. Oggi chi si occupa professionalmente di tali problematiche è definito «tardoantichista», e il mondo tardo-antico è uno dei campi di indagine preferiti dagli antichisti, al punto che gli attuali studi su quest’epoca offrono a volte un’immagine esageratamente positiva della tarda antichità, e tendono a dilatarne all’eccesso le coordinate temporali. Simili travisamenti possono forse essere evitati con una maggiore oggettività nella lettura delle fonti – che non vanno mai decontestualizzate – e tornando a riflettere sul tema della fine del mondo antico con un occhio particolare ai grandi snodi, ai momenti di cesura piú che a quelli di continuità, per cercare di comprendere le tappe fondamentali di quel processo storico che ha causato – per usare la bella formula di un grande studioso, Santo Mazzarino – «la riduzione di una grande unità alle proporzioni del possibile». per saperne di piú Alessandro Barbero, 9 agosto 378. Il giorno dei barbari, Laterza, Roma-Bari 2005; Alessandro Barbero, Barbari, Laterza, RomaBari 2007; Santo Mazzarino, La fine del mondo antico, Rizzoli, Milano 1988²; Roma e i barbari, catalogo della mostra di Palazzo Grassi (26 gennaio-20 luglio 2008), a cura di Jean-Jacques Aillagon, Skira, Milano 2007 a r c h e o 87


storia storia dei greci/10

La SFIDA dell’uguaglianza di Fabrizio Polacco

L’avvento di Clistene ebbe l’effetto di un vero e proprio terremoto politico. La sua costituzione, nel nome del riconoscimento di pari diritti a tutti i cittadini, scardinava molti dei pilastri sui quali, fino ad allora, si era retto il governo di Atene

G

li Spartani avevano aiutato Atene a liberarsi dai tiranni: ma quando videro che Clistene, nuovo leader della città, stava per procedere al varo della riforma che avrebbe dato agli Ateniesi uguali diritti politici, non esitarono ad allearsi con le città della Beozia e con quella di Calcide per abbatterlo. Non era certo per assistere all’ascesa del demos, che avevano aiutato quel nobile ateniese a cacciare il figlio di Pisistrato. Per Sparta, la lotta contro i tiranni voleva dire adoperarsi per introdurre regimi amici, aristocratici o oligarchici, nelle città attorno al loro Peloponneso. Invece Clistene, appoggiandosi al popolo, soprattutto ai ceti medi –

commercianti, piccoli proprietari, artigiani – era sul punto di attribuirgli un potere che esso non aveva mai avuto altrove. Ai «liberatori» ciò non andava affatto bene: poteva costituire un esempio pericoloso, non tanto per la stessa Sparta (dove si era perfino riusciti a evitare il costituirsi di un ceto medio), quanto per i suoi alleati peloponnesiaci; per non parlare poi di quelle regioni adiacenti all’Attica rette da regimi aristocratici. Non è dunque un caso se poi furono solo i vicini Beoti e Calcidesi ad attaccare la città mentre inaspettatamente, forse per contrasti tra i due re che

ne guidavano gli eserciti, proprio Sparta all’ultimo momento mancò all’appello. Gli Ateniesi, a ogni modo, sbaragliarono gli invasori; e quel risultato dovette apparire a molti sorprendente, dato che il loro nuovo regime egualitario doveva ancora rinsaldarsi all’interno. Ma quella non sarebbe stata che la prima di molte ancor piú clamorose vittorie che l’Atene riformata in senso democratico da Clistene avrebbe conseguito.

«Atene s’era fatta potente» Erodoto, ad alcuni decenni di distanza, commentò in questo modo l’accaduto: «E cosí Atene s’era fatta potente. Appare quindi manifesto (...) qual tesoro prezioso sia l’uguaglianza di diritti, se gli Ateniesi che, sotto l’oppressione tirannica, non si distinguevano affatto nelle arti della guerra da nessuno dei loro vicini, quando, invece, si liberarono dai tiranni, divennero di gran lunga i piú potenti di tutti. È dunque evidente


Atene. In primo piano l’agorà, la piazza in cui originariamente si tenevano le riunioni dell’Ekklesia, l’assemblea dei cittadini dotata di potere legislativo; sullo sfondo, l’Acropoli. Nella pagina accanto: ostraka (frammenti di terracotta) utilizzati dall’assemblea popolare per le votazioni di ostracismo, istituzione introdotta da Clistene che condannava all’esilio chiunque fosse sospettato di aspirare alla tirannide. Atene, Museo dell’Agorà. In alcuni di quelli riprodotti, si legge il nome di Temistocle (Themistokles), uomo politico e generale ateniese che, sospettato di atteggiamenti tirannici, fu ostracizzato verso il 471 a.C.

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storia storia dei greci/10 la costituzione di CLISTENE cittadini liberi

Divisi in dieci tribú composte ciascuna da tre trittie (terza parte di ciascuna tribú tratta da tre distretti di città, costa, interno) non contigue territorialmente

ekklesia

eliea

tribunale popolare (sorteggiati)

assemblea dei cittadini

boulé

o consiglio dei 500 (50 membri per tribú, costituenti una pritania). Organizza e coordina il lavoro legislativo (sorteggiati)

donne , schiavi , stranieri o meteci

esclusi da qualsiasi diritto

10 arconti

annuali, dal 487/6 (sorteggiati)

10 strateghi

annuali (eletti)

areopago

consiglio di ex arconti

che quando erano schiavi deliberatamente si lasciavano vincere, convinti di operare per il tiranno; una volta liberi, invece, ciascuno si dava da fare con grande zelo a vantaggio di se stesso».

Il prezzo della democrazia Quella erodotea è un’analisi lucida e chiara: in un mondo ellenico costituito da città-stato poco popolose, limitare il numero dei cittadini di pieno diritto alle classi superiori andava certo a vantaggio di queste; ma l’ampliarlo, includendovi i ceti medi, consentiva alla polis nel suo complesso di aumentare notevolmente la quantità dei cittadini-soldati, e, per di piú, li rendeva cointeressati al buon andamento degli affari dello Stato. Clistene aveva intuito questa opportunità, forse per primo nella storia, e riuscí a coglierla. Puntava a creare attorno a sé e alla sua riforma, e conseguentemente alla politica estera della città, un blocco di interessi piú ampio e piú forte. Lo dimostra bene quanto accadde subito dopo la vittoria sui Calcidesi. Egli requisí le terre che i loro nobili possedevano nell’Eubea e le assegnò in proprietà a quattromila cittadini ateniesi. Dopo gli Spartani, che da un paio di secoli si erano spartiti la Messenia, adesso erano gli Ateniesi ad attuare una colonizzazione a spese di altri Greci. Ma vi era nei due casi una sostanziale differenza: a Sparta aveva agito una aristocrazia di «eguali»; qui invece si puntava a rendere eguali («òmoioi»)

quando le regole modificano i risultati L’effetto politico della creazione di dieci nuove tribú (file) clisteniche, al posto delle quattro tradizionali, è dato dal fatto che esse fungevano, come si direbbe in termini moderni, da circoscrizioni elettorali. Oggi come allora, ridisegnando territorialmente le circoscrizioni, si può incidere sui risultati di un’elezione. Nel caso ateniese, per di piú, ogni nuova file non fu costituita da una fascia continua di territorio, ma spezzettata in tre sezioni minori (le cosiddette trittie o «terze parti») non adiacenti tra loro: per i personaggi influenti, era quindi piú difficile organizzare attorno a sé il consenso. Le tre trittie, inoltre, erano estratte da diverse zone

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geografiche dell’Attica, corrispondenti a differenti gruppi sociali. Queste zone erano: – la città e il suo sbocco sul mare (detta àsty): comprendente soprattutto ceti medi, cittadini stabilmente inurbati che praticavano l’artigianato e il commercio, anche quello marittimo; – la fascia costiera dell’Attica (detta paralia) perlopiú pianeggiante, dove dominavano le grandi famiglie aristocratiche con i loro estesi possedimenti; – la zona montuosa dell’interno (o mesògheion), abitata da piccoli agricoltori e allevatori, e quindi meno redditizia.


e benestanti i cittadini nel loro complesso, aristocratici e non. Le conseguenze ultime del meccanismo cosí avviato forse non erano prevedibili neppure dallo stesso Clistene: ma poiché ogni conquista, anche la piú bella, ha un prezzo, divenne via via piú chiaro che il prezzo della democrazia ateniese lo avrebbero pagato soprattutto gli altri Greci. Fin dai suoi primi passi, la nascente democrazia dimostrava di essere non solo un ideale politico rivoluzionario, ma anche un nuovo, efficace str umento per procacciare ricchezza e privilegi all’intera cittadinanza.

poche istituzioni. L’Areopago, il consiglio dei nobili che da tempo immemorabile aveva indicato la rotta allo Stato, e al quale accedevano di diritto solo gli ex arconti, mantenne gran parte delle sue prerogative. I magistrati cittadini, tra cui gli stessi arconti, continuarono a essere nominati solo tra le due classi censitarie superiori, quelle dei «pentacosiomedimni» e dei «cavalieri». Il coraggioso riformatore aveva sí sconfitto i nobili, ma non vole-

Legami ben saldi L’obiettivo principale della riforma politica – che Clistene, dopo aver difeso sul campo la città, poté attuare a partire dal 508/7 a.C. – era di rinnovare alla radice e rinsaldare il legame di cittadinanza tra gli Ateniesi. Rispetto alla costituzione di Solone egli modificò sostanzialmente ben A destra: cratere a calice a figure rosse raffigurante due ceramisti al lavoro sotto lo sguardo di Atena. Fine del V sec. a.C. Caltagirone, Museo Regionale della Ceramica. Nella pagina accanto: la suddivisione amministrativa dell’Attica.

Appare chiaro che inserire in ciascuna circoscrizione gruppi di diversa provenienza geografica ed estrazione sociale, poiché da ciascuna di esse proveniva un solo magistrato o un unico gruppo di rappresentanti per il Consiglio, voleva dire rompere consolidati gruppi di interessi e crearne di nuovi, rimescolati. Da ciascuna file, per esempio, proveniva uno dei nove tradizionali arconti, il cui numero venne equiparato a quello delle file aggiungendone uno come segretario. L’arconte polemarco, d’altra parte, quello che aveva sempre guidato l’esercito, fu affiancato e via via esautorato dal nuovo collegio degli strateghi, anch’essi

va esautorarli del tutto, né emarginarli dalla politica. La loro lunga consuetudine col potere e l’esperienza della cosa pubblica restavano indispensabili, anche perché Atene pareva avere piú nemici che amici attorno a sé. Inoltre, come se non bastasse, Ippia, l’ex tiranno, assieme ai seguaci rimaneva vigile in armi nei suoi possedimenti del Sigeo, sui Dardanelli; stava appollaiato lassú come un avvoltoio pronto a ripiombare in città non appena le discordie interne gliene avessero offerto l’occasione. Del resto, gli Ateniesi ricordavano bene che già piú volte suo padre Pisistrato aveva perso il potere, ma era poi riuscito a riprenderlo.

Obbligo di esilio Fu forse per questo che fu introdotta la curiosa procedura dell’ostracismo. Questa sorta di esilio decennale, imposto dalla collettività a un cittadino, non aveva bisogno di fondarsi su alcuna denuncia, alcuna prova, alcun reato. Per sanzionare simili cose c’erano le normali procedure d’accusa e i tribunali della città. No: per attivare questo provvedimento bastava «il sospetto» – verso chi aspirava alla leadership – che in realtà costui mirasse alla tirannide. Cosa ancor piú curiosa è che gli ostracizzati –

in numero di dieci, eletti uno per ogni file. Successivamente (dal 487 a.C.), gli arconti furono addirittura non piú eletti, ma sorteggiati, e questo sminuí ancor di piú l’influenza delle casate nobiliari. Il sorteggio, sistema che a noi può apparire curioso o poco rispettoso della volontà dei cittadini, sparigliando totalmente il gioco dei preesistenti gruppi di potere impediva le residue possibilità di combine e spartizioni sottobanco. Addirittura, in una sua opera Aristotele definisce sinteticamente la democrazia come «la costituzione in cui si tirano a sorte le magistrature» (Poetica, 1365 b).

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storia storia dei greci/10 e tutti gli ateniesi cambiarono nome La volontà di Clistene di creare un cittadino che si sentisse anche interiormente nuovo, risulta da un cambiamento da lui introdotto, intervenuto rarissime volte nel corso della storia: quello del sistema dei nomi personali. Sino ad allora, infatti, un Ateniese veniva identificato attraverso il nome proprio associato a quello del padre. Per esempio: «Milziade, (figlio) di Cimone», o «Clistene, (figlio) di Megacle». Tale sistema patronimico, che risaliva alle origini dell’Ellade (si pensi al «Pelide Achille»), sottolineava l’importanza del rapporto di sangue, e quindi l’eventuale appartenenza a un ghènos (la famiglia aristocratica). Tra l’altro, grazie alla consuetudine di dare a uno dei figli il In basso: mappa della Terra conosciuta nel 500 a.C. – formata dal bacino del Mediterraneo, dalla Grecia, dall’impero persiano, e dall’Egitto – realizzata nel XIX sec. sulla base delle conoscenze del geografo e storico greco Ecateo di Mileto (550-476 a.C. circa).

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nome del nonno, l’appartenenza a un determinato ghènos era facilmente percepibile, poiché al suo interno ricorrevano sempre gli stessi nomi. Clistene, invece, voleva far sentire i cittadini «piú uguali» tra loro, attenuando da un lato le disparità di prestigio sociale e favorendo dall’altro l’affermarsi di legami di tipo «politico» (nel senso di legame con l’intera polis) a scapito di quelli familiari; perciò cancellò, almeno in via ufficiale, il vecchio patronimico, introducendo a fianco del nome solo l’indicazione del demos di appartenenza. Talché si disse non piú: «Socrate, (figlio) di Sofronisco»; bensí «Socrate, del demo di Alopece».

tra i quali vi saranno alcuni tra i piú grandi leader ateniesi – accettavano l’allontanamento di buon grado. Del resto, nessuno torceva loro un capello, e, trascorso il decennio, ritornavano in città, rientravano in possesso dei loro beni e spesso riprendevano pure a cimentarsi nell’agone politico.

Rafforzare e rendere piú unita la cittadinanza era dunque fondamentale. Clistene vi riuscí con una serie di provvedimenti sagaci, che, pur senza umiliare gli aristocratici, minarono le fondamenta del loro dominio, eliminando ogni discriminazione politica tra gli Ateniesi.


Prima di allora gli abitanti di Atene e dell’Attica, come tutti gli Ioni, stirpe di cui facevano parte, erano suddivisi in quattro tribú (o file) che risalivano ai tempi del mito. Come per le piú piccole «fratrie» – alle quali erano affidati l’accoglimento nella cittadinanza dei nuovi nati, il loro passaggio alla maggiore età (con il rituale taglio dei capelli), e poi il matrimonio – si trattava di istituzioni arcaiche, basate sul sangue, su vincoli di discendenza e familiari.

Dal sangue al territorio A comandare per diritto atavico sulle tribú erano i nobili: ma il loro potere si basava anche sull’ascendente personale e su tradizionali condizioni di dipendenza degli abitanti del circondario nei loro confronti. Clistene, perciò, sostituí dieci nuove file alle antiche. Già solo questo avrebbe sparigliato non poco le carte, rimescolando i vecchi legami tra aristocratici e demos. Ma egli fece ancora di piú: infatti l’appartenenza alle nuove file non avrebbe

piú risposto a un criterio ereditario, ma territoriale: vale a dire che si entrava a far parte di una tribú solo in base alla nascita in un certo villaggio dell’Attica o in un quartiere cittadino (vedi box a pp. 90-91). A dire il vero, l’entità territoriale di base non era nemmeno la tribú, ma una ancora piú piccola, il demos. Si trattava di una minuscola porzione dell’Attica (nell’intera regione ve ne erano tra 130 e 170); esso consisteva in un villaggio coi suoi dintorni, o, nel caso dei demi interni alla città, in un rione (vedi box nella pagina accanto). Dalle nuove file, inoltre, erano tratti a sorte i 50 membri di quello che divenne l’organo politico centrale dell’Atene democratica: il consiglio dei Cinquecento, la boulé. Essa costituiva una sorta di governo. Aveva poteri politici, amministrativi e finanziari. Ogni decima parte dell’anno una delle sue dieci sezioni, corrispondente a una file, restava riunita in permanenza nel pritaneo, il cuore simbolico della città dove si trovava il focolare di Estia, ove arde-

Veduta aerea di Mileto. Nel 499 a.C., la disastrosa rivolta degli Ioni – appoggiati dagli Ateniesi – contro i Persiani culminò nella distruzione e nel saccheggio della città.

va il fuoco sacro. Di tanto in tanto, riunendosi con tutti gli altri buleuti, i pritani convocavano le assemblee popolari, ne fissavano l’ordine del giorno, preparavano le proposte di legge da sottoporre all’approvazione del demos nella sua interezza. Inoltre ricevevano, ascoltavano e davano istruzioni ai magistrati cittadini, si consultavano con gli ambasciatori stranieri prima di farli parlare dinanzi all’assemblea, controllavano le finanze e provvedevano agli armamenti dell’esercito, della cavalleria e della flotta.

Il «potere del popolo» Ma al di là di questo consiglio dei Cinquecento, rappresentativo dei cittadini attraverso le file, la democrazia ateniese non ebbe bisogno di un vero e proprio parlamento con poteri legislativi, poiché quella a cui a r c h e o 93


storia storia dei greci/10 il difficile funzionamento della democrazia In un passo della Politica, Aristotele tratta delle dimensioni ideali dello Stato o, per meglio dire, della polis: visto che «per natura» l’uomo è un animale «fatto per vivere nella polis» (e non «un animale politico» come impropriamente spesso si traduce), per lui lo Stato non dovrebbe superare certe dimensioni ideali. Infatti, se il numero di cittadini fosse troppo grande, la voce di quale araldo, anche se tonante come quella dell’omerico Stentore, potrebbe arrivare a tutti? Il filosofo non lo esplicita, ma si sta riferendo all’araldo dell’assemblea, quello che doveva parlare di fronte ai cittadini riuniti. In assenza di mezzi tecnici di amplificazione, ma soprattutto a causa della necessità di discutere in modo chiaro e razionale le complesse scelte da compiere, è evidente che il numero dei partecipanti non avrebbe potuto essere eccessivo. Pare che Atene, da Clistene in poi, abbia contato circa 30/40 000 cittadini, cioè aventi diritto di partecipare all’assemblea. Ovviamente per i piú vari motivi non si raggiungeva mai questa cifra. Sappiamo infatti che per votare provvedimenti delicati, come l’ostracismo, il numero legale minimo era di 6000 partecipanti: tale quantità doveva corrispondere a una nostra «maggioranza qualificata», ancora oggi necessaria per un certo tipo di provvedimenti. Se ne deduce quindi che in genere il numero dei partecipanti alle assemblee popolari potesse essere ancora minore, forse di poche migliaia. Fa comunque impressione pensare che una tale massa di persone senza alcuna particolare qualifica poté prendere decisioni capaci di influenzare, quando Atene vivrà il secolo della sua egemonia, il corso della storia del mondo antico.

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Clistene diede avvio fu una democrazia in senso pieno, un vero «potere del popolo»: una democrazia diretta. I cittadini ateniesi, tutti e in prima persona, approvavano le leggi, votavano la pace e la guerra, approvavano i trattati internazionali e le principali scelte di politica estera; inoltre, infliggevano le condanne a morte, o all’esilio o alla confisca dei beni, anche e soprattutto quando colpivano gli stessi magistrati. Cosí, quando si era prossimi a una delle quattro assemblee mensili ordinarie, e a maggior ragione quando se ne indiceva una straordinaria, se ne dava l’annunzio fino ai piú sperduti villaggi dell’Attica. Se l’argomento all’ordine del giorno era importante o suscitava interesse, anche i piú umili tra i contadini indossavano mantello e scarponi, afferravano il bastone e


la bisaccia con un po’ di cibo, e si mettevano in cammino, molto prima dell’alba, per arrivare in tempo in città: dapprima l’ekklesia (questo il nome dell’assemblea ateniese) si riuniva nell’agorà, poi sulla collinetta della Pnice, dove fu appositamente costruita una struttura per il suo svolgimento (vedi box nella pagina accanto). Certo, non tutti avevano l’interesse, il tempo, e, soprattutto, gli strumenti culturali per intervenire attivamente; e infatti, almeno in una prima fase del nuovo regime, i capi politici continuarono ad appartenere alle famiglie nobili. Ma la novità era comunque fondamentale, poiché i leader della democrazia dovevano essere eletti, approvati, sostenuti dalla maggioranza del demos. Si trattava di un esperimento politico audace, dapprima quasi isolato L’assemblea degli Ateniesi vota per decidere l’esilio di un concittadino ritenuto pericoloso per la sicurezza dello Stato (ostracismo).

in Grecia, ma che ai popoli stranieri, i cosiddetti «barbari», dovette sembrare addirittura inaudito. E proprio con uno di questi popoli, il piú potente di tutti, la giovane democrazia si accingeva a lottare per la sopravvivenza.

Una rivolta azzardata Chissà se gli Ateniesi che nel 499 a.C. decisero in assemblea di inviare una ventina di navi in soccorso degli Ioni in rivolta contro il re di Persia, si erano resi conto delle conseguenze del gesto. Forse se ne avvidero già l’anno dopo, quando le richiamarono in patria: quei Greci d’Asia erano sí riusciti a dare alle fiamme Sardi, capitale della satrapia occidentale dell’impero, ma poi le cose si erano messe da subito male. Per quello Stato immenso, che aveva unificato tutte le monarchie dell’Oriente, una simile sconfitta non rappresentava che una puntura di spillo, fastidiosa finché si vuole, ma ininfluente sul lungo periodo. Del resto, gli stessi promotori della rivolta erano consapevoli delle loro scarse probabilità di riuscita. Aristagora, il tiranno di Mileto che per primo aveva osato rivoltarsi contro il Gran Re Dario – che pure sino a quel momento aveva servito –, era andato fino a Sparta per chiedere aiuto, illustrando i suoi piani con l’ausilio di una delle prime carte geografiche ricordate dalla storia. Ma quando, nel corso del colloquio, gli era sfuggita la verità, e cioè che la capitale di quell’impero distava tre mesi di viaggio dalle coste dell’Egeo, gli Spartani l’avevano congedato senza concedergli nulla, pensando che fosse un illuso o un pazzo. Solo Atene, e la piccola Eretria che aveva aggiunto cinque navi, avrebbero mandato un aiuto, piú per solidarietà di stirpe con gli Ioni che per altro. E perfino Ecateo, uno degli intellettuali di grido di Mileto, aveva messo in guardia i concittadini dal promuovere l’azzardata ribellione, suggerendo allo stesso tempo quello che gli pareva l’unico mezzo per evitare che sfociasse in un disastro.

Tanta era la disparità delle forze con i Persiani, diceva, che gli Ioni potevano salvarsi solo allestendo una grande flotta, tanto grande da potersi difendere almeno sul mare dalla soverchiante potenza dei nemici, che era soprattutto terrestre. Per far questo vi era un’unica possibilità: spogliare delle offerte in metalli preziosi uno dei piú celebri santuari della Ionia, quello di Apollo Didimeo – il maggior deposito di ricchezze che avessero a portata di mano – e impiegarle per la costruzione delle navi.

La fine di Mileto La maggioranza degli Ioni, forse per un eccesso di pietas verso il dio, non fece propria la spregiudicatezza di Ecateo. Il risultato fu che quando i Persiani, riorganizzatisi, ebbero la meglio sui ribelli (e proprio grazie a una battaglia navale, quella di Lade nel 494 a.C.), non solo il santuario venne empiamente saccheggiato, ma la stessa Mileto fu presa e distrutta. I suoi abitanti, tutti, furono deportati in schiavitú sulle rive del Golfo Persico. L’annuncio della catastrofe gettò Atene nella costernazione. Si narra che tutti i cittadini si sciolsero in lacrime per la fine di Mileto, quando un tragediografo, Frinico, la mise in scena nel teatro ai piedi dell’Acropoli. La loro nuova democrazia li rendeva ora tutti responsabili della scelta di aiutare gli Ioni, e Dario non avrebbe certo dimenticato quel gesto di sfida: sapevano bene che, prima o poi, sarebbe venuto anche il turno di Atene. (10 – continua) le puntate di questa serie Ecco gli argomenti dei prossimi capitoli di questa storia dei Greci: • Le guerre persiane • La democrazia navale di Atene • L’età di Pericle • La guerra tra Sparta e Atene • Una magnifica meteora: Alessandro il Macedone • Mirabili frantumi: gli eredi dell’impero alessandrino a r c h e o 95


archeotecnologia

lAVORARE con lentezza

di Flavio Russo

Il rilievo su una stele funeraria trovata a Hierapolis, in Frigia, mostra una raffigurazione insolita, che, a ben guardare, rappresenta una preziosa e straordinariamente accurata testimonianza dell’impiego di grandi macchinari per il taglio delle lastre di marmo. Seghe industriali che operavano a bassi regimi, ma potevano funzionare 24 ore su 24

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P

artendo dal presupposto che nell’antichità non fossero disponibili lampade efficaci, si è sempre esclusa l’esistenza di attività produttive continue, giorno e notte. L’unica eccezione era l’estrazione mineraria, condotta sempre al tenue chiarore delle lucerne e, perciò, mai interrotta. La realtà, però, non sembra altrettanto drastica, poiché abbiamo conferme, anche archeologiche, dell’esistenza di impianti operanti 24 ore su 24 – o, come si direbbe oggi, a H 24 –, per lavorazioni non piú arrestabili una volta avviate e ampiamente eccedenti l’arco diurno. Tali attività avevano come denominatore comune la necessità

di poca manodopera e con compiti di mero controllo, come nelle fornaci per vasi o mattoni o nei forni fusori, o l’esasperante lentezza del procedimento.

Sabbia sotto le lame In quest’ultima tipologia ricade la produzione di lastre di marmo con seghe idrauliche, alle quali occorrevano intere giornate per il taglio. Essendo macchine autonome, richiedevano solo l’aggiunta di sabbia sotto le lame e il controllo del corretto avanzamento, interventi compatibili con la luce di una lanterna. Un rilievo su un sarcofago databile tra la seconda metà e la fine del III secolo d.C., che raffigura

Nella pagina accanto: frammento di sarcofago con rilievo raffigurante una macchina a energia idraulica che muove il sistema di ruote dentate e biellismi di una sega per tagliare i blocchi di marmo e di travertino, dalla Necropoli Nord di Hierapolis, Frigia. Seconda metàfine del III sec. d.C. In questa pagina, in alto: la grande ruota d’uscita del riduttore con innanzi una delle due ruote-manovella coassiali e le relative bielle di azionamento delle seghe; a sinistra: la turbina con la ruota d’uscita del riduttore e il canale di alimentazione. Dall’epigrafe incisa sul monumento, si apprende che il titolare della sepoltura, M. Aurelios Ammianos, era stato il costruttore (forse il proprietario che lo aveva anche perfezionato) del meccanismo raffigurato.

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archeotecnologia La sega idraulica di Hierapolis Il moto alternativo delle grandi seghe a lame multiple, avveniva spingendo e tirando i loro pesanti telai, tramite spesse bielle di ferro. Per mantenerli costantemente nella giusta posizione verticale erano fatti muovere in apposite guide di legno.

I blocchi da segare dovevano essere preventivamente squadrati se si volevano lastre di dimensioni uguali, particolarmente richieste per pavimentazioni e rivestimenti di grandi edifici.

appunto una macchina del genere, oltre a confermarci implicitamente quanto delineato sul lavoro notturno, ci consente di retrodatare di oltre un millennio il dispositivo meccanico manovella-biella, finora 98 a r c h e o

ascritto al tardo Medioevo. Prima di descriverlo occorre una breve premessa tecnica, per coglierne a pieno le peculiarità e il forte anticipo accennato.

seconda, dovendo incidere e asportare all’esterno il materiale di risulta. Adottando una ruota idraulica come forza motrice, si dovevano perciò risolvere due distinti problemi: trasformarne il moto rotatorio in alternato, ed equilibrare le due fasi. Un moto in due fasi Il funzionamento di una qualsiasi Per la storia della tecnologia il masega, per il legno come per la pie- novellismo di spinta rotativa, cotra, dal punto di vista meccanico è munemente detto meccanismo caratterizzato da un moto alternato biella-manovella, è quello che opein due fasi, taglio e ritorno, la prima ra la suddetta trasformazione e i con resistenza molto maggiore della cui archetipi embrionali si ravvisa-


La parte superiore rotante di una macina a mano di epoca romana. Mondragone, Museo Archeologico. Il perno di ferro, che fuoriesce presso il bordo, era impegnato dalla mano destra per farla girare sopra un’altra pietra munita di bordo. Dal foro centrale si immetteva il grano.

La ruota-manovella con la relativa biella. Abitualmente immaginiamo la manovella come una leva angolata – tipica quella del cric –, ma essa poteva essere realizzata anche a forma di disco con un perno eccentrico. Erano di questo tipo le ruote motrici delle locomotive a vapore e, millenni prima, le macine a mano per il grano.

no già nel IV secolo a.C.; quanto all’equilibratura, le prime tracce si scorgono soltanto intorno alla metà del XIX secolo nelle ruote delle locomotive a vapore! Del resto l’invenzione della sega idraulica viene correntemente collocata sul finire del Quattrocento e attribuita a Francesco di Giorgio Martini! Un congegno, dunque, che non sarebbe dovuto esistere ma che, invece, oltre al bassorilievo, trova conferma in blocchi in corso

bina idraulica, del tutto simile a quella di Venafro (vedi «Archeo» n. 298, dicembre 2009), fatta girare da una caduta di acqua, convogliata da una canalizzazione. Si può peraltro distinguere una saracinesca per variare il flusso in funzione dell’esigenza e arrestarlo al termine del taglio, il che sembra suggerirne la provenienza da un bacino a livello costante, derivato da un fiume tramite uno sfioratore (opera idraulica di taglio e, curiosamente, in alcuni atta a impedire che il livello in un suggestivi versi del poeta Decimo bacino o in un corso d’acqua superi Magno Ausonio (310-395) che, determinati limiti, n.d.r.). nella sua Mosella (vivida descrizione del paesaggio lungo le rive di Tutto nasce dalla turbina questo fiume), cosí ne ricordavano La turbina è montata in testa a l’ininterrotto stridio proveniente un lungo albero, alla cui opposta dai laboratori collocati sul corso estremità si scorge una ruota a d’acqua: quattro raggi, di notevole diameFacendo girare le macine dei cereali con tro, a sua volta tangente a un’altra giro veloce e tirando ruota appena piú piccola, dalla le seghe dentate attraverso le pietre quale si dipartono due listelli di levigate, raccordo con le seghe. La proascolta i perpetui rumori dall’una e spettiva della raffigurazione, mai dall’altra riva. come in questo caso di estrema A Hierapolis, in Frigia, è stato sco- complessità, tenta di stabilire una perto o, per meglio dire, studiato il sorta di graduatoria meccanica: la curioso rilievo sul sarcofago della turbina è l’elemento fondamentaseconda metà (o fine) del III secolo le di cui si ribadisce l’alimentaziod.C., dedicato a un certo M.Aurelios ne per caduta, seguita dalle diverse Ammianos, forse il titolare di una componenti del congegno. segheria di marmi. Di certo sul mo- Essendo la turbina affine a quella di numento spicca una ruota idraulica Venafro, non superava per ragioni che aziona due seghe contrappo- costruttive il diametro di 3 m, con ste, che stanno tagliando altrettanti una decina di palette, larghe 30-40 blocchi di marmo. cm, sulle quali batteva l’acqua, fuoSe in precedenza, in base alle sole riuscente, quasi a contatto, dal castriature sulle lastre di marmo, sem- nale convogliatore. Alimentandola brava perlomeno azzardato suppor- con una decina di l/s e supponenre l’esistenza di seghe idrauliche del do un modesto attrito sui supporti genere, ipotizzandone per giunta dell’albero, avrebbe girato a circa le caratteristiche, l’interpretazione 120 giri al minuto, imprimendo aldel bassorilievo ha cancellato ogni trettanti va e vieni alle seghe. Scarsa dubbio. doveva essere la sua potenza, non La macchina utensile in questione, eccedente i 2,5 kw (comunque pari infatti, era composta da una tur- al lavoro di otto uomini), insuffia r c h e o 99


archeotecnologia La sega idraulica di Efeso I ruderi di una segheria idraulica ritrovata presso Efeso, tramandano l’adozione di un canale di alimentazione fuoriuscente direttamente nel locale macchine, munito forse di uno sbalzo per far cadere l’acqua esattamente sulle palette della turbina.

La trasmissione del moto avveniva anche in questa macchina tramite un biellismo. Non vi era però alcun riduttore, probabilmente per la maggiore potenza della turbina, alimentata da un flusso idrico piú abbondante e di piú alta caduta.

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Considerando che il diametro abituale delle diverse ruote idrauliche romane finora ritrovate era di 3 m circa, si deve concludere che la parte verticale del muro del locale fosse almeno di 4-5 m, non risultando altrimenti compatibile con la turbina.

Le palette della turbina si devono immaginare larghe 30 cm circa, e lunghe 150 cm circa, incastrate nel mozzo e mantenute stabili da due spessi cerchioni, di ferro o di bronzo, posti su entrambi i lati. Non vi era sostanziale differenza tra le turbine usate nei mulini e quelle delle segherie.


ciente a vincere in presa diretta la resistenza di due lame di oltre 2 m, che dunque imponeva il ricorso a un riduttore.

Per ridurre i rapporti Questo consisteva in un rocchetto montato sull’albero della turbina, coperto nel rilievo dalla ruota a pioli a quattro raggi con cui ingranava, solidale a sua volta alle due ruote-manovelle, una sola visibile nel rilievo, le cui bielle azionavano le seghe. Supponendo il rapporto tra ruota e rocchetto di 1/5 o 1/3, i cicli si sarebbero ridotti a una trentina, con rilevante vantaggio meccanico, riuscendo perciò congrui all’impiego. Non si può, tuttavia, scartare l’ipotesi che per portate d’acqua maggiori o con maggiore dislivello, il riduttore di giri non fosse necessario, risultando sufficiente la potenza erogata. La disposizione contrapposta delle bielle equilibrava gli sforzi, facendo corrispondere all’azione

di taglio della prima sega il ritorno nella seconda e viceversa. Le ruote-manovelle, come accennato, non erano una novità, poiché altro non erano che la mutazione meccanica delle macine a mano per il grano, peraltro già utilizzata nelle pompe di sentina delle navi di Nemi. Essendo due le seghe, erano, ovviamente, due anche tali ruote, collocate a sbalzo alle opposte alle estremità dell’albero della ruota a pioli. Avevano perciò un diametro rilevante, dal quale derivava la corsa delle seghe, che, per intuibili ragioni, doveva essere la maggiore possibile, per sfruttare al massimo le potenzialità abrasive della sabbia sotto le lame. Pertanto, supponendo un diametro di 3 m per la turbina, quello della ruota di uscita del riduttore sarebbe stato di 1,5 m circa e quello delle manovelle di 1 m circa, con un’escursione delle lame anch’essa pari a 1 m. Le bielle, che dovevano tirare e spingere le seghe, erano barre di ferro, terminanti con un occhio di testa per l’innesto sul perno della ruota manovella e una forcella di coda, a perno passante, per l’aggancio con la sega. Onde evitare che durante il taglio le lame deviassero dalla verticale, sebbene non raffigurate, si devono immaginare lunghe guide a cavalletto all’interno delle quali avveniva l’andirivieni dei telai delle seghe e la lenta discesa delle lame. Queste, infine, costituite da sottili e larghe strisce di rame o di bronzo prive di denti, ma idonee al trasporto della sabbia all’interno del taglio, erano in genere dalle due alle quattro affiancate per ciascuna sega, consentendo cosí il taglio simultaneo di piú lastre di identico spessore e perfettamente parallele. La loro messa in tensione avveniva con una corda fissata ai bracci del

La sega di Efeso veniva abbassata dal peso dei telai orizzontali, piú robusti e spessi, e della lame multiple. Risultando il loro insieme probabilmente eccessivo, soprattutto tenendo conto della mancanza del riduttore, fu alleggerito tramite contrappesi, sospesi a carrucole fissate alla struttura di sostegno.

telaio e ritorta mediante un tenditore, come in quelle tradizionali per il legno. A effettuare il taglio provvedeva la sabbia abrasiva, che, mediante l’acqua, veniva fatta penetrare nella fessura prodotta dalle lame. Il peso delle seghe forniva la giusta pressione alle lame per farle tagliare, sebbene non si possa escludere l’adozione di ulteriori zavorre.

Le altre seghe idrauliche Di altre due segherie per marmi, rispettivamente una a Efeso, in Turchia, e l’altra a Gerasa, in Giordania, sono stati identificati il locale delle macchine e le tracce delle stesse, nonché, nella prima, una coppia di blocchi in corso di taglio, e, nella seconda, alcuni rocchi di colonne anch’essi in corso di taglio, reperti che consentono un riscontro funzionale. La prima segheria, che sembrerebbe rimontare al V-VI secolo, appare piú evoluta della precedente, sebbene sia sempre costituita da due seghe a telaio, a piú lame, azionate da un’unica ruota idraulica, senza riduttore. Era ubicata all’interno di un’ampia sala di 13 x 11 circa, in cui la macchina occupava una superficie di 8,5 x 3 m. I resti dei blocchi fanno ritenere che i telai delle seghe fossero posti orizzontalmente, soluzione che permette di ottenere un taglio preciso senza guide, ma soltanto con semplici contrappesi. I blocchi in corso di taglio sono di 3 m circa di lunghezza, per 1-1,2 di altezza e 0,5-0,6 di larghezza, mentre le lastre sono dello spessore di 3,5-4,5 cm circa e le lame, quattro per telaio, a loro volta di 5-10 mm di spessore. La segheria di Gerasa, invece, era ubicata in una sala rettangolare di 8,5 x 6,5 circa, che faceva parte del santuario di Artemide, coperta da una volta e con una apertura sulla strada, larga 1,5 m circa. Nelle adiacenze sono stati ritrovati resti di colonne in corso di riduzione in lastre da 40 mm di spessore, verosimilmente per pavimenti, con seghe a quattro lame di 5 mm circa di spessore. a r c h e o 101


Il mestiere dell’archeologo Saper ascoltare Le provocazioni contenute in un recente pamphlet rinnovano il dibattito sulle strategie a favore di una migliore fruizione del nostro patrimonio n un suo breve scritto, L’arte di ascoltare, Plutarco sostiene che, in Ipresenza di una discussione, si debba tenere da parte ogni considerazione circa la notorietà di chi parla, per «valutare esclusivamente il valore intrinseco delle sue argomentazioni». Questa saggia

raccomandazione mi è tornata in mente in questi ultimi tempi, quando un battage pubblicitario fuori dal comune ha promosso l’uscita di un libro dal sottotitolo intrigante: La bellezza ingabbiata dallo Stato.Ancor piú strano il titolo, non per il fatto che coincide con il Roma. La presentazione del restauro del Piè di Marmo, monumento molto amato dai Romani e restaurato a cura del FAI, nel 2010. Nella pagina accanto: la copertina del libro di Luca Nannipieri, dal titolo Salvatore Settis. La bellezza ingabbiata dallo Stato.

di Daniele Manacorda

nome di una persona, ma perché questa persona, Salvatore Settis, lungi dall’identificarsi con una voce di enciclopedia, è invece ben nota al Who is who? di coloro che sono in prima linea nel dibattito sul patrimonio storico, artistico e paesaggistico del nostro Paese e sui modi migliori per conoscerlo, proteggerlo, valorizzarlo (come conferma l’intervista pubblicata in questo numero, alle pp. 16-20). Il titolo, dunque, vuole avere un alto tasso di attualità e, al tempo stesso, di polemicità. Benissimo. Di qui l’impegno che ha sostenuto l’uscita di quello che, a dire il vero, è poco piú di un opuscolo che, lí per lí, lascia temere che la montagna abbia partorito un topolino. Il che non è affatto detto: i cinque caratteri che rappresentano la teoria della relatività di Einstein hanno cambiato il mondo. La breve mole non infastidisce, dunque. Può irritare il risvolto di copertina, dove l’autore confessa i suoi 32 anni e si proclama con una certa nonchalance «già collaboratore» di importanti giornali nazionali, fondatore di un Centro di Studi Umanistici e direttore di un festival che ospita «le maggiori personalità della cultura italiana». Apprendiamo poi sgomenti che il libro che abbiamo tra le mani sarà l’appendice di ben cinque tomi dedicati al tema della bellezza, di cui il primo non è ancora uscito… e insomma, capiamo che il nostro autore forse non conosce il fascino dell’understatement, comportamento che comunque non pratica. Ma che peraltro non è obbligatorio. In questo Paese gerontocratico, dove la strada per i giovani si fa sempre piú stretta e in salita, sarebbe quanto meno ingeneroso attaccarsi a sbavature di stile. Una certa arroganza è forse una prerogativa necessaria per gli aspiranti rottamatori, di cui peraltro


abbiamo bisogno. Luca Nannipieri definisce provocatoriamente il suo esile testo come un «libercolo», e probabilmente non lo pensa. Noi abbiamo letto tutto d’un fiato – la fatica è poca – questo suo nonlibro, attratti da due parole: «Settis», per i motivi su ricordati, e «Stato». Distratti invece dall’enfasi posta sulla «bellezza», ambigua definizione che lascerei al lessico di Vittorio Sgarbi, fintanto che non vengano meglio chiariti i suoi rapporti con l’intero patrimonio culturale del nostro Paese. Il tema sta peraltro a cuore a Nannipieri, perché vi torna piú volte nel testo, evocando quello che lui chiama «il mistero della bellezza e della comunità. Che è come dire: il mistero del perché esistiamo e del perché ci leghiamo». Urge una spiegazione che chiarisca il senso. Beni culturali e individuo Il testo si compone dunque di 27 paginette, gran parte delle quali servono a sintetizzare il pensiero di Salvatore Settis e a dichiararsi d’accordo – è un artificio retorico – con la maggior parte dei suoi ragionamenti. Gli si riconosce chiarezza di lingua e di visione. Il patrimonio – come Settis non si stanca di ricordare – è effettivamente «un bene inalienabile e fondamentale». Cionostante, le sue posizioni sono viziate da un «pericolo di fondo», nascondono anzi un «pensiero insidiosissimo», che produce «una vittima: la persona». L’impegno di Settis – continua Nannipieri – verte sulla «struttura», sull’impalcatura di leggi, ordinamenti, amministrazioni, istituzioni e competenze, rispetto alle quali il resto (le singole persone, appunto) sarebbe irrilevante, «come se tramite le leggi si potesse costruire un mondo migliore prescindendo dalla persona, come se fosse lo Stato a costruire il contenuto della coscienza dei singoli individui». Salvatore Settis non ha bisogno di difensori d’ufficio e sa benissimo se e come rispondere a queste

legittime e opinabilissime critiche. Resta l’impressione che il suo nome sia stato tirato in ballo per fini pubblicitari. Come che sia, chi scrive – che nello Stato etico di Hegel non ha mai creduto, e che semmai si affida alla libera coscienza critica di Kant – non ha dubbi sull’importanza del ruolo insostituibile delle strutture pubbliche nel governo del patrimonio; ma vuole fare uno sforzo salutare per non lasciarsi fuorviare dalle forme un po’ sgangherate con cui l’irruenza rottamatoria di Nannipieri mette i piedi nel piatto, per cercare di cogliere, al di là di queste, il senso

del messaggio, l’aspetto propositivo della critica.Anche perché l’autore afferma di volersi dissociare dalla «cultura tutta novecentesca» che attribuisce a Settis, e io non sono alieno dal credere che uno dei mali nei quali ci arrovelliamo sia proprio la nostra incapacità di prendere le distanze da questo «secolo breve» in cui siamo nati e cresciuti e che sembra non voler finire mai. Andando all’osso, dunque, che cosa ci propone Nannipieri? Il punto focale del ragionamento è questo: siamo abituati a pensare che il patrimonio culturale sia un bene di per sé, perché è alla base della nostra identità e unità come popolo italiano. «Noi invece – si legge –

pensiamo il contrario: niente è un bene di per sé». E infatti la storia dimostra che con il mutare delle condizioni sociali e culturali il valore assegnato da una società al suo patrimonio è andato continuamente cambiando, che la distruzione o il degrado hanno azzerato ciò che un tempo era oggetto di manutenzione e venerazione, e nulla ci dice che tra duecento anni (o molto prima: guardiamo il paesaggio delle periferie e delle coste) ciò non tornerà a ripetersi. «Poniamo dunque lo sguardo anzitutto sulla persona – esorta Nannipieri – e sul suo rapporto con queste realtà, che non sono a prescindere un bene», perché un bene culturale è davvero vivo solo nel momento in cui lo incontri «e quell’incontro aumenta il senso critico della tua vita, arricchendola». Un patrimonio negletto Dalla struttura che governa il patrimonio l’attenzione si sposta dunque sulle persone, il loro pensiero, la loro esperienza. «Esistono – infatti – piccole comunità, singoli individui, non riconosciute aggregazioni che stanno svolgendo lavori esemplarmente vivi e fecondi sui beni culturali». E si tratta il piú delle volte di persone non necessariamente titolate, estranee alle istituzioni, ma pronte a dare quel «contributo di idee, esperienze, innovazione, spirito creativo e utopico» che dà senso e centralità a un bene. Eppure questo patrimonio di esperienze non viene percepito, né tanto meno valorizzato. L’Amministrazione pubblica non si accorge di loro, non si interessa di ciò che accade al di fuori di sé, dell’attenzione che al patrimonio culturale è prestata da chi non ha (apparentemente) nessun titolo per esercitarla. E invece occorre essere pronti a lasciarsi sorprendere dai modi, anche i piú inusitati, con cui questa attenzione liberamente si manifesta, per sostenere e incoraggiare chi compia un lavoro vivo e partecipato sul nostro

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patrimonio culturale cosí capillarmente diffuso, «a prescindere dalla condizione sociale di appartenenza, a prescindere dalla competenza strettamente disciplinare, a prescindere dalla forza del suo pensiero». Trasmettere le «attenzioni» Ciò che dà sostanza alla nostra identità – prova a dirci l’Autore – non può essere solo il passato. Occorre anche un nostro contributo alla conservazione di questa identità (e aggiungo io: alla sua perpetua modifica). Perché – ecco la conclusione – l’identità non è ciò di cui sei fatto, è ciò di cui sei consapevole.Tramandare una ricchezza non significa tutelarla nel tempo, ma darle un significato agli occhi di chi verrà dopo di noi. «Questo è il lascito, cioè una trasmissione non di beni ma di attenzioni». Per questo motivo il patrimonio non è un insieme di opere, ma è «un processo educativo in cui una civiltà interroga le ragioni di se stessa nell’anima di ciascuno». Adottando il metodo di Plutarco, chi scrive non ha difficoltà a sentirsi in sintonia con il «succo» di questo sgarbato libercolo. E se Nannipieri parla di persone e di comunità, e tende a sfumare la considerazione sociale in cui si manifesta questa capacità di «attenzione dal basso» verso il nostro patrimonio; e vede forse piú la dimensione dell’Io che non quella del Noi (forse interpretando una delle aspirazioni di questo secolo, per le quali siamo portati ancora e sempre piú a uscire dalla dimensione individuale senza tuttavia negarla), penso che questo rientri nell’approccio in certa misura spiritualista del suo argomentare, che non è il mio, ma che non cambia la sostanza del problema. Un’operazione editoriale francamente discutibile può dare dunque l’occasione per una riflessione pacata e forse utile. Siamo intervenuti piú volte nelle pagine di questa rubrica per cercare di chiarirci i nessi e le differenze fra i momenti della ricerca, della tutela e della valorizzazione dei nostri

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Roma, uno scorcio del Museo Atelier Canova Tadolini, nelle cui sale si può cenare circondati da sculture, modelli preparatori e strumenti del mestiere appartenuti ad Antonio Canova e all’allievo Adamo Tadolini.

beni culturali, in particolare di quelli archeologici, che sono spesso tra i piú reticenti e difficili da raccontare. E ci siamo detti che non esiste una verità pubblica relativa al senso del nostro patrimonio culturale.Tutti hanno diritto alla libertà di ricerca su di esso; lo Stato (o meglio, la Repubblica, come dice la nostra Costituzione) deve garantirne la tutela e la sua conservazione nel futuro; ma questa

non può essere affidata solamente alla legge. Nessuna prescrizione salverà dalla distruzione o dall’abbandono ciò che non sarà piú percepito dalla grande massa dei cittadini come meritevole di cura e attenzione. Una funzione da condividere Per questo la valorizzazione è una funzione sociale, che riguarda come protagonisti assolutamente tutti,


nessuno escluso: dalle istituzioni pubbliche a questo preposte alle associazioni culturali, ai singoli cittadini. La valorizzazione (se intesa come strumento mediante il quale si motiva il diritto del nostro patrimonio di essere trasmesso al futuro) deve chiamare a raccolta tutte le energie potenziali presenti nel nostro Paese e anche al di fuori dei suoi confini. La vera tutela è quella che nasce dalla

consapevolezza del «valore» che si intende salvaguardare. Per questo noi stessi, gli «addetti ai lavori», dovremmo saper fare qualche volta un passo indietro, dovremmo fermarci ad ascoltare quanto fa, nei diversi modi in cui i cittadini si aggregano, e quanto ci dice una società che, sulla base delle proprie esigenze ed esperienze, dà un senso sempre nuovo a un patrimonio ogni giorno piú antico.

Chi per mestiere ricerca, tutela, valorizza non perde nulla in questo ascolto, anzi trova una ragione in piú per il suo compito, che sarà quello di fornire a tutti i migliori strumenti per elaborare una libera e critica restituzione di senso a quanto sta alle radici della nostra identità di oggi e produrrà i germogli della nostra identità di domani, in continua trasformazione.

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Antichi ieri e oggi

di Romolo A. Staccioli

La viabilità al tempo dei Romani/2

La storia raccontata dai nomi Le persistenze linguistiche e la toponomastica sono le prove piú evidenti dell’ampiezza e della capillarità del sistema stradale messo in opera dall’antica Roma testimoniare della longevità delle strade romane, attraverso A una sorta di eredità ancora

operante, ci sono le sopravvivenze di tipo onomastico, che non sono soltanto un fenomeno linguistico. Anch’esse numerose, spesso sorprendenti e del tutto insospettabili, a cominciare dal nome stesso che, in tutte le lingue occidentali, neolatine, germaniche e anglosassoni, usiamo per indicare proprio la strada, nella sua diversa tipologia. Se, infatti, il termine latino di via s’è conservato, inalterato, quasi soltanto in italiano (ma, in qualche caso, anche in spagnolo e portoghese e nel francese voie), dall’appellativo di strata che i Romani davano alla via lastricata (via strata o, piú correttamente, lapidibus strata, dal participio del verbo sternere), sono derivati sia l’italiano strada (di fatto, sinonimo di via) sia il tedesco Strasse che l’inglese street. Dall’appellativo rupta, invece (col quale nel Medioevo veniva indicata una vecchia strada romana malridotta e dissestata o interrotta e parzialmente in disuso), sono venuti il francese route (col portoghese ruta) e l’inglese road (a parte l’italiano rotta, nel senso di «percorso da seguire»). Si può continuare. Dal latino tardo ruga (conservato ancora a Venezia, col diminutivo rugheta) sono venuti il francese rue e il

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portoghese rua. Cosí, dal latino callis (sentiero, pista) è venuto lo spagnolo (e il veneziano) calle. Mentre dal nome della strada di città, vicus (conservatosi nel napoletano vico), è venuto l’italiano vicolo. Ma non basta. Perché dall’appellativo calciata dell’espressione latina via calciata, cioè lastricata con pietre di calcare, sono derivati lo spagnolo calzada e il francese chaussée. Mentre il francese carrouge (col genovese carruggio) e il catalano carrer risalgono al latino quadrivium attraverso la forma popolare quadruvium. Da questa viene anche il toponimo friulano «Codroipo» che, a prima vista, difficilmente farebbe pensare al latino. Dal Forum alla città Siamo cosí entrati nel campo dei toponimi, che con le antiche strade romane hanno un rapporto piú o meno diretto, ma sempre inequivocabile e spesso significativo. I casi sono innumerevoli, specialmente in Italia. Ma non solo. Per restare soprattutto dalle nostre parti, si può cominciare con le città che, essendo nate da quegli speciali luoghi di tappa, d’incontro e di mercato (già previsti al momento dell’apertura d’una strada, solitamente a metà circa del suo percorso) chiamati col nome composto di Forum seguito da un

appellativo tratto – come quello della stessa strada – dal nome del «costruttore», hanno continuato a essere chiamate col nome antico, piú o meno... rielaborato e soprattutto contratto, ma sempre sufficientemente «trasparente». È il caso di Forlí, da Forum Livi, Forlimpopoli, da Forum Popili, Fossombrone, da Forum Semproni, Fordongianus, da Forum Traiani. Ma anche in Francia c’è Fréjus che


viene da Forum Livi, mentre la collina di Fourvière, nel cuore della vecchia Lione (l’antica Lugdunum), deriva quel nome da Forum Vetus. Cosí come la nostra Fornovo viene da Forum Novum. Si può aggiungere che dal nome di uno di questi Fora, un altro Forum Iulium, oggi Cividale, è derivato, per contrazione, quello della regione Friuli, mentre dalla via Iulia (Augusta) è venuto il nome di

(Venezia) Giulia. Sempre a proposito di regioni italiane, si può ricordare il caso dell’Emilia, che conserva il nome già anticamente derivato da quello della via Aemilia che ancora l’attraversa. Ci sono poi i nomi di centri abitati nati dopo la fine del mondo antico, che sono ugualmente derivati da quello della strada romana sulla quale (e spesso, per la quale) quei centri nacquero.Tra i tanti, si

Una veduta aerea del ponte di età traianea che attraversa il fiume Tago nei pressi di Alcántara (Estremadura, Spagna sud-occidentale). Il toponimo della cittadina deriva dall’arabo el-Kantara («il ponte»).

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Copia di un rilievo di età romana raffigurante l’arrivo a una mansio (stazione di sosta lungo le strade). Roma, Museo della Civiltà Romana.

possono ricordare Postioma, nel Trevigiano, dalla via Postumia, Agna, nel Padovano, dalla via Annia (strada a cui è peraltro dedicato l’articolo alle pp. 42-59) Loreggio, dalla via Aurelia; mentre in altri casi, come Stra e Stradella, i toponimi si riferiscono genericamente a una strada, senza appellativi. L’origine nella distanza... Innumerevoli sono i toponimi che derivano dalla presenza di cippi miliari, o meglio, che continuano quelli già in antico riferiti ai miliari. Sempre soltanto a titolo d’esempio, si possono citare i casi di Terzo e Valterza – e in Francia Thiers – da ad tertium (sottinteso miliarium), Quarto e Quinto (e Tor di Quinto, alla periferia di Roma), da ad quartum e ad quintum e poi, di seguito, Sesto, Settimo, Ottavello, Tavello e Tavo, da ad octavum, Annone e Castello d’Annone, da ad nonum, Decimo e Pontedecimo, Tricesimo, da ad tricesimum, ecc.

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Esistono anche toponimi che traggono origine da particolari situazioni legate alle strade o alle loro caratteristiche tecnico-costruttive e alle «opere d’arte» stradali, come nel caso già ricordato di Codroipo, mentre Arzere e Cavarzere vengono da agger, il terrapieno delle vie soprelevate, che ha pure originato i toponimi Levata, Ca’ della Leva, Corte Levata, La Leva, Stradalta, ecc. S’è già detto della galleria del Furlo; si possono aggiungere Pietra Pertosa (che si ritrova in Francia come Pierre Pertuis) che ricorda una «tagliata» in roccia, Piedigrotta e Fuorigrotta, che sono in relazione alla presenza di una galleria, e Anghiari, da in glarea, che fa riferimento a una strada non selciata, ma «inghiaiata» (o glareata). ...e nelle infrastrutture Che dire poi dell’italiano arcaico «magione» e del francese «maison» derivati, per metatesi, dal latino mansio, che sulla strada indicava una «stazione di posta»? O del tedesco «Brucke» (ponte) derivato dall’espressione francese pont de

bricques, ossia «ponte di mattoni», quali erano i ponti romani, in muratura, rispetto alle passerelle di legno dei Germani? Ma, per restare nello specifico, anche il toponimo Alcantara, presente in Sicilia come in Spagna e nel Nordafrica, significa «il ponte» (dall’arabo el-Kantara) e allude alla presenza, in zona, di un ponte quasi sempre romano. Si può concludere con la citazione dei nomi, apparentemente... insospettabili, delle due città olandesi Utrecht e Maastricht che vengono, pari pari, dal latino: Traiectum ad Rhenum (poi contratto in Ultraiectum), il primo, e Traiectum ad Mosam (o Mosae Traiectum), il secondo, essendo quelle città nate nel punto in cui, rispettivamente, il Reno e la Mosa (odierna Maas) venivano attraversati dal «traghetto» di un’antica strada romana. Come avveniva nella nostra Minturno, la quale, prima di riprendere il nome antico, nel 1879, si chiamava «Traetto» per la presenza di un traghetto che attraversava, sotto di essa, il Garigliano. (2 – fine)



Medea e le altre

di Francesca Cenerini

Alla corte di Catilina «Una donna di molto spirito e di grande fascino, che conosceva la letteratura greca e latina» ma anche «cosí libidinosa da correre lei dietro agli uomini»: ecco il giudizio che lo storico Sallustio traccia di Sempronia, nobildonna e… «congiurata» no degli avvenimenti piú conosciuti della storia U romana della metà del I secolo

a.C. è la cosiddetta «congiura di Catilina», se non altro perché abbiamo un certo numero di fonti coeve a nostra disposizione. Le vicende sono note: un patrizio sillano in condizioni finanziarie dissestate e in attesa di processo per concussione, ma che, evidentemente, aspirava anche a una dignitas adeguata alle nobili origini della sua famiglia, Lucio Sergio Catilina, si era candidato, senza successo, alle elezioni consolari per il 65 e per il 63 a.C., pur appoggiato da uno degli uomini piú ricchi e potenti del tempo, Marco Licinio Crasso. In queste ultime consultazioni, al posto di Catilina è eletto Marco Tullio Cicerone, benché homo novus, cioè privo di antenati illustri, originario di Arpino, ma già famoso per le sue doti oratorie, grande accusatore del corrotto governatore Verre e sostenitore di Pompeo. Catilina non si arrende e si ripresenta alle elezioni per il 62 a.C., portando avanti un programma ancora piú radicale del precedente, vale a dire la totale cancellazione dei debiti (tabulae novae). Tale programma è «rivolto non tanto alle classi sociali piú basse quanto agli aristocratici rovinati dalle dissipazioni, dalle campagne elettorali e dalle speculazion sbagliate, agli indebitati, ai coloni

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sillani che non avevano saputo trarre frutto dai terreni loro assegnati ed erano oberati dagli interessi sui prestiti, ai figli dei proscritti» (Giovanni Geraci Arnaldo Marcone, Storia romana, Firenze 2002, p. 138). Dopo l’ennesima sconfitta elettorale, abbandonato dai suoi precedenti sponsores (Crasso e Cesare), nell’autunno del 63 a.C., Catilina ordisce una congiura. Il piano prevedeva che uomini armati, reclutati in Etruria tra i veterani di Silla, marciassero su Roma. Contro Catilina Ma il complotto viene scoperto dal console Cicerone che, con una durissima requisitoria, pronunciata in Senato, la prima Catilinaria (una delle quattro orazioni da lui tenute contro Catilina tra il novembre e il dicembre del 63 d.C., n.d.r.), riesce a fare decretare il senatusconsultum ultimum, vale a dire la sospensione delle garanzie costituzionali, in quanto era in gioco la salvezza dello Stato. Catilina si allontana da Roma e alcuni suoi complici vengono arrestati. Nella seduta del Senato del 5 dicembre 63 a.C. si discute su come affrontare l’emergenza e nell’opera La congiura di Catilina di Sallustio, autore contemporaneo alla vicenda, come lo stesso Cicerone, sono presentate due opinioni

divergenti, fatte pronunciare, rispettivamente, da Giulio Cesare e Porcio Catone. Cesare si pronuncia contro la pena di morte e propone il carcere a vita. Catone, invece, è a favore della pena di morte, tesi sostenuta da Cicerone. La sera dello stesso 5 dicembre i Catilinari sono strangolati in carcere e Catilina sarà sconfitto definitivamente in battaglia a Pistoia nel gennaio del 62 a.C.Va detto che Cicerone era convinto di avere salvato Roma da un pericolo mortale, e lo ha scritto in numerose occasioni, ma l’uccisione in carcere di cittadini romani senza la concessione della


A sinistra: Cicerone denuncia Catilina in Senato, rivelando la sua congiura, particolare dell’affresco di Cesare Maccari (1840-1919) nella Sala Maccari di Palazzo Madama a Roma. 1880. In basso: figura femminile seduta che sorregge il velo, dal Cubicolo E di Villa della Farnesina (Roma). Ultimo venticinquennio del I sec. a.C. Roma, Palazzo Massimo alle Terme. Lo storico Sallustio ricorda tra i congiurati anche una donna di nome Sempronia, descrivendola come colta e affascinante, ma allo stesso tempo pericolosa e corrotta.

provocatio ad populum (giudizio nei comizi) gli sarà duramente contestata dal futuro triumviro Marco Antonio. Audace al pari di un uomo Nel capitolo 25 della sua opera su Catilina, Sallustio, dopo avere ricordato che tra i congiurati c’erano addirittura alcune donne, che, per soddisfare la loro smodata brama di lusso, si erano prostituite e poi, quando l’età era troppo avanzata e nessuno piú le voleva, si erano coperte di debiti, passa a parlare di Sempronia: «Tra queste c’era Sempronia, che spesso aveva commesso misfatti con una

temerarietà tipicamente maschile. Questa donna aveva avuto tutto dalla sorte, nobiltà di nascita, bellezza, marito e figli. Conosceva la letteratura greca e latina, sapeva suonare la cetra e danzare con piú grazia di quel che si conviene a una donna perbene e conosceva molti altri modi per dare piacere. Tutto le era piú caro al mondo del pudore e della dignità, e non si capiva se tenesse meno al denaro o alla reputazione; cosí libidinosa, che spesso era lei a correre dietro agli uomini, piú di quanto fossero loro a cercarla. In passato aveva spesso mancato alla parola data, negato un debito con falsi


In basso: Catilina, particolare dell’affresco di Cesare Maccari (vedi alle pp. 110-111). 1880. Roma, Palazzo Madama, Sala Maccari.

giuramenti ed era stata complice di un omicidio: la lussuria e la mancanza di mezzi l’avevano fatta cadere sempre piú in basso. Eppure era d’ingegno non disprezzabile: sapeva comporre versi, essere divertente, parlare in modo ora riservato, ora insinuante, ora sfacciato; una donna di molto spirito e di grande fascino». Chi è Sempronia? A tutt’oggi gli storici non concordano sull’identificazione di questa Sempronia, già supposta figlia del tribuno Gaio Sempronio Gracco (ucciso nel 121 a.C.). Sir Ronald Syme (L’aristocrazia augustea. Le grandi famiglie gentilizie

dalla repubblica al principato, trad. it., Milano 1993, p. 41) avanza l’ipotesi che la Sempronia sallustiana fosse la sorella di Sempronia Tuditani filia, cioè della madre di Fulvia, quest’ultima moglie di Clodio e Antonio. Sia i Semproni che i Fulvi erano grandi famiglie della nobiltà plebea, che, però, erano decadute nel corso del I secolo a.C. Questa Sempronia è la moglie di Decimo Giunio Bruto, console nel 77 a.C., e la madre di Decimo Giunio Bruto Albino, che avrebbe partecipato in seguito alla congiura cesariana del 44 a.C. Ebbe, comunque, un ruolo del tutto marginale nelle vicende di Catilina, tanto è vero che non è nemmeno ricordata da Cicerone nelle sue quattro Catilinarie. Luigi Bessone (Le congiure di Catilina, Padova 2004, p. 13) parla, a

proposito del capitolo 25 dell’opera sallustiana su Catilina, di digressione «senz’altro forzata e sproporzionata rispetto al ruolo ricoperto di fatto dalla nobildonna». Lo stesso Sallustio (40) parla soltanto di un incontro dei congiurati nella casa di Decimo Bruto (assente in quel momento da Roma), residenza che era situata vicino al foro. Due cattivi esempi È evidente, a mio parere, che il ritratto che Sallustio fa di Sempronia sia funzionale allo storico romano per delineare il pendant femminile di quello maschile, totalmente negativo, che lo storico aveva già fatto di Catilina al capitolo 5: essi rappresentano la precisa volontà, da parte di Sallustio, di delineare due exempla paradigmatici della corruzione morale dell’aristocrazia dell’ultimo secolo della repubblica, filo conduttore della sua opera. Si tratta, per quanto riguarda il modello femminile, di un vero e proprio rovesciamento del modello ideale, quasi una sorta di antimodello, paradigma della trasgressione: come la matrona ideale Sempronia è dotata di bellezza, fascino, ricchezza e fertilità, ma tali qualità sono da lei usate per scopi perversi. È una vera e propria contrapposizione, anche lessicale, del modello ideale matronale. La nobile nascita, la bellezza, il matrimonio, i figli, la cultura e la buona educazione sono vanificati da una lussuria smodata e dal desiderio di denaro, il tutto a scapito della dignità (decus) e della pudicitia, tradizionali parole chiave della rappresentazione dell’ideale matronale. Ma è soprattutto un elemento che è stigmatizzato in modo forte dal moralista Sallustio, come causa primaria del degrado del costume matronale: è la brama di denaro, che si autoalimenta nel desiderio e nel lusso fini a se stessi, che stravolge gli antichi equilibri sociali e provoca la totale decadenza dell’antico mos maiorum.



I Libri di Archeo DALL’ITALIA Giovannangelo Camporeale

Gli Etruschi. Storia e civiltà UTET, Torino, 616 pp., 448 ill. in b/n 39,00 euro ISBN 978-88-02-08410-7

Il volume giunge alla terza edizione: un dato che suggerisce il successo di un’opera ormai quasi obbligatoria per la conoscenza della civiltà etrusca. L’impianto è quello della prima edizione, apparsa nel 2000, che prevedeva la suddivisione in due parti denominate: la civiltà etrusca e le città. Nella prima vengono analizzati singoli aspetti: alcuni tradizionali come l’arte o la religione, altri piú innovativi quali l’ambiente e l’urbanizzazione o l’organizzazione politica seguendo un approccio che si ricollega alla lezione di Massimo Pallottino e al suo fortunatissimo manuale Etruscologia. Nella seconda sono illustrate invece le città con i loro territori, seguendo la classica suddivisione in Etruria propria, Etruria padana ed Etruria campana. Ciò a ribadire il peso avuto dalle singole poleis nello sviluppo della civiltà etrusca e a richiamare la lezione di Luisa Banti, ben esplicitata nel suo Mondo degli Etruschi. L’opera di Camporeale

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offre, in altri termini, un quadro completo, dettagliato e aggiornato dello sviluppo storico degli Etruschi e delle loro realizzazioni con uno sguardo attento alle loro relazioni culturali ed economiche con le altre popolazioni dell’Italia preromana e, piú in generale, del Mediterraneo. Il lettore specialista può confrontare utilmente questa terza edizione con la prima e rendersi conto della mole delle ricerche svolte nel breve volgere di undici anni nonostante la crisi del mondo universitario e di quello preposto alla tutela e alla valorizzazione: soffermarsi sulle nuove acquisizioni scaturite dai

risultati delle campagne di scavo (o dalle indagini condotte nei musei), può divenire un motivo di soddisfazione per gli archeologi che hanno dedicato la loro attenzione all’Etruria e all’Italia preromana. Giuseppe M. Della Fina

Stefano Bruni (a cura di)

Gli Etruschi delle città. Fonti, ricerche e scavi Silvana Editoriale, Milano, 240 pp., 100 ill. a col. e 50 ill. in b/n 38,00 euro ISBN 9788836619207

Le città-stato hanno avuto un ruolo centrale negli sviluppi della civiltà etrusca: dal riconoscimento di questa realtà storica e culturale ha preso il volume curato da Stefano Bruni. A lui è spettato il compito di riassumere, in apertura, le vicende storiche del mondo etrusco (pp. 4-43) evidenziando i momenti di svolta come l’incontro/scontro con il mondo greco, o il successivo confronto con Roma, che si concluse con la conquista e la piena romanizzazione dell’Etruria. Di seguito sono prese in considerazione le poleis maggiori (pp. 46-203), partendo da quelle piú settentrionali come Pisa, Fiesole e Volterra e concludendo il viaggio – attraverso l’Etruria propria – a Tarquinia, Cerveteri e Veio. La trattazione di ogni singola cittàstato è affidata ad archeologi che hanno indagato a fondo e spesso per decenni quella realtà: la scelta operata dal curatore consente al lettore di avere a disposizione una sintesi pienamente soddisfacente e

aggiornata sulle ricerche in corso. Cosí, per esempio, Simonetta Stopponi, nel capitolo dedicato a Orvieto, ha potuto presentare i risultati delle campagne di scavo che, dal 2000, conduce nell’area di Campo della Fiera alla ricerca del Fanum Voltumnae. Completano il volume due saggi riferiti all’Etruria padana e agli Etruschi in Campania (pp. 204-227), scritti rispettivamente da Giuseppe Sassatelli e Luca Cerchiai, che consentono di comprendere il ruolo svolto da queste due regioni solo apparentemente «periferiche» nelle dinamiche sociali, politiche e culturali del mondo etrusco anche alla luce delle scoperte piú recenti come, per esempio, il grande tempio dedicato a Tinia nel tessuto urbano di Marzabotto. Particolarmente ricco e curato è anche l’apparato illustrativo, che contribuisce a rendere il volume di piacevole e utile lettura. G. M. D. F.



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