Archeo n. 321, Novembre 2011

Page 1

missione in arabia

museo di sassari tarquinio il superbo

battaglia di salamina

speciale turchia

Mens. Anno XXVII numero 11 (321) Novembre 2011  5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria  9,90; Belgio  9,90; Grecia  9,40; Lussemburgo  9,00; Portogallo Cont.  8,70; Spagna  8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 321 novembre 2011

turchia

archeologia tra oriente e occidente

f i l ritorno di ercole

fs ulla via degli ittiti

fa ugusto ad ankara

roma

tarquinio il superbo

grecia

persiani a salamina

arabia

missione nel deserto verde

 5,90



Editoriale

Uno sguardo da lontano Sono trascorsi undici anni da quando – i lettori forse lo ricorderanno – il volto riprodotto qui sopra era apparso sulla copertina della nostra rivista. Era il settembre del 2000 e, in un servizio speciale, riportammo la notizia di un evento di cronaca archeologica straordinario e, per certi versi, drammatico: il salvataggio in extremis di un eccezionale tesoro di mosaici, appartenuti all’élite di Zeugma, una grande città romana, di fondazione ellenistica, affacciata sulle rive dell’Eufrate, che qui attraversa la provincia di Gaziantep (Turchia sud-orientale). Le rovine di Zeugma – il cui nome greco antico significa «connessione», «ponte», probabile riferimento a un passaggio sul fiume Eufrate lungo il percorso della via della Seta – sono oggi sommerse dalle acque di un grande invaso (formato dalla diga di Birecik), che proprio nel settembre di undici anni fa stavano ricoprendo l’intera area archeologica. Per conservare e trasmettere la memoria della città scomparsa, però, negli ultimi dieci anni si è lavorato alla costruzione di un monumento unico nel suo genere: il nuovo Museo di Zeugma, appena inaugurato a Gaziantep. Se ne parlerà in questi giorni a Paestum (in occasione della XIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico), nel corso di un incontro tra i direttori delle otto missioni archeologiche italiane attive in Turchia (vedi a p. 19) e il Ministro della Cultura e del Turismo della Turchia, Ertugrul Günay. Ai risultati degli scavi italiani in Turchia dedicheremo ampio spazio nei prossimi numeri di «Archeo». Qui, invece, vogliamo ricordare il lavoro di scavo, recupero e restauro dei mosaici di Zeugma (a cui hanno contribuito in maniera significativa gli specialisti italiani del Centro di Conservazione Archeologica), ora esposti nel museo di Gaziantep. Tra questi figura anche il volto del personaggio che ci osserva da questa pagina.Venne scoperto e tratto in salvo, nel 1999, dall’archeologo Mehmet Önal. Il suo sguardo enigmatico (da taluni attribuito allo stesso Alessandro Magno) suggerisce storie lontane. Ma, grazie al nuovo museo, non irraggiungibili. Andreas M. Steiner



Sommario

Editoriale

Uno sguardo da lontano

3

di Andreas M. Steiner

38

di Luisanna Usai; con contributi di Bruno Massabò e Gabriella Gasperetti

Attualità notiziario

mostre Memorie dal sottosuolo

6

restauri Presentato il restauro del Mausoleo PHI o «dei Marci», uno dei monumenti funebri piú ricchi della Necropoli Vaticana 6 parola d’archeologo Il blocco dei rimborsi per il carburante obbliga archeologi e funzionari delle soprintendenze a non potersi piú servire delle proprie auto; con ricadute gravissime sull’attività di tutela del territorio 8 mostre Le Terme di Diocleziano, a Roma, ospitano, in prima mondiale assoluta, la Carta dell’impero mongolo, una straordinaria mappa dipinta su un rotolo di seta lungo 30 m alla metà del XVI secolo alla corte dei Ming 12

speciale Turchia

Archeologia tra Oriente e Occidente 56

38

a cura di Andreas M. Steiner e Judith Lange

storia

Le origini di Roma/11

Tarquinio il Superbo. 50 Il peggiore dei re di Daniele F. Maras

storia

dalla stampa internazionale

La rinascita di un leone ittita e la caduta di un faraone d’Egitto 22

Le città contro l’impero

Arabia Saudita

26

di Romolo Loreto e Guillaume Charloux

26

50

Ankara e la via degli Ittiti

82

di Andreas M. Steiner

Rubriche il mestiere dell’archeologo

Storia dei Greci/11

di Fabrizio Polacco

scavi

Deserto verde

56

90

Non solo Grazie/1

Tre sorelle al chiaro di luna

98

di Daniele Manacorda

l’età dei metalli Dalle viscere della terra

102

di Claudio Giardino

medea e le altre Essere donna a Sparta

106

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Una Venere a stelle e strisce

110

di Francesca Ceci

libri

112


n ot i z i ari o restauri Città del Vaticano

La bella tomba dei liberti di Stefano Mammini

entre sulle loro teste migliaia di fedeli e visitatori conM tinuavano, ignari, ad affluire, i

restauratori chiamati al capezzale del mausoleo PHI o «dei Marci» portavano avanti uno degli interventi piú complessi fra quelli finora compiuti nella Necropoli Vaticana. Dai tempi di Costantino, infatti, il sepolcreto si trova al di sotto del pavimento della basilica di S. Pietro: fu proprio l’imperatore «cristiano» a decretarne l’interramento e la parziale demolizione – che ha interessato le coperture delle strutture – quando volle che, per onorare la memoria e il sepolcro del Principe degli Apostoli, sorgesse in suo onore una chiesa nuova e piú maestosa. Fu cosí obliterata quella che un tempo era una suggestiva successione di monumenti sepolcrali allineati ai lati di una strada che giungeva sino alle sponde del vicino Tevere e che, almeno in parte, è stata riscoperta solo a partire dal

1941, anno in cui, per volere di Pio XII, furono condotti i primi scavi. Grazie alle ripetute campagne di indagine, molti sepolcri sono stati liberati dall’interro, restituendo una porzione limitata, ma significativa, di un contesto fra i piú importanti e significativi della Roma imperiale. Fin da subito, le particolari condizioni in cui le tombe sono venute a trovarsi all’indomani dell’intervento costantiniano, e in particolare il fatto che esse oggi si

In alto: lavori di restauro nel Mausoleo PHI (o «dei Marci»). A sinistra: particolare del micromosaico con l’uccisione di Penteo, sulla parete esterna sud del sepolcro. In basso: il mausoleo dopo il restauro.

6 archeo


visitare la necropoli Per la particolare collocazione del sito nei sotterranei della basilica di S. Pietro e per le ridotte dimensioni del luogo è consentito l’accesso agli scavi solo a un limitato numero di persone di età superiore ai quindici anni. L’autorizzazione alla visita guidata può essere concessa previa richiesta scritta alla Fabbrica di San Pietro tramite fax (06 69873017) o e-mail (scavi@fsp.va), indicando il numero delle persone, la lingua, le date disponibili e un recapito per la risposta. Le visite agli scavi si effettuano dal lunedí al sabato, dalle 9,00 alle 18,00, a esclusione della domenica e dei giorni festivi in Vaticano.

In basso: il ritratto di uno dei membri della famiglia proprietaria del mausoleo, Q. Marcius Hermes.

trovino a una profondità compresa fra i 3 e gli 11 m, hanno seriamente compromesso la conservazione dei monumenti, soprattutto a causa dell’elevatissimo tasso di umidità che caratterizza l’atmosfera della necropoli. Una situazione di cui ha risentito anche il mausoleo PHI, la cui delicata decorazione, prima del restauro appena concluso, era ormai quasi del tutto illeggibile. I restauratori sono intervenuti innanzitutto per consolidare gli intonaci, le pellicole pittoriche e le cortine laterizie del monumento e hanno quindi avviato la rimozione delle efflorescenze saline e degli altri agenti esterni che avevano attaccato la struttura. Poco a poco, sono riaffiorati colori e profili e la tomba è tornata a mostrarsi in condizioni assai simili a quelle originarie. Il sepolcro, fatto realizzare da una famiglia di liberi impe-

In alto: particolare della parete ovest prima del restauro, con le pitture divenute quasi illeggibili.

riali, i Marci, fra la fine del II e gli inizi del III secolo d.C., era uno dei piú prestigiosi della necropoli Vaticana e, su un fondo di colore rosso cinabro, era decorato con pitture a secco e ad affresco aventi come soggetto scene mitologiche, figure di pavoni, ghirlande di fiori, uccelli, teste di medusa, anatre, nereidi, mostri marini e sileni nimbati. Come già sperimentato per altre tombe del sepolcreto, anche il Mausoleo PHI è ora protetto da una teca di cristallo, una soluzione che mira a garantire la stabilità del microclima, cosí da favorire la conservazione del monumento e del suo apparato ornamentale. E che vuole anche coniugare le esigenze della tutela con quelle della fruizione, dal momento che la Necropoli Vaticana, seppur con modalità contingentate, è regolarmente aperta al pubblico.

Errata corrige con riferimento al n. 320 (ottobre 2011) desideriamo precisare che: nell’articolo Storie di una strada scomparsa, nel box a p. 39, l’Itinerarium Burdigalense è stato datato al III secolo d.C., mentre la sua compilazione è riferibile a un viaggio compiuto da Bordeaux a Gerusalemme fra il 333 e il 334; nello speciale Aspettando i barbari, a p. 87, l’«evento che costituisce una fondamentale cesura storica» è naturalmente la caduta della parte occidentale dell’impero romano e non, come erroneamente indicato, di quella orientale; nell’articolo La storia raccontata dai nomi, a p. 107, l’origine del toponimo «Fréjus» è da attribuirsi al latino Forum Iulii e non, come riportato, a Forum Livi; infine, nell’articolo Alla corte di Catilina, a p. 110, la data delle orazioni Catilinarie deve intendersi tra il novembre e il dicembre del 63 a.C. e non d.C. Del tutto ci scusiamo con gli autori interessati e con i nostri lettori.

archeo 7


Parola d’archeologo

di Flavia Marimpietri

Archeologi a piedi, tutela a rischio Il blocco dei rimborsi per l’utilizzo delle auto private pregiudica il normale lavoro delle Soprintendenze, in particolare nelle regioni piú impervie e difficilmente raggiungibili. Ne abbiamo parlato con Bruno Massabò, soprintendente per i Beni Archeologici delle province di Sassari e Nuoro iente piú rimborso spese per chi usa l’auto propria per N raggiungere lo scavo. Archeologi,

blocco delle funzioni essenziali della salvaguardia del nostro patrimonio archeologico. Lo stop ai rimborsi per le funzionari e ispettori del missioni sul campo crea difficoltà Ministero per i Beni e le Attività ai soprintendenti di tutta Italia, ma Culturali, d’ora in poi, dovranno colpisce piú pesantemente le andare a piedi. Oppure muoversi regioni per natura piú impervie e con i mezzi pubblici, qualora esistano. Lo stop ai rimborsi viene difficilmente raggiungibili, come la Sardegna e, in particolare, dalle disposizioni ministeriali l’area affidata a Bruno Massabò, entrate in vigore il mese scorso, soprintendente ai Beni che discendono da una norma della manovra finanziaria del 2010. Archeologici delle province di Sassari e Nuoro. Nonostante le proteste dei «Il nostro territorio, rispetto alla soprintendenti di tutt’Italia e il Sardegna centro-meridionale, ha tentativo del Ministero di eludere un’orografia tale per cui i la norma, alla fine la Corte dei Conti ha imposto il rispetto senza collegamenti sono particolarmente scarsi e difficili. È una zona eccezioni della regola. Pena, per i impervia per oltre la metà della soprintendenti che non la sua estensione, che abbraccia il osservino, l’accusa di danno massiccio del Gennargentu e la erariale. Gallura, nella quale i trasporti Quindi, tutti in tram. Anche pubblici sono estremamente dove le rotaie non ci sono e i carenti e che non dispone di una mezzi pubblici non arrivano, cioè rete ferroviaria degna di questa in quasi tutti i luoghi dove gli definizione. Le strade sono tutte archeologi scavano e gli ispettori secondarie, salvo la Statale 131, fanno sopralluoghi. Anche se la località da raggiungere è impervia che attraversa da Nord a Sud tutta l’isola e collega Sassari a Cagliari. I e sul cantiere bisogna portare percorsi del servizio di linea non pesanti attrezzature. Anche se il sempre corrispondono alle nostre viaggio, con due o tre cambi di necessità. In molti casi, per treno, finisce per durare ore, raggiungere un sito, anche non mentre in auto basterebbe una distante, l’uso del mezzo pubblico mezz’ora. Il risultato, come diventa impossibile». denunciato a piú riprese dagli Quali ripercussioni ha sul stessi soprintendenti, è la paralisi vostro lavoro, quotidiano, di dell’azione di tutela. In pratica, il

8 archeo

tutela del patrimonio archeologico il blocco dei rimborsi della benzina? «Le normative recenti ci hanno annientato. Le difficoltà piú grandi si incontrano nel lavoro ispezione e sopralluogo sui siti archeologici. Le delibere della Corte dei Conti ci hanno letteralmente precipitato nella paralisi. I magistrati contabili hanno stabilito che chi utilizza l’auto propria ha diritto al rimborso spese solo in determinate situazioni e per motivi di urgenza. In questi casi, il risarcimento è calcolato sui costi medi del sevizio di linea, che sono infimi: vien fuori un rimborso di 11 centesimi per km. Come si fa a pensare che un archeologo che deve raggiungere con la propria auto uno scavo, magari sulla cima di un monte, non ci rimetta pesantemente? Oltre alla benzina, bisogna considerare l’usura del mezzo nel percorrere strade quasi sempre dissestate. In questo c’è una perdita economica secca». Con l’introduzione di questa norma, gli archeologi rimangono a piedi, mentre i soprintendenti, se autorizzano rimborsi, rischiano d’essere accusati di danno all’erario... «Sí, siamo stritolati in una morsa. Schiacciati tra norme restrittive e obbligo di tutela. Come soprintendente, devo fare


L’insediamento nuragico di Villagrande Strisaili.

attenzione a tutte le richieste di missione dei tecnici che effettuano sopralluoghi, poiché qualora io non rispetti le normative commetto un reato e mi trovo a rispondere di danno erariale di fronte alla Corte dei Conti. Questo è un deterrente, per me che autorizzo gli archeologi a fare i sopralluoghi come per tutti i colleghi a cui spetta il compito della tutela. Che cosa succede, allora? Che autorizziamo sempre meno sopralluoghi, anche quando riceviamo segnalazioni per zone archeologiche a rischio. E accade che io mi trovi con funzionari demotivati, chiusi in ufficio perché non possono fare il loro lavoro. Per non parlare dell’assurdo che si verifica quando un archeologo, volendo rispettare la legge, si serve dei mezzi pubblici ma, a causa della scarsità delle corse, è costretto a pernottare fuori sede, facendo spendere all’amministrazione – lo abbiamo calcolato – una cifra superiore al rimborso dell’uso dell’auto personale». Insomma, a «farne le spese», oltre ai tecnici, sono anche, e soprattutto, i siti archeologici. Perché la realtà della Sardegna è particolarmente a rischio, sotto questo aspetto? «La situazione è tragica e condivisa dal Nord al Sud del Paese, tanto che noi soprintendenti, in tutta Italia, abbiamo fatto sentire la nostra voce di protesta contro il taglio dei rimborsi auto. Ma per noi sardi la cosa è piú grave. Penso che non ci sia regione in Italia tanto ricca di presenze archeologiche e, al tempo stesso, con una situazione viaria e dei trasporti cosí deficitaria come la Sardegna. A mio avviso, la nostra regione ha la maggiore densità di siti archeologici di tutto

il Paese. Ma non ci sono le strade: se un collega di Sassari vuole raggiungere il Nuorese o l’Ogliastra per un sopralluogo archeologico, oppure la Barbagia di Seulo nel versante meridionale, può andare solo con l’automobile, e impiega cinque ore ad andare e altrettante a tornare. I siti presenti sono migliaia: solo i nuraghe censiti sull’isola sono 8000 (la Sardegna dell’età del Bronzo era molto piú popolata di quella di oggi). Poi ci sono le necropoli, le Domus de janas, che vanno dal Neolitico all’età del Rame, diffuse ovunque con una densità di poco inferiore a quella dei siti nuragici. Per non parlare dei siti archeologici del periodo punico, di epoca romana e medievale, delle tante chiese sparse nella campagna che fanno la bellezza di certe cartoline sarde. La Sardegna è un’isola rimasta davvero “isolata” in mezzo al mare: si fa conoscere poco, ma è una realtà densa di presenze archeologiche». Un sito che sta restituendo testimonianze preziose, ma del tutto isolato, è quello di S’Arcu ’e Is Forros, nel Comune di Villagrande Strisaili, nella provincia dell’Ogliastra. Uno splendido villaggio con santuario di età nuragica... «Quello è l’esempio perfetto di quanto si è detto finora. Il sito di Villagrande Strisaili si trova all’interno, lungo la strada che

collega Nuoro con l’Ogliastra, ed è praticamente irraggiungibile con i mezzi pubblici. In piú, anche con l’auto, non è visibile dalla strada: bisogna sapere dove fermarsi. È un sito nuragico molto importante per la peculiarità dell’abitato e, soprattutto, per l’area sacra: una sorta di spazio comune, con un grande piazzale circolare su cui si affacciano vari edifici, tra cui un tempio “a megaron” in blocchi di granito lungo 17 m - uno dei maggiori dell’isola - racchiuso entro un recinto sacro (temenos) provvisto di banconi-sedile funzionali al rito e alla deposizione delle offerte. Vista la situazione, come riuscite a salvaguardare testimonianze archeologiche preziose come questa? «Siamo costretti a lavorare in solitudine. Io, a volte, pago di tasca mia. È una questione di coscienza. Anzi, a questo punto, di beneficenza. Sa quanti colleghi vanno a loro spese sul territorio e poi scrivono che sono andati con “mezzo offerto”? Preferiscono fare il sopralluogo e dichiarare sulla richiesta di missione che sono arrivati con mezzo gratuito, mentendo, perché in realtà vanno con la loro auto. Si può chiedere questo a persone che guadagnano 1600 euro al mese, magari 1700, a fine carriera?».

archeo 9


n ot iz iario

MOSTRE Umbria

musei Veneto

Cosí scrivevano gli Umbri

Un antichissimo caso di pietas?

di Daniele F. Maras

di Carla Pirazzini

econdo Plinio il Vecchio, gli Umbri erano il piú antico dei S popoli d’Italia, in quanto unici

a V Sala del Museo Nazionale Atestino era stata chiusa al L pubblico nel 2000 per lavori di

sopravvissuti al Diluvio Universale: da qui il loro nome, che in greco suona Ombroi e richiama la parola ombros, pioggia. E anche altre fonti insistono sul ricordare l’antica presenza di questa gente, in età storica arroccata nel cuore della Penisola, ma un tempo estesa ad altre regioni. Nonostante la particolare attenzione degli antichi e la precoce riscoperta delle antichità umbre da parte dell’archeologia moderna, le glorie medievali della moderna regione Umbria e le sue bellezze naturali oscurano in larga parte la conoscenza dell’archeologia preromana locale ai non addetti ai lavori. La ragione del fenomeno sta nella scarsa evidenza di resti monumentali nell’Umbria preromana e soprattutto nel carattere molto specialistico delle testimonianze linguistiche, che restano il lascito piú importante degli antichi Umbri. Per questo motivo, la mostra allestita al Museo Archeologico di Perugia, con un’appendice nel Palazzo dei Consoli di Gubbio, tenta coraggiosamente di restituire le iscrizioni umbre alla conoscenza del grande pubblico. Per la prima volta sono stati riunti quasi tutti i documenti epigrafici, oggi perlopiú sparsi in diversi musei e collezioni, che vanno dalle testimonianze arcaiche del paleo-umbro (VII-VI secolo a.C.) a quelle dell’età d’oro dell’Umbria preromana (IV-II secolo a.C.), per finire con le iscrizioni in scrittura latina e lingua umbra, che fissano sulla pietra e sul bronzo le tracce vive della romanizzazione in atto. La mostra quindi ha un’inedita vocazione linguistica, arricchita dall’esposizione di manoscritti, calchi di carta o legno e antiche pubblicazioni che riproducono iscrizioni oggi perdute. Ma, allo stesso tempo, la varietà degli oggetti che

10 a r c h e o

Una delle facce della Tavola Iguvina V, rinvenuta, con altre sei, nel 1444. Databili al III-II sec. a.C. le sette tabelle sono documenti fondamentali per lo studio della civiltà umbra.

fanno da supporto alle iscrizioni offre uno spaccato dell’uso della scrittura nei diversi ambiti (funerario, votivo, privato), che soddisfa anche l’interesse piú propriamente archeologico e artistico: vasi di ceramica e di bronzo, statue e bronzetti, tabelle e lamine bronzee, urne e altri monumenti funerari, iscrizioni pubbliche, cippi, monete. Monumento principe della lingua e della cultura umbra, ma allo stesso tempo preziosissima fonte di informazione sulla religione e il rito dell’Italia antica, restano le Tavole Iguvine, sette grandi tabelle di bronzo esposte a Gubbio nell’apposita sezione della mostra, che riportano la registrazione dei riti piú sacri della città antica, incisi in lingua umbra dapprima nella scrittura locale derivata da quella etrusca e poi in una grafia latina, leggermente modificata per adattarsi alla lingua. Ritrovate già nel 1444 e rimaste fino a oggi il piú lungo e complesso documento linguistico preromano, le Tavole hanno visto per secoli fiorire il dibattito, dapprima sulla loro pertinenza linguistica e poi sulla loro interpretazione. La mostra in corso restituisce final-

restauro conservativo, durante i quali sono riaffiorati lacerti di affreschi parietali. Il ciclo di affreschi, in corso di studio, è attribuibile alla scuola di Giulio Carpioni (XVII secolo) e si compone di scene allegoriche con putti entro ampi sfondi paesistici, inquadrate da finte architetture monocrome. Per la conservazione e la visibilità delle pitture, è stata progettata una struttura espositiva composta da vetrine centrali; mentre una sola parete, priva di resti pittorici, è stata dotata di piccole teche per materiali e pannelli didascalici. Il nuovo allestimento, inaugurato il 24 settembre scorso in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio, è dedicato a testimonianze funerarie particolarmente signifimente le Tavole al loro contesto, raccogliendo attorno a esse le altre piú brevi testimonianze della lingua umbra, che prima d’essere oggetto di studio da parte di archeologi e linguisti, fu una lingua viva, parlata da persone, famiglie e genti della regione tra il Tevere e l’Adriatico. Dove e quando «Screhto est. Lingua e scrittura degli antichi Umbri» fino all’8 gennaio 2012 Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria Orario ma-do, 8,30-19,30; lu 14,30-19,30 Info tel. 075 5727.141-142 Gubbio, Museo del Palazzo dei Consoli Orario tutti i giorni, 10,00-13,00 e 14,00-17,00 Info tel./fax 075 9274298; e-mail: palazzodeiconsoli.museo@alice.it


cative, dal territorio di Este in età preromana. Sono esposte per la prima volta e in modo permanente tombe a incinerazione da contesti funerari databili tra l’età del Bronzo Finale e la prima età del Ferro (XIVIII secolo a.C.) da Montagnana. Riveste carattere di unicità la sepoltura a inumazione di giovane donna rinvenuta, in modo inconsueto, in un’area dell’abitato di Montagnana-Borgo S. Zeno, con lo scheletro di un bimbo appena nato al di sotto delle ossa del bacino: le Tombe a cassetta litica con i relativi corredi ricostruite nella Sala V del Museo Nazionale Atestino.

analisi antropologiche suggeriscono che la giovane sia morta di parto o a seguito di un malore, in un luogo isolato in cui qualcuno, dopo aver trovato il cadavere, le avrebbe dato una sorta di sepoltura. Nella sala sono state ricostruite inoltre otto tombe a incinerazione in cassetta lignea o litica con relativi corredi, rinvenute a Saletto di Montagnana e ad Arquà Petrarca, centri in provincia di Padova non distanti da Este. La necropoli di Saletto, disposta su un antico dosso alluvionale formato dalle sabbie del fiume Adige, ha restituito, tra il 1980 e il 1981, 42 sepolture databili tra il VII e il VI secolo a.C., piut-

tosto omogenee per quanto riguarda il rituale e i corredi. Il nucleo di Arquà, parzialmente scavato nel 1938, si compone di 17 tombe a incinerazione entro cassette in lastre di calcare dei Colli Euganei e testimonia la presenza di gruppi di Celti Cenomani in territorio veneto nel periodo di romanizzazione (II-I secolo a.C.). L’apparato didascalico per questi due ultimi nuclei di necropoli è costituito da video che, dopo un inquadramento geografico e storico-archeologico, riportano le piante, le foto, i dati di scavo e le note ricostruttive dei rituali legati alle deposizioni. I video sono riprodotti a ciclo continuo da quattro monitor che affiancano le rispettive vetrine. Dove e quando Museo Nazionale Atestino Este (Padova) Orario tutti i giorni, 8,30-19,30 Info tel. 0429 2085; www.atestino.beniculturali.it


n ot iz iario

MOSTRE Roma

Un impero in 30 metri di Stefano Mammini

isurare la riuscita di un progetto espositivo in termini M oggettivi è impossibile, perché sono

le sensazioni – soggettive – ad avere un peso determinante nel giudizio finale. E se a queste vogliamo affidarci, possiamo senz’altro dire che «a Oriente», la mostra inaugurata presso il Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, è una delle migliori degli ultimi anni. Il tema, la Via della Seta, è stato piú volte affrontato, soprattutto in tempi recenti, ma non per questo ha perso di fascino: si tratta, infatti, di una vicenda che abbraccia oltre due millenni di storia – le prime attestazioni della produzione di tessuti serici risalgono al II secolo a.C. ed è dunque a quell’epoca che prendono forma i primi percorsi lungo i quali le preziose stoffe giungevano in Occidente – e un ambito geografico vastissimo, che spazia dall’Asia Minore fino ai limiti orientali dello stesso continente asiatico. È dunque un universo sterminato, che nell’esposizione viene rappresentato attraverso una selezione di materiali, in larga parte attinti dalle collezioni del Museo d’Arte Orientale, che gettano luce, come altrettanti flash, su alcuni degli aspetti culturali piú significativi fra quelli riconducibili alla Via della Seta. Materiali che vengono presentati al pubblico con le modalità ideate e messe in opera da Studio Azzurro, la «bottega d’arte contemporanea»,

per dirla con le parole di uno dei suoi fondatori, che dal 1982 lavora con i linguaggi delle nuove tecnologie indagandone le «possibilità poetiche ed espressive». Ne è scaturito un matrimonio a nostro avviso felicissimo, che permette al visitatore di immergersi in un ambiente carico di suggestioni visive e sonore grazie alle quali ha la sensazione di poter colmare le migliaia di chilometri che lo separano dalla maggior parte delle terre a cui appartengono le produzioni culturali che vengono di

Dove e quando «a Oriente: città, uomini e dèi sulle Vie della Seta» Roma, Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano fino al 26 febbraio 2012 Orario ma-do, 10,00-19,00; chiuso lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio Info tel. 06 06 08; tel. 800 991199; www.viedellaseta.roma.it Visite guidate Pierreci/Codess tel. 06 39967700; www.pierreci.it

12 a r c h e o


In alto: due particolari delle soluzioni espositive ideate da Studio Azzurro. Qui accanto: un particolare della Carta dell’impero mongolo. Metà del XVI sec. Collezione privata. Nella pagina accanto, in basso: fregio figurato su

due registri: nascita del Buddha, oroscopo (?) e scena di offerta, da Saidu Sharif (Swat, Pakistan). Arte del Gandhara, seconda metà del I-II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale d’Arte Orientale «Giuseppe Tucci».

volta in volta presentate, dall’India alla Cina, dall’Iran alla Mongolia… E poi, dopo questa sorta di ricco e variopinto preludio, si ha l’opportunità, preziosa, di ammirare – ed è una prima mondiale – una «Tabula Peutingeriana» dell’antica Asia: grazie al prestito del suo attuale proprietario, è infatti esposta la Carta dell’impero mongolo, un rotolo di seta di oltre 30 m che rappresentava con dovizia di particolari le terre e le principali città comprese tra il passo Jiayu, nell’attuale provincia del Gansu (provincia della Repubblica Popolare Cinese), fino a Tianfang, l’odierna Mecca in Arabia Saudita. La carta, che in origine comprendeva forse un’ulteriore sezione che documentava il territorio vicino-orientale fino alla città di Costantinopoli, è stata datata alla metà del XVI secolo, all’epoca in cui la dinastia Ming (1368-1644) aveva raggiunto i duecento anni di permanenza alla guida del Celeste Impero. La mostra ha avuto fra i suoi principali artefici l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e giova ricordarlo, nella speranza che anche questa sottolineatura possa contribuire a dissipare le nubi che sempre piú minacciose si addensano sull’istituzione, di cui è stata piú volte annunciata la possibile chiusura e sulla quale, comunque, si sono abbattuti pesantissimi tagli di bilancio.

a r c h e o 13


n ot iz iario

MOSTRE Paesi Bassi Dove e quando «Etrusken» fino al 18 marzo 2012 «Vrouwen van Aanzien» Leiden, Rijksmuseum van Oudheden Orario ma-do, 10,00-17,00; lu chiuso Info www.rmo.nl «Mannen met macht» Amsterdam, Allard Pierson Museum Orario ma-ve, 10,00-17,00, sa-do, 13,00-17,00; lu chiuso Info www.allardpiersonmuseum.nl

Il ritorno degli Etruschi di Iefke van Kampen

ultima esposizione dedicata agli Etruschi in Olanda aveva L’ avuto luogo nel 1989, ma l’ultima

– e finora unica – esposizione sullo stesso tema realizzata con prestiti di materiali italiani risaliva all’ormai lontano 1955. Questa lunga assenza viene ora colmata dalla rassegna che si articola tra il Rijksmuseum van Oudheden (RMO) di Leiden e l’Allard Pierson Museum (APM) di Amsterdam. I due allestimenti si integrano, ma sono anche visitabili singolarmente: all’APM l’accento è stato posto sugli aspetti maschili (guerrieri, principi, sacerdoti, mercanti...), mentre al RMO viene indagato il mondo femminile (il ruolo della donna nella società e nel rituale funebre, la madre e la moglie...). Obiettivo comune è quello di mettere in primo piano i risultati delle ricerche e dei rinvenimenti piú recenti. Tra i materiali concessi in prestito, spiccano: una scelta degli oggetti di corredo della Tomba Regolini Galassi di Cerveteri, i bronzetti della stipe di Brolio, parte della decorazione del carro di Castel San Mariano di Corciano (Perugia), una statua del Tumulo della Pietrera di Vetulonia, il cratere di Aristonothos, parte della decorazione architettonica dell’area sacra di S. Omobono (Roma) e due statuette dalla Tomba delle Cinque Sedie di Cerveteri. Per

14 a r c h e o

l’occasione è stato possibile «riunire» il gruppo statuario recentemente ricostruito per S. Omobono costituito da Dioniso e Arianna (?), unendo una testa femminile con tutulus da Copenaghen e altri frammenti dai Musei Capitolini. Allo stesso modo il visitatore può confrontarsi con l’ipotesi che la statua di Latona con il piccolo Apollo di Veio-Portonaccio possa essere riunita con una testa di bambino ora al British Museum di Londra. Sono in mostra anche riproduzioni «storiche» di tombe dipinte tarquiniensi della Ny Carlsberg

Due immagini degli allestimenti dedicati agli Etruschi nella mostra in corso a Leiden e Amsterdam.

Glyptotek, eseguite al tempo della loro scoperta. Una ricerca ad hoc ha inoltre accertato l’esistenza di alcune produzioni «olandesi» di gioielli neo-etruschi, realizzate da discendenti della bottega dei Castellani. Infine, un finanziamento europeo all’interno del progetto Etruscanning 3D, sviluppato con partner olandesi, belgi e italiani, ha reso possibile la ricostruzione multimediale della Tomba Regolini Galassi.



n ot iz iario

MOSTRE Parigi

Anche a Pompei vivere era un’arte di Daniela Fuganti

a mostra su Pompei in corso al Musée Maillol di Parigi vuole L sensibilizzare il pubblico francese al

problema della salvaguardia di uno dei siti archeologici piú famosi e visitati al mondo. «L’evento – spiega Patrizia Nitti, direttrice del museo – è il primo passo di un progetto ambizioso, che prevede un finanziamento decennale a favore del famoso sito campano in pericolo, da parte di un grande gruppo di aziende francesi (EPADESA), che, sotto la tutela dell’UNESCO e con il benestare del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano (non ancora definitivo), dovrebbero finanziare gli interventi di salvaguardia ritenuti piú urgenti». L’esposizione consente al visitatore di immaginare come doveva svolgersi la vita quotidiana all’interno delle abitazioni di uno dei tanti centri di provincia dell’impero romano alla metà del I secolo d.C. Pompei era una prospera città di diecimila abitanti, e godeva di ri-

flesso del carattere internazionale del vicino porto di Pozzuoli, considerato come «porta dell’Oriente» nel periodo fra la tarda repubblica e il primo secolo dell’impero. Si tratta di un periodo di pace, nel quale la raffinatezza e la comodità della vita quotidiana coinvolge soprattutto le classi superiori, anche se fra i notabili della cittadina campana di cui oggi al Maillol possiamo ammirare le ricchezze c’erano molti discendenti di schiavi affrancati. Abitavano domus paragonabili a quella ricostruita per l’occasione in una sala del museo, decorate con statue in marmo e bronzo, pitture e rappresentazioni varie a soggetto erotico, fontane e ninfei. Si indovina, percorrendo la mostra, come sui tavoli marmorei dai piedi a forma di artiglio dovesse venire esibita un’argenteria preziosa, almeno quanto gli incredibili e sorprendentemente «moderni» gioielli in oro. Probabilmente la cassaforte decorata in bronzo prestata dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli

A sinistra: statuetta di ermafrodito, dagli scavi di Pompei. I sec. d.C: In alto: oinochoe in bronzo, con inserti in argento e rame, in forma di testa femminile, dagli scavi di Ercolano. Prima metà del I sec. d.C. A destra: fontana rivestita in mosaico, dagli scavi di Pompei. I sec. d.C.

era uno dei molti scrigni destinati a conservarli e proteggerli. Nonostante l’edonismo e la gioia di vivere che emergono dalle testimonianze arrivate fino a noi, Pompei non doveva essere un luogo completamente spensierato, dato che i terremoti erano frequenti e ripetitivi. Nel 62, diciassette anni prima dell’eruzione, un grande sisma aveva semidistrutto la città, che peraltro aveva subito scosse telluriche, secondo le ultime scoperte, anche un mese prima della grande catastrofe. «Nelle nostre intenzioni, questa esposizione – spiega Stefano De Ca-



n ot iz iario

Archeofilatelia

a cura di Luciano Calenda

Glorie d’Anatolia

Affresco raffigurante Dioniso in trono. 50-79 d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

ro, direttore generale onorario del patrimonio archeologico, e commissario della mostra insieme a Valeria Sampaolo, direttrice del Museo Archeologico di Napoli, e ad Antonio Varone, direttore degli scavi di Pompei – sarà molto utile per attirare l’attenzione internazionale su Pompei. Non dimentichiamo che l’antico sito è stato sempre particolarmente amato dai Francesi, e che Carolina Bonaparte, moglie di Gioacchino Murat, veniva chiamata “Madame Pompéi” proprio per la sua passione per l’archeologia! Al suo architetto di fiducia, JeanFrançois Mazois, si deve la prima pubblicazione moderna sulla città, Le rovine di Pompei, illustrata con oltre 400 disegni degli anni 18081810. Un’opera preziosa come poche altre per gli studi archeologici successivi, che disporranno quasi unicamente della testimonianza di questi disegni, dopo che i cercatori di tesori avranno trafugato e disperso una buona parte degli oggetti, mosaici e pitture, scoperti sul posto». Dove e quando «Pompéi, un art de vivre» Parigi, Musée Maillol Fino al 12 febbraio 2012 Orario tutti i giorni, 10,00-19,00 (il venerdí fino alle 21,30); chiuso il 25 dicembre e il 1° gennaio Info www.museemaillol.com

L’ampio spazio dedicato in questo numero alla nazione «ponte» tra Europa e Asia non poteva non avere anche una breve introduzione filatelica. Sono numerosi i siti archeologici presenti in Turchia cosí come sono moltissimi i reperti recuperati; siti e oggetti sono stati riprodotti da molti francobolli, turchi innanzitutto. Cominciando dai siti, l’apertura spetta a Troia. Nel 1956 la Turchia emise una serie di tre valori raffiguranti cose concrete e fantastiche: uno scorcio del sito archeologico, un’anfora e... il cavallo di omerica memoria, tutti e tre su busta con annullo del 1° giorno di emissione, anch’esso raffigurante il cavallo (1)! Dopo Troia, ecco Efeso, con alcuni dei suoi famosi monumenti riprodotti su francobolli (stranamente non ne esiste uno con il piú famoso di tutti: la Biblioteca di Celso; 2, 3). Interessante è, invece, questo 6 francobollo ungherese del 1980 che propone la ricostruzione del tempio di Artemide (4), una delle sette meraviglie del mondo antico sempre a Efeso e ridotto, oggi, a una sola colonna. Con altrettanta fantasia, un altro francobollo ricostruisce il mausoleo di Alicarnasso (5), un’altra delle sette meraviglie, localizzato nell’odierna Bodrum. Anche per questo oggi non resta assolutamente nulla. Dopo i siti ecco i reperti: oggetti in ceramica (6, 7, 8, 9), in metallo (10, 11, 12), in avorio (13) e anche monili preziosi (14, 15) provenienti da varie epoche, anche fino al XX secolo a.C. Chiudiamo questa breve rassegna con un particolare dei mosaici romani di Zeugma: Achille travestito da donna per non partire per Troia viene smascherato da Ulisse (16). IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it

1

3

2

4

5

7

8

9

10

11

12

13

15

14 16

18 a r c h e o


incontri Paestum

Quando il passato fa rima con risorsa

i rinnova, dal 17 al 20 novembre, l’appuntamento con la Borsa Mediterranea del Turismo ArcheoloS gico di Paestum, giunta alla sua XIV edizione. L’even-

a r c h e o 19

p u b b l i c i t à r e da z i o n a l e

to si propone di favorire la commercializzazione di prodotti turistici specifici e l’approfondimento di temi inerenti la tutela, la fruizione, la valorizzazione dei beni culturali e la cooperazione tra i popoli. Paese Ospite ufficiale è quest’anno la Turchia, il cui patrimonio archeologico sarà illustrato venerdí 18 novembre, alla presenza del Ministro della Cultura e del Turismo Ertugrul Günay, dai Direttori delle Missioni Archeologiche Italiane che operano in Turchia: Isabella Caneva (Yumuktepe), Francesco D’Andria (Hierapolis), Eugenia Equini Schneider (Elaiussa Sebaste), Marcella Frangipane (Arslantepe), Antonio La Marca (Kyme), Raffaella Pierobon Benoit (Golfo di Mandalya), Guido Rosada (Tyana) e Marcello Spanu (Iasos). Per l’occasione, l’Ufficio Cultura e Informazioni dell’Ambasciata di Turchia in Italia, presenterà diversi filmati sui piú importanti musei archeologici del Paese (Istanbul, Izmir, Antalya, Ankara). Particolare attenzione sarà riservata al nuovo Zeugma Museum di Gaziantep, il museo del mosaico piú grande del mondo, inaugurato dal Ministro Günay a settembre 2011. Al V Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, sul tema «Tutela del patrimonio e turismo culturale in tempo di crisi», in collaborazione con ICCROM e «Archeo», interverranno il Direttore Generale dell’ICCROM Mounir Bouchenaki, i direttori delle testate archeologiche italiane ed estere, i Ministri

della Cultura di Albania, Georgia, Iraq, Tunisia, il Ministro del Turismo della Cambogia. La Direzione Generale per le Antichità e la Direzione Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in collaborazione con ANA Associazione Nazionale Archeologi e CIA Confederazione Italiana Archeologi convocherà gli Stati Generali dell’Archeologia sul tema «La professione dell’archeologo. Chi fa archeologia oggi in Italia». Agli Incontri con i protagonisti interverranno Sebastiano Tusa, Soprintendente ai Beni Culturali e Ambientali di Trapani, su «Roma e Cartagine: la battaglia navale delle Egadi dai libri di storia alle ricerche sui fondali»; Eva Cantarella, scrittrice e giurista, e Stefano De Caro, archeologo, già Direttore Generale per le Antichità del MiBAC, su «Perché i Classici»; Francesco D’Andria, Direttore della Missione Archeologica Italiana a Hierapolis di Frigia in Turchia sul recente ritrovamento della tomba dell’apostolo Filippo; Alessandro Cecchi Paone, autore e conduttore, su «I Maya non hanno previsto la fine del Mondo». Paestum sarà anche sede della III Riunione Scientifica della SISTUR, Società Italiana di Scienze del Turismo alla quale parteciperanno i vertici delle Organizzazioni Nazionali di Categoria Federturismo, Confturismo, Assoturismo. Nell’ambito della sezione ArcheoFilm verranno proiettati sia i film vincitori dei premi «della giuria» e «del pubblico» della XXII Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto che il filmato La città teatro del canale Marcopolo dedicato ai viaggi, al turismo e all’avventura. In ArcheoLavoro, in collaborazione con Isfol, Le Università presenteranno Corsi di Laurea e Master in Archeologia, Beni Culturali e Turismo Culturale, gli esperti del settore illustreranno le figure professionali e le competenze emergenti. Con i Laboratori di Archeologia Sperimentale il Museo dei Grandi Fiumi di Rovigo e l’Associazione Culturale Archeologia Sperimentale presenteranno la cultura antropologica e materiale dell’antichità. Per ulteriori informazioni: www.borsaturismo.com


Calendario Italia Roma

Nerone

Colosseo, Foro Romano, Criptoportico neroniano e Museo Palatino fino al 15.01.12

Homo Sapiens

La grande storia della diversità umana Palazzo delle Esposizioni fino al 12.02.12

a Oriente

Città, uomini e dèi sulle Vie della Seta Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano fino al 26.02.12 roma

Il Vello d’oro

Antichi tesori della Georgia Allestita nella cornice dei Mercati di Traiano a Roma, la mostra presenta l’antica cultura della Georgia e la storia che lega il territorio del Paese alla mitologia occidentale. L’esposizione è già stata ospitata con successo presso importanti musei statunitensi ed europei, ma, nell’allestimento romano, è arricchita da reperti concessi in prestito dal Museo Nazionale Georgiano, che per la prima volta varcano i confini del Paese per essere ospitati in un museo straniero. Che la Georgia sia la mitica terra del Vello d’oro, terra che ha visto l’estrazione del prezioso metallo sin dal IV millennio a.C., lo spiega il percorso della mostra, che parte da reperti in oro filigranato del III e II millennio a.C., per proseguire con esemplari in bronzo risalenti al II millennio a.C. e ai primi secoli del I millennio. L’antica Colchide raggiunse il momento di massima raffinatezza nella lavorazione dell’oro a partire dall’VIII secolo a.C., in parallelo alla sua comparsa nelle fonti letterarie greche come la terra di Medea e del Vello d’oro. Dopo oltre quaranta anni di scavi a Vani, «la Pompei della Colchide», sono emersi oggetti risalenti al V e IV secolo a.C., periodo in cui la città e il regno giunsero al culmine della ricchezza e dello splendore. La cultura georgiana raccontata attraverso l’eccellenza della lavorazione dei metalli offre spunti che, oggi, potrebbero ricondurre il mito del Vello d’oro non solo a un racconto leggendario, ma a un preciso riferimento con la fiorente civiltà documentata grazie alle recenti scoperte nei principali siti archeologici georgiani. dove e quando Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano fino al 05.02.12 (dal 16.11.11) Orario ma-do, 9,00-19,00; chiuso lunedí, 25 dicembre, 1° gennaio Info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, 9,00-21,00); www.mercatiditraiano.it; www.viedellaseta.roma.it

bolzano

Ötzi20

Mostra per il ventennale del ritrovamento dell’Uomo del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12 chiusi

Museo Etrusco di Chiusi + 110 Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12

Ritratto di Virgilio con due Muse. Prima metà del III sec. d.C.

mantova

Virgilio

Volti e immagini del poeta Mantova, Ala Napoleonica di Palazzo Te fino all’08.01.12 milano

Nutrire il corpo e lo spirito Il significato simbolico del cibo nel mondo antico Museo Archeologico fino al 31.12.11

Montefiore Conca (Rn)

Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12 otricoli

Cose mai viste

Lo splendore di Ocriculum esce dai Magazzini Casale S. Fulgenzio fino al 31.05.12

Piatto da esposizione in maiolica istoriata con satiro a pesca.

perugia – gubbio

Screhto est

Lingua e scrittura degli antichi Umbri Perugia, Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria Gubbio, Palazzo dei Consoli, Sala delle Tavole eugubine fino all’08.01.12 piacenza

Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Museo Archeologico fino al 31.12.11 scansano (GR)

La valle del vino etrusco

Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Grecia

trento

Atene

Etruschi in Europa

Il mito e la monetazione

Museo delle Scienze fino al 09.01.12

Museo Archeologico Nazionale e Museo Numismatico fino al 27.11.11

treviso

Paesi Bassi

Manciú, l’ultimo imperatore Casa dei Carraresi fino al 15.05.12 venezia

Venezia e l’Egitto Palazzo Ducale fino all’01.01.12

amsterdam e leida Particolare di una delle pitture parietali della Tomba degli Auguri di Tarquinia.

Elmo in bronzo di tipo illirico con maschera in oro, dalla tomba 115 di Sindos. 520 a.C. circa.

I Galli

Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12 strasburgo

Strasburgo-Argentorate

Allard Pierson Museum (Amsterdam) e Rijksmuseum van Oudheden (Leiden) fino al 18.03.12

basilea

Parigi

La Macedonia antica Musée du Louvre fino al 16.01.12

Gli Etruschi

Svizzera

Francia Al tempo del regno di Alessandro Magno

Statere in argento della Lega Arcade. 360 a.C. circa.

Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.) Musée archéologique fino al 31.12.11

Sesso, droga e musica

L’ebbrezza e l’estasi nell’antichità Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 29.01.12 Hauterive

L’era del falso

Quando le contraffazioni svelano i sogni e le speranze degli archeologi Laténium, Espace Paul Vouga fino all’08.01.12

L’immagine guida elaborata per la mostra di Basilea.

USA new york

Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 17.06.12

Riproduzione dell’affresco delle «Dame in blu», il cui originale fu trovato presso i magazzini reali di Cnosso.

Germania monaco

La guerra di Troia

200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12

a r c h e o 21


L’archeologia nella stampa internazionale a cura di Andreas M. Steiner

I

l leone, icona-simbolo delle antiche civiltà del Vicino Oriente, trova nella grande scultura monumentale degli Ittiti una delle sue massime espressioni. Ne sono un esempio le «porte dei leoni» di Hattusha, Alaça Höyük, Arslantepe, in Turchia,

per non parlare dei celeberrimi leoni assiri di Arslan Tash (Siria, confini con la Turchia). Del resto, in turco arslan significa, appunto, «leone»: un nome che appare anche in numerosi toponimi di questa terra. E proprio dalla Turchia sud-orientale, 25 km a est di Antakya (Antiochia), archeologi dell’Università di Toronto hanno portato alla luce la scultura, perfettamente conservata, di un grande leone di pietra antico di tremila anni…

La caduta del faraone

22 a r c h e o

D

Il leone di Kunulua Il leone, alto circa 1,3 metri e lungo 1,6 , apparteneva all’architettura di una porta d’accesso alla cittadella di Kunulua, capitale del regno neo-ittita di Patina (950-725 a.C. circa) sulle rive dell’Oronte, oggi identificata con il nome di Tell Ta’yinat. «Una seconda scultura – spiega Timothy Harrison, professore di archeologia vicinoorientale e direttore del Tayinat Archaeological Project –, questa volta frammentaria, rinvenuta nei pressi del leone, raffigura un personaggio fiancheggiato da leoni. Si tratta di un motivo tipico dell’arte vicinoorientale, quello del Signore degli Animali, con il quale gli antichi rappresentavano l’imposizione di un ordine civile alle forze caotiche della natura». È probabile che la porta sia stata distrutta in seguito alla conquista assira della città, avvenuta nel 738 a.C. Spiega ancora Harrison: «I tratti stilistici del leone ricordano quelli di una base di colonna, decorata con due leoni, rinvenuta negli anni Trenta del secolo scorso all’entrata di un recinto sacro di epoca assira. Non sappiamo se siano stati oggetti di riuso o se, invece, furono scolpiti durante l’occupazione assira, ma rimane il fatto che i leoni fanno parte di una tradizione scultorea locale neoittita che precede l’avvento degli Assiri».

i Zahi Hawass, segretario generale del Consiglio supremo delle antichità egizie, dal 2002, «Archeo» si è occupata spesso, e non poteva essere altrimenti: le antichità dell’Egitto tutto facevano capo a questa figura carismatica, potentissima e controversa. Nei mesi passati, gli avvenimenti culminati nella «primavera araba» hanno spazzato via il vecchio ordine politico e, insieme a esso, anche l’egittologo Hawass. Cosa ne sarà, ora, dell’archeologia nel Paese del Nilo? La domanda è al centro di alcune considerazioni svolte su due riviste in lingua inglese, Biblical Archaeology Review e Current World Archaeology.


Il leone in pietra (1,3 x 1,6 m) scoperto a Tell Ta’yinat, l’antica città ittita di Kunulua (Turchia sud-orientale), da una missione dell’Università di Toronto. Fine II-inizi I mill. a.C. Nella pagina accanto: il leone di Kunulua mentre viene trasportato al Museo Archeologico di Antalya.

Innumerevoli – e innegabili – le iniziative messe in atto con successo da Hawass per promuovere e valorizzare l’archeologia dell’Egitto: l’obbligo tassativo di pubblicare in tempi stretti i risultati di scavo, l’avvio della costruzione del nuovo, grande museo di Giza, il suo agguerrito impegno a favore del rientro di alcuni celeberrimi capolavori dell’arte egizia (inclusi la Stele di Rosetta, lo Zodiaco di Dendera, il Busto di Nefertiti). Di contro, la commercializzazione, non ultimo, della sua stessa immagine di «Indiana Jones dell’Egitto», la sua vicinanza ai poteri politici e i suoi metodi autocratici («ha gestito le antichità del

Paese come Mubarak ha gestito l’Egitto», lamenta l’archeologa egiziana Nora Shalaby) hanno, da sempre, compromesso la sua reputazione e, infine, contribuito alla sua caduta. Oggi, libero da impegni istituzionali, Hawass sta lavorando alla sua autobiografia «archeologica». Intanto, a capo del Consiglio Supremo è stato chiamato Mohamed Abdel Fattah, già capo del Dipartimento dei Musei dell’Egitto. Che, come prima cosa, dovrà affrontare il preoccupante aumento di scavi clandestini e di distruzioni che, proprio in seguito ai recenti avvenimenti politici, sta affliggendo il Paese… a r c h e o 23


scavi arabia saudita

Deserto Verde di Romolo Loreto e Guillaume Charloux

Dal 2009 una missione archeologica italiana indaga il passato di un’oasi nel cuore della Penisola Arabica: il nome del sito è Dûmat al-Jandal, l’antica Adummatu degli Assiri, e, sin da epoche lontanissime, fu snodo cruciale per le piste carovaniere che attraversavano la regione

«C

ome il Paradiso eterno, nulla può penetrar vi senza pr ima aver varcato le porte dell’Inferno». Con queste parole, riprese da un poeta arabo, l’esploratore britannico William Palgrave descriveva nel 1863 il suo arrivo a Dûmat al-Jandal; e a ragione. L’oasi, chiamata anche al-Jawf («la depressione» in arabo), è un rifugio verdeggiante isolato nel nord della Penisola Arabica. I primi grandi agglomerati cittadini si trovano a oltre 200 km di distanza, separati dalle dune di sabbia del deserto del Nefûd, a sud, o dalle distese dei pianori rocciosi circostanti. Grazie a una straordinaria concatenazione di eventi, la fama e la prosperità del sito derivano proprio da questa posizione remota, al confine del wâdî al-Sirhân, che collega la Siria meridionale con l’Arabia deserta (il termine wâdî indica un corso d’acqua a regime idrologico irregolare, spesso a secco, ma le cui 26 a r c h e o

piene sono estremamente violente e pericolose). L’oasi, infatti, è una delle rare tappe di passaggio obbligatorio tra l’est e l’ovest della Penisola Arabica; essa è localizzata all’incrocio delle vie carovaniere tra il sud della Mesopotamia, il Golfo arabopersico, la Siria e l’Arabia petrea, rotte che l’hanno arricchita fino alla conquista musulmana.

L’oasi e le fonti storiche Dûmat al-Jandal si presenta come un grande bacino, circondato da basse colline di arenaria, che si estende per circa 8 km di lunghezza e 3,5 di larghezza. Il palmeto e le colture agricole si sviluppano nel fondo della valle, mentre i quartieri residenziali moderni sono impiantati sui pianori adiacenti non coltivabili. Il palmeto è conosciuto soprattutto per i suoi eccellenti datteri, ma si riconoscono altre colture piú sorprendenti: la vite e l’ulivo, specifiche delle regioni del Medi-


Uno dei giardini nel cuore dell’oasi antica di Dûmat al-Jandal, nel nord-ovest dell’Arabia Saudita. In primo piano, la moschea di ‘Umar Ibn al-Khattâb (581circa-644), vista dal Qasr Mârid. Il minareto, a forma di obelisco, si caratterizza per il fatto di non essere allineato con il muro della Qibla, ragione per la quale alcuni autori hanno suggerito che si tratti di un antico campanile o di un torrione, e che la moschea in realtà sia stata costruita su un edificio piú antico.

a r c h e o 27


scavi arabia saudita Eu

fra

Mar Mediterraneo Sidone ne Verso Grecia e Roma

Tiro

P Palmira

tre

K Khindanu

Mesopotamia

Damasco Bosra

Babilonia abilonia a

Gaza

Alessandria nd

Charax

Aqaba Petra

Coptos Tebe

Persia

Dûmat al-Jandal

Hedjaz

Egitto

grii Tig

Carta della Penisola Arabica con le principali rotte commerciali marittime e terrestri conosciute in epoca antica.

Myos yos Leuke Hormos mos os Kome

Tayma Mada’in Salih al-Ula

Gerrha Bahrein n

Golfo Persico

Medina

Berenice

Deserto Arabo

ilo

N

Ra’s al-Hadd R

La Mecca

Nubia

Oman

Mar Rosso

Abissinia

Adulis Axum

Verso l’India

Qaryat al-Faw

N Najaran R Ruwayk Ma’in n Shibam Tarim T Ta Jawf Ma’rib R yb Raybun Ray Saba Shabwa S ab Tamna Hadramawt

Dhofar Kh Rori Khor M Moscha Limen

Mar d’Arabia Verso l’India

Qataban

Naqb al-Hajar M Muza Bi’rr Bi’r’Ali Okelis kkelis e

Aden

Golfo di Aden

la missione archeologica italiana a Dûmat al-Jandal Il progetto di scavi a Dûmat al-Jandal nacque da un’offerta esplicita formulata dalle Autorità saudite (Supreme Commission of Tourism, SCT) ad Alessandro de Maigret di aprire scavi nell’antico sito arabo di Adumatu, che si trova nella Provincia del Jawf, cioè nell’estrema regione settentrionale del Regno. Nel giugno 2008 de Maigret condusse, su invito ufficiale della SCT, una ricognizione dettagliata del sito. La conseguente approvazione del progetto e la concessione di scavi e prospezioni archeologiche nell’insediamento e nel territorio di Adumatu da parte del Research Committee della SCT, fu di grande importanza, e non solo perché era la prima volta che il Regno dell’Arabia Saudita apriva all’Italia una concessione di scavo nel suo territorio. Alessandro de Maigret colse con grande interesse ed entusiasmo la possibilità di indagare un sito tra i piú rappresentativi tra le antichità del Regno e che ha una grande importanza nel quadro delle complesse vicende politiche, sociali ed economiche che caratterizzarono il

Vicino Oriente in tutto il I millennio a.C. Nacque cosí la Missione archeologica italo-saudita a Dûmat al-Jandal, che inaugurò la prima campagna di scavi nel 2009 grazie ai fondi erogati dal Ministero degli Affari Esteri italiano (DGPCC), dall’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente e dall’Università «L’Orientale» di Napoli. Nella campagna archeologica del 2010, finanziata dal MAE e dall’IsIAO, al team italiano si uní la Missione francese diretta da Christian Robin (CNRS, Parigi), che stava conducendo in Arabia Saudita una serie di esplorazioni nel territorio di Najrân, la regione confinante con lo Yemen. La Missione congiunta italo-franco-saudita opera sotto il patrocinio delle Ambasciate d’Italia e di Francia nel Regno dell’Arabia Saudita ed è sostenuta, da parte saudita, dalla General Organization for Tourism and Antiquities di Riyadh, diretto da ‘Alî I. al-Ghabbân e dalla Provincial Tourism Organization of al-Jawf, presieduta da ‘Abd al-Hadî al-Mu‘aykil. Romolo Loreto e Sabina Antonini I membri della Missione italofranco-saudita a Dûmat al-Jandal.

28 a r c h e o


Dûmat al-Jandal, l’imboccatura di una scalinata rettilinea in pietra che conduce alla base di un pozzo, nei pressi del Qasr Mârid.

terraneo. Un lago artificiale di circa 2,9 km di lunghezza, creato all’inizio degli anni Ottanta a est della valle, funge da riserva per le colture. Una vasta area piana fortemente salina, probabilmente in luogo di un antico lago oggi prosciugato, si estende a un livello inferiore del lago artificiale. Il nome dell’oasi antica e medievale, Dûmat al-Jandal, deve verosimilmente la sua origine ad «Adummatu», enigmatico toponimo che si incontra a piú riprese negli annali dei re neo-assiri (VIII-VII secolo a.C.); e da «al-Jandal», qualificativo arabo antico che designa la pietra locale con la quale sono edificati i monumenti e le abitazioni dell’oasi. Inoltre, nella Bibbia (Genesi), Dûma è uno dei dodici figli d’Ismaele, lui stesso figlio di Abramo e il termine è anche il soggetto di un versetto del profeta Isaia dal significato oscuro, intitolato «il fardello di Dûma». In entrambi i casi, gli annali neo-assiri e i passi biblici, l’associazione con Dûmat al-Jandal è comunque ancora dibattuta.

La testimonianza di Plinio La piú antica attestazione di Dûmat al-Jandal è stata scoperta nella provincia del Jawf; si tratta di un testo tardo, poiché datato al I secolo dell’era cristiana. Esso menziona un comandante di campo nabateo e la costruzione e il rifacimento di un santuario sul sito, dedicato a Dushara, la divinità suprema dei Nabatei. Questi ultimi, dunque, dovevano essersi installati sulla pista commerciale tra il Golfo e l’Arabia petrea e Dûmat al-Jandal divenne verosimilmente il limite orientale del regno, tanto quanto Higra (Madâ’in Sâlih) nella sua parte a sud. D’altronde, entrambe le oasi sono citate insieme da Plinio il Vecchio nel I secolo. Nel 106 d.C., Dûma è integrata alla Provincia romana d’Arabia, come

L’interno di un pozzo nel centro dell’oasi di Dûmat al-Jandal. Sono visibili le aperture regolarmente ripartite lungo il paramento interno, su cui è fissata la scalinata elicoidale.

a r c h e o 29


scavi arabia saudita

dai Bizantini a ovest, nonostante si trovasse al margine dell’epicentro dei conflitti tra i due imperi e fosse protetta dal suo isolamento.

Khâlid bin al-Walîd. Un altro storico arabo, Ibn-al-Kalbî (737-819), ci dice nella sua opera Gli Idoli che lo stesso Khâlid ritorna in seguito a Dûma per distruggere il santuario del dio locale Wadd, ugualmente La conquista di Maometto Dûma appartenne per lungo tem- molto popolare nello Hejaz (regiopo a una federazione di alleati di ne situata nel nord-ovest dell’AraBisanzio, perlomeno fino agli inizi bia, nella quale sono localizzati i ha confermato la scoperta nell’oa- del VI secolo, poi a un ramo della due grandi siti preislamici di Higra si di un altare frammentario con tribú dei Kinda, alla quale appartie- e Dedan/Khukheibeh). un’iscrizione latina. Un’altra iscri- ne un celebre sovrano locale chia- In epoca medievale, le attestazioni zione, detta della Praetensio, men- mato Ukaydir. Menzionato a piú testuali si fanno piú rare. Dûma ziona la restaurazione del potere riprese nelle fonti arabe medievali, perde progressivamente il suo ruolo militare romano tra Bosra (Siria) e Ukaydir cercò dapprima di oppor- di snodo carovaniero con lo spoDûma, probabilmente sotto l’impe- si alle campagne militari musul- stamento delle rotte commerciali, ratore Aureliano nel III secolo, do- mane, infine abbandonò l’oasi. Lo che ormai seguono le vie dei pelpo la conquista palmirena del 272. storico arabo al-Wâqidî (745-822) legrini verso la Mecca. Nel XIX Vari autori classici, Tolomeo, Eu- riferisce della presa delle città di secolo, l’oasi non è che un piccolo sebio di Cesarea, Stefano di Bisan- frontiera dell’impero bizantino da borgo desolato, di cui ogni signore zio menzionano l’oasi tra il II e il parte del Profeta Maometto e dei regionale prende volta per volta il VI secolo; Porfirio racconta che i suoi compagni; nell’episodio quasi possesso. Dûmat al-Jandal (al-Jawf) Dumathii, popolo dell’Arabia, sa- miracoloso della conquista di Dû- diventa saudita nel 1921. crificavano un infante ogni anno e mat al-Jandal, due «vacche selvagge» Sebbene menzionata dagli storici lo seppellivano sotto l’altare della giungono in piena notte a raschiare arabi medievali Balâdhurî, Masûdî, con le loro corna la porta d’ingres- Yâqût e Tâbâri, per non citare che divinità. La storia della regione del Jawf tra so della città e conducono il loro i piú celebri, occorre attendere le il III e il VI secolo è poco cono- sovrano, Ukaydir, appassionato di prime visite degli esploratori occisciuta: fu conquistata a piú riprese, caccia, verso una trappola tesa dal dentali a partire dal XIX secolo (Ulprobabilmente dai Sassanidi a est e condottiero dell’armata musulmana rich Jasper Seetzen e al-Malikî nel Incisioni rupestri nella regione di Dûma. In basso a destra, un cavaliere che monta un dromedario caccia uno struzzo. Gli struzzi erano ancora numerosi nella regione sino alla fine dell’Ottocento. In alto, forse un corteo di stambecchi.

30 a r c h e o


1806, Johann Ludwig Burckhardt intorno al 1810-1816), perché l’oasi sia descritta con precisione. Due missioni di prospezioni – i cui risultati sono piuttosto sommari – hanno avuto luogo durante la seconda metà del XX secolo, seguite dalle prime esplorazioni e dai primi timidi tentativi di scavo del Dipartimento delle Antichità dell’Arabia Saudita alla metà degli anni Ottanta. Le attività di scavo della Missione italiana hanno avuto inizio nell’aprile-maggio 2009 (vedi box a p. 28), avendo come obiettivo lo studio della ricchezza patrimoniale

del sito di Dûmat al-Jandal e della sua occupazione durante i periodi islamici e preislamici.

numenti antichi e della scelta della loro localizzazione in un ambiente complesso, la determinazione dei contatti e delle sfere d’influenza proprie di ciascun periodo. Studio e valorizzazione L’aspetto scientifico, ma anche tu- Inoltre, la nostra partecipazione alla ristico e per estensione economi- valorizzazione del sito contribuirà co, sono piuttosto importanti per allo sviluppo del turismo, sopratla regione. Sul piano scientifico, tutto regionale, e lo studio dei mola raccolta dei dati archeologici numenti emblematici dell’oasi e del grazie alle prospezioni e agli scavi loro contesto generale doneranno permetterà di completare le nostre (segue a p. 34) conoscenze dell’oasi: la cronologia esatta dell’occupazione del sito, i Resti di uno dei tumuli localizzati mutamenti storici e culturali in uno sulle alture di Dûma. Le strutture si spazio limitato, lo studio dei mo- presentano in genere saccheggiate.


scavi arabia saudita il castello e il suo abitato

In alto: il Qasr Mârid, simbolo di Dûmat al-Jandal. Il castello è ascrivibile all’età medievale, ma, al momento, si ignora la possibile data della sua prima fondazione. In basso, a sinistra: un muro in opera pseudo-isodoma (cioè con filari di pietre di spessore differente)

32 a r c h e o

dell’«edificio A», portato alla luce nel corso del sondaggio stratigrafico effettuato a est del Qasr Mârid. L’ultima fase di frequentazione della struttura, al cui interno sono stati rinvenuti frammenti di ceramica databili tra il II sec. a.C. e il I d.C., è datata al VI-VII sec. d.C.


A: B: C: D: E: F:

In alto: rilievo planimetrico del settore storico di Dûmat al-Jandal. Al centro, indicato dalla lettera E, il Qasr Mârid, la fortezza che difendeva l’oasi. A sinistra: le stele monolitiche che compongono il sito preistorico di ar-Rajâjîl, 20 km a nord-est di Dûmat al-Jandal.

LEGENDA Settore A Settore B Settore di scavo saudita Villaggio islamico Qasr Mârid Museo Archeologico Prospezioni di strutture Limite del parco archeologico Pozzo

a r c h e o 33


scavi arabia saudita Uno dei numerosi vicoli nel centro storico dopo il restauro attualmente in corso da parte dei sauditi.

alla popolazione locale l’accesso alla loro stessa storia. Da un punto di vista istituzionale e diplomatico, la collaborazione sul terreno con i nostri colleghi sauditi è ricca d’insegnamento e permette un’apertura e una condivisione culturale rari.

Le strategie di ricerca Tra il 2009 e il 2010 hanno avuto luogo due campagne, durante le quali sono state definite tre linee di ricerca: prospezioni geo-archeologiche dell’oasi, scavi archeologici nel settore storico ai piedi del Qasr Mârid, studio e valorizzazione dell’antica cinta muraria. I risultati ottenuti sono incoraggianti, sebbene si ponga un serio problema: l’oasi ha subito recentemente un’intensa attività di costruzione, legata soprattutto al forte aumento demografico (4% annuo), in virtú del quale la popo34 a r c h e o

lazione ha raggiunto ormai i 33 000 abitanti. Di conseguenza, è divenuto urgente recuperare i dati ancora accessibili, poiché le rovine, in particolare quelle di epoca medievale e del XIX secolo, vanno scomparendo rapidamente. Tra le vestigia piú impressionanti figurano i sistemi idraulici antichi. La prospezione parziale del centro dell’oasi, attorno al Qasr Mârid, ha rilevato 25 pozzi su una superficie di 1000 x 250 m. Questi pozzi misurano generalmente tra i 3 e i 6 m di diametro e, in alcuni casi, sono provvisti di una scala che permette di raggiungere delle nicchie realizzate ad altezze regolari al fine di effettuare operazioni di pulizia o riparazioni. In un caso, la scala scende lungo la facciata esterna del pozzo, con andamento elicoidale. I pozzi appartengono probabilmente a un

sistema di qanât, del tipo conosciuto in tutto il Medio Oriente (gallerie sotterranee di drenaggio che potevano raggiungere dozzine di chilometri di lunghezza, dalle quali si poteva attingere l’acqua attraverso pozzetti piú o meno ampi).

Gli «aquiloni del deserto» L’esploratore finlandese Georges A. Wallin, che visitò l’oasi nel 1845, descrive la presenza di qanât sufficientemente spaziosi da permettere a un uomo di tenersi in piedi. La loro antichità si spiega se si osserva come essi siano diffusi nelle zone attualmente non coltivate. L’area dell’oasi è dominata anche da alcuni tumuli, in genere saccheggiati, nei pressi dei quali sono stati rilevati circoli di pietre che delimitano verosimilmente spazi abitati o recinti. Piuttosto frequenti nella


alessandro de maigret, una vita per l’arabia

Alessandro de Maigret, direttore delle Missioni archeologiche italiane nella Repubblica dello Yemen (1980-2010) e nel Regno dell’Arabia Saudita (2008-2010).

Alessandro de Maigret è scomparso il 14 febbraio 2011 all’età di 67 anni. Era professore di Archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente antico all’Università di Napoli «L’Orientale» dal 1980. Ha dedicato trent’anni della sua vita professionale allo Yemen, dove scoprí piú di 50 siti nell’altopiano orientale (Khawlân at-Tiyâl e al-Hadâ) con diverse fasi di occupazioni preistoriche, dal Paleolitico, al Neolitico aceramico e all’età del Bronzo. In particolare, dagli scavi condotti in due principali siti nel 1984-85, de Maigret ha ricostruito un primo quadro completo della cultura da lui identificata come età del Bronzo yemenita (III-II millennio a.C.). Nel 1983 per conto dell’allora Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (oggi Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, IsIAO) di Roma, lo studioso avviò un programma di formazione archeologica nello Yemen finanziato dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri (DGCS). Il lavoro di cooperazione proseguí senza soste fino al 1987, e poi dal 1989 al 1992. Durante una ricognizione condotta nel 1985 nel territorio a sud-est di Mârib, con lo scopo di comprendere il nesso tra la cultura dell’età del Bronzo e l’origine della civiltà sabea, de Maigret scoprí le grandiose rovine di periodo sabeo arcaico nel Wâdî Yalâ. Gli scavi ivi condotti nel 1987 gli permisero di ristabilire la «cronologia lunga», innalzando l’origine della civiltà sudarabica almeno al 1200 a.C. Alla fine degli anni Ottanta, le autorità yemenite gli concessero il permesso di scavo a Barâqish, l’antica Yathill, una tra le piú importanti città carovaniere dello Yemen antico. Durante le campagne archeologiche condotte tra il 1989 e il 1992 fu messo in luce il grande tempio dedicato al dio guaritore/confessore Nakrah. Dal 1993 al 1997 de Maigret fu inviato dal Ministero degli Affari Esteri come consigliere per l’archeologia presso l’Ambasciata d’Italia a Riyadh, in Arabia Saudita, dove stabilí contatti e collaborazioni con le maggiori università e istituzioni dei Paesi della Penisola araba. Il 1998 segnò l’inizio di un nuovo periodo di attività sul campo, quando de Maigret, su invito del collega francese Christian Robin, condusse gli scavi nel grande tempio sudarabico a Yeha, in Etiopia. La felice collaborazione con la Missione francese continuò in Yemen con le ricerche a Tamna‘, la capitale del Regno del Qatabân, dal 1999 al 2009. Gli scavi a Tamna‘ misero in luce il tempio di Athirat, numerose tombe nella necropoli di Hayd bin ‘Aqîl e una serie di case-torre nella «piazza del mercato». Nel 2003 riprese l’attività a Barâqish con il restauro del tempio di Nakrah, e nel corso delle campagne successive (2004-2006) fu messo in luce il tempio di ‘Athtar dhû-Qabd, la maggiore divinità dei Minei, e scavata la prima necropoli minea. La creazione (2003) di uno Yemeni-Italian Center for Archaeological Research (YICAR) presso il Museo Nazionale di San‘â’ con finanziamenti congiunti della General Organization for Antiquities and Museums (GOAM), del nostro Ministero degli Esteri (DGCS) e dell’IsIAO, suggellò la decennale collaborazione archeologica tra l’Italia e lo Yemen. Purtroppo la difficile situazione politica interna, che da qualche anno caratterizza lo Yemen, ha reso impossibile procedere con gli scavi sia a Baraqish, sia a Tamna‘. Per questo de Maigret nel 2009 ottenne dal GOAM la concessione di scavi e ricerche nel sito sabeohimyarita piú prossimo a San‘â’, e la prima campagna, grazie ai fondi erogati dal MAE (DGSP) e dall’IsIAO, si è conclusa nel dicembre 2010. Sabina Antonini

a r c h e o 35


scavi arabia saudita Frammenti di terra sigillata orientale A e di ceramica nabatea di lusso tipo «egg shell» rinvenuti nel sondaggio stratigrafico nel cuore dell’oasi di Dûmat al-Jandal. In entrambi i casi si tratta di ceramica da mensa di lusso di fattura pregiata. Con il nome di «terra sigillata orientale A» si intende la piú diffusa fra le terre sigillate orientali a vernice rossa, di origine siro-palestinese. Si tratta della piú antica tra le ceramiche romane a vernice rossa sul mercato. Fu prodotta a partire dalla metà del II sec. a.C. fino a gran parte del II sec. d.C. La sua diffusione interessa soprattutto il bacino orientale del Mediterraneo, fino a raggiungere Dura Europos, Seleucia e il Delta del Nilo. Verso occidente è attestata a Pompei e in Tripolitania. Con il nome di «egg shell» (guscio d’uovo) si intende una particolare ceramica nabatea prodotta in Giordania (Petra) caratterizzata da particolare sottigliezza e da un impasto argilloso ben depurato. Si distingue per il colore arancione e la decorazione dipinta in rosso a motivi vegetali e geometrici.

regione sono i cosiddetti «aquiloni del deserto» (trappole da caccia per animali selvatici, costituite da due lunghi muri rettilinei in pietra che convergono verso una strozzatura; visibili dalle fotografie aeree, sono numerosi in Giordania e nel nord dell’Arabia), nonché siti ricchi di graffiti rupestri. E, non lontano, è situato anche il sito megalitico di ar- Rajâjîl. Un ampio sondaggio stratigrafico (15 x 10 m) è stato aperto nel centro storico dell’oasi, ai piedi del Qasr Mârid, con l’obiettivo di mettere in luce i livelli preislamici del sito, in particolare romani, nabatei, e possibilmente i livelli piú antichi: per esempio assiri. Lo scavo ha accertato una frequentazione intensa e apparentemente ininterrotta, paragonabile a quella osservata negli scavi di Hegra. Rispetto a quest’ultimo sito, però, Dûmat al-Jandal non è stato abbandonato in epoca islamica e la sua occupazione perdura sino al XVIII secolo.

Vasi «a guscio d’uovo» La stratigrafia è dunque imponente: si sviluppa per oltre 6 m, a partire dalla roccia sulla quale sono edificate le abitazioni nabatee in pietra, datate verosimilmente tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C. Questa prima occupazione è attestata dalla presenza della ceramica nabatea di lusso molto fine, detta per questo motivo «egg shell» (a guscio d’uovo), e da qualche frammento di sigillata In basso: bracieri frammentari di pipe ottomane provenienti dal sondaggio stratigrafico.

36 a r c h e o

orientale A tra i livelli di fondazione di un grande e ricco edificio chiamato «edificio A». Questa struttura, costruita con cura, ma della quale ancora non conosciamo i limiti esatti, ha vissuto un lungo periodo di occupazione, poiché la sua ultima fase di vita risale al VIVII secolo della nostra era. Dopo il suo crollo, i blocchi da costruzione sono stati reimpiegati in edifici caratterizzati da una tecnica costruttiva molto piú scadente, datati in un arco cronologico che va dal VII fino al XVIII secolo circa. Questa sequenza archeologica preliminare dovrà essere confermata dall’ampliamento dello scavo, da altri sondaggi piú distanti e da dati archeometrici ancora non acquisiti. L’analisi della ceramica, il principale indice di datazione, in Arabia incontra generalmente delle difficoltà notevoli. Disponiamo di pochi elementi di comparazione, ottenuti dallo studio di contesti archeologici affidabili. Inoltre, i frammenti ceramici di epoca islamica medievale sono costituiti da vasellame di vita quotidiana (marmitte e recipienti per stoccaggio); e sono decisamente rari gli elementi d’importazione che permettono di datare i rispettivi livelli archeologici. Un’altra questione di importanza capitale riguarda l’esistenza di una cinta muraria che avrebbe dovuto racchiudere la totalità dell’oasi, stando a un autore arabo chiamato Yâqût al-Hamawî, e agli esploratori


occidentali del XIX e dell’inizio del XX secolo. A oggi, è piuttosto difficile identificare le tracce della presunta fortificazione. Non vi è, infatti, una sola cinta, ma sicuramente piú di una; probabilmente ciascuna di esse fu edificata a difesa dei tredici villaggi che componevano l’oasi nel XIX secolo, in un’epoca in cui la guerra fra clan si fece furiosa.

Le fortificazioni Per quanto abbiamo potuto osservare nel quartiere storico, una vasta fortificazione costituita da numerosi tronconi murari sparpagliati difendeva il villaggio centrale. I tronconi in pietra, relativamente spessi, condizionavano una parte delle vie di circolazione pedestre attraverso l’oasi. Affiancati da muri piú recenti, formano una complessa rete di vicoli. Un basso muro di chiusura, meno spesso, delimita il lato opposto; conseguentemente i vicoli sono stretti e ombreggiati. Lo studio di queste rovine sparse, in relazione ai primi segmenti identificati sul GIS (Sistema Informativo Geografico) del sito, sia in pianta sia in alzato e in comparazione con l’analisi delle fotografie aeree, permetteranno di tracciare il percorso approssimativo del sistema di fortificazione; ma è ormai chiaro che questi vicoli lunghi e sinuosi, protetti da alti muri, dovevano costituire un terribile ostacolo per gli assalitori, di qualunque epoca si tratti.

A destra: vicolo delimitato da un lato da una possente muraglia e dall’altro da un muro di cinta. Queste strutture saranno oggetto di studio nel 2011. In basso: il muro di cinta occidentale, databile tra il I e il V sec. d.C., in parte scavato nel 2010. Da notare i due bastioni al centro dell’immagine, cosí come il muro che sale obliquo sul promontorio roccioso.

Una seconda cinta muraria, situata in un settore piú lontano a ovest, isolata rispetto al villaggio e al Qasr Mârid, è di gran lunga meglio conservata. Le prospezioni hanno rilevato mura di fortificazione lunghe oltre 3 km e preservate, in altezza, fino a 4,50 m. Le mura delimitano il fondo di una piccola valle e risalgono lungo il vicino altopiano. Questa

cinta monumentale si compone di due muri accostati, l’uno in pietre squadrate, l’altro in mattoni crudi, con una serie di bastioni e contrafforti. Un sondaggio effettuato in prossimità dello spazio fortificato ha messo in luce la presenza di giardini, databili all’epoca delle mura, tra il I e il V secolo della nostra era. L’insieme delle vestigia che ancora si celano a Dûmat al-Jandal promette numerose scoperte e ricerche appassionanti. Lo studio delle reti idriche, delle costruzioni difensive, delle modalità di sussistenza, dei manufatti archeologici e dei contatti a medio e lungo raggio, di pari passo con lo studio stratigrafico e delle fonti antiche, fornirà senza alcun dubbio una migliore comprensione di questa celebre oasi del nord dell’Arabia saudita. Infine, potremo ampliare le nostre conoscenze delle rotte carovaniere che attraversavano il centro dell’Arabia, e dunque la nostra percezione del commercio antico nella Penisola Arabica. a r c h e o 37


mostre memorie dal sottosuolo

Un’altra

di Luisanna Usai

sardegna Al Museo «Sanna» di Sassari, numerosi reperti, provenienti dal territorio sardo e per la prima volta esposti al pubblico, illustrano la storia della regione dalla preistoria al Medioevo

C

ercare di riassumere per il grande pubblico le complesse vicende della Sardegna a partire dalle fasi piú antiche fino all’Alto Medioevo non è compito facile, soprattutto per la ricchezza di testimonianze monumentali e materiali. La mostra «Memorie dal sottosuolo» cerca di offrire, con una scelta di contesti particolarmente significativi, una sintesi dell’archeologia della Sardegna illustrata, oltre che dai reperti, da pannelli fotografici e da ricostruzioni di monumenti e di scene di vita. Il sottotitolo «Scoperte archeologiche nella Sardegna centro-settentrionale» evidenzia l’ambito di provenienza degli oggetti esposti, corrispondente al territorio di competenza della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Nella prima idea progettuale la mostra intendeva raccogliere ed esporre i dati piú significativi emersi con il restauro, l’indagine archeologica e l’attività di tutela negli ultimi 10 anni; in realtà le verifiche effettuate dagli archeologi che operano in Soprintendenza

38 a r c h e o

A sinistra: statuetta in bronzo, di epoca punica, raffigurante un personaggio maschile nudo, in posizione stante, con maschera d’argento, dall’insediamento di Giorrè (Florinas). A destra: matrice in terracotta, con scena di trionfo, proveniente dal porto di Olbia. L’incisione potrebbe riferirsi al trionfo celebrato da Diocleziano e Massimiano nel 303 d.C., per la vittoria sui Parti del 298.

(gli «scavi di magazzino»!) hanno portato a un ampliamento della selezione, anche attingendo a ricerche di anni precedenti.

I marmi recuperati Si possono vedere in prevalenza contesti non solo mai esposti, ma anche mai pubblicati; peraltro è apparso anche opportuno riproporre reperti precedentemente proposti al pubblico solo in occasione di mostre temporanee. L’esposizione copre l’intero arco cronologico di competenza della Soprintendenza, partendo dai materiali di interesse paleontologico fino ai reperti di età medievale. Il maggior numero di contesti proviene da monumenti nuragici, in particolare da nuraghi, vista la notevole presenza di questo monumento nelle aree di competenza della Soprintendenza. Date queste premesse, l’esposizione


segue necessariamente un ordine cronologico, una scelta rafforzata dall’opportunità di un percorso lineare vista la disposizione degli spazi che accolgono l’esposizione (il cosiddetto Padiglione Clemente), due grandi ambienti sovrapposti su due piani, lunghi e stretti e con scarse suddivisioni interne. In tale percorso espositivo si possono però individuare alcune sezioni, di ordine cronologico, ma anche tematico. La mostra si apre con l’esposizione degli eccezionali marmi romani della collezione Reksten, gli unici reperti non provenienti dalla Sardegna esposti. Si tratta di marmi detenuti legalmente da una famiglia di armatori norvegesi nella loro villa di Porto Cervo in Sardegna. Grazie alla normativa di tutela e al tempestivo intervento della Soprinten-

denza, è stato possibile acquisire al patrimonio nazionale questo gruppo di marmi, con l’esercizio del diritto di prelazione al momento dell’accordo di vendita da parte dei Reksten a un antiquario di Roma. Questo della tutela di reperti che non provengono dal sottosuolo del territorio di pertinenza, ma che in esso si trovano a vario titolo, è uno degli aspetti dell’attività delle Soprintendenze per i Beni Archeologici poco noti al grande pubblico. La scelta di esporre gli otto marmi per la prima volta in quest’occasione è stata quindi dettata dalla volontà di far conoscere opere in gran parte di squisita fattura e di pregio

artistico, ma anche di illustrare una forma di tutela diversa da quelle maggiormente conosciute. Inoltre i marmi si inseriscono nella storia del collezionismo di antichità e per alcuni di essi è possibile seguire le vicende all’interno di talune delle maggiori raccolte di scultura antica d’Europa.

Tombe scavate nella roccia Un altro aspetto della tutela poco conosciuto al grande pubblico è quello dei beni paleontologici, sottoposti alla stessa legge che salvaguarda i beni archeologici. Anche in questo caso la scelta di esporre resti fossili dal sito di interesse geo-paleontologico di Duidduru, in territorio di Genoni, non è stata casuale. Per lo stesso motivo sono in mostra resti di animali del Pleistocene sua r c h e o 39


mostre memorie dal sottosuolo A sinistra: carta della Sardegna con i siti di provenienza dei reperti in mostra. In basso: ricostruzione della tomba VIII della necropoli di epoca preistorica di Puttu Còdinu, a Villanova Monteleone. In fondo, la statuina in calcite raffigurante una «Dea Madre» rinvenuta al suo interno.

periore dalla grotta Corbeddu di Oliena che, dal punto di vista paleontologico, è uno dei siti piú ricchi delle isole del Mediterraneo. Le fasi piú antiche della preistoria della Sardegna sono illustrate da alcuni contesti di carattere abitativo e funerario. Seppure molto frammentario, non poteva essere ignorato il contesto della Grotta di Su Coloru di Laerru, nota al pubblico degli specialisti per un’importante seriazione stratigrafica a partire dal Mesolitico. Chiunque conosca la preistoria della Sardegna sa quanto ricca e diversificata sia la tipologia delle «domus de janas», le tipiche sepolture ipogeiche realizzate a partire dal Neolitico recente e utilizzate fino alle soglie della civiltà nuragica. Purtroppo a fronte di numerosissime emergenze monumentali, spesso arricchite da riproposizioni su pietra di elementi strutturali (false porte, stipiti, tetti, focolari) e da motivi simbolici, in particolare teste e corna bovine, sono scarsi i ritrovamenti dei corredi che accompagnavano il morto 40 a r c h e o

nell’oltretomba. Per evidenziare ancora una volta l’importanza dell’ipogeismo funerario nella Sardegna preistorica è stata riproposta in dimensioni naturali la Tomba VIII della necropoli di Puttu Còdinu a Villanova Monteleone. La ricostruzione (realizzata da Natalina Lutzu con la collaborazione di Antonello Gaspa e di Salvatore Litzeri) fa da vetrina al reperto piú importante rinvenuto nella tomba: una statuina di divinità femminile di tipo cruciforme realizzata in calcite. Ancora una volta una «Dea Madre», una delle tante di una produzione sarda che non ha eguali in tutto il bacino occidentale del Mediterraneo.

L’alba della civiltà nuragica A un momento di passaggio tra le culture prenuragiche e la grande civiltà nuragica riporta la tomba di Murisiddi di Isili, importante piú che per il corredo funerario, del tutto analogo ad altri di cultura Bonnanaro del Bronzo Antico, per il fatto che la struttura tombale è stata realizzata anche con frammenti di

statue-menhir. Ben 33 frammenti, che si vanno ad aggiungere alle numerosissime statue rinvenute soprattutto nell’area centrale dell’isola e che fanno della Sardegna preistorica un unicum nel panorama italiano anche per questa particolare categoria di manufatti. Con i materiali del complesso di La Prisgjona di Arzachena inizia la ricca sezione dedicata ai monumenti nuragici. Anni di ricerche e interventi di restauro hanno dato nuovo splendore a due tra i piú importanti nuraghi complessi della Sardegna, evidenziando le diverse fasi abitative al loro interno e nei villaggi annessi: il nuraghe di Arzachena, appunto, e il Santu Antine di Torralba. Dalla capanna delle riunioni del villaggio della Prisgjona proviene uno dei reperti piú interessanti tra quelli esposti: un grande vaso decorato, rinvenuto frammentario, ma ricomposto quasi interamente, assolutamente unico per forma e decorazione. Si tratta di un’olla con due anse e tesa applicata sulla spalla forata; nel punto di massima espansio-


un «museo per tutti» Il Museo «Sanna» di Sassari è la principale istituzione museale della Sardegna centro-settentrionale per dimensioni e importanza delle sue raccolte ed è un fondamentale riferimento culturale e identitario per l’isola. È un organismo complesso, frutto di un processo che trae origine dal collezionismo antiquario della seconda metà dell’Ottocento, per poi diventare Sassari. L’ingresso del Museo Nazionale «Giovanni espressione del lavoro di ricerca e tutela svolto dalla Antonio Sanna». Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Pinacoteca, formata prevalentemente dalla collezione La storia del Museo ha inizio il 14 marzo del 1875, data di apertura del testamento olografo redatto il 9 febbraio Sanna, con oltre 250 dipinti di maestri italiani e stranieri, ora trasferita al Mus’a di Sassari. 1868 nella Miniera di Montevecchio (Guspini) dal Il Museo Sanna vanta anche un’eccezionale collezione senatore e industriale sassarese Giovanni Antonio Sanna, con la seguente disposizione: «Lego alla città di etnografica, formatasi a partire dal 1933, quando la nipote del fondatore, Enedina Castoldi, donò al Museo i Sassari, mia patria, tutti i quadri, oggetti d’arte e di beni della figlia, prematuramente archeologia che possiedo. Questo scomparsa. Nel 1950 la sezione legato desidero che possa essere di etnografica del Museo si arricchí dove e quando incentivo a formare nella mia cara del lascito piú cospicuo, donato patria un Museo di Antichità». Dopo Museo Nazionale «G.A. Sanna» dall’ebanista sassarese Gavino circa sessanta anni di alterne Clemente, il che comportò la via Roma 64 - 07100 Sassari vicissitudini, durante i quali le collezioni furono depositate in varie Orario tutti i giorni, 9,00-20,00; , realizzazione di un nuovo padiglione espositivo, a lui sedi tra Sassari e Cagliari, Zely chiuso lunedí dedicato. Sanna Castoldi, figlia minore di Info tel. 079/272203; e-mail: Negli anni Settanta del XX secolo il Giovanni Antonio Sanna, donò al museosanna@beniculturali.it; Museo fu completamente rinnovato Comune di Sassari il suo predio di www.museosannasassari.it dall’allora Soprintendente, Ercole San Sebastiano e fece finalmente Contu, con un ordinamento costruire a sue spese il Regio Museo cronologico e topografico e con l’obiettivo di realizzare di Antichità ed Arte, dedicato al genitore, inaugurato il «un Museo per tutti». 28 ottobre del 1932. Le vicende storiche del Museo si rispecchiano nella Il Museo «Sanna» nasce come luogo della cultura sua composizione architettonica; la sede storica polivalente: oltre alle raccolte archeologiche, frutto di consiste in un edificio di gusto neoclassico, al quale è acquisti e donazioni di privati cittadini e provenienti stato aggiunto un corpo di fabbrica piú recente, le essenzialmente dal «Capo di sopra», ma anche dalla palazzine per gli uffici e il Padiglione Clemente, il tutto punica Tharros (Cabras, Oristano), e dagli scavi della inquadrato da un grande giardino e perfettamente colonia romana di Turris Libisonis, l’odierna Porto inserito nell’assetto urbanistico dell’elegante quartiere Torres (Sassari), ospitava fino ad anni recenti la gravitante su Via Roma e Piazza d’Italia. Sullo scorcio del XX secolo al Museo Sanna sono stati realizzati lavori per l’abbattimento delle barriere architettoniche, per l’adeguamento del Padiglione Clemente quale sede per le esposizioni temporanee, per il riallestimento della sala dedicata al santuario di Monte d’Accoddi (Sassari) e della sala romana. Nel marzo 2000 è stata inaugurata la Sezione medievale. Nel 2011 è stata aperta al pubblico la prima sala della rinnovata sezione etnografica, ospitata nella sede storica e dedicata ai costumi tradizionali originali della Sardegna. Gabriella Gasperetti A destra: il Padiglione Clemente, nel Museo Nazionale «Giovanni Antonio Sanna» di Sassari, in cui è esposta la mostra «Memorie dal Sottosuolo».

a r c h e o 41


mostre memorie dal sottosuolo

Le piú antiche fasi della preistoria della Sardegna sono illustrate da contesti di carattere abitativo e funerario ne una decorazione plastica vede in sequenza sei bastoncelli, un serpente e una forma a calice con peduncolo. L’interpretazione proposta da Angela Antona, autrice dello scavo, vi vede un recipiente atto alla distillazione, ma forse destinato anche all’assunzione di una bevanda da parte di piú persone contemporaneamente. Lo fa pensare la presenza di quattro fori sulla spalla del vaso nei quali potevano essere introdotte delle cannucce. Angela Antona suggerisce prudenza, ma il suo evocare il consumo di bevande inebrianti quali il vino o la birra nell’ambito di rituali sacri vicino-orientali, come suggerisce anche la rappresentazione del serpente, è suggestivo e non sembra azzardato per un contesto della Sardegna nuragica che ha sempre mantenuto stretti contatti con il mondo orientale.

Il recipiente «forato» Seppure non decorato è altrettanto interessante il vaso rinvenuto integro all’interno di uno dei tre pozzi del nuraghe Santu Antine. Si tratta di un vaso piriforme, con falso colatoio nel punto di massima espansione e un complesso sistema di presa, che sembra imitare recipienti metallici. Il vaso è di una tipologia finora non documentata fra il repertorio nuragico, ma ha diversi elementi presenti in recipienti inquadrabili cronologicamente fra la fine dell’età del Bronzo e gli inizi dell’età del Ferro. La forma e le condizioni di ritrovamento indicano chiaramente che si tratta di un manufatto utilizzato per scopi cultuali, come sembra ribadire un foro praticato in prossimità del fondo, forse per far defluire qualche sostanza particolare, al termine di un rituale di consacrazione del pozzo in cui è stato ritrovato. Ad ambito nuragico ri42 a r c h e o

portano inoltre i materiali del villaggio del nuraghe Appiu a Villanova Monteleone, del nuraghe Alvu di Pozzomaggiore, anche in questo caso con alcune forme nuove nel già ricco panorama della ceramica nuragica, e il ripostiglio di 19 asce a margini rialzati rinvenuto recentemente nel nuraghe di San Salvatore o S’ortale ‘e su monti di Tortolí, nonché un bracciale in lega d’argento ritrovato sul Monte Zuighe a Ittireddu.

Un emporion dell’età del Ferro Assolutamente sconosciuto fino all’esposizione, non solo al grande pubblico ma anche agli specialisti, era il «ripostiglio» venuto in luce in uno degli ambienti del villaggio di Sant’Imbenia, ad Alghero nel 2010. Il ripostiglio è costituito da un do-

lio in terracotta che contiene una porzione di spada, otto asce a margini rialzati, quindici lingotti interi del tipo a «panella» circolare e diciotto porzioni di panelle. L’importanza del sito di Sant’Imbenia e la sua eccezionalità nel quadro finora conosciuto della Sardegna dell’età del Ferro è nota. Tra il IX e il VII secolo a.C. l’insediamento assunse le caratteristiche di un vero e proprio emporion, un luogo in cui genti provenienti da diverse aree del Mediterraneo si incontrarono, si scambiarono materie prime, tecnologie ed esperienze. La ripresa, nel 2008, delle indagini scientifiche e le attività di restauro e valorizzazione del sito, dopo un’interruzione di quasi dieci anni, è un positivo esempio di collaborazione tra l’Università degli Studi di Sassari e la Soprintendenza. Al di là delle importanti scoperte, di cui il ripostiglio è solo un esempio, il progetto Sant’Imbenia è un significativo campo di azione e confronto per i giovani studenti, ma anche per gli studiosi, come lo fu


nel suo momento piú importante tra Nuragici e Fenici. Per illustrare un altro significativo aspetto della civiltà nuragica, quello dei templi a pozzo e del culto delle acque, è stato scelto il santuario di Serra Niedda a Sorso, privilegiando il complesso di bronzi in esso ritrovati. Come è di regola nei santuari nuragici sono presenti bronzi figurati, modellini, armi, oggetti d’abbigliamento e ornamento.

Con corna d’ariete Tra i bronzi figurati spicca quello che è stato definito il «Re pastore», una «composizione» di figura umana e animale decisamente rara nella produzione bronzistica nuragica. Secondo l’analisi di Fulvia Lo Schiavo «è chiaramente raffigurato un guerriero di alto lignaggio, con elmo, schinieri e armato di lancia, ma in atteggiamento di preghiera e non bellicoso, infatti, lo scudo è sulle spalle e non imbracciato, i piedi sono nudi – l’assenza di calzature è consueta, con rarissime

La collezione Reksten

Frammento di rilievo neoattico (in alto), e urna cineraria (a sinistra). I marmi di età romana della collezione Reksten, che aprono la mostra nel padiglione Clemente del museo Sanna, sono gli unici reperti non provenienti dal territorio sardo, acquistati dal ministero per i Beni e le Attività Culturali per evitare il possibile trasferimento all’estero.

a r c h e o 43


mostre memorie dal sottosuolo eccezioni, per tutti i bronzetti antropomorfi nuragici – senza corazza, e con la tunica lunga e frangiata. L’ariete o muflone, che conduce davanti a sé con la stessa mano con la quale sorregge la lancia, può rappresentare l’animale destinato al sacrificio, ma anche, forse, un simbolo tribale e totemico, dal momento che corna simili a quelle dell’ariete ornano l’elmo del personaggio».

Un «dio dal viso d’argento» Una sezione della mostra è dedicata all’esposizione di reperti che illustrano il riutilizzo di strutture nuragiche in epoca punica, romana e medievale. Abbiamo cosí una sequenza di vetrine che raccolgono materiali dal nuraghe Majore di Cheremule, dal nuraghe La Varrosa di Sorso, dal nuraghe San Michele di Suni, dall’insediamento di Giorrè (Florinas), dal nuraghe Adoni di Villanovatulo. In particolare, come ben illustra il deposito di San Mi-

chele di Suni, spesso in epoca punica i vani dei nuraghi vengono riadattati per accogliere dei depositi votivi nei quali elemento caratterizzante sono i bruciaprofumi con testa femminile, spesso in numero veramente esorbitante, offerti a una divinità femminile legata alla fertilità dei campi. Piú o meno contemporanea, ma ben piú preziosa, è la statuina di Giorrè, un «Dio dal viso d’argento», secondo l’efficace definizione di

Rubens D’Oriano. Si tratta di una statuina di bronzo rappresentante un personaggio maschile raffigurato nudo e in posizione stante; la presenza delle ali tra i capelli può suggerire un’immagine di Hermes, Medusa o, con attestazioni meno frequenti, Perseo. Il viso d’argento era in origine un elemento decorativo di un altro oggetto dal quale è stato ritagliato; questa sorta di maschera è stata quindi applicata sul volto della figura che non era stato

In alto: vaso rituale dalla capanna delle riunioni del villaggio di età nuragica di La Prisgjona di Arzachena. L’olla, rinvenuta frammentaria, presenta quattro fori sulla spalla e una decorazione a bastoncelli. A sinistra: ripostiglio di bronzi, entro un dolio in terracotta, dal villaggio nuragico di Sant’Imbenia ad Alghero. Età del Ferro. A destra: vaso rituale, da uno dei tre pozzi del nuraghe Santu Antine di Torralba. Età nuragica.

44 a r c h e o


delineato in fase di realizzazione, come hanno dimostrato le radiografie effettuate sul pezzo; quindi non una statuina «riciclata», ma già realizzata con l’idea di darle un «volto d’argento». Ad ambito cultuale riporta anche il notevole complesso del pozzo di Santu Antine di Genoni.A quest’ultimo contesto materiale è dato ampio spazio espositivo ed esso costituisce un po’ il fulcro della mostra poiché riassume molto bene le vi-

cende di numerosi monumenti della Sardegna, realizzati in età nuragica e ampiamente riutilizzati in età storica. È anche il contesto per il quale si sono avanzate le maggiori ricostruzioni, opera di Natalina Lutzu, che ha riproposto in scala naturale e con integrazioni interpretative quanto emerso con lo scavo effettuato da Francesco Guido. Il pozzo è stato realizzato nella fase finale della civiltà nuragica come attesta un consistente numero di

vasi, per lo piú brocche askoidi e vasi piriformi. Tra i materiali piú antichi emerge una figurina in bronzo, nuda, ma con un corto «torchon» ritorto, pendente sul petto; la mano sinistra regge un lungo bastone con tre nodi. L’iconografia e i confronti con altri bronzi figurati suggeriscono come area di produzione e di provenienza il Vicino Oriente, tra la fine del II e gli inizi del I millennio. Di produzione locale è invece un’altra figurina di bronzo, un offerente con copricapo a calotta e corto gonnellino; la mano destra enfaticamente sproporzionata rispetto al resto del corpo è sollevata nel classico gesto di saluto alla divinità.

Il riutilizzo in età romana Non meno significativa è la documentazione del riutilizzo del pozzo in età romana, nei primi secoli dell’impero. Come è stato riproposto nella ricostruzione, sulla base dei materiali recuperati, i Romani costruirono sopra il pozzo una struttura lignea quadrangolare con copertura a padiglione e l’impianto di un sistema di sollevamento di recipienti d’acqua, in gran parte in piombo. Come evidenzia Francesco Guido «Il sistema di recupero dell’acqua è molto ingegnoso ed è noto alla documentazione scientifica grazie a esempi osservati in varie località del mondo romano; nel limes reno-danubiano, nell’insediamento di Castra Vetera, oggi Xanten, insediamento nel quale si ritirano i superstiti della strage di Teutoburgo, sono stati rinvenuti e ricostruiti due pozzi con meccanismi simili. La macchina è composta essenzialmente da due assi in bronzo, che dovevano essere impiegati su un piano orizzontale e a breve distanza uno dall’altro; nella ruota «a lanterna» del primo asse si inseriva una corona dentata di diametro maggiore, applicata a un tamburo cilindrico realizzato con assi di legno e mosso da una manovella, alla quale molto probabilmente vanno riferiti due elementi in ferro, con due asole, recuperati nel corso dello scavo. a r c h e o 45


mostre memorie dal sottosuolo L’insieme aveva lo scopo di rendere meno faticoso il recupero dell’acqua, anche con l’ausilio di contrappesi in piombo». Per esemplificare l’aspetto funerario di età romana sono esposti corredi della necropoli di Iscalaccas (Sassari) e la ricostruzione di una porzione del sepolcreto con le varie tipologie funerarie. Costituita da ben 162 sepolture prevalentemente a cremazione indiretta, la vasta necropoli fu utilizzata dal I secolo d. C. fino all’inizio del IV secolo d.C. Da recuperi subacquei provengono due anfore greco-italiche dal mare antistante l’Ogliastra e un carico di metalli di una nave naufragata presso la costa nord-occidentale della Sardegna, a poche decine di metri dalla spiaggia di Rena Maiore. Qui sono stati recuperati ben 72 lingotti di piombo, di cui 42 con bollo Augusti Caesaris Germanicum, e quattro contenitori (o cistae) ugualmente in piombo.

I benefici della vestale Un fortunato caso di «scavo di magazzino» è quello che riguarda il cippo proveniente dal territorio di Montresta esposto assieme ad altro materiale epigrafico dal territorio di Bosa. Il cippo, consegnato alla Soprintendenza nel 1964 era stato dato praticamente per disperso; grazie alla tenacia di Gabriella Gasperetti è stato recuperato e sottoposto ad adeguata pulitura. Il nuovo esame non risolve però i dubbi di lettura; secondo le interpretazioni correnti potrebbe indicare una serie di comunità che occupavano l’area. Gli ultimi reperti esposti in mostra provengono dalle due città «romane» della Sardegna settentrionale, Porto Torres e Olbia. I reperti di Porto Torres, Colonia Iulia Turris Libisonis, da un lato ben illustrano il costante lavoro di tutela che la Soprintendenza svolge in questa città, dall’altro confermano ancora una volta l’importanza e la ricchezza della città antica. Basta citare due reperti recentemente recuperati ed esposti in mostra: una tabella bronzea con l’immagine della vestale 46 a r c h e o

«memorie» per la promozione Riprendendo allusivamente il titolo di un famoso romanzo di Dostoevskij, la mostra «Memorie dal sottosuolo» fa parte di un articolato programma di promozione del cospicuo patrimonio archeologico della Sardegna centro-settentrionale, che ha portato, tra l’altro, alla nascita della rivista della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro intitolata Erentzias, il cui primo numero è stato presentato al pubblico lo scorso 24 settembre, a Sassari, in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio. Se la mostra e la rivista rispondono soprattutto all’esigenza di tenere informato il piú vasto pubblico sulle molteplici attività svolte dalla Soprintendenza e sui risultati conseguiti nei campi della ricerca e della tutela, ma anche del restauro e della conservazione, il programma di valorizzazione intrapreso è soprattutto rivolto al rinnovo e al potenziamento dei musei archeologici statali esistenti nel territorio. Primo fra tutti il Il bronzetto antropomorfo del «Re pastore» che conduce un ariete (a sinistra), e tre figurine di bronzo (nella pagina accanto) dal santuario di epoca nuragica di Serra Niedda, a Sorso.

massima Flavia Publicia e un frammento di statua loricata. Oggetto di eccezionale valore storico, la tabella immunitatis, affissa sulla barca Porphyris, consentiva alla vestale di non pagare le tasse portuali, né per l’imbarcazione, né per il servo Eudromus. L’importanza del frammento di statua si rileva non solo nell’accuratezza della fattura che, assieme a particolari della rappresentazione, la connota come rappresentazione di un alto ufficiale o dell’imperatore, ma anche nella presenza consistente di tracce di colore che la rendono un singolare esempio di graphta andreia (statue dipinte). E infine l’oggetto che è stato scelto come simbolo della mostra: la matrice con scena di trionfo dal porto di Olbia. La scena rappresenta una pro-

cessione trionfale, con un carro trainato da elefanti su cui siedono due trionfatori; tutt’intorno una lunga teoria di dignitari, soldati e prigionieri. In un oggetto di terracotta, di soli cm. 19,4 di diametro, sono rappresentati 150 uomini, 13 animali e 4 carri. Ma non è una rappresentazione generica; l’attento studio di Maria Letizia Gualandi vi ha identificato la raffigurazione del trionfo che Diocleziano e Massimiano celebrarono il 20 novembre del 303 per la vittoria contro i Parti del 298. La mostra, curata dall’autore dell’articolo, è stata realizzata con il contributo di tutti gli archeologi e paleontologi che operano nella Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro: Angela Antona, Paola Basoli,


del patrimonio archeologico Museo Nazionale «Giovanni Antonio Sanna» di Sassari, che, grazie ai recenti finanziamenti ministeriali, punta a rinnovare e ad ampliare l’assetto espositivo delle sue collezioni, che comprendono anche un’importante raccolta di oggetti di interesse etnografico, in cui la bellezza si coniuga con lo spessore di una tradizione che affonda le sue radici nel passato piú remoto.In questa prospettiva, già dalla scorsa primavera si è proceduto all’allestimento di una prima sala della futura sezione etnografica, dedicata all’abito tradizionale della Sardegna, mentre sono attualmente in corso lavori di ristrutturazione edilizia e di rinnovo degli impianti. Nella sede espositiva del Centro di restauro della Soprintendenza, a Sassari – Li Punti, è inoltre in corso di allestimento – in collaborazione con la Regione Autonoma

Sardegna, con la Direzione Regionale per i beni culturali e paesaggistici della Sardegna e con la Soprintendenza per i beni archeologici per le province di Cagliari e Oristano – un’importante mostra dedicata al restauro del singolare complesso formato dalle grandi statue nuragiche di Mont’e Prama (Cabras-Oristano) che nella loro unicità e problematicità costituiscono forse la testimonianza piú antica finora nota di scultura a tutto tondo nel Mediterraneo occidentale. Bruno Massabò Soprintendente per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro

I bronzetti dal complesso di Santu Antine risalgono alla fase finale dell’età nuragica

Bronzetti dal pozzo di Santu Antine di Genoni, realizzato nella fase finale dell’Età Nuragica, e riutilizzato nei primi secoli dell’impero. In alto: offerente con copricapo e gonnellino, di produzione locale. A sinistra: figurina con «torchon» pendente sul petto e bastone a tre nodi, di probabile produzione vicino-orientale.

a r c h e o 47


mostre memorie dal sottosuolo

Qui sopra: ricostruzione ideale del pozzo di Santu Antine di Genoni in età romana. In alto, a destra: tabella in bronzo della vestale massima Flavia Publicia, raffigurata nel tondo centrale, da Porto Torres.

dove e quando «Memorie dal sottosuolo. Scoperte archeologiche nella Sardegna centro-settentrionale» Sassari, Museo Nazionale «G.A. Sanna» Orario martedí-domenica, 9,00-20,00; lunedí chiuso Info tel. 079/272203; www.archeossnu. beniculturali.it

Qui sopra: frammento di statua loricata, di età romana, proveniente da Porto Torres. A sinistra: cippo, proveniente dal territorio di Montresta.

48 a r c h e o

Antonietta Boninu, Rubens D’Oriano, Maria Ausilia Fadda, Gabriella Gasperetti, Francesco Guido, Giuseppe Pitzalis, Daniela Rovina, Antonio Sanciu, Maria Chiara Satta, Luisanna Usai, Marisa Arca e Caterinella Tuberi. I materiali sono stati restaurati nel Centro di Restauro e Conservazione della Soprintendenza. Gli interventi, coordinati da Luigi Piras, sono stati eseguiti da: Delia Capula, Liliana Casiddu,Antonio Chessa, Gonaria Demontis, Graziella Dettori, Augusto Garau, Eliana Natini, Luigi Piras, Gesuina Rubattu, Antonino Secchi, Antonio Serra, Antonina Vecciu. L’apparato grafico è stato curato da Marcello Oggianu.



storia origini di roma/11

tarquinio Il peggiore dei re

Con il settimo re la monarchia romana volge al termine. Ma le vicende di cui fu protagonista, segnate da violenze, soprusi e arroganza, furono veramente l’elemento determinante per il cambio di regime? O, piuttosto, la storia dell’ultimo sovrano etrusco è stata manipolata in maniera tale da renderne insopportabile il solo ricordo?

Lucrezia Romana sorpresa da Sesto Tarquinio, incisione all’acquaforte di Bartolomeo Pinelli tratta da Istoria Romana. 1817.

50

arc h e o


di Daniele F. Maras

il superbo U

na volta preso il potere, Tarquinio fu detto «il Superbo» a causa dell’atteggiamento arrogante e autoritario con cui governava, a partire dal rifiuto di dare sepoltura al suo predecessore Servio Tullio. Le fonti concordano nell’attribuire al re ogni forma di crudeltà e spregio del popolo romano, alla maniera dei peggiori tiranni, fino ad attirarsi l’odio congiunto dei patrizi e dei plebei dalle cui discordie aveva in origine tratto forza per ascendere al trono. In realtà, la figura del malvagio re

tiranno r isente probabilmente della necessità di convogliare sull’ultimo dei sovrani tutto il rifiuto e l’avversione che i Romani dell’età repubblicana conservavano verso le istituzioni monarchiche: anche se a fondamento della grandezza di Roma c’erano stati i re delle origini, il potere di un solo uomo doveva essere inviso al popolo e rappresentato come pericoloso e indesiderabile. Non a caso nei secoli seguenti piú volte si imputò la adfectatio regni, cioè desiderio di ottenere il potere regale, a personaggi di rango, da Spurio Cassio a Tiberio Gracco, che per via di quell’accusa infamante videro frenate le proprie ambizioni politiche.

Un tiranno spregiudicato Le fonti presentano Tarquinio il Superbo come il prototipo del tiranno sanguinario, circondato da una sua guardia personale di fedelissimi (il cui nome di satellites sarebbe rimasto legato nella lingua latina a figure regali di stampo tirannico, vedi «Archeo» n. 296, ottobre 2009) e fautore di una politica spregiudicata e aggressiva contro qualunque oppositore. Il nuovo re conservò la supremazia sul Lazio grazie a un atto di forza: ordinò infatti di affogare Tullo Erdonio di Ariccia, che gli si opponeva nell’assemblea dei popoli latini al Lucus Ferentinae. Successivamente il settimo re iniziò una serie di campagne militari, che portarono alla conquista di Suessa Pometia – città latina, forse caduta in mano ai Volsci –, dal cui bottino si ricavò il denaro necessario al completamento del tempio di Giove sul Campidoglio. a r c h e o 51


storia origini di roma/11 Un tratto delle mura poligonali di Segni, nel Lazio meridionale. Secondo le fonti, nel 513 a.C., Tarquinio il Superbo inviò sul territorio della futura Segni, un gruppo di coloni romani.

A sinistra: Aruspice, bronzetto dalla riva sinistra del Tevere, Roma. Prima metà del III sec. a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Gregoriano Etrusco.

Una vicenda simile viene attribuita anche a Tarquinio Prisco (vedi «Archeo» n. 318, agosto 2011), secondo le fonti padre del Superbo (o, per altri, suo nonno, con un conteggio piú avveduto degli anni trascorsi): e in realtà si può notare come molte delle azioni compiute dal quinto re siano attribuite anche al settimo, come la costruzione del tempio, della cloaca maxima e delle mura (queste ultime assegnate anche a Servio Tullio).

Figure simboliche La circostanza dimostra un’incertezza di fondo da parte degli autori antichi sulla cronologia degli eventi sotto la dinastia dei Tarquini. Piú che a personaggi storici ben descritti e definiti, quindi, si dovrà pensare a figure simboliche, su cui sono state polarizzate le caratteristiche positive e negative della monarchia etrusca. Non a caso l’unico scorcio di una tradizione alternativa sulle genealogie degli ultimi re, estrapolabile

dalle pitture della tomba François di Vulci (vedi «Archeo» n. 319, settembre 2011), conosce uno Gneo Tarquinio – in etrusco Cneve Tarchunies – altrimenti ignoto, forse appartenente a una generazione intermedia tra il quinto e il settimo re. Le operazioni militari di Tarquinio il Superbo, che gli valsero la fama di grande condottiero – unica nota positiva nel suo cursus honorum tramandato dalle fonti letterarie –, si rivolsero anche verso altre città del Lazio, come Ardea, al cui assedio si dedicò con grande impegno, e Gabii, presso l’odierna Castiglione lungo la via Prenestina. In quest’ultimo caso, però, l’annessione a Roma non fu l’esito di un’azione di guerra, ma di uno stratagemma politico: Sesto Tarquinio, figlio maggiore del re, finse di fuggire a Gabii non sopportando la tirannia del padre e lí, inserendosi abilmente nella compagine politica locale, riuscí a fomentare le discordie al punto che la città si consegnò ai Romani spontaneamente e senza colpo ferire. In seguito a tale vicenda Sesto rimase legato a Gabii, che tenne in qualità di governatore, e recenti scavi della Soprintendenza hanno portato in luce quelli che sembra-


gli indovini etruschi, maestri d’inganni Dionigi d’Alicarnasso dedica una pagina piuttosto ricca di particolari alla vicenda del ritrovamento di una testa umana nello scavo delle fondamenta del tempio di Giove, ritenuto un prodigio, perché apparentemente «tagliata di fresco, con il volto simile a un vivente e il sangue che scorreva dal taglio», nonostante fosse stata raccolta «a grande profondità». In particolare, lo storico greco si sofferma sulle azioni del «piú famoso degli interpreti di prodigi fra gli Etruschi», interpellato dagli ambasciatori del re Tarquinio per conoscere il significato di quell’evento. Prima di incontrare il vate, gli emissari del re si imbatterono in un fanciullo, che si rivelò essere suo figlio e, saputo il motivo del loro viaggio, li avvertí di raccontare l’evento con parole esatte e di specificare il luogo dell’evento miracoloso solo a voce, senza mai utilizzare il bastone dell’indovino per indicare il posto. Il consiglio si rivelò prezioso, perché non appena l’indovino ebbe ascoltato i termini della questione subito si affrettò a disegnare in terra una mappa improvvisata del colle Capitolino e chiese agli ambasciatori di indicare con il bastone il punto esatto dove la testa era stata ritrovata. Gli emissari si guardarono dal prendere il bastone e continuarono a ripetere a voce la descrizione del presagio; al che, dopo alcuni tentativi, l’indovino sconfitto – dice Dionigi – «non essendo riuscito a ingannare quegli uomini, né a impadronirsi del presagio, disse loro: ”Romani, dite ai vostri concittadini che è stabilito dal destino che il luogo dove avete trovato la testa divenga la testa dell’Italia intera“. Da quel tempo il colle fu chiamato Capitolino a causa della

testa che fu trovata su di esso: infatti i Romani chiamano le teste capita». È evidente che nel rito divinatorio il bastone possedeva il potere magico di trasferire sulla terra d’Etruria il significato del presagio; ma uno studio recente di Francesco Roncalli ha dimostrato che in realtà l’intervento del fanciullo non fu un fatto occasionale e fortunato da cui gli ambasciatori romani trassero beneficio: gli indovini etruschi lavoravano sempre in coppia. All’esperienza e all’arte dell’anziano vate facevano da contrappunto l’innocenza e il candore del fanciullo apprendista, che era garante di fronte agli dèi della correttezza della divinazione e dell’assenza di inganni.

Disegno di uno specchio in bronzo con scena di interpretazione delle viscere di un animale sacrificato, da Tuscania. Metà del IV sec. a.C. Firenze. Museo Archeologico Nazionale. Il fanciullo pava Tarchies, con il cappello a cono e un piede sulla roccia, è impegnato nella lettura delle interiora, mentre l’anziano e barbuto Avl(e) Tarchunus infigge la punta del suo bastone nel terreno di fronte a sé. Assistono alla scena una donna, Ucernei, che probabilmente ha richiesto la divinazione, e due divinità, Veltune e Rath, nude ai lati.

a r c h e o 53


storia origini di roma/11 no i resti di una reggia o di un palazzo aristocratico della sua epoca, che quindi ha qualche probabilità di aver assistito all’ascesa fraudolenta del principe di Roma. Infine, ancora verso il Lazio si orientò la politica espansionistica del Superbo, che inviò coloni a Segni e al Circeo, dimostrando il crescente interesse di Roma nel controllo diretto della regione, alla vigilia delle guerre contro i Volsci, che di fatto per alcuni secoli avrebLucrezia. Olio su tela di Guido Cagnacci (1601-1681). Lione, Musée des Beaux-Arts.

bero limitato l’espansione romana verso sud. Ma all’epoca dell’ultimo dei re Tarquini la potenza di Roma sembrava inarrestabile ed è in questo contesto che si pone l’episodio del ritrovamento di una testa umana nelle fondamenta del tempio di Giove Capitolino, interpretata dagli indovini etruschi come il segno della futura grandezza della città, che sarebbe divenuta caput mundi (vedi box a p. 53). Giunto a questo punto della sua

carriera, però, il settimo re di Roma fu turbato da un altro presagio, una visione che lo spinse a interrogarsi nuovamente sul volere degli dèi: un serpente, uscito da una colonna di legno, si era rifugiato nella reggia di fronte agli occhi esterrefatti del re. Questa volta, anziché rivolgersi agli indovini suoi compatrioti, Tarquinio decise di inviare un’ambasceria a Delfi, per interrogare l’oracolo di Apollo piú famoso di tutta la Grecia (po-


per saperne di piú

che non appena fu sbarcato finse di cadere e posò le labbra sulla «maAttilio Mastrocinque, La cacciata dre» terra garantendosi la benevodi Tarquinio il Superbo. lenza degli dèi. Tradizione romana e letteratura A Roma, nel frattempo, gravi fatti greca, in Athenaeum 62, 1984, pp. avevano turbato la vita della casa 210-229; Massimo Pallottino, regnante: approfittando del prolunOrigini e storia primitiva di garsi dell’assedio di Ardea, Sesto Roma, R.C.S., Milano 1993; Tarquinio aveva insidiato la virtú di Francesco Roncalli, Mito, Lucrezia, moglie di Tarquinio Colleggenda e disciplina etrusca latino, discendente di un altro ramo visti da Roma, in Annali della della famiglia, a partire dal fratello Fondazione C. Faina di Orvieto maggiore del Prisco. XVI, 2009, pp. 239-260; Andrea In realtà la donna resistette alla Carandini, Re Tarquinio e il violenza, preferendo la morte al divino bastardo. Storia della disonore, ma fu infine costretta a dinastia segreta che rifondò cedere, sotto la minaccia di essere Roma, Milano 2010. uccisa assieme a uno schiavo e accusata dopo la morte di aver comchi anni prima, in verità, anche gli messo adulterio con quest’ultimo: Etruschi di Cerveteri, di fronte a evidentemente, secondo la morale una pestilenza, avevano fatto ricor- romana tradizionale, un finto adulso all’oracolo delfico). Per interro- terio reso pubblico era ritenuto gare il volere del dio vennero in- perfino piú grave di un vero stupro viati in missione altri due figli del rimasto nascosto. re, Arrunte e Tito, mentre Sesto Per non perdere l’onore Lucrezia conservava la sua posizione di go- cedette a Sesto, ma subito dopo mandò a chiamare con urgenza lo verno a Gabii. sposo e il padre da Ardea: non appena questi la raggiunsero chiese Bruto, lo «sciocco» Quale compagno di viaggio i due loro perdono, dichiarando che solo principi presero con sé il cugino, il corpo aveva peccato, non l’aniMarco Giunio Bruto, figlio della ma, e dopo aver ottenuto da loro il sorella del re, per dileggiarlo: que- giuramento che sarebbe stata vensti, infatti, rivestiva il ruolo di buf- dicata, si suicidò con un pugnale fone di corte, in quanto fingeva di proclamando: «Nessuna donna viessere sciocco (in latino propria- vrà nella vergogna se seguirà mente brutus) per evitare di essere l’esempio di Lucrezia!». ucciso dal re Tarquinio, che aveva in odio tutti i possibili oppositori «Sul sangue di Lucrezia» della sua tirannia. Bruto si uní alla L’ennesimo gesto di arroganza della comitiva portando con sé come dinastia dei Tarquini ebbe grande dono ad Apollo quello che sem- risonanza a Roma e diede il via a brava un semplice bastone corneo una sollevazione contro il re, che al (cioè di corno o di corniolo), ma momento era fuori città per presieche, in realtà, era cavo e nasconde- dere alle operazioni militari. Ne va una preziosa verga d’oro. Invece approfittò Bruto, che, fra lo stupore di una spiegazione del senso del generale, gettò la maschera di stolto prodigio osservato dal re, i tre po- e tenne un discorso di fronte al stulanti ottennero dall’oracolo del- popolo, giurando solennemente sul fico questo responso: «Otterrà il sangue di Lucrezia che avrebbe caccomando supremo a Roma, o gio- ciato i Tarquini con ogni mezzo vani, chi tra di voi per primo darà possibile e non avrebbe tollerato un bacio alla madre». che mai nessun altro regnasse a RoL’ambasceria si affrettò sulla via del ma. Si dice che i Romani, ormai ritorno, ma il solo a interpretare nauseati dalla tirannia, non aspettascorrettamente la profezia fu Bruto, sero altro che un pretesto per rove-

sciare i re etruschi e, da Collatino e dal vecchio padre di Lucrezia, si unirono a Bruto nella sua crociata contro la monarchia. Fu presto decretato l’esilio perpetuo per Tarquinio il Superbo e per i suoi discendenti e, per far rispettare la decisione, Bruto, dopo aver lasciato a Lucrezio il controllo della città in qualità di prefetto, si diresse ad Ardea incontro al re deposto. Nello stesso tempo il Superbo tornava in patria, allarmato dalle voci che iniziavano a circolare sulla sollevazione, ma non incrociò la sua strada con quella di Bruto; per questo, quando trovò le porte della città sbarrate e fu messo al corrente dell’esilio a cui era stato condannato, si diresse con i figli minori a Caere, per ottenere aiuti dall’Etruria, che previdentemente, a differenza di Servio Tullio, aveva risparmiato dalla sua politica espansionistica. Sesto Tarquinio mosse invece verso Gabii, dove pensava di poter mantenere il controllo della città, ma venne lí subito ucciso dai locali, di cui si era attirato l’odio a causa delle continue rapine e violenze con cui aveva esercitato il potere. (11 – continua) le puntate di questa serie • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio, un re voluto dagli dèi • Tullo Ostilio: la guerra come ragion di Stato • Anco Marzio. In equilibrio tra guerra e pace • Tarquinio Prisco, lo straniero che divenne re • La leggenda dei re dimenticati • Servio Tullio, il secondo fondatore • Tarquinio il Superbo, il peggiore dei re • La nascita della Repubblica

a r c h e o 55


TURCHIA speciale turchia

Archeologia tra Oriente e Occidente

N

elle pagine di questo speciale presentiamo un viaggio «a volo d’uccello» – inevitabilmente quanto intenzionalmente sintetico – alla ricerca di un confine nascosto. Un confine che nella storia è stato piú volte varcato, spostato, reinventato, al punto da diventare irreale: quello che corre tra l’Occidente voluto dall’Oriente e l’Oriente voluto dall’Occidente. La terra che esprime questa idea, antica e attualissima, è la Turchia. Simile a un Giano bifronte, la Turchia volge lo sguardo a Est come a Ovest e da entrambi i fronti ha ricevuto le coordinate della sua storia e, in egual misura, all’Asia come all’Europa, ha restituito i suoi frutti.

a cura di Andreas M. Steiner e Judith Lange

Ittiti, Urartei, Frigi, Lidi, Lici, Greci e Romani, Armeni, Bizantini, Selgiuchidi, Ottomani: sin dalle origini, l’Anatolia (dal greco antico aνατολη, «sorgere del sole», «oriente») è stata crocevia di culture e di popoli diversi che, sulla sua terra, hanno intessuto la trama di una storia intensa, cangiante. È alla fine del Medioevo che, per la prima volta – sotto l’Islam –, avviene l’unificazione del Paese, nel rispetto di quelle «tante turchie» che insieme avevano contribuito a formare lo straordinario patrimonio culturale dell’Asia Minore, cosí intimamente e anticamente legata all’Occidente europeo.


Nemrut Dagi, Turchia orientale. Teste colossali realizzate per le statue che dovevano abbellire il grandioso monumento funerario voluto da Antioco I, re di Commagene. 69-34 a.C. In primo piano è un’aquila che, con il leone, era il simbolo della dinastia reale.

Calati in un paesaggio che muta in continuazione, tra vaste distese steppose, massicci montuosi invalicabili, altipiani, fertili pianure, terre vulcaniche e una costa frastagliata, giacciono i monumenti-messaggi dell’antica Anatolia. Ne parliamo nelle pagine che seguono. I lettori non vi troveranno alcuni «giganti» dell’archeologia della Turchia: a cominciare dalla stessa Istanbul con il suo straordinario museo archeologico, dal sito di Göbekli Tepe (luogo della piú importante scoperta archeologica del secolo), dalla stessa leggendaria Troia. Ne abbiamo trattato in passato, ne riparleremo nei prossimi numeri. Abbiamo, invece, scelto di proporre

la visita alla capitale Ankara, vero punto di partenza per scoprire la civiltà che, forse piú di ogni altra, ha impresso il proprio marchio su questa straordinaria terra: quella degli Ittiti, il cui regno ha dominato l’altipiano anatolico dal 1650 circa al 1200 a.C. Ad Ankara, l’antica Ancyra, abbiamo incontrato il Direttore Generale per il Patrimonio culturale e i Musei della Turchia: il suo ufficio si trova a poche centinaia di metri da un monumento straordinario e che pochi conoscono. Risale a duemila anni fa, è stato «salvato» da un uomo saggio del XIV secolo, e ci riporta, direttamente, a casa nostra…


speciale turchia La Cappadocia, terra fatata La Cappadocia, nell’altopiano compreso tra Aksaray e Kayseri, nella valle intorno a Göreme e Ürgüp, era abitata dal tempo degli imperi assiro e ittita, tra il III e II millennio a.C.Vicino a Kayseri, sul tell di Kültepe, la «Collina delle ceneri», sono stati rinvenuti i resti dell’antica Kanesh. Principale emporio (karum) dei mercanti assiri all’inizio del II millennio a.C., Kanesh controllava le vie commerciali tra la Mesopotamia e l’Egeo, e fungeva da centro economico e amministrativo degli stessi Assiri, che vi avevano stabilito il loro quartiere, lavorando e trattando i metalli e le pietre preziose. Il centro entrò spesso in conflitto con gli Ittiti, che si erano conquistati alcuni luoghi strategici intorno ad Avanos e Aksaray. Scavi condotti sull’acropoli di Kanesh hanno permesso di individuare le tracce del quartiere residenzia-

le e di portare alla luce interi archivi commerciali, tavolette scritte in lingua cuneiforme e assira, compilate prima del 1800 a.C., quando Kanesh venne incendiata dagli Ittiti. Alessandro Magno, dopo la vittoriosa battaglia di Isso, instaura in Cappadocia un governo relativamente indipendente che però subisce ripetute incursioni da parte di varie popolazioni provenienti da nord e da est. All’epoca della conquista romana, l’imperatore Tiberio si appropria di vasti territori nell’Anatolia centrale. In seguito, Traiano fonda a Kayseri la «Caesarea Cappadociae», un anno prima di morire in Cilicia nel 117 d.C.: la città romana è sepolta sotto la Kayseri ottomana e moderna, mentre la cittadella di Giustiniano, del VI secolo d.C., è occupata interamente dalle strutture di un grande bazar. In epoca selgiuchide, nel XIII secolo, vengono costruite la moschea e la scuola coranica Hunat

I cosiddetti «Camini delle fate», nella valle di Göreme, in Cappadocia: pinnacoli e guglie tufacee scolpiti dal vento, rifugio

Hatun Medresesi, oggi sede di un museo etnologico. Il cristianesimo penetra nella Cappadocia nel IV secolo d.C. la regione si popola di cristiani anacoreti – stiliti ed eremiti – e di monaci che scavano nel tufo chiese e conventi, aiutati da cristiani fuggiti dall’Armenia e dall’instabile Bisanzio. Il vasto altopiano diventa luogo di salvezza per diversi gruppi di popolazioni, che cercano riparo dalle prime incursioni arabe del VI-VII secolo, costruendo intere città sotterranee. Nel periodo iconoclasta della chiesa di Bisanzio, molte confraternite religiose affluiscono sull’altopiano e contribuiscono, con splendide pitture, alla decorazione delle chiese rupestri, con storie di Santi, della vita di Cristo e con scene ispirate ai Vangeli e all’Apocalisse. L’architettura della Cappadocia è sempre ispirata dalla necessità di (segue a p. 62)

di eremiti cristiani e anacoreti che scavarono nella roccia piccole chiese, monasteri e abitazioni.


Mar Nero Paflagonia

Istanbul

Bitinia Canakkale

Çorum

Izmir

Alaca Höyük

Frigia Ankara

Pergamo

Lidia

Ionia

Trabzon

Ponto

Bursa

Troade

Troia Asso

Kyme

Karabük

Hittiti

Hattusha (Bogazkale)

ak rm

Usak

Gordion

ili Kiz

Göreme Nevesehir

Erzurum

Yazilikaya

Serihan

s) aly (H

Lago Van

Kanesh

Kayseri

Agri Dagi (Monte Ararat)

Van

Arslantepe

Nysa Hierapolis Ürgüp Malatya Efeso Ortahisar A Afrodisia Nemrut Dagi Priene Aksaray Mileto Konya Sultanhani Tyana Didyma Adyaman Iasos Diyarbakir y Hacilar Çatal Höyük Kahta Euromos Bodrum Alicarnasso Perge Aspendos Kaunos Sanliurfa Adana Golfo di Mandalya y Tlos Antalya Gaziantep Tarso Telmessos Arycanda y Göbekli Tepe Mersin Phaseli Side P Pinara Xanthos Olba-Diocaesarea Myra Letoon Yumuk Tepe Olympos O Ayas Patara Tell Ta’yinat Silifka Elaiussa Sebaste Alanya Antiphelos Simena Antakya Anamurion Cyaneae

Cappadocia

Licia

Mar Mediterraneo

Cilicia

te fra Eu

Panfilia

Commagene

ri Tig

Caria

Cipro

In alto: carta della Turchia con l’indicazione dei luoghi citati nel testo. I siti evidenziati in colore rosso indicano le località in cui operano le missioni archeologiche italiane attualmente attive nel Paese.

A sinistra: statuette in terracotta dipinta di divinità femminili, da Hacilar, nel sud-est dell’Anatolia. Età neolitica. Berlino, Museum fur Vor-und Frühgeschichte. A destra: statuetta in avorio di dea della fecondità, da Kültepe. XIX sec. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

a r c h e o 59


speciale turchia tutti I numeri dell’archeologia turca

L’INTERVISTA

Incontro con Osman Murat Süslü, Direttore Generale per il Patrimonio Culturale e i Musei della Turchia a cura di Andreas M. Steiner Ankara. Ottobre 2011. L’ufficio di Osman Murat Süslü è all’interno di un elegante edificio costruito negli Anni Venti, in seguito alla proclamazione di Ankara a capitale della Repubblica turca, il 13 ottobre del 1923. Seduto dietro la pesante scrivania in mogano e sotto lo sguardo severo di Mustafa Kemal Atatürk, «padre» della nuova Turchia, il Direttore Generale per il Patrimonio Culturale e i Musei (di formazione archeologo) scruta lo schermo del computer. «Vede – mi spiega – da qui ho il controllo diretto, in tempo reale, di cosa accade in tutti i nostri siti archeologici, e del numero (e delle relative entrate) dei visitatori. Ecco – Murat Süslü indica la riga con la dicitura “Efeso” – sono le 11 del mattino: proprio ora si sono aggiunti 25 visitatori, per un totale di 3906. In questo momento, il numero dei visitatori in tutti i siti archeologici e nei musei del Paese ammonta a 19 511». Mentre le cifre sul video del computer si aggiornano secondo dopo secondo, squilla il telefono. Il Direttore Generale mi fa cenno di attendere. All’altro capo della linea è il Ministro della Cultura e del Turismo Ertugrul Günay; oggetto della chiamata – come mi verrà spiegato in seguito – è l’ultimo successo ottenuto dal Ministro sul piano internazionale, ovvero la restituzione alla Turchia di una scultura marmorea di età romana raffigurante un Ercole a riposo: «La metà inferiore della statua era stata scoperta a Perge nel 1980 – mi informa Süslü – ma la parte superiore era già stata trafugata e, dal 1982, era esposta al Museum of Fine Arts di Boston. Dopo trattative pluridecennali, il museo ha acconsentito al ritorno della statua, che ora sarà riunita alla sua parte inferiore ed esposta al Museo Archeologico di Antalya. Si tratta di un evento per noi di grande rilevanza; al punto che, per il rientro del prezioso reperto, lo stesso Primo In alto: Osman Murat Süslü, direttore generale per il Patrimonio Culturale e i Musei della Turchia. A destra: Ercole a riposo, statua in marmo di età romana, restituita alla Turchia dal Fine Arts Museum di Boston.

60 a r c h e o

Ministro Erdogan, in visita ufficiale negli Stati Uniti, ha messo a disposizione il proprio aereo». La vicenda dell’Ercole segue a breve distanza un altro, clamoroso «caso», quello della sfinge di Hattusha, restituita dal Pergamonmuseum di Berlino alla Turchia non piú tardi di qualche mese fa (vedi l’editoriale di «Archeo» n. 313, marzo 2011). Se la sfinge non fosse tornata in Turchia – aveva prospettato il Ministero – alla missione archeologica tedesca che a Hattusha è presente da oltre cento anni, sarebbe stata ritirata la licenza di scavo. Secondo una dichiarazione del Ministro Günay, le richieste che riguardano manufatti archeologici trafugati dalla Turchia e individuati all’estero sono circa 300. Richieste che, come nel già citato caso di Hattusha, potrebbero inficiare i rapporti con le missioni straniere attive in Turchia? Il Direttore Generale accenna a un sorriso: «Su 168 aree di scavo, 46 sono in concessione a missioni straniere (tra cui 9 italiane, n.d.r.), alcune delle quali operano nel nostro Paese da moltissimi anni. Inoltre, proprio nel 2011, di 108 nuove autorizzazioni per survey archeologici, 23 sono state da noi concesse a missioni straniere». L’impressione che l’archeologia rappresenti, per la Turchia di oggi, una voce importante nell’ambito


degli investimenti culturali, ci viene confermata da Murat Süslü attraverso una serie di dati significativi. Innanzitutto quelli che riguardano i finanziamenti stanziati per gli scavi archeologici: «Se nel 2000 la cifra era di 130 000 euro, nel 2010, solo per le attività di scavo, sono stati impegnati 15 milioni di euro. A fronte di ciò abbiamo registrato un aumento notevolissimo dei visitatori ai nostri siti e ai musei archeologici: appena 685 000 nel 2000, nel 2010 erano già 25 854 000. In proporzione sono, naturalmente, cresciute anche le nostre entrate: nel 2002 i ricavi dalle visite dei siti e dei musei si aggiravano intorno a 10 264 800 euro, oggi la cifra è arrivata a 67 510 800 euro, segnando un incremento di oltre il 557%». A questi risultati ha certamente contribuito una politica intesa a estendere a tutto il Paese una tradizione museale che nel grandioso Museo Archeologico di Istanbul e nel non meno affascinante Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara possiede i suoi capisaldi: «Abbiamo appena inaugurato (il 9 settembre 2011, n.d.r.) il nuovo Museo di Zeugma a Gaziantep, il piú grande museo al mondo dedicato ai mosaici antichi. Per la sua costruzione, realizzata nel corso di due anni, sono stati stanziati 20 000 000 di euro. Altre A destra: la «sfinge di Hattusha», rinvenuta nel 1915 nell’antica capitale ittita, e da poco restituita dal Pergamonmuseum di Berlino alla Turchia.

In alto: l’ingresso (a sinistra) e una sala (a destra) del nuovo Museo di Zeugma, a Gaziantep, dedicato ai mosaici antichi.

iniziative simili sono in programma per i prossimi anni: Mileto avrà un suo nuovo museo, un altro, dedicato alla civiltà dell’Egeo, sorgerà a Izmir. Il museo di Antiochia, con la sua collezione di mosaici fino a ieri la piú importante della Turchia, sarà interamente rinnovato. Ad Ankara, un nuovo Museo della Civiltà turca affiancherà quello, storico, delle Civiltà Anatoliche: in esso saranno esposti i reperti venuti in luce nel corso degli scavi degli ultimi decenni. Ma anche le città di Urfa (nei cui pressi sorge l’ormai celeberrimo sito di Göbekli Tepe, vedi «Archeo» n. 279, maggio 2008, n.d.r.) avrà un nuovo museo, mentre a Adiyaman e Malatya (nei pressi del sito di Arslantepe, scavato da una missione italiana, vedi «Archeo» n. 237, novembre 2004, n.d.r.) due nuovi musei esporranno i reperti provenienti da Nemrut Dagi. Infine, anche in Anatolia orientale realizzeremo nuovi musei archeologici, a Bitlis come a Van, incentrati sui reperti della civiltà di Urartu». Ringrazio il Direttore per l’incontro e, prima di congedarmi, getto ancora uno sguardo al computer. Sul monitor si susseguono, in continuo aggiornamento, i dati relativi ai siti archeologici distribuiti su un territorio due volte e mezzo quello dell’Italia…

a r c h e o 61


speciale turchia verso il cielo e verso la terra L’origine della danza dei Dervisci, paragonata alle «farfalle intorno alla luce», sembra risalga a un rituale sacro legato agli astri celesti. La mano destra – la mano «buona» – è offerta al cielo. La sinistra – la mano dell’«impurità», secondo l’insegnamento dell’Islam – è rivolta verso la terra. La testa è chinata leggermente sulla spalla destra, gli occhi sono semichiusi e il volto esprime la felicità dei dormienti e dei sognatori. Si crede che i Dervisci danzanti emanino forze magiche. Il rituale inizia con una processione dei musicisti, del coro e dei danzatori, guidati dal capo della congregazione che si siede rivolgendo il volto in direzione della Mecca. l danzatori vestono l’hirka, la tunica, e il sikke, il cappello di feltro a forma conica. Dopo un canto alla gloria del Profeta Maometto, accompagnato dal flauto, i danzatori si spogliano rimanendo col tennure, la lunga e ampia gonna, e col destegul, un giubbetto non aderente, entrambi bianchi. Al ritmo sempre piú veloce degli strumenti, inizia una danza fluttuante, circolare, che ruota intorno all’asse centrale del corpo e che diventa sempre piú vertiginosa, fino alla totale estasi.

A sinistra: incisione del XIX sec. raffigurante Dervisci danzanti. Parigi, Bibliothèque des Arts Decoratifs.

fuga, di riparo e di protezione, anche quando nell’XI secolo i Turchi selgiuchidi mostrano grande tolleranza verso la fede cristiana. Presso Nevsehir, sono state scoperte alcune città-alveari sotterranee, come Derinkuyu e Kaymakli. La prima, fatta di cunicoli, nicchie, sepolcri, magazzini, abitazioni e santuari, si sviluppava su 7-8 livelli fino a 75 m di profondità. Gli ingressi venivano bloccati con enormi macigni. Tra i due nuclei abitativi, lontani l’uno dall’altro 5 km circa, vi era una galleria di collegamento. 62 a r c h e o

Nella valle di Peristrema, affacciate sulle pareti della gola tra Selime e Ihlara, si trovano numerose chiese rupestri scavate tra il X e il XIII secolo, decorate con pitture di carattere bizantino e siro-copto. Alcune sono vere e proprie basiliche, come la Direkli Kilise e l’Ala Kilise, mentre altre possiedono strutture piú semplici, ma conservano pitture murali notevoli, come la Yilanli Kilise (la «Chiesa del Serpente») o la Sümbüllü Kilise (la «Chiesa dei Giacinti»). Per visitare i villaggi e le chiese è bene concentrarsi di volta in volta

sui singoli raggruppamenti: Göreme, per esempio, è un museo a cielo aperto, con chiese e abitazioni sparse tra i colli vulcanici, costruite in varie epoche, dal IX al XVI secolo. La Tokali Kilise («Chiesa della Fibbia»), creata al tempo di Niceforo II Foca di Bisanzio (963-969) quando la furia iconoclasta era appena passata, è ricca di pitture murali sulla vita di Cristo e dei Santi, dipinte su sfondo celeste, ed è la chiesa ipogea piú complessa della Cappadocia. Piú intimi, decorati da sottili motivi geometrici color rosso, sono i santuari del periodo iconoclasta dedicati a San Basilio e a Santa Barbara. Altre cappelle, come la Pancarli Kilise o la Üzümlü Kilise, posseggono elaborate architetture all’interno, con gradini, altari, rilievi e panche tutte scavate nella roccia, e hanno conservato, anche se talvolta fortemente dan-


Sarihan presso Avanos o Sultanhani tra Aksaray e Konya, entrambi del XIII secolo – sono complessi architettonici imponenti, cinti da alte mura con un solo grande portale, finemente decorato, che si apre su un’ampia corte interna porticata per il ricovero degli animali, delle merci e dei mercanti.

Konya santuario dell’estasi Nell’XI secolo, quando i Selgiuchidi conquistarono vaste terre dell’Anatolia, elessero come capitale Konya, al centro del sultanato del Rumi, nome derivante dall’espressione araba rum che designava i territori appartenenti all’Impero Romano d’Oriente e a Bisanzio. La città, sorta sulle rovine dell’antica Iconium romana in mezzo a una inospitale steppa, divenne uno dei centri culturali ed economici piú prestigiosi della Turchia. In particolare, durante il gover no del sultano Ala ed-Din Kaykobad (1219-1236), Konya venne dotata di splendidi edifici, neggiate, le ricche pitture sul soffitto, dove predominano il colore rosso, il verde e il bianco. Altri importanti nuclei rupestri, mescolati a case contadine piú recenti, si trovano a Çavusin e a Üçhisar, dove spicca uno sperone roccioso, bucato come la cruna di un ago, con fori, colombaie, minuscole celle e scalette. Il mondo degli stiliti era concentrato nella valle di Zelve, dove spunta una selva di stele a cappello, chiamate popolarmente «camini delle fate». Dal XII secolo in poi, con il Paese ormai stabilmente islamizzato, i santuari cristiani esauriscono la loro funzione e la Cappadocia diventa piú che altro un luogo di passaggio per le carovane che portano le loro merci dal Mar Nero verso il centro dell’Anatolia e sulla costa. Le tappe di queste vie commerciali sono segnate da numerosi hani, i caravanserragli costruiti come piccole fortezze lungo tutto il percorso. In parte crollati, in parte restaurati, questi caravanserragli – quello di

In alto: scena di caccia, in una pittura rupestre, da Çatal Höyük in Anatolia centrale. 6000 a.C. circa. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. In basso: un’area di scavo nel sito neolitico di Çatal Höyük, scoperto alla

fine del 1950, e indagato da James Mellaart tra il 1961 e il 1965. Dal 1993 vi opera una missione internazionale guidata dall’archeologo inglese Ian Hodder e una parte dell’insediamento è stata musealizzata.

a r c h e o 63


speciale turchia A destra: Dea Madre, con accanto due leonesse, da Çatal Höyük. 6000-5500 a.C. circa. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche. Nella pagina accanto, in basso: le rovine del tempio dorico di Atena (550 a.C. circa.), sull’acropoli di Asso, città fondata da coloni eolici intorno al VII sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto: un frammento del fregio che ornava il santuario di Atena ad Asso. 550 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

64 a r c h e o


tra i piú belli dell’architettura selgiuchide in Turchia. Il convento-santuario (tekke) del Mevlana Djelal ed-Din, maestro e fondatore dell’islam mistico turco, è uno dei luoghi piú sacri del sufismo mondiale e insieme un ricco museo di arte islamica. Le maioliche color smeraldo della sua cupola brillano da lontano, oltre gli anonimi edifici del centro moderno di Konya. L’immenso monastero dei «Dervisci danzanti», meta di ferventi pellegrinaggi di uomini e donne, possiede una moschea, una sala per il culto e per le danze dei Dervisci e numerosi mausolei aggiunti in periodo ottomano. Nella grande sala delle tombe, con i monumenti funebri coperti da preziosi broccati sui quali sono ricamati in oro alcuni versi del Corano, si trova il sepolcro del Mevlana: nell’anno della sua morte vi era ancora un giardino al posto del convento, sul quale venne eretta piú tardi la türbe dalla cupola verde. Il 17 dicembre, giorno della morte del Mevlana, si svolge nella sala della Sama la danza rituale dei Dervisci. Le testimonianze della Konya piú antica, dell’Iconium greca e romana, sono tutte raccolte nel Museo Archeologico, che espone alcuni notevoli sarcofagi del III secolo d.C. con rilievi che illustrano le Fatiche di Ercole. Sull’origine della città circolano molte leggende: secondo i Frigi, Konya fu la prima città emersa dopo il Diluvio Universale, mentre il nome Iconium viene associato alla testa della Medusa, che

Perseo avrebbe appeso a un pilastro della città come icona.

ora nuovamente indagato da una missione internazionale, guidata da Ian Hodder, che ha ripreso gli scavi nel 1993. Çatal Höyük e Hacilar, Proseguendo in direzione del Lago le origini della città Poco distante da Konya, sulla strada di Burdur si trova un altro imporper Yarma, si trova la deviazione tante sito neolitico, quello di Haciper Çatal Höyük, uno dei piú im- lar, anch’esso indagato da Mellaart, portanti tell neolitici a oggi noti, che mise in luce tre strati di inseconsiderato come la prima «città» diamento databili dall’VIII al VI della storia. Il sito venne esplorato millennio a.C. I fenomeni protoudall’archeologo britannico James rbani come quelli di Çatal Höyük Mellaart negli anni Sessanta ed è non sono isolali in Anatolia: anche a r c h e o 65


speciale turchia

Il santuario di Asclepio Il mito del dio-guaritore è uno dei piú antichi della Grecia e conosce tante varianti: Asclepio, figlio di Apollo e dell’infedele figlia del re dei Lapidi, Coronide, nasce tra le fiamme degli Inferi, salvato da Ermete. Apollo affida il bambino al centauro Chirone, che gli insegna l’arte di guarire con erbe medicinali e acqua sorgiva. Da Atena Asclepio riceve in dono due fiale con il sangue della Medusa e se ne serve per salvare la vita a molti uomini. A questo dio della medicina e a sua figlia Igea, anch’essa guaritrice, i Greci dedicarono numerosi santuari. Insieme a Pergamo sono famosi quelli di Epidauro, Messene e Kos, nei quali operavano grandi taumaturghi, medici, scienziati e filosofi che accoglievano pellegrini da tutto il mondo greco e romano. I santuari vennero costruiti accanto a sorgenti dalle acque terapeutiche, incanalate in grandi bacini. Lungo i «portici di incubazione» erano allineate le panche sulle quali i malati si sdraiavano, storditi da erbe magiche, in attesa delle rivelazioni del dio. Oltre ai templi, vi erano vasti ambienti per il ricovero durante il periodo di cura, nonché botteghe e aule di studio dotate di biblioteche.

66 a r c h e o


In alto: Ecate lotta contro i Giganti, particolare del fregio est dell’altare di Pergamo, ricostruito nel Pergamon Museum di Berlino. La costruzione dell’altare iniziò sotto Eumene II (197-159 a.C.), in occasione di una vittoria sui Galati. L’opera fu portata a termine dal successore Attalo II (159-139 a.C.). A sinistra: veduta aerea del sito di Pergamo. La città fu fondata da Filitero, capostipite della dinastia degli Attalidi, all’inizio del III sec. a.C.

ad Arslantepe, nei pressi di Malatya, una missione archeologica dell’Università di Roma «La Sapienza» conduce da anni l’esplorazione di un grande insediamento pluristratificato.

Il sito di Asso è tra i piú suggestivi della Turchia: salendo tra le ripide stradine del villaggio di Behramkale, si giunge in cima all’acropoli dove sorgono le colonne doriche del tempio arcaico di Atena del VI secolo a.C., a guardia di un mare dal profondo azzurro che separa la terraferma dalla vicina isola di Lesbo. La collina è stata scavata da una missione archeologica statunitense alla fine del XIX secolo e la maggior parte dei reperti, comprese le metope e i fregi del tempio, sono ora nel Museum or Fine Arts di Boston. I rocchi e i capitelli delle colonne rimaste sono stati rialzati in anastilosi dagli archeologi turchi per ricreare il tempio periptero, che aveva un portico frontale con due colonne in antis. Ad anello intorno all’acropoli si riconoscono le mura, con la porta principale di Asso, dell’epoca di Ermia, i terrazzamenti della grande agorà, con i resti della stoà, del bouleuterion e di un tempio, il tutto risalente al III e II secolo a.C.

Asso, a guardia dell’Egeo La costa della Troade è disseminata di insediamenti e templi greci, dei quali si serba talvolta soltanto il nome o qualche rudere sparso, come Hamaxitos o Kolonai, nascosti tra pini e querce. Sulla punta meridionale della Troade, affacciata sul golfo di Edremit di fronte all’isola di Lesbo, sorge Asso, fondata nel VII secolo a.C. da coloni eolici, provenienti da Methimna, che si trasforma in uno dei maggiori centri di cultura greca. Nel 355 a.C. diventa capitale della Misia, governata dal tiranno Ermia, educato all’Accademia di Platone, che fonda ad Asso una scuola filosofica dove soggiornano i massimi pensatori di Atene, tra cui Aristotele, Callistene e Teofrasto. La grande fucina culturale viene interrotta bruscamente nel 341 a.C.: Ermia è ucciso dai Persiani, la scuola si scioglie e Aristotele e Teofrasto si trasferiscono nella piú sicura isola di Lesbo. In seguito, Asso farà parte del regno di Pergamo e, nel 133 a.C., diverrà colonia romana.

Pergamo, dell’arte e della scienza La fortuna di Pergamo ebbe inizio con un immenso tesoro, la «cassa di Stato» macedone per l’Asia Minore, che Lisimaco, ex generale di Alessandro Magno, affidò a un condottiero di Pergamo, Filitero (281-263 a.C.), figlio di Attalo. Custode con pochi scrupoli, Filitero decise di appropriarsi del denaro – piú di 9000 talenti, una somma enorme –, approfittando dell’indebolimento politico di Lisimaco, coinvolto in gravi crimini familiari (aveva fatto uccidere il figlio Agatope), che riguardavano la spartizione delle terre lasciate in eredità da Alessandro. Lisimaco morí nella battaglia contro Seleucide I nel 281 a.C. e Filitero, grazie alle ricchezze acquisite disonestamente, conquistò l’indipendenza di Pergamo, fondando la dinastia degli Attalidi, che regnò per un secolo e mezzo. Il suo secondo successore, Attalo I (241-197 a.C.), fece di Pergamo il maggior centro ellenistico delle arti e delle scienze in Asia Minore. a r c h e o 67


speciale turchia Gli Attalidi erano uomini di grande personalità. Eumene II promosse le arti e le lettere e sarebbe stato il committente dell’Altare di Pergamo e della statua di Asclepio, entrambe opera dello scultore Firomaco. Il sovrano arricchí la biblioteca di Pergamo, fondata da Attalo I, con 200 000 volumi (requisiti in seguito da Marco Antonio per colmare il vuoto della Biblioteca di Alessandria andata in fiamme), e introdusse la fabbricazione delle pergamene, quando il papiro d’Egitto iniziò a scarseggiare. Attalo II continuò la tradizione delle arti e donò alla città di Atene la grande stoà dell’agorà, mentre Attalo III si dedicò personalmente alle lettere e alla scienza, scrivendo trattati di botanica. Con l’aiuto di Roma, Pergamo assunse un ruolo guida nell’Asia Minore: gli architetti dotarono la città di edifici monumentali, di numerosi templi, di un grande teatro e di un anfiteatro, e ristrutturarono il santuario dedicato al dio guaritore, Asclepio. La città bassa romana è sepolta sotto la Pergamo moderna, a esclusione dei resti dell’anfiteatro, a forma ellittica, che poteva ospitare circa 50 000 spettatori, e della cosiddetta «Corte Rossa» nel cuore della città, un santuario dall’aspetto massiccio dedicato alle divinità egizie Serapide, Iside e Arpocrate, costruito in mattoni rossi nel II secolo d.C. e trasformato in basilica in epoca bizantina. I monumenti ellenistici e romani si dividono in tre gruppi piuttosto distanti tra di loro.Alle porte della città si trova l’Asclepieion, sopra un terreno polveroso e piatto dove spuntano pochi ulivi. Una via colonnata con botteghe, la romana via Tecta – percorsa per secoli dai pellegrini e dai malati diretti al santuario – porta nel vasto recinto sacro circondato su tre lati dalla stoà. La fonte sacra dalle acque terapeutiche era circondata dai «portici di incubazione», dove si sdraiavano i malati, mentre i sacerdoti svolgevano i riti propiziatori nel tempio di Zeus Asclepio, edificato nel II secolo d.C. con pianta circolare su modello del Pantheon romano, 68 a r c h e o

anche se in dimensioni ridotte. Il vicino tempio di Telesforo fungeva da casa di cura. L’aspetto attuale del santuario rispecchia il gusto architettonico dell’età adrianea, quando l’intero complesso ellenistico venne ristrutturato. L’Asclepieion era celebre per l’efficacia delle sue cure e vi operavano famosi medici, tra cui Galeno di Pergamo (129 o 130-199 o 201 d.C.) che scrisse vari trattati sulla farmacologia, pervenuti a noi nella traduzione araba. Tra gli ospiti dell’Asclepieion molti furono gli imperatori, tra cui Adriano e Marco Aurelio. L’acropoli di Pergamo si stende sulla piana, come il palmo di una gigantesca mano protettiva. Sul primo terrazzamento con il piccolo tempio ionico dedicato a Dioniso si erge l’immensa e ripida cavea del teatro ellenistico, vertiginosa con le sue 80 file di gradinate per 36 m di altezza. I maggiori monumenti della città vennero costruiti sulla piattaforma superiore, disposti ad arco: il tempio piú antico (III secolo a.C.) è quello dedicato ad Atena Poliade, protettrice della città, che possiede un vasto temenos nel quale erano collocate le statue bronzee per celebrare la vittoria di Attalo I sui Galati; l’altare di Zeus, realizzato dallo scultore Firomaco, anch’esso monumento celebrativo costruito per la disfatta definitiva dei Galati dopo le guerre del 168-166 a.C. Il tempio fu distrutto dai Bizantini, ma le sue pietre vennero riutilizzate per rinsaldare le fortificazioni dell’acropoli. Nel 1873, l’archeologo tedesco Karl Hausmann prelevò i frammenti e i fregi per ricostruire l’Altare di Pergamo nell’apposito Museo di Berlino. Del tempio, che celebrava il trionfo dell’ellenismo sulla barbarie, sono rimaste solo le fondamenta e un accenno delle gradinate del podio. Sul bordo della terrazza si trovano le rovine in pietra rossa dei palazzi degli Attalidi, le caserme e gli arsenali. La costruzione piú elevata è il Traianeum, con un tempio corinzio e uno spazioso temenos, iniziato all’epoca di Traiano e completato da Adriano nel 125

A destra: Priene, i resti del tempio ionico di Atena, costruito in marmo bianco locale, nel IV sec. a.C. Nella pagina accanto, in basso: statua colossale forse raffigurante Mausolo (377-353 a.C.), satrapo di Caria. 359 a.C. Londra, British Museum. La scultura ornava il Mausoleo di Alicarnasso (oggi Bodrum), sepoltura monumentale realizzata per il sovrano dalla moglie e sorella Artemisia, probabilmente ultimata entro il 350 a.C.

d.C. Il colonnato del temenos, di una bianchezza marmorea accecante, è in parte innalzato sopra un muro alto 5 m ed è visibile da ogni punto dell’acropoli.

Priene, la città nobile Nelle regioni della Ionia e della Caria, tra Izmir (Smyrna) e Bodrum (Alicarnasso), tra costa e montagne grigie, vi sono numerosi siti archeologici, città e monumenti, grandiosi come Mileto e Didima o anche semplicemente luoghi che evocano eventi storici importanti. La maggior parte degli insediamenti fece parte della Lega ionica, che includeva anche le isole davanti alla costa, Chio e Samo, e, fra le altre, anche Priene. Della prima fondazione di questa città, costruita alla foce del fiume Meandro e abbandonata nel V secolo a.C., nulla è rimasto. Alla metà del IV secolo a.C. nacque una nuova Priene, grazie alle generose donazioni di Alessandro Magno che vi trovò ospitalità durante l’assedio a


Il tempio di Atena a Priene fu progettato dall’architetto Piteo, artefice del Mausoleo di Alicarnasso

la città megalomane La curiosità spinge a visitare Bodrum per vedere ciò che rimane del Mausoleo di Alicarnasso, una delle Sette Meraviglie del mondo, opera degli architetti Satiro e Pitio, iniziato pochi anni prima della morte del re della Caria Mausolo, nel 353 a.C., e portato a termine dalla sua sposa-sorella, Artemisia, che chiamò i maggiori scultori dell’epoca –Scopa, Timoteo, Leocare e Briasside – per ornare di statue e fregi il monumento funebre. Del mausoleo, che si trova nel cuore della città antica vicino al porto, non sono rimasti che il perimetro e la trincea delle fondamenta. Molte delle sue pietre vennero riutilizzate nel XV secolo dai crociati dell’Ordine di San Giovanni per costruire il castello di San Pietro, dopo la distruzione del castello di Smirne per mano di Tamerlano (1336-1405). La fortezza che domina la baia di Bodrum è ora adibita a museo, nel quale sono esposti preziosi reperti di varie epoche della Caria, alcuni fregi del mausoleo (un’amazzonomachia) e un’interessante sezione di archeologia subacquea. Si racconta che fu un violento terremoto a far crollare il mausoleo che, secondo Plinio il Vecchio, raggiungeva un’altezza complessiva, dal basamento rettangolare al gruppo della quadriga posto sopra un tetto a piramide, di 50 m circa, ed era ornato da centinaia di statue, andate in frantumi. Si sono salvati alcuni leoni di marmo, parte dei cavalli della quadriga, due statue colossali (al British Museum), e una statua maschile in marmo che forse raffigurava Mausolo.

a r c h e o 69


speciale turchia Mileto nel 334 a.C. A Priene si vedono i resti della cosiddetta «casa di Alessandro», trasformata poi in santuario, al quale era proibito l’accesso ai non adepti al culto. Alessandro promosse anche la costruzione del tempio di Atena, in marmo bianco locale dalle cave di Samsun Dag (il nome turco del monte Micale), progettato dall’architetto Piteo, artefice del Mausoleo di Alicarnasso. Il principe Oroferne di Cappadocia offrí al tempio una statua di Atena (i frammenti sono conservati al Museo Archeologico di Istanbul), alta 7 m e ispirata alla scultura di Fidia al Partenone. Il teatro di Priene, scavato a ferro di cavallo nella roccia, risale al periodo ellenistico e fu ampliato, e in parte modificato, in epoca romana. È uno dei teatri piú belli e meglio conservati dell’antichità – i gradini sono originali, i sedili marmorei Veduta aerea del teatro di Mileto, importante centro commerciale sulla costa occidentale dell’Asia Minore. Il monumento, realizzato nella seconda metà del IV sec. a.C., ampliato in epoca ellenistica e rimaneggiato in età imperiale, aveva una capienza di oltre 15 000 spettatori.

70 a r c h e o

e gran parte del proscenio sono intatti –, il tutto inserito in uno scenario naturale di grande suggestione. L’impianto urbano di Priene, nonostante la città fosse costruita sul pendio del monte, rispetta un perfetto disegno a scacchiera e il dislivello del terreno terrazzato viene superato alternativamente da strade e scalinate. Priene possiede una delle sale di Consiglio (bouleuterion) meglio conservate del periodo ellenistico: si trova a due livelli piú in basso rispetto al teatro, tra il ginnasio e l’agorà. L’edificio, quadrangolare, con al centro un podio ornato da protomi taurine e foglie di lauro, poteva ospitare piú di 600 persone. Accanto al bouleuterion si trova il pritaneon, su pianta rettangolare, che fungeva da collegio delle piú alte cariche della magistratura (che curavano il culto e la legislazione civile) e serviva da sala di rappresentanza per gli ospiti e i visitatori stranieri di riguardo. Nel II secolo a.C. Priene faceva parte del dominio degli Attalidi di Pergamo, che poi la cedettero ai Romani. Occupata da Mitridate, re del Ponto, nel I secolo a.C., e faticosamente riconquistata dai Romani, la città si spense lentamente;

soltanto in epoca bizantina, quando divenne sede vescovile, Priene visse un breve periodo di ripresa.

Mileto, la città geometrica Come molte altre città della costa, Mileto è rimasta vittima delle masse di terriccio alluvionale depositate dal fiume Meandro: il celebre porto è affondato in una palude e, per vedere il mare, lontano diversi chilometri, bisogna scrutare l’orizzonte dall’alto di una collina. Camminando tra i suoi ruderi, che si trovano su un vasto terreno alle spalle del monumentale teatro, costruito nel IV secolo a.C., si percepisce soltanto a tratti la celebre pianta ortogonale della città, progettata dall’architetto Ippodamo. Quando Ippodamo disegnò la città, nella prima metà del V secolo a.C., si trattò di una rinascita: Mileto era già stata distrutta dai Persiani nel 494 a.C. all’apogeo della sua potenza economica e culturale. Quasi due secoli piú tardi, dopo battaglie furiose per terra e per mare, Alessandro Magno riuscí a strappare definitivamente Mileto dalle mani dei Persiani. Durante il periodo romano – anche Mileto faceva parte del lascito testamenta-


Didyma, la voce di Apollo

In alto: statua di leone all’interno del teatro di Mileto. A destra: i resti del tempio di Apollo a Didyma, presso Mileto. Innalzato nel 550 a.C. circa e devastato all’inizio del V sec. a.C. in seguito alle rivolte degli Ioni contro i Persiani, il tempio fu ricostruito in età ellenistica.

La Via Sacra di Mileto, colonnata e ornata di statue, iniziava al Delphinion di Apollo e proseguiva per 21 km circa fino al santuario piú grandioso dell’Asia Minore: il tempio e l’oracolo di Apollo di Didyma, secondo soltanto a quello di Delfi. In prossimità di Didyma è stato rinvenuto un tratto di strada lastricata, che risale all’età di Traiano, proprio accanto ai resti di un altro tempio, quasi completamente scomparso, dedicato ad Artemide, la dea sorella di Apollo: forse questo spiega la scelta del nome «Didymaion» («Gemello»). Entrambe le divinità sono originarie dell’Asia Minore, dove avevano nomi diversi, tra cui «Apulanos» degli Ittiti (Apollo) e «Matar Cubaba» dei Frigi (Artemide). Oggi si raggiunge l’imponente santuario da una strada asfaltata che costeggia il mare fino al villaggio di Yenihisar. Il gigantesco complesso risale all’epoca ellenistica, quando vennero chiamati gli architetti Peonio di Efeso e Dafni di Mileto per ricostruire il santuario, che era stato gravemente danneggiato da Serse all’epoca della presa di Mileto nel 480 a.C. I membri della casta sacerdotale dei Branchidi, che officiavano nel tempio dal periodo arcaico, vennero deportati a Susa, insieme al tesoro del santuario e alla statua bronzea di Apollo, celebre opera di Canaco di Sicione, che fu collocata a Ecbatana in Persia. AII’inizio del III secolo a.C. Seleucide I, particolarmente devoto all’oracolo di Didyma, riuscí a riportare la statua nel naiskos del tempio. La ricostruzione venne interrotta per lunghi periodi e durò quasi cinque secoli, ricevendo cospicue donazioni dagli imperatori romani Tiberio, Caligola, Traiano e Adriano. Saccheggiato dai Goti, violato dai cristiani che costruirono una chiesa nell’adyton, il tempio di Didyma serví da «cava» per costruire fortificazioni, che caddero anch’esse in rovina dopo un violento terremoto alla metà del XV secolo.

rio dell’ultimo Attalide di Pergamo – la città si risollevò, vivendo relativamente in pace fino all’epoca di Giustiniano, nel VI secolo d.C. Molti monumenti della città risalgono all’epoca ellenistica, romana e bizantina, costruzioni spesso sovrapposte che incorporano i materiali degli edifici piú antichi, come per esempio le fortificazioni bizantine in cima al teatro, costruite con le pietre dell’acropoli greca. Dall’alto della cavea del teatro ci si può orientare nella vasta area archeologica che si estende tra il Porto dei Leoni e il Porto del Teatro. Non è tanto il singolo monua r c h e o 71


speciale turchia Il flagello dei mari Per lunghi secoli la pirateria è stata la piaga principale della Cilicia. Plutarco, riferendosi agli anni 67-66 a.C., ne parla nella Vita di Pompeo: «La maggior parte e i più potenti dei pirati avevano messo al sicuro le loro famiglie e le loro ricchezze, insieme alla massa di coloro che non servivano alla guerra, nei castelli e nelle piazzeforti del Tauro e, imbarcatisi sulle navi, si accingevano a fronteggiare l’arrivo di Pompeo nei pressi di Coracaesium (Alanya) in Cilicia; ingaggiata battaglia, furono sconfitti e quindi assediati (...) la guerra fu cosí conclusa: i pirati furono cacciati ovunque dal mare in non piú di tre mesi, e Pompeo catturò, tra le molte altre cose, novanta navi dotate di speroni di bronzo. Quanto ai pirati fatti prigionieri, che erano più di ventimila, non meditava affatto di farli uccidere, ma, d’altra parte, riteneva che non fosse prudente lasciarli andare e permettere che si disperdessero o si riunissero di nuovo, perché erano poveri, bellicosi (e molto)». Infatti Pompeo preferisce deportarli, assegnando loro case e campi da coltivare: «Alcuni dunque furono accolti da piccole città semideserte della Cilicia, che li inglobarono dopo aver ottenuto una maggiore estensione del territorio».

72 a r c h e o

mento che sorprende, quanto tutto l’impianto dei quartieri del porto, dei santuari e degli edifici civici. Bisogna passeggiare sui sentieri, tra erba e improvvise pozze d’acqua, tra le colonne superstiti dei portici e dell’immensa agorà sud, imboccando la Via Sacra, per rendersi conto della grandiosità di questa città. Tra gli edifici meglio conservati sono il ginnasio con accanto il Delphinion, dedicato ad Apollo Delfico, e le grandi e ombrose terme di Faustina, l’unico edificio non allineato nel rigido schema ippodameo. Molti marmi hanno preso la via del Pergamon Museum di Berlino (strutture del portale dell’agorà sud e del bouleuterion).

Efeso il culto del bello «Panta rei» diceva il filosofo Eraclito di Efeso (VI secolo a.C.) – «tutto scorre» – e in verità in nessuna delle città dell’Asia Minore, come a Efeso, i miti, la storia, le religioni e gli uomini hanno dato luogo a un moto perpetuo di eventi e di cambiamenti lungo un arco di venti secoli. Secondo la leggenda, Efeso venne fondata dalle Amazzoni che portarono dalla Frigia il culto della feconda Dea Madre Cibele. Altre fonti ci dicono che fu il principe attico Androclo a scegliere, nel X secolo a.C., questo luogo seguendo il consiglio di un oracolo di Apollo. Il sito della città venne piú volte

spostato: il primo nucleo doveva trovarsi dalle parti dell’Artemision, il santuario della «Matar Kubile» dei Frigi. Le fasi della costruzione del tempio, una delle Sette Meraviglie del Mondo, sono almeno cinque. Il primo tempio nacque nel VII secolo a.C., ma fu distrutto dai Cimmeri. Prontamente ricostruito e ampliato nel VI secolo a.C., venne collegato all’insediamento dei coloni greci da una via Sacra. Quando Creso, re della Lidia, cinse d’assedio la città nel 550 a.C., gli Efesini tesero una corda tra l’Artemision e l’abitato per impedire il passaggio dell’esercito nemico. Creso, per nulla scoraggiato da questo sottile ostacolo, conquistò Efeso e si mostrò magnanimo: offri ricchi doni ai cittadini e al tempio di Artemide – statue di vacche d’oro e la maggior parte delle colonne per ornare il santuario (cosí racconta Erodoto). Efeso divenne la città piú ricca e potente dell’Asia Minore, retta da un’aristocrazia di banchieri, mercanti e sacerdoti. Astutamente,

Veduta del teatro romano di Aspendos, nell’antica regione della Panfilia, realizzato dall’architetto Zenone durante il regno di Marco Aurelio (161-180 d.C.). La facciata della scena, ben conservata, presenta un doppio ordine di colonne corinzie e ioniche.


A sinistra: la Biblioteca di Celso, eretta a Efeso tra il 110 e il 135 d.C., da Caio Giulio Aquila in onore del padre, proconsole della provincia d’Asia, Caio Giulio Celso Polemeano. Il monumento, incendiato nel III sec. d.C., custodiva oltre 12 000 volumi. In basso: Afrodisia, il tetrapylon (porta monumentale) del temenos di Afrodite. II sec. d.C.

riuscí sempre a conservare la sua autonomia: non partecipò alla sollevazione delle città ioniche e venne dunque risparmiata dai Persiani. Nelle guerre del Peloponneso prese le parti di Sparta, passò nuovamente sotto il dominio dei Persiani e venne liberata da Alessandro Magno, che partecipò a una solenne processione per invocare la benevolenza di Artemide e promise la ricostruzione del tempio, incendiato da un tale Erostrato nell’anno della nascita del Macedone, 356 a.C. Quando, nel III secolo a.C., la costruzione del gigantesco santuario – sarà quello delle Sette Meraviglie del Mondo – volgeva al termine, il tempio era ormai lontano dalla città diversi chilometri: l’erede di Alessandro, Lisimaco, aveva infatti spostato il nuovo centro cittadino molto piú a sud, alle pendici dei monti. Nel 129 a.C. Efeso accettò con riluttanza il dominio romano, tanto che nelle guerre mitridatiche dell’88 a.C., si alleò con il re del a r c h e o 73


speciale turchia Le scenografiche vasche calcaree naturali di Hierapolis-Pamukkale, nella Turchia sud-occidentale. Nella pagina accanto: le rovine del sito di Hierapolis, città costruita dagli Attalidi di Pergamo, e nota, in epoca romana, per le sorgenti d’acqua termale.

Ponto. Conquistata infine da Silla, la città risorse come metropoli commerciale (possedeva numerose banche, un ricco artigianato e tesori d’oro e d’argento), politica (venne visitata da numerosi imperatori che facevano a gara per colmare la città di doni e di splendidi monumenti), culturale (venne istituita la grande Biblioteca e la Scuola dei 74 a r c h e o

filosofi sofisti) e religiosa (i pellegrini dell’Artemision costituivano un lucroso affare). Nel I secolo d.C. l’apostolo Paolo predicò agli Efesini la parola di Cristo, demonizzando il culto di Artemide e suscitando cosí una sollevazione popolare.Tuttavia, il cristianesimo cominciò a diffondersi. L’Artemision resistette agli assalti della nuova fede, ma do-

vette soccombere davanti ai Goti, che nel III secolo conquistarono la città e saccheggiarono il tempio. Con l’imperatore Teodosio di Costantinopoli, Efeso diventò una roccaforte cristiana, dove si svolsero due importanti Concilii nel V secolo. L’Editto di Teodosio, contro l’eresia, emesso nel 381, determinò la chiusura di tutti i templi pagani


di San Giovanni, che giunse a Efeso da Gerusalemme (tuttavia trova piú credito la tesi che il martirio dell’Evangelista sia avvenuto a Roma). I resti della chiesa, con i suoi marmi bianchi e le sue colonne luminose, danno ancora la sensazione di trovarsi in uno spazio imponente e monumentale.

e l’Artemision, caduto completamente in rovina, venne spogliato delle sue pietre per costruire una nuova fortezza con la magnifica Basilica di San Giovanni sull’acropoli dell’odierna Selçuk. La Basilica a croce latina con sei cupole e cinque navate, eretta all’epoca dell’imperatore Giustiniano nel VI secolo, sorge sulla presunta tomba

Una colonna solitaria Con il nascente islam, Efeso perse la sua chiesa e anche la sua importanza strategica. Nel XIV secolo, all’epoca dei potenti emiri di Aydin, il governatore Isa Bey fece erigere ai piedi dell’acropoli bizantina una bellissima moschea, ornata da stele arabe antiche e da marmi di Efeso. Scendendo dall’acropoli di Selçuk, la strada passa davanti a ciò che rimane dell’Artemision; una colonna solitaria e qualche frammento di marmo sparso tra l’erba e piccoli stagni. Sulla sinistra un sentiero porta alla Grotta dei Sette Dormienti, un grande santuario ipogeo dove si sono fuse leggende di culti pagani e cristiani. All’ingresso della città antica, sul fianco delle colline, rimangono i resti del monumentale Ginnasio di Vedio, onorato cittadino romano di Efeso, e dello Stadio neroniano, costruiti nel II secolo. Proseguendo verso la via Arcadiana, si giunge al complesso delle Terme e dei Ginnasi del Porto (insabbiato nel corso dei secoli) e

si entra sulla via dei Marmi, grandioso viale lastricato che porta al teatro. La cavea, una delle piú grandi dell’Asia Minore, poteva ospitare fino a 20 000 spettatori. Durante le celebrazioni in onore di Artemide, la statua della dea veniva portata in processione fino al teatro. All’incrocio della via dei Marmi con la via dei Cureti, sorge la Biblioteca di Celso, innalzata all’inizio del II secolo in onore del proconsole delle province romane dell’Asia, Caio Celso Polemeano, sepolto in una camera sotterranea. La Biblioteca, che custodiva 12 000 volumi, venne incendiata nel III secolo. Si salvò soltanto la facciata ricomposta in anastilosi da una missione archeologica austriaca. Su entrambi i lati della via dei Cureti, partendo dalla Porta di Adriano, si affacciano i maggiori monumenti di Efeso quasi tutti risalenti al periodo romano: il tempio di Serapide del II secolo, dove furono trovati i frammenti di una statua egiziana; un Ninfeo costruito sopra un monumento funebre piú antico; le terme di Scolastica e il bellissimo tempio corinzio di Adriano, che mostra sull’architrave il rilievo di Tyche, dea del Destino e della Fortuna, protettrice di Efeso. Sul pendio lungo la via dei Cureti si trova un immenso complesso residenziale terrazzato, riccamente affrescato e ornato da pavimenti musivi (solo parzialmente visibili a causa dei lavori di restauro). La strada si fa piú ripida in prossimità della Porta di Ercole e del monumento di Memmio, nipote di Silla, che nell’86 a.C. liberò Efeso dal dominio di Mitridate. Nella stessa area si trovano le fontane monumentali di Traiano e di Pollio, e il tempio dedicato a Domiziano e Vespasiano. Il gran numero di templi dedicati agli imperatori romani dimostra che Efeso aveva il privilegio di neocoro, guardiana delle divinità imperiali, un onore concesso a poche città e che Efeso si era guadagnato per quattro volte. A Selçuk è stato allestito un ricco museo con statue, oggetti, rilievi a r c h e o 75


speciale turchia e pitture dei recenti scavi, tra cui due bellissime statue di Artemide del I-II secolo d.C., rinvenute nel Pritaneo, e preziosi fregi in avorio che illustrano la spedizione dell’imperatore Traiano in Oriente.

Afrodisia, capitale del piacere Da Selçuk (Efeso) a Denzili (Hierapolis) la strada segue il corso del Meandro, tra ampie vallate e i monti del Aydin Daglari. All’altezza della cittadina di Kuyucak, una strada secondaria porta ad Afrodisia, capitale della Caria, nata per volontà divina: originariamente era sede del culto della dea babilonese Ishtar, diventata presso i popoli anatolici Nin, divinità dell’amore che si trasformerà in Afrodite presso i Greci. Nella città, dedicata alla dea, si praticava la prostituzione sacra. Oscure sono le vicende del sito nel periodo arcaico e classico, ma in età romana, quando l’insediamento venne chiamato con il nome greco Afrodisia, intorno al santuario si sviluppò una fiorente città che ricevette numerosi privilegi dagli imperatori. Nel I secolo a.C., quando infuriava la guerra contro Mitridate, il console Silla obbedendo all’oracolo di Delfi fece dono alla dea protettrice di una corona d’oro e di una doppia ascia. Gli eventi salienti della città sono fissati sulle pietre del muro di contenimento della scena del teatro: le iscrizioni raccontano che Giulio Cesare donò al tempio una statua d’oro di Eros e che la città fu saccheggiata dal generale Labieno, solidale con Pompeo dopo l’assassinio di Cesare, per punire gli abitanti della lealtà mostrata verso Ottaviano e Antonio. Afrodisia venne ricompensata in seguito da Augusto con numerosi privilegi: l’indipendenza, il diritto di offrire asilo e l’esenzione dai tributi. La città si riempí di edifici sontuosi e monumenti, costruiti nel marmo bianco e rosato della vicina cava nel Monte Salhakos (oggi Babadag), e vi venne fondata una scuola di scultura dove lavoravano artisti 76 a r c h e o

come Papia e Aristea, le cui opere – sarcofagi, statue, rilievi – erano esportate in tutto il mondo romano. Rinomata era inoltre la scuola di scienze e lettere: sono famosi i trattati di medicina e di magia di Senocrate, gli scritti erotici di Cartione e i commenti alla filosofia aristotelica di Alessandro di Afrodisia. Il declino della città fu dovuto in parte a catastrofi naturali (violenti terremoti tra il IV e il VII secolo d.C., che fecero crollare numerosi monumenti mai piú ricostruiti) e in parte ai Bizantini, i quali, inorriditi dai rituali pagani, tentarono di cambiare il destino della città ribattezzandola Stavropolis, «città della Croce». Afrodisia si presenta oggi come la città piú luminosa dell’antichità, splendente nei suoi marmi candidi, riccamente ornata, generosamente spaziosa e miracolosamente intatta grazie ai meticolosi restauri in anastilosi. Straordinario è il connubio tra l’amore per il particolare, talvolta sovrabbondante come in

certi stucchi barocchi, e il rigore architettonico: ne sono testimoni il grande santuario di Afrodite, dalle 40 colonne ioniche, di cui ancora 14 in piedi, e il compatto tetrapylon del temenos (monumento dalle «quattro porte»). Il monumentale teatro e il piccolo Odeon circolare sono interamente rivestiti di marmo. L’immenso stadio, che possiede ancora le 30 file di gradini su tutti i lati, è l’unica struttura di questo tipo che ci è pervenuta intatta. Sull’acropoli della città sono stati rinvenuti numerosi idoli dell’età del Bronzo che confermano l’antichissima tradizione cultuale del luogo. Intorno al complesso delle agorà, si trovano le terme di Adriano, un imponente Sebasteion, il portico di Tiberio e la scuola di Filosofia. Le numerose sculture e i fregi – centauromachie, amazzonomachie, statue di divinità, imperatori e filosofi – sono esposte in situ, nel ricchissimo Museo Archeologico di Afrodisia.


Tombe rupestri nella necropoli dell’antica Telmessos, in Licia (nel sud-ovest della Turchia).

cea, oppose una strenua resistenza ai Turchi selgiuchidi fino al XIV secolo, quando il sito risorse con il nome di Pamukkale, «castello ovattato», per via delle bianche cascate di travertino. Gli scavi e il restauro della città antica sono stati affidati, a partire dal 1957, a diverse missioni archeologiche italiane, che hanno curato, in particolare, il recupero del teatro di età flavia. Il teatro, ampliato dai Severi nel III secolo, reca ancora bellissimi rilievi marmorei che illustrano il mito di Apollo (le Muse, la competizione musicale tra il dio e Marsia, Adone ferito a morte) e di Artemide (la nascita della dea protetta da Poseidone, la caccia, l’uccisione dei figli di Niobe). Lungo la via dei Portici si trova il piú importante santuario della città, dedicato ad Apollo, già esistente nel periodo ellenistico, ma totalmente ricostruito nel III secolo, che cela

Hierapolis, le bianche cascate di marmo Sopra una scogliera formata da vasche di calcare bianco si estende Hierapolis, voluta dagli Attalidi di Pergamo, che costruirono una città intorno a due santuari dalle antiche origini, probabilmente legati al culto di Eracle e di Poseidone, colui che «fa tremare la terra» e, infatti, il sito venne piú volte distrutto dai terremoti. Rinomata per le sue sorgenti calde, i Romani vi stabilirono un centro termale di grande attrazione, specialmente all’epoca dei Severi. Il cristianesimo trovò qui adepti già nel primi anni della sua diffusione: pioniere della nuova fede era l’apostolo Filippo, che sarebbe morto crocifisso tra queste mura alla fine del I secolo. Sul presunto luogo del suo martirio venne eretta nel V secolo la basilica di S. Filippo, in cima alla collina. Durante il regno dell’imperatore Costantino, Hierapolis diventò una delle capitali dell’Anatolia centrale. Insieme alla vicina città di Laodi-

Ricostruzione della facciata est del monumento alle Nereidi di Xanthos (Licia) al British Museum di Londra. Il santuario, edificato alla fine del V sec. a.C. in forma di tempietto ionico su alto basamento, era ornato da statue di Nereidi negli intercolumni.

a r c h e o 77


speciale turchia nei suoi sotterranei una grotta, il Plutonium, dai vapori velenosi, chiamata anche «Caverna degli Inferi e dei Demoni». La maggior parte dei massicci edifici che si affacciano sulla via colonnata, tra i resti del Ninfeo e la porta di Domiziano, risale al periodo bizantino quando, nel VI secolo, vennero erette una grande basilica e una seconda porta di ingresso alla città. Nel complesso delle terme e della palestra romana del II secolo sono state recuperate sculture provenienti dalla scuola di Afrodisia, esposte nello stesso Museo delle Terme.

La Licia, lo spettacolo della vita e della morte Per mare o per terra si può seguire un itinerario a brevi tappe lungo la costa meridionale della Turchia, da Fethiye ad Adana, costellata di città, templi, teatri, necropoli e fortezze antiche. Miti, religioni, popoli e tradi-

zioni si sono formati all’ombra dei massicci montuosi della Licia, che separano come una barriera invalicabile la costa dalle regioni interne. Le prime notizie sulle popolazioni della Licia si leggono sulle tavolette degli Ittiti e sono nominate anche sulle tavolette di El Amarna dove vengono indicate come «uno dei popoli del mare». Piú tardi, Omero ed Erodoto raccontano che un principe della Licia, Sarpedone, si batté a fianco di Ettore nella Guerra di Troia. Nel I millennio appaiono i primi empori, che attestano le relazioni di scambio con altri popoli. La Licia, nonostante l’arrivo dei coloni greci, conservò sempre la sua autonomia. E anche la conquista di Alessandro Magno e i successivi governi dei Tolomei e dei Romani non riescono a spezzare il carattere indipendente della popolazione che si unisce nella «Confederazione liciana delle 23 città». All’epoca della guerra civile la Licia rifiuta il suo appoggio a Bruto, venuto a chiedere aiuti finanziari per la sua campagna contro Ottaviano, e

verrà punita per questo con la totale distruzione della capitale, Xanthos. Dopo un periodo di relativo benessere sotto il dominio degli imperatori romani, la regione rimane tuttavia emarginata, perché si trova esclusa dalle vie commerciali tra Oriente e Occidente. Con le prime invasioni arabe nel VII secolo, la Licia si prepara a un lento declino. Le scoperte archeologiche piú straordinarie consistono nelle necropoli: le tombe a forma di palazzo o di tempio, scolpite nelle ripide pareti rocciose, e le cosiddette tombepilastro, camere funerarie costruite in cima a un monolite. Quest’ultima pratica di sepoltura era usata specialmente nell’area di Xanthos, dove sorgono tra le possenti rovine della città antica il pilastro della Tomba delle Arpie (i preziosi rilievi sono stati sostituiti da copie) e la Stele di Xanthos con una lunga iscrizione in greco e in licio. I pilastri sono alti dai 5 agli 8 m e possiedono una o due camere funerarie sovrapposte. I sepolcri rupestri monumentali piú belli si trovano


a Telmessos – tra cui la Tomba di Aminta, in stile greco con colonne ioniche –, scolpiti nella parete rocciosa sopra la baia di Fethiye, a Kaunos negli scogli di fronte al porto, a Tlos dove si trova la tomba di Bellerofonte, che mostra l’eroe a cavallo di Pegaso, a Pinara con centinaia di tombe scolpite nella rupe sotto l’acropoli, e a Myra, città amata dall’imperatore Adriano, che mostra un grandioso scenario di sepolcri rupestri a forma di tempio o di palazzo sopra l’antico teatro. A Myra moderna (Demre) si può visitare la chiesa di San Nicola che fu vescovo del IV secolo, venerato come protettore dei bambini e dei marinai; le spoglie del santo, nato e morto in Licia, vennero portate nel 1087 a Bari. Un altro itinerario non meno suggestivo di quello delle necropoli è la «via dei teatri». Non vi è città antica per quanto piccola che non ne possegga uno. A Pinara la perfetta cavea – cioè lo spazio destinato agli spettatori, che veniva organizzato in gradinate su terrapieno o su Veduta del teatro di Telmessos, fondato in età ellenistica e poi ristrutturato in epoca romana.

costruzioni a volta – è addossata a un colle e guarda i campi coltivati, ad Antiphelos (Kas) il teatro si affaccia sul mare, a Xanthos è incorniciato dalle tombe-pilastro, e a Simena i gradini grigi si sono totalmente mimetizzati tra le rocce. I teatri risalgono per la maggior parte al II secolo d.C., ricostruiti sulla struttura ellenistica, mentre tre teatri greci perfettamente conservati si possono visitare ad Arycanda, Cyaneae e Telmessos.

Panfilia e Cilicia, tra letterati santi e pirati Antalya – città che possiede uno dei piú bei musei archeologici della Turchia – segna in qualche modo il confine tra la Licia e la Panfilia/Cilicia. Queste ultime sono sempre state descritte come terre estremamente selvagge, desolate e infestate da briganti e pirati. Nondimeno vi fiorirono splendidi centri di cultura. Ne è un esempio il teatro di Aspendos, adagiato sotto l’acropoli, progettato su modello greco dall’architetto Zenone all’epoca di Marco Aurelio, in assoluto il piú bello di tutti i teatri romani ancora esistenti. Il monumento ha conservato l’imponente facciata della scena con un doppio ordine di colonne corinzie e ioniche, e possiede un’immensa cavea con 39 gradinate per circa 20 000 spettatori, solcata da 31 rampe di scale e racchiusa da una galleria superiore a 59 archi. Anche a Side, a pochi chilometri da Aspendos, lungo la costa, si trova un magnifico teatro del II secolo d.C., dalla cui sommità si vede tutto il vasto parco archeologico circondato dal mare: le due agorà, le terme, i templi romani e qualche monumento bizantino, come la basilica e una fontana. Lungo tutta la costa fino al confine con la Siria, si manifesta la presenza dei Crociati, che vi hanno lasciato fortezze, torri, castelli e chiese, riutilizzate e trasformate alla fine del XIII secolo dai conquistatori ciprioti, armeni e turchi. Una delle cittadelle medievali, Silifke, l’antica Seleucios ad

Calycadnum, è rimasta celebre nella storia: alla foce del fiume Göksu annegò Federico I Barbarossa il 10 giugno del 1190, ormai settantenne, mentre guidava la Terza crociata verso Gerusalemme.

Il re che volle farsi dio Mentre si abbandona la costa all’altezza di Osmaniye, si vede il paesaggio cambiare radicalmente: immensi spazi, conche vuote e disabitate, se si eccettuano gli accampamenti dei nomadi Yörük, si aprono su entrambi i lati della superstrada che corre lungo la cresta di un massiccio montuoso. È una strada insieme orrida e affascinante, principale via di collegamento tra la Turchia e l’Iran. L’inferno finisce all’altezza di Gaziantep, quando si abbandona l’autostrada per proseguire parallelamente al corso dell’Eufrate, in direzione di Malatya, porta della Turchia orientale, antico regno di Commagene. L’escursione sul Nemrut Dagi, che di buon diritto dovrebbe chiamarsi l’Ottava Meraviglia del Mondo, inizia a Kahta, possibilmente di notte per giungere alla meta alle prime luci dell’alba. Il tumulo perfettamente conico, innalzato artificialmente ammassando milioni di ciottoli, copre il sepolcro di Antioco I, re di Commagene, del I secolo a.C., sovrano prima corteggiato e poi detestato dai Romani, incline al culto della propria persona che raggiunge l’apice con la costruzione del suo mausoleo sul tetto del mondo, dove si vede il re seduto accanto agli dèi, dio immortale egli stesso. Ai piedi del tumulo, su terrazze a Oriente e a Occidente, siedono in trono le colossali statue degli dèi del Hierothesion, in muta attesa, con le teste decapitate posate in cerchio sul bordo della piattaforma, in contemplazione del cosmo. Ogni pietra del santuario celebra la natura divina del sovrano di Commagene, assurto tra i ranghi delle divinità orientali, in simbiosi con il pantheon greco. Il tumulo che dovrebbe nascona r c h e o 79


speciale turchia dalle prime città della storia alla caduta di costantinopoli le origini 10 500-7000 a.C. insediamenti paleolitici nella zona di Antalya 7000-5000 a.C. insediamenti proto-urbani a Çatal Neolitico Höyük, Hacilar, Arslantepe e Yumuktepe. 5000-3000 a.C. evoluzione delle culture precedenti, Calcolitico specie nelle regioni di Mersin, Malatya, Budur e Afyon 3000-2000 a.C. nascita di piccoli regni con centri Età del Bronzo fortificati: Troia, Alaca Höyük, Beycesultan, Kültepe e Yortan. Gli Ittiti 2000-1700 a.C. gli Ittiti giungono in Anatolia centrale. periodo il re di Kushshar, Anitta, fonda il paleoittita regno degli Hatti. Vaste aree rimangono sotto il dominio assiro. 1680-1450 a.C. primo insediamento vicino ad Antico Regno Alaca Höyük, mentre nel 1650 a.C. viene creata come capitale Hattusha (Bogazkale). 1450-1200 a.C. intorno al 1290 a.C. ha luogo la Nuovo Regno battaglia del re Muwatalli contro gli Egiziani a Qadesh; in seguito Hattusili III e Ramesse II concludono il patto di pace che segna anche l’apogeo dell’impero ittita; l’invasione dei «Popoli del Mare» determina il crollo dell’impero ittita.

855·585 a.C. regno di Urartu sul Lago di Van. VII-V sec. a.C. Regno della Lidia il cui ultimo re, Creso (560-546 a.C.), intrattiene ottime relazioni con i Greci, ma deve arrendersi ai Persiani. 334-327 a.C. Alessandro Magno conquista l’Asia Minore 282 a.C. nasce il Regno di Pergamo; l’Anatolia subisce invasioni da parte dei Galati (278 a.C.), battuti dal Romani nel 189 a.C. Inizia il dominio di Roma sulle province dell’Asia Minore e viene annesso il regno di Pergamo (133 a.C.) I sec. a.C. Guerre di Roma contro Mitridate III sec. d.C. (88-63 a.C.), re del Ponto. Pax Romana e annessione di tutti i territori dell’Anatolia. Già nel primi secoli della nostra era si verifica una vasta diffusione del cristianesimo. 330 L’imperatore Costantino stabilisce la nuova capitale dell’impero a Costantinopoli 391·392 L’Editto di Teodosio I vieta ogni forma di idolatria, vengono distrutti i templi e le immagini pagane. 395 Scissione dell’impero tra Roma e Bisanzio. 527-565 Apogeo bizantino all’epoca di Giustiniano.

i nuovi domini 1240 a.C. Distruzione di Troia VI 1100·900 a.C. immigrazione di coloni ioni e dori e prime fondazioni greche sulla costa dell’Egeo X-VIII sec. a.C. Regno della Frigia nell’Anatolia centrale con capitale Gordion, allora massima potenza dell’Asia Minore. Il leggendario re Mida (738-696 a.C.) viene sconfitto dall’assiro Sargon nel 707 a.C. e si suicida dopo l’invasione dei Cimmeri.

Il declino di Bisanzio e la conquista ottomana VII-VIII secolo gravi perdite a causa delle scorrerie arabe IX-XI secolo la dinastia macedone di Bisanzio conquista nuovi territori, dai Balcani alla Cappadocia, fino all’Armenia e alla Georgia. 1071 I Selgiuchidi avanzano dalla Persia verso l’Armenia e sconfiggono i Bizantini a Manzikert sul lago di Van. 1204 saccheggio e incendio di Bisanzio durante la IV Crociata. 1134 Konya diventa capitale dei sovrani selgiuchidi. Nel XIII secolo iI regno selgiuchide si sgretola a causa delle invasioni mongole. Inizi del XIV nasce la dinastia degli Ottomani: l’Asia secolo Minore, la Tracia e parte dei Balcani sono presto sotto il loro dominio 1362 gli Ottomani stabiliscono la capitale a Edirne, a nord di Bisanzio ormai isolata. 1453 presa di Costantinopoli, fondazione dell’impero ottomano, che per oltre tre secoli condizionerà la politica in Occidente e in Oriente.

80 a r c h e o


A destra: testa colossale di Zeus-Oromasdes sulla terrazza orientale del mausoleo di Antioco I, re di Commagene, eretto nel I sec. a.C. a Nemrut Dagi, in Turchia sud-orientale. Nella pagina accanto: i resti del tumulo di Antioco I sul Nemrut Dagi, con le statue colossali ai piedi della collinetta artificiale. A tutt’oggi, la tomba del sovrano non è stata ancora localizzata.

dere la tomba del re è progettato in modo che solo una totale asportazione dei sassi permetterebbe di penetrare il segreto della sua camera funeraria: i sondaggi con gli strumenti piú sofisticati non hanno portato finora ad alcun risultato. Ulteriore conferma della divinizzazione è la sequenza degli dèi seduti in trono: sul podio vediamo Zeus-Oromasdes (Ahuramadza, il massimo dio iraniano) al centro; sulla sua sinistra siede lo stesso Antioco accanto a EracleArtagne (l’iraniano Verathragna), l’eroe premiato con l’immortalità dagli dèi, proprio come desiderava Antioco. Alla destra di Zeus appare la dea Tyche, che porta sul capo un cesto di frutti, simbolo della fortuna e della ricchezza di Commagene, e Apollo che riunisce le divinità Mithra-Helios e Hermes. La presenza delle divinità legate al mito del sole e della luce è significativa: nella tradizione iraniana sono gli dèi Mitra (Apollo) e Ahuramadza (Zeus) a porgere l’investitura sacra ai re.

quelle teste nella neve... La scoperta del Nemrut Dagi avvenne nel 1881, quando un viaggiatore tedesco, l’ingegnere Kart Sester, vide spuntare dalla neve, che copre il monte da ottobre a maggio, le tiare delle teste colossali degli dèi (in alto). Negli anni seguenti furono gli archeologi Otto Puchstein e Karl Humann a indagare sulle sculture e sulle iscrizioni del santuario, insieme agli archeologi turchi. Dal 1938 gli scavi sono proseguiti senza sosta fino a oggi e dal 1984 sono in corso i lavori di conservazione e di restauro, e, ovviamente, si cerca di localizzare la misteriosa tomba di Antioco I, nascosta nelle viscere del tumulo. Nel 1987 l’UNESCO ha inserito l’intera area monumentale del Nemrut Dagi nella Lista del Patrimonio Mondiale.

Il retro dei piedistalli delle statue reca lunghe epigrafi in lingua greca e persiana, che riferiscono sulle origini di Antioco, sulla creazione del santuario, sui riti da rispettare ed elencano le maledizioni che perseguiteranno i disubbidienti. Il podio era recintato da enormi lastre con rilievi che ritraggono il re in compagnia degli dèi e che recano iscrizioni bilingue, dedicate agli antenati. Sulla spianata occidentale si trova la tavola del cosiddetto «oroscopo del leone», un rilievo che

raffigura un leone con il collare a mezzaluna tra stelle e pianeti, che presumibilmente indica le date dell’incoronazione del re e della creazione del santuario. info turistiche Ufficio Cultura e Informazioni dell’Ambasciata di Turchia Roma, piazza della Repubblica 55-56 Info tel. 06 4871190 e 4871393; e-mail: turchia@turchia.it www.turchia.it a r c h e o 81


itinerari xxxxxxxxxxxxxxxxxxx

Una veduta di Ankara dalla cittadella.

Ankara e la via degli

ittiti

D

reportage

Qui sopra: la statua di Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia moderna, in piazza Ulus, ad Ankara. In alto: uno scorcio della moderna città di Ankara. In basso: l’area archeologica con le terme dell’epoca di Caracalla.

82 a r c h e o

alla cittadella, posta su un cono di roccia a 120 m sopra Ankara, lo sguardo spazia sulle innumerevoli casette in legno e fango della città vecchia, assediate dalle «torri» dei quartieri moderni. Prima di essere proclamata capitale della Repubblica turca, nel 1923, Angora era un piccolo centro di provincia di 30 000 abitanti, racchiusa entro i confini della città medievale. Poi, nell’arco di pochi decenni, la sua popolazione aveva superato il milione di abitanti. Oggi ne conta 4,5 milioni circa, una cifra che è destinata a crescere. Seconda città della Turchia (dopo Istanbul, con i suoi 13 milioni di abitanti), Ankara si presenta, dunque, come una megalopoli moderna, vivace e colta (oltre a essere centro amministrativo del Paese, annovera numerose università), e inoltre – in netto contrasto con i ricordi di chi ha visitato le grandi città della Turchia negli ultimi decenni del secolo scorso – gradevolmente dotata di una buona qualità dell’aria, grazie alla riduzione (in tutti i mezzi pubblici, taxi inclusi, e in molti di quelli privati) della benzina a favore del gas naturale. Eppure, Ankara è anche degnissima meta del «turismo archeologico», non fosse altro per due aspetti della sua storia piú antica. Già una volta, infatti, la città conobbe un periodo di fortuna in qualche modo paragonabile a quella di oggi: precisamente a partire dal 25 a.C., anno in cui, nel quadro del riordinamento amministrativo e territoriale dell’Asia minore voluto da Augusto, l’antica Ancyra fu dichiarata capitale della nuova provincia romana di Galatia (fu questo il nome attribuito alla città dalla popolazione celtica dei Galati che, intorno al 230 a.C., ne fece il capoluogo del suo principato). Cinquant’anni prima la città era entrata a far parte del dominio di Roma, grazie alla vittoria riportata da Pompeo sul re del Ponto, Mitridate il Grande, del cui regno Ancyra fino a quel momento faceva parte. Solo con Augusto, però, Ancyra acquista la sua massima rilevanza politica, accompagnata da prosperità e dall’incremento della popolazione, che raggiunge le 200 000 unità. In segno di gratitudine gli abitanti cambiano nome alla città e la chiamano Sebaste (greco per Augusto). Di questo momento storico Ankara conserva, ancora oggi, una testimonianza monumentale straordinaria: i resti del tempio di Augusto e Roma. Inoltre, una vasta area archeologica, oggi inglobata nella città moderna, ospita i resti di un imponente impianto termale risalente all’epoca dell’imperatore Caracalla, mentre una colonna composta da otto rocchi scanalati e coronata da un capitello bizantino (che - mi dicono da qualche anno - ospita la dimora di una coppia di cicogne) ricorda la visita, a Ancyra/Sebaste, dell’imperatore Giuliano l’Apostata, avvenuta nel 362, un anno prima della sua morte in battaglia contro i Persiani. Tra gli avvenimenti significativi di cui Ancyra fu protagonista in


di Andreas M. Steiner

il tempio salvato dal saggio haci bayram In un’area protetta e ben curata della città vecchia, là dove un tempo era l’acropoli dell’antica Ancyra, sorge oggi la moschea piú venerata dagli abitanti di Ankara, dedicata a Haci Bayram Veli, poeta, saggio sufi e fondatore di una confraternita religiosa, vissuto dal 1352 al 1430. L’edificio risale, nella sua veste attuale, al XVIII secolo, e ospita anche la tomba del santo e della sua famiglia (Haci Bayram Veli, come mi ha fatto notare il nostro collaboratore, lo storico del mondo bizantino Marco Di Branco, è il «persiano» protagonista del Dialogo della Discordia, la controversia teologica redatta nel 1391 dall’imperatore Manuele II Paleologo, divenuta celebre per essere stata citata, nel settembre del 2006, da Benedetto XVI nel suo discorso di Ratisbona). L’importanza del luogo è, però, dovuta anche

alla presenza di un altro straordinario monumento, le cui rovine sono addossate a un angolo della stessa moschea: il tempio della dea Roma e di Augusto. Dell’edificio, costruito in onore dell’imperatore tra il 25 e il 20 a.C. sul luogo di un precedente santuario frigio (metà del II secolo a.C.), si sono conservate le imponenti mura della cella e il pronao. L’elemento che del tempio fa uno dei piú importanti monumenti dell’antichità classica è l’iscrizione incisa, in latino e in greco, sulle pareti esterne della cella e all’interno del pronao: si tratta del cosiddetto Monumentum Ancyranum, un testo che riporta le Res Gestae Divi Augusti, «le opere del divino Augusto» compiute durante la sua lunga carriera politica. Quella ancirana è l’unica riproduzione sopravvissuta del prezioso documento; il testo originale, inciso

su lastre metalliche collocate presso il mausoleo dell’imperatore a Roma è andato perduto, insieme alle numerose altre copie realizzate in ogni parte dell’impero. Quando fu costruita la moschea di Haci Bayram, le rovine conservatesi attraverso i secoli (in età bizantina l’edificio era stato trasformato in chiesa, come testimoniano le tre finestre inserite nella parete sudorientale della cella e le aggiunte ancora ben visibili nella parte nordorientale del tempio) furono utilizzate come ambienti di una scuola coranica. Fu cosí che i resti del venerando monumento, contrariamente a tanti altri di età romana e bizantina, si salvarono dalla distruzione. E, oggi, possono essere ammirati (sebbene parzialmente imbrigliati da una recentissima struttura metallica, resa necessaria per motivi di staticità), nel migliore dei contesti possibili. Qui sopra: l’interno della moschea di Haci Bayram. In alto e a sinistra: le rovine del tempio di Augusto e Roma, edificato tra il 25 e il 20 a.C., addossate alla moschea di Haci Bayram.

a r c h e o 83


itinerari xxxxxxxxxxxxxxxxxxx

reportage

Ankara. Una porta nella cinta muraria di epoca bizantina, realizzata con materiali di spoglio provenienti dalla città bassa. In basso: Ankara, un vicolo della città vecchia.

Centro Culturale Anatolico Atatürk

A sinistra: vicoli di Ankara. In basso: la doppia cinta muraria di epoca bizantina. Nella pagina accanto, in alto: l’ingresso del Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara.

Moschea Haci Bayram e Tempio di Augusto

Terme romane

Colonna di Giuliano

Cittadella PARCO GENÇLIK Museo delle Civiltà Anatoliche STAZIONE CENTRALE

ANKARA Mausoleo di Atatürk

84 a r c h e o

Moschea Ahi Elvan SAMAN PAZARI UNIVERSITÀ DI ANKARA

MALTEPE

SHIHIYE KIZILAY

BAKANLIKAR Parlamento

età paleocristiana figurano, oltre, naturalmente, alle predicazioni degli apostoli Piero e Paolo (di quest’ultimo ricordiamo la Lettera ai Galati) due eventi conciliari, rispettivamente nel 315 e nel 358. Gli episodi che hanno scandito la storia successiva della città sono, perlopiú, di segno negativo: nell’806 la conquista (e il saccheggio) da parte del califfo Harun al-Rashid, nel 1017 la resa ai Selgiuchidi, seguita da quella ai Crociati (nel 1101), agli Ottomani (1354), infine, nel 1402, ai Mongoli guidati da Timur Lenk. All’epoca il nome della città era diventato Engüriye, che gli Europei, a loro volta, lessero come Angora. Nei decenni seguenti la città decade a piccolo centro provinciale, fino alla sua rinascita agli inizi del Novecento. Naturalmente, e al di là della sua fortuna in età romana, Ankara vanta origini assai piú antiche; che possiamo rintracciare proprio qui, sulla cittadella, luogo da cui abbiamo preso inizio. Benché Pausania, che scriveva nel II secolo d.C., sostenesse che la fondazione di Ancyra fosse avvenuta nel VII secolo a.C., a opera del mitico re dei Frigi, Mida, rinvenimenti archeologici hanno invece dimostrato che la strategica collina aveva ospitato un preesistente insediamento ittita. Oggi, varcando la doppia cinta muraria di epoca bizantina (la prima, piú interna, risale all’imperatore Iraclio che, nel 630, aveva riconquistato la città dai Persiani, la seconda, invece, a Michele II, che nel IX secolo la costruí per difenderla dagli attacchi arabi), le epoche storiche si rivolgono al visitatore sotto forma di un «dialogo diretto»: mura e torri hanno, infatti, assorbito innumerevoli elementi architettonici – capitelli, architravi, basi di colonne, iscrizioni e rilievi – recuperati dai monumenti della città bassa e riutilizzati per i numerosi allargamenti e rifacimenti a cui le fortificazioni furono sottoposte (e che arrivano fino all’età selgiuchide e ottomana). Per confrontarsi con la memoria piú antica di questo luogo, basta uscire dalla cittadella, attraversare le vie del bazar e, dopo poche centinaia di metri, raggiungere il secondo museo della Turchia (il primo è il monumentale Museo Archeologico di Istanbul), intitolato alle «Civiltà Anatoliche». Allestito in un bedesten (un bazar coperto) del XV secolo, caratterizzato da una corte interna munita di un tetto formato


A sinistra: l’ingresso e, in basso, una sala del Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara. In basso: statua in calcare dell’ultimo re ittita Tarhunazi. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

da dieci cupole, le sue raccolte documentano, seguendo un rigoroso ordine cronologico, la storia dell’Anatolia dalle origini all’età romana. Innumerevoli i «capolavori», dalle statuette in argilla raffiguranti le dee madri (provenienti dai siti neolitici di Çatal Höyük e Hacilar), agli «idoli» in pietra dalla colonia paleoassira di Kültepe (XIX secolo a.C.), ai magnifici stendardi in bronzo ed elettro a forma di cervo e quelli a forma di disco raggiato (da Alaca Höyük, età del Bronzo). Il nucleo centrale del museo è dedicato alla civiltà ittita, introdotta dal grande bassorilievo del dio della Guerra rinvenuto nel muro di cinta della capitale ittita, Hattusha. Dalla vicina Alaca Höyük, invece, provengono i due ortostati che ornavano una delle porte d’accesso alla città. Negli ambienti interni del museo troviamo esposti reperti di età tardo-ittita: tra questi spiccano le monumentali sculture che decoravano la porta principale di Arslantepe (presso Malatya) e la lunga teoria di figure che ornano gli ortostati scolpiti a rilievo con una infinita teoria di figure umane e animali simbolici… Con le immagini di questi magnifici manufatti impresse nella mente (e rimandando a un’altra occasione la visita delle sale dedicate all’età frigia, urartea e classica) abbandoniamo il Museo delle Civiltà Anatoliche, e la stessa Ankara, per dirigerci a est, alla volta di Hattusha. Da Ankara la capitale degli Ittiti dista circa 200 km, agevolmente percorribili in due ore e mezzo di macchina, attraverso un paesaggio grandioso: infinite distese collinari, a tratti semidesertiche, calate in un sempre cangiante gioco di colori, protagonisti il nero delle montagne basaltiche, il rosso della terra tufacea intorno al fiume Kizil (lo storico Halys, chiamato anche «fiume rosso», che, con i suoi affluenti, irriga faticosamente questa parte dell’altopiano anatolico), l’ocra della terra, macchiato dall’ombra delle nuvole sospinte da un vento costante. L’altura su cui sorge Hattusha (l’attuale Bogazköy/Bogazkale, rispettivamente il «villaggio» e il «castello» di Bogaz) si innalza circa 300 m sulla piana (situata, a sua volta, a 1000 m circa sopra il livello del mare)

In basso: statuetta in bronzo ed elettro raffigurante un cervo, uno dei cosiddetti «stendardi», da Alaca Höyük. Fine del III mill. a.C. Ankara, Museo delle Civiltà Anatoliche.

a r c h e o 85


itinerari xxxxxxxxxxxxxxxxxxx A sinistra: il paesaggio dell’altopiano anatolico sulla via per Hattusha.

reportage

La sequenza fotografica illustra la 1 ricostruzione di un tratto di mura, lungo 65 m, della cinta muraria di Hattusha (in basso), realizzata dagli archeologi dell’Istituto Archeologico Germanico secondo le tecniche costruttive originarie. 1 - Preparazione dei mattoni crudi. 2 - Essiccamento al sole. 3 - Alzato delle mura e posizionamento della griglia in legno per il pavimento delle torri di difesa. 4 - Realizzazione del solaio. Sulle travi lignee è posto uno strato di paglia seguito da uno strato di fango. 5 - Intonacatura delle merlature. 6 - L’interno delle camere della torre con scale di legno per accedere ai tetti.

86 a r c h e o

2


4 3

5 6

ed è riconoscibile già da lontano. Un dato che suggerisce, di per sé, la caratteristica difensiva dell’antica città che fu centro dell’impero ittita per ben 400 anni, dal 1600 circa al 1200 a.C. Articolata su tre livelli (la città alta, la cittadella con il palazzo reale, la città bassa con il grande tempio centrale), Hattusha copre un’estensione vasta, di circa 1,8 kmq. L’impianto urbano segue l’andamento naturale del suolo, caratterizzato da notevoli dislivelli (fino a 300 m); la sola visita del perimetro delle mura, lungo 6 km, richiede un’ora e piú di cammino, ma una strada asfaltata, percorribile in macchina, attraversa il sito e raggiunge i suoi principali, e celeberrimi, monumenti: la Porta dei Leoni, la Porta delle Sfingi con le sue imponenti fortificazioni, la Porta dei Re… Gli scavi di Hattusha, iniziati nel 1906, sono tuttora in corso, condotti da una missione dell’Istituto Archeologico Germanico. Nel 1986 il sito è stato incluso da parte dell’UNESCO nella lista del Patrimonio Culturale dell’Umanità, nel 1988 il governo turco l’ha dichiarato Parco storico nazionale. Numerosi i complessi e i singoli monumenti portati alla luce all’interno della cinta muraria: si parte dalla città bassa con i resti del Grande Tempio (dedicato al dio del Cielo e alla dea del Sole), gli annessi granai (con, ancora in situ, i grandi recipienti in terracotta) e il quartiere abitativo, per giungere, scalando un ripido bastione, alla Büyükkale (la «fortezza» di Büyük), sede del palazzo nell’età di massima espansione del regno ittita. Prima di arrivare alla fortezza, il percorso costeggia la prima e piú antica cinta muraria – che, nel XVI secolo a.C., difendeva il lato meridionale della città bassa –, caratterizzata dalla presenza di otto «postierle», passaggi

a r c h e o 87


itinerari xxxxxxxxxxxxxxxxxxx LE PORTE DI HATTUSHA Dall’alto in basso: la Porta dei Leoni, la Porta delle Sfingi e la Porta dei Re. Le tre aperture, poste rispettivamente a ovest, sud, ed est della cinta muraria, furono realizzate tra il XIV e il XIII sec. a.C.

Città Nord Büyükkaya Grande roccia

Città bassa

Ambarlikaya

Grande Tempio

Muro a postierla

Büyükkale

Fortezza grande

Nisantepe Sarikale Città alta

reportage

Porta dei Leoni

Yenicekale

Carta topografica di Hattusha.

Porta dei Re

Porta delle Sfingi

Alaca höyük, un luogo di culto al centro dell’impero Il sito di Alaca Höyük, la «collina» di Alaca (si pronuncia «Alagia»), 25 km a nord-est di Hattusha/ Bogazkale, venne scoperto nel 1835 (il termine höyük, equivalente dell’arabo tell e del persiano tepe, indica una collina artificiale creatasi per la continua sovrapposizione degli insediamenti nel corso dei secoli e rappresenta una delle forme tipiche degli abitati ittiti). Gli scavi dell’insediamento di Alaca Höyük – una collina alta 15 m circa e con un diametro di circa 250 m – iniziati già nel 1907 e protrattisi quasi ininterrottamente fino al 1983, hanno portato alla luce un importante luogo di culto e di produzione artistica, attivo sin dalla prima età del Bronzo (tra il 2500 e il 2000 a.C.).

88 a r c h e o

A questo periodo risalgono le ricche sepolture principesche (tredici tombe) rinvenute nel 1935, i cui corredi hanno gettato nuova luce sul periodo della cultura autoctona dell’Anatolia, quella degli Hatti. I principali monumenti messi in luce risalgono all’età del «grande impero» ittita, quando la superficie della città misurava 40 000 mq: sulla possente cinta muraria si apre la monumentale Porta delle Sfingi che conduce ai resti del grande tempio. I rilievi che decorano la Porta delle Sfingi e numerosi altri reperti (i famosi «stendardi» di Alaca di periodo hattico, ma anche recipienti a forma di animali sacri alle divinità ittite, quali tori, leoni e aquile) segnalano l’importanza religiosa e cultuale del sito anatolico.


Il santuario rupestre di Yazilikaya Circa 1,5 km a nord-est di Hattusha/Bogazkale, sulle pendici di una montagna, si trova il santuario rupestre di Yazilikaya («la roccia iscritta»), la cui importanza risiede nelle oltre 90 raffigurazioni tra esseri umani, animali e mostri mitologici scolpite sulla roccia. Al santuario si accede attraverso una porta monumentale che conduce a un cortile su cui si affaccia una serie di ambienti. Una piccola struttura situata nel cortile e interpretata come altare, serviva forse ad accogliere sacrifici. Per un secondo passaggio, si giunge agli ambienti cultuali

veri e propri. Scoperto nel 1834, Yazilikaya è un santuario diverso dagli altri templi ittiti: innanzitutto, si trova al di fuori dell’abitato, non protetto da alcun muro di cinta, e con i suoi due ambienti di culto a cielo aperto, posti negli spazi naturali racchiusi tra le pareti di roccia calcarea alte fino a 12 m. Inoltre, e contrariamente agli altri santuari ittiti, ciascuno dei quali è dedicato a singole divinità, a Yazilikaya era venerata una molteplicità di esseri divini, quelli raffigurati nei magnifici rilievi che ne decorano le rocce.

A sinistra: il santuario rupestre di Yazilikaya (XIII sec. a.C.), sulle cui pareti sono incise raffigurazioni di divinità e animali fantastici. A destra e in basso: due particolari dei rilievi.

nascosti che, attraversando le mura a distanza di 70/180 m, consentivano sortite verso il campo nemico (un esempio ancora percorribile di questo espediente difensivo si trova sotto la Porta delle Sfingi, sul lato sud delle mura principali). Dalla fortezza, il percorso di visita procede verso sud, passa per Nisantepe (la «Montagna dei Segni»), sulla cui superficie figura un’incisione in geroglifici ittiti attribuita al re Shuppiluliuma II, e arriva alla vasta area della città alta. Hattusha è ancora poco toccata dai grandi flussi turistici: e il silenzio e la quasi solitudine – in particolare in un periodo di bassa stagione – ne accrescono indubbiamente il fascino. Da qualche anno, inoltre, un’ulteriore «attrattiva» accoglie il visitatore proprio all’ingresso del sito: la ricostruzione di un tratto (lungo 65 m) delle mura di cinta fortificate del XIV-XIII secolo a.C., eseguita dagli archeologi dell’Istituto Archeologico Germanico ripristinando le originarie tecniche costruttive, a partire dalla realizzazione degli stessi mattoni in argilla cotti al sole. È innegabile l’effetto ottenuto dal monumento, grazie al quale il visitatore ottiene una visione realistica e concreta della grandiosità di questa capitale dell’antica Anatolia. dove e quando Per la visita di Hattusha e dei vicini siti di Yazilikaya e Alaca Höyük (vedi box in queste pagine) consigliamo di prevedere due giornate piene.Vale la pena, inoltre, dedicare qualche ora alla visita dei musei locali di Bogazkale e della cittadina di Çorum (una cinquantina di km a nordest da Hattusha). Per il pernottamento segnaliamo la cittadina di Bogazkale, che offre una buona scelta di hotel e guest house. (ringrazio Suat Dingil per la preziosa collaborazione).

a r c h e o 89


storia storia dei greci/11

Le città contro

La Storia non si fa con i «se», né con i «ma». In questo articolo, invece, immaginiamo proprio uno scenario di questo tipo: che cosa sarebbe potuto succedere se, a Salamina, i Persiani avessero sconfitto i Greci? Ecco qualche spunto di riflessione su come si sarebbe potuta evolvere, in maniera verosimile e diversa, la nostra stessa civiltà…

Kylix (coppa di forma larga e bassa con due manici, usata per bere nei banchetti) a figure rosse del Pittore di Makron raffigurante alcuni guerrieri nell’atto di indossare le armature, uno dei quali si taglia i capelli. 480 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

90 a r c h e o


l’impero U

n pugno di piccole città-stato che respinge vittoriosamente due invasioni dell’impero piú esteso che abbia mai dominato l’Oriente: tali furono l’eco e la portata di quegli eventi straordinari, che un Ateniese di adozione, ma orig inar io della g recità d’Asia, Erodoto, de-

cise di raccontarle, fondando con ciò un nuovo genere letterario: la storiografia. «Affinché gli avvenimenti umani con il tempo non si dissolvano nell’oblio e le imprese grandi e meravigliose, compiute sia dai Greci che dai Barbari, non restino senza gloria». A prima vista, il suo intento non parrebbe molto diverso da quello di un poeta epico: le imprese, la gloria, la grandezza, la memoria… Ma la differenza era che Erodoto parlava di fatti a lui vicinissimi nel tempo, non deformati dai miti, e quindi ancora vivi nella memoria dei testimoni. Egli era nato nel mezzo degli avvenimenti, tra la vittoria terrestre di Maratona del 490 a.C. e quella marittima a Salamina del 480 a.C. Poiché la sua città d’origine, Alicarnasso, era allora sottoposta al Gran Re Persiano – governata da una regina guerriera, Artemisia, una sorta di valorosissima amazzone che egli poi elogiò nelle Storie – la famiglia di Erodoto era consanguinea di quelle stesse genti greche d’Asia che, dopo il loro vano tentativo di rivolta antipersiana degli anni Novanta, furono costrette a prendere parte all’invasione contro la madrepatria.

Tra sudditi e cittadini Certo, è un po’ semplicistico dire che questo conflitto vide contrapporsi Greci e Persiani. Se infatti dalla parte degli invasori combatterono le innumerevoli etnie afro-asiatiche che l’impero comprendeva (vedi box a p. 96), dall’altra parte non troviamo affatto schierati tutti i Greci. Oltre

di Fabrizio Polacco

a quelli d’Asia che, come detto, furono trascinati nell’impresa con le loro navi dalla parte del Gran Re, anche Tessali e Beoti alla fine si allearono coi Persiani. Inoltre, nella prima guerra, quella conclusasi a Maratona sulle coste dell’Attica, solo 8/9000 Ateniesi e un migliaio di altri opliti di Platea sostennero l’urto del nemico soverchiante. Inoltre, a consigliare e a guidare gli ammiragli persiani vi era proprio un Ateniese: quell’Ippia, figlio di Pisistrato, che era stato anch’egli tiranno nella sua città fino a una ventina d’anni prima. Le poleis greche a quei tempi erano svariate centinaia; ma, mentre le colonie d’Occidente erano rimaste a guardare (anche perché impegnate a respingere una concomitante spedizione dei Cartaginesi), tra quelle della penisola ellenica - investite direttamente dall’invasione - appena una trentina si opposero con le armi (31 ne elenca il tripode di Delfi, dedicato per la vittoria di Platea del 479 a.C.). Buona parte dei Greci, invece, aveva offerto terra e acqua agli inviati del Gran Re, in segno di sottomissione. Simbolica, in un primo momento: ma poi sarebbero giunti i tributi, non diversi da quelli dovuti da tutti i popoli dell’impero, Persiani esclusi. E allora, scriviamo le cose piú correttamente: non fu una guerra tra Greci e Persiani, ma tra Greci liberi, da una parte, e un coacervo di altri popoli (compresi alcuni Greci), dall’altra. O, se vogliamo, tra un esercito di cittadini e uno di sudditi. Sebbene siano trascorsi da allora 2500 anni (nel 2011 ricorrono i a r c h e o 91


storia storia dei greci/11 Stele funeraria degli opliti Chairedemos e Lykeas, armati di lancia e scudo, da Salamina. 420 a.C. circa. Il Pireo, Museo Archeologico. Dopo dieci anni dalla battaglia di Maratona, nel settembre del 480 a.C., di fronte al porto del Pireo, tra la terraferma e l’isola di Salamina, venne combattuto e vinto dalla Lega delle poleis greche, lo scontro navale contro l’impero achemenide di Serse I.

due millenni e mezzo da Maratona, e nel 2021 sarà lo stesso per Salamina), non dobbiamo farci ingannare dal tempo. Certo, come a molti altri popoli che lasciano lentamente svanire la propria identità culturale (non etnica: l’etnia, come si è visto, significa ben poco, almeno nelle guerre persiane), a noi italiani non verrebbe mai in mente di rendere omaggio, per esempio, ai caduti contro Anni-

bale di Zama o di Canne. Invece, chiunque sia passato a visitarne il sito, sa che per i Greci odierni luoghi come le Termopili e Maratona sono costanti mete di pellegrinaggio. Ma sarebbe un peccato lasciare loro il monopolio delle celebrazioni delle guerre persiane. Pochi eventi del piú lontano passato, infatti, hanno avuto e hanno altrettante conseguenze sul modo di vivere, di ragionare, di parlare di tutti noi moderni (vedi box a p. 95). Non è un caso, per esempio, che la piú antica opera teatrale esistente prenda le mosse da questa guerra. Il primo capolavoro a noi rimasto di Eschilo - I Persiani, del 472 a.C. - ha infatti per oggetto le vicende dello scontro navale nella baia di Salamina del 480 a.C. Il dramma comincia con un breve prologo, che già da solo illumina il quadro storico. La regina madre, Atossa – che segue da lontano, dalla reggia di Susa a oriente del Tigri, la spedizione del figlio Serse – chiede notizie su Atene, quella città ostinata e r ibelle dell’estremo Occidente contro cui l’impero sta movendo tante forze. Il tenore delle sue domande non solo rivela che non ne aveva mai sentito parlare, ma ci testimonia anche una irriducibile distanza culturale tra due mondi. Fra le altre cose, infatti, la regina chiede chi sia mai il re di quegli Ateniesi, il loro signore. Ma il coro dei vecchi cortigiani non può che deluderla: «Si vantano di non essere schiavi di nessun uomo, a nessun uomo sudditi».

Il demone degli Ateniesi Senza l’esito sorprendente di queste due guerre, quindi, non solo non avremmo visto evolversi la storiografia e il teatro (due formidabili strumenti che l’uomo ha inventato per scrutare dentro e dietro di sé), ma si sarebbe arrestato lo sviluppo di quelle forme di libertà politica e intellettuale che l’Atene del V e IV secolo (quella di Pericle, di Fidia, di Socrate e di Platone, per intenderci) si accingeva a offrirci. Insomma, una eventuale vittoria dei Persiani avrebbe soffocato l’Europa, intesa 92 a r c h e o


on Strryym

A destra: la Grecia e l’Egeo al tempo della prima e della seconda guerra persiana. In basso: interno di una coppa attica con la rappresentazione di un arciere persiano. Attribuita al pittore Oltos, seconda metà del VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Ax ios

Mar Nero

Ne s

to s

Abde Abdera

Pella a

Taso Samotracia a

Therme Potidea

Corfú

Larisa sa

Mar Egeo

Tebe

Cefalonia Zacinto Battaglie Impero persiano nel 493 a.C.

Elide

Calcide C Eretria t A Atene

Platea 479 Philious

Pireo P Pir ir i

Argo

Salamina 480

Atarneus

Lesbo

Artemision 480

Termopoli 480

Leucade

Lemno

Ka Kasthanaia

A Ainos

A Abido Sigeo geo Troia A Atandro

M. Athos M

Ambracia Anaktorion

D Doriskos

E Elea

Chio

Sardi

Caristo

Efeso

Maratona 490

Trezene

Paro

Sparta

S Samo o

Delo Nasso

Micale 479 Mileto Alicarnasso

Stati vassalli della Persia nel 493 a.C.

Milo

Stati neutrali o filopersiani Stati in guerra con la Persia

Rodi

Citera

Percorso della flotta sotto Mardonio nel 492 a.C. Percorso dell’esercito persiano sotto Dario nel 492 a.C. Percorso della flotta persiana sotto Dati nel 490 a.C. Percorso della flotta persiana sotto Serse nel 480 a.C. Percorso dell’esercito persiano sotto Serse nel 480 a.C.

come fenomeno culturale, sul nascere. Il che, forse, non sarebbe stato di necessità un male (chi potrà mai sapere che cos’altro ne sarebbe venuto?), ma significa certo che la Storia avrebbe preso una piega totalmente diversa. È anche una simile considerazione che rende lo studio di questo fatale periodo interessante come pochi altri. Ci si potrebbe domandare, per esempio, quale dèmone (nel senso classico, di divinità ispiratrice) movesse l’agire degli Ateniesi. Per esempio, quando Milziade (il loro stratego, che i Persiani li conosceva bene, poiché l’avevano cacciato qualche anno prima dal suo

Mar Mediterraneo

Creta

Senza la vittoria dei Greci non avremmo avuto la storiografia, né il teatro principato nel Chersoneso Tracico) riuscí a persuadere quei cittadiniopliti quattro o cinque volte inferiori di numero ad attaccare per primi i Persiani sbarcati nella falciforme baia di Maratona; e senza nemmeno attendere i rinforzi promessi da Sparta (che poi arrivarono, ma a battaglia terminata), i quali avrebbero dato qualche speranza in piú di riuscita. Eppure si sapeva di rischiare il tutto per tutto: era Atene il principale obiettivo di quella stessa punizione che già si era abbattuta su Eretria, ridotta in fiamme dai Persiani e con gli abitanti deportati chissà dove, nel cuore sterminato dell’Asia. a r c h e o 93


storia storia dei greci/11 M. Egaleo

Baia di Eleusi

Attica Korydallos

Ilusiani

Trono di Serse

Isola di Salamina

Psyttaleia

Ioni

Golfo Saronico

i

c Feni

la battaglia di salamina

Schema che riassume il momento cruciale dello scontro navale svoltosi nelle acque di Salamina, nel 480 a.C. Sebbene le forze di cui disponevano fossero in numero inferiore, i Greci (in verde) sconfissero la flotta persiana, perché con navi piú piccole e veloci di quelle del nemico poterono manovrare piú abilmente nello stretto braccio di mare fra l’isola e la costa dell’Attica.

In basso: particolare del frontone dell’Hekatompedon (il tempio «dei 100 piedi») raffigurante un mostro a tre corpi, detto «Barbablú». 570 a.C. L’edificio sorgeva sull’Acropoli di Atene e fu tra quelli distrutti dai Persiani nel 480 a.C.

Oppure, altro esempio, quando, sette anni dopo, il loro nuovo leader politico, Temistocle, riuscí a persuadere l’intero demos a non intascare come ogni anno i proventi delle miniere di Stato, l’argento del Laurion, un bel gruzzoletto da portare a casa per ogni Ateniese: ma, al contrario, ad assegnarli a duecento ricchi cittadini perché allestissero una nave da guerra ciascuno, le famose triremi, cosicché la città, ora ancor piú minacciata di vendetta dai Persiani, disponesse di una flotta pronta a ogni evenienza.

Contro l’etica oplitica Sappiamo che Aristide, l’incorruttibile capo della fazione aristocratica, si oppose al provvedimento, contando forse di acquisire una popolarità che invece, paradossalmente, non ebbe (tant’è vero che poi rimase vittima dell’ostracismo). Il fatto era che quel modo di combattere, tutti chini sui remi, dietro le murate di legno, voltando le spalle al senso di navigazione della nave, poco si addiceva all’etica oplitica tradizionale, quella che in fondo aveva


portato al successo di Maratona: corpo a corpo, petto contro petto, viso a viso, con lo scudo su un braccio e la lancia o la spada nell’altro. Eppure, gli Ateniesi, chissà come, si lasciarono convincere dalla impopolare proposta di Temistocle.

La vittoria degli umili A posteriori, ma solo a posteriori, noi sappiamo che l’idea della flotta fu lungimirante, non solo sul piano strategico (poiché la battaglia decisiva si sarebbe in effetti combattuta sul mare, quello di Salamina), ma soprattutto su quello politico. Per la prima volta, infatti, protagonisti della vittoria (e quale vittoria!) sarebbero stati non gli opliti – gli esponenti del nuovo ceto medio in armi, quello dei quasi-aristocratici che avevano sostenuto la riforma di Clistene –, ma il popolino ateniese, i tanto disprezzati teti, quelli che non possedevano né terre né mestiere, ma che erano abituati a mettere la loro forza a servizio come salariati. La città li pose ai remi (essi vennero retribuiti anche per questo servigio patriottico), e da quel giorno non avrebbe piú potuto fare a meno di loro: neanche politicamente. Nello scontro svoltosi nelle acque anguste tra l’isoletta di Salamina e la costa attica, osservato da un esterrefatto Serse, da un trono appositamente erettogli alla sommità di un promontorio, era già implicito tutto il successivo, quasi inevitabile dipanarsi degli eventi del V secolo; quello che lo storico Christian Meyer ha definito «uno dei piú audaci, inverosimili e fatali dell’intera storia mondiale». Quella vittoria stupefacente, in gran parte dovuta alla dedizione del dèmos, avrebbe comportato per gli Ateniesi il ruolo di principali difensori, e poi anche di leader dei Greci nella guerra contro il Persiano: da portare avanti finché una sola nave fenicia non avrebbe piú solcato le acque dell’Egeo, cioè fino a che il nemico non avrebbe smesso di minacciare la libertà delle pòleis d’Asia. Oppure – chissà?

– fino a quando quella entità imperialistica dalle dimensioni mostruose non sarebbe stata abbattuta per sempre, come in effetti accadde un secolo e mezzo dopo, a opera del grande Alessandro. Inoltre, il successo militare implicò il passaggio dalla democrazia ancora parziale di Clistene a quella compiuta di un Pericle, fino ad arrivare a quella radicale dei suoi successori: e questo perché, man mano che cresceva la potenza navale della città, altrettanto si doveva tenere conto, anche politicamente, di quei rematori, piloti, artigiani che facevano funzionare una macchina da guerra inusitata e pressoché invincibile: fatta a sua volta di legno, di corde e di vele prodotte da una pletora di artigiani, e resa efficiente da lunghe giornate trascorse dagli equipaggi a esercitarsi nelle manovre, quale la micidiale pratica dello speronamento dei vascelli nemici.

La città rinasce Perfino le sconfitte (pur parziali) subite dai Greci nel corso delle due guerre persiane avrebbero avuto conseguenze altrettanto memorabili. Sempre lo stesso dèmone che sembrava essersi impadronito degli Ateniesi non li avrebbe lasciati neppure quando sarebbe giunto il terribile momento, previsto da Temistocle, di abbandonare in balía del nemico ormai soverchiante l’amata città: con le sue case, l’agorà, le mura.

salamina e hastings Con un paradosso, il filosofo ed economista inglese dell’Ottocento, John Stuart Mill, affermò che, per la storia inglese, la battaglia di Salamina, combattuta nel 480 a.C. tra Greci e Persiani a 2500 km da Londra, fu piú importante di quella di Hastings (combattuta tra Anglosassoni e Normanni per il possesso dell’Inghilterra nel 1066 d.C. a un’ottantina di km dalla capitale). In effetti, per un comune errore di prospettiva – ottica, ma anche cronologica – noi tendiamo a vedere piú grandi le cose piú vicine. Tuttavia alcuni lontanissimi eventi hanno avuto conseguenze su scala macroscopica, in assenza delle quali altri a noi piú prossimi non si sarebbero affatto verificati, oppure non avrebbero avuto alcuna rilevanza. Se il visitatore moderno, poi, invece di recarsi solo presso il tumulo dei 192 caduti ateniesi della battaglia di Maratona – sotto il quale non vennero trovati che resti di corpi cremati e offerte – riuscisse a ottenere il permesso di visitare quello detto «dei Plateesi», poco distante e in genere chiuso al pubblico, si troverebbe dinanzi uno spettacolo inatteso: sette scheletri insolitamente ben conservati attribuiti a opliti caduti nella battaglia. Ed ecco che a un tratto tutti i venticinque secoli che ci separano da allora sembrano ridursi a un soffio.

Frammento di un bassorilievo raffigurante una trireme ateniese. 410-400 a.C. Atene, Museo dell’Acropoli. La costruzione della flotta di Atene, coinvolse, per la prima volta, anche politicamente, artigiani, marinai e rematori, a svantaggio della tradizionale classe oplitica formata dai proprietari terrieri.

a r c h e o 95


storia storia dei greci/11 Perfino la sacra Acropoli si dovette lasciare, con i templi e le statue votive (ma l’Atena Poliade no, il prezioso simulacro della Patrona venne tratto in salvo dai profughi). Senza battere ciglio, senza cedere alla folle, umanissima tentazione di far muro contro il nemico (un muro che comunque sarebbe stato spazzato via dall’esercito avanzante, come erano stati spazzati poco prima Leonida e i suoi 300 Spartani – piú i 700 sempre dimenticati Tespiesi - alle Termopili), i cittadini ateniesi in massa caricarono ogni loro avere sulle navi da trasporto, sulle trireme e sui pescherecci, trasbordando sé e ogni cosa sulle terre di fronte all’Attica. Temporaneamente in salvo, sí: ma solo per meglio lottare. Temistocle era stato abilissimo a persuadere i Greci rimasti ancora in armi a riunirsi con la flotta sotto le coste dell’Attica, in quella baia minuscola tra Salamina e il continente, dove il numero preponderante delle navi nemiche non sarebbe stato decisivo –

troppo ristretto lo spazio per ma- no indelebilmente sfregiate e ronovrarle tutte –, talché si poteva vinate, poiché contaminate dalle sperare ancora di vincere. mani sacrileghe dei barbari; ma a noi, che le abbiamo disseppellite nella seconda metà dell’OttocenLe statue sepolte Però, intanto, i cittadini dalle na- to, davvero non poteva andar vi e dalle terre di fronte all’Atti- meglio: benché mutile esse conca dovettero assistere inerti alla servano ancora - evento rarissidistruzione della città, facendo mo - persino i colori - nelle vesti, violenza su se stessi per non im- sui capelli, negli occhi - di quegli pazzire e non osare un inconsul- dèi ateniesi e dei loro koúroi e to soccorso. Serse, mettendola a delle loro kòrai, di quei giovani e ferro e fuoco, voleva cancellare di quelle giovani Ateniesi che ne Atene e dare il colpo di grazia al erano stati i modelli. Grazie ai morale degli avversar i. Per Persiani, i loro sguardi incrociano un’ironia del destino, invece, ancor i nostri occhi. consegnò i nemici a una immor- La stessa distruzione dei templi talità postuma, lasciando alla no- dell’Acropoli, lasciati volontariastra ammirazione le piú straordi- mente in rovina dagli Ateniesi finarie immagini idealizzate pro- no agli anni Cinquanta di quel prio di loro, degli Ateniesi: una secolo, come monito finché i netestimonianza che altrimenti mai mici non fossero stati estromessi avremmo potuto ricevere. Infatti del tutto dall’Egeo, aprí la strada le statue di marmo abbattute a alla ricostruzione monumentale decine dai Persiani sull’Acropoli voluta da Pericle, al Partenone di furono poi piamente seppellite Iktino e di Fidia, ai Propilei di dai cittadini, una volta ricacciati Mnesicle, alla raffinata complessii nemici, nel suolo della stessa tà dell’Eretteo e alla semplice grazia del tempietto della Nike. SenSacra Rocca. Agli Ateniesi, certo, esse pareva- za le distruzioni operate da Serse,

il significato dei numeri Erodoto afferma che l’attraversamento dell’Ellesponto da parte dei Persiani sui ponti di barche fatti costruire tra Asia e Europa durò sette giorni e sette notti. È un numero convenzionale, quasi magico (si pensi alle «sette volte sette» della Bibbia), ma lascia intuire la grandiosità dell’esercito mobilitato da Serse per vendicare la sconfitta subita dal padre a Maratona nel 490 a.C. Lo storico fornisce poi il numero totale dei soldati che avrebbero costituito la possente armata, 2 641 610: non uno di piú, non uno di meno. Inoltre, essi andrebbero raddoppiati con i servitori e gli addetti ai rifornimenti: per un totale quindi di ben 5 283 220 uomini. Senza considerare, è ovvio, le donne addette alle cucine, le concubine, nonché il nutrito stuolo degli eunuchi… Non c’è sicuramente potenza al mondo, neanche oggi, che possa radunare e far marciare in territorio nemico una tale massa di uomini, assicurandone allo stesso tempo i rifornimenti (anche se a essi provvedeva la grandiosa flotta di oltre mille navi che li accompagnava). Perciò molti degli storici moderni ritengono che l’effettiva consistenza dell’armata si aggirasse al massimo sui 3/400 000 uomini: una cifra che, per l’epoca, fa comunque impressione, e che Erodoto ebbe interesse a ingigantire per esaltare, di conseguenza, il valore di chi la sconfisse.


oggi Atene non avrebbe la sua splendida Acropoli. Ma tutte queste cose gli Ateniesi, ridotti a una disperata difesa dentro le navi, ancora non potevano saperle: era del tutto incerto come sarebbe andata a finire. Anche perché gli alleati li davano già per spacciati. «Come potete stare ancora a parlare, e a darci indicazioni per la battaglia, voi Ateniesi che non possedete neanche piú una città?», gridò loro con insolenza un ammiraglio dei Corinzi. Un secolo e mezzo prima di Aristotele, il quale affermò che la polis non è né le sue mura né le sue case, ma «una comunità di cittadini», Temistocle seppe come rispondere a tono a quell’alleato insolente. Presto avrebbe perduto anche lui la sua di città, gli disse, se non ci fossero ancora in mare

quelle duecento triremi ateniesi radunate lí, ultima comune speranza. Era proprio lí, che oscillava sulle onde, la vera Atene. Eschilo racconta che la mattina della battaglia le navi persiane si attendevano, muovendo all’attacco, di trovare i Greci ormai divisi e allo sbando: se li videro invece davanti ordinatamente schierati con la flotta al completo, voganti al ritmo del peana, il canto di preghiera ad Apollo, auspicio di vittoria: un canto di cui rimbombavano (ce le fa udire ancora Eschilo, anche lui in armi tra le navi) le rocce della baia. Quella stessa sera re Serse fu visto disperarsi e piangere, assistendo alla disfatta dei suoi dall’alto del trono sulla collina.

precedente flotta era naufragata, aveva perfino fatto scavare un canale alla base del monte, opera superba d’ingegneria! Tutto, re Serse aveva calcolato proprio tutto, per evitare ogni rischio. Ma non aveva tenuto conto di quel nuovo dèmone che sembrava agire in modo imprevedibile dietro gli Ateniesi, strano popolo che non aveva neanche un re… Seguí la pausa invernale, in cui il genero di Serse, Mardonio, lasciato con l’esercito di terra ancora intatto in Beozia, aveva tentato perfino di comprarli, gli Ateniesi; con discreti messaggi: prometteva non solo salvezza, ma ricchezze, la città ricostruita e addirittura il dominio sull’Ellade, purché si riconoscessero vassalli della Persia. Ma fu tutto inutile. A Platea, in una piana della GreL’euforia degli inizi Fu cosí che il Re dei Re decise cia centrale che ancor oggi si di lasciare il grosso delle sue for- estende verde e miracolosamente ze in Grecia, e di rientrare il piú intatta, nel 479 a.C. Spartani e velocemente possibile verso Ateniesi con gli altri 29 alleati l’Asia, prima che la flotta greca, sconfissero definitivamente Perfattasi audace, pensasse di tagliar- siani, Tessali e Beoti. gli la strada. Doveva infatti attra- Si spalancò cosí, di fronte ai Greversare almeno una volta il ma- ci, il nuovo secolo. Un secolo che re sull’Ellesponto, dove ancora sarebbe stato per loro grandioso reggevano i due ponti di bar- e terribile, entusiasmante e tragiche fatti costruire all’andata co. Ma quando celebrarono con per trasbordare senza pericoli danze, canti e inni la loro duplice in Europa il suo immenso eser- vittoria, essi tutto questo non cito. E dire che, per evitare alle potevano saperlo: e cosi gioirono navi il micidiale periplo del di quella trepida, dolce e spensieMonte Athos dove già una sua rata euforia, che suole avvolgere tutti gli inizi. (11 – continua) L’armatura di un guerriero greco raffigurata su una hydria a figure rosse. 490-480 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

le puntate di questa serie Questi gli argomenti dei prossimi capitoli di questa storia dei Greci: • La democrazia navale di Atene • L’età di Pericle • La guerra tra Sparta e Atene • Una magnifica meteora: Alessandro il Macedone • Mirabili frantumi: gli eredi dell’impero alessandrino • Ellenismi senza fine. Alle origini di quello che siamo a r c h e o 97


Il mestiere dell’archeologo

di Daniele Manacorda

Non solo Grazie /1

Tre sorelle al chiaro di luna Oltre a testimoniare un estro creativo di altissimo livello, una delle piú celebri e celebrate opere dell’arte antica, con ogni probabilità, è anche espressione di un raffinatissimo incrocio di riferimenti e allusioni al mondo dei miti ra i gruppi statuari piú celebri dell’antichità un posto di primo T piano spetta senza dubbio alle Tre

Grazie, raffigurate nella forma canonica di tre donne nude, che ballano l’una allacciata all’altra, le due laterali di fronte, la centrale di tergo. Nel gruppo di queste tre sorelle, figlie di Giove e di Eurinome, si tende a scorgere la remota personificazione della forza generativa della natura e insieme la bellezza che si produce nelle azioni e nelle opere dell’uomo, associata all’amabilità, alla generosità, alla mitezza dell’animo. In questa prospettiva la nudità dei loro corpi assume un significato particolare: esalta infatti la bellezza femminile, ma anche l’innocenza virginale di quelle figure, che stempera l’attrattiva sensuale del nudo, conferendogli una punta di leziosa algidità. Secondo il grammatico Servio la nudità delle Grazie è giustificata dal fatto che le tre sorelle devono essere senza macchia.

Chi dona e chi riceve Il loro schema iconografico, una di spalle e due di fronte, incarna invece la loro stessa natura, secondo la quale il beneficio che ciascun individuo è in grado di offrire gli sarà restituito in misura doppia, in virtú del legame che unisce il favore alla riconoscenza. Quando nel nostro parlare quotidiano diciamo, quasi distrattamente, «Grazie», stiamo in realtà mostrando al nostro benefattore né piú né meno che il leggiadro terzetto che presiede allo

98 a r c h e o

scambio reciproco, cioè alla virtú del fare e del restituire il beneficio. Il filosofo Seneca si era già domandato perché le Grazie fossero tre. «Perché una di esse dà il beneficio, – si risponde – l’altra lo riceve, la terza lo ricambia». In realtà l’iconografia e la teologia delle Grazie non lo interessavano molto, anzi lo facevano sorridere. L’importante per lui era la norma morale, di derivazione stoica, espressa dalle tre sorelle, quella che regola il concetto e la pratica della gratitudine nella sfera dei rapporti sia privati che pubblici. Le Tre Grazie furono uno dei soggetti piú popolari del repertorio artistico d’età romana e conobbero una diffusione capillare. Quei gruppi statuari ornavano gli spazi pubblici di templi, terme e teatri; ma la grande maggioranza delle raffigurazioni si collocano in ambiente privato, sulle pareti domestiche, o nelle tombe, in particolare sui sarcofagi, dove compaiono a simboleggiare la felicità coniugale. Dopo un oblío millenario, le Tre Grazie entrarono nel repertorio artistico rinascimentale in seguito alla scoperta del celebre esemplare in marmo di proprietà della famiglia Colonna, ora esposto nella splendida Libreria Piccolomini del Duomo di Siena. Dalla metà del Quattrocento le Grazie non sono piú state dimenticate e sono state raffigurate, con stili e materiali diversi, anche in età moderna (celeberrimo il gruppo scolpito da

Canova) e contemporanea, per quella loro caratteristica di coniugare gli aspetti religiosi e mitologici del soggetto con quelli etici e filosofici e anche con quelli laici e prosaici del mondo femminile e della gioia di vivere, che da quel terzetto malizioso prorompe quasi con naturalezza. Ma questi aspetti non esauriscono la complessità del significato delle Grazie, sulle quali credo ci sia ancora tanto da dire. Il beneficio del grano Quando, una quindicina di anni fa, scavammo a Roma nell’area del presunto tempio delle Ninfe in via delle Botteghe Oscure, mi domandai quali Ninfe fossero oggetto di culto proprio lí, in un’area politicamente strategica del Campo Marzio, destinata, dall’età dei Gracchi in poi, alle distribuzioni di frumento al popolo romano. Nelle piú antiche raffigurazioni, infatti, le Grazie (le Charites dei Greci) non sono ben distinguibili dalle Ninfe. Ma questa ambiguità perdura anche in età romana, quando l’immagine delle tre Grazie nude e allacciate si accompagna a dediche esplicitamente relative alle Ninfe. In sintesi, pensavo che esistesse un nesso tra il beneficio delle frumentazioni, anzi dalla metà del I secolo a.C. tra la sua gratuità, e le Grazie, riconoscibile ancora oggi nell’avverbio gratis (da gratiis), che possiamo letteralmente tradurre «per le Grazie». L’istituzione delle distribuzioni pubbliche di frumento


Le Tre Grazie, gruppo scultoreo in marmo rinvenuto presso Vigna Cornovaglia, sul colle Celio, a Roma. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

si fondava dunque su di un concetto di favore e gratitudine, che presupponeva il contraccambio e un sistema di reciprocità, nelle relazioni tanto private quanto pubbliche. Ma, a partire dall’età di Cesare, si fondava anche sulla sorte, codificata dalle norme che regolavano l’estrazione dei nomi

degli aventi diritto al grano. Già in età molto antica Esiodo chiama le Cariti (le Grazie dei Romani) con i nomi di Aglaia, Euphrosyne e Thalia. Ma in origine, ad Atene le Cariti erano soltanto due: Auxò, «colei che cresce», e Hegemone, «colei che guida». Questi nomi parlanti ci svelano gli aspetti lunari del gruppo,

trascurati nella sua abituale interpretazione, che si fanno ancor piú palesi nei nomi che le due Cariti ebbero a Sparta: Kleta e Faenna. Il primo rivela l’immagine della dea «invocata», cioè della luna nuova, il secondo quella della luna piena «splendente» in cielo, cioè appunto Aglaia, la Grazia centrale

a r c h e o 99


della triade classica. Il nome di Thalia è connesso alla forza della natura fiorita; quello di Euphrosyne, la gioia e insieme la benevolenza, può invece essere letto in rapporto con il concetto di sophrosyne, suprema virtú capace di conciliare le diverse tendenze dell’anima e ricondurre l’armonia nelle relazioni personali e pubbliche. Come le fasi lunari Insomma, Aglaia, Euphrosyne e Thalia esprimono, già in età arcaica, una triade concettuale che ritroviamo poi nei versi di Pindaro, il grande poeta degli aristocratici, che accosta le tre Cariti a tre virtú umane: la bellezza (Thalia), la saggezza (Euphrosyne) e lo splendore (Aglaia). Sin dall’arcaismo il vortice della danza è restituito raffigurando di profilo le Grazie Rilievo delle Charites, da Roma, nell’area oggi occupata dall’ospedale di S. Giovanni in Laterano. Copia romana da un originale greco del 470-460 a.C. (forse dal gruppo delle Charites dello scultore tebano Socrate, sull’Acropoli di Atene). I sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Chiaramonti.

100 a r c h e o

laterali e frontalmente quella centrale, quasi a dare il senso del movimento circolare del gruppo e dell’incrocio dei loro sguardi. Le Charites danzano anche attorno all’immagine di Ecate, dea degli Inferi, e anche questo evidenzia quanto siano connesse con le fasi della Luna: con le fasi crescente e calante le due laterali e con la fase della luna piena, e al tempo stesso della luna nuova, la Grazia centrale, Aglaia, la «splendente». La doppia identità di Aglaia implica, infatti, una luna piena, che splende, e una luna nuova, piena, eppure non visibile e buia: una luna dunque che c’è e non c’è, che ora splende e ora non si vede. I testi degli scrittori antichi non aiutano ad argomentare questa identificazione. È piuttosto nel folklore, che possiamo cercarne la dimostrazione, per esempio in un testo propiziatorio del IV secolo, in cui Selene (cioè la Luna) è invocata come aglaé e thalía; e in particolare in una Preghiera, in cui Selene triprosopos (dai tre volti) viene esplicitamente identificata con le Grazie. Il corso della luna descrive il cammino dell’uomo: il buio uterino, la venuta alla luce, la

crescita, la maturità, la consunzione, la morte e il ritorno al buio ctonio. L’unità e insieme l’articolazione del terzetto rappresentano insomma il concetto di una condizione lunare e umana scandita nel ciclo della danza da una nascita e da un tramonto e da una pienezza dell’esistenza a cui fa riscontro il vuoto dell’assenza. Nell’atteggiamento abituale le braccia della Grazia centrale nascondono il seno sinistro di una delle due sorelle e il seno destro dell’altra. Non è solo un artificio estetico. Questa unità dinamica della raffigurazione mira piuttosto a descrivere nell’intreccio dei tre corpi, distinti e insieme fusi, il corso della Luna, sempre diversa eppur sempre la stessa. Salvo rare eccezioni, la Grazia centrale è rivolta di spalle, ma volge la testa all’indietro verso destra, mentre le Grazie laterali la volgono all’esterno. Che questo atteggiamento nasca dall’intenzione da parte dell’artista di evitare la monotonia e permettere d’ammirare il corpo femminile sotto i suoi diversi aspetti è spiegazione forse necessaria, ma non sufficiente. Ci sono infatti motivazioni piú profonde per una iconografia che non si spiega solo con l’esaltazione della leggiadria accompagnata da un virtuosismo compositivo. Occorre piuttosto domandarsi quante cose rappresentino effettivamente le tre Grazie. Sin dall’età piú remota le Grazie hanno rapporti con Apollo, e quindi con il Sole, e specialmente con Afrodite, nei suoi molteplici aspetti, sia sereni che funebri. La progressiva assimilazione diVenere a Iside ci fa incontrare le Grazie anche negli Isei, dove la grande dea orientale compare anche nella sua veste di Luna e di Fortuna. Per comprendere se, dunque, esista un rapporto complesso che lega le Grazie alla Luna e alla Fortuna sarà utile condurre una analisi iconografica degli attributi che caratterizzano le tre sorelle. Ci torneremo. (1 – continua)



L’età dei metalli

di Claudio Giardino

Dalle viscere della terra Sebbene possa sembrare un’attività tipica dell’età moderna, l’estrazione dei minerali ha una storia antichissima. Che prende le mosse dai cunicoli scavati in epoca neolitica dai cercatori di selce o studio delle miniere antiche e delle tecniche di estrazione L del passato è un aspetto

neolitiche per estrarre la selce. Una delle tecniche piú antiche per lo scavo di una miniera, detta, importante dell’archeometallurgia. con termine inglese, «firesetting», si basava sull’uso del fuoco. A partire dall’età del Rame, e quindi da quando i metalli assunsero un’importanza crescente Scavare col fuoco nelle attività dell’uomo, il possesso Si accatastavano accanto alle pareti di giacimenti metalliferi e la mineralizzate cumuli di legname; capacità di sfruttarli costituirono poi li si accendeva e li si lasciava un elemento assai importante ardere per molte ore, fino a nello sviluppo di una regione e rendere incandescente la pietra. delle popolazioni che vi Spesso li si spegneva con violenti risiedevano. L’importanza politica getti d’acqua, cosí da provocare e la floridezza economica di cui anche uno shock termico. Il forte godettero nell’antichità, per calore generato dal rogo esempio, la Sardegna o l’Etruria indeboliva e fessurava la roccia, erano strettamente connesse con i che veniva poi agevolmente ricchi giacimenti metalliferi scavata e rimossa con l’ausilio di presenti in quelle aree. mazze di pietra e di picconi di La società dell’età del Rame è corna di cervo. Per gli archeologi, dominata dalle figure di capiil rinvenimento di questi guerrieri, veri e propri signori strumenti in aree minerarie è una della guerra, che traevano il loro delle migliori testimonianze potere dalle armi e dal loro dell’attività mineraria preistorica, possesso; con esse venivano sepolti poiché spesso cunicoli e gallerie e, talora, effigiati, come nelle sono andati distrutti nei secoli a raffigurazioni - alcune delle quali causa dei successivi lavori giunte sino a noi - delle statueestrattivi. A essi si dovevano stele della Lunigiana o delle aggiungere anche utensili in statue-menhir di Laconi, in materiali organici, per esempio Sardegna, nelle quali spicca ben legno o ossa animali, come pale, evidente il caratteristico pugnale tavole, cunei e scalpellini. Sebbene dalla lama triangolare. Il loro raramente, talora essi sono giunti compito, nelle aree minerarie, sino a noi grazie al particolare doveva essere quello di ambiente del sottosuolo, conquistare o difendere i fortemente mineralizzato, che ha giacimenti che erano alla base del permesso un processo di prestigio e potere delle loro terre. fossilizzazione. La diffusione del La tecnica utilizzata nelle bronzo, nel II millennio a.C., coltivazioni minerarie portò all’impiego di questo pre-protostoriche deriva da metallo per la fabbricazione degli quella utilizzata dalle comunità attrezzi di lavoro: per esempio asce

102 a r c h e o

La miniera preistorica di Great Orme, presso Llandudno, nel nord del Galles. Il sito è stato musealizzato e alcuni dei lunghi cunicoli sono oggi aperti al pubblico.

in leghe di rame e stagno sono state trovate nei cunicoli di alcune miniere protostoriche spagnole. Il bronzo, tuttavia, non sostituí mai del tutto la pietra, assai piú facile a procurarsi ed enormemente meno costosa. Solo con l’avvento del ferro gli strumenti minerari metallici trovarono impiego sempre piú generalizzato in Europa. Quel che ancora oggi sorprende è la grande estensione che potevano raggiungere nel sottosuolo le coltivazioni protostoriche. Uno dei piú vasti impianti minerari preistorici, quello di Great Orme presso Llandudno,


lungo la costa del Galles settentrionale, è stato da una ventina di anni sapientemente valorizzato e musealizzato, trasformandosi cosí in una significativa fonte di entrate e riqualificando turisticamente una zona che era stata pesantemente colpita dalla crisi mineraria attraversata dalla Gran Bretagna nell’ultimo quarto del Novecento. I ricchi filoni di rame che erano stati coltivati 4000 anni fa dalle popolazioni dell’età del Bronzo, sono stati oggetto di accurati scavi archeominerari, rendendo possibile la musealizzazione di quella che è

oggi la piú estesa miniera preistorica del mondo. Un’attrazione per turisti La visita alla miniera – o meglio ad alcuni dei suoi infiniti cunicoli, appositamente messi in sicurezza – costituisce una delle piú importanti ed emozionanti attrazioni della riserva naturale sorta sul promontorio di Great Orme. I turisti, dopo aver assistito nel Centro Visite – che ospita anche un piccolo museo in cui sono esposti alcuni reperti - a un paio di filmati scientifici preparatori, entrano muniti di elmetto nelle antiche gallerie;

membri del team di scavo sono a disposizione del pubblico per rispondere a curiosità e domande. I minatori preistorici gallesi, cosí come quelli di altre regioni d’Europa, Italia inclusa, utilizzarono come strumenti principalmente mazze di pietra realizzate in diorite, una roccia assai dura e resistente: ne sono state rinvenute oltre 2500, di peso variabile fra i 2 e i 29 kg. La miniera di Great Orme era costituita da coltivazioni a cielo aperto e in galleria: queste ultime raggiungevano una profondità di 70 m sotto il livello del suolo attraverso ben nove livelli, per uno

a r c h e o 103


sviluppo di circa cinque chilometri. È stato calcolato che durante l’età del Bronzo con il minerale estratto da questo sito siano state prodotte oltre 1769 tonnellate di rame. Nel dedalo di cunicoli di Great Orme – come in tutte le coltivazioni europee di questo periodo – gli spazi in cui operavano gli antichi minatori erano spesso assai angusti. Gli ambienti erano alti talvolta 70 cm e larghi appena 30 cm, tanto che è stata da alcuni ipotizzata la presenza di mano d’opera minorile. Piccoli minatori Del resto l’impiego di bambini o ragazzi in questo tipo di attività non deve stupire: lo storico Diodoro Siculo, vissuto nel I secolo a.C., descrivendo le miniere d’oro dell’Egitto tardo-faraonico, attesta come ai suoi tempi questo lavoro fosse estremamente duro: «...giovani che non avevano ancora raggiunto la maturità, entrando attraverso i pozzi entro le gallerie formate dalla rimozione della roccia, accumulano laboriosamente la roccia (…) pezzo a pezzo e la trasportano in uno spazio fuori dell’entrata della miniera. Quelli che hanno piú di trent’anni prendono da loro le rocce e ne frantumano una certa parte con pestelli di ferro entro mortai di pietra fino a ridurle alle dimensioni di una veccia (una leguminosa Statua-stele maschile con pugnale a lama triangolare, da Pontevecchio, in Lunigiana. II mill. a.C. Pontremoli, Museo. Queste figure antopomorfe scolpite nella pietra, diffuse nelle regioni alpine a partire dagli ultimi secoli del IV mill. a.C., in corrispondenza con lo sviluppo dell’attività metallurgica, presentano incisi alcuni elementi caratteristici della prima età dei metalli, come le asce piatte, le alabarde, i pugnali triangolari e gli ornamenti.

104 a r c h e o

dal seme di dimensioni inferiori al centimetro)». Aggiunge inoltre che, per chi operi nella miniera, «nessuna indulgenza o pausa di qualunque tipo è data a chi sia malato, o mutilato, o invecchiato, o nel caso di una donna, per la sua debolezza, ma tutti senza eccezione sono obbligati con percosse a perseverare nelle loro fatiche, finché non muoiono per i maltrattamenti». Non dobbiamo tuttavia credere che la triste realtà riportata da Diodoro per i minatori egiziani – che erano, però, condannati e non uomini liberi – sia completamente sovrapponibile a quella dei loro colleghi europei. È verosimile, piuttosto, che le comunità dell’età del Bronzo del nostro continente,

proprietarie loro stesse dei depositi minerari, svolgessero un lavoro certamente difficile, pesante e pericoloso, ma non nelle condizioni schiavistiche descritte per l’Egitto. Cave preistoriche in Italia In Italia molte attestazioni di miniere preistoriche furono scoperte fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento intercettando, durante i lavori di coltivazione dei filoni, cunicoli preistorici. La sensibilità culturale positivista portò generalmente a rendere prontamente partecipe dei rinvenimenti la comunità scientifica internazionale e a raccogliere e conservare i materiali.Vennero in quel periodo trovate tracce di sfruttamento minerario pre-protostorico in varie regioni italiane, tra cui la Liguria, la Toscana e la Sardegna. Purtroppo, nonostante l’iniziale interesse, ormai da quasi un secolo tali preziose testimonianze non sono piú generalmente oggetto dell’attenzione che meriterebbero. Una significativa eccezione è costituita dalle pluriennali ricerche condotte dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Liguria, assieme all’Università di Nottingham, nell’entroterra di Sestri Levante, in Liguria, nella miniera di rame di Monte Loreto, che è risultata essere attiva già nel IV millennio a.C. I filoni cupriferi – che hanno restituito, tra l’altro, oltre 700 mazzuoli in pietra – furono scavati in antico sino a 30 m di profondità. Ed è stato calcolato che con il solo minerale cuprifero estratto nella zona potessero essere prodotti circa 515 kg di rame l’anno, una quantità sufficiente a fabbricare oltre un migliaio di manufatti metallici.



Medea e le altre

di Francesca Cenerini

Essere donna a Sparta Al di là delle visioni mitiche e degli stereotipi, qual era, davvero, la condizione femminile nel capoluogo della Laconia? Qualche indicazione possiamo ricavarla dalla vicenda della nobile Cinisca, vincitrice in due edizioni dei Giochi Olimpici

«M

io padre e i miei fratelli (sono) re di Sparta; Cinisca, avendo vinto con il carro dei veloci cavalli, eresse questa immagine; dico che io sola tra le donne di tutta la Grecia ottenni questa corona. Apelle, figlio di Callicle, relizzò» (traduzione di Franca Ferrandini Troisi in La donna nella società ellenistica, Bari 2000, p. 86). Questo testo è stato originariamente inciso sulla superficie superiore di una base rotonda, del diametro di circa 1 m, mentre il nome dell’artista compare sulla parte verticale della base. Si tratta di un monumento eretto in onore di Cinisca, figlia del re di Sparta Archidamo e sorella di Agide II e di Agesilao II. Quest’ultimo re, «l’eroe» di Senofonte, è, come scrive Ernst Baltrusch (Sparta, Bologna 2002, p. 98), «una figura tragica: uomo di grande talento militare, dotato anche di abilità politica, egli non fu in grado di arrestare il declino della sua città», pensava, cioè, «che il potenziale bellico di Sparta non poteva essere accresciuto da cambiamenti politici e sociali, ma dall’azione di buoni generali; ed essere un buon generale a Sparta significava raggiungere grandi successi con pochi spartiati e con l’impiego degli alleati». La nobile Cinisca fu la prima donna a vincere nelle gare di Olimpia in due occasioni, rispettivamente nel 396 e nel

106 a r c h e o

Un auriga raffigurato su un cratere a figure rosse, da Metaponto (Taranto). IV sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Cinisca, una nobile spartana figlia del re Archidamo, è ricordata per aver vinto, in qualità di proprietaria dei cavalli, le gare olimpiche di corsa dei carri, nel 396 e nel 392 a.C.

392 a.C. Lo racconta Pausania (Guida della Grecia, III: la Laconia, 8, 1): «Cinisca desiderava conseguire il successo nelle gare olimpiche e, prima tra tutte le donne, allevò nelle sue scuderie cavalli da corsa e per la prima volta vinse alle Olimpiadi con il carro». La vittoria del denaro Queste date coincidono con le osservazioni stilistiche sui due donari eretti a Olimpia in onore di Cinisca e descritti da Pausania (Guida della Grecia,V: l’Elide e Olimpia, 12, 5 e VI, 1, 6), entrambi realizzati dall’artista megarese Apelle: uno era posto nel pronao del tempio di Zeus e un altro si trovava presso la statua di Troilo, costituito da una base di marmo sorreggente una quadriga, la statua di un auriga e della stessa Cinisca. Del fatto che le vittorie di Cinisca fossero dovute al motivo che la nobile spartana era la proprietaria dei cavalli, e quindi era una donna ricca, e non a particolari meriti o qualità personali, è ben conscio il fratello Agesilao che, secondo le


parole di Senofonte (Agesilao, 9, 6) e di Plutarco (Vita di Agesilao, 20, 1), vedendo che alcuni cittadini spartani avevano un’alta opinione di se stessi perché allevavano cavalli, convinse la sorella Cinisca a far gareggiare alle Olimpiadi un carro trainato dai cavalli di sua proprietà, per dimostrare ai Greci che la vittoria non era il risultato di

alcuna virtú, bensí del denaro. Nelle gare olimpiche di corsa dei carri, infatti, la vittoria non era assegnata agli aurighi, bensí ai proprietari dei cavalli. La vittoria di Cinisca, in ogni caso, dovette suscitare una vasta eco presso i suoi concittadini, tanto è vero che, dopo la sua morte, le edificarono un heroon nei pressi del Platanistas, come è

attestato dallo stesso Pausania (Guida della Grecia, III: la Laconia, 15, 1). In questo luogo, cosí chiamato dalla fitta presenza di platani, combattevano gli efebi, sotto la protezione di Eracle e di Licurgo, e furono edificati nel tempo alcuni heroa dedicati a personaggi illustri, tra cui, appunto, quello di Cinisca.

a r c h e o 107


La Nike incorona un auriga vittorioso, particolare del cratere a figure rosse da Metaponto (vedi alle pp. 106-107). IV sec. a.C.

In seguito, molte altre donne greche parteciparono alle corse di cavalli, ma nessuna ebbe la sua stessa fama. Declinata al femminile questa pratica sportiva, vale piú come ostentazione di ricchezza e di appartenenza a un ceto privilegiato, che non come affermazione di doti fisiche e di abilità sportiva. L’attività sportiva femminile È, comunque, attestata anche la partecipazione femminile diretta a gare sportive, per esempio, di corsa: sono note, tra le altre, tre sorelle, Triphosa, Hedea e Dionisia, che vinsero piú volte ai giochi Pitici e a quelli Istmici negli anni Trenta e Quaranta del I secolo d.C. La condizione della donna spartana era ben diversa da quella ateniese, chiusa, quest’ultima, negli angusti spazi del gineceo. Non bisogna, però, fermarsi ai soliti stereotipi rappresentativi che insistono sulla poliandria delle donne spartane ed esaltano la potenza fisica del corpo femminile, a cui era richiesto, da parte della società, un costante allenamento, per potere diventare sano e robusto, in grado di procreare guerrieri di valore. Nella tradizione spartana, queste attività femminili sarebbero già state stabilite da Licurgo, il mitico

108 a r c h e o

legislatore delle origini, con il preciso obiettivo di raggiungere una sorta di procreazione «eugenetica». Le ragazze dovevano quindi addestrarsi nella lotta, nella corsa, nel lancio del disco e del giavellotto.Va notato che Licurgo asserisce che l’allenamento fisico avrebbe aiutato la donna anche a sopportare meglio i dolori del parto. Licurgo non esita a far allenare le ragazze nude, ma, si affretta a chiosare il moralista Plutarco (Vita di Licurgo, 14, 7), la nudità delle ragazze spartane non è indecente, perché sono modeste, semplici e mancano di sensualità, il tutto per potere essere parte integrante e attiva del benessere dello Stato con la procreazione di figli sani e robusti. Non è un caso che Aristofane, mettendo in scena la Lisistrata, presenti la spartana Lampitò, non senza ironia, molto abbronzata, per essere stata all’aria aperta e non chiusa in casa, e in perfetta forma fisica tanto da essere in grado di strozzare un toro. A Sparta erano previste gare per donne e ragazze in occasione delle feste religiose, ma, come abbiamo appena visto, non potevano gareggiare personalmente ai giochi Olimpici in quanto non erano previste gare femminili, almeno in età classica. Infatti, come è stato già evidenziato, l’attività agonistica

femminile si affermò solo nella piena età ellenistica. La donna spartana si caratterizza, nel racconto delle fonti, per la possibilità di ereditare, anche in presenza di fratelli maschi, e di diventare molto ricca, nell’ambito di un quadro storico-sociale in costante sofferenza demografica maschile (oligantropia). Libere ereditiere? Questo ruolo economico e, in alcuni casi, anche politico delle donne spartane serve, però, unicamente a mantenere la realtà politica e sociale tradizionale, cioè quello che viene comunemente definito «il bene della polis». Per quanto riguarda la ricchezza femminile spartana, Aristotele nella Politica (1270 a 20), osserva che a Sparta si era arrivati al punto che due quinti di tutta la terra erano in mano alle donne, in parte perché c’era un gran numero di ereditiere e in parte perché era abitudine dare doti ingenti, uso che, sottolinea Aristotele, sarebbe stato meglio abolire o, per lo meno, mitigare. In questo contesto, Aristotele comunica il punto di vista maschilista dell’Ateniese, quello stesso che, in un’altra occasione, afferma che la libertà concessa alle donne è dannosa sia da un punto di vista costituzionale sia per la realizzazione della felicità dei cittadini. Al di là dei giudizi etici sulla supposta e propagandisticamente utilizzata ginecocrazia spartana, siamo di fronte a un fenomeno sociale strutturale: gli spartiati sono costantemente impegnati nelle attività militari, le donne gestiscono di fatto i kleroi (terreno assegnato agli spartiati), possono ereditarli e trasferirne la proprietà, utilizzano a vario titolo i relativi prodotti alimentari e a loro si chiede di essere parte integrante di questo sistema di valori e di generare figli guerrieri a cui trasmetterlo.



L’altra faccia della medaglia

di Francesca Ceci

Una Venere a stelle e strisce Recentemente esposta a Washington, la Venere Capitolina è uno dei piú celebri capolavori dei Musei Capitolini di Roma. Dove suscitò la malinconia (e l’ironia!) di due grandi scrittori del passato … enere/Afrodite, la dea dell’amore progenitrice del V popolo romano quale madre di

Enea e quindi «imparentata» alla lontana con Giulio Cesare, è una delle divinità del pantheon antico che compaiono regolarmente sulle monete di Roma. Dapprima è proposta con la bella testa di profilo sui denari repubblicani e poi a figura intera su tutti i

110 a r c h e o

nominali di età imperiale, di solito ammantata di fronte e poi anche di spalle, mostrando le formose terga. Quale ava della stirpe dell’Urbe, amante di Marte e divinità preposta all’amore, e quindi alla fertilità, accanto alla bellezza sono suoi attributi, di regola, oggetti per la toletta, armi, un globo e a volte infanti. Naturalmente, a ispirare i maestri che incidevano i conii

erano le innumerevoli statue e raffigurazioni della dea che circolavano nel mondo antico. Casta Venere Una delle versioni piú celebri è la Venere Cnidia, creata originariamente in bronzo dallo scultore greco Prassitele (365 a.C. circa), quindi in marmo, e acquistata dagli abitanti della città


In alto: la Venere di tipo Capitolino o Pudica su una moneta di Iulia Domna, emessa ad Apollonia. 193-211 d.C. A sinistra: Washington. L’ingresso della National Gallery of Art, con il pannello della mostra sulla Venere Capitolina. La statua, rinvenuta presso la basilica di S. Vitale a Roma, è una copia di età romana della Venere Pudica, a sua volta derivata dal tipo Cnidio di Prassitele. In basso: Venere sul rovescio di un denario di Giulia, figlia di Tito. 80-81 d.C.

di Cnido, in Anatolia; esposta probabilmente in un tempio pubblico, conferí immediata fama alla città. La statua, contraddistinta per la prima volta da una completa nudità, conobbe grandissimo successo (ma questa è un’altra storia…) e fu replicata, nel corso dei secoli, in molteplici copie in marmo. Quasi 600 anni piú tardi, la Venere Cnidia doveva ancora costituire una gloria cittadina, dato che, su monete locali battute a nome di Caracalla e Plautilla tra il 211 e il 218, campeggia sul

rovescio la delicata, sensuale e insieme innocente immagine della dea, nuda nello splendore delle forme divine, colta nel momento in cui esce dal bagno e prende il panno per asciugarsi, poggiato mollemente su un’alta anfora. È evidente come il cesellatore del conio si sia ispirato alla statua di Prassitele, vanto e simbolo della città; la tipologia «pudica» fu prescelta anche per emissioni di Massimino a Tarso in Cilicia (235/38 d.C.) e di Salonina a Magnesia (235/68 d.C.).

La fama della statua, e la novità introdotta da questo tipo di rappresentazione di Venere, indussero gli artisti che la ricopiarono ad apporvi alcune varianti, come la mano davanti al seno che contraddistingue il tipo della Venere Capitolina, anch’essa riprodotta sulle monete romane. Una replica di qualità Quest’ultima è uno tra i piú celebrati capolavori dei Musei Capitolini e di recente è stata anche esposta, in una mostra

a r c h e o 111


monografica a lei dedicata dalla National Gallery of Art di Washington (8 giugno-18 settembre 2011). La statua, una raffinata copia romana dell’originale Venere Pudica derivata dalla Cnidia, fu trovata a Roma alla fine degli anni Sessanta del XVII secolo presso la basilica di S.Vitale e donata da papa Benedetto XIV ai Musei. Esposta all’ammirazione del pubblico, la Venere, con il suo sguardo assente e attenta a celare con delicato gesto lo splendore delle sue intimità, conobbe subito fama mondiale. Nel corso dell’Ottocento, quando fu appositamente realizzato il «Gabinetto» in forma di ninfeo

112 a r c h e o

A sinistra: la Venere Capitolina esposta nella grande rotonda dell’ala ovest della National Gallery of Art di Washington.

In alto: un’illustrazione tratta dalla novella The Capitoline Venus, scritta da Mark Twain nel 1867 e pubblicata nel 1882.

che ancor oggi la racchiude, la sua magnificenza ispirò due giganti della letteratura italiana e americana, rispettivamente Giacomo Leopardi e Mark Twain, che ne trattarono entrambi con un sottile velo di ironia, legato proprio alla sua fama.

quale, certamente, dovette visitare i Musei Capitolini. Il racconto è incentrato sulla vicenda di George, uno scultore americano squattrinato a Roma, autore incompreso di una modesta statua personificante l’America, il quale diviene immensamente ricco su suggerimento di un amico, scaltro quanto spregiudicato: quest’ultimo, infatti, mutila ad arte l’opera, la seppellisce in un terreno alle porte di Roma, lungo la via Appia, da lui donato allo scultore, e annuncia a sensazione la «scoperta» della piú illustre opera di arte antica per poi venderla a caro prezzo, spacciandola per antica, al governo papalino. Il quale, dopo aver riunito una commissione di massimi esperti, delibera trattarsi di una Venere dell’antichità classica della massima pregevolezza, acquistata prontamente per una cifra enorme e posta in Campidoglio con tutti gli onori! Ringrazio Claudio Parisi Presicce per avermi segnalato il racconto di Mark Twain.

Poeti ai Musei Capitolini Leopardi ne parla, infatti, in una lettera al fratello Carlo (Lettere, 5 aprile 1823), in cui la profonda malinconia esistenziale che contraddistingue la sua opera cosí come la sua vita si traduce in una laconica e impietosa considerazione su se stesso: «Veramente non so qual migliore occupazione si possa trovare al mondo, che quella di fare all’amore, (…) e certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte piú che girare, come io fo, attorno all’Apollo di Belvedere o alla Venere Capitolina». Molto piú divertente e ammiccante è la novella intitolata The Capitoline Venus, scritta da Mark Twain nel 1867, a seguito di un suo viaggio a Roma durante il



I Libri di Archeo DALL’ITALIA Francesco Aspesi

Archeonimi del labirinto e della ninfa L’Erma di Bretschneider, Roma, 150 pp., ill. in b/n 70,00 euro ISBN 978-88-8265-595-2

Che l’archeologia non sia una disciplina impermeabile e che altri settori delle scienze umane possano con essa fruttuosamente intersecarsi, è un dato da tempo acquisito negli studi di antichistica. In questo saggio, è la linguistica a guidare l’approccio multidisciplinare, su un tema di grande attrattiva: quello del passaggio di elementi culturali da Oriente a Occidente. Si tratta, nel caso specifico, valori simbolici connessi all’immagine greca del labirinto, oscura abitazione del mostruoso Minotauro cretese, e alla ben piú luminosa figura della Ninfa, posta in relazione con il miele delle api e con la profezia. Nella limpida ricostruzione di Aspesi, i termini greci labúrinthos e númphe sono entrambi ricondotti a una stessa radice ebraica *dbr, a cui si rifanno anche i nomi per ape e miele. Termini come questi, comuni al greco e all’ebraico, suggeriscono per l’autore l’esistenza di un sostrato linguistico preistorico, egeo-

114 a r c h e o

cananaico, attinente alla sfera sacrale e penetrato, sia in greco che nelle lingue semitiche della regione siro-palestinese, durante le fasi di sedentarizzazione nel bacino del Mediterraneo orientale delle popolazioni parlanti questi idiomi. Rivivono, nei giochi etimologici e negli incroci disciplinari adottati in questo libro, le caverne-santuario dell’archeologia minoicomicenea e il sancta sanctorum del tempio di Gerusalemme; le figurazioni greche della danza labirintica guidata da Teseo a Delo e i miti classici della grotta cretese traboccante di api-ninfe, nella quale era nato il sommo

Zeus; i simbolismi del percorso meandrico e le metafore che in greco e nelle lingue semitiche antiche legavano il miele alla parola divina e l’ape alla donna invasata dalla divinità. Due «archeonimi» li definisce Aspesi, ovvero

due denominazioni di altrettanti archetipi, i cui significati s’intrecciano e ancora permangono, attraverso una sorprendente catena di prestiti, nell’immagine della fanciulla attraente, capace di dolci parole, e in quella del cammino tortuoso, costretto in uno spazio intricato. Sergio Ribichini Bruno Gambarotta

Le ricette di Nefertiti Garzanti, Milano, 221 pp. 16,60 euro ISBN 978-88-11-68394-0

L’egittologo Paolo Maria Barbarasa è il protagonista di questo divertente romanzo: ha avuto una carriera poco luminosa all’interno del Museo Egizio di Torino, anzi è la classica «ultima ruota del carro»; è sposato da venti anni con una donna «ambiziosa e impegnata nel sociale», figlia unica di uno dei piú importanti notai della città; ha un rapporto complicato con l’universo femminile; sogna una scoperta o un accadimento che possa cambiargli la vita. Tale sogno sembra materializzarsi, quando Barbarasa, catalogando una collezione non particolarmente importante pervenuta al museo grazie all’interessamento di un ente bancario (la Fondazione dei Santi Pasquale e Scolastica), scopre un papiro nel

quale sono annotate dodici ricette attribuibili alla regina Nefertiti e per di piú afrodisiache. Da quel momento ha inizio una storia mozzafiato, caratterizzata da colpi di scena che si succedono a ritmi incalzanti, che il dottor Barbarasa non riesce a governare. Gli accadimenti anzi sembrano talora travolgerlo, ma il nostro egittologo mostra almeno di saper combattere. Trattandosi di una trama quasi da romanzo giallo, non posso ovviamente andare oltre e svelare l’esito finale. È possibile affermare invece (e lo faccio volentieri) che la lettura del libro è particolarmente piacevole e alcuni passaggi risultano esilaranti. Il mondo dell’egittologia – ma si può allargare a quello dell’intera archeologia – è descritto con un’ironia piacevole e sottile che diventa piú acuminata quando viene delineata la buona società torinese e anche in questo caso lo sguardo può tranquillamente ampliarsi. Giuseppe M. Della Fina



Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.