Archeo n. 322, Dicembre 2011

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colline di abramo

l’oro della georgia

porsenna

l’archeologico di ferrara

speciale le prime unità d’italia

Mens. Anno XXVII numero 12 (322) Dicembre 2011 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

archeo 322 dicembre 2011

cosÍ nacque

l’

italia

I popoli italici prima dell’unificazione augustea

georgia

tesori dalla terra dell’oro

ferrara

il nuovo museo archeologico

ROMA

PORSENNA. l’assedio finale

RITORNO IN IRAQ

SULLE COLLINE DI ABRAMO

€ 5,90



Editoriale Italia antica «C’era una zona d’ombra, nella storia d’Italia. Un’ombra tanto piú pregiudizievole in quanto condizionava la conoscenza delle prime vicende, quelle che videro la penisola emergere dall’età preistorica e costituirsi, attraverso un travagliato processo che va all’incirca dall’VIII al II secolo a.C., in organica unità nazionale. Di quel processo conoscevamo, è vero, i protagonisti, cioè i Romani; ma dei loro antagonisti, di coloro che si opposero senza fortuna alla conquista di Roma, sapevamo ben poco…». Scriveva cosí Sabatino Moscati, in una monografia dal titolo «Cosí nacque l’Italia» che accompagnava il primo numero di «Archeo», apparso nel marzo del 1985. In essa il grande studioso faceva il punto sulle numerose scoperte archeologiche che, proprio in quegli anni, si andavano intensificando intorno alle manifestazioni materiali delle antiche genti italiche. Abbiamo ripreso quel titolo sulla copertina di questo numero per introdurre lo speciale di Daniele Maras, dedicato allo stesso argomento e partendo da una prospettiva non dissimile: le vicende che portarono alla nascita dell’Italia augustea, vista non tanto dalla parte dei protagonisti/vincitori (come avrebbe detto Moscati), quanto da quella dei «vinti», di quella moltitudine etnica rappresentata dalle popolazioni «preromane», Etruschi inclusi. L’articolo di Maras, però, appare a conclusione di un anno particolare – di celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia – e di questa «coincidenza» risentono alcune questioni sollevate dall’autore: quali furono – se mai ci furono – nella nostra Penisola, i precedenti di quel processo politico che risultò nell’Italia delle regioni voluta da Augusto? Quali sono le ragioni della particolare considerazione che la memoria degli autori classici riservava, a questo proposito, agli Etruschi? Come affrontare il difficile problema dell’«identità» delle popolazioni preistoriche e protostoriche dell’Italia antica, e fino a che punto la sola comunanza di cultura materiale può suggerire anche un’unità etnica o, addirittura, politica? La storia di quello «straordinario mosaico di genti e di culture» (Moscati) che chiamiamo Italia antica appare, cosí, in una nuova, vivissima luce. E, poiché si tratta della storia di noi tutti, siamo lieti di condividerla con i nostri lettori. Con i migliori Auguri per il Natale e per l’Anno Nuovo. Andreas M. Steiner



Sommario

Editoriale

Italia antica

3

di Andreas M. Steiner

notiziario

36

di Franco D’Agostino

Attualità la posta di archeo

scavi Sulle colline di Abramo

6 8

mostre Georgia. Terra dell’oro

46

di Tiziana D’Acchille

scoperte Datazioni al 14C effettuate a Oxford provano che in Europa l’Uomo anatomicamente moderno comparve ben prima di quanto finora ipotizzato 8

storia

mostre E la storia della specie umana è la protagonista di una grande esposizione allestita a Roma 14

46

Le origini di Roma/12

Porsenna e l’assedio di Roma

58

di Daniele F. Maras

66

musei Il Museo dell’Agro Veientano «ritrova» i suoi spazi nel Palazzo Chigi di Formello e racconta la storia di Veio 26

Antichi ieri e oggi

Al seguito del marito/1

Da matrone a First Lady

dalla stampa internazionale

L’avventurosa scoperta delle tombe reali macedoni e un nuovo sguardo sui Nabatei 30

da atene (S)coperto l’altare dei Dodici dèi

32

di Valentina Di Napoli

36

102

di Romolo A. Staccioli

musei La seconda fondazione 90 di Spina di Stefano Mammini; con un’intervista a Caterina Cornelio

speciale Le prime Unità d’Italia

medea e le altre Dammi mille baci, e poi ancora cento...

106

di Francesca Cenerini

l’altra faccia della medaglia Il futuro voluto dal Fato

110

di Francesca Ceci

66

libri

112

di Daniele F. Maras

Avviso ai lettori

Rubriche il mestiere dell’archeologo Non solo Grazie/2

L’attimo fuggente di Daniele Manacorda

98

In questo numero, per motivi di spazio, non compaiono le consuete rubriche «La storia dei Greci» e «L’età dei metalli», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il prossimo mese


La posta di Archeo La fibula della discordia Trovo paradossale che su «Archeo» n. 318 (agosto 2011), Daniele Maras abbia scritto un articolo sulla Fibula Prenestina, la cui unica novità consiste praticamente nel fatto che Edilberto Formigli ha scoperto microcristallizzazioni sulle incisioni dell’epigrafe (che il supporto fosse autentico si sapeva già dalla fine degli anni Ottanta). Questo dato archeometrico è del 2009 (però era giusto divulgarlo con maggior ampiezza anche su «Archeo»). Il paradosso sta nel fatto che, invece, proprio su Oebalus del 2009 (in circolazione dal 2010) è stata pubblicata un’inedita iscrizione etrusca del VII secolo a.C., con la forma Numasia-, che costituisce un forte sostegno linguistico per il latino arcaico Numasio-, che compare sulla fibula e che da crux (che finora contribuiva semmai a indurre il sospetto del falso) si trasforma in un pesante dato confermativo dell’autenticità, grazie a questa nuova coeva e indipendente attestazione della stessa base onomastica (si noti che finora in etrusco era attestata solo la variante Numesie-). Giulio Facchetti docente di Linguistica e di Semiotica all’Università degli Studi dell’Insubria, Varese Gentile lettore, Comprendo il suo disappunto per non aver trovato sul numero di «Archeo» dello scorso agosto un dossier completo sulla Fibula Prenestina: per gli addetti del mestiere, la certezza definitiva dell’autenticità dell’iscrizione (oltre che dell’oggetto che ne è il supporto) meritava probabilmente tutto lo spazio necessario, se non addirittura uno «speciale». Ma le esigenze editoriali imponevano di contenere la notizia nelle dimensioni di un articolo e la preferenza è andata alla vera novità che le nuove analisi fisiche hanno portato nell’annoso dibattito sull’autenticità. A questo proposito approfitto per chiarire che la nuova scoperta di Edilberto Formigli e Daniela Ferro non è

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stata l’autenticità del supporto e della patina (cosa del resto già dimostrata da Formigli circa trent’anni fa), ma la presenza di cristallizzazioni superficiali dell’oro all’interno del solco dell’incisione e al di sotto delle incrostazioni di materiale abrasivo utilizzato per conferire lucidità alla fibula. In base a tale dato Daniela Ferro può affermare che l’iscrizione non può essere stata realizzata in tempi recenti, dal momento che le cristallizzazioni osservate richiedono secoli di quiete dopo la fusione per formarsi e sono di natura superficiale (per cui non è possibile immaginare che siano state semplicemente portate alla luce da un’incisione recente). Non è pertanto solo la fibula a essere «scientificamente autentica», ma anche l’iscrizione, con tutto ciò che ne consegue. Quanto all’assenza di menzione del nuovo preziosissimo documento etrusco, faccio senz’altro ammenda per non aver nemmeno accennato alla questione (ma in realtà ho evitato accuratamente ogni argomento linguistico, per non essere costretto ad accenni resi incomprensibili dalla necessaria brevità). Vorrei però far notare che nel concludere l’articolo, rimandando a nuovi sviluppi della ricerca futura per le questioni irrisolte, ho richiamato la problematica del verbo VHE:VHAKED, ma non quella del nome NUMASIOI, che considero ormai risolta grazie al lavoro di Giulio Facchetti e Massimo Poetto (in Oebalus 4, 2009), del resto già entrato nel dibattito scientifico (Marco Mancini, in AION 30, 2008, e Carlo de Simone, in Oebalus 5, 2010), il che avrebbe richiesto ulteriori spiegazioni e commenti. Inoltre, senza la conferma definitiva delle analisi scientifiche, persino l’autenticità incontrovertibile del testo non sarebbe bastata a convincere alcuni irriducibili assertori della falsità della fibula: in passato non è mancato chi abbia immaginato paradossalmente che fosse stato copiato da Helbig a partire da un’iscrizione genuina, che poi sarebbe andata perduta! Mi auguro pertanto che in futuro «Archeo» possa tornare di nuovo, con

altre importanti conclusioni, sulla Fibula Prenestina ormai restituita alla scienza. Daniele F. Maras

Questioni... «padagnole» Gentile Redazione, vi scrivo per ringraziare voi e il professor Staccioli per aver scritto e pubblicato lo speciale sulla «vera storia della Padania». Ho gustato, assaporato, tutto l’articolo; l’ho trovato originale, esplicativo, sotto ogni aspetto soprattutto in riferimento a ciò che oggi alcuni intendono per «Padania» senza probabilmente conoscere tutte le implicazioni di tipo storico ed evolutivo riguardanti le genti, le culture e ciò che Roma ha contribuito a creare in termini di infrastrutture e ordinamenti civici e politici. Inoltre, quando nei cenni storici ho trovato le due cartine dell’Italia e i vari popoli che occupavano la Penisola tra il 201 e il 78 a.C. ho sorriso e gioito pensando al mio manuale di storia della Garzanti delle medie... Sono felice anche per aver notato che avete pubblicato la foto della stele di Gallenia simbolo del percorso della via Annia e le sue infrastrutture, studio che sto approfondendo ormai da quasi due anni attraverso testi specifici, dispense, visite ai musei del territorio e mostre. Sono una giovane abitante dell’«angulus Venetorum» appassionata di archeologia e della vostra rivista conosciuta per mezzo dell’insegnante di storia dell’arte alle magistrali. Un caro saluto Monica Minto, e-mail Abbonata da molti anni alla vostra rivista, desidero sia portato a conoscenza del professor Romolo Augusto Staccioli che il suo «Speciale» apparso nel n. 317, luglio 2011, è linguisticamente pefetto, storicamente completo, preciso e pienamente convincente. Nel complimentarmi con lo studioso per il suo ottimo lavoro, che presenta e illustra fatti storici reali, mi auguro che aiuti i tanti confusi a liberarsi delle leggende inventate da furbastri millantatori per personali


La redazione chiede di inviare lettere brevi (preferibilmente firmate per esteso), per dare spazio a piú lettori; si riserva inoltre il diritto di limitarne la lunghezza e di scegliere preferibilmente i testi che trattano temi di interesse generale. L’indirizzo al quale potete inviare le vostre lettere è: Archeo – piazza Sallustio, 24 – 00187 Roma; e-mail: vanessa.arico@mywaymedia.it, specificando in oggetto «posta di Archeo»

vantaggi che nulla hanno a che vedere con gli interessi della gente. Desidero infine ringraziare per il prezioso contributo dato, anche con questo «Speciale», dalla Rivista e dal professor Staccioli per aver intelligentemente messo in luce la verità storico-geografica, con il non sotteso invito agli italiani a studiare meglio la storia patria. Con stima e cordialità Liliana Paparot Rorato, Motta di Livenza (TV) Gentile signore, leggo la vostra rivista praticamente da quando ha iniziato le sue pubblicazioni, talvolta comprandola in edicola, talaltra abbonandomi. Desidero dire la mia sul vostro speciale di luglio 2011 «L’invenzione della Padania», reclamizzato in copertina con il titolo roboante «Padania, la vera storia». Sono rimastra sconcertata dall’uso improprio della parola «Padania». Anche se nel testo ci sono molte annotazioni in parte serie e in parte scherzose sulla parola Padania e sull’affezione di certe persone per le origini celtiche, trovo che la reiterazione di questo termine per indicare la Gallia Cisalpina prima, e poi l’insieme delle Regioni VIII Aemilia, IX Liguria, X Venetia et Histriae e XI Transpadana, non serva ad altro che a ribadire concettualmente l’uso della parola Padania, che fortunatamente non esiste né come regione, né – ancor peggio – come entità giuridica, ma è solo un’invenzione della Lega Nord... Tutto questo nell’anno in cui, contro le scelte della Lega Nord, e grazie anche all’intervento del nostro Presidente della Repubblica, abbiamo festeggiato i 150 anni dell’Unità d’Italia. Nella speranza di non trovare in futuro su una delle mie riviste preferite altre «perle» di questo genere, aspetto una vostra risposta. Cordiali saluti. Adriana Grassi Ravelli Caro direttore, scrivo queste righe dopo aver letto e apprezzato, sia il suo Editoriale che il saggio «L’invenzione della Padania» dello stimatissimo professor

Romolo A. Staccioli. Premetto che anch’io sono un «padagnolo», praticamente vivo a Carrú, una piccola e tranquilla cittadina ai piedi della Langa e a 27 chilometri da Pollenzo, l’antica Pollentia. Leggendo con molto interesse il saggio del professore, ho appurato che le notizie, che sono state riportate a p. 41, relative all’antico centro romano di Pollentia, sono chiaramente basate su studi oramai datati. Mi spiegherò meglio; la fondazione del centro pollentino, e con legittimi dubbi, viene ancora posta tra il 173 e il 125 a.C. Siccome questo antico centro, al quale sono molto affezionato, porta un nome di carattere «augurale» ascrivibile al II secolo a.C., spesso ci induce in inganno. In questi ultimi anni si è fatto molto a livello archeologico, anzi gli ultimi scavi eseguiti nell’area forense non scendono, come datazione, oltre il 100 a.C. Pollentia ha ancora molto da raccontare, e custodisce, gelosamente, tantissimi segreti, sia storici che archeologici. Basta pensare alla questione degli sfuggenti «Campi Raudi», la guerra di Modena, la battaglia tra Flavio Stilicone e Alarico! Siccome non voglio farle perdere altro tempo, e ritenendo cosa gradita, Vi invierei, per mezzo posta, una recente pubblicazione (2009) da me curata: Pollentiae. Antico crocevia dell’impero romano. Se la Vs risposta risultasse positiva, la potrei inviare alla redazione in piazza Sallustio a Roma. Augurandole una buona giornata, La saluto cordialmente Piero Barale Ringrazio, innanzitutto, per i loro apprezzamenti le lettrici Monica Minto e Liliana Paparot Rorato e il «padagnolo» Piero Barale. Sono dispiaciuto per il disappunto della lettrice Grassi Ravelli «rimasta sconcertata dall’uso improprio della parola “Padania”». Mi meraviglia però che non si sia accorta come, fin dall’inizio (p. 31), io abbia scritto «cosiddetta Padania», e, in seguito (da p. 32 in poi) abbia usato lo stesso termine sempre tra virgolette. Il che significa che non condivido il significato

che a quel termine viene comunemente dato e, al tempo stesso, che lo utilizzo in maniera convenzionale e sintetica – e con riferimento all’attualità – per indicare ciò che altrimenti avrei dovuto chiamare la... «cosa» che vorrebbero quelli della Lega Nord. Sono anni che vado scrivendo su libri, quotidiani e riviste, e dicendo in conferenze, lezioni, interventi alla radio e alla televisione, che la Padania correttamente intesa equivale alla Valle del Po (con quelle dei suoi affluenti) e che Liguria e Veneto sono altro. E, quando ho scritto di nascita della «Padania» (p. 43) l’ho spiegata come «unione di gran parte dei territori dei Liguri e dei Galli con quello dei Veneti, a formare una sola realtà amministrativa...». Per questo, tra l’altro, alla fine del mio «speciale», ho azzardato la proposta di chiamare la cosiddetta Padania di Bossi piuttosto col termine di Postumia (dal nome della via romana che andava dal golfo di Genova a quello di Trieste), analogamente a quanto avviene per l’Emilia: un modo piú corretto – ho scritto a p. 52 – «per esprimere e rappresentare la totalità di un mondo che è padano ma anche veneto e ligure, fin dall’aspetto geografico (come veneto e ligure, oltereché celtico, fu dal punto di vista etnico e culturale, prima di diventare romano)». Quanto alla «entità giuridica» di una «Padania» come quella intesa dai leghisti, ho solo ricordato che essa, in effetti, una volta c’è stata: ai tempi della provincia romana della Gallia Cisalpina. Che quella entità possa tornare in futuro, lo dirà la storia (mentre la geografia, a meno di qualche cataclisma biblico, continuerà a proporre una Val Padana, da una parte, e una Pianura Veneta dall’altra, magari tra loro collegabili, ma come «Pianura padano-veneta»). Al lettore Barale (dal quale riceveremo con piacere la sua pubblicazione su Pollentia) ricordo che, per la stessa Pollentia, ho scritto, prudentemente, come sia incerto se la sua fondazione vada riferita al II secolo a.C. o piuttosto «a un periodo successivo». Romolo A. Staccioli

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n oti z i ari o SCoperte Gran Bretagna

Il primo bambino d’Europa di Stefano Mammini

esso a punto nell’ormai lontano 1946, il metodo di dataM zione del 14C non ha esaurito la

sua carica «eversiva»: l’ennesima conferma viene dai risultati di recenti analisi eseguite dal Radiocarbon Accelerator Unit di Oxford. I ricercatori hanno esaminato alcuni denti da latte, provenienti dalla Grotta del Cavallo (Lecce), e un frammento di mascella, recuperato nel corso degli scavi condotti nella Kent’s Cavern, un sito costiero nei pressi di Troquat (Devon, Inghilterra), e dai due campioni sono state ottenute cronologie che, oscillando fra i 45 000 e i 41 000 anni fa, retrodatano la comparsa dell’uomo anatomicamente moderno nel continente europeo. Si tratta di un’acquisizione, che, al di là del riferimento cronologico, ha almeno due implicazioni di grande rilevanza: la prima è che la specie alla quale noi tutti apparteniamo si è diffusa in Eu-

ropa in un’epoca piú antica di quanto finora ipotizzato; la seconda, forse ancor piú significativa (e ne parliamo anche a proposito della mostra Homo sapiens, in corso a Roma, vedi oltre, alle pp. 14-18), è la prova che la coesistenza con i «cugini» neandertaliani fu assai piú lunga di quanto si immaginava. I denti da latte – databili fra i 45 000 e i 43 000 anni da oggi – furono recuperati nella grotta salentina del Cavallo nel 1964, in livelli che gli scavatori attribuirono all’Uluzziano, una facies del Paleolitico Superiore. Già identificati come neandertaliani, i reperti sono stati sottoposti a scansione e messi a confronto con numerosi resti analoghi: una valutazione che, alla fine, non ha lasciato dubbi sull’attribuzione alla specie umana moderna. Inoltre, poiché precedenti data-

A sinistra: la mascella con tre denti da Kent’s Cavern, nel Devon. 44-41 000 anni fa. Qui sopra: i denti da latte dalla Grotta del Cavallo. 45-43 000 anni fa. A destra: uno degli ambienti della Kent’s Cavern.

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In alto: Kent’s Cavern. L’équipe di scavo che, nel 1927, recuperò la mascella. Nella pagina accanto: Isola Sacra (Fiumicino). Foto aerea del cantiere di scavo in cui sono venuti alla luce i resti di due imbarcazioni.


Una barca tira l’altra... rosegue con successo, nell’area di Isola Sacra (Fiumicino), lo scavo che, nella scorsa primavera, aveva portato al rinvenimento di P un’imbarcazione (vedi «Archeo» n. 316, giugno 2011), e che ha adesso

zioni su materiali riferibili all’Uluzziano erano viziate da possibili contaminazioni e poiché i denti erano troppo piccoli per potervi effettuare direttamente alcune delle analisi, sono state analizzate anche alcune perline di conchiglia provenienti dagli stessi livelli stratigrafici. E il risultato finale è stata appunto la data pari a 45-43 000 anni fa. Parallelamente, studi simili sono stati effettuati su una mascella contenente tre denti recuperata a Kent’s Cavern nel 1927. Il reperto era già stato datato nel 1989, ma il risultato non era apparso convincente, perché alterato dalla presenza di colla spalmata in età moderna sulla mascella per favorirne la conservazione. Con una procedura analoga a quella seguita per i denti salentini, sono stati prelevati nuovi reperti – consistenti in resti fossili di varie specie animali – dai livelli in cui era stata trovata la mascella, anch’essa di dimensioni troppo ridotte per poter effettuare analisi attendibili. E dalla nuova serie di dati, studiati ed elaborati anche con metodi statistici, si è infine giunti alla data compresa fra i 44 000 e i 41 000 anni da oggi.

rivelato la presenza di un secondo scafo. L’intervento ha rimesso in luce un’imbarcazione fluvio-marittima costruita a guscio portante e secondo la tecnica a «tenoni e mortase», sistema a incastro delle assi lignee tipico dell’epoca greco-romana. Centri di ricerca specializzati ed esperti di diverse discipline – dalla documentazione fotogrammetrica al rilievo grafico, dalla conservazione del legno bagnato all’archeologia navale e subacquea, nonché ingegneri e architetti e geologi – hanno operato in simultanea al fine di garantire tempi rapidi e soluzioni operative idonee alla tutela dell’importante manufatto. La collaborazione avviata con il Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS, Francia) per lo studio dello scafo e per lo studio paleoambientale del sito, ubicato in prossimità dell’antica linea di costa, ha consentito il tempestivo inquadramento tipologico del relitto che presenta caratteristiche uniche. Lo scafo, battezzato Isola Sacra 1, è conservato per 12 m circa di lunghezza e 5 di larghezza. La prua a specchio – terminante quindi con una tavola piatta – e la particolare sistemazione della zona prodiera, dove eccezionalmente sono ancora visibili due bitte utili per le manovre, avvicinano il natante a un tipo di imbarcazione di servizio, definito horeia, nota da iconografie e da esemplari rinvenuti in bacini portuali antichi (Tolone e Napoli). Inoltre, al di sotto del primo relitto, è stata individuata superficialmente una seconda imbarcazione, della quale è stata riportata in luce solo parte della fiancata meridionale, per una lunghezza di oltre 14 m e quindi certamente di maggiori dimensioni rispetto a Isola Sacra 1. (red.)

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Parola d’archeologo

di Flavia Marimpietri

I nuovi «angeli del fango» L’alluvione dello scorso ottobre ha colpito anche il patrimonio librario e archivistico di Aulla, in parte salvato dall’intervento di numerosi volontari. Come racconta Diana Toccafondi, Soprintendente Archivistico per la Toscana a notte tra il 25 e il 26 ottobre scorso, una violenta alluvione si L è abbattuta sulla Lunigiana, al

confine fra Toscana e Liguria. Il luogo piú colpito dall’esondazione del fiume Magra è stata la cittadina di Aulla, in provincia di Massa Carrara: qui il fango ha invaso l’abitato portandosi via, oltre a due vite umane, anche un pezzo della storia della comunità. Un muro d’acqua ha devastato l’Archivio Storico di Aulla, sito nel Palazzo Comunale, che conta 1700 volumi dal Cinquecento in poi, e ha distrutto completamente la Biblioteca, con i suoi 30mila pezzi. Dal giorno successivo all’alluvione, centinaia di ragazzi hanno scavato per settimane, a mani nude, nella melma, per recuperare il maggior numero di volumi antichi. Giovani, volontari, bambini. Passandosi i libri uno a uno, con le galoche ai piedi e l’acqua alle ginocchia, a formare una catena umana, come gli «angeli del fango» dell’alluvione di Firenze, che nel 1966 salvarono i tomi della Biblioteca Nazionale. I libri piú antichi dell’Archivio Storico di Aulla sono stati subito congelati in apposite celle frigorifere, messe a disposizione gratuitamente dai mercati generali di Firenze e da una nota casa di surgelati, in modo da bloccare il processo di decomposizione in atto sulla carta bagnata, per poi rimuovere il fango. Sul posto è prontamente intervenuta Diana Toccafondi, Soprintendente Archivistico per

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la Toscana, che ricorda cosí quei momenti. «Il fango era entrato da tutte le parti, fino alle zone piú delicate dell’Archivio Storico Comunale di Aulla, nel quale sono custoditi i volumi antichi, che vanno dal 1531 al 1960. Prima di poter recuperare i documenti abbiamo dovuto ripulire tutto dalla melma. A tratti, i libri neanche si distinguevano dal fango. La Biblioteca Comunale, invece, era completamente inagibile poiché l’ingresso era ostruito da un muro di fango alto fino al soffitto. Una cosa impressionante. Qui l’acqua è entrata con molta violenza, soprattutto nel piano interrato e nel mezzanino, devastando la Biblioteca: 30mila volumi moderni

a stampa sono andati completamente perduti». Di fronte alle decine di vite umane perse nelle alluvioni di questo ultimo autunno, in molte regioni d’Italia (Liguria, Toscana, Campania e Sicilia), i libri – seppure antichi – potrebbero sembrare poca cosa. Ma, come ci spiega la Soprintendente, quei fogli rappresentano un pezzo di vita della comunità, sono il suo patrimonio storico e di memoria, nel caso di Aulla dall’epoca del Rinascimento fino ai tempi moderni. «Questi documenti sono parte di una comunità: soprattutto in zone di confine, come l’area tra Toscana, Liguria e il Parmense, che hanno una storia particolare, in cui il


senso di identità è molto forte. In Lunigiana si sono presentati tanti giovani, dai bambini delle scuole elementari ai ragazzi delle superiori… hanno formato catene umane per tirare via dal fango e recuperare i libri. Hanno lavorato per settimane, divisi in squadre da noi coordinate. Si rendevano conto del valore di questo patrimonio. Ricordo una cosa che mi ha commosso, quando ero nella Biblioteca di Aulla, devastata dal fango: un ragazzino si è affacciato, il suo primo giorno da volontario, e con voce rotta ha detto: “che pena!”. Era il luogo in cui aveva studiato tutta la vita». Come siete intervenuti, nell’emergenza? «Il primo intervento è consistito nel separare il materiale umido da quello completamente bagnato e avviare quest’ultimo a uno speciale piano di congelamento. Nell’Archivio Storico Comunale, su circa 1700 pezzi, 600 si sono bagnati e 134 si sono inumiditi. Abbiamo poi “interfogliato” le pagine dei libri con fogli di carta assorbente (che ci ha messo a disposizione gratuitamente una cartiera di Lucca). L’ondata di fango ha invaso anche l’Archivio Notarile Antico di Aulla, situato accanto all’Archivio Storico, nel Palazzo comunale, che annovera volumi antichi pregiati e molto ben conservati, che vanno dal 1456 al 1875: su 1800 pezzi, se ne sono bagnati 900. I piú colpiti dalla violenza dell’acqua, con l’alluvione, sono stati i documenti piú recenti (5mila pezzi, dal 1960 al 2006), conservati al piano sotterraneo. Ricordo che in questo deposito interrato il fango aveva invaso completamente il locale, fino a sfondare il soffitto e farlo crollare».

Una volta estratti dal fango, i volumi antichi bagnati sono stati subito «congelati» in celle frigorifere. Ci vuole spiegare meglio questa tecnica di conservazione? «Ai tempi dell’alluvione di Firenze del 1966, il congelamento non esisteva. Poi le emergenze hanno insegnato che un buon metodo di intervento, per i volumi bagnati, in attesa del restauro e della ripulitura, è fermare immediatamente la situazione con il freddo, in modo tale da impedire lo sviluppo di muffe e microorganismi che possano aggredire la carta e portare al

Qui sopra e nella pagina accanto: Aulla. Immagini della devastazione causata dall’esondazione del Magra nei locali dell’Archivio Storico e della Biblioteca Comunale. In alto: il recupero dei libri da parte dei volontari accorsi all’indomani della catastrofe.

deperimento delle parti “buone”. È una tecnica sperimentata con successo anche a L’Aquila e a Praga». Gli «angeli del fango», ad Aulla come in tutta la Toscana, hanno lavorato per settimane per mettere in salvo i volumi colpiti dall’alluvione... «Ricordo la catena umana di studenti che si passavo i libri di mano in mano, per metterli nel congelatore, e il signor Mirco, che ha messo a disposizione il camioncino della sua ditta per trasportare i libri nei congelatori della Bofrost di mezza Toscana. In quelle celle frigorifere ci sono ora in tutto 12 metri cubi di libri antichi, circa 1000 pezzi. Quando il camioncino di Mirco arrivava per scaricare i sacchetti di libri da congelare, le squadre di volontari si mettevano in azione… a Pisa, ad Arezzo, a Prato, a Barberino Val d’Elsa, a La Spezia, ad Arcola. Oltre a quei mille volumi antichi, altri 2800 pezzi sono stati congelati in due enormi celle frigorifere dei mercati generali di Firenze a Novoli (Mercafir). Anche il materiale moderno è importante per raccontare la storia di questi anni. In questo caso i volontari sono stati preziosi per il lavoro massivo: il materiale era una mole enorme. Sono venuti ad aiutare persino i tifosi della curva della Fiorentina, con gli ultrà che facevano i cori…». E adesso, che cosa succederà ai libri «salvati» nel congelatore? «Dopo il congelamento, i volumi verranno sottoposti a un processo di liofilizzazione, per poterli asciugare e poi spolverare dal fango».

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n otiz iario

incontri Paestum

La Borsa stregata dai tesori d’Anatolia

a chiuso i battenti nel segno del successo la XIV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo H Archeologico di Paestum. Anche quest’anno, dal 17 al

20 novembre, operatori ed esperti italiani e stranieri hanno affollato il Centro Ariston, partecipando agli appuntamenti previsti dal calendario della manifestazione, come sempre ricchissimo. Paese Ospite ufficiale è stata la Turchia, il cui patrimonio archeologico è stato illustrato, alla presenza del Ministro della Cultura e del Turismo Ertugrul Günay, dai Direttori delle Missioni Archeologiche Italiane che operano in Turchia: Isabella Caneva (Yumuktepe), Francesco D’Andria (Hierapolis), Eugenia Equini Schneider (Elaiussa Sebaste), Marcella Frangipane (Arslantepe), Antonio La Marca (Kyme), Raffaella Pierobon Benoit (Golfo di Mandalya), Guido Rosada (Tyana) e Marcello Spanu (Iasos). Per l’occasione, l’Ufficio Cultura e Informazioni dell’Ambasciata di Turchia in Italia ha presentato diversi filmati sui maggiori musei archeologici del Paese (Istanbul, Izmir, Antalya, Ankara), rivolgendo un’attenzione particolare al nuovo Zeugma Museum di Gaziantep, il museo del mosaico piú grande del mondo, inaugurato dal Ministro Günay nello scorso settembre. Al V Incontro delle Testate Archeologiche Internazionali, sul tema «Tutela del patrimonio e turismo culturale in tempo di crisi», in collaborazione con ICCROM e «Archeo», sono intervenuti il Direttore Generale dell’ICCROM Mounir Bouchenaki, i direttori delle testate archeologiche italiane ed estere, i Ministri della Cultura di Albania, Georgia, Iraq, Tunisia, il Ministro del Turismo della Cambogia. 12 a r c h e o

La Direzione Generale per le Antichità e la Direzione Generale per la valorizzazione del patrimonio culturale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in collaborazione con ANA Associazione Nazionale Archeologi e CIA Confederazione Italiana Archeologi ha convocato gli Stati Generali dell’Archeologia sul tema «La professione dell’archeologo. Chi fa archeologia oggi in Italia». Gli Incontri con i protagonisti hanno visto avvicendarsi, tra gli altri, Sebastiano Tusa, Soprintendente ai Beni Culturali e Ambientali di Trapani, su «Roma e Cartagine: la battaglia navale delle Egadi dai libri di storia alle ricerche sui fondali»; Eva Cantarella, scrittrice e giurista, e Stefano De Caro, archeologo, già Direttore Generale per le Antichità del MiBAC, su «Perché i Classici»; Francesco D’Andria, Direttore della Missione Archeologica Italiana a Hierapolis di Frigia in Turchia sul recente ritrovamento della tomba dell’apostolo Filippo; Alessandro Cecchi Paone, autore e conduttore, su «I Maya non hanno previsto la fine del Mondo». La Borsa di Paestum ha anche ospitato la III Riunione Scientifica della SISTUR, Società Italiana di Scienze del Turismo alla quale parteciperanno i vertici delle Organizzazioni Nazionali di Categoria Federturismo, Confturismo, Assoturismo. Nella sezione ArcheoFilm sono stati proiettati sia i film vincitori dei premi «della giuria» e «del pubblico» della XXII Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto che il filmato La città teatro del canale Marcopolo dedicato ai viaggi, al turismo e all’avventura. Una ampia documentazione degli eventi è disponibile sul sito della manifestazione www.borsaturismo.com



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MOSTRE Roma

La «nostra» storia di Stefano Mammini

uattro anni fa, il Palazzo delle Esposizioni ospitò una Q mostra (magnifica) sulla vita e

l’opera del regista statunitense Stanley Kubrick e, pochi giorni fa, negli stessi spazi, ha aperto i battenti Homo sapiens, progetto espositivo che si fa carico del non facile compito di ripercorrere e illustrare gli oltre due milioni di anni di storia della specie umana. Il perché di un simile accostamento è presto detto: nelle sequenze iniziali di 2001 Odissea nello spazio, Kubrick mostrava un gruppo di primati, sopravvissuti a un grande cataclisma, che si muovono in un paesaggio di tipo simile a quello dei grandi altopiani e tavolati dell’Africa Orientale, culla della nostra specie. Ebbene, il percorso di Homo sapiens si apre con la spettacolare simulazione di quello che si immagina sia successo nella località tanzana di Laetoli oltre 3,5 milioni di anni fa, quando le ceneri prodotte da un’eruzione vulcanica, con una dinamica simile a quella di Pompei ed Ercolano, sigillarono un paleosuolo che ha restituito una delle più impressionanti testimonianze preistoriche di tutto il continente afri-

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In alto: una sequenza del video che ricostruisce l’eruzione scatenatasi a Laetoli (Tanzania) intorno ai 3,5 milioni di anni fa. A sinistra: ricostruzione dei due individui della specie Australopithecus afarensis, le cui orme furono scoperte a Laetoli nel 1974-75.

cano. E la ricostruzione dell’evento in forma di filmato sembra proprio evocare le atmosfere del capolavoro kubrickiano. Suggestioni a parte, l’esordio è dunque di grande impatto e pone all’attenzione del visitatore una delle scoperte piú importanti e spettacolari nella storia degli studi di pa-

leoantropologia: a Laetoli, infatti, nel 1974-75, Mary Leakey, mise in luce le orme lasciate da almeno due individui (un maschio e una femmina o forse una madre con il figlio) che è stato possibile identificare come Australopithecus afarensis. Le tracce di quella antichissima passeggiata, conservatesi appunto grazie all’azione «protettiva» delle ceneri vulcaniche, provano come la stazione eretta e l’andatura bipede fossero state acquisite già allora; all’indomani della scoperta, per evitarne la distruzione da parte degli agenti naturali, sono state ricoperte e oggi si trovano sotto una coltre formata da strati alternati di sabbia e ciottoli. Dell’Australopithecus afarensis la mostra presenta anche la capostipite ed esponente piú celebre: Lucy, la «ragazza» i cui resti furono rinvenuti nel 1974 da Donald Jo-


hanson nella regione dell’Afar (da cui la denominazione) e di cui si può vedere la replica dello scheletro, custodito nel National Museum of Ethiopia di Addis Abeba. Poco oltre, si incontra un altro ragazzo: è il Turkana Boy, con il quale si compie un notevole salto in avanti: siamo infatti a poco meno di 2 milioni di anni fa (1,6, per la precisione), e, soprattutto, siamo di fronte a uno dei primi rappresentanti del genere Homo, in questo caso ergaster (cioè capace di un’attività lavorativa, dal verbo greco per lavorare). I resti del ragazzo del Turkana, di cui la mostra propone una piú che verosimile ricostruzione, sono venuti alla luce nel 1984, sulla sponda occidentale del lago omonimo, e appartengono a un individuo venuto a morte intorno ai 9 anni di età (paragonabili ai 12 di un uomo moderno). Si è trattato di un ritrovamento eccezionale, in quanto lo scheletro del Turkana Boy è stato recuperato in misura pari al 90% (applicando il criterio per il quale si considerano acquisite anche quelle parti mancanti che hanno un corrispondente simmetrico nell’organizzazione dell’ossatura, come per esempio l’omero).

In alto: la sala dedicata all’Uomo di Neanderthal. Qui sotto: particolare della ricostruzione dell’Eva mitocondriale, la «grande madre» della specie umana, secondo gli studi condotti sul DNA antico.

In alto: reperti archeologici e paleontologici relativi alle piú antiche specie umane e alla loro diffusione al di fuori del continente africano.

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Tanzania, Etiopia, lago Turkana…: l’Africa è il comune denominatore che lega queste tappe cruciali della nostra storia (e la prima sezione della mostra), ma è proprio con l’Homo ergaster che ha inizio quella che i curatori della mostra hanno definito «La prima diaspora». Comincia la diffusione al di fuori del grande continente e i cugini e pronipoti del ragazzo del Turkana si spingono fino ai limiti del mondo, dall’Europa all’Estremo Oriente. È un fenomeno affascinante e ancora oggi sorprendente quello della prima diaspora, che, nel 1987, ha trovato una ancor piú suggestiva cartina al tornasole nella scoperta di una matrice originaria di DNA mitocondriale comune a tutti gli esseri umani sulla Terra: questa parte del nostro patrimonio genetico, infatti, si trasmette solo per via femminile, ed è stata perciò forte e irresistibile la tentazione di immaginare una grande madre africana per l’intero genere umano. È nata cosí quella che viene definita Eva mitocondriale, e che nella mostra viene presentata in forma di ricostruzione, significativamente incinta.

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L’esposizione, è bene sottolinearlo, non gioca soltanto su installazioni multimediali o ricostruzioni, ma propone anche materiali archeologici e resti fossili, che ne fanno uno degli eventi piú importanti fra quelli mai organizzati in questo campo. Basti pensare, solo per fare un esempio, che la Georgia ha eccezionalmente concesso in prestito la mandibola di Homo georgicus trovata a Dmanisi nel 2001, appartenente a un individuo vissuto intorno a 1,85 milioni di anni fa, che, a oggi, è la piú antica testimonianza della presenza del ge-

nere Homo al di fuori del continente africano. Usciti dall’Africa, i nostri piú antichi progenitori sviluppano capacità di adattamento che portano alla formazione delle diverse specie, perché, è bene ricordarlo – e lo ha fatto anche Luca Cavalli Sforza presentando la mostra, a proposito del concetto di razza –, le differenze che si possono di volta in volta riscontrare sono altrettante risposte agli stimoli e alle sfide dell’ambiente in cui gli individui si trovano a dover sopravvivere. E, intorno ai 200 000 anni da oggi, entra in scena l’Homo sapiens, i cui primi rappresentanti a oggi conosciuti, sono, ancora una volta, africani. Anche in questo caso, si verificano fenomeni analoghi a quelli già osservati con l’ergaster, con spostamenti di gruppi e occupazione progressiva di territori sempre piú ampi. Nelle regioni euro-asiatiche la nuova specie viene a contatto con l’Uomo di Neanderthal e si apre cosí un capitolo cruciale della nostra storia. Sapiens e Neandertaliani, infatti, condividono a lungo ampie parti del nostro pianeta e (forse) il loro non è un rapporto di sola coabitazione e reciproca tolleranza. Il forse è d’obbligo, perché la possibilità che le due specie si siano mescolate è tuttora al cen-


tro del dibattito scientifico, anche se le piú recenti indicazioni fornite dagli studi sul DNA (il genoma dell’Homo sapiens e quello del Neanderthal sono identici al 99,84%) sembrerebbero indicare che il rapporto fosse stretto e molti studiosi ritengono che potrebbero esserci stati incroci fecondi. Una delle prove addotte in questo senso è la scoperta dei resti di un bambino, a Lagar Velho, in Portogallo, ritenuto il frutto di un possibile incrocio, mentre per altri sarebbe un piccolo Homo sapiens dalla fisionomia piú tarchiata del normale. È invece certo che, per motivi ancora oggi ignoti, l’Uomo di Neanderthal, intorno ai 30 000 anni fa, scompare e quello che gli studiosi definiscono Uomo anatomicamente moderno diventa il solo protagonista della storia del genere Homo. E, con un’accelerazione crescente, si moltiplicano le scoperte e le acquisizioni, che non sono soltanto risposte funzionali all’imperativo di sempre, cioè la sopravvivenza, ma provano anche l’estendersi della sensibilità intellettuale e spirituale: si diffonde, per esempio, l’uso di omaggiare i defunti con sepolture curate e dotate di corredi funebri; nascono i primi strumenti musicali (è in mostra il piú antico esemplare di flauto a oggi noto); si registrano le prime manifesta-

zioni artistiche, che già nel corso del Paleolitico hanno esiti spettacolari, soprattutto nel campo dell’arte parietale… E poi, anche per effetto della fine delle glaciazioni, intorno ai 12 000 anni fa, si pongono le basi perché, in breve tempo, i nostri progenitori compiano una delle prime rivoluzioni della storia: l’uomo riesce ad affrancare la propria esistenza dall’alea della caccia e della raccolta e «scopre» l’agricoltura e l’allevamento. Il cambio di passo è formidabile e

Qui sopra: la sala dedicata all’avvento delle prime comunità agricole, che chiude il percorso della mostra. A sinistra: impronta di mano su una parete del sito di Grotta Chauvet (Francia). 31 000 anni fa circa. Nella pagina accanto, in alto: trapanazione di un osso di Neanderthal per lo studio del DNA. Nella pagina accanto, in basso: ricostruzione del bambino di Lagar Velho (Portogallo), da alcuni ritenuto frutto di un incrocio fra l’Uomo di Neanderthal e quello anatomicamente moderno.

Incontri con la Scienza Fino all’8 febbraio 2012, la Mostra Homo sapiens propone un ricco programma di incontri rivolti a tutti, grazie alla presenza in Italia di alcuni fra i maggiori protagonisti della ricerca scientifica mondiale sull’evoluzione umana e sulla storia del popolamento della Terra da parte della nostra specie. In accordo con il carattere interdisciplinare dell’esposizione, si confronteranno antropologi, genetisti, linguisti, demografi, archeologi, storici e filosofi. Questi gli appuntamenti: • 7 dicembre, ore 18,30 L’immagine degli Italiani Nicoletta Maraschio e Nicola Grandi. • 19 gennaio, ore 18.30 Massimo Livi Bacci e Alfredo Coppa Anche le lingue evolvono In cammino. Le migrazioni • 14 dicembre, ore 18.30 Fabrizio Rufo e Paolo Rossi umane passate e future Mangiare: bisogno, desiderio, Introduce Fabrizio Rufo. ossessione. La diversità • 1 febbraio, ore 18.30 planetaria del cibo Giorgio Manzi, Jacopo Moggi-Cecchi • 21 dicembre, ore 18.30 e David Caramelli Giorgio Manzi e Juan-Luis Arsuaga Cacciatori di molecole fossili e Homo sapiens: la nascita cacciatori di fossili dell’intelligenza simbolica • 8 febbraio, ore 18.30 • 11 gennaio, ore 18.30 Bernardino Fantini e Aldo Morrone. Maria Enrica Danubio Dal passato al futuro: migrazioni e e Antonello La Vergata malattie

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Il mistero delle teste mozzate re corpi orrendamente massacrati e smembrati sono stati rinvenuti lungo la via Emilia, a est di Modena, tra San Lazzaro e Fossalta, ma T non è l’ennesimo fatto di cronaca nera, bensí il risultato del recente

innesca una serie di cambiamenti davvero epocali, primo fra tutti la sedentarizzazione. Con la comparsa di contadini e pastori si chiude anche l’epilogo del percorso espositivo di Homo sapiens, che, occorre dire, oltre a quelli descritti, offre molti ulteriori spunti e approfondimenti: è, infatti, una mostra molto ricca, alla quale va innanzitutto il merito di aver saputo narrare in maniera accessibile una storia non solo lunghissima, ma anche assai complessa e articolata. E non si può non augurarsi, come hanno fatto i suoi ideatori – il già citato Cavalli Sforza e Telmo Pievani –, che il racconto di una vicenda fatta di tanti attori sappia trasmettere il suo messaggio di tolleranza nei confronti della diversità. Dove e quando «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana» Roma, Palazzo delle Esposizioni fino al 12 febbraio 2012 Orario tutti i giorni, 10,00-20,00 (venerdí e sabato, apertura serale fino alle 22,30); lunedí chiuso Info e prenotazioni tel. 06 39967500 (per le scuole, tel. 06 39967200); www.palazzoesposizioni.it; www.homosapiens.net

scavo di un canale romano, esplorato durante i lavori per la realizzazione di un interrato. È però certo che gli assassini, che agirono duemila anni fa, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., dopo avere infierito sui cadaveri, cercarono di occultarli, zavorrandoli al fondo del canale con mattoni prelevati da un monumento funerario che si trovava nelle vicinanze. L’indagine archeologica, a una profondità di 2 m circa, ha intercettato i resti di una necropoli e di un fossato di età romana, noché gli scheletri incompleti di piú individui che, in base al conteggio delle teste, sono risultati essere tre maschi, di cui un adulto (tra i 24-30 anni), un giovane adulto (tra i 18-25 anni) e uno juvenis (tra i 16-20 anni). Il resto dei corpi è ampiamente lacunoso. Del piú giovane, si conservano solo il bacino e le gambe; manca la parte superiore del corpo, mentre quello che si presume essere il suo cranio è stato rinvenuto tra le gambe, divaricate, cosí come le braccia. Del giovane adulto tra i 18 e i 25 anni restano la testa, parti di una spalla e un arto superiore, mentre il piú anziano dei tre, di circa 30 anni, è privo della parte inferiore del corpo, bacino compreso, e ha le braccia incrociate dietro la schiena, evidentemente legate all’altezza dei polsi. Comprensibile lo sconcerto degli esperti di fronte a un ritrovamento che, almeno in Emilia-Romagna, non ha precedenti. Secondo l’antropologa Vania Milani, l’assenza di reazioni infiammatorie nelle parti conservate indica che gli smembramenti sono stati effettuati al momento della morte o subito dopo, mentre gli archeologi escludono che si tratti di un rituale Modena. I resti dei tre individui, di età compresa tra i 20 e i 30 anni rinvenuti funerario, visto che in quell’area durante lo scavo di un canale di età di necropoli si praticava solo la romana. I sec. a.C.-I sec. d.C. cremazione. Il ritrovamento delle teste fa escludere anche le ipotesi che potesse trattarsi di proscritti (sotto la dittatura di Lucio Cornelio Silla si stabilí che potevano essere decapitati in qualunque luogo, ricevendo una ricompensa per ogni testa), cosí come di condannanti alla pena capitale, le cui teste mozzate erano esposte a pubblico monito e i corpi gettati in fosse comuni. In attesa che ulteriori elementi possano fare luce sull’inquietante rinvenimento, gli scavi archeologici nella necropoli che fiancheggiava l’antica via Emilia proseguono. Sono state recuperate alcune tombe a incinerazione e i resti di un monumento funerario spogliato in antico dai marmi che lo adornavano. (red.)

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mostre Lazio

I mastri artigiani di Falerii di Maria Cristina Biella

artigianato ceramico di Civita Castellana (Viterbo) affonda le L’ sue radici nelle realtà produttive

dell’antica Falerii, «capitale» della piccola regione dell’Italia preromana incuneata tra l’Etruria e il Tevere e abitata dai Falisci, una enclave culturale, in cui si parlava una sorta di dialetto latino e che era caratterizzata da una cultura peculiare, seppur fortemente legata a quella etrusca limitrofa. Nel segno di questo legame particolare tra artigianato antico e realtà moderna e nell’ambito delle iniziative per l’Anno della Ceramica, indetto per il 2011 nel centro dell’alto Lazio, è stato realizzato un nuovo progetto espositivo presso il Museo Archeologico dell’Agro Falisco, ospitato nella suggestiva cornice del Forte Sangallo a Civita Castellana. Antefissa a testa di Sileno rinvenuta in via Gramsci a Civita Castellana. 470 a.C.

La mostra si concentra sulle produzioni locali, che coprono un periodo compreso tra l’VIII secolo a.C. sino alla conquista romana del 241 a.C., riprendendo consistenza poi in età medievale e moderna. Nell’esposizione si prendono in considerazione sia le produzioni a destinazione privata, riservate ai ricchi servizi rinvenuti nelle sepolture quali beni di accompagno del defunto, sia quelle che erano frutto di una committenza pubblica, legate alla decorazione di edifici templari. Oltre ad aspetti storico-artistici, lo studio delle produzioni ceramiche falische permette di evidenziare dal punto di vista economico, il passaggio da produzioni orientate a soddisfare quasi esclusivamente il mercato interno, come nel caso degli impasti dell’VIII-VII secolo a.C. , ad altre che attestano l’apertura commerciale verso ambiti territoriali anche lontani, come avviene nel caso delle produzioni del IV-III secolo a.C. che testimoniano la capacità di una classe artigianale di produrre grandi quantità di materiali e di organizzarne anche l’esportazione. D’altro canto, l’importanza di questo settore produttivo nell’ambito del tessuto socio-economico di Falerii è attestata anche dalla dislo-

cazione di almeno parte degli atelier nel cuore della città stessa. Una sezione della mostra è perciò dedicata all’analisi degli aspetti tecnici legati all’artigianato ceramico: dall’estrazione della materia prima, alla sua preparazione per la lavorazione, agli accorgimenti tecnici necessari per la buona riuscita dei prodotti finiti, sino agli «incidenti di percorso», testimoniati da una piccola sezione di manufatti scartati già in antico perché difettosi. Da ultimo non si può non ricordare come le produzioni antiche abbiano giocato un ruolo rilevante anche nel contemporaneo artigianato artistico locale. Per questa ragione una piccola sezione del percorso espositivo è dedicata alle opere di artigiani contemporanei che hanno saputo rileggere l’antico con categorie moderne. Dove e quando «Duemila anni di produzioni ceramiche a Falerii» Civita Castellana, Museo Archeologico dell’Agro Falisco fino all’8 gennaio 2012 Orario martedí-domenica, 10,00-13,00 e 15,00-19,00 (con ingresso a ogni ora per gruppi di massimo 30 persone). Info tel. 0761 513735

Kantharos (tazza a due manici) d’impasto con decorazione a incavo e incisa. Metà del VII sec. a.C. circa.

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MOSTRE Mantova

I mille volti del cantore di Enea di Vincenzo Farinella

a possibilità, eccezionale, di poter esporre a Mantova, nelL le prestigiose sale di Palazzo Te,

il celebre mosaico tardo-antico conservato nel Museo del Bardo di Tunisi (rinvenuto nel 1896 negli scavi di una villa romana presso Hadrumetum, l’odierna Sousse, e da allora mai uscito dalla Tunisia), che conserva un’eco delle reali fattezze del sommo poeta mantovano, ha suggerito di allestire una mostra sui diversi volti assunti nei secoli dallo scrittore e sull’impatto esercitato dalle sue opere letterarie sulle arti figurative: un percorso millenario, sinteticamente ricostruito in questa esposizione ricorrendo a una selezionata antologia di opere di particolare suggestione, che consente di risalire – per cosí dire – a ritroso nel tempo, in un viaggio compiuto idealmente in compagnia di Virgilio, dal monumento che la città di Mantova dedicò nel 1927 al poeta, a prestigiose opere virgiliane dell’età barocca, rinascimentale e medievale, per culminare di fronte a testimonianze antiche capaci di evocare il volto dello scrittore e la fama delle sue opere nel mondo classico. Il ritratto antico di Virgilio viene presentato insieme ad altri «ritratti» moderni, attingendo, in particolare, alla ricchissima iconografia mantovana del poeta: una celebre scultura medievale, il Virgilio in cattedra, attualmente nel Museo della Città, degli inizi del Duecento, emblema civico e politico della Mantova medievale, è affiancata da altre testimonianze meno note, come quelle relative alla bizzarra iconografia della Testa di Virgilio nella vasca, documentata da vari prodotti riferibili alla cerchia mantegnesca (tra cui una una stampa di Mocetto tratta da un disegno di Mantegna) e dalla numismatica gonzaghesca, ma anche da un af-

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A destra: Monumento a Virgilio, manifestoproclama bilingue (italianolatino). Mantova 21 settembre 1882. Mantova, Archivio Storico Comunale. Qui sotto: Hubert Robert La «tomba di Virgilio» a Piedigrotta. 1784. Philadelphia, La Salle University Art Museum.

A sinistra: Giuseppe Menozzi, Virgilio. 1927 circa. Mantova, Accademia Nazionale Virgiliana di Scienze, Lettere e Arti. A destra: Guido Cirilli, Tempietto virgiliano, prospetto laterale. 1910. Mantova, Accademia Nazionale Virgiliana di Scienze, Lettere e Arti.


In alto:Allegoria mantovanaFirenzeA sinistra:TunisiIIn basso:Mantova

fresco di Giulio Romano nella Loggia delle Muse di Palazzo Te. L’importanza per Mantova di Virgilio, come simbolo civico dell’orgoglio e dell’indipendenza cittadina, è documentata da una scelta di monete coniate nel centro padano, che coprono un arco cronologico amplissimo, dal XII al XVII secolo, dove il nome o il ritratto del poeta antico giocano un ruolo fondamentale. Un’assoluta novità della mostra è invece costituita dalla possibilità di visualizzare uno sconosciuto ritratto rinascimentale di Virgilio, ideato da Giulio Romano intorno al 1530-1540: un frammento di affresco con il volto del poeta e un disegno autografo di Giulio conservato a Monaco di Baviera consentono di ricostruire una grande scena con Augusto, la Sibilla e Virgilio che, nel Cinquecento, decorava il salone di un prestigioso palazzo mantovano. Il tema delle edizioni illustrate a stampa delle opere di Virgilio, fondamentale per la diffusione nelle diverse arti figurative delle iconografie tratte dai suoi scritti, viene evocato ponendo a confronto la

celebre edizione «nordica» di Strasburgo del 1502, curata dall’umanista Sebastian Brant e riedita numerosissime volte nella prima metà del Cinquecento, con la serie di illustrazioni «manieriste», di recentissima scoperta, basate su disegni di Domenico Beccafumi e stampate in varie edizioni virgiliane a partire dal 1544. Alcuni dei principali soggetti dell’iconografia virgiliana sono rappresentati ricorrendo a opere poco note o del tutto sconosciute, ma di altissima qualità: il motivo squisitamente letterario di Dante e Virgilio e del loro viaggio ultraterreno è evocato da due dipinti seicenteschi, di Filippo Napoletano e Rutilio Manetti, nei quali è raffigurato il momento dell’ingresso dei due poeti nel regno degli Inferi; un altro tema virgiliano molto dif-

fuso, quello della morte di Didone, è rappresentato mediante un capolavoro praticamente inedito (mai uscito dai depositi degli Uffizi, dopo il recente restauro che lo ha riportato davvero a nuova vita) del notevolissimo pittore lucchese Pietro Testa, un amico di Poussin e Cassiano dal Pozzo, e un intenso dipinto settecentesco del grande cremonese Giuseppe Bottani, dove viene citata la celebre intrerpretazione che del soggetto aveva fornito nel secolo precedente il Guercino; l’episodio di Enea nei Campi Elisi, mentre ascolta la profezia del padre Anchise, è invece il soggetto di uno spettacolare dipinto rococò del pittore campano Sebastiano Conca. La fortuna di Virgilio in epoca neoclassica punta invece sulla fama europea del presunto sepolcro napoletano del poeta presso Piedigrotta, meta obbligata di tutti gli illu-

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A sinistra: Enea nei Campi Elisi, dipinto di Sebastiano Conca. 1735-1740. Firenze, Galleria degli Uffizi. In basso: alcune delle sculture rinvenute a Mont’e Prama, in territorio di Cabras (Oristano), e attualmente esposte a Sassari.

sconosciuta serie di grandi disegni, commissionati nel 1910 dall’archeologo Giacomo Boni all’artista romano Duilio Cambellotti e all’architetto Guido Cirilli, in vista di un suggestivo progetto alternativo che poi non andò in porto: un parco virgiliano sulle rive del Mincio, con un tempietto ispirato a quello che il poeta voleva elevare in onore di Augusto descritto nel III libro delle Georgiche, nel quale ricostruire filologicamente la flora e il paesaggio virgiliani. Dove e quando

stri viaggiatori del Grand Tour settecentesco (documentato dall’evocativa veduta, già permeata di umori preromantici, di Hubert Robert). Infine, la storia e la preistoria del monumento mantovano affidato all’architetto Luca Beltrami, inaugurato nel 1927, sono presentate ricorrendo a materiali conservati

presso l’Accademia Virgiliana di Mantova: i bozzetti in gesso di Giuseppe Menozzi per i gruppi marmorei destinati a fiancheggiare il monumento del poeta e un bronzetto dello stesso Menozzi (recentissimamente acquisito dall’Accademia mantovana) con un omaggio al Virgilio di Emilio Quadrelli; una

«Virgilio. Volti e immagini del poeta» Mantova, Palazzo Te fino all’8 gennaio 2012 Orario lu, 13,00-18,00; ma-do, 9,00-18,00 Info tel. 0376 323266: www.centropalazzote.it Prenotazioni tel. 199 199 111 (lu-ve, 9,00–18,00)

I giganti di Mont’e Prama aperta fino al 30 dicembre la mostra «La pietra e gli eroi. Le sculture restaurate di Mont’e Prama», alleÈ stita a Sassari, nella Galleria espositiva del Centro di

Restauro e Documentazione della Soprintendenza per i Beni Archeologici. Come esplicita il sottotitolo, si tratta di un’esposizione sul restauro delle sculture in pietra rinvenute a Mont’e Prama in territorio di Cabras (Oristano), ma è anche la mostra di un complesso scultoreo presentato per la prima volta nella sua completezza e che costituisce un ulteriore significativo aspetto della produzione materiale della civiltà nuragica: sculture a tutto tondo che rappresentano la figura umana, spesso in dimensioni superiori al vero, e che ripropongono iconografie già note dai ben piú famosi «bronzetti». Le sculture, che trovano al momento pochi confronti in altri contesti della Sardegna per quanto riguarda la rappresentazione della figura umana, si impongono per singolarità, quantità, qualità tecnica e sottintendono un grande sforzo di una comunità locale. Seppure è ancora incerta la loro datazione precisa nell’ambito della civiltà nuragica, certamente esse costituiscono al momento l’unico grande complesso scultoreo realizzato in ambito protostorico in Italia e nel Mediterraneo centro-occidentale. 24 a r c h e o

La distribuzione delle sculture in mostra, libere da legami con una neanche ipotizzabile ricostruzione della collocazione originaria, parte nel percorso espositivo con frammenti di statue e di modelli di nuraghe e procede in un crescendo, fino alle unità piú integre, in un alternarsi fra statue e modelli di nuraghe. Il percorso delle sculture si chiude con una sintesi tipologica significativa: il modello di nuraghe quadrilobato con la torre centrale svettante e le torri laterali, il guerriero piú rappresentativo, l’arciere con l’arco imbracciato con la sinistra e i due pugilatori con gli scudi. L’ingresso alla mostra, gratuito, è possibile previa prenotazione al numero verde 800 148 776. Alle sculture di Mont’e Prama «Archeo» dedicherà un ampio servizio nel numero di gennaio.



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musei Lazio

Le tre età di Veio di Iefke van Kampen

stata inaugurata, dopo un lungo restauro, una parte del Palazzo È Chigi di Formello (Roma): il piano

terra, con il cortile rinascimentale e la torre di avvistamento, ora «ricreata» da Andrea Bruno con una struttura in legno e vetro, che si ispira all’originaria funzione difensiva della struttura duecentesca e offre una visione sul territorio in chiave anche turistica. L’inaugurazione degli spazi è stata accompagnata dall’allestimento della mostra Il Museo dell’Agro Veientano a Palazzo Chigi: il museo del territorio, pensata come un «biglietto da visita» dell’esposizione permanente che occuperà il primo piano del Palazzo, con sale che verranno inaugurate in tappe successive. Nella biglietteria-bookshop al piano terra trovano spazio vetrine dedicate agli scavi effettuati all’interno di Palazzo Chigi e in

piazza San Lorenzo, su cui l’edificio si affaccia. Grazie ai materiali e ai pannelli esplicativi si illustra la nascita di Formello. La successiva Sala dell’Agro Veientano contiene un grande tavolo multimediale e alcune teche con materiali che «rappresentano» le tre epoche piú importanti raccontate nel museo: quella etrusca, quella romana e quella postantica. Sono esposte ceramiche etrusche dal Tumulo di Monte Aguzzo e dalla Collezione Chigi; uno splendido rilievo di età romana con Mitra che uccide il toro, testimonianza di un mitreo veiente e frutto di un recupero della Guardia di Finanza del 2009; nonché una scelta dell’ampia raccolta di maioliche rinascimentali recuperate nel centro storico. La torre-monumento viene intesa come vera «sala espositiva» in verticale, con un percorso che costituisce un viaggio nel tempo, illustrato da pezzi chiave, installa-

In alto: Formello (Roma). Il cortile di Palazzo Chigi, sede del Museo dell’Agro Veientano. A destra: testa femminile in terracotta da Veio, provenienza ignota.

zioni multimediali ed effetti sonori. Contestualmente, all’interno del percorso museale è inserito il cortile, che ospita frammenti lapidei provenienti dal territorio, dall’età

Il ritorno della mummia nera opo un’assenza protrattasi per oltre quindici anni, la mummia nera torna al Museo Civico ArcheoD logico di Bologna. Ospite corteggiatissima del vecchio

di Luigi Ferdinando Marsili. Anche il celeberrimo storico dell’arte e archeologo Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) la vede, ne rimane colpito ed è allestimento, dopo avere affascinato – ma anche spa- tra i primi a descriverla. Nella sua opera Storia dell’Arventato – generazioni di studenti, la mummia fu esclu- te dell’Antichità, pubblicata a Dresda nel 1764 e subito sa dal nuovo allestimento della Sezione Egiziana per divenuta testo di riferimento per il neoclassicismo eumotivi di opportunità: molti giovani visitatori ne erano ropeo, Winckelmann usa la mummia bolognese quale esempio ideale per descrivere la «fisionomia» degli infatti profondamente turbati. La storia della mummia nera – vestigia di un uomo antichi Egizi, da lui non molto apprezzata. Stabilendo imponente avvolto in bende di lino quasi del tutto un legame diretto tra lo stile artistico e la ‘fisionomia’ nascoste da uno scuro strato di resina – comincia in degli abitanti del Paese del Nilo, di cui le maschere Egitto, in epoca tarda, e funerarie e le mummie rappresentano le piú evidenti continua a Bologna, dove testimonianze, lo studioso afferma l’inferiorità dell’arpapa Benedetto XIV la te faraonica rispetto a quella classica. Sopravvissuta alla fine dell’Istituto delle Scienze, che donò, nel XVIII secolo, all’Istituto delle Scienze diventa Regio Museo dell’Università nel 1810, nel 1881 la mummia nera è trasferita a Palazzo Galvani nella sezione egiziana del Museo Civico di Bologna. Qui continua a catalizzare l’attenzione dei visitatori per oltre un secolo, sino al 1994, quando viene spostata nei magazzini, perché considerata di impatto emotivo troppo forte per il numeroso pubblico scolare che visita il Museo. (red.)


etrusca a quella paleocristiana. Un’ultima novità è la sala intitolata a John Ward-Perkins, storico esponente della British School at Rome, protagonista di ricognizioni e studi sull’agro veientano. Situata al primo piano, essa è dedicata appunto alla ricerca sul territorio e, in particolare, all’esposizione temporanea di reperti recuperati grazie alle indagini piú recenti. Per l’occasione, vengono presentati alcuni importanti ritrovamenti legati alla tematica del culto per gli antenati a Veio, databili tra la fine dell’VIII e la fine del V secolo a.C. Sono esposti alcuni pezzi eccezionali, come la scultura in tufo di un personaggio seduto in trono con poggiapiedi, proveniente da Veio-Picazzano, simile a quelle della Tomba delle Statue a Ceri, testimonianze della primissima scultura monumentale eseguita su suolo etrusco.

Di straordinaria importanza è poi il gruppo scultoreo in terracotta venuto alla luce in località Piazza d’Armi. Probabilmente da interpretare come decorazione architettonica di un edificio abitativo con valenza sacra, esso raffigura

un cane e il suo «signore» a grandezza quasi del vero, databile intorno al 575 a.C. Una statua fittile proveniente da Campetti Sud (il santuario) è stata recentemente collegata da Giovanni Colonna al gruppo di Enea, Anchise e i sacra di Troia e datata nei primi tre decenni del V secolo a.C. Il tema torna nelle statuette votive plasmate a stampa di Enea e Anchise, di cui si espone un esemplare proveniente da Campetti Nord (la stipe votiva), databile ancora nella seconda metà del V secolo a.C. Dove e quando Museo dell’Agro Veientano Piazza San Lorenzo, 7 Formello (Roma) Orario martedí, 15,00-19,00, mercoledí, venerdí e domenica, 9,00-13,00, sabato, 10,00-18,00 Info tel. 06 90194.240 o 239; fax 06 9089577; e-mail: museo@comunediformello.it

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Calendario Italia Roma

Nerone

Colosseo, Foro Romano, Criptoportico neroniano e Museo Palatino fino al 15.01.12

Politica e leader nel Lazio ai tempi di Enea Museo Nazionale Preistorico Etnografico «Luigi Pigorini» fino al 15.01.12

Il Vello d’oro

Antichi tesori della Georgia Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano fino al 05.02.12

a Oriente

Città, uomini e dèi sulle Vie della Seta Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano fino al 26.02.12 roma

chiusi

Museo Etrusco di Chiusi + 110

Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12 milano

Nutrire il corpo e lo spirito Il significato simbolico del cibo nel mondo antico Museo Archeologico fino al 31.12.11

Chiusi. L’edificio in stile neoclassico che ospita il Museo Nazionale Etrusco.

Montefiore Conca (Rn)

Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12 otricoli

Cose mai viste

Lo splendore di Ocriculum esce dai Magazzini Casale S. Fulgenzio fino al 31.05.12 perugia E gubbio

Screhto est

I Borghese e l’Antico I piú importanti capolavori dell’arte antica appartenuti alla Collezione Borghese, oggi nucleo essenziale della raccolta di antichità del Museo del Louvre di Parigi, tornano nella loro sede originale. Si possono ammirare, fra gli altri, l’immenso Vaso Borghese, con scene dionisiache, del 30 a.C, l’Ermafrodito restaurato da un giovanissimo Bernini, il Sileno con Bacco fanciullo, le Tre Grazie, le Quattro Sfingi, e la celeberrima e discussa scultura policroma del Seneca morente, che mai prima d’ora avevano lasciato il museo parigino. Ogni scultura è collocata nella sala che ne celebrava l’importanza, secondo i criteri ricostruibili per i diversi allestimenti. È dove e quando stata cosí ricreata, per la prima volta, anche quella Galleria Borghese unità tematica, oggi solo fino al 09.04.12 intuibile, data Orario ma-do, 9,00-19,00 dall’accostamento di opere Info www.mondomostre.it pittoriche e scultoree.

Lingua e scrittura degli antichi Umbri Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria (Perugia) Palazzo dei Consoli (Gubbio) fino all’08.01.12 piacenza

Abitavano fuori porta

Gente della Piacenza romana Museo Archeologico fino al 31.12.11 scansano (GR)

La valle del vino etrusco

Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11 trento

Etruschi in Europa bolzano

Ötzi20

Mostra per il ventennale del ritrovamento dell’Uomo del Similaun Museo Archeologico dell’Alto Adige fino al 15.01.12

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Museo delle Scienze fino al 09.01.12 treviso

Manciú, l’ultimo imperatore Casa dei Carraresi fino al 15.05.12

Particolare di una delle pitture parietali della Tomba degli Auguri di Tarquinia.


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

venezia

Venezia e l’Egitto Palazzo Ducale fino all’01.01.12

Francia Parigi

Al tempo del regno di Alessandro Magno La Macedonia antica Musée du Louvre fino al 16.01.12

Pompéi, un art de vivre Musée Maillol fino al 12.02.12

I Galli

Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12 strasburgo

Strasburgo-Argentorate

Un campo legionario sul Reno (I-IV secolo d.C.) Musée archéologique fino al 31.12.11

Germania monaco

La guerra di Troia

200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12

Paesi Bassi amsterdam e leida

Gli Etruschi

Allard Pierson Museum (Amsterdam) e Rijksmuseum van Oudheden (Leiden) fino al 18.03.12

Svizzera basilea

Sesso, droga e musica

L’ebbrezza e l’estasi nell’antichità Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 29.01.12 Hauterive

L’era del falso

Quando le contraffazioni svelano i sogni e le speranze degli archeologi Laténium, Espace Paul Vouga fino all’08.01.12

L’immagine guida elaborata per la mostra di Basilea.

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L’archeologia nella stampa internazionale a cura di Andreas M. Steiner

L’oro di Verghina

C

on un grande volto d’oro di Medusa in copertina il bimestrale inglese Current World Archaeology celebra il suo cinquantesimo numero. Il reperto fa parte di una delle piú sensazionali scoperte dell’archeologia greca del secolo scorso, quella avvenuta l’8 novembre del 1977, quando Manolis Andronikos individuò, sotto un grande tumulo presso la cittadina di Verghina (Macedonia centrale), alcune tombe reali, tra cui quella, perfet-

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tamente intatta, attribuita a Filippo II, padre di Alessandro Magno. A quei fortunati momenti la rivista dedica un’ampia rievocazione: i primi scavi del tumulo, la scoperta dell’entrata alla tomba, la rimozione di alcune pietre della volta in maniera tale da poter penetrare al suo interno dall’alto; infine, la scoperta del sarcofago marmoreo (in una delle due camere funerarie portate alla luce) contenente lo scrigno in oro con, al suo interno, i resti del celebre re. Nello stesso numero, la rivista inglese presenta il nuovo Museo di Verghina che, con un allestimento spettacolare (è interamente nascosto sotto un grande tumulo ricostruito nei presi di quello originale), presenta i preziosissimi reperti emersi dalle tombe macedoni scavate da Andronikos. A destra: statuetta bronzea di divinità orientale. Francoforte, Liebighaus. In basso: scrigno in oro, dalla tomba di Filippo II a Verghina. Verghina, Museo del Grande Tumulo.

Cosí vestivano i Nabatei

È

quasi una monografia dedicata al piú celebre complesso archeologico del Vicino Oriente – quello di Petra, in Giordania – l’ultimo numero del bimestrale tedesco Antike Welt. Il sito nabateo, con le sue spettacolari tombe scavate nella roccia dal color rosato, viene esaminato con particolare attenzione rivolta a un aspetto propriamente «ecologico»: è possibile, si chiede in un intervento l’archeologo Robert Wenning, «imparare» dai costruttori di Petra, veri maestri nell’arte di adattarsi alle difficili condizioni ambientali in cui operarono? Particolarmente curioso, poi, un esempio di archeologia sperimentale documentato dalla rivista: quello delle modalità con cui veniva indossato un tipico indumento nabateo (vedi nella foto qui sotto), quale appare anche su una statuetta bronzea di una divinità orientale conservata in un museo di Francoforte.



Corrispondenza da Atene

di Valentina Di Napoli

(S)coperto l’altare dei Dodici dèi Uno scoop solo presunto riporta alla ribalta il confronto/scontro tra la Atene moderna e il suo patrimonio archeologico. Che questa volta si è consumato nell’area dell’agorà, per secoli cuore pulsante della città antica Atene, agorà. I resti del recinto dell’altare dei Dodici dèi, segnalati da un moderno blocco di marmo. Il monumento fu realizzato nel 522/21 a.C. per volere di Pisistrato, figlio di Ippia.

a notizia era stata lanciata, qualche mese fa, da molte L agenzie: «Scoperto l’altare dei

vita politica, economica, ma anche religiosa della città antica, affrontando espropri e acquisizioni di terreni, Dodici dèi, nell’agorà di Atene»... Frugo affannosamente nei ricordi e sostenuti da capitali racimolati grazie mi sembra proprio che all’interesse di illuminati quell’angolo di blocchi di calcare, celato all’ombra degli alberi, giusto mecenati. al limite settentrionale del sito archeologico, sia ciò che resta La prima metropolitana dell’altare dei Dodici dèi. La realizzazione della prima Oppure la mia memoria mi sta linea metropolitana di Atene, ingannando? Gli scavi nell’agorà che risale al lontano 1891 e che di Atene sono affidati, dal 1931, corre proprio lungo il lato alle cure della American School settentrionale dell’agorà, of Classical Studies at Athens. secandola tra le pendici della Generazioni di archeologi hanno collinetta del tempio di Efesto e riportato alla luce, e ancor oggi la Stoà Pecile, aveva già continuano a farlo, il cuore della individuato alcuni blocchi

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pertinenti a un apprestamento, scavato poi nel 1934 e nel 1946; ma non era ancora chiaro di quale monumento si trattasse, e solo grazie a una fortunata circostanza si poté finalmente sciogliere il mistero. Infatti, nel corso di sondaggi effettuati presso i binari della linea metropolitana, fu riportata alla luce la base di una statua votiva di bronzo che recava l’eloquente iscrizione: «Leagro, figlio di Glaukon, dedicò ai Dodici dèi»: fu cosí chiaro che quel recinto di blocchi di calcare era per l’appunto l’altare dei Dodici dèi, presso il quale Leagro aveva fatto erigere il suo dono votivo. Dunque la mia memoria non mi stava giocando uno scherzo: l’altare dei Dodici dèi è già stato scoperto! E si tratta, per giunta, di uno dei monumenti piú significativi dell’Atene antica. Un semplice recinto di blocchi di calcare, eretto nel 522/21 a.C. per volere di Pisistrato, figlio di Ippia e

GRECIA

Mare Egeo

Atene

Mar Ionio

nipote dell’omonimo tiranno; blocchi destinati a sorreggere un basso parapetto che circondava l’altare dei Dodici dèi. Incolumità per i supplici Un apprestamento dall’aspetto essenziale, ma dal valore simbolico altissimo: era, infatti, il centro della città antica, una specie di «ombelico» di Atene. Presso questo altare si rifugiavano i supplici, divenendo inviolabili, come avvenne nel caso degli ambasciatori di Platea, giunti ad Atene nel 519 a.C. per implorare aiuto contro la città di Tebe, che cercava di estendere il suo dominio all’intera Beozia. Da questo punto, dal cuore di Atene, si misuravano tutte le distanze, come dimostra un raro miliario greco,

Disegno ricostruttivo dell’agorà di Atene intorno al II sec. d.C., con, in evidenza, l’ubicazione dell’altare dei Dodici dèi.

databile attorno al 400 a.C., che reca l’iscrizione: «La città mi ha eretto, monumento veritiero, per indicare a tutti i mortali la lunghezza del loro viaggio; la distanza dal porto fino all’altare dei Dodici dèi è di 45 stadi». Se allora l’altare è stato già individuato da tempo, perché tanto rumore? C’era da aspettarselo: lavori di rifacimento della linea metropolitana hanno incrociato la parte restante del monumento, quella rimasta fuori dal sito archeologico già piú di un secolo fa, e, con grande indignazione da parte di archeologi e società civile, si è deciso di ricoprirla. Le proposte di trasferire l’altare o sopraelevare i binari non sono state vagliate; e la decisione del Consiglio Archeologico Centrale, di bloccare i lavori, anche per prendere tempo e non esacerbare ulteriormente gli animi, è stata infine annullata da una sentenza del tribunale dello scorso settembre, che ha stabilito si debba ricoprire la parte dell’altare posta all’esterno del sito archeologico, esposta a probabili atti di vandalismo. Da polis a metropoli Scavare nel centro di una città complessa come Atene significa anche scontrarsi (o incontrarsi?) con le esigenze quotidiane di quella che ormai è una metropoli, che oggi conta oltre 6 milioni di abitanti; esigenze che includono il giusto risentimento di chi ha dovuto attendere mesi prima che tornasse a funzionare regolarmente un servizio pubblico. E, senza programmazione, senza un lavoro di concerto tra tecnici e archeologi, non si può arrivare a soluzioni condivise e sostenibili. Ancora una volta, Atene si è confrontata con se stessa, senza però riuscire, in questo caso, a conciliare le esigenze di sviluppo infrastrutturale con la tutela e la valorizzazione del proprio passato.

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scavi ABU TBEIRAH

di Franco D’Agostino

Sulle colline di

Un progetto di ricerca italo-iracheno si appresta a esplorare una vasta area archeologica a poca distanza dalla celebre ziqqurat di Ur e dalla città di Nassiriyah. Il sito si chiama Abu Tbeirah, non è stato mai scavato prima ed è miracolosamente scampato ai saccheggi verificatisi in gran parte dei siti dell’Iraq dopo la Seconda Guerra del Golfo. Parte da qui il primo passo verso la salvaguardia e la riqualificazione di una terra dalla memoria antichissima…

U

sciamo dalla base aerea statunitense di Camp Adder, a Tallil, Iraq meridionale, nel primo pomeriggio: nonostante sia la fine di settembre, la temperatura sfiora i 40 gradi all’ombra (che diventano quasi 50 al sole). Siamo vestiti come di consueto in questa infelice stagione della storia di questo Paese: giubbotto anti-proiettile ed elmetto, con

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l’aggiunta di qualche indicazione di comportamento impartitaci dai militari che ci accompagnano «nel caso dovesse succedere qualcosa». L’hanno fatto col sorriso e dando l’impressione di ottemperare piuttosto a un atto dovuto, e questo ha tranquillizzato subito me e i miei compagni di viaggio, il mio collega Lorenzo Verderame e il mio allievo Sergio Alivernini.

Tuttavia, mentre andiamo, la sensazione, per noi civili, è assolutamente inedita: la macchina su cui ci troviamo è blindata e nell’abitacolo, a causa del non perfetto sistema di aria condizionata, fa un caldo asfissiante. Due camionette della polizia irachena, davanti e dietro di noi, completano il corteo: armate di tutto punto, una decina di giovani reclute della neonata polizia della


ABRAMO A destra: la figura del patriarca Abramo, particolare di un dipinto di Jรณzsef von Molnรกr. 1850. Budapest, Magyar Nemzeti Galeria. Sulle due pagine: il sito di Abu Tbeirah, nella provincia di Dhi Qar (Iraq meridionale).

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scavi ABU TBEIRAH Mar Caspio

Tu rc c hi hia Ku rd is ta n

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Ur

Abu Tbeirah Basssora Bas Bass ora ra

Ar a bi b a Saudita N 0

200 Km

In alto: carta dell’Iraq con la localizzazione del sito di Abu Tbeirah. In alto, al centro: bambini di una famiglia beduina che vive nell’area del sito di Abu Tbeirah. In alto, a destra: alcuni frammenti ceramici rinvenuti sulla superficie del tell utilizzati per la datazione del sito. In basso, sulle due pagine: veduta del settore nord-orientale del tell, con una collina artificiale sullo sfondo.

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Kuwait

Golfo Persico/ Golfo Arabico

Repubblica dell’Iraq ci scortano su due pick-up aperti. In realtà, già arrivare alla base di Camp Adder, costruita dai Russi negli anni Settanta e ora occupata dalle truppe americane, che dista pochi chilometri da Nassiriyah, ha messo a dura prova la nostra resistenza. Giunti a Kuwait City, siamo infatti andati direttamente all’aeroporto militare di Ali as-Salim: qui siamo stati privati dei passaporti, sui quali occorre cancellare i visti appena ottenuti (formalmente, ci troviamo in

territorio USA), operazione che ha richiesto 12 ore; quando, finalmente, i documenti ci sono stati resi, ci siamo messi in fila per ottenere un posto su un volo militare per Tallil. Il tutto, in circa 40 ore… A Tallil siamo ospiti del Provincial Reconstruction Team, guidato energicamente dall’italiana Anna Prouse, che ha il compito di cooperare con le autorità locali per la ricostruzione civile del Paese: senza l’entusiastico aiuto di Anna sarebbe stato impossibile non


soltanto raggiungere questa zona dell’Iraq, ma anche organizzare il viaggio stesso. Appena fuori Camp Adder, la massa scura, enorme anche in lontananza, della maestosa ziqqurat costruita dal sovrano Ur-Namma nel XXI secolo a.C., a protezione della sua città di Ur, si impone subito allo sguardo: nella vasta piana alluvionale che si estende senza soluzione di continuità da Baghdad fino al Golfo, la sua massa gigantesca, ancora oggi alta piú di 20

m, domina incontrastata sulla base di Aghar Quf vicino Baghdad e di aerea e su tutta la zona, come una Borsippa, è una delle meglio consentinella sonnolenta e silenziosa. servate di tutta la Mesopotamia, anche grazie al restauro intelligente condotto negli anni Sessanta del Per il dio della Luna La ziqqurat è parte di un tempio Novecento dal grande archeologo mesopotamico, una torre a piani iracheno Taha Baqer. sovrapposti alla cui sommità viveva A guardare oggi il deserto riarso il dio cittadino: quella di Ur-Nam- che circonda il tempio e i pochi ma è dedicata al dio della Luna, resti visibili della città, che fu scavata in sumerico Nannar, dio poliade da Sir Leonard Woolley tra il 1920 (protettore della città, n.d.r.) di Ur, e il 1932, è difficile immaginare la e veniva chiamata «Il tempio in cui ricchezza straordinaria dei comnon entra la luce». Assieme a quelle merci e delle attività economiche, culturali e religiose che caratterizzarono la storia di Ur per tutto il III millennio a.C., quando i suoi eserciti conquistarono, proprio sotto Ur-Namma, suo figlio Shulgi e i suoi successori, tra il 2114 e il 2004 a.C., tutta la Mesopotamia meridionale e gran parte di quella settentrionale. Oggi la zona degli scavi, che all’epoca di Saddam Hussein fu inglobata nella base militare, è stata restituita al mondo civile: i primi turisti si sono già avventurati in questi luoghi a visitare i resti dei suoi palazzi e le tombe reali, che risalgono al XXVI secolo a.C., e da dove tesori straordinari dell’arte e della perizia artigianale dei Sumeri sono stati ripora r c h e o 39


scavi ABU TBEIRAH IL PROGETTO «LE COLLINE DI ABRAMO» Nel 1922, in Iraq, Stato formalmente indipendente, ma di fatto protettorato britannico, l’archeologo Charles Leonard Woolley, su incarico del British Museum, inizia l’esplorazione di Tell el-Muqayyar (letteralmente «la collina del bitume»), 360 km a sud-est di Baghdad, sulla riva destra dell’Eufrate. Il sito è stato già da tempo riconosciuto come l’antica città sumerica di Ur, a sua volta identificata con la «Ur dei Caldei» della tradizione biblica, patria del profeta Abramo. Gli scavi di Woolley si concentrano nell’area del cosiddetto temenos, il grande recinto che racchiudeva il cuore religioso e politico di Ur, dominato dalla mole imponente della ziqqurat. Lentamente prendono forma gli antichi monumenti: i templi della ziqqurat, il recinto del dio della Luna, Nannar, protettore della città, la dimora della grande sacerdotessa, il tesoro del santuario. Le profondissime trincee di scavo intercettano una necropoli, in uso tra il 2650 e il 2050 a.C. Vengono aperte 1850 tombe. Sedici di esse, riferibili alla I e III dinastia regnante di Ur (rispettivamente 2600-2450 a.C. e 2113-2006 a.C.), rivelano architetture monumentali, complessi rituali funebri che contemplano la pratica del sacrificio umano e corredi di straordinaria ricchezza. La scoperta fa il giro del mondo. I reperti delle tombe reali, in ossequio alla legge dell’epoca, vengono spartiti su

base paritetica tra il Paese ospite (confluendo nell’Iraq Museum di Baghdad), il British Museum e l’University Museum of Pennsylvania, le due istituzioni straniere che avevano promosso e finanziato la missione archeologica. Nel 1934, dopo dodici anni di intensa attività, lo scavo di Ur viene interrotto per mancanza di fondi, anche se l’esplorazione del sito è ben lontana dall’essere completata. Si calcola che gli scavi di Woolley abbiano interessato solo il 20-30% della reale estensione della città antica. Ur continua a far parlare di sé e ad alimentare la ricerca e il dibattito scientifico attraverso gli straordinari reperti esposti nelle istituzioni museali d’Occidente. Completamente diverso il destino dell’area archeologica, praticamente abbandonata a se stessa. Solo la ziqqurat è oggetto, negli anni Sessanta del secolo scorso, di un importante intervento conservativo. Poi, sulle antiche rovine, cala il silenzio e l’invisibilità: negli ultimi quarant’anni Ur viene inglobata in una base militare, prima irachena e poi statunitense. Questo ha protetto l’area archeologica dalle attività di scavo clandestino, piaga che affligge l’Iraq da piú di un ventennio, ma ha esposto le fragili architetture in mattoni crudi al degrado. Da piú di un anno Ur è stata restituita alla comunità irachena, passo fondamentale per la ripresa degli interventi di tutela e valorizzazione del sito. È in questa direzione che si volge il nascente progetto di cooperazione italo-irachena denominato «Le Colline di Abramo» e promosso dal Consiglio Nazionale delle Ricerche d’intesa con la Task Force Iraq (DGCS-MAE) e con il coinvolgimento dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma. Il nome prescelto – «Colline di Abramo» – evoca memorie di grande suggestione. La scelta non è casuale: si tratta infatti del toponimo con il quale gli abitanti del Dhi-Qar indicano la vasta distesa pianeggiante che circonda l’antica Ur. Il retaggio mitico è qui fortemente percepito. L’impiego del toponimo vuole essere una speranza e un auspicio: in Abramo si riconoscono le tre principali religioni monoteistiche: ebraica, cristiana e islamica. Rendere visibile Ur agli occhi del mondo può contribuire alla ripresa del dialogo, interculturale e interreligioso. L’obiettivo del progetto è ambizioso e lungimirante: attuare misure di salvaguardia fisica dei monumenti di Ur; valorizzare l’area archeologica, ancora oggi dominata dalle ingombranti tracce degli scavi di Leonard Woolley (1922-1934); riqualificare il Museo Archeologico di Nassiriyah, i cui reperti, trasferiti negli anni Novanta presso l’Iraq National Museum di Baghdad, non sono mai stati restituiti; documentare,


attraverso tutti gli strumenti offerti dalle moderne tecnologie, il patrimonio culturale diffuso nel territorio (l’attuale governatorato del Dhi-Qar). Un’impresa biblica, in tutti i sensi: questo lembo di terra – che nell’Antico Testamento è identificato con il Giardino dell’Eden – racchiude una concentrazione di beni culturali a dir poco impressionante: sono 1200 i siti di interesse archeologico attualmente censiti. Documentare queste realtà e renderle fruibili, sia fisicamente che intellettualmente, significa al tempo stesso preservarne la memoria e facilitarne la tutela; significa anche trasformarle nei luoghi in cui sviluppare una percezione del bene culturale come ricchezza della comunità, alla cui sopravvivenza ciascuno può contribuire. La tutela e valorizzazione di questo patrimonio presuppone investimenti di risorse finanziarie, l’acquisizione di tecnologie avanzate e soprattutto la formazione di personale specializzato: archeologi, restauratori, addetti museali, guide turistiche… tutte professionalità che decenni di guerra ed embargo hanno messo duramente alla prova. Il progetto «Le Colline di Abramo» vuole contribuire a creare le competenze scientifiche, sia sul piano culturale che su quello tecnologico, che saranno basilari, in futuro, per un’autonoma ripresa della ricerca e della tutela del patrimonio culturale dell’Iraq. Stefania Berlioz

A sinistra: Ur (Iraq meridionale). Il cantiere di scavo diretto da Leonard Woolley, che lavorò sul sito dal 1922 al 1934. Nella pagina accanto: il copricapo della regina Puabi, dalla tomba della sovrana nel cimitero reale di Ur. 2550 a.C. circa. Philadelphia, University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology. Realizzato in oro, lapislazzuli e corniole, il manufatto è provvisto di una «visiera» decorata da perline, pendenti, elementi in forma di foglia di pioppo e rosette. In basso: lavori sul ganunmah (magazzino del tempio di Nannar a Ur) da parte di restauratori dell’Istituto Centrale del Restauro.

tati alla luce e sono oggi conservati all’Iraq Museum di Baghdad. Proprio qui, a Ur, nacque Abramo, patriarca per la religione ebraicocristiana o profeta per quella musulmana, che da qui partí per il suo lungo viaggio verso l’Eufrate, sino a Harran, e poi oltre, verso la terra di Canaan, come a piú riprese si legge nella Bibbia: «Io sono l’Eterno, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti questo paese, affinché tu lo possegga» (Gen. XV, 7).

La «casa» del patriarca Benché del fatto, a parte il testo biblico, non esista alcuna prova archeologica, è possibile, a qualche centinaio di metri dal tempio, visitare la ricostruzione di una casa di epoca paleo-babilonese (XIX-XVI secolo a.C.), arditamente definita dai cartelli «Casa di Abramo». Di fronte all’edificio, nel corso del sopralluogo, ho visto un terrazzamento che non ricordavo: è l’eliporto fatto costruire in tutta fretta da Saddam quando Giovanni Paolo II aveva espresso il desiderio di venire in Iraq per scongiurare la cosiddetta «Prima Guerra del Golfo». Non gli riuscí, ma il terrazzamento è rimasto. Questo mi ha raccontato sorridente l’amico Daif, guardiano del sito, magro e macilento, dallo sguardo però vivo e intelligente e visceralmente legato a queste rovine: la sua famiglia e lui sono qui da sempre; Daif, infatti, è il nipote del guardiano di Ur all’epoca degli scavi di Woolley, come ama ricordare

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scavi ABU TBEIRAH LE PRIME ATTIVITÀ DI SCAVO La prima missione ufficiale sul tell di Abu Tbeirah avrà inizio nella seconda metà di gennaio e durerà sino a marzo 2012. Si intende portare a termine la ricognizione topografica totale dell’area ed effettuare alcune indagini nel settore sud-orientale del sito. Qui, infatti, dalle foto satellitari sono evidenti le tracce di strutture architettoniche di una certa rilevanza, presumibilmente di natura palatina o templare. Inoltre, al fine di identificare le fasi di vita del sito, verranno condotti alcuni sondaggi lungo una trincea che venne scavata negli anni Settanta dall’esercito iracheno e che attraversa il tell nella sua parte centrale in direzione nord-sud. Parteciperanno allo scavo studenti iracheni di archeologia provenienti da diverse aree del Paese (Kurdistan, Babilonia, Qadisiyyah e altre) che lavoreranno a stretto contatto con gli archeologi, i topografi e i filologi italiani. Per maggiori informazioni e contatti con l’autore dell’articolo, rivolgersi a: franco.dagostino@gmail.com, franco.dagostino@uniroma1.it.

con orgoglio. Parla inglese, che ha imparato dalla televisione e leggendo libri di archeologia: quando viene qualche raro visitatore, Daif prende il suo enorme faldone pieno di foto e mappe e, per pochi dollari, lo guida tranquillo sulla ziqqurat, poi a visitare il Gipar, un tempietto in cui è possibile ancora oggi ammirare il piú antico arco della storia dell’architettura del mondo, quindi, passato il palazzo di Shulgi, lo fa scendere a visitare le tombe reali, dove tutta la corte venne sepolta assieme al suo sovrano. Ma adesso la mia mente è distratta

da altro. La meta della nostra spedizione è il sito di Abu Tbeirah: un insediamento mai scavato, con pochissime tracce del saccheggio che ha caratterizzato gran parte dei siti archeologici dell’Iraq tra il 2003 e il 2007. È un tell (insediamento pluristratificato, n.d.r.) per il quale, in codirezione con il mio referente iracheno, il soprintendente Abdulamir Al-Hamdani, ho «miracolosamente» ottenuto un permesso di scavo. Si tratta, infatti, del primo permesso di scavo congiunto che la nuova Repubblica dell’Iraq attribuisce a un Paese

straniero nell’Iraq meridionale, e penso con orgoglio che, in realtà, è anche destinato a essere il primo scavo italiano mai effettuato cosí a sud, nel cuore di quello che un tempo era il territorio sumerico. Gli abitanti di Nassiriyah e della zona si riferiscono a questa area chiamandola «Le colline di Abramo»: sebbene Abramo (Ibrahim in arabo) sia un personaggio molto popolare nel mondo musulmano, quando Abdulamir me lo raccontò, non potei non considerare che tutta la tradizione ebraica pone proprio qui la sua origine.

E l’uomo si fece contadino Questa, inoltre, è l’area in cui, a partire dal 12 000 a.C., l’uomo ha cominciato a selezionare piante e animali; a scavare canali che, nel corso del tempo, hanno permesso una coltura estensiva dell’orzo e di altri cereali e piante; a creare i primi nuclei organizzati con un centro amministrativo di redistribuzione delle risorse; qui, circa 150 chilometri piú a nord, nella città di Uruk, sono apparse le prime tavolette incise con i segni cuneiformi, scrittura che ebbe una vita lunghissima, fino ai primi secoli dell’era cristiana.


A destra: Franco D’Agostino durante la ricognizione topografica condotta nello scorso mese di febbraio. In basso: Gerardo Carante, Ambasciatore italiano in Iraq, durante la sua visita a Ur, accompagnato da Franco D’Agostino. Nella pagina accanto: alcune strutture del sito di Ur, realizzate con mattoni crudi, legati da bitume.

Un tempo questa zona era a ridosso del mare: i due fiumi, il Tigri a est e l’Eufrate a ovest, che oggi confluiscono nello Shatt el-Arab presso Bassora e uniti si gettano nel Golfo, a quel tempo avevano estuari diversi e Ur si trovava a poca distanza dalla riva del mare. Lo stesso vale per Abu Tbeirah, tagliato a metà da uno dei molti canali che solcavano il territorio. Si spiega cosí la grande varietà dei beni di lusso trovati nelle tombe di Ur: il commercio marittimo, meno rischioso in un ambito protetto quale è quello del Golfo (la cui struttura ricorda il Mediterraneo), permetteva l’arrivo di legni e pietre preziose da Meluhha (l’odierna India settentrionale) e rame da Magan (odierno Oman), con il corollario di beni esotici quali uova di struzzo e lavorazioni orafe locali... Finalmente, dopo una quarantina di minuti di lenta processione, seguendo una strada sterrata da cui le nostre auto sollevano ampie nubi di polvere, giungiamo all’incontro con l’amico Abdulamir. Il sito si trova a poca distanza da Nassiriyah, circa 5 km a SO, e sto andando a visitarlo per la prima volta. A prima vista, quasi non ci si accorge di trovarsi su di un terreno archeologico: verso nord si vedono le propaggini di Nassiriyah, da cui giungono rumori sordi portati dal vento, mentre a sud si può seguire con lo sguardo un lungo tratto dell’oleodotto che porta il petrolio verso la città. Piloni dell’elettricità, strutture di metallo all’apparenza altissime nella piana circostante, una delle quali incombe a poche decine di

metri dal sito e in parte minima sembra coprirlo, si perdono in lontananza, seguendo una linea apparentemente irrazionale.

to di quanto sia esteso il sito: non esistono delimitazioni evidenti intorno; una collinetta a nord-ovest è l’unico indizio di una presenza «innaturale» nell’area. Abdulamir mi informa che si tratta di un sito di Sul sito, finalmente! Sono sceso dopo essermi tolto il media grandezza, «come Mashkangiubbotto anti-proiettile: non vo- shapir o Tell Abu Salabikh»: supeglio visitare il sito vestito in quella ra quindi i 50 ettari. Sulla base di maniera (con un po’ di riluttan- alcune foto aeree che la collega za, i soldati hanno acconsentito). Elizabeth Stone della Stony Brook Abdulamir, sorridendo, mi dice di University di New York ha messo stare attento agli scorpioni, di cui il a nostra disposizione con grande sito abbonda... E poi cominciamo a cortesia, si è potuta evidenziare la presenza di strutture murarie delicamminare sul tell. A prima vista, non ci si rende con- mitanti verosimilmente un palazzo, a r c h e o 43


scavi ABU TBEIRAH L’ingresso a una delle tombe del Cimitero Reale di Ur.

un cimitero, un porto sul canale che divideva in due la città antica, e un tempio (assieme ad Abdulamir AlHamdani, ho chiesto alla collega, che ha a lungo scavato in quest’area, di essere nostra consulente scientifica per lo scavo). Stando sul posto, però, tutto quello che sembrava chiaro dalla foto aerea risulta assai difficile da ricostruire. La prima cosa da appurare, anche se in modo ancora approssimativo, è la forbice temporale in cui collocare la frequentazione del sito. Per farlo, occorre raccogliere frammenti di ceramica in superficie, cosí da poter disporre di «fossili guida» che possano aiutarci a datare l’insediamento: dopo una ventina di minuti ne abbiamo raccolto un centinaio. Come ci aspettavamo, il sito sembra iniziare la sua storia all’epoca di Jemdet Nasr (2900 a.C. circa), mentre è possibile datare i mate44 a r c h e o

riali piú recenti all’epoca paleobabilonese (1800 a.C. circa). L’occupazione di Abu Tbeirah copre quindi l’intera storia sumerica del III millennio e, cosa piú interessante per noi, sopravvive all’avvento della dinastia amorrea (cioè siriana) che si insediò in Mesopotamia dopo la caduta del regno di Ur e il cui sovrano piú significativo è senza dubbio Hammurabi.

Ritorno alla normalità Abdulamir è felice ed eccitato: sono ormai molti decenni che non si apre un nuovo scavo nella provincia di Dhi Qar, di cui è soprintendente, e l’idea di poter iniziare un’attività archeologica regolare sul territorio appare come una spia della possibilità di uscire dall’emergenza postbellica ed entrare finalmente in un nuovo periodo di pace e proficuo lavoro. D’altro canto, proprio questa

speranza ci ha spinto a cominciare questa avventura. Mi dice che l’aspetto che piú di ogni altro vorrebbe indagare grazie agli scavi futuri riguarda essenzialmente informazioni sulla fauna e la flora dell’area, un dato quasi totalmente assente nelle conoscenze sull’Iraq meridionale. Ne sono entusiasta: in qualità di filologo e sumerologo, so quale massa di dati sia possibile ricavare in proposito dalle migliaia e migliaia di tavolette di argilla che da questa zona sono note oggi (ne sono edite oltre 90 000 e piú del doppio sono conservate nei magazzini dei musei e nelle collezioni di tutto il mondo, senza parlare di quelle che negli ultimi anni sono state scavate illegalmente e vendute in Occidente…). Dopo un paio d’ore i soldati mi comunicano che sarebbe bene rientrare. Il tempo è volato, tra discussioni e ipotesi, racconti delle lunghe prospezioni solitarie, su questa zona, da parte di Abdulamir e progetti di sviluppo delle attività archeologiche nel Dhi Qar. Torniamo indietro dopo esserci accomiatati da Abdulamir, che mi ha abbracciato e ringraziato. Ne sono rimasto commosso: sono io che devo ringraziare lui per l’opportunità che sta dando a me e ai miei collaboratori e allievi, gli dico. Mentre ripercorriamo la stessa strada dell’andata, Lorenzo e Sergio parlano di quello che abbiamo visto e delle prospettive future: il progetto c’è, il supporto locale è saldo, l’entusiasmo è alle stelle… Io, però, penso ad altro. So che ora inizia un lungo periodo di ricerca di fondi, di richieste di finanziamento a istituzioni pubbliche e private, che appaiono sovente, piú che distratte, sorde o disinteressate. Ma la storia che si cela sotto le Colline di Abramo, la meravigliosa opportunità di indagare la sua straordinaria parabola millenaria, fanno apparire leggeri quegli sforzi futuri e, mi piace pensare, sicuramente coronati dal successo…



mostre tesori della georgia

di Tiziana D’Acchille

Georgia

oro

Terra dell’

Una mostra ai Mercati di Traiano di Roma espone, per la prima volta in Italia, i tesori emersi dagli scavi archeologici nell’antica terra dei regni di Colchide e di Iberia. Un’occasione straordinaria per confrontarsi con le testimonianze di un mondo leggendario, posto tra Oriente e Occidente, la cui arte conobbe ed elaborò l’influenza di numerose civiltà, quali gli Ittiti, i Persiani e i popoli nomadi delle steppe eurasiatiche

T

erra di mezzo tra Oriente e Occidente, la Georgia (nella lingua originale Sakartvelo), compresa tra le rive del Mar Nero, il Caucaso e l’Asia Minore, è stata da tempo immemore attraversata dalle antichissime tratte viarie provenienti dall’Estremo Oriente e abitata densamente sin dalla preistoria. Durante il I millennio a.C. la Georgia era già famosa per la produzione dell’oro, del bronzo, del vino e del lino, la cui importazione nei Paesi vicini iniziò attraverso le prime vie di commercio, confluite poi nella Via della Seta, la grande strada battuta da carovane di migranti e commercianti che collegava gli Stati occidentali al Medio Oriente, alla Mongolia e alla Cina. Le prime tracce di tessuti di lino lavorati e tinti appartengono alla Georgia preistorica, cosí come sembra ormai accertato che l’arte della vinificazione sia nata a valle del Caucaso. La Via della Seta divenne un tracciato im-

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portante dal III secolo a.C., e la sua esistenza consentí scambi fondamentali per la storia della cultura mondiale nelle sue diverse declinazioni: artistiche, linguistiche, etnografiche. Il commercio dei tessuti, delle pietre preziose e semipreziose, delle spezie, dei metalli, si articolò lungo due principali percorsi, dei quali il settentrionale attraversava direttamente la Georgia. La cultura e l’arte del Paese sono dunque un riflesso della sua posizione geografica.

L’influenza dei nomadi La Georgia, infatti, in virtú della vicinanza alla grande catena montuosa del Caucaso, risentí fortemente dell’influenza, anche e specialmente, dei popoli nomadi delle steppe eurasiatiche sin dal II millennio a.C., popoli che in parte assunsero carattere stanziale proprio nel flor ido ter r itor io georgiano.

A destra: Giasone conquista il Vello d’Oro; sulla destra, la poppa della nave Argo che ha condotto l’eroe, insieme ai suoi compagni, in Colchide, particolare da un cratere a figure rosse, attribuito al Pittore del Frutteto. 470-460 a.C. circa. New York, Metropolitan Museum of Art. Ove non altrimenti indicato, tutti gli oggetti illustrati sono esposti nella mostra «Il Vello d’oro» allestita nei Mercati di Traiano di Roma.


Dall’alto in senso orario: collana in oro con pendenti a uccello e vaghi (particolare), dalla tomba n. 6 di Vani, nell’area centrale della Georgia occidentale. Inizi del IV sec. a.C.

In alto: estremitĂ di un bracciale in oro, con terminazioni a forma di cinghiale, dalla tomba n. 11 di Vani. V sec. a.C. A sinistra: applicazioni in oro, dal Tesoro di Akhalgori, in Ossezia del Sud, nel Caucaso. IV sec. a.C.

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mostre tesori della georgia

A sinistra: l’area occupata dalla Colchide, antica regione nella Georgia occidentale. In alto: pendente di collana in oro lavorato a filigrana e granulazione e pietre preziose, da Armaziskhevi. II sec. d.C.

il vello d’oro Che cos’era, in realtà, il vello d’oro? Il mito sembra raccontare un aspetto poco reale, che ha trovato nel tempo una serie di giustificazioni razionali come, per esempio, quella di un metodo per la raccolta dell’oro. Si dice che fino ai primi anni del Novecento fosse in uso presso la regione dello Svaneti di raccogliere le pepite e le pagliuzze d’oro dalla corrente del fiume Rioni mediante una pelle d’agnello tesa controcorrente. La Georgia, in realtà, essendo uno dei primi luoghi

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dell’antichità a conoscere i segreti della lavorazione dell’oro, potrebbe aver tramandato queste preziose conoscenze dal carattere iniziatico attraverso un libro scritto e una fonte tardo-antica indica il vello d’oro proprio come una pergamena sulla quale erano trascritte le regole per l’estrazione e la lavorazione dell’oro. Si spiegherebbe cosí il grande valore di un oggetto simile, capace di donare al suo proprietario potere e ricchezza.


Dalla prima metà del II millennio a.C. si assiste alla formazione di due grandi raggruppamenti tribali, corrispondenti a due diversi ambiti culturali, stanziatisi, rispettivamente, a est e a ovest. Intorno alla metà del I millennio a.C. queste due unità culturali si identificarono in due distinte entità amministrative: la Colchide, affacciata sulle sponde del Mar Nero, e, piú a est, l’Iberia (in georgiano Kartli). L’Iberia si trova talvolta menzionata nelle fonti antiche come «terra dei Moschi», sebbene quest’ultima definizione si riferisca a un ceppo tribale ben definito, che abitò le colline intorno all’antica capitale, Mtskheta. Sin dalla metà del II millennio a.C. il territorio georgiano è stato oggetto di conquista e colonizzazione da parte prima degli Ittiti e poi degli Achemenidi: i primi provenienti dalle terre dell’Anatolia a ovest (e, secondo alcune teorie, arrivati in Anatolia dalle steppe russe proprio attraverso la Georgia), i secondi dalla Persia. L’espansione degli Sciti dal nord, attraverso i valichi del Caucaso, interessa la Colchide e l’Iberia dal VII secolo a.C. Le prime tribú georgiane nominate nelle scritture assire cuneiformi sono i Colchi e i Moschi, antenati questi ultimi dei Meschi, insediati

nel territorio dell’attuale Georgia dell’est intorno a Tbilisi. I Moschi si trovarono in conflitto con gli Assiri a metà del II millennio a.C. Le fonti riferiscono di una particolare bellicosità di queste tribú georgiane, che con difficoltà furono sconfitte, nonostante l’inferiorità di mezzi e di uomini, prima dagli Assiri e poi dagli Urartei. Troviamo tracce dei Meschi nella toponomastica dell’Iberia e nel nome della sua capitale storica, Mtskheta. Procopio di Cesarea, storico del VI secolo d.C., descrive i Moschi come abitanti delle colline e delle montagne dell’Iberia, capaci agricoltori e specializzati nella coltivazione della vite.

«Ricchi e potenti» Dalla seconda metà del II millennio a. C. il gruppo tribale dei Colchi, stanziato invece nel territorio occidentale affacciato sul Mar Nero e protratto a sud verso l’Anatolia, affermò la propria supremazia sulle restanti tribú e fu descritto dalle tavole cuneiformi urartee come «ricco e potente». Il regno dei Colchi (Cilkhi) fu chiamato Qulha dagli abitanti locali e Colchide dai Greci. La comparsa della Colchide nelle fonti greche coincide con il periodo di maggiore sviluppo di questa

Sarcofago in marmo con scene dal mito della conquista del Vello d’Oro, da Napoli. IV sec. a.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. L’altorilievo raffigura la prima delle prove imposte da Eeta, re della Colchide, a Giasone, per la conquista del Vello d’Oro: l’eroe aggioga due tori dagli zoccoli di bronzo, che sputano fuoco dalle narici, con l’aiuto di Medea (raffigurata sulla destra del rilievo), figlia del re ed esperta di arti magiche.

civiltà, resa famosa, oltre che da un alto livello della lavorazione del bronzo e delle pietre dure, anche dalla grande quantità di oro presente nelle miniere e nei fiumi. Nell’ VIII secolo a.C. i Cimmeri invadono la Colchide, distruggendone le città. Dal VI secolo in avanti i Greci percorrono il Mar Nero, allora chiamato Ponto Eusino, e stabiliscono i primi insediamenti coloniali con le città di Phasis, Guienos e Dioscuria. I Romani arrivano in Georgia dal I secolo a.C., con le legioni comandate da Gneo Pompeo, che distrugge e pone a ferro e fuoco l’antica capitale, Mtskheta, nel 65 a.C. Con il saccheggio e l’incendio di Mtskheta, l’Iberia subisce una pesante a r c h e o 49


mostre tesori della georgia

Dalla metà del II millennio a.C. l’antica Georgia fu conquistata e colonizzata dagli Ittiti e poi dagli Achemenidi A destra: le regioni dell’antica Georgia nel contesto geopolitico dell’Oriente antico. In basso: terminale d’asta in bronzo con figurina itifallica, su tre palchi di corna di uro (bue selvatico), recante un oggetto rituale nella mano sinistra, da Stepantsminda, nel nord-est della Georgia. VI-V sec. a.C.

G r ec ecia

Corno potorio in bronzo, da Bornighele (Meskheti). XV-XIV sec. a.C.

Regn o degl i S c it i C u lltt ur Cu u r a di d i C ob oba an n

Mar Nero

Cauca Kartli Colchide

R egn o degl i I t t i t i

so

Mar Caspio

Urr a U arr ttu u

As s i r i L u ri Lu r i sstt an n

Ba b ilone s i

Mar Mediterraneo

Egit Eg iitt to o Ipotesi ricostruttiva di un forno, alimentato da un mantice, per la fusione del ferro, sulla costa orientale del Mar Nero. In primo piano, una piattaforma di lavoro composta da lastre di pietra. A destra, la sezione del forno fusorio.

IIrr an an


sconfitta, che sarà recuperata pienamente solo un secolo piú tardi, con la definitiva affermazione del grande regno di Kartli. Nella geografia conosciuta dell’occidente l’antica Colchide compare per la prima volta nelle fonti letterarie greche come la «terra del vello d’oro», meta degli Argonauti guidati da Giasone, la «terra di Medea». Secondo Strabone, il vello d’oro non sarebbe altro che una pelle di montone adoperata come setaccio per raccogliere le particelle d’oro presenti nell’acqua dei fiumi della Colchide. E si dice che una pratica simile fosse diffusa tra i contadini della regione di Svaneti fino all’inizio dello scorso secolo (vedi box a p. 48). La questione della localizzazione del centro politico della Colchide è in qualche modo collegata al mito degli Argonauti. Autori bizantini e greco-romani tardo antichi indicano infatti la città di Kutaia, sul fiume Fasi (identificata con la moderna Kutaisi), come la casa di Medea e residenza di Eete. Le testimonianze archeologiche provano che nell’VIII e VII secolo a.C. Kutaisi e i suoi dintorni erano densamente popolati, il che non esclude che proprio questa città sia stata il centro politico della Colchide. La grande quantità di ori trovata

nelle tombe del V e IV secolo a.C. a Vani e Sairkhe è probabilmente la miglior giustificazione dell’epiteto «ricca d’oro», applicato dai Greci a città come Micene, Sardi, Babilonia e, infine, anche alla Colchide. In quasi tutte le opere realizzate sul tema degli Argonauti, specialmente nel periodo tra il VI e il IV secolo a.C., l’elemento della ricchezza d’oro della Colchide è costantemente citato.

Segni di regalità I gioielli e le suppellettili che le antiche sepolture hanno preservato ci restituiscono un quadro di governanti locali che regnavano su piccole comunità stanziali e rendevano omaggio ai funerali dei loro notabili con sfarzosi corredi funerari d’oro, d’argento e di pietre preziose. I bracciali d’oro massiccio che portavano ai polsi e alle braccia erano un segno tangibile di regalità, di uno status sociale superiore. Lo splendore dell’oro è legato al senso di potere che da esso emana. Indossare l’oro equivale a comunicare all’esterno il proprio rango elevato rispetto al resto della società. L’oro è un metallo nobile, incorruttibile, puro. La sua integrità è

A destra: figurina in bronzo raffigurante un cervo, da Ghari, nella regione di Racha, in Georgia. VII sec. a.C.

Collana con vaghi di lamina d’oro decorati, e pendente centrale in agata, dal kurgan n.8 di Trialeti. Inizi del II mill. a.C. Con il termine kurgan si intende un tumulo funerario tipico delle popolazioni nomadi delle steppe centro-asiatiche.

stata da sempre sinonimo d’immortalità, e i gioielli ritrovati nelle tombe georgiane ne dimostrano l’uso frequente in contesti funerari. I paramenti dei sovrani della Colchide erano bordati di placche d’oro, le acconciature tenute insieme da fermagli lavorati a cesello, filigrana e granulazione: orecchini, collane, anelli e bracciali li accompagnavano nel viaggio verso l’aldilà. I sudari erano intessuti di vaghi d’oro e pasta di vetro: occhi apotropaici contro gli sguardi malevoli erano dipinti o incisi sulle perle di vetro. Alti copricapi, berretti frigi e mantelli di feltro erano guarniti da lamine d’oro raffiguranti animali della tradizione leggendaria e del culto religioso: grifoni, anatre selvatiche, aquile, cinghiali e leopardi.Anche i paramenti dei cavalli erano finemente lavorati in oro: persino i bambini molto piccoli e gli schiavi indossavano gioielli, pur piú semplici nella foggia. a r c h e o 51


mostre tesori della georgia Ricostruzione della camera funeraria, in legno, del kurgan n. 5 di Bedeni. All’interno della sepoltura, databile tra la metà e la fine del III mill. a.C., sono stati rinvenuti i corpi di tre defunti, il piú importante dei quali giaceva in un sarcofago di legno decorato a rilievo, posto su un carro a quattro ruote. Il personaggio era affiancato dagli scheletri di un uomo e una donna, verosimilmente i suoi servi.

seconda metà del III millennio a.C. Le prime sepolture a kurgan, risalenti alla metà del III millennio a.C., hanno consentito la ricostruzione di una cultura già molto avanzata e probabilmente strutturata in unità amministrative simili a forme primitive di governatorato.

In basso: Vani (Colchide). Lo scavo della tomba n. 24, con il corredo del defunto principale ancora in situ.

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L’estrazione dell’oro iniziò in Georgia nel IV millennio a.C., come è testimoniato da una miniera scoperta nel Kazreti, una regione nel sud est del Paese. La cultura cosiddetta «Kura-Araxes» (dal nome dei due fiumi che ne delimitano il territorio di sviluppo) di questo periodo ha conservato solo pochi oggetti d’oro e d’argento, compresi i piú antichi: gli anelli da tempia a spirale provenienti da uno dei tumuli di Sachkere. La gioielleria d’oro e gli oggetti rituali scoperti nei primi kurgan (tombe a tumulo), diffusi ampiamente nel territorio della Georgia dell’est, possono essere considerati capolavori della metallurgia della

La cultura dei kurgan Tra gli oggetti piú antichi del patrimonio georgiano, immediatamente successivi alla cultura dei primi tumuli, ci sono gli ornamenti della cultura cosiddetta di «Trialeti», una regione a sud della catena montuosa omonima, sull’altopiano del Tsalka. I numerosi kurgan dell’altopiano fanno di Trialeti una vera e propria regione archeologica, con reperti che spaziano dal tardo Paleolitico all’Alto Medioevo. La prima campagna di scavi risale agli anni 1936-1940, quando l’archeologo Boris Kuftin, scoprendo numerosi kurgan, riportò alla luce alcuni tra i reperti piú straordinari dell’oreficeria caucasica, databili alla fine del III millennio a.C. La ricchezza e la raffinatezza dei gioielli e delle suppellettili ritrovate all’interno delle camere funerarie consentirono all’archeologo russo di battezzare questa cultura, fino ad allora sconosciuta, con il nome di «Splendida cultura dei grandi kurgan di Trialeti». Kuftin ipotizzò che la cultura Trialeti arrivasse a comprendere, oltre alla Georgia orientale, anche parte del territorio dell’attuale Armenia. Di particolare interesse a Trialeti furono le elaborate sepolture rinvenute all’interno dei kurgan. Solo pochi resti di alcuni defunti furono recuperati all’interno delle camere


funerarie, al centro del kurgan – che poteva avere o meno una fossa sepolcrale – e sempre adagiati su di un carro. Lungo i muri erano disposti recipienti di terracotta. Se i resti dei defunti in molti casi erano completamente scomparsi, probabilmente per la forte acidità del terreno o per la pratica della cremazione, i gioielli e gli oggetti rituali in materiale prezioso fortunatamente rimasero ben conservati.

Eccellenza artigiana Uno tra i pezzi piú spettacolari è la collana del kurgan n. 8 (in questi giorni esposta nella mostra allestita ai Mercati di Traiano di Roma; vedi foto a p. 51), con vaghi di lamina d’oro decorati con inserti di corniola e motivi a fine granulazione e con un’agata a bande come elemento centrale, rivestito ai bordi e al centro da lamine d’oro. La particolare fattura di questo gioiello indica che già agli inizi del II millennio a.C. la lavorazione dell’oro aveva raggiunto livelli di eccellenza. Da Trialeti proviene anche il coronamento d’asta (o probabilmente di scettro) rinvenuto all’interno

In alto: particolare della decorazione con scena di processione rituale, su una coppa argentea da un kurgan di Trialeti. XVIII-XVII sec. a.C. Secondo alcuni studiosi il rilievo presenta caratteri affini a quelli dell’arte ittita, mentre per altri la decorazione rivelerebbe uno stile strettamente locale. In basso: terminale d’asta (o scettro) rivestito in lamina d’oro decorata a rilievo stampato con leoni e motivo a meandro, dal kurgan n.15 di Trialeti. Prima metà del II mill. a.C.


mostre tesori della georgia Nonostante la copiosa bibliografia sul tema, le origini e la fine della cultura Trialeti, avvenuta al termine del II millennio a.C., non sono ancora chiare. Negli oggetti reperiti nei kurgan esistono affinità con lo stile persiano achemenide, ma per molti di essi non ci sono analogie evidenti al di fuori del territorio georgiano. La cultura Trialeti scomparve dal panorama storico georgiano nella seconda metà del II millennio a.C. e portò via con sé la cultura della lavorazione e delle tecniche orafe, che ricomparvero solo intorno al VII secolo a.C. in Colchide.

Alla foce del fiume Il sito di Vani si trova nella parte centrale della Georgia occidentale, la Colchide delle fonti greche e romane, 30 km a nord-est di Kutaisi, seconda città del Paese per grandezza e numero di abitanti. Dopo oltre cent’anni di scavi, Vani è oggi uno dei piú importanti siti archeologici georgiani. Lo studio dei reperti ha fornito indicazioni sulla natura degli scambi con i popoli vicini, la modalità delle sepolture, i riti funebri e la struttura sociale dell’antico regno della Colchide. Il nome di Vani non compare nelle fonti antiche: forse è la Leucotea citata da Strabone, ma studi recenti ipotizzano che possa trattarsi della Surium menzionata da Plinio (Naturalis Historia, 6.11.13) e della Sourion di Tolomeo (Geog. 5.9.6). L’ipotesi nasce dall’assonanza fonetica di Sourion/Surium con il nome del fiume Sulori, alla cui foce Vani è situata, ed è confortata dal ritrovamento, nel 1985, di un’iscrizione in lingua greca contenente il nome Souris, risalente al IV secolo a.C. In alto: Vani. Alcuni dei numerosi manufatti in oro restituiti dal sito, in corso di scavo. A destra: fermaglio in oro per acconciatura, da Vani. Fine del IV sec. a.C.

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del kurgan n. 15. Rivestito in lamina d’oro e con una decorazione a rilievo stampato raffigurante due leoni e una fascia sottostante a meandro, lo scettro di Trialeti anticipa un tema iconografico frequente nel culto della Grande Madre, quello dei due leoni contapposti, che sarà poi ampiamente documentato nella coeva arte cretesemicenea. La comparsa in questo periodo (III-II millennio a.C.) di scettri indica con ogni probabilità l’ascesa di una élite governante nella società dell’epoca.

I dischi di bronzo Tra il II e il I millennio a.C. si sviluppò nel territorio della Georgia orientale una cultura molto avanzata della lavorazione del bronzo. I popoli che abitarono gli altopiani montuosi del Caucaso, in guerra con le tribú urartee e con gli eserciti assiro-babilonesi, furono gli anonimi autori di questi oggetti decorativi e rituali, alcuni davvero originali e rari, come i cosiddetti dischi solari, ritrovati nella necropoli di Kviratskoveli negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Si tratta di pendagli di bronzo mas-


siccio lavorati a traforo e decorati con spirali, cerchi concentrici e vortici del tipo borjgali, che rappresentano con buona probabilità una testimonianza del culto di una divinità femminile solare caucasica. La borjgali è una svastica a vortice a sette raggi, tipica della zona caucasica, molto diffusa come decorazione per suppellettili e tuttora presente sulla moneta corrente georgiana. Al pari di quella tradizionale, questa svastica caucasica è un simbolo del fluire ciclico del tempo, rappresentato dal «movimento» del sole sulla volta celeste. I dischi solari sono stati trovati esclusivamente in sepolture femminili, in corrispondenza dell’addome delle defunte, che spesso presentavano un ricco corredo di gioielli di bronzo e pietre dure: collane, bracciali, anelli e torque. Numerose sono le collane di pietre dure, alcune davvero rare, come quelle di lignite fossile – o giaietto – dal colore nero. L’uso rituale delle collane è profondamente connesso al materiale che le compone: la lignite, molto rara nel Mediterraneo, era oggetto di scambi frequenti con le Isole Britanniche e associata al commercio dello stagno, abbondante in Cornovaglia e a Withby. Si riteneva pertanto che la lignite, la cui versione piú lucida e pietrificata è nota col nome di giaietto, provenisse per la gran parte dagli scambi con le Isole Britanniche. Miniere di lignite fossile sono state invece scoperte in Georgia, dove peraltro recenti scavi archeologici nella regione del Meskheti hanno localizzato insediamenti nei quali la produzione e la lavorazione di vaghi di corniola, lignite e opale era l’occupazione principale. La comparsa della Colchide nelle fonti greche e romane coincide con la rinascita della produzione orafa e con il consolidamento di uno stile «colchico» dell’oreficeria: Esiodo, nella Teogonia, cita il mito di Giasone e Medea. A questo periodo (VIII-VII secolo a.C.) risalgono i primi esempi di arte orafa

colchica dopo quasi un millennio di assenza dell’oro dalla produzione locale: pochi oggetti (due pendagli e un orecchino), decorati a granulazione con motivi a meandro e svastiche costituiscono la testimonianza, seppure limitata, della ripresa dell’estrazione dell’oro dai fiumi e dalle miniere. Dalla seconda metà del I millennio a.C. la Colchide diventa uno dei maggiori centri di produzione orafa.

proprio tesoro riemerso dalla terra. I materiali archeologici, raccolti nei lunghi anni di lavoro sul campo, attestano l’occupazione ininterrotta del sito dall’VIII secolo a.C. fino alla metà del I secolo a.C., quando Vani fu incendiata e rasa al suolo dalle truppe di Farnace. Lo studio del sito di Vani ha una storia piuttosto lunga. Nel 1876 fu pubblicato un articolo sul quotidiano georgiano Droeba (Il Tempo) che riportava la notizia di ritrovamenti sporadici nel sito da parte di residenVani, la città sacra Già centro economico e politico, ti locali. Dopo una lunga stagione di la città di Vani divenne progressiva- piogge, parte della collina era franata mente un luogo di culto, e i nume- e gli abitanti trovavano tra le acque rosi santuari riscoperti durante le fangose che scendevano a valle precampagne di scavi ne sono la prova ziosi e antichissimi gioielli d’oro e piú importante. È probabile che d’argento. Scavi sistematici iniziaroall’epoca della sua distruzione a no nel 1947 e, nel periodo dal 1966 opera di Farnace, re del Bosforo, al 2002, la spedizione fu condotta da nel I secolo a.C., fosse una città Otar Lordkipanidze, al cui nome sacra destinata esclusivamente al sono associate le piú grandi scoperte culto. Forse la Leucotea citata da in terra georgiana, come pure la loro Strabone, Vani ha restituito nel interpretazione e diffusione. Dal corso delle ultime campagne di 2002 la spedizione è stata diretta da scavi una quantità di oggetti d’oro Darejan Kacharava. che oggi rappresentano il patrimo- Le sepolture del V e del IV secolo nio nazionale georgiano, un vero e a.C. mostrano un costume diffuso In alto: particolare di collana in oro con pendenti a forma di tartaruga, dalla tomba n. 11 di Vani. Metà del V sec. a.C. In basso: incensiere in bronzo con teste di elefanti, da Vani. 250-100 a.C.

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mostre tesori della georgia il «tesoro» di un’aristocratica Il tesoro di Akhalgori fu rinvenuto nelle gole del Ksani, nei pressi del villaggio di Sadgemi nel 1908. Si tratta, verosimilmente, del corredo funerario di una donna dell’aristocrazia locale: pendenti, orecchini, collana e decorazioni per le bardature dei cavalli. Un paio di pendenti da tempia, sfarzosi e opulenti, con una coppia di cavalli per pendente, merlature e catenelle, rappresenta uno dei punti piú alti della produzione orafa iberica, con spiccata influenza achemenide. La ricca arte orafa persiano achemenide esercita un ruolo di riferimento anche nell’abbigliamento: centinaia di applicazioni d’oro stampate in forma di rosette e placchette quadrate sono state rinvenute non solo nel corredo di Akhalgori, ma in tutta la Georgia orientale. L’utilizzo di queste applicazioni per tessuti è attestato nell’arte persiana (la porta di Dario a Persepoli) e molto diffuso nell’intero territorio della Georgia: a Vani le applicazioni d’oro per tessuti hanno soprattutto una forma animale: frequente è la presenza di anatre selvatiche, cinghiali, grifoni.

Pendenti da tempia in oro, dal tesoro di Akhalgori, IV sec. a.C.

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del sacrificio umano: accanto al defunto principale spesso erano sacrificati servitori, concubine e cavalli. Questa ritualità cruenta riconduce la popolazione della Colchide a un contatto piuttosto ravvicinato con le popolazioni nomadi e seminomadi scite. L’abitudine di rendere omaggio ai defunti notabili o agli esponenti dell’aristocrazia locale con il sacrificio umano e animale è raccontata da Erodoto nella sua dettagliata descrizione dei riti funerari delle tribú scitiche stanziate sulle coste del Mar Nero. Nelle sepolture collettive a Vani, scavate nella roccia e ricoperte da cumuli di ciottoli, il defunto principale portava anelli, bracciali, collane, acconciature e indumenti ornati di placche d’oro e intessuti di piccole perle di vetro e pietre dure. I gioielli emersi dalle sepolture possiedono un’originalità formale e stilistica che mostra un elevatissimo livello tecnico e una perfezione esecutiva: le piú interessanti tra le innovazioni portate dallo stile della Colchide sono le rappresentazioni di animali della fauna locale, come cinghiali, uccelli, rane, tartarughe e capre selvatiche. Caratteristica di questo periodo è la tecnica della granulazione, già diffusa in Georgia nel III millennio a.C., che nel IV secolo conosce un periodo di particolare fortuna nella produzione orafa dei

due principali centri della Colchide,Vani e Sairkhe. Il primo stadio della storia di Vani, è databile ai secoli VIII e VII a.C. Si presume che Vani in questo periodo, fosse il maggior centro di culto per gli insediamenti presenti nella regione. Si ritiene che durante il secondo stadio, che copre il periodo dalla fine del VII agli inizi del VI secolo, sino alla prima metà del IV secolo a.C., l’antica città di Vani funzionasse come centro di una delle unità politiche e amministrative del regno della Colchide.

Oro, servi e un cavallo La tomba n. 11, la prima scavata a Vani, (metà del V secolo a.C.), è allo stesso tempo la piú ricca. La principale defunta, la cui posizione sociale è denotata dalla centralità della collocazione all’interno della sepoltura, si distingueva per la ricchezza dei suoi ornamenti e del suo corredo funerario. Il corpo della donna si presentava riccamente ornato di gioielli d’oro (un diadema, decorazioni per acconciatura, pendenti da tempia, collane, braccialetti e anelli); i suoi indumenti erano decorati da una fibula, mentre due applicazioni ornavano la cintura. Un’abbondanza di gioielleria d’argento si trovava al fianco destro dell’inumazione principale. Un sudario, ornato di bottoni d’oro e orlato di vaghi e placchette d’oro, copriva il corpo. Tre persone e un cavallo erano sta-


te sepolte insieme con la defunta. Degno di nota è un gruppo di oggetti di ferro e di bronzo depositati all’interno di una fossa scavata nella roccia risalente alla metà del I secolo a.C e probabilmente associata all’inventario di un tempio. Da questo corredo provengono due lucerne e un incensiere, di bronzo, dall’iconografia inconsueta. Di pregevolissima fattura è l’incensiere con tre teste d’elefante. Questa scoperta sembra rinforzare la teoria che la città avesse un carattere preminente di città santuario in questo periodo. Le indagini archeologiche a Vani hanno accertato tracce di due distruzioni attestate entro un periodo breve intorno alla metà del I secolo a.C. Se l’antica Vani è stata effettivamente il santuario di Leucotea, allora queste due distruzioni possono essere correlate a Farnace, il re del Bosforo, e Mitridate, governatore di Pergamo, ambedue autori di una campagna contro Leucotea, rispettivamente nel 49 e 47 a.C.

Il florido regno d’Iberia Kartli, Iberia nelle fonti classiche, corrisponde al territorio della Georgia orientale. Il re Farnavaz, agli inizi del III secolo a.C. fondò il regno di Kartli, istituzionalizzando la lingua e l’alfabeto georgiani. Al III secolo a.C., risale una delle scoperte archeologiche piú signifi-

dove e quando «Il Vello d’oro. Antichi tesori della Georgia» Roma, Mercati di Traiano fino al 5 febbraio 2012 Orario ma-domenica, 9,00-19,00; 24.12 e 31.12, 9,0014,00; fino al 07.01.12, apertura straordinaria il sabato sera (esclusi il 24.12 e il 31.12), dalle 20,00 all’1,00; chiuso lunedí, Natale, Capodanno Info tel. 06 06 08; www.viedellaseta.roma.it cative e preziose, il tesoro di Akhalgori (vedi box nella pagina accanto). L’Iberia subisce il pesante attacco da parte delle truppe romane di Gneo Pompeo, che rade al suolo la capitale Mtskheta nel 65 a.C. Il regno di Kartli è distrutto, ma si riprenderà presto, diventando un protettorato romano e riacquistando gran parte del suo potere con il regno di Farsman II. Secondo la testimonianza di Cassio Dione, il re Farsman II fu talmente caro a Roma, che una sua statua equestre fu eretta nel tempio di Bellona e gli fu consentito di sacrificare in Campidoglio. Il regno di Kartli fu florido e potente, e l’oro simboleggia ancora una volta la ricchezza di questo Paese. L’oreficeria iberica rappresenta uno dei capisaldi dell’arte orafa dell’antichità precristiana: le tecniche del cesello, dell’incrostazione, dello smalto cloisonné e degli inserti raggiungono il massimo splendore nel III e IV secolo d.C. Il

In alto: braccialetti piatti in oro, amandino, malachite e lapislazzuli, dalla tomba n. 40 di Armaziskhevi. IV sec. a.C. A destra: vaghi sferici da collana in oro, incrostati di pietre semipreziose, dalla tomba n. 1 di Armaziskhevi. Metà del II sec. d.C.

tesoro di Armaziskhevi, scoperto nel 1946 in una necropoli sulle rovine dell’antica città di Mtskheta, raccoglie un campionario sorprendente di gioielli in stile iberico: bracciali con inserti di granato e corniola, diademi per copricapi con almandino in castoni, bracciali di giaietto con cerniere d’oro, diademi e vaghi con inserti di pietre preziose e semipreziose. Una collana decorata con una testa d’ariete di ametista è il vero capolavoro della tecnica orafa iberica. Nell’unguentario sospeso alla collana con il medaglione d’ametista è stato trovato il dente di un bambino. a r c h e o 57


storia origini di roma/12

di Daniele F. Maras

Pors

e l’assedio

A sinistra: particolare di una lastrina in osso raffigurante un guerriero dal caratteristico armamento oplitico in uso dal VII al IV sec. a.C.: elmo di tipo attico, corazza anatomica su tunica corta, schinieri (gambali), lancia e scudo convesso. Datata probabilmente alla prima metĂ del IV sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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enna di Roma

Monarchia, ultimo atto: dopo la cacciata, Tarquinio e i suoi figli cercano di tornare sul trono con l’aiuto degli alleati etruschi, i quali, sotto la guida del re di Chiusi, riescono ad avere ragione della resistenza romana. E per poco non fermano sul nascere la storia della repubblica capitolina

D

opo essere fugg ito in Etruria, Tarquinio il Superbo non si arrese e cercò appoggi tra i possibili antagonisti etruschi di Roma: in particolare, riuscí a ottenere l’alleanza di Tarquinia, da cui la sua famiglia aveva avuto origine, e di Veio, confinante a nord con i Romani, con i quali spesso aveva avuto modo di scontrarsi. Nel frattempo i primi due consoli, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, avevano giurato solennemente l’esilio perpetuo per la stirpe dei Tarquinii e che non avrebbero mai piú tollerato chi volesse ripristinare la monarchia. Ma questo giuramento costò assai caro a Bruto, perché già il malcontento serpeggiava tra alcune nobili famiglie e soprattutto tra i giovani, che erano stati parte delle consorterie riunite attorno ai figli di Tarquinio il Superbo (le cosiddette sodalitates, una sorta di associazioni paramilitari di stampo aristocratico).

Orazio Coclite difende intrepido il Ponte Sublicio dall’Armata Etrusca, fino che li Romani lo abbiano rotto, per impedire il passaggio al nemico. Incisione all’acquaforte di Bartolomeo Pinelli, tratta da Istoria Romana. 1817.

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storia origini di roma/12 La neonata repubblica dovette cosí soffocare nel sangue un primo tentativo di ribellione di lealisti, che intendevano riportare il re sul trono, tra i quali i due figli del console Bruto, che furono da questi giustiziati senza pietà insieme con gli altri.

Il torneo dei regnanti Lo scontro armato divenne perciò inevitabile e l’esercito romano, con i due consoli alla testa, si mosse incontro a quelli dei centri

etruschi, che già avanzavano verso la città. La vista di Bruto con le insegne del suo rango che cavalcava di fronte alla schiera romana scatenò la furia di Arrunte, uno dei figli di Tarquinio, che considerava usurpato il suo posto e si gettò alla carica, avventandosi sull’avversario. L’assalto fu talmente violento e furioso che tutte le fonti sono concordi nel dire che i due cavalieri si disarcionarono a vicenda e caddero entrambi morti, trapassati dalle rispettive lance. L’aspra battaglia che seguí vide i Veienti in fuga, sbaragliati al primo impatto (quasi che fossero abituati a essere sconfitti dai Romani, come dice Livio); viceversa i Tarquiniesi tennero testa all’esercito romano, ma non riuscirono ad averne ragione. Di conseguenza, dopo la battaglia, viste le gravi perdite e le difficoltà oggettive, entrambi gli schieramenti etruschi decisero di abbandonare il campo e tornare in patria. Le sorti dello scontro sarebbero rimaste in dubbio se una voce miracolosa dal folto della selva Arsia (c’è chi dice che fosse quella del dio Silvano) non avesse dichiarato che i caduti etruschi erano stati uno in piú di quelli romani, assegnando cosí la vittoria – almeno morale – a questi ultimi. Ne approfittò Publio Valerio, collega di Bruto per Testa di una statua funeraria canopica in tufo e calcare, raffigurante un personaggio d’alto rango, detta «Plutone», da Chiusi. 550- 530 a .C. circa. Palermo, Museo Archeologico regionale Antonio Salinas.

quell’anno, per riportare a Roma le spoglie del console caduto e offrirgli un funerale solenne, in cui venne da lui recitata per la prima volta un’orazione funebre, che divenne un’importante tradizione romana nei secoli a venire. Ancora una volta Tarquinio il Superbo, che ormai aveva perduto un secondo figlio per le sue velleità di dominio, cercò aiuti in Etruria per tornare sul trono di Roma. Trovò cosí l’appoggio di Larth Porsenna, re di Chiusi, che secondo altre fonti era anche signore di Volsinii e, con ogni probabilità, aveva costituito un forte Stato territoriale lungo la valle del Tevere; si comprende pertanto perché fosse estremamente interessato alla possibilità di ottenere anche il controllo di Roma, e cosí della foce del fiume.

Il «ciclope» contro l’esercito Iniziò in questo modo il terribile assedio della città, che all’indomani dell’istituzione del suo nuovo ordinamento repubblicano, affrontava la piú grave minaccia militare sostenuta fino ad allora. Sono molto famosi, per essere stati ampiamente celebrati dalla letteratura, alcuni episodi legati a questa guerra, che hanno consacrato eroi romani entrati nella leggenda e che, in realtà, visti secondo l’ottica della storia delle religioni, sono veri e propri miti, trattati come eventi storici e trasposti nella biografia mitologica del popolo romano. Il primo di questi episodi è la sfida vinta dal solo Orazio Coclite contro l’intero esercito etrusco che cercava di oltrepassare il Tevere per entrare a Roma. Orazio era un esponente della gens Horatia, che nel racconto della storia piú antica della città è spesso ricordata per azioni avventate e spericolate, ed era caratterizzato dall’avere un occhio solo (presumibilmente per aver perso l’altro in battaglia, ma non va trascurato il richiamo del latino Cocles al


greco Kyklops, il «ciclope»). Non appena l’esercito di Porsenna si presentò alle porte di Roma e occupò il Gianicolo – l’antica fortezza che Anco Marzio aveva voluto sulla riva destra del fiume –, i Romani si accinsero a tagliare il ponte Sublicio, divenuto ormai una pericolosa via d’entrata al cuore stesso della città. I nemici, però, erano troppo vicini e non ci sarebbe stato il tempo materiale di sabotare il ponte; per questo Orazio, armato di tutto punto, si erse a guardia dell’accesso al ponte e sfidò gli Etruschi a sconfiggerlo. La prima carica fu respinta all’arma bianca, ma, soprattutto, con l’aiuto di un grande scudo che il guerriero teneva davanti a sé, e dietro il quale si riparò dalla pioggia di frecce e giavellotti che lo bersagliavano. Dopo di allora non furono possibili altre cariche vere e proprie, perché – narra lo storico greco Dionigi d’Alicarnasso – il cumulo di armi e morti che si era creato di fronte al Romano lo riparava, come una vera e propria trincea. A quel punto, quando stava ormai per essere sopraffatto dai colpi e dalle ferite, Orazio sentí il ponte che crollava e i compagni che lo chiamavano: si voltò e si gettò nel fiume con tutta la pesante armatura, passandolo a nuoto e non perdendo neppure una delle armi.

Bruto Capitolino, ritratto bronzeo di età medio repubblicana su un busto di epoca moderna, tradizionalmente identificato con Lucio Giunio Bruto, mitico fondatore della repubblica romana e primo console con Lucio Tarquinio Collatino. IV-III sec. a.C. Roma, Museo del Palazzo dei Conservatori.

La mano sul fuoco… A questo resoconto Tito Livio aggiunge che, prima di tuffarsi, l’eroe invocò la protezione del dio Tevere, ma, conclude pragmaticamente, nei secoli questa impresa sarebbe stata considerata piú degna di fama che credibile. Non potendo conquistare la città con un rapido assalto, Porsenna si risolse allora ad assediarla e si accampò oltre il Tevere, bloccando le vie d’accesso da nord. Si dice che un gruppo di trecento giovani romani avesse giurato di eliminare il re etrusco, in quanto

considerava indegno che la libertà appena recuperata dal popolo romano fosse minacciata da un nuovo re che la teneva sotto assedio. Fu estratto a sorte Caio Muzio, che per primo avrebbe dovuto tentare di uccidere il sovrano nemico: il temerario Romano si introdusse di nascosto nel campo nemico e attese che Porsenna si mostrasse; ma quando il re uscí di buon mattino, per amministrare la giustizia davanti alla sua tenda, Muzio non riuscí a distinguere il suo abito da quello dello scriba, che lo affiancava in quali-

Nella pagina accanto: foto satellitare dell’odierno Iraq, nei cui confini è compreso il sito.

tà di segretario o cancelliere (il che ci fa comprendere quanto fosse elevato il rango dello scriba presso la corte etrusca e allo stesso tempo quanto poco i Romani fossero in grado di comprendere le differenze di costume degli Etruschi). Il congiurato colse l’occasione e si gettò su uno dei due possibili bersagli, uccidendo con un pugnale lo scriba e venendo subito arrestato e ridotto all’impotenza. Porsenna lo interrogò per sapere quali altre insidie fossero state preparate contro di lui e per farlo parlare lo fece minacciare con a r c h e o 61


storia origini di roma/12 i cimeli della battaglia di ariccia Alla prima metà dell’Ottocento nella necropoli del Palazzone di Perugia, la tomba di famiglia degli Acsi restituí una coppia di preziosi gambali di bronzo decorati, appartenenti a un’armatura prodotta nell’Italia meridionale in epoca tardo-arcaica, nella seconda metà del VI secolo a.C. La loro cronologia è stata fonte di difficoltà per gli studiosi, dal momento che la tomba nel suo complesso dev’essere datata all’età ellenistica avanzata (a partire dalla seconda metà del III secolo a.C.): sembra evidente che i gambali siano stati conservati a lungo in una casa prima di essere deposti nella tomba del proprietario. La storia si è ulteriormente complicata quando, all’inizio degli anni Novanta, il restauro ha portato in luce un’iscrizione di dono votivo alla dea Menerva da parte di un certo Arnth Savpunias, ripetuta identica su entrambi i gambali. L’iscrizione va datata attorno alla fine del V secolo o poco piú tardi e va attribuita probabilmente all’ambiente etrusco meridionale, fatto che ha permesso a Giovanni Colonna di avanzare una suggestiva ipotesi sulla storia della coppia di armi. Quando i gambali erano in uso, nella seconda metà del VI secolo, giunsero in mano a un nobile etrusco, con ogni probabilità come parte del bottino di guerra, in conseguenza di uno scontro militare che, data l’epoca, non può essere che la battaglia d’Ariccia, alla quale parteciparono Etruschi, Greci e Latini. Al ritorno in patria al seguito di Porsenna, il nuovo proprietario conservò il trofeo in casa, tramandandolo alle successive generazioni, finché, circa cent’anni dopo, Arnth Savpunias, presumibilmente un suo discendente, ne fece A destra: schinieri in bronzo, decorati a sbalzo, di produzione magno-greca, dalla tomba degli Acsi, nella necropoli del Palazzone di Perugia. Seconda metà del VI sec. a.C. Perugia. Museo Archeologico Nazionale. L’iscrizione etrusca di dono a Menerva, ripetuta su entrambi i gambali (in alto, disegno del particolare), piú recente di essi di almeno cento anni, e il ritrovamento tra gli oggetti del corredo di una tomba ellenistica, dimostrano la lunga durata della loro vita.

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dono in un santuario, che verosimilmente si trovava a Orvieto (l’antica Volsinii). Fu infatti questa città a essere conquistata e saccheggiata dai Romani assieme ad alcuni loro alleati nel 264 a.C.: e quale motivo migliore poteva esserci per il ritorno in circolazione dei gambali, finiti poi nella tomba perugina degli Acsi in età ellenistica. Ben altra sorte toccò a una preziosa armatura da cavaliere, scoperta nel 1934 nel sarcofago della Tomba del Guerriero di Lanuvio e comprendente la corazza, l’elmo e le armi di un capo militare dalla cultura raffinata ed ellenizzante, che nel corredo funerario ospitava anche una serie di attrezzi da palestra. Il complesso viene datato attorno al 470 a.C. ed è probabilmente troppo recente per appartenere a un guerriero partecipante alla battaglia di Ariccia; ciononostante, l’ideologia aristocratica greca ostentata dal corredo non può dipendere che dal prolungato contatto culturale con l’ambito magno-greco, la cui via è stata aperta dall’intervento dei Cumani di Aristodemo contro gli Etruschi di Arrunte Porsenna.

pertanto di avviare trattative con i Romani, modificando i propri piani di conquista.

Corazza bronzea anatomica (in alto) ed elmo bronzeo ageminato (in basso), dal corredo della Tomba del Guerriero di Lanuvio. 470 a.C. circa. Roma, Museo Nazionale Romano.

il fuoco. Ma il Romano mantenne la propria aria di sfida e, con calma spietata, mise la mano in un braciere dicendo: «Ecco, perché tu sappia a quale uomo sei sfuggito: in trecento abbiamo giurato la stessa cosa!». Sorprendentemente, il coraggio di Muzio fu premiato con la libertà e si dice che da allora lui e i suoi discendenti abbiano ricevuto il cognome di Scaevola, che in latino significa «mancino». Ancor piú che dall’attentato, Porsenna fu terrorizzato dal fanatismo di quel nemico inatteso, che prometteva ulteriori minacce alla sua persona, e decise

La sfrontatezza di Clelia Durante i negoziati, alcune fanciulle romane furono consegnate come ostaggi agli Etruschi, finché non fosse stata ristabilita la pace. Ma una di esse, Clelia, approfittò della vicinanza del campo nemico alle sponde del Tevere e chiese di potersi lavare con le sue compagne (vedi anche «Archeo» n. 316, giugno 2011). Poi, per non essere viste nude dai soldati, chiesero di rimanere sole e subito si gettarono a nuoto, attraversando il fiume e tornando in città. I Romani, però, nonostante la gioia e il rispetto con cui le accolsero, riconsegnarono le fuggiasche al re nemico, per mantenere fedeltà ai patti: al che Porsenna, ammirato dal coraggio di Clelia, le restituí la libertà e le fece dono della metà degli ostaggi rimanenti. La fanciulla scelse saggiamente i ragazzi piú giovani, perché potessero continuare la guerra, e fu onorata a tal punto in patria da ricevere – caso unico per la storia della città – una statua equestre lungo la via Sacra. Gli atti eroici che scandiscono il resoconto leggendario della guerra contro Porsenna intendono nascondere, sotto un velo celebrativo, la presa della città da parte del re etrusco, che infatti, di lí a poco, avrebbe portato avanti la propria opera di conquista. Dietro alle figure di Orazio Coclite (gigante e monocolo) e Muzio Scevola (astuto e privo di una mano), gli storici delle religioni, a partire da George Dumézil, hanno riconosciuto altrettanti personaggi del mito: divinità declassate al rango di semplici eroi, garanti della grandezza e del valore del popolo romano. Ma, al di là della leggenda, il fatto storico dell’assedio di Roma e della pressione etrusca sulla valle del Tevere ha avuto conseguenze importanti nelle vicende dell’Italia centrale antica, segnando il momento in cui l’influenza etrusca cedette il passo a quella greca, come vedremo, provea r c h e o 63


storia origini di roma/12 per saperne di piú Massimo Pallottino, Origini e storia primitiva di Roma, R.C.S., Milano 1993; Enrico Montanari, Identità culturale e conflitti religiosi nella Roma repubblicana, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; Giovanni Colonna, L’offerta di armi a Minerva e un probabile cimelio di Aristodemo nel Lazio, in Pallade di Velletri. Il mito, la fortuna, Atti della giornata di studi (Velletri, 1997), Palombi, Roma 1999, pp. 95-103; Giovanni Colonna, Due città e un tiranno, in Annali per il Museo C. Faina di Orvieto,VII, 2000, pp. 277-289.

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niente dalle città del meridione. Secondo la tradizione piú comune, Roma ottenne la liberazione degli ostaggi e la restituzione del Gianicolo, oltre a mantenere il proprio ordinamento repubblicano, mentre Porsenna tornava a Chiusi.

re etrusco, e Plinio il Vecchio menziona, di passaggio, una clausola del trattato che vietava ai Romani l’uso del ferro al di fuori dei lavori agricoli: come a dire una sorta di embargo contro l’uso delle armi. Da queste notizie possiamo dedurre che Roma fu occupata e posta perlomeno sotto il protettoRoma, città occupata Ma altre tradizioni, ben piú attendi- rato di Porsenna, che quindi poté bili, insistono sui tributi che per procedere nella sua azione di conmolti anni Roma dovette inviare al quista, che si rivolse verso i Latini,


che avevano costituito il naturale avversario di Roma sotto i re etruschi. Qualche anno dopo, infatti, attorno al 504 a.C., il figlio di Porsenna di nome Arrunte (un prenome ricorrente per gli aristocratici etruschi r icordati dalle fonti) assediava Ariccia, che, dopo un anno di ostilità, stava ormai quasi per capitolare. In aiuto della città latina giunsero gli eserciti congiunti di Tuscolo e

di Anzio, che però furono messi in difficoltà dall’armata etrusca, meglio organizzata, che avrebbe riportato una gloriosa vittoria se non fosse stato per l’arrivo imprevisto di un contingente di Cumani, guidati dal generale Aristodemo, che in breve capovolse le sorti della battaglia e volse in fuga i nemici. Lo stesso principe Arrunte perse la vita nello scontro e gli Etruschi furono costretti a ripiegare, tornando entro i propri confini al di là del Tevere (vedi box alle pp. 62-63). La sfida tra la crescente potenza etrusca, che muoveva dalle città dell’interno, e l’intraprendenza delle città della Magna Grecia era stata vinta da queste ultime e la situazione precedente allo scontro veniva in qualche modo ripristinata.

Il ritorno dei re Porsenna fu costretto a rientrare in patria, dove si ricordano le sue imprese a Volsinii, quando invocò l’aiuto di un fulmine per sconfiggere il mostro Olta, scaturito dalle profondità del suolo (ma l’evento potrebbe essere precedente alla sua avventura romana) e poi a Chiusi, dove si fece costruire un grandioso monumento funerario, che comprendeva un vero e proprio labirinto sotterraneo in seguito entrato nella leggenda. Anche Aristodemo tornò in patria, ma per lui fu un momento di vera gloria: era accompagnato da un nutrito gruppo di prigionieri etruschi, che però liberò ancor prima di raggiungere Cuma, ottenendo il loro appoggio per le sue ambizioni tiranniche e arruolandoli al suo ritorno come guardia del corpo personale. Oltre ai prigionieri accompagnò il generale vincitore lo stesso Tarquinio il Superbo, che vedeva ormai del tutto frustrate le proprie ambizioni di tornare sul trono di Roma Bruto, e Collatino primi Consoli di Roma, giurano in presenza del Popolo Romano, un esilio perpetuo alla Famiglia dei Tarquinj. Incisione all’acquaforte di Bartolomeo Pinelli, tratta da Istoria Romana. 1819.

e scelse l’esilio nella greca Cuma, la cui stagione tirannica cominciava proprio allora. Con la fine della breve occupazione etrusca di Roma sotto Porsenna, che forse potrebbe essere ricordato come l’ultimo ad aver regnato sulla città – seppure come invasore piuttosto che come detentore di un ruolo istituzionale –, la monarchia romana può considerarsi ormai al termine e, nei secoli a venire, le istituzioni repubblicane avrebbero perseguitato ferocemente tutti i tentativi di ripristino del potere autocratico da parte di personaggi politici di spicco. Quasi cinquecento anni piú tardi, quando Ottaviano raccolse l’eredità di Cesare e istituí il nuovo ordinamento imperiale del mondo romano, evitò con molta cautela ogni riferimento alla monarchia, presentando le novità istituzionali come un recupero delle antiche tradizioni e come una sorta di compimento naturale della storia repubblicana del popolo romano. Persino l’epiteto di Augusto fu scelto con particolare cura per rivestire di forme religiose l’esercizio del potere imperiale, negandone ogni connessione con l’antica, aborrita monarchia. (12 – fine) le puntate di questa serie • Quando Ercole si fermò sul Tevere... • La leggenda del pio viaggiatore • I gemelli del destino • La «costruzione» del popolo romano • Numa Pompilio, un re voluto dagli dèi • Tullo Ostilio: la guerra come ragion di Stato • Anco Marzio. In equilibrio tra guerra e pace • Tarquinio Prisco, lo straniero che divenne re • La leggenda dei re dimenticati • Servio Tullio, il secondo fondatore • Tarquinio il Superbo, il peggiore dei re • Porsenna e l’assedio di Roma a r c h e o 65


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le prime unità d’italia

Le prime unità

d’Italia

di Daniele F. Maras

A partire dalla fine dell’età antica, il richiamo alle glorie di Roma e del suo impero ha rappresentato una costante della retorica politica e culturale delle epoche successive. Ma, ancor prima dell’Italia politicamente raccolta nelle undici regioni volute da Augusto, la nostra Penisola conobbe significativi accenni «unitari»: ne furono protagonisti, da una parte, gli Etruschi, dall’altra un insieme di genti dalle mitiche origini… sabine

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arlare di Italia unita richiama alla mente le atmosfere risorgimentali che si insegnano ancora oggi nelle scuole; perciò, vogliamo partire con Alessandro Manzoni, che, con Marzo 1821, dava voce al mito dell’Italia unita, che in quegli anni sembrava ancora un sogno da realizzare. «Una d’arme, di lingua, d’altare»: il poeta chiamava a raccolta gli Italiani nel nome dell’antica unità, che li accomunava nella storia, nella lingua al di là dei dialetti, nella religione cristiana, e cosí via. Ci vollero altri quaranta anni prima che il regno d’Italia fosse una realtà e iniziasse la storia dello Stato unitario, di cui quest’anno si celebra il centocinquantenario. Ma che cosa dire di quella storia antica a cui si richiamava la politica risorgimentale per giustificare l’appello a oltrepassare i confini degli Stati regionali per recuperare la tradizione comune? Quando anche l’ultimo residuo dell’antico frazionamento regionale, lo Stato Pontificio, fu annesso al neonato regno d’Italia nel 1870, sembrò ovvio trasferire a Roma la capitale, per recuperare la memoria dell’antica unità romana e riallacciare la storia contemporanea alle glorie passate, attraverso un continuo gioco di richiami e allusioni retoriche, che nei decenni successivi portarono via via all’istituzione del «Senato» del regno e poi all’«impero» italico (con il connesso titolo di «Imperatore» per i sovrani Savoia) e, piú tardi, ai «fasci» littori e al saluto «romano».

Memorie di grandezza Il ricordo dei giorni di gloria di Roma, che avevano portato l’Urbe e l’Italia al centro del mondo, è stato, in realtà, una costante della retorica della grandezza a partire dalla fine dell’evo antico, cominciando con la Chiesa, che ereditò dalla tradizione romana il titolo di pontefice massimo per il papa, ma anche quello di principes Ecclesiae per i cardinali, per

Fotografia satellitare dell’Italia, con sovrimpressione di alcuni reperti e monumenti distintivi dei popoli che abitarono la Penisola prima dell’ascesa di Roma. Dall’alto verso il basso: la «Dea di Caldevigo», bronzetto da Este, Veneto. Metà del V sec. Este, Museo Nazionale Atestino. Statua-stele, da Filetto, Liguria. VI sec. a.C. Collezione privata. Coperchio di urna etrusca, da Volterra. II-I sec. a.C. Fiesole, Museo Civico Archeologico. Scena di danza, particolare di un cratere apulo. Fine del V sec. a.C. Taranto, Museo Nazionale Archeologico. Statua votiva in terracotta, dal Santuario di Minerva di Lavinium, nel Lazio. Seconda metà del IV sec. a.C. Pomezia, Museo Archeologico di Lavinium. Statuetta in bronzo, da Urzulei, Sardegna. VII sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. Agrigento. Il tempio della Concordia, edificato nel V sec. a.C. a r c h e o 67


speciale le prime unità d’italia proseguire con il Sacro Romano Impero e con il titolo di Caesar (in origine un semplice cognomen della gens Iulia), che giunse fino all’età contemporanea trasformandosi nel Kaiser tedesco e nello Czar russo. Una nota fuori dal coro era stata la prima fase della signoria di Cosimo de’ Medici (1389-1464), il quale, per rivendicare l’originalità e indipendenza delle tradizioni del granducato di Toscana, recuperò la memoria di una presunta discendenza dagli Etruschi. Ben presto, però, anche questo tentativo di rifarsi a una storia perfino piú antica di quella di Roma rientrò nei ranghi grazie a un’inversione di marcia della politica dei Medici; e quando la statua dell’Arringatore (raffigurante un nobile etrusco e datata tra la fine del II e gli inizi del I secolo a.C.) fu riportata alla luce sulle sponde del lago Trasimeno, fu salutata come il ritratto di Scipione l’Africano (o di un suo parente), il prototipo del cittadino romano: un modello a cui tendere nell’Italia rinascimentale, permeata di spirito classicista.

La definizione dei confini Vista con occhi moderni, la carta geografica d’Italia offre valide motivazioni all’idea di una fondamentale unità della Penisola, racchiusa com’è

In basso: la colonna del tempio dorico di Hera Lacinia nel Parco Archeologico di Capo Colonna, in Calabria. La colonna, impostata su un basamento di blocchi di arenaria, è quel che rimane oggi del maestoso tempio innalzato nel V sec. a.C., nell’area del santuario di Hera Lacinia, da coloni Achei stanziati sul territorio di Kroton, l’odierna Crotone, fondata alla fine dell’VIII sec. a.C.

il lungo cammino del nome Quando compare per la prima volta nei frammenti delle opere di storici greci, il nome Italía designava la fascia piú meridionale dell’odierna costa calabrese, posta nelle vicinanze dello stretto di Messina. Ma sin dalle prime testimonianze, la possibilità di applicazione del nome sembra lentamente estendersi e, con essa, la concezione stessa che i Greci avevano della geografia peninsulare. Nel sentimento dei Greci, infatti, il nome dell’Italía tendeva generalmente a confondersi con le aree di colonizzazione greca (sovrapponendosi a volte al concetto di Magna Grecia), al punto che nella prima metà del V secolo a.C., per manifestare la propria politica colonialista, lo statista ateniese Temistocle diede a una delle sue figlie il nome di Italía, mentre un’altra si chiamava Sibari. Tra gli storici, il primo a usare il nome Italía è, alla fine del V secolo a.C., Antioco di Siracusa secondo il quale esso sarebbe applicabile alla parte di Calabria a sud del fiume Lao e di Metaponto, mentre in precedenza l’accezione si restringeva a sud dell’istmo tra i golfi di Ipponion (Vibo Valentia) e Skylletion (Squillace), dove anticamente abitavano gli Enotri. D’accordo con la definizione piú antica sembra essere il siracusano Filisto, che, intorno alla metà del IV secolo a.C., precisa meglio il confine settentrionale attorno allo stretto scilletico-ipponiate, sul quale sarebbe dovuta sorgere una fortificazione a segnare il confine settentrionale del regno di Dionigi di Siracusa: per Filisto, infatti, la definizione geografica era anche e soprattutto utile alla propaganda del tiranno, che aveva consolidato il proprio dominio sulla Sicilia orientale e sull’estremità della Calabria e intendeva motivarne l’associazione anche sul piano mitologico, con la storia del re Sicelo, figlio di Italo. Strabone, geografo greco dell’età augustea, attribuisce ad «antichi» non meglio specificati una nozione piú estesa dei confini d’Italia, fino ad arrivare lungo il Tirreno al golfo di Poseidonia (Paestum). Tra questi era forse compreso Eforo di Cuma, a cui sembra da riferire anche un’ulteriore estensione dell’Italia sullo Ionio fino a Taranto, che ne sarebbe stata «la città piú grande». Piú difficile è determinare l’estensione del nome secondo Timeo di Tauromenio, storico siceliota della seconda metà del


IV secolo a.C., che forse arrivava addirittura a comprendere il Circeo entro i confini d’Italia. A lui, in ogni caso, si deve la notizia della derivazione del nome dall’antico nome indigeno dei «buoi» – da confrontare con il latino vituli, «vitelli» –, che nella regione sarebbero stati allevati in quantità. Alcuni secoli piú tardi, il nome Viteliú sulle monete degli Italici alla guerra civile in associazione con il simbolo del toro sembra confermare questa etimologia del nome, perlomeno nell’immaginario dei Sanniti (vedi oltre a p. 85). Piú tardi, verso l’inizio del III secolo a.C. (o poco prima) il filosofo Teofrasto, allievo di Aristotele, oppone i tipi di legno del Lazio a quelli dell’Italia, dimostrando di considerare il primo al di fuori della seconda, quasi come se fossero realtà confinanti. E poco prima, forse ancora nel corso del IV secolo, si data l’iscrizione su una lamina di bronzo ritrovata presso l’antico lago del Fucino, che, in un contesto militare romano, forse menziona un finem etalicom, cioè un «confine Etalico», che, se la lettura è corretta (ma altri preferiscono leggere esalicom), potrebbe essere la piú antica menzione del nome d’Italia in latino. Alla metà del II secolo Polibio di Megalopoli,

Particolare di un pinax (tavoletta in terracotta a bassorilievo realizzata a matrice) raffigurante Persefone e Plutone, dal santuario di Persefone della Mannella, a Locri Epizefiri. V sec. a.C. Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

storico al seguito di Scipione l’Emiliano, attribuiva ormai all’Italia una forma triangolare, con la base nelle Alpi e il vertice all’estremità meridionale della Calabria. Ciononostante, ancora nel I secolo a.C., per Giulio Cesare il confine d’Italia si fermava sull’Adriatico al fiume Rubicone, oggi in provincia di Forlí-Cesena (vedi oltre alle pp. 82-83), mentre a nord di tale limite si trovava la provincia della Gallia Cisalpina. Per far giungere definitivamente il territorio italiano fino alle Alpi si dovette attendere l’opera unificatrice dell’imperatore Augusto, che, alla vigilia della nostra era, stabilí un confine che, con alcune eccezioni, grossomodo coincide con quello dell’attuale Repubblica Italiana, isole escluse. A partire da questa epoca, gli scrittori latini e greci hanno fatto costantemente riferimento alle terre a sud delle Alpi come italiane, anche quando si riferivano a eventi precedenti l’età augustea, a costo di incorrere in anacronismi.

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speciale le prime unità d’italia

Ricostruzione di una sepoltura dalla necropoli etrusca di Tolle, presso Chianciano Terme, con canopo antropomorfo dai lineamenti astratti della testa (in basso, il particolare), circondato dai vasi del corredo. Inizi del VII sec. a.C. Chianciano Terme, Museo Civico Archeologico delle Acque.

fra tre mari e, a nord, dalla cornice piuttosto ben definita delle Alpi: qualche dubbio potrebbe tutt’al piú essere sollevato sulla pertinenza di tutte le isole all’unità nazionale (geograficamente, non si vede perché la Corsica dovrebbe rimanerne fuori) e sulla posizione del confine a est e a ovest dell’arco alpino, dove si sono avute le esclusioni, relativamente recenti, dell’Istria e della Savoia. Ma, al di là del dato geografico, vi sono altre motivazioni – storiche, politiche, economiche e a volte anche etno-linguistiche – che portano alla definizione dei confini dei moderni Stati sovrani. Eppure, storicamente, questa unità non è stata da sempre considerata un dato acquisito e diverse linee di confine sono state ritenute nel tempo piú significative della grande catena montuosa settentrionale (vedi box alle pp. 68-69). In realtà, vista dall’interno – nell’unico modo in cui poteva essere presa in considerazione dalle popolazioni preromane – la Penisola italiana non è poi cosí unitaria e uniforme, presentando una grande varietà di coste,

dalle facies ai marker: Il problema L’assenza di dati epigrafici e linguistici e delle notizie ricavabili da fonti letterarie (sia pure straniere, per esempio greche) non consente agli studiosi di acheologia preistorica di articolare con precisione il riconoscimento dell’unitarietà dei gruppi umani di una determinata area o regione, senza il rischio di distinguere troppo minuziosamente o di accomunare troppo largamente dati diversi. Ma, in realtà, la distinzione di caratteri etnici non è compito primario, né necessario dell’archeologia: l’archeologo ha la possibilità di indagare soltanto la cultura materiale, ovvero l’insieme di oggetti e comportamenti che lasciano una traccia concreta, come le forme di oggetti e strumenti o le loro decorazioni, ma anche le modalità di occupazione del territorio, i tipi di abitazione o i rituali funerari, religiosi o sociali, e cosí via. L’associazione ricorrente di alcuni di questi elementi della cultura materiale (detta facies nel gergo-tecnico scientifico) consente di identificare caratteri comuni ai gruppi umani che ne sono responsabili. Su queste basi, però, non è possibile riconoscere con certezza dati «sensibili», come l’appartenenza a un gruppo familiare o a un popolo, le differenze di credo religioso, le contrapposizioni linguistiche o le presunte parentele etniche. È possibile, invece, riscontrare la circolazione di


piú o meno alte e ospitali, con aree A destra: carta delle culture di pianura coltivabili, ma anche acprotostoriche quitrini malsani e lagune costiere, attestate nella separate tra loro da un interno monPenisola italiana. tuoso, praticabile solo attraverso le In basso: valli fluviali e i valichi appenninici. coperchio di E ancora, diversi da tutto il resto cinerario sono gli altopiani pugliesi e l’imsormontato da mensa pianura padana, per non par- due figure umane, lare dei rilievi prealpini e delle vetin ceramica te delle Alpi, che racchiudono valli d’impasto, da ospitali e invitanti, canali obbligati Pontecagnano (Salerno). di passaggio per comunicare con IX sec. a.C. l’Europa. La posizione mediana nel Pontecagnano, Mediterraneo causò inoltre un Museo continuo movimento migratorio di Archeologico persone e di gruppi piú o meno Nazionale. estesi per le genti della Penisola, da sempre aperta alle migrazioni succedutesi nel tempo.

Un mosaico di genti Queste furono senz’altro alcune delle principali motivazioni che portarono al notevole particolarismo del popolamento delle regioni italiane, con genti di diversa lingua e cultura spesso affiancate e a volte sovrapposte o in continua osmosi nelle diverse aree, sin dal momento

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delle «identità» etniche preistoriche oggetti e di idee – sia per quanto riguarda le «nuove» tecnologie, sia per le attività rituali e religiose –, seguire i contatti tra genti piú o meno vicine e l’arrivo di oggetti e influenze da luoghi lontani, spesso da paesi di cultura piú avanzata. E, a volte, specialmente quando ci si avvicina alle età storiche e ad altre fonti di informazione, la congruenza di molti elementi di forte significato culturale (detti marker) consente di ipotizzare l’appartenenza a un’unica compagine etnica di un gruppo umano abitante in una regione o in un’area estesa. Tuttavia, è bene ricordare che, in realtà, ogni singola comunità umana è in sé un gruppo a parte, distinto dai propri vicini e da gruppi piú lontani (come ben dimostra il persistere di sentimenti campanilistici). Quelli che possono sembrare dei segni distintivi forti agli occhi degli studiosi, potevano rivestire un minore significato per gli antichi, calati nel loro contesto culturale; per cui è sempre rischioso voler attribuire un valore etnico ai raggruppamenti basati sulla cultura materiale in mancanza di conferme da parte di altre fonti di informazione.

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Carta delle popolazioni attestate nella Penisola italiana in epoca preromana.

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A sinistra: scultura funeraria in nenfro raffigurante un centauro, dalla necropoli di Poggio Maremma di Vulci, nel Lazio. Inizi del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

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in cui questo genere di informazioni è disponibile nella documentazione storica. Tale caratteristica differenzia l’Italia per esempio dalla Grecia, dove, pur con tutte le distinzioni culturali, politiche e tribali delle compagini territoriali e delle diverse poleis, l’intera area egea e peninsulare fa capo a una sostanziale unità culturale ellenica, riconosciuta dagli stessi antichi. Piú simile all’Italia, da questo punto di vista, è la situazione dell’Anatolia, ponte tra Oriente e Occidente, attraversata da genti e stimoli di diversa provenienza e continuamente frazionata nel popolamento per tutta l’antichità.

Il fattore linguistico Tra gli studiosi, quando si parla di differenziazione etnica, c’è spesso la tendenza a considerare fondamentale la distinzione linguistica, tendenza che, nel secolo passato, ha portato, da una parte, a creare veri e propri albe-

ri genealogici linguistici, spesso (erroneamente) ritenuti lo specchio delle parentele etniche (con pericolose deviazioni come quelle legate all’ormai superata dottrina della razza!); d’altronde, l’impossibilità di proiettare – se non per ipotesi – le connotazioni linguistiche nella preistoria, quando manca una documentazione scritta che possa trasmetterci le caratteristiche delle parlate locali, ha costituito per un’ampia tradizione di studi una sorta di barriera metodologica, con conseguenti difficoltà di dialogo tra le discipline archeologiche storiche e quelle preistoriche e protostoriche. In realtà, anche se la componente linguistica è sempre stata un forte elemento di connotazione etnica, non dovrebbe essere considerata un dato sufficiente, né indispensabile per accomunare o dividere drasticamente popoli e civiltà (si pensi, banalmente, alla pluralità linguistica della Svizzera moderna).

A sinistra: altorilievo in terracotta policroma, dal frontone posteriore del Tempio A di Pyrgi, l’antico porto di Cerveteri, nel Lazio. Raffigurava due diversi episodi del mito dei Sette contro Tebe: l’uccisione di Capaneo mentre tenta l’assalto alle mura della città e il duello tra Tideo e Melanippo. Seconda metà del V sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In basso: statua-busto in pietra fetida, da Chiusi (Grosseto). Inizi del VI sec. a.C. Chiusi, Museo Archeologico.

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speciale le prime unità d’italia Di fatto, però, l’ampia sovrapponibilità delle cartine di distribuzione delle lingue dell’età storica con i confini noti delle diverse culture materiali (o facies) di epoca protostorica e storica ha permesso di riconoscere una tendenza alla continuità nella diffusione di alcuni importanti fattori culturali di portata regionale, fino alla definizione dei gruppi etnici di cui ci parlano le fonti letterarie latine e greche, man mano che sono entrati in contatto con i coloni greci prima e con i conquistatori romani poi.

«Unità» preistoriche A questo proposito, per quanto riguarda l’Italia, l’interpretazione dei dati archeologici protostorici ha aperto una vivace polemica metodologica riguardo al riconoscimento del carattere etrusco della cosiddetta cultura villanoviana, documentata durante la prima età del Ferro nelle stesse aree in cui, nei secoli successivi, furono rinvenute le tracce epigrafiche della presenza degli Etruschi. Per le epoche precedenti, però, nelle varie fasi dell’età del Bronzo, è

A destra: piú difficile identificare distinzioni particolare del etniche nei popolamenti regionali e «Cratere di gli studiosi in genere valorizzano Aristonothos» alcune caratteristiche che accomucon scena di nano larghe estensioni territoriali battaglia navale, (vedi box alle pp. 70-71). È stato il da Cerveteri. caso, per esempio in Europa, della Secondo quarto cosiddetta cultura dei «campi di del VII secolo a.C. urne» (in tedesco Urnenfelder), che Roma, Musei ebbe una sua appendice anche al di Capitolini. qua delle Alpi. Nell’età del Bronzo In basso: media e recente (tra il XIV e il XII antefissa in terracotta secolo a.C.), l’Italia peninsulare è accomunata da alcuni aspetti di cul- policroma a testa di Gorgone. Età tura materiale che vanno sotto l’etiarcaica. Santa chetta di «appenninico» e si conMaria Capua trappongono alla Pianura Padana, Vetere, Museo dove, nello stesso periodo, si diffonArcheologico de la cultura detta «delle terramare», dell’Antica mentre, nel sud, si hanno i primi Capua. contatti con il mondo greco che, data l’epoca, si riscontra nella presenza di manufatti micenei. Solo piú tardi, durante l’età del Bronzo finale (XI-X secolo a.C.), la diffusione del Protovillanoviano consente di raggiungere quello che Massimo Pallottino ha definito «un fenomeno comune a tutta l’Italia, settentrionale e peninsulare: primo, anzi unico, momento di

un or izzonte apparentemente unitario a sud delle Alpi». Di fatto, si trattò di un’apertura culturale all’Europa transalpina, dalla quale si diffuse la tradizione delle sepolture a incinerazione, anche se in Italia questa si accompagnò all’uso di un cinerario biconico – che precorre il vaso tipico della successiva cultura villanoviana – e alla presenza di alcune particolari forme di vasellame, accessori di bronzo e ornamenti. Come si è detto, però, questa provvisoria unità di cultura materiale – che non ha mai comportato alcuna comunità di tipo etnico o politico – si frantumò con il passaggio alla prima età del Ferro, quando si osservano le ampie aree di diffusione di facies regionali come quella villanoviana, di cui si è detto, tra Toscana ed Emilia-Romagna, con appendici a 74 a r c h e o


Fermo sull’Adriatico e nella Campania meridionale, quella golasecchiana a nord-ovest e quella atestina a nord-est, la cultura delle Tombe a fossa lungo il Tirreno meridionale e altre esperienze locali definite in base all’estensione territoriale come laziale, medio-adriatica, apulo-salentina (in Puglia), enotria (tra Calabria e Basilicata), ecc.

L’«onnipresenza» etrusca Molti secoli piú tardi, il grande erudito romano Catone il Vecchio, vissuto a cavallo tra il III e il II secolo a.C., non esitava, parlando di tempi remoti, a dichiarare che «quasi tutta l’Italia era stata sotto il dominio degli Etruschi» (e della sua affermazione si serví piú tardi il grammatico Servio, anacronisticamente, per dire che, in fin dei conti, anche i Volsci erano in realtà soggetti al potere etrusco). Nell’immagine che i Romani conservavano degli Etruschi, evidente-

mente, si manteneva vivido il ricordo della grandezza e quasi dell’«onnipresenza» di quella grande civiltà, della quale essi stessi per molti versi si riconoscevano debitori per tradizioni, istituzioni e cultura. Dice Tito Livio, nel suo libro introduttivo, che, già all’epoca di Enea, «era tanta la ricchezza dell’Etruria che la fama del suo nome aveva riempito non solo le terre, ma anche il mare per tutta la lunghezza d’Italia dalle Alpi allo stretto di Sicilia». Naturalmente lo storico patavino aveva in mente l’estensione dell’Italia dei suoi tempi, che Augusto aveva voluto estesa fino all’arco alpino, ma colpisce la sostanziale coincidenza con quanto diceva Catone. E, in un altro passo, è lo stesso Livio a spiegare che cosa intendesse con queste affermazioni: «per spiegare quanto grande sia stato il potere degli Etruschi, una prova viene dal nome dei due mari che abbracciano

l’Italia di sopra e di sotto, come se fosse un’isola: l’uno infatti è chiamato comunemente Etrusco dalle genti Italiche e l’altro Adriatico, dalla colonia etrusca di Adria, per i Greci, invece, sono rispettivamente detti Tirreno e Adriatico»; e poi ancora: «avendo mandato delle colonie, occuparono tutti i luoghi che sono al di là del Po, fino alle Alpi, eccetto l’angolo dei Veneti, che abitano attorno a un golfo marino. E anche le popolazioni alpine hanno origine etrusca, soprattutto i Reti, che si sono inselvatichiti per la stessa natura della loro regione e non conservano quasi nulla della loro antica tradizione salvo il linguaggio, e nemmeno quello immutato». L’Italia preromana, insomma, era per gli antichi una terra etrusca e, seppure non in senso politico o «nazionale», la presenza e influenza culturale etrusca su tutta la Penisola aveva avuto un effetto per larga a r c h e o 75


speciale le prime unità d’italia parte unificante nei confronti dei particolarismi locali.Vale dunque la pena di fermarsi a osservare quali sono state le ragioni storiche dell’alta considerazione in cui gli Etruschi erano tenuti nella memoria dell’antica storia d’Italia. Gli studiosi definiscono ancora oggi Etruria «propria» il territorio corrispondente alla VII regio della ripartizione amministrativa augustea, ma, in realtà, come abbiamo già accennato, l’estensione del popolamento etrusco al di là degli Appennini in area padana e nel sud in Campania era un fatto già della prima età del Ferro, come dimostra la diffusione di elementi villanoviani tipici e la documentazione di contatti con i centri dell’odierna Toscana (anzi, a dire il vero, il nome stesso della cultura villanoviana fu der ivato nell’Ottocento dalla necropoli di Villanova, presso Bologna).

Tarconte e i dodici popoli Sin dalle sue origini, dunque, la vocazione delle popolazioni portatr ici della cultura mater iale dell’Etruria propria andava oltre l’ambito regionale e si protendeva verso altri territori, non necessariamente privilegiando i piú vicini. La genuina tradizione etrusca poneva alle origini della civiltà il mitico fondatore Tarconte, che avrebbe dato vita alle dodici città che costituivano la nazione degli Etruschi: i «Dodici Popoli d’Etruria». Gli antichi non hanno tramandato una lista completa delle città che costituivano la dodecapoli e, nel corso del tempo, piú d’uno studioso si è cimentato con il compito di compilarne l’elenco, che senza dubbio deve aver compreso i centri piú importanti, come Cerveteri, Veio, Tarquinia e Vulci al sud, Volsinii, Chiusi, Cortona e Perugia nell’interno,Volterra e Vetulonia sulla costa settentrionale; ma a questi sono probabilmente da aggiungere ancora Arezzo e Roselle, mentre altri centri hanno acquisito importanza solo piú tardi, alle soglie della romanizzazione, come Fiesole o Pisa. Non può invece essere inclusa nel 76 a r c h e o

Pittura funeraria raffigurante cavalieri sannitici (particolare), da Paestum. IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale. Il territorio occupato dai Sanniti, popolazione di lingua osca, comprendeva parte dell’Abruzzo, della Campania e del Molise. Le ostilità con Roma, cominciate alla metà del IV sec. a.C., si conclusero nel I sec. a.C., con la Guerra Sociale per la conquista della cittadinanza.


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speciale le prime unità d’italia


Nella pagina accanto, a sinistra: la statua-stele nota come Guerriero di Capestrano. VI sec. a.C. Chieti, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto, a destra: statua di un personaggio identificabile con un meddix (magistrato supremo presso i popoli italici di lingua osca) sannita. II sec. a.C. Benevento, Museo del Sannio.

novero Populonia, che pure è stata un centro di primaria importanza per il controllo delle risorse minerarie, perché è l’unico caso in cui una fonte antica, citata dal grammatico Servio, dica espressamente che la fondazione della città è avvenuta dopo l’istituzione della dodecapoli.

Da Felsina a Hamae In un secondo momento il grande fondatore Tarconte si sarebbe poi spostato di persona in area padana, per istituire un’analoga dodecapoli, il cui centro primario era senz’altro Felsina (il nome etrusco di Bologna), ma comprendeva anche centri come Mantova, Rubiera, Sanpolo d’Enza e forse Modena a ovest, a cui scoperte recenti consigliano di aggiungere anche Parma, e come Adria, Spina, Verucchio, Rimini e forse Ravenna a est, verso l’Adriatico. Infine, un’attività di Tarconte anche in Campania è stata ipotizzata in base all’interpretazione di un frammento di un elogio del personaggio, risalente alla prima età imperiale, in cui compare la località di Hamae, sede di un antico luogo sacro presso Capua. La grande estensione territoriale della civiltà etrusca era quindi considerata un dato originario, a cui si aggiungeva la forte influenza culturale e politica esercitata su alcuni dei popoli vicini. Ne è un esempio la vicenda della monarchia etrusca di Roma, che tra il VII e il VI secolo vide avvicendarsi sul trono della città eterna i due Tarquinii, tra i quali si frappose Servio Tullio, probabilmente preceduto per breve tempo dai fratelli Vibenna, avventu-

rieri vulcenti (vedi «Archeo» n. 319, settembre 2011). Scambi di doni aristocratici, che documentano rapporti politici e istituzionali ad alto livello con l’Etruria, sono ben noti nel Lazio per l’età orientalizzante a Roma e a Palestrina, ma anche a Lavinio, mentre poco piú tardi sono documentate offerte in un luogo di culto di Anagni. La diffusione delle iscrizioni etrusche, inoltre, va ben al di là dell’estensione dei territori attribuiti agli Etruschi, a testimonianza della circolazione di persone, ma anche dell’ampiezza dei loro interessi politici e commerciali e perfino delle potenzialità di espansione della loro civiltà. La concentrazione di materiale epigrafico a Genova, per esempio, è la prova dell’esistenza di un porto

La pertinenza agli Etruschi di gran parte dell’Italia era riconosciuta anche dai Greci, che con essi avevano instaurato duraturi e proficui scambi commerciali e culturali sin da prima della colonizzazione dell’VIII secolo a.C. In questo caso si parlava soprattutto di «talassocrazia», ovvero dominio incontestato del mare, di cui le città costiere dell’Etruria meridionale godettero a lungo durante l’età arcaica, costringendo i navigatori greci a venire a patti ovvero debellando con azioni di forza i tentativi di invasione delle acque del Tirreno.

Il dominio sul mare A quest’ultima categoria appartiene, per esempio, il grande scontro sul mare noto come «battaglia del Mare Sardo», svoltosi all’incirca tra il 540 e il 535 a.C. e descritto da Erodoto, in cui una flotta etrusca capitanata dai Ceretani decimò quella dei Focei, installatisi in Corsica, costringendoli ad abbandonare l’isola e a rifugiarsi nell’Italia meridionale. E forse anche piú efficace fu la conquista etrusca – sia pur per breve tempo, attorno al 485 a.C. – delle isole Lipari, da cui i coloni greci imponevano uno scomodo controllo sulla navigazione nello stretto di Messina (attraverso il quale gli Etruschi esercitavano, all’epoca, i propri interessi marittimi). I mari italiani, quindi, erano un dominio quasi incontrastato degli Etruschi, anche se con diversa partecipazione da parte delle città costiere: si ricordano interventi etruschi in Sardegna e Corsica (nell’ambito dei quali furono siglati accordi con un’altra grande potenza marittima del Mediterraneo: Cartagine) e anche, ma molto piú tardi, alla fine del V secolo a.C., in Sicilia, al fianco degli Ateniesi contro Siracusa. Con l’andare del tempo, però, gli attacchi di diverse potenze greche, anche se di volta in volta furono rintuzzati o ridimensionati dall’intervento militare etrusco, finirono con il fiaccare e indebolire la loro potenza. Sul finire dell’età arcaica,

Gli Etruschi esercitarono una profonda influenza culturale e politica sui popoli vicini commerciale etrusco nella città, posto sulla rotta verso la Lingua d’Oca – dove erano dislocati altri importanti insediamenti commerciali etruschi –, ma anche sbocco delle vie di scambio terrestri verso le regioni settentrionali liguri e celtiche. E proprio in questa direzione la scrittura etrusca si diffuse precocemente presso le popolazioni celtiche dell’area golasecchiana (tra Sesto Calende e Como), attraverso gli stretti rapporti tra famiglie aristocratiche, di cui si è conservata la prova tramite la firma congiunta tra uno «scriba» etrusco (zikhu) e un personaggio locale. Ma, già in precedenza, lungo l’Arno si registravano doni da parte di principi liguri che scrivevano in etrusco in onore dei piú avanzati vicini e a Prestino, presso Como, come anche a Sesto Calende, si stavano formando insediamenti proto-urbani sul modello di quelli dell’Etruria.

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speciale le prime unità d’italia Centri principali

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Colonie fondate nel sec. II a.C. (tra parentesi l’anno di fondazione)

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Buxe uxentum uxentum m (19 (1 194 1 19 94, p 94 poi 18 86) 6) Th hu h urii Copia u (193 (19 19 9 )

Cara arrra ara a alles les es

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M a r M e d i t e rrane o

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vi furono, invece, alcuni interventi militari di terra, che intendevano consolidare e ampliare il potere territoriale degli Etruschi su altre regioni d’Italia.

Le avvisaglie del declino Attorno al 525 a.C. una fonte di Dionigi d’Alicarnasso racconta di una grande impresa condotta dagli Etruschi con l’aiuto di Umbri, Dauni e altri barbari, che avrebbe dovuto portare alla conquista di Cuma in Campania, una delle piú antiche colonie greche d’Occidente. Sebbene la spedizione sia fallita, anche grazie all’intervento del futuro tiranno della città, Aristodemo, la provenienza dei barbari che accompagnavano l’impresa dimostra che si 80 a r c h e o

M ar I o n iio o

Croton ( (194 ) Castrum Ca Hann nibalis (199 (199)) Mine nervium (S (Sco cola acium cium) (12 22))

Temp psa s (194 94)) Vibo ib Valenti ib Valent ntia nt nti (192) (192

U sti s tica

Carta della Penisola italiana, con i centri principali e le colonie fondate da Roma nel II sec. a.C.

trattava di un’iniziativa presa dagli Etruschi dell’Adriatico, a riprova della loro intraprendenza e dell’ampio respiro della loro politica sul territorio italiano. Poco piú tardi, nel 504 a.C., il famoso Porsenna, re di Chiusi e di Volsinii, che aveva occupato Roma all’indomani dell’istituzione della repubblica, inviò suo figlio Arrunte a soggiogare i Latini, per ripristinare il controllo etrusco sul Lazio, interrottosi dopo la caduta dell’ultimo dei Tarquinii. E l’operazione sarebbe riuscita se, nel corso della grande battaglia di Ariccia, in soccorso dei Latini ormai quasi in rotta non fosse intervenuto proprio Aristodemo di Cuma, ricacciando cosí le forze di Porsenna di nuovo entro i confini

150 Km

d’Etruria (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 58-65). L’ennesimo tentativo (fallito) di sconfiggere Cuma – e aprire cosí agli Etruschi le porte della Magna Grecia e del Tirreno meridionale – fu portato avanti sul mare, nel corso di una grande battaglia, combattuta nel 474 a.C., che segnò l’inizio del declino della potenza militare etrusca, grazie all’entrata in campo di un nuovo irriducibile avversario: Siracusa. La politica espansionistica dei tiranni di questa città causò, infatti, dopo la disfatta cumana, ulteriori spedizioni militari nel cuore stesso d’Etruria, contro l’isola d’Elba e la Corsica, alla metà del V secolo a.C., e poi contro Cerveteri, il cui porto


di Pyrgi (l’odierna Santa Severa) fu saccheggiato nel 384 a.C. Nel frattempo, tra il V e il IV secolo a.C., anche i domini padani degli Etruschi furono fortemente ridimensionati dalla calata di popolazioni celtiche che avevano oltrepassato le Alpi (dice la tradizione, per desiderio di raggiungere i luoghi di produzione del vino) e, intorno al 390 a.C., erano penetrate direttamente in Etruria saccheggiando Chiusi e muovendo poi alla volta di Roma, dove si ebbe il famoso sacco di Brenno. L’Etruria era ormai tornata a essere una potenza di carattere regionale e la vagheggiata «unità» d’Italia, a cui piú tardi Catone e Livio avrebbero alluso nelle loro opere, era ormai soltanto il ricordo annebbiato di un tempo che fu.

La tradizione «Safina» Con il IV secolo a.C. inizia ad affacciarsi alla ribalta un’altra potenza militare (e un altro modello di società), che avrebbe portato nel corso dei secoli seguenti a una nuova concezione dell’unità italiana: si tratta della nazione dei Sanniti, con la quale i Romani dovettero scontrarsi a lungo per ottenere il primato nell’Italia centro-meridionale, nel corso delle tre lunghe e sanguinose «guerre sannitiche» (tra il 343 e il 291 a.C.; vedi box a p. 86). Con loro lo Stato romano

repubblicano strinse precocemente un trattato di pace, per delimitare le rispettive sfere d’interesse nel Lazio meridionale e in Campania. Per spiegare il significato e l’importanza di questa popolazione, che a buon diritto possiamo definire propriamente italica, occorre però fare qualche passo indietro e tornare all’epoca semi-mitica delle origini: la stragrande maggioranza delle popolazioni dell’Italia centro-meridionale faceva risalire la propria origine piú o meno direttamente ai Sabini, la cui sede originaria era posta nel cuore dell’Italia centrale, tra la riva del Tevere, l’Aniene e le

In alto: le rovine del «tempio A», nell’area archeologica di Pietrabbondante, presso Isernia. Il santuario, importante centro religioso sannita costruito tra la fine del V e la prima metà del IV sec. a.C., era formato da diversi edifici, i piú importanti dei quali sono il «tempio A» e il «teatro-tempio B». L’insediamento di Pietrabbondante prosperò per circa 800 anni, dal V sec. a.C. fino al IV d.C., quando i Romani sconfissero definitivamente i Sanniti.

1

2

Disegno ricostruttivo del Santuario sannitico di Pietrabbondante, come doveva apparire nel II sec. a.C. 1. Tempio A. 2. Teatro-tempio B

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speciale le prime unità d’italia quando cesare (non) si fermò al rubicone

Denario d’argento, emesso dal triumviro monetale Publius Sepullius Macer. Al dritto (in alto), il ritratto di Giulio Cesare con legenda CAESAR IMP; al rovescio (a destra), Venere tiene in mano la Vittoria con legenda P. SEPVLLIVS MACER. 44 a.C. Collezione privata.

Nel 59 a.C. Caio Giulio Cesare, Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso stipularono l’accordo che sarebbe passato alla storia come il primo triumvirato. In seguito a tale intesa, Cesare ottenne la carica di console per quello stesso anno e piú tardi, in qualità di proconsole, ottenne le provincie della Gallia Cisalpina e dell’Illiria con delega per la conquista della Transalpina e il comando di quattro legioni per cinque anni, poi prorogati di altri cinque. Cosí, mentre Pompeo manteneva di fatto il controllo di Roma e della repubblica, Cesare iniziò la sua campagna di Gallia, al termine della quale i domini romani compresero i territori dell’attuale Francia, del Belgio e parti della Britannia e della Germania. Parallelamente, Crasso intraprendeva una grandiosa spedizione in Oriente contro i Parti, durata fino all’ignominiosa sconfitta di Carre e alla sua morte nel 53 a.C. A questo punto la rivalità tra Cesare e Pompeo divenne insostenibile e il primo si trovò nella necessità di decidere se conservare una parvenza formale di diritto nelle sue funzioni di comando o stravolgere le tradizioni della repubblica: in altre parole, doveva decidere se avrebbe

montagne del Reatino fino alla valle dell’Aterno a est. In particolare, tra quelle alture si trovava l’antica metropoli dei Sabini, Testruna (probabilmente l’odierna Campotosto, in provincia di Rieti), ovvero la «città madre» nella quale essi si sarebbero riconosciuti come popolo indipendente. E ancora, poco lontano – a 12 km da Rieti – si trovava il lago termale di Cutiliae, considerato da Varrone l’umbilicus Italiae, ovvero il cuore stesso della Penisola, posto nel suo centro geometrico.

«Primavera sacra» La tradizione vuole che dal popolo dei Sabini, nel corso dei secoli, si siano distaccati come costole tutti gli altri popoli italici, dei quali oggi si r iconosce l’appartenenza a un’unica famiglia linguistica, defiDenario d’argento emesso dagli alleati italici nel corso della guerra sociale. 89-91 a.C. Londra, British Museum. Al dritto, testa laureata, personificazione dell’Italia come dea, con legenda ITALIA, una tra le prime

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testimonianze epigrafiche dell’uso del nome; al rovescio, il patto giurato tra i popoli d’Italia contro i Romani simboleggiato da otto soldati armati che puntano le loro spade contro un personaggio inginocchiato che tiene un suino.


affrontato Pompeo a Roma con le armi della politica e della dialettica (che in quell’epoca sembravano favorire il suo avversario) oppure se sarebbe sceso a uno scontro militare. Al principio del 49 a.C. la conquista della Gallia era ormai terminata e Cesare si mosse con le sue truppe vittoriose per rientrare a Roma, dove, per ordine del Senato, avrebbe dovuto rimettere il proprio potere. Lungo il viaggio di ritorno, il futuro dittatore si fermò al confine della sua provincia, lungo il fiume Rubicone, che si getta nell’Adriatico nei pressi di Cesena, limite oltre il quale il proconsole non aveva il diritto di muoversi al comando delle proprie truppe. Alla metà del I secolo a.C., quindi, la «porta» di Roma e d’Italia era posta lungo la via Aemilia, probabilmente all’altezza dell’odierna Savignano (ma non mancano polemiche sull’esatta localizzazione del sito): nell’oltrepassarla, Cesare avrebbe infranto la legge e l’ordine che regolavano la vita istituzionale romana e vincolavano il potere dei magistrati. All’alba del 10 gennaio di quell’anno, Cesare attraversò il fiume con tutto il suo esercito e pronunciò la celebre frase: alea iacta est, «il dado è tratto». Da allora in poi tutto sarebbe stato deciso dalle armi e non era piú possibile tornare indietro…

nita osco-umbra o umbro-sabellica. Secondo le fonti il processo di «gemmazione» etnica dipendeva da un antico rituale sacrificale, definito in latino ver sacrum, cioè «primavera sacra»: tutti i primi nati delle famiglie e del bestiame venivano votati in particolari occasioni e consacrati a un esilio che, piuttosto che una condanna, era una sorta di rito sostitutivo al posto di un sacrificio umano. La migrazione che ne conseguiva avveniva sotto la tutela di un animale sacro, che simboleggiava la protezione divina e, il piú delle volte, finiva con il dare il nome al nuovo popolo che si veniva a formare. In questo modo si ebbero i Piceni (in latino Picentes) dal picchio sacro a Marte (picus) o gli Hirpini dal lupo (hirpus). Le diverse ondate migratorie portarono a una progressiva espansione, dagli Umbri a nord ai Sidicini nei pressi di Capua, che, a sua volta, causò la nascita di nuovi popoli, come i Sanniti a sud, tra Abruzzo, Molise e Campania, che generarono i Lucani, posti ancora piú a sud, tra Basilicata e Campania, da cui si distaccarono infine i Bruzii della

Busto in marmo di Giulio Cesare. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Calabria. Ulteriori movimenti di età storica furono dovuti a cause economiche e militari, come la nascita dei Campani dalle classi inferiori delle città greco-etrusche, che, nel V secolo a.C., conseguirono una vera e propria autocoscienza etnica e si impadronirono del potere, o come la presa di Messina da parte dei Mamertini, giunti in Sicilia come mercenari al seguito del greco Agatocle e lí stanziatisi sotto la protezione del dio Marte (l’italico Mamers). Al di là delle diverse denominazioni e dei contesti storici e geografici, tutte queste popolazioni si riconoscevano nella propria appartenenza originaria a questa tradizione «italica» unitaria, che veniva resa concreta dall’adozione dell’antico nome di «Safini». Con questo nome, corrispondente a quello che con norme fonetiche latine è arrivato fino a noi mutato in Sabini, definivano se stessi e le proprie comunità gli arcaici aristocratici piceni, le cui testimonianze epia r c h e o 83


speciale le prime unità d’italia Ve n o s t e s e Ve n on

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Umbria VI

Divisione amministrativa dell’Italia in undici regioni

I-XI


grafiche funerarie si estendono tra il VI e il V secolo a.C. dalle Marche meridionali all’Abruzzo e, con un’attestazione, perfino a Farfa nel Lazio. Ma lo stesso nome era dato, centinaia di anni dopo, alla lega dei Sanniti, definita propriamente Safinim in lingua locale, da cui i nomi trasformati nella pronuncia dei Saunitai in greco e dei Samnites in latino. Nel frattempo, anche i re sabini di Roma, da Tito Tazio a Numa Pompilio e Anco Marzio, avevano lasciato la propria traccia indelebile nella storia della città, che al suo interno ospitava famiglie di antica tradizione sabina come i Claudii, i Valerii e gli Aurelii. Insomma, anche quella dei popoli «Safini» può essere considerata una sorta di prefigurazione dell’unità italiana, anche se limitata all’Italia centro-meridionale e ridotta a un’appartenenza quasi «genetica» che rinviava alle origini miti-storiche.

Gli Italici alla guerra sociale Il significato di questa tradizione unitaria, però, tornò prepotentemente alla luce molto piú tardi, nel contesto della guerra sociale che gli Italici combatterono contro Roma nell’intento di ottenere la piena cittadinanza. Lungi dall’essere uno scontro etnico e culturale, infatti, la guerra sociale (cioè dei socii, gli «alleati» di Roma, che si erano ribellati contro la propria condizione di inferiorità civile) fu un evento traumatico di integrazione, combattuto da popolazioni che facevano ormai parte del mondo romano e volevano prendere parte dei benefici dell’appartenenza al corpo civico della repubblica. Ciononostante, proprio nel momento in cui chiedevano la piena integrazione al popolo romano, le genti italiche si raccolsero nel segno di una propria unità e indipendenza culturale, esplicitata nel nome Viteliú, battuto sulle monete coniate allo scopo di pagare i soldati: per la prima volta nella storia il nome d’Italia (nella sua variante di pronuncia sannita) veniva utilizzato per aggregare gen-

A destra: bronzetto di signifero (portainsegne), da Alba Fucens (Abruzzo). I sec. a.C. Chieti, Museo Nazionale Archeologico dell’Abruzzo. Nella pagina accanto: carta della Penisola con la divisione in XI regioni attuata da Augusto.

ti diverse sotto un’unica bandiera. Il nemico comune era identificato in quegli stessi Romani a cui i socii italici volevano essere assimilati: eloquente, in questo senso, è l’emblema stesso delle monete, con il toro italico, in rappresentanza degli animali sacri che guidavano le primavere sacre, che schiaccia sotto il suo peso la lupa romana in un confronto impari. In realtà, i popoli che nel 91 a.C. si unirono nella guerra contro Roma non furono che una parte di quelli che si riconoscevano nell’originaria unità «safina» e non potevano rappresentare che una parte delle popolazioni della Penisola italiana eventualmente interessate al conseguimento della cittadinanza. Infatti, per le cause piú diverse (a volte difficili da valutare oggi), Etruschi, Umbri, Piceni (con l’eccezione del distretto che faceva capo ad Asculum) e una larga parte delle popolazioni dell’Italia meridionale non aderirono alla rivolta. Alle due fazioni che composero l’esercito dei socii presero invece parte, rispettivamente, da un lato Marsi, Peligni, Vestini, Marrucini, Piceni Ascolani e Frentani e, dall’altro, Irpini, abitanti di Pompei e Nola in Campania e di Venusia in Puglia, Iapigi (ovvero Apuli del nord), Lucani e Sanniti.

Cittadini di Roma La capitale dei rivoltosi fu posta in un primo tempo a Corfinium, in territorio peligno, e, piú tardi, a Isernia (Aesernia), strappata al controllo dei Romani, mentre a Pietrabbondante, in Molise, fu istituito un grande santuario «federale», che costituí il a r c h e o 85


speciale le prime unità d’italia una penisola contesa X sec. a.C.

Età del Bronzo Finale: prodromi della

civiltà etrusca in diversi siti compresi nel territorio dell’Etruria. IX-VIll sec. a.C. Età del Ferro, detta in Etruria facies villanoviana. Formazione del popolo etrusco. 775 a.C. circa Fondazione dell’emporio di Pithecusa da parte degli Eubei. 753 a.C. Fondazione di Roma da parte di Romolo. 750 a.C. circa Fondazione della colonia di Cuma da parte degli Eubei. Ultimo quarto Secondo le fonti, primi scontri tra Roma dell’VIll sec. a.C. e Veio per il possesso delle saline alla foce del Tevere. VIll-VI sec. a.C. Presenza di manufatti etruschi, in genere bronzi, nei santuari ellenici di Olimpia, Delfi, Dodona, Samo, Perachora, Atene-Acropoli. 615 a.C. Inizio del governo etrusco a Roma con l’ascesa al potere di Lucumone, figlio di Demarato, che assume il nome di Lucio Tarquinio Prisco. 600 a.C. circa Fondazione della colonia di Marsiglia da parte dei Focei. 578-534 a.C. Regno di Servio Tullio a Roma e riforme «democratiche». 565 a.C. Fondazione della subcolonia di Alalia (Corsica) da parte dei Focei di Marsiglia. 540 a.C. circa Battaglia del Mare Sardo e affermazione della talassocrazia etrusca. 534-509 a.C. Regno di Lucio Tarquinio il Superbo a Roma. 525 a.C. Vittoria di Aristodemo di Cuma su un esercito di Etruschi dell’Italia settentrionale, di Umbri, di Dauni e di altri «barbari». 509 a.C. Dedica del tempio di Giove Capitolino a Roma, per il quale avevano lavorato lo scultore Vulca di Veio e altri artefici etruschi. Espulsione di Lucio Tarquinio il Superbo da Roma e istituzione della repubblica. Arrivo a Roma di Larth Porsenna, re di Chiusi e di Volsinii, in aiuto di Tarquinio, ma con il chiaro intento di impossessarsi del potere. 504 a.C. Vittoria di Aristodemo di Cuma e dei Latini sull’esercito di Arrunte figlio di Larth Porsenna, ad Ariccia. 485 a.C. Vittoria di Coriolano sui Volsci. 480 a.C. Vittoria dei Siracusani sui Cartaginesi a Himera. 428 a.C. Guerra tra Roma e Veio e morte in battaglia del re veiente Lars Tolumnio. 426 a.C. Conquista di Fidene da parte di Roma e tregua tra Roma e Veio. 415-413 a.C. Partecipazione degli Etruschi (tre navi) 86 a r c h e o

405-396 a.C.

Inizi del IV sec. a.C. 390 a.C. circa 358-351 a.C. 343-341 a.C. 340-338 a.C. 328 a.C. 327 a.C. 308 a.C. 298-291 a.C. 295 a.C. 282 a.C. 272 a.C. 225 a.C. 217 a.C. 205 a.C.

189 a.C. 90-88 a.C.

83 a.C. 83-82 a.C. 49-42 a.C. 41-40 a.C. 7 a.C. circa

a fianco degli Ateniesi all’assedio (fallito) di Siracusa. Guerra tra Roma e Veio, che si conclude con l’occupazione e la distruzione della città etrusca e l’annessione del suo territorio a quello di Roma. Discesa dei Galli in Etruria, su istigazione di Arrunte di Chiusi, e sacco di Roma. Fondazione da parte dei Siracusani delle subcolonie adriatiche di Ancona, Adria e Issa. Guerra tra Roma e Tarquinia, che si conclude con una tregua di quaranta anni. Prima guerra sannitica, Guerra di Roma contro la Lega latina e i Campani. Roma padrona di Lazio, Etruria e Campania. Seconda guerra sannitica. Rinnovo della tregua quarantennale tra Roma e Tarquinia. Terza guerra sannitica. Battaglia di Sentino e vittoria dei Romani su Etruschi, Sanniti, Umbri e Galli. Roma padrona dell’Italia, tranne Cisalpina, Bruzii e Magna Grecia. I Romani conquistano Taranto e controllano tutto il Sud. I Romani vincono i Galli a Talamone. Battaglia tra Romani e Cartaginesi presso il lago Trasimeno. Contributo di Cerveteri, Populonia, Tarquinia, Volterra, Arezzo, Perugia, Chiusi e Roselle alla preparazione della spedizione con cui Publio Cornelio Scipione affronterà Annibale a Zama. Fondazione della colonia di diritto latino a Bologna. Guerra sociale ed estensione del diritto di cittadinanza romana agli Italici abitanti a sud del Po (lex Iulia de civitate). Affermazione del latino come lingua ufficiale in Italia. Fine delle culture italiche preromane. Fondazione della colonia di diritto romano a Capua. Campagne di Silla contro le città dell’Etruria settentrionale filomariane. Estensione della cittadinanza romana ai popoli dell’Italia settentrionale. Guerra tra Roma e Perugia. Assedio di Perugia. Divisione amministrativa dell’Italia in undici regioni da parte di Augusto.


cuore religioso delle regioni che si opponevano a Roma. La guerra ebbe vicende alterne, e, nel 90 a.C., fece registrare anche la sollevazione di Umbri ed Etruschi contro i Romani, presto sedata concedendo loro la cittadinanza con un’apposita legge del console Lucio Giulio Cesare. Negli anni seguenti, infine, comunque entro l’87 a.C., le richieste degli insorti vennero di fatto accolte e tutte le popolazioni italiche ottennero la piena cittadinanza romana, sia che avessero diritto latino, sia che fossero state in origine iscritte nel rango dei socii. Ampia parte nella distribuzione delle diverse regioni tra le tribú romane la ebbe Caio

Mario, alla vigilia della guerra civile che lo avrebbe visto fronteggiare la fazione di Silla. Il nome d’Italia era servito allo scopo ed entrò definitivamente nella terminologia istituzionale romana per definire le regioni d’origine di quelli che prima erano stati i socii italici e ora erano parte integrante della repubblica romana. L’ultimo passo verso l’unificazione effettiva dell’Italia antica fu compiuto negli ultimi decenni che hanno preceduto la nostra era: nel 49 a.C. la cittadinanza romana, che era ormai estesa a tutte le popolazioni italiane che risiedevano a sud dell’Appennino e lungo l’Adriatico a partire A sinistra: statua in marmo di Augusto togato, da Velletri. I sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre.

dal Piceno, venne concessa per volere di Giulio Cesare anche alla maggior parte delle comunità della Gallia Cisalpina, da cui proveniva gran parte dei soldati a lui fedeli, che avevano combattuto nella conquista della Gallia Transalpina. Dopo la morte del dittatore, la sua opera fu continuata dai secondi triumviri – e in particolare dal nipote di Cesare, Ottaviano – che, oltre a integrare la provincia Cisalpina nel territorio d’Italia (41 a.C.), furono responsabili di assegnazioni di terre ai propri veterani in seguito alle guerre civili. Successivamente lo stesso Ottaviano, divenuto ormai imperatore e assunto il titolo di Augusto, mise mano alla sottomissione di tutte le piccole tribú ancora indipendenti, che occupavano le valli alpine e insidiavano le vie di trasporto interne all’impero: le operazioni militari si conclusero solo alle soglie della nostra era, come testimonia il cosiddetto Tropaeum Alpium, eretto dal Senato in onore di Augusto presso il confine occidentale dell’arco alpino, l’odierna La Turbie (vedi «Archeo» n. 317, luglio 2011).

Le regioni di Augusto L’Italia romana era stata finalmente unificata e il confine fu posto lungo le Alpi, non lontano da quello del moderno Stato italiano, con le eccezioni significative di Nizza (Nicaea), delle Alpi Lepontine a nord dei grandi laghi e di gran parte dell’Istria, comprese nel territorio italico, mentre un’ampia fetta del Piemonte occidentale ne rimaneva fuori (oltre naturalmente alle isole, che mantennero il proprio ruolo provinciale fino alla fine dell’evo antico). Augusto fu anche responsabile della prima divisione regionale della Penisola, parte della quale mostra di avere ancora efficacia nelle partizioni amministrative moderne che ne sono eredi. I confini delle undici regiones sono ricostruibili grazie alle descrizioni geografiche di Strabone, Plinio il Vecchio e altri, integrate con informazioni provenienti da documenti epigrafici: a r c h e o 87


speciale le prime unità d’italia

Carta della Penisola italiana con le principali attrazioni di ogni regione.


l’idea dell’italia unita fino alle soglie del medioevo Per tutta la durata dell’impero romano, l’Italia rimase una realtà sostanzialmente unitaria, calata nel contesto dell’estensione mediterranea ed europea del dominio di Roma, continuando a costituire, di fatto, il territorio di riferimento della città eterna, tanto piú dopo l’editto di Caracalla, che concedeva la piena cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero (la cosiddetta constitutio Antoniniana, 212 d.C.). Piú tardi, ormai alla fine del III secolo, l’aumento delle differenze linguistiche, economiche e culturali tra le diverse regioni suggerí a Diocleziano di frazionare l’amministrazione in una serie di diocesi, che facevano capo alle due grandi aree che avrebbero costituito i due imperi d’Oriente e d’Occidente. Alla «diocesi italiciana», oltre al territorio della Penisola fino alle Alpi, vennero associate per la prima volta le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica. Con la caduta di Romolo Augustolo, ultimo imperatore d’Occidente (476 d.C.), si venne a creare un regno barbarico d’Italia, retto per circa un ventennio da Odoacre, che si estese anche alla Sicilia, al Norico e alla Dalmazia, mentre Sardegna e Corsica rimanevano in mano ai Vandali. Il regno rimase sostanzialmente unito (formalmente come protettorato dell’impero d’Oriente) sotto gli Ostrogoti di Teodorico, che, rimasto sul trono fino al 526, cercò in un primo tempo di trovare

Regio I, Latium et Campania: conteneva il Lazio a sud del Tevere – eccettuata la Sabina – e la fascia costiera della Campania fino a sud di Salerno. Regio II, Apulia, Calabria, Sallentini et Hirpini: piú ampia dell’odierna Puglia, a cui aggiungeva anche un’ampia fetta di Campania e Basilicata; nonostante la denominazione, non aveva nulla a che fare con la moderna Calabria, dato che il nome designava in antico l’estremità della penisola salentina. Regio III, Lucania et Bruttii: abbracciava buona parte della Magna Grecia, eccettuata la costa flegrea e salernitana, a cui si aggiungeva un ampio territorio interno occupato in precedenza dai Lucani e dai Bruzii, che davano il nome alla regione. Regio IV, Sabini et Samnium: corrispondente a quello che era stato il cuore della rivolta degli Italici «Safini» alla guerra sociale, racchiusi tra il fiume Nera a Nord e l’odierno Molise a sud. Regio V, Picenum: fascia adriatica

un equilibrio nella convivenza di barbari e Romani, ma si orientò in seguito piuttosto verso una politica di repressione di questi ultimi. La riconquista della Penisola da parte di Belisario e poi di Narsete, generali dell’imperatore Giustiniano, nel corso delle guerre gotiche (durate dal 535 al 553), riportò sotto il controllo dell’impero un’Italia ormai devastata e impoverita da anni di battaglie e saccheggi, e la rigida amministrazione fiscale del prefetto imperiale prima e dell’esarca poi non aiutò affatto a una possibile ripresa. Nella seconda metà del VI secolo, ormai verso la fine dell’evo antico, fu la volta dell’invasione longobarda (568), che finí per spezzare l’Italia in due metà del tutto incoerenti, con i dominii bizantini centrati su Roma e Ravenna e comprendenti le Marche e gran parte del Mezzogiorno (detti nel loro insieme Románia, da cui l’odierno nome della Romagna) e con i possessi longobardi divisi tra Regnum Langobardiae con capitale a Pavia (all’origine dell’attuale Lombardia) e i ducati di Spoleto e di Benevento. Entrando nel Medioevo, quindi, l’Italia era già poco piú che «un’espressione geografica», come fu considerata ininterrottamente fino alle soglie dell’età contemporanea, quando i moti risorgimentali riportarono in auge quel concetto di unità che si era faticosamente costruito nel corso dell’intera antichità.

corrispondente all’Abruzzo settentrionale e alle Marche fino a poco piú a nord di Ancona. Regio VI, Umbria: assai piú ristretta dell’omonima regione moderna, poiché delimitata a ovest dal corso del Tevere (che quindi ne escludeva Perugia), ma dotata di uno sbocco al mare tra Ancona e Pesaro. Regio VII, Etruria: assai piú ampia dell’attuale Toscana, rispetto alla quale sconfinava a sud e a est fino al Tevere. Regio VIII, Aemilia: l’unica regione a prendere il nome da una via, comprendente l’ampia parte di Pianura Padana a sud del Po e che, a nord dell’Appennino Tosco-Emiliano, arrivava a ovest fino a oltre il territorio di Piacenza. Regio IX, Liguria: ben piú vasta dell’odierna Liguria, si estendeva a nord fino a lambire il Po e a comprendere un’ampia fetta del Piemonte meridionale. Regio X,Venetia et Histria: occupava l’ampio comparto nord-orienta-

le, al di là del Po e fino all’Oglio a ovest (ma poi estesa ulteriormente fino al corso dell’Adda dopo Augusto), per abbracciare anche l’intera Carnia e la penisola istriana a est. Regio XI,Transpadana: racchiudeva il restante angolo nord-occidentale d’Italia, da Asti e Pavia e fino alle montagne dei Leponzi a nord e alle due città intitolate all’imperatore a ovest: Augusta Taurinorum (Torino) e Augusta Praetoria (Aosta). per saperne di piú Gianna G. Buti, Giacomo Devoto, Preistoria e storia delle regioni d’Italia, Sansoni, Firenze 1974; Massimo Pallottino, Genti e culture dell’Italia preromana, Jouvence, Roma 1981; Massimo Pallottino, Etruscologia, Hoepli, Milano 1984: Domenico Musti, Magna Grecia. Il quadro storico, Laterza, Roma-Bari 2005: Felice Senatore, La lega sannitica, Oebalus, Capri 2006. a r c h e o 89


musei ferrara

La seconda fondazione di

Spina

di Stefano Mammini, con un’intervista a Caterina Cornelio, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara

Affacciata sull’Adriatico, fu la piú greca delle città etrusche e conobbe una fioritura straordinaria, grazie al dinamismo della sua imprenditoria mercantile. Successi e lussi che ora rivivono nel nuovo e suggestivo allestimento del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara

«S

pina. Una città famosa nel mondo antico»: è questo il titolo scelto per introdurre il visitatore alla nuova sezione del Museo Archeologico Nazionale di Ferrara dedicata al grande centro etrusco sorto intorno al 540 a.C. nella zona del delta del Po. E basta varcare la soglia per constatare che non c’è alcuna esagerazione in quella frase: le sale che ripercorrono la storia della città che fu uno dei maggiori poli della presenza etrusca nell’area padano-adriatica raccontano, infatti, di una comunità fiorente, che assunse fin da subito un ruolo di primo piano nella rete degli scambi e dei traffici con la Grecia e che sui modelli culturali del partner commerciale privilegiato modellò molti dei propri usi e

costumi. Gli Spineti, insomma, furono Etruschi cosmopoliti e benestanti, capaci, per un paio di secoli almeno, di garantirsi un tenore di vita elevato e di sublimarlo, al momento della morte, in tombe dotate di corredi funerari ricchissimi. La storia di questo piccolo miracolo economico cominciò con una vera e propria battaglia nei confronti della natura: l’area dell’insediamento, infatti, era sí prossima al delta del Po e alla costa adriatica – e dunque ideale per la gestione dei commerci e lo smistamento delle mercanzie –, ma, proprio perché compresa in un territorio diviso fra fiume e mare, offriva superfici asciutte ed edificabili relativamente limitate. Cosí, come le indagini archeologiche hanno confermato, molte

delle case di Spina poterono sorgere solo dopo un’intensa opera di bonifica. Ma le motivazioni dovettero essere piú che sufficienti, perché gli Spineti non si lasciarono vincere dalle difficoltà e, in breve tempo, prese forma un città ampia e ordinata, articolata secondo lo schema ippodameo, cioè con strade principali e secondarie che si incrociano perpendicolarmente e definiscono isolati di forma rettangolare allungata. Per scoprire in che modo tutto questo venga raccontato dal nuovo allestimento ferrarese, abbiamo incontrato Caterina Cornelio, direttrice del Museo Archeologico Nazionale. «Nelle nuove sale – spiega la responsabile dell’istituzione – sono (segue a p. 94)


Ferrara, Museo Archeologico Nazionale. Particolare dell’allestimento della prima delle nuove sale dedicate all’insediamento etrusco di Spina, nella quale sono esposti reperti provenienti dagli scavi condotti nell’area dell’abitato, corredati da installazioni multimediali che ripercorrono la storia della città e descrivono gli usi e i costumi dei suoi abitanti. A sinistra, sullo sfondo: particolare di una scena dionisiaca dipinta su un cratere a volute, dalla necropoli di Spina (vedi foto a p. 94). Opera del Pittore dei Niobidi, 450 a.C. circa. Tutti gli oggetti illustrati sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Ferrara.

a r c h e o 91


musei ferrara storia di una città Per Dionigi di Alicarnasso, la città portuale di Spina venne fondata da un gruppo di Pelasgi che, provenienti dal santuario di Dodona avevano invaso l’Italia, sbarcando sulle coste dell’Adriatico e spingendosi poi fino in Umbria. Plinio il Vecchio sosteneva invece che la fondazione era legata all’eroe Diomede, che raggiunse la costa adriatica dopo la guerra di Troia. Entrambe le versioni, riportate anche da altri storici greci e latini, concordavano quindi sull’origine ellenica di Spina. Le ricerche condotte nell’area della città e nella necropoli dislocata nelle sue vicinanze hanno invece dimostrato che Spina fu un centro di origine etrusca e che la tradizione delle fonti deve essere almeno in parte rivista. Gli studiosi non sono ancora riusciti a chiarire le circostanze della nascita della città, ma hanno acquisito prove sicure della presenza di un insediamento almeno a partire dal VI secolo a.C. la cui fondazione fu senza dubbio uno degli effetti dell’espansione degli Etruschi nella regione padana. In questo quadro, le vicende narrate da Dionisio o Strabone sono tuttavia meno incongruenti di quanto non sembri. Spina infatti divenne in breve tempo uno dei maggiori scali commerciali dell’Adriatico e fu frequentata da gruppi sempre piú numerosi di mercanti greci che vi si recavano per le loro transazioni. Molti, soprattutto dal V secolo a.C., scelsero anche di stabilirvisi e in questo modo si venne a creare quella popolazione mista che, alimentando la fama di «città greca» di Spina, contribuí con ogni probabilità alla creazione delle leggende narrate da Dionisio e Plinio. I primi scavi furono condotti negli anni Venti, in occasione dei lavori di bonifica che interessarono la zona. Nell’arco di circa un trentennio vennero messe in luce circa 4000 tombe che hanno restituito corredi che testimoniano della notevole ricchezza raggiunta da Spina soprattutto tra V e IV secolo a.C. Si tratta in prevalenza di tombe a fossa, scavate nel banco sabbioso, che solo in qualche raro caso avevano i lati formati da grosse travi di quercia. Quando la presenza del sepolcro veniva indicata esternamente,

si ricorreva a cippi calcarei a forma di colonnina o, piú semplicemente, a grossi ciottoli fluviali. Non era quindi diffuso, come a Felsina, l’uso delle stele. Gli Etruschi di Spina ricorrevano sia al rito dell’inumazione che a quello dell’incinerazione e in entrambi i casi la consistenza del corredo era legata alla ricchezza e al prestigio della persona. La presenza di vasellame di importazione greca è ingente ed è uno degli indizi piú evidenti del ruolo di netta preminenza che la città assunse in particolare sul mercato del vasellame attico. L’esecuzione di foto aeree permise, nel 1956, la localizzazione dell’area abitata. Quattro anni piú tardi, lavori di bonifica del Mezzano consentirono di riportarlo alla luce e nel 1965 ebbero inizio le prime campagne di indagine archeologica. I dati acquisiti attraverso queste ricerche hanno fornito un contributo determinante affinché Spina venisse definitivamente considerata come una città etrusca: l’impianto urbanistico ricostruito attraverso i resti delle strutture che si sono conservate presenta infatti la caratteristica scansione reticolare, determinata dall’intreccio ortogonale delle strade che attraversavano l’insediamento. L’antica Spina era una città lagunare che si era sviluppata a pochi chilometri dalla foce del Po. Si articolava in vari isolotti, il piú grande dei quali si estendeva per circa sei ettari, attraversati da strade e canali, lungo i quali si affacciavano le varie costruzioni. Le superfici sulle quali si innalzavano gli isolati erano state rese piú solide e compatte creando terrapieni di argilla e fascine e le case avevano una

In alto: una delle postazioni multimediali predisposte nel nuovo allestimento delle sale dedicate alla città etrusca di Spina. A sinistra: piatto da pesce a figure rosse di produzione attica. Gli scavi hanno restituito numerosi vasi di questo tipo che, riproducendo specie note e puntualmente riconoscibili grazie al confronto con innumerevoli testimonianze letterarie, ci offrono un interessantissimo spaccato della vita quotidiana e di una delle principali risorse alimentari della cittadinanza di Spina.


struttura simile a quella delle palafitte. La natura delle materie prime impiegate – tronchi, argilla, frasche – era molto deperibile e anche i pavimenti, costituiti da semplici piani di calpestio in terra battuta, venivano rifatti ogni volta che una piena del Po lo rendeva necessario. Questi ripetuti interventi di manutenzione e ristrutturazione sono stati identificati nelle sequenze stratigrafiche che gli archeologi hanno analizzato e hanno fornito uno degli strumenti piú preziosi per la ricostruzione della vita e della durata dell’occupazione dell’abitato. I materiali recuperati nell’area della città, assai meno ricchi e abbondanti di quelli rinvenuti all’interno delle tombe, hanno confermato il quadro economico già definito attraverso lo studio delle necropoli. Spina era una città a vocazione essenzialmente commerciale, con una spiccata preferenza per lo scambio dei beni di lusso, e affiancò alle attività mercantili la pratica della caccia, della pesca e dell’agricoltura. Nel III secolo a.C., anche Spina fu travolta dalle invasioni dei popoli celtici, ma è probabile che la città non sia stata materialmente distrutta e che, ridotta a un piccolo villaggio, abbia continuato a vivere anche oltre quella data.

In alto: una schermata della videoinstallazione (realizzata dagli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Bologna) dedicata alla lingua etrusca e nella quale è illustrata l’origine dei nomi attestati dalle iscrizioni scoperte sui vasi provenienti dall’abitato e dalla necropoli. In basso: la vetrina che espone i materiali recuperati nel corso delle indagini condotte nell’area dell’abitato.


musei ferrara

In alto: la Sala delle piroghe, nella quale sono esposte le due imbarcazioni monossili scoperte nel 1940 in Valle Isola (provincia di Ferrara). I battelli sono presumibilmente databili all’età tardo-romana (III-IV sec. d.C.). A sinistra: cratere a volute con scene di Amazzonomachia (guerra degli dèi contro il popolo delle Amazzoni, le donne guerriere). Pittore dei Niobidi, 450 a.C. circa.

confluiti materiali in larga parte recuperati nel corso degli scavi condotti a Spina dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, cioè da quando l’area venne bonificata. A essi si aggiungono oggetti rinvenuti, alla fine degli anni Ottanta, in una casa arcaica della fine del VI secolo a.C. e in una capanna della 94 a r c h e o

fine del IV secolo a.C. La seconda struttura, in particolare, si è rivelata essere un contesto di eccezionale interesse, perché, in seguito al crollo del tetto, il deposito archeologico è stato sigillato e non ha subito alcun tipo di intromissione, offrendo agli archeologi una situazione stratigrafica ideale. La selezione dei materia-

li da esporre è avvenuta in funzione degli argomenti che si volevano illustrare, primo fra tutti quello delle relazioni commerciali, imperniate sulle importazioni di ceramica attica. Una produzione che, del resto, è il filo conduttore che accompagna tutta la vita di Spina, fino a quando continua ad affluire in questo grande emporio adriatico. E proprio per spiegare il criterio di datazione adottato non solo nell’abitato, ma anche nella necropoli, è stata anche realizzata una teca con una campionatura di ceramiche attiche disposte in base alle rispettive cronologie e segnalate da fasce colorate grigie, che però sfumano e si sovrappongono parzialmente, per dare la sensazione di come la produzione e il conseguente uso di questi materiali possano collocarsi anche a cavallo delle varie fasi di vita della città». Una città che continua a essere «nel mirino» degli archeologi… «Sí, gli scavi sono stati ripresi con grande vigore e proseguono tuttora, nell’area demaniale in cui si individua l’abitato di Spina (8 ettari circa, donati dall’Ente Delta allo Stato), o, meglio, il nucleo principale della città o uno dei nuclei, perché tracce di abitato compaiono anche altrove. In particolare, dati molto interessanti sui sistemi di bonifica adottati


dagli Etruschi sono emersi grazie alle indagini condotte, a partire dal 2007, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Milano». «Per quanto riguarda invece la necropoli, i cui materiali sono esposti al secondo piano del Museo, in teoria è esaurita, ma in realtà, a mio avviso, i frequenti sequestri operati dalla Guardia di Finanza in territorio comacchiese dimostrano che devono esserci altre aree sepolcrali. Tornando all’allestimento di questa sala, il fine che ci siamo posti è stato quello di rendere in maniera per quanto possibile chiara e incisiva l’idea di che cosa sia stata Spina e di quale ruolo abbia giocato nel con-

In alto: reperti provenienti dalle tombe della necropoli di Spina. Le ricerche condotte hanno portato all’individuazione di oltre 4000 sepolture.

In basso: particolare degli affreschi di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, che decorano la volta della Sala del Tesoro di Palazzo Costabili. 1503-1506.


musei ferrara A destra: kylix (coppa) attica a figure rosse, dalla tomba 18 C di Valle Pega. Maestro di Pentesilea, 460-450 a.C. Le scene dipinte sul vaso celebrano la riconquistata potenza di Atene, dopo l’attacco dei Persiani. In basso: un’altra vetrina della sezione dedicata alla necropoli. Nella pagina accanto: l’ingresso di Palazzo Costabili.

principale con un altro fiume, di provenienza occidentale, era un nodo viario cruciale, sia fluviale, che terrestre: Spina era il terminale della via etrusca che veniva dall’Appennino, importante per lo smistamento dei beni in arrivo dall’oltreadriatico, ma anche per l’arrivo delle merci di scambio dall’entroterra padano e anche oltreappennino. Non potevano perciò mancare le anfore, poste all’inizio del percorso di visita, che sono un aperto richiamo al mare e ai suoi traffici, in particolare al commercio dell’olio e del vino che fu un’attività economica di grandissima rilevanza nel mondo antico».

testo del Mediterraneo, e dell’Adriatico in particolare. Abbiamo voluto tracciare il profilo di un centro commerciale di grandissimo vigore, di grande importanza, aperto a molteplici direttrici di scambio e all’afflusso copioso di molte varietà di merci. Spina, inoltre, ha un ruolo di primo piano non soltanto rispetto all’ambito adriatico. A seguito di una scelta ben precisa da parte degli Etruschi, infatti, questo sito, ubicato a pochi chilometri dall’Adriatico, sul ramo allora principale del Po, e alla confluenza di questo ramo 96 a r c h e o

Se le anfore evocano la vocazione commerciale di Spina, che cosa si è voluto evocare con i materiali che nella vetrina principale, affiancano le già ricordate ceramiche attiche? «Volevamo, innanzitutto, rendere comprensibile il tessuto di una città come Spina, che, magniloquente e sfarzosa nelle sue necropoli, è piú difficilmente intellegibile per ciò che riguarda l’area abitata, anche perché le case che la occupavano erano edificate con materiali deperibili, seguendo impianti planimetrici molto semplici. Dimore nelle quali, però, si utilizzavano le splen-

dide ceramiche attiche che poi troviamo nella necropoli, a riprova dell’abitudine degli Etruschi di Spina a una certa raffinatezza, a un certo sfarzo, che non si esteriorizzavano solo al momento della morte, ma che aveva una sua ragion d’essere anche nella vita quotidiana». «Attraverso i materiali esposti abbiamo cercato di spiegare che a Spina, come in tante altre città consimili, si fabbricava la ceramica, si filava, si tesseva, si lavoravano le ossa o le corna, come per esempio i palchi di cervo: si praticavano, insomma, tutte quelle attività che erano collaterali alla vita degli Spineti. Un’esistenza organizzata probabilmente con regole abbastanza precise, ma improntate, per molta parte della vita della città, nel periodo in cui fu piú viva e pulsante, al modello greco, con Etruschi fortemente ellenizzati. Una situazione che cambia, e lo si può osservare soprattutto nelle sale dedicate ai materiali provenienti dalle necropoli, quando si interrompe il rapporto con Atene, che fu l’interlocutore principale di Spina: da quel momento, come dico sempre, vediamo il vero volto degli Etruschi di Spina, che, da Etruschi grecizzati, devono “rassegnarsi” alla loro identità». «I materiali raccontano la costru-


zione della città, come le tegole e i coppi, che, secondo quello che si riteneva fino a poco tempo fa, dovevano essere stati impiegati solo nella fase ellenistica di Spina, ma che, in realtà, venivano già impiegati anche prima; i tetti straminei sono quelli che pensiamo essere stati piú diffusi, ma non è detto che anche nella fase piú antica ci fossero già inserimenti di laterizi». «Si raccontano gli usi e i costumi legati alla tavola, al mangiare e bere alla greca: strumenti che servivano per la preparazione dei cibi, bicchieri, i mortai per macinare i cereali, o anche i tegami di importazione greca che servivano secondo alcuni per friggere il pesce o per ricette particolari, ma che a me hanno sempre dato l’idea di un tipo di contenitore che potesse essere anche utilizzato per la cottura a riverbero». Ci sono perfino frammenti di oggetti realizzati con fibre intrecciate, simili a stuoie… «Sí, quella è una costante della zona deltizia: la materia prima, sparti ed erbe palustri, era abbondante e veniva lavorata per fabbricare ceste o stuoie, ma anche pareti divisorie, perché le case avevano tralicci fatti di canne, che dividevano i pochissimi ambienti gli uni dagli altri. E altrettanto diffusa e intensa dovette essere la lavorazione del metallo, perché ancora adesso troviamo molte scorie, perlopiú di piombo, che, oltre che per utensili e manufatti, veniva adoperato per le risarciture, per i restauri di vasi, e quindi aveva un largo impiego. E poi abbiamo voluto anche esporre manifatture di altro genere, come collane e altri accessori o i contenitori per profumi e unguenti». Dalle attività pratiche si passa quindi alla sfera della religione… «Sí, la sala successiva, che ha conservato l’ossatura che le aveva dato Fede Berti – l’archeologa che mi ha preceduto nella direzione

del Museo –, dà conto di quella che era la religiosità degli Spineti, che era certamente sentita, ma di cui, a oggi, non conosciamo la sede, in quanto non sono state individuate con certezza aree santuariali. Che pure una città cosí importante doveva certamente avere. Rispetto all’allestimento precedente, sono stati inseriti alcuni pannelli e, soprattutto, è stata aggiunta la postazione che proietta un video didattico realizzato in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Una collaborazione di cui ci siamo avval-

dove e quando Museo Archeologico Nazionale di Ferrara Palazzo Costabili, detto di «Lodovico il Moro», via XX settembre, 122 Orario ma-do, 9,30-17,00; chiuso il lunedí, 1° maggio, Natale e Capodanno Info tel. 0532 66299; e-mail: info. archeoferrara@ beniculturali.it; www. archeoferrara.beniculturali.it

si anche nella sala successiva, che è dedicata alla scrittura». Quanto tempo ha richiesto questo nuovo allestimento? «Poco piú di un anno, anche perché, almeno in parte, si è intervenuti su un impianto e su dotazioni già esistenti. Queste sale, infatti, potevano già contare su un allestimento provvisorio dei materiali, nel senso che la scansione e gli argomenti erano gli stessi che il visitatore trova oggi, cosí come aveva voluto Fede Berti. In anni ormai lontani, questi ambienti erano utilizzati come depositi. Poi, in seguito alla ristrutturazione dell’intero edificio che ospita il Museo, sono stati restituiti alla loro funzione naturale. Anche perché alcune sale hanno fregi pittorici di grande rilievo. Una prima apertura è stata fatta all’inizio degli anni Duemila, quando il Museo ha ospitato la mostra dedicata agli affreschi di Stabia e Pompei; poi le sale sono state richiuse, e sono state posizionate le vetrine, in attesa dell’apertura definitiva, che adesso possiamo finalmente salutare». Un’apertura che ha riacceso i riflettori sul Museo Archeologico Nazionale di Ferrara e che, speriamo, possa farne uno dei poli d’attrazione della città. Gli ingredienti ci sono davvero tutti: oltre alla nuova sezione sulla città di Spina e ai ricchissimi corredi funebri della necropoli, infatti, non vanno dimenticate le piroghe monossili trovate in Valle Isola nel 1940 e, piccolo gioiello nel gioiello, la Sala del Tesoro, in origine forse destinata a sala da musica o a biblioteca, che ha una volta magnificamente affrescata da Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, tra il 1503 e il 1506. Pitture che raffigurano una folla di personaggi riccamente abbigliati, i quali, affacciati a una balconata, guardano verso il visitatore. E non c’è davvero ragione di lasciare che i loro sguardi cadano nel vuoto. a r c h e o 97


Il mestiere dell’archeologo

di Daniele Manacorda

Non solo Grazie/2

L’attimo fuggente Si conclude l’analisi delle implicazioni simboliche legate alle tre Grazie, con una ipotesi «licenziosa» e suggestiva... e c’è un rapporto fra le Grazie, Afrodite, la Luna e la Fortuna, S questo dovrebbe rivelarsi all’analisi

degli oggetti che accompagnano la raffigurazione delle tre sorelle. La prima Grazia e la terza, infatti, hanno spesso nelle mani qualcosa che viene offerto in dono: fiori, spighe e frutti, ma anche corone, monili, profumi. In un rilievo dal teatro di Sabratha, la Grazia di sinistra ha uno specchio, quella di destra un ramoscello, nel quale possiamo riconoscere un ramo di mirto. Sappiamo infatti da Pausania che le statue delle Charites esposte nell’agorà di Elide recavano in mano rispettivamente una rosa, un

astragalo e un ramo di mirto. La presenza della rosa e del mirto non sono casuali. Indicano, infatti, il mondo di Afrodite còlto nelle sue due facce legate alla vita (la luna crescente, la rosa: è lo specchio di Sabratha) e alla morte (la luna calante, il mirto). Ma l’attenzione cade anche sul terzo attributo, l’astragalo, cioè il dado della sorte, che per Pausania è un semplice segno di condizione puerile, un giocattolo, e che invece possiamo riconoscere come il simbolo che caratterizza Aglaia nel ruolo di Fortuna (la Tyche dei Greci). Le immagini delle Grazie associate agli attributi di Fortuna sono poche. Ma questa assimilazione è evidente in una antica gemma che mostra le Grazie sormontate proprio dalle figure diVenere, Minerva e Fortuna, personificazioni di quella ancor viva triade concettuale che abbiano già visto evocata da Pindaro molti secoli prima (Venere è dunque Thalia, Minerva è Euphrosyne e Fortuna è la splendente Aglaia). Troviamo una conferma a questo approccio se intendiamo le Grazie – che abbiamo visto connesse alla dea degli Inferi, Hekate – come l’altra faccia delle Parche, le

Particolare del ramoscello di mirto, collegato al culto di Afrodite, tenuto in mano dalla Grazia di sinistra.

tre sorelle, il cui filato ineluttabile è governato dalla luna. Da un lato siede Klothò, la luna crescente che fila la vita; dall’altro lato Atropos, la luna calante, che la recide e ne determina la fine. Al centro è Lachesi, che misura il filo della vita e che, come la Fortuna della triade serena, governa la sorte, che non può certo opporsi alla ineluttabilità del fato, ma che può incidere sulla vita dei mortali. Il ciclo della vita Come Tyche (cioè Aglaia) è la Fortuna che dà in sorte e può essere còlta, cosí Lachesi, che gli antichi chiamavano anche sors (la sorte), è la Fortuna che presiede a ciò che può accadere. La Fortuna, non il Fato, a cui attengono invece le due Parche laterali: l’inizio, cioè la nascita, e la fine, cioè la morte, sono infatti in mano al fato; tutto quello che sta in mezzo, cioè la vita, sta in mano alla fortuna. La vita è dunque il transito tra questi due momenti del fato,

Particolare del volto di Aglaia, la Grazia centrale, girata di schiena, che evoca la Fortuna o «sorte» nella vita, tra l’inizio-nascita, rappresentata dalla Grazia di sinistra, e la fine-morte, simboleggiata dalla Grazia di destra.


attraverso il regno di Fortuna. Di questa Grazia/Fortuna che non ha nulla in mano vediamo il corpo nudo di spalle, ma la sua testa è girata in direzione di chi guarda, in genere verso destra, quindi con atteggiamento benigno. Grazia/Fortuna non è bendata: il suo occhio ti può guardare, ma il suo sguardo è repentino e fugace. Ti può cogliere, magari per un attimo, nel vortice della danza, e può incrociarsi con il tuo. Ma come la luna piena e nuova anche la Fortuna c’è e non c’è; e ti darà qualcosa solo se scatterà una scintilla nell’incrocio dei due sguardi. È una condizione che non puoi governare, ma che, se si

verifica, ti fa metaforicamente baciare dalla Fortuna. Lei non ti dà qualcosa gratuitamente, come fanno le due sorelle, ma solo fortuitamente, se in quel momento, e solo in quel momento, stabilisce con te un rapporto che non è di scambio, ma unidirezionale, fortuito.Tu non lo governi: puoi solo metterti in condizione che possa avvenire. La Fortuna è di spalle. È il suo volto che guarda dietro di sé per incontrare te, o chi è al posto tuo. In quell’attimo fugace, in cui lo sguardo e il gesto benigno della Fortuna sono inseparabili dalla sua luce, che è lo splendore di Aglaia, lei ti mostra la sua schiena nuda e i suoi glutei.

Le tre Grazie in un affresco che decorava una parete del tablino della casa di Titus Dentatius Panthera, a Pompei. I sec. d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La Grazia centrale incarna dunque, con le due sorelle, il senso del beneficio e della sua restituzione, ma nella sua posizione, di schiena, e nel suo atteggiamento, maliziosamente rivolta all’indietro, esprime anche la sua incerta relazione con l’individuo, oscillante tra ciò che si scambia in virtú di un patto e ciò che si ottiene in virtú dell’imponderabilità della sorte. L’impatto visivo del gruppo faceva perno sul fascino del triplice nudo

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Le Tre Grazie, mosaico dalla «Casa delle Grazie» di Cherchel, l’antica Cesarea, in Algeria. IV sec. d.C. Cherchel, Museo Archeologico.

femminile. È indubbio, tuttavia, che il centro della scena sia occupato dalla pacifica ostentazione delle natiche della Grazia centrale, che fanno da fulcro all’intera composizione. Se nella maggioranza dei casi aulici, la raffigurazione dei glutei non è oggetto di enfasi particolare, in alcune raffigurazioni l’ostentazione si fa invece evidente, quasi sfacciata, come in un rilievo del Museo Nazionale di Napoli. Potrebbe trattarsi di un caso isolato, dal momento che qui lo schema iconografico del gruppo è quello canonico delle Ninfe piuttosto che delle Grazie. Ma la scena sulla fronte di un sarcofago ci dice che non è cosí. Anche in questo caso le tre Grazie indossano un semplice mantello (himation) che copre le gambe, ma ciò che balza agli occhi è piuttosto il fatto che il panneggio nelle due Grazie laterali è allacciato sul davanti in

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modo da lasciare scoperta la pancia; nella Grazia centrale, al contrario, lo schema inverso produce una voluta ostentazione dei glutei, sottolineati dalla stoffa che, coprendo le gambe, li incornicia lasciandoli in vista. Che non si tratti di un caso ce lo dimostra un altro rilievo funerario, in cui il vestito della Grazia centrale si apre lungo la schiena, con l’evidente intenzione di porre in vista i glutei della dea. La Fortuna dalla propria parte Questa enfasi sembra ancora maldestramente riversata anche in un mosaico di Cherchel (Algeria), riferibile al IV secolo. Lo schema canonico appare ormai alterato. Colpisce però, nella modestia dell’esecuzione, la cura nella raffigurazione dei glutei, che anche di tre quarti occupano il centro della scena. Si direbbe che ormai si sia perso il senso stesso della charis

che ha caratterizzato per secoli il gruppo delle Grazie, ma non il valore simbolico della Grazia centrale, cioè di Fortuna. I lettori di «Archeo» sono abbastanza smaliziati da cogliere in questa esaltazione degli attributi di Aglaia/Fortuna, che «ci volta» e al tempo stesso «ci mostra le spalle», l’origine di un’espressione cosí diffusa nel parlare quotidiano italiano da essere usata ormai senza volgarità: «avere culo». L’attuale libertà linguistica ce la fa utilizzare con leggera ironia, ma forse non ci siamo mai accorti di quanto siano antiche le origini di questa espressione. «Avere culo», significa dunque avere con sé la Fortuna, la luna che ti mostra le spalle, ma ti guarda diritto negli occhi (non è una luna storta), significa avere in sorte qualcosa di inatteso e di insperato, a volte la stessa chance della tua vita. (2 – fine)



Antichi ieri e oggi

di Romolo A. Staccioli

Al seguito del marito/1

Da matrone a First Lady All’alba dell’impero il divieto di portare le consorti, «deboli e incapaci di sopportare le fatiche», nelle missioni in terra straniera va scomparendo, ma non senza opposizioni da parte della classe politica piú tradizionalista a donna romana, un tempo, era domiseda, cioè abituata, da L sempre, a starsene a casa e a

rimanervi anche quando il marito s’allontanava da Roma «in missione», piú o meno lunga. Fin quasi alla fine della repubblica, mai nessuna moglie aveva accompagnato il marito fuori del territorio di Roma. Anche quando non si trattava di missioni squisitamente militari. Come nel caso del governo d’una provincia (e non solo al massimo livello). Quando Cicerone – tanto per fare un esempio –, nel 51 a.C., andò al governo della Cilicia, in Asia Minore, si fece accompagnare solo dal fratello Quinto, dal figlio Marco e dal nipote.Tanto che la moglie,Terenzia, rimasta a Roma, ne approfittò per combinare il matrimonio della figlia Tullia, appena divorziata (l’amatissima Tulliola), con quel Dolabella che allo stesso Cicerone era assai poco gradito! Seppure non lo sapessimo per altra via, basterebbe la lettera che a Terenzia inviò il marito l’anno dopo (il 16 ottobre del 50), sulla via del ritorno, da Atene dove aveva fatto tappa: «ormai mi aspetti di persona, anzi ci aspetti tutti che siamo veramente ansiosi di rivedervi prima possibile». Lasciate le mogli a casa, per principio – e secondo la tradizione – i mariti, manco a dirlo, ne approfittavano per concedersi qualche distrazione. Basterebbe pensare agli idilli intessuti con Cleopatra da Cesare e da Marco

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Antonio (il quale, peraltro, non si limitò, come il primo, a una semplice crociera sul Nilo). Agli inizi della nostra era, la situazione era radicalmente cambiata. Le mogli avevano ormai preso a seguire i loro mariti, specie negli spostamenti di lunga durata; non senza suscitare critiche e contrasti e contro il parere dei tradizionalisti. Un discorso impopolare Ce lo conferma una veemente requisitoria che, nell’anno 20 d.C., (al tempo dell’imperatore Tiberio), fu pronunciata in Senato da Aulo Cecina Severo, uomo politico e generale, che, come riferisce Tacito negli Annali (IV, 33-34), cercò di convincere i suoi colleghi alla necessità di ripristinare l’antico costume. «Non senza motivo – egli fece osservare – era parso opportuno, un tempo, di non condurre le donne tra gli alleati e i barbari; v’era nella compagnia delle donne di che intralciare la pace col lusso, e le azioni di guerra con la paura (...) il loro sesso non solamente è debole e inadatto alle fatiche, ma, se gli si dà libertà, crudele, ambizioso e avido di potere». E, per rafforzare le sue parole, Cecina affermò che quanto proponeva agli altri, egli lo aveva già messo in pratica a casa sua, avendo costretto la moglie (che, nonostante tutto, gli aveva partorito sei figli) a rimanere a Roma, pur avendo avuto egli incarichi diversi in parecchie province dell’impero nell’arco di

Una famiglia viaggia su un carro, particolare del rilievo su una stele funeraria. II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano. Tra la fine dell’età repubblicana e l’inizio dell’epoca imperiale, le mogli romane acquisirono il diritto di accompagnare, fuori dal territorio di Roma, i propri mariti, spesso costretti ad assentarsi per lunghi periodi per incarichi di tipo militare o governativo.


ben quarant’anni. Il discorso di Cecina ebbe ben pochi consensi.Ai piú parve ormai anacronistico; superato dai fatti. E non fu difficile a Valerio Messalino rispondere ricordando a sua volta che i tempi erano cambiati; che molte delle severe consuetudini del passato erano state modificate e attenuate. «E poi – aveva aggiunto – a chi ritorna a casa affaticato, quale conforto è piú gradito di quello offerto da una moglie?». Quanto al vincolo matrimoniale, «cosa accadrebbe – fece osservare – se per parecchi anni esso fosse messo in oblio, come se fosse intervenuto un divorzio?». Il figlio di Tiberio, Druso, dal canto suo, ricordò «quante volte Augusto aveva percorso l’Occidente e l’Oriente in compagnia di Livia». Quella stessa Livia – potremmo aggiungere – che, aveva già seguito il precedente marito (a cui lo stesso Augusto l’avrebbe poi sottratta), Tiberio Claudio Nerone, col quale,

quando questi fu coinvolto, in Campania, nella sconfitta di Antonio a Perugia, nel 40 a.C., dovette fuggire precipitosamente, portando con sé il piccolo Tiberio, nato da poco, con la scorta di un solo uomo e lungo vie secondarie, per non dare nell’occhio, fino a raggiungere Napoli, donde imbarcarsi per la Sicilia e da lí trasferirsi in Grecia. Ma già nel 48 a.C., Cornelia aveva seguito il marito Pompeo, sconfitto da Cesare a Farsalo, nella sua fuga verso l’Egitto e verso la morte violenta che gli fu data

proditoriamente per ordine del re Tolomeo XIV e alla quale ella dovette assistere, impotente, dalla nave che il suo uomo aveva appena lasciato, in barca, per raggiungere il porto di Pelusio. Mogli «in provincia» Tra la fine della repubblica e l’inizio dell’impero, dunque – anche per non condannarsi a uno stato di semivedovanza – le mogli, rotta la tradizione, avevano preso l’abitudine di seguire i mariti. L’esempio venne dall’alto e la novità si diffuse presto in tutte le


la sua Lepidina. Il terzo giorno prima delle idi di settembre, sorella, per il giorno del mio compleanno, ti invito volentieri a fare del tutto per venire da noi». Tornando, tuttavia, alle mogli dei governatori di provincia, è da dire che Cecina non aveva avuto tutti i torti nel dipingere a tinte fosche le conseguenze della loro presenza. E a ricordare l’accusa di avidità che piú di frequente veniva loro rivolta. «Quante volte – aveva detto – nei processi per malversazione, le colpe principali erano da addebitarsi alle mogli; a esse s’accompagnavano subito gli elementi peggiori delle province coi quali si mettevano negli affari».

In alto: cammeo in sardonica raffigurante una coppia di sposi. III sec. d.C. Vienna, Kunsthistorisches Museum. A sinistra: stele funeraria in marmo di Tiberio Giulio Rufo, cavaliere dell’esercito romano, di stanza in Pannonia, ritratto insieme alla moglie. 50-70 d.C. Sopron (Ungheria), Liszt Ferenc Museum.

grandi famiglie. Ma non solo.Tanto per citare un caso celebre, Pilato, governatore della Giudea (dal 26 al 36), a Gerusalemme aveva con sé la moglie, come c’informa ilVangelo di Matteo (XXVII, 19) a proposito del «processo» di Gesú: «Or mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: non t’impicciare delle cose di quel giusto, perché oggi in sogno ho sofferto molto a motivo di lui». A livello di semplici funzionari dell’amministrazione, civile e militare, sempre nelle province, ci si può invece rifare alle testimonianze provenienti dagli scavi del forte di Vindolanda, nel «vallo» di Adriano, tra l’Inghilterra e la Scozia. Si tratta dell’invito rivolto dalla moglie del comandante di una coorte ausiliaria di stanza da quelle parti, agli inizi del II secolo d.C., a un’amica, a sua volta moglie di un altro comandante: «Claudia Severa saluta

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Garanti per la consorte Non a caso, durante l’impero di Tiberio, fu promulgata una legge volta a combattere le ragioni delle lagnanze e delle critiche troppo numerose, provenienti dalle province, contro le mogli di governatori e funzionari dell’amministrazione i quali furono ritenuti responsabili di ogni scorrettezza compiuta dalle proprie donne, anche a loro insaputa. In cambio, Seneca, parlando della zia Elvia, ci dà un vero e proprio ritratto della moglie ideale di un governatore. Elvia accompagnò ad Alessandria il marito, prefetto dell’Egitto. Il Paese, a sentire Seneca, era notoriamente incline alla denigrazione, al disprezzo, all’ironia e alla calunnia, anche nei confronti delle persone piú irreprensibili, ma fu costretto a contenere le sue intemperanze e ad ammirare Elvia come un autentico esempio di virtú. E questo, per essere stata essa sempre rigorosamente al suo posto, senza apparire in pubblico, senza mai ricevere in casa, senza chiedere nulla al marito, senza permettere che nessuno le chiedesse favori. «Sarebbe già molto essere stata per dodici anni applaudita dalla propria provincia – conclude il nipote – ma è anche piú glorioso esservi rimasta ignorata». (1 – continua)



Medea e le altre

di Francesca Cenerini

Dammi mille baci, e poi ancora cento... Bella, intelligente, colta e spregiudicata: è il ritratto di Clodia, cantata da Catullo con lo pseudonimo di Lesbia, e additata per la sua condotta immorale, opposta a quella della matrona romana ideale L’idolo eterno, scultura in marmo di Auguste Rodin (1840-1917). 1889 circa. Parigi, Musée Rodin.

opinione ormai comunemente accettata dagli È studiosi che la Lesbia cantata da

Catullo sia da identificare con una Clodia, vale a dire una delle tre sorelle del famoso tribuno della plebe Publio Clodio. Pare oggi assodato che sia la moglie di Quinto Cecilio Metello Celere, console del 60 a.C., anche se non mancano altre proposte di identificazione, per esempio con la piú giovane delle sorelle, Clodia, moglie di Lucio Licinio Lucullo, oppure con una liberta della gens Claudia o, addirittura, con una cortigiana che avrebbe assunto il nome di battaglia di Lesbia. Clodia, dunque, è figlia di Appio Claudio Pulcro, uno dei consoli del 79 a.C., appartenente a una delle piú antiche e illustri famiglie di Roma. Origini aristocratiche Non conosciamo con certezza il nome della madre, ma, d’altra parte, la cosa non ci stupisce piú di tanto. Infatti, ancora nella società romana tardo-repubblicana, l’ascendenza familiare piú

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importante continuava a essere quella paterna, sebbene le alleanze politiche tra le principali famiglie fossero sempre suggellate da un matrimonio, consuetudine che Ottaviano-Augusto e gli appartenenti alla domus Augusta praticarono in modo oserei dire parossistico. Come abbiamo appena detto, Clodia ha due sorelle e tre fratelli. Nel libro Il tribuno Clodio (Roma-Bari 2008, p. 16) Luca Fezzi sostiene che, con ogni probabilità, è il maggiore,Appio Claudio Pulcro, figlio e nipote di Appio, console nel 54 a.C., «l’artefice degli indovinati matrimoni delle tre sorelle e la guida nella carriera politica, assai meno fortunata, dei due fratelli». Uno di questi ultimi, il tribuno della plebe Publio Clodio Pulcro, esponente di spicco della fazione dei populares e acerrimo nemico di Cicerone, venne ucciso all’inizio del 52 a. C. dalla banda di Tito Annio Milone, mentre l’altro fratello, Caio Claudio Pulcro, pretore nel 56 a.C. e poi governatore della provincia d’Asia, si ritirò dalla vita politica in seguito a un’accusa di concussione. Una delle sorelle di Clodia si sposa, come già detto, con Lucio Licinio Lucullo, console nel 74 a.C., e l’altra con il console del 68 a.C., Quinto Marcio Re. Conosciamo qualche dato relativo alla biografia di Clodia: sposa Quinto Cecilio Metello Celere, appartenente alla potentissima famiglia dei Cecili Metelli, che poteva vantare un notevole numero di consoli e proconsoli. Metello Celere è pretore nel 63 a.C., governatore della Gallia Cisalpina nel 62 a.C. e console nel 60 a.C. Nel 59 a.C. muore. È possibile che CaioValerio Catullo conosca Clodia aVerona, nella casa paterna, proprio nel 62 a.C.: il padre del poeta, notabile locale, era infatti in grado di ospitare nella sua casa il governatore della provincia e il suo seguito. EVerona, del resto, era una delle città piú importanti della Gallia Cisalpina, con un ceto dirigente locale in grado di interagire con le piú alte cariche

dello Stato repubblicano. Altri studiosi sostengono che Clodia e Catullo, invece, si siano incontrati a Roma, ritenendo poco probabile che Clodia accompagnasse il marito nei suoi soggiorni in provincia. Catullo doveva avere circa 25 anni, Clodia una decina di piú; lei è un’aristocratica romana piena di fascino, mentre lui è un giovane poeta di talento, ma pur sempre di origine provinciale. Storia o fantasia? Catullo rimane affascinato e Clodia corrisponde questo amore, che sarà minuziosamente descritto dai componimenti del giovane amante. A questo punto è lecito porci una domanda: dobbiamo credere alla realtà storica di questo amore e non pensare, invece, a una creazione letteraria? Leggiamo alcuni versi di Catullo, peraltro famosissimi: Vivamus mea Lesbia, atque amemus, / rumoresque senum severiorum / omnes unius aestimemus assis (5, 1-3), che possiamo tradurre, abbastanza liberamente, cosí: «Godiamoci la vita e amiamoci, mia Lesbia, e infischiamocene delle critiche dei vecchi moralisti». Come si fa a godersi la vita e ad amare? Catullo non ha dubbi (5, 7-8): Da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum («dammi mille baci, e poi ancora cento, e poi ancora mille e altri cento»). Catullo descrive un amore contrastato, da cui esce straziato.Vero amore o utopia letteraria? Non possiamo saperlo, ma, in ogni caso, dobbiamo notare, come hanno fatto gli studiosi Paolo Fedeli e Alfonso Traina, che si tratta del primo caso in cui un poeta decide di rendere pubblica, attraverso un Liber di componimenti poetici, la storia della sua relazione (o ossessione?) amorosa con un’aristocratica, coniugata e poi vedova, e non certamente una cortigiana. L’etica aristocratica del tempo non può accettare un rapporto cosí sbilanciato. Della vita di Clodia ci parla un’altra fonte, assolutamente di parte e ostile.

È Cicerone, che, nella sua orazione in difesa di Marco Celio, la dipinge come una prostituta, come fa lo stesso Celio in alcuni frammenti della sua produzione oratoria che ci sono pervenuti, approfonditamente studiati da Alberto Cavarzere. Nel 56 a.C., infatti, Clodia accusa Celio, suo ex amante, di veneficio. Celio, uomo ambizioso e corruttibile, appartiene alla «jeunesse dorée» del tempo ed è un esponente di spicco, come è stato efficacemente detto, della «dolce vita» romana del tempo. Lo difende l’avvocato Cicerone: nella Pro Coelio (In difesa di Marco Celio) Cicerone attacca violentemente Clodia e il suo stile di vita e non le risparmia alcuna delle piú infamanti accuse: relazione incestuosa con il fratello Publio Clodio, avvelenamento del marito Metello Celere, vendetta su Marco Celio per essere stata abbandonata, eccetera. Con «occhi di fuoco» Sempre secondo Cicerone, il comportamento di Clodia era immorale non soltanto nel modo di camminare e di vestirsi, ma anche per le compagnie che frequentava, per il linguaggio sboccato, perché guardava gli uomini con occhi «di fuoco» e perché abbracciava e baciava tutti. Una delle accuse piú ignominiose è, addirittura, quella di essersi prostituita con il gestore di uno stabilimento termale per il minimo costo del biglietto d’ingresso, un quadrante (un quarto di asse), che corrispondeva alla tariffa minima delle prostitute di strada di piú infimo livello.Anche Plutarco, nella Vita di Cicerone (29), piú di un secolo dopo, riferí dell’epiteto offensivo dato a Clodia, quadrantaria appunto, cioè che vale un quadrante di asse, segno che il gossip, in tutti i tempi, ha lunga vita. Ma perché tanto accanimento? Non va dimenticato che, secondo il diritto romano, la testimonianza di una prostituta non aveva valore legale e che la Pro Coelio è un’arringa della difesa in tribunale. Clodia era indubbiamente una

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Lesbia. John Reinhard Weguelin (1849-1927). Collezione privata. L’affascinante Lesbia amata da Catullo è identificata con Clodia, una delle sorelle del tribuno Clodio e moglie di Quinto Cecilio Metello. I componimenti descrivono la contrastata storia d’amore tra il poeta e la nobildonna romana, presentata, alla fine della relazione, come una volgare prostituta.

donna bella e intelligente, e anche disinibita, ma non certo come la dipingono le fonti in nostro possesso.Aveva anche una casa lussuosa sulla riva destra del Tevere, in mezzo al verde, che era uno dei salotti mondani piú ambiti della capitale di allora. Non va dimenticato che visse un momento particolare della storia della repubblica romana, cioè quello in cui il vecchio regime e i relativi modelli etici, sociali e culturali di riferimento erano al collasso. Clodia, però, aveva saputo cogliere le opportunità che la realtà contemporanea le offriva. Un ritratto parziale Sarà compito del nuovo imperatore Augusto rifondare il nuovo Stato partendo dalla sua cellula primaria, la famiglia, attraverso la promulgazione di leggi che imponevano a tutti i cittadini il matrimonio, la procreazione di figli legittimi e il ripristino della moralità degli avi. Il ritratto che noi possediamo di Clodia si discosta notevolmente da quello matronale tradizionale, ma non può non destare sospetto il fatto che Clodia fosse la sorella di Publio Clodio, vale a dire del nemico giurato di Cicerone (e forse anche lo stesso Cicerone, homo novus, ha subito il fascino della donna, come malignano certe fonti). Come ho piú volte sostenuto nel corso di questa rubrica, in generale le donne romane sono ritratte dagli storici e dalle fonti romane secondo una ideologia ben precisa: da un lato c’è la matrona ideale, dedita alla famiglia e alla casa, e dall’altro la donna antagonista a questo modello

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idealizzato. Questa trasgressione può essere di due tipi: sessuale, attraverso l’uso improprio e libidinoso del proprio corpo, come Clodia e Messalina, la terza moglie dell’imperatore Claudio, oppure legata al desiderio irrefrenabile di potere politico, come nel caso di

Fulvia e Agrippina Minore, madre dell’imperatore Nerone, come avremo modo di vedere in seguito. Di Clodia conosciamo i ritratti di un innamorato respinto e di un avvocato ostile, entrambi di parte. Della vera Clodia ci rimane ben poco.



L’altra faccia della medaglia

di Francesca Ceci

Il futuro voluto dal Fato Con la fine dell’anno, ci si augura da sempre un destino felice per l’inizio del nuovo: una consuetudine attestata anche da alcune monete romane sulle quali compare un gruppo di divinità che regolano benignamente, si sperava allora come ora, il destino umano Aureo di Diocleziano battuto dalla Zecca di Antiochia, fine del III sec. d.C. Al dritto: busto dell’imperatore con corazza e legenda IMP C C VAL DIOCLETIANVS P F AVG; al rovescio: tre divinità femminili che si tengono per mano, legenda FATIS VICTRICIBVS, e, in esergo, SMA.

L

a fata del folklore moderno, creatura benigna e bellissima che può, con la sua magia, mutare o aiutare gli uomini e il loro destino, deve il suo nome al termine fatum («ciò che è detto»), dal verbo for, che significa palesare, parlare e simili. Da esso proviene il sostantivo fatum, traducibile come vaticinio, oracolo, destino o fato, che, nel mondo romano, arrivava a indicare, per estensione, anche l’imperscrutabile potenza divina che regola le vicende umane. Anzi, in alcuni casi, il Fato poteva porsi perfino al di sopra di Giove, data la sua forza invincibile e immutabile alla quale anche gli dèi devono sottostare. Infatti, il concetto di fato fu ben presto personificato e usato, con l’influenza della religiosità greca, principalmente al plurale, per indicare divinità differenti dal Destino (che regola sí le sorti umane, ma può essere modificabile), quali le Parche, le Moire e anche le varie Sibille. Perciò, fato e Sibille sono spesso correlati: nell’Eneide (VI, 376) nell’oscurità degli Inferi visitati da Enea, la Sibilla, rivolgendosi al morto Palinuro, che teme per il suo corpo lasciato insepolto, cosí lo apostrofa, secondo la musicale traduzione di Annibal Caro: «Indarno, indarno speri / che per nostro pregar fato si cangi». Le tre Fate Plinio il Vecchio, nella sua Storia Naturale (XXXIV, 22) parla di tre statue poste a Roma nel Foro,

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presso i Rostri, denominandole come Tria Fata e raffiguranti le Sibille, erette al tempo di Tarquinio Prisco e poi restaurate in età augustea. Al primo re etrusco o all’ultimo (Tarquinio il Superbo, secondo altri autori antichi) la Sibilla offrí l’acquisto dei Libri Sibillini – dapprima nove poi ridotti a tre per l’avarizia del re – e conservati gelosamente nel Tempio di Giove Capitolino. Considerati come una preziosa raccolta di responsi oracolari scritti in lingua greca, si persero poi, bruciati, in un incendio scoppiato nell’83 a.C. Le statue delle Sibille dovevano essere molto famose, e, ancora in età tardo-antica, la zona del Foro davanti alla Curia Iulia era

denominata Tria Fata. Le Sibille, dunque, furono assimilate al concetto di fatum, divinità che può predire il futuro, la necessità inconoscibile. E le Fata, a Roma, furono assimilate anche alle Parche (Procopio, Guerra gotica, 1,


25), le tre arcane dee che presiedevano al destino dell’uomo dalla nascita sino alla morte, rappresentate come anziane tessitrici o fanciulle dall’aspetto oscuro: la prima tesseva le trame della vita umana, la seconda ne designava il destino e la terza, infine, recideva il filo al momento della morte. Il numero di tre, importante nella numerologia antica e moderna quale simbolo di perfezione,

ricorre sempre nella rappresentazione di questi importanti concetti astratti poi personificati: anche nella religione greca le Moire, corrispettive delle Parche e preposte alle vicende umane, erano tre, cosí come le Venezia. Il gruppo in porfido dei Tetrarchi, proveniente da Costantinopoli, collocato nell’angolo sud-est della facciata sud della basilica di S. Marco.

Grazie (vedi, in questo numero, l’articolo alle pp. 98-100). Pressoché tutte le divinità e le personificazioni del pantheon greco-romano hanno il loro posto sulle monete antiche, ma le tre Fata si ritrovano soltanto una volta, prescelte per alcuni rari aurei di Diocleziano, non datati, ma emessi probabilmente nei due ultimi decenni del III secolo d.C., che riportano al dritto la testa dell’imperatore e al rovescio tre divinità femminili, riccamente abbigliate con la stola, che si tengono per mano. Il favore degli dèi La leggenda Fatis Vixctricibus auspica evidentemente il favore accordato dal fato ovvero dalle Parche al regnante e alle sue risoluzioni politiche: infatti, tale emissione potrebbe riferirsi alla risoluzione di Diocleziano di associare al regno, tra il 285 e il 286 d.C., Massimiano, dapprima come Cesare e poi come Augusto, provvedimento che portò poco piú tardi, nel 293, all’individuazione dei due Cesari Galerio e Costanzo Cloro. La concordia tra gli Augusti avrebbe assicurato all’impero un futuro benevolo e foriero di vittoria, cosí come auspicato dalle tre divinità apposte sugli aurei, personificate come il fato benigno, Fata o Parche che le si voglia leggere. Non per nulla in età tetrarchica la raffigurazione simbolica dell’abbraccio, assimilabile al tenersi per mano delle dee sulle monete, trova ampio spazio nell’iconografia ufficiale, come quello celeberrimo della statua dei Tetrarchi a Venezia, proveniente da Bisanzio, con i due Augusti e i due Cesari, possenti nella loro cubica realizzazione in prezioso porfido. Il leggiadro tenersi per mano delle divinità del Fato, cosí come il massiccio abbracciarsi dei Tetrarchi, non fu però sufficiente ad assicurare stabilità a un impero che stava ormai crollando su se stesso.

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I Libri di Archeo DALL’ITALIA Cecilia Conati Barbaro (a cura di)

Il museo delle origini La storia, i siti archeologici, le collezioni Gangemi Editore, Roma, 157 pp., ill. col. 15,00 euro ISBN 88-492-2136-7

Fondato nel 1942 da Ugo Rellini, il Museo delle Origini dell’Università degli Studi «La Sapienza» di Roma, ha avuto, sin dall’inizio, una vocazione essenzialmente didattica, essendo stato concepito come parte integrante delle attività svolte dalle cattedre che si occupano delle diverse branche dell’archeologia preistorica. In piena sintonia con questa vocazione, si inserisce la pubblicazione della guida alle collezioni del museo, che offre al lettore uno strumento utile e non limitato alla descrizione dei materiali esposti. Il volume, infatti, pur in forma sintetica, inquadra storicamente le culture a cui si deve la produzione

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degli oggetti presenti nella raccolta universitaria e offre perciò un riepilogo che abbraccia piú di 2 milioni di anni, dalla comparsa delle prime specie umane nel corso delle fasi piú antiche del Paleolitico fino alle età dei metalli. Ciascun capitolo della guida è arricchito da finestre dedicate a scoperte di particolare importanza (come quelle dell’Uomo del Similaun o della grande vasca lignea individuata a Noceto) o a fenomeni che hanno caratterizzato in maniera particolare determinate fasi storiche (per esempio lo scambio delle materie prime nel corso del Neolitico o le prime tecnologie di lavorazione della ceramica). A corollario delle diverse sezioni, sono inoltre elencati e descritti i siti archeologici da cui provengono i reperti distribuiti nelle vetrine. Nella parte finale è stato riservato uno spazio anche alle discipline scientifiche del cui apporto la ricerca archeologica – e in particolar modo quella preistorica – si avvale ormai da tempo, come l’archeometria e la paleobotanica. Il tutto si avvale di un buon corredo iconografico e di una ampia bibliografia, che può offrire le indicazioni per quanti vogliano approfondire la conoscenza dei molti argomenti affrontati. Stefano Mammini

Eva Cantarella, Luciana Jacobelli

Nascere, vivere e morire a Pompei Electa, Milano, 232 pp., 208 ill. col. 59,00 euro ISBN 978-88-370-7537-8

Come si può leggere anche nella prefazione al volume stesso, ci si potrebbe chiedere che cosa possa giustificare la realizzazione di un ennesimo volume dedicato a Pompei. Ma basta sfogliare qualche pagina – soprattutto nelle sezioni annunciate dal sopratitolo, cioè la nascita, la vita e la morte – per rendersi conto dei non pochi elementi d’interesse di questa nuova opera. Il presupposto, com’è facile intuire, è comunque quello dell’eccezionale stato di conservazione in cui la città vesuviana si è offerta (e si offre) agli occhi di scavatori, studiosi e turisti: l’eruzione del 79 d.C. ha infatti fermato nel tempo la vita di Pompei e dei suoi abitanti, offrendocene una testimonianza straordinariamente ricca e dettagliata. Tuttavia, fatta salva la prevedibile premessa, il successivo svolgimento si legge con autentica passione. Fin dalle prime battute, dedicate al parto e alle difficoltà del venire al mondo, le storie di tanti Pompeiani,

anonimi o illustri che siano, vengono infatti raccontate con un taglio narrativo che risulta piacevolmente lontano dallo stile spesso asettico dei resoconti di scavo. Resoconti che, peraltro, non sono stati naturalmente ignorati, ma anzi, sono uno dei cardini su cui è imperniata l’intera trattazione. È però merito delle autrici l’aver saputo «sfruttare» i dati offerti dall’archeologia, inserendoli in quello che, alla fine, si propone come un grande affresco. Una composizione in cui, anche in virtú del ricchissimo apparato iconografico, le vite spezzate dal Vesuvio sembrano rianimarsi e si ha la sensazione d’essere circondati dal vociare dei passanti, dal rumore delle botteghe artigiane in piena attività o di assaporare il profumo dei pani appena usciti da uno dei tanti forni esistenti in città. S. M.


Andrea Carandini

La fondazione di Roma Editori Laterza, Roma-Bari, 81 pp., 13 ill. b/n 10,00 euro ISBN 978-88-420-9766-2

Il tema delle origini di Roma è da tempo al centro delle attenzioni di Andrea Carandini. Dopo averlo affrontato in diverse pubblicazioni, presentando sia i risultati delle campagne di scavo da lui dirette, sia le considerazioni scaturite dal suo riesame delle fonti letterarie antiche,

lo studioso ha scelto di narrare le ricerche condotte al pubblico dei piú giovani. Ai ragazzi presenta, innanzitutto, l’«affascinante leggenda” che narra le fasi iniziali della città, segnalando come per gli storici moderni quel racconto sia considerato poco credibile e quasi una favola. Poi espone le sue tesi che partono da una considerazione diversa del racconto tramandatoci. Carandini, infatti, afferma: «Non credo che la leggenda di Roma sia solo una favola. Credo piuttosto che si

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tratti di una tradizione in cui verità e finzione sono entrambe presenti e intimamente mescolate». A questo punto i personaggi della narrazione – Remo e Romolo, per citare solo i principali – assumono uno spessore diverso, vengono in primo piano e l’autore li mostra mentre operano e non sono ancora consapevoli dei risultati delle loro azioni. Le loro intuizioni, le loro scelte, vengono analizzate con cura e contestualizzate. Contemporaneamente viene delineato l’assetto urbano della prima Roma con le sue capanne, i suoi luoghi sacri piú antichi, come gli spazi dedicati alla nascente vita associativa e politica. Una città-stato di cui si cerca di ricostruire e comunicare, inoltre, la mentalità, i valori e gli ideali. Carandini, naturalmente, offre la sua ricostruzione della fondazione di Roma da un’angolazione particolare, che è quella – come dichiara esplicitamente – di un archeologo, ovvero «di uno storico che trae le informazioni sul passato prima di tutto dalle cose fatte dall’uomo e da ciò che di esse è rimasto nel terreno». Giuseppe M. Della Fina

dall’estero Arnaud Hurel

L’abbé breuil Un préhistorien dans le siècle CNRS Éditions, Parigi, 458 pp. 28,00 euro ISBN 978-2-271-07251-1 www.cnrseditions.fr

A cinquant’anni dalla morte, questa corposa biografia ripercorre la vita e gli studi di uno dei padri della preistoria francese (ma non solo).

superiore. Titolare della cattedra di preistoria al Collège de France dal 1929 al 1947, Breuil fu una personalità di grande spessore, che seppe sempre coltivare i propri interessi scientifici senza farsi condizionare dalla sua appartenenza alla Chiesa. Véronique Dasen and Thomas Spath (a cura di)

Children, Memory, and Family Identity in Roman Culture Oxford University Press, Oxford, 373 pp., ill. b/n 74,00 GBP ISBN 978-0-19-958257-0 www.oup.com

Henri Breuil (1871-1961), piú noto come l’abate Breuil (per via della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1900), è stato uno dei fondatori della paletnologia, e a lui si devono contributi di importanza fondamentale, primi fra tutti quelli sull’arte parietale paleolitica. Lo studioso, infatti, si occupò di molte delle piú note attestazioni francesi (tra cui le pitture della grotta di Lascaux), allargando la sfera delle sue riflessioni ad analoghe manifestazioni presenti non solo in Europa (in particolare nel Levante spagnolo), ma anche, per esempio, in Sudafrica. Il «papa della preistoria», come viene sovente ricordato dai suoi connazionali, ha lasciato contributi significativi anche nell’interpretazione piú generale delle piú antiche culture umane, proponendo, per esempio, significative identificazioni di molte facies del Paleolitico

Che i bambini, soprattutto in quanto figli, possano spesso condizionare le scelte di vita degli adulti sembra essere un problema vecchio come il mondo. È questo il messaggio che sembra emergere, infatti, dai saggi raccolti in questo volume, che descrive il ruolo dei piú piccoli nel mondo romano, prendendo in esame un orizzonte cronologico che spazia dal I secolo a.C. alla tarda antichità. (a cura di Stefano Mammini)


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