mont’e prama
l’archeologico di firenze
psammetico
la democrazia navale
iltornio
speciale costantino
Mens. Anno XXVIII numero 1 (323) Gennaio 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
archeo 323 gennaio 2012
costantino il piú violento rivoluzionario della storia di roma
◆ la battaglia di ponte milvio
◆ l’editto di milano
◆ elena e l’invenzione dei luoghi santi
◆ la nascita dell’impero cristiano
sardegna
i misteri di mont’e prama
psammetico un faraone rinascimentale
egitto
il museo dei capolavori etruschi
firenze
€ 5,90
Editoriale Anni costantiniani Per «dovere di cronaca» (come si conviene a una rivista che si occupa di antichità) dedichiamo la copertina e lo speciale di questo numero al personaggio che, dalle ceneri di un mondo in declino, ricreò l’impero di Roma, di cui avrebbe incarnato, unico e assoluto, il potere fino alla sua morte. Nell’anno appena iniziato, infatti, e poi nel 2013, si celebreranno i 1700 trascorsi da due avvenimenti storici che hanno avuto come scenario, rispettivamente, le città di Roma e di Milano: nel 312 la battaglia presso il Ponte Milvio, nel 313 la promulgazione del celebre «editto di tolleranza». Nell’articolo di Marco Di Branco la figura di Costantino è rievocata, riletta; gli innumerevoli fatti, le vicende, le memorie che si legano al primo imperatore cristiano, sono, invece, inevitabilmente riassunti. Ma la funzione della nostra rivista è anche questa: ricordare, seppur per cenni, eventi, luoghi, nomi che, poi, possiamo ogni volta ricomporre nel quadro della nostra consapevolezza storica. Costantino fu, come molti suoi predecessori, anche un grande creatore di «luoghi della memoria»: reali, come la stessa «nuova Roma» da lui fondata sulle rive del Bosforo (e che oggi, paradossalmente, conserva poco o nulla dei suoi monumenti originari), o come il piú famoso tra gli archi trionfali tramandatici dall’antichità (e quotidianamente visitato da migliaia di turisti venuti da tutto il mondo); «inventati», come quelli ritrovati insieme alla madre Elena, e che, ben presto, assunsero una concretezza pari, se non addirittura superiore, ai primi, imponendosi ai secoli e ai millenni: sono i luoghi della nascita, della passione e della morte di Cristo, identificati nel corso di quella che, a buona ragione, viene definita come «una delle piú grandi imprese archeologiche di tutti i tempi»… Andreas M. Steiner
Sommario
Editoriale
Anni costantiniani
3
di Andreas M. Steiner
Attualità notiziario
storia
Antico Egitto
Psammetico e i Greci d’Egitto
34
di Sergio Pernigotti
6
scoperte Lo scavo di un sito neolitico nella Francia settentrionale restituisce una statuetta di dea madre, eccezionalmente ben conservata 6 parola d’archeologo Nel territorio di Corcolle, a ridosso di Villa Adriana, potrebbe essere realizzata la nuova discarica per i rifiuti di Roma, compromettendo per sempre un lembo prezioso dell’agro romano 8
musei Firenze, capitale d’Etruria
44
di Carlotta Cianferoni, con contributi di Simona Rafanelli e Giuseppe M. Della Fina
Archeotecnologia Quando il mulino portava l’acqua
44
96
di Flavio Russo
speciale
Costantino e la nascita dell’impero 60 cristiano
incontri Salerno ospita il V convegno della Società Internazionale per lo Studio della Musica greca e romana 12
di Marco Di Branco
Rubriche
dalla stampa internazionale
Antichi ieri e oggi
Leone o leonessa? Quando anche gli archeologi preistorici discutono del «sesso degli angeli»... 16
restauri Il mistero dei giganti
60
Al seguito del marito/2
storia dei greci/12 Verso l’egemonia
La dedizione delle Auguste 80
di Fabrizio Polacco
20
di Valentina Leonelli e Luisanna Usai, con contributi di Antonietta Boninu, Bruno Massabò, Marco Minoja e Alessandro Usai
l’età dei metalli Le civette d’argento
storia
L’uomo e la materia
La «macchina» del vasaio
102
di Romolo A. Staccioli
106
di Claudio Giardino
88
di Massimo Vidale
34
medea e le altre Il bandolo della guerra
108
di Francesca Cenerini
libri
112
Avviso ai lettori In questo numero, per motivi di spazio, non compaiono le consuete rubriche «Il mestiere dell’archeologo» e «L’altra faccia della medaglia», la cui pubblicazione riprenderà regolarmente il prossimo mese
n oti z i ari o SCoperte Francia
La dea della Somme di Stefano Mammini
Inghilterra Villers-Carbonnel
Europa preistorica continua ad «affollarsi» di dee madri: l’ultiL’ ma, in ordine di tempo, viene
dalla Francia settentrionale, per l’esattezza da un sito neolitico individuato nei pressi di VillersCarbonnel, un borgo della Piccardia di 300 abitanti, finora noto alle cronache solo perché compreso nell’area in cui, tra il luglio e il novembre del 1916, si combatté la terribile battaglia della Somme. E proprio sulla riva sinistra del fiume gli archeologi dell’INRAP hanno localizzato due grandi insediamenti, ascrivibili alla cultura chasseana (che si colloca fra i 4300 e i 3600 anni fa). Il piú antico, delimitato da un fossato e da una palizzata, occupa una superficie di circa 6 ettari. Il secondo abitato, circoscritto anch’esso da una palizzata, aveva un’estensione maggiore, pari a circa 15 ettari, che ne fanno un A destra: Villers-Carbonnel (Piccardia, Francia settentrionale). Il forno al cui interno sono stati ritrovati i resti di una statuetta femminile, interpretabile come una figura di «dea madre» (vedi foto nella pagina accanto). Neolitico Medio, cultura chasseana, 4300-3600 anni fa. In alto: cartina della Francia con l’ubicazione del sito.
6 archeo
Germania
Parigi
Oceano Atlantico
Spagna
Francia
Italia
Corsica Mar Mediterraneo
caso abbastanza atipico nel panorama dei siti neolitici finora noti per questo orizzonte culturale. In entrambi i casi, sono stati riportati alla luce resti di numerose strutture abitative e produttive, come, per esempio, fosse di fondazione, buchi di palo e forni. Nel riempimento di uno di questi ultimi, la cui struttura a volta era crollata, sono venuti alla luce i frammenti della statuetta, che è stato possibile ricomporre per intero:
ne è venuta fuori una figura alta 21 cm, i cui tratti, nonostante la schematizzazione, sono apparsi subito inconfondibili. Modellata a partire da un pane d’argilla di forma rettangolare, la dea madre ha anche larghe e pronunciate, e glutei vistosamente sporgenti, che accentuano lo squilibrio fra la parte inferiore della figura, in corrispondenza del bacino, e la sagoma affinata della parte superiore e in particolare della testa. Le braccia sono appena accennate, attraverso due «perline» plasmate all’altezza delle spalle, ma non sono state realmente scolpite, cosí come le mani, totalmente assenti. Non è stato rappresentato l’organo sessuale, mentre compaiono i seni, ottenuti con l’aggiunta di due piccole sfere di impasto, leggermente allungate. Il capo, infine, è estremamente stilizzato: non presenta alcun tratto del viso ed è formato da un semplice cono. Nel complesso, la composizione della statuetta si sviluppa per
quelle forme appena accennate...
braccia Gli arti superiori sono appena accennati, all’altezza delle spalle, da piccole protuberanze, e manca qualsiasi allusione alle mani ▼
Testa È formata da un’appendice in forma di cono, senza alcuna caratterizzazione dei tratti del viso. ▼
▼
seni Due modeste sfere di argilla, appena allungate, segnalano i seni, fra loro asimmetrici.
statuetta si è conservata, seppur frammentaria, nella sua interezza, sia perché, nell’ambito nel Neolitico Medio francese (non limitandosi, perciò al solo orizzonte chasseano), sono finora assai poche le rappresentazioni di questo tipo. Il fatto che, pur appartenendo a culture diverse, queste figure condividano un medesimo stile, ribadisce l’ipotesi che la loro realizzazione affondi le proprie radici in una grande tradizione ideologica comune, le cui origini sono verosimil-
▼
pure linee, fra loro asimmetriche, come nel caso dei seni e delle gambe. Siamo dunque alle prese con una resa fortemente astratta del corpo femminile, sottolineata dalla larghezza esagerata delle anche e dei seni. La «signora» di VillersCarbonnell, al pari delle altre attestazioni finora note, è un personaggio dai tratti fortemente stilizzati e riflette il gusto di un’epoca in cui si opera una dissoluzione della figura. La scoperta è stata salutata con grande entusiasmo sia perché la
glutei Vistosamente sporgenti, come solitamente si osserva in questo genere di raffigurazioni, accentuano lo squilibrio fra la metà inferiore e quella superiore della statuetta.
mente da ricondurre al mondo mediterraneo. Quanto al possibile impiego, l’ipotesi tradizionale vuole che simili immagini fossero rappresentazioni simboliche della fertilità – donde la definizione di «dee madri» –, fatte oggetto di un culto domestico. Tuttavia, soprattutto in tempi recenti, questa idea è stata piú volte confutata e le nuove acquisizioni, come questa di Villers-Carbonnel, non potranno far altro che portare nuova linfa al dibattito.
archeo 7
Parola d’archeologo
di Flavia Marimpietri
Oltraggio ad Adriano A ospitare i rifiuti di Roma potrebbe essere un sito non lontano da Villa Adriana. Ne abbiamo parlato con Vanna Mannucci, di Italia Nostra, e con l’archeologo Fausto Zevi
Fonte Nuova
GRA
Roma
A1
Villa Adriana
Tivoli Terme
ne Anie A24 Corcolle
A24
Tivoli San Gregorio da Sassola
Area della discarica
Gabii A1
San Cesario
a notizia ha dell’incredibile. A poche centinaia di metri dalla L splendida residenza imperiale di Villa Adriana a Tivoli, sito archeologico romano unico al mondo e patrimonio UNESCO dal 1999, potrebbe sorgere un’enorme discarica: in arrivo ci sarebbero quasi due milioni di metri cubi di immondizia di Roma. Se dovesse accadere, il vicino castello medievale di Corcolle, che risale al 1074, affaccerebbe direttamente sulla
8 archeo
discarica. Il tutto a pochi passi dai resti archeologici della necropoli di epoca arcaica (fine del VII-VI secolo a.C.) e medio-repubblicana (IV-III a.C.) che sorge sull’altura di Colle S. Angeletto a Corcolle, dove si conservano tracce, in gran parte ancora inesplorate, dell’abitato arcaico di uno dei centri ancora sconosciuti del Latium Vetus, accanto a Praeneste, Tibur, Gabii. Eppure, il sito di «Corcolle-San Vittorino», è tra quelli dichiarati
In alto: veduta di Villa Adriana, con, in primo piano, il Canopo. A destra: carta con il sito scelto per la discarica prevista presso Corcolle.
idonei a ospitare discariche nell’ambito del piano di emergenza rifiuti della Regione Lazio. L’area sembra destinata ad accogliere la spazzatura della capitale dal 2012 (e almeno fino al 2015), in vista dell’imminente chiusura di Malagrotta, che, con i suoi 240 ettari, è la discarica piú
un territorio troppo ricco per essere sacrificato Forse nessuno conosce Corcolle meglio di Fausto Zevi, professore ordinario di archeologia greca e romana presso l’Università «La Sapienza» di Roma, che ha diretto dal 1994 al 2002 gli scavi archeologici avviati nella città antica dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio. Chi scrive, come sua studente al corso di laurea in archeologia classica, e poi allieva nella I Scuola di Specializzazione in Archeologia di Roma, ha avuto la fortuna di poter scavare insieme al professor Zevi, per diversi anni, nella necropoli di Corcolle: un’esperienza indimenticabile. Con le sue oltre 100 tombe a camera tagliate nel tufo, i lunghi dromoi e i corredi deposti a terra e sulle banchine (quasi del tutto inediti), ricchi in particolare nelle grandi sepolture di epoca arcaica, Corcolle è una testimonianza unica per il Lazio arcaico e mediorepubblicano. Professore ha sentito, una discarica a Corcolle, proprio ora che sono ricominciate le ricerche della Soprintendenza Archeologica del Lazio nell’area della necropoli? «Sí, una follia. Ho ascoltato in un convegno a Roma i risultati delle indagini condotte di recente a Corcolle dall’archeologo Zaccaria Mari: confermano la grande importanza di questo sito, in gran parte ancora vergine. È venuto alla luce un altro tratto della strada della necropoli, su cui si affacciano i corridoi delle tombe a camera, e alcune sepolture con un grosso corredo di vasi databili all’Orientalizzante Recente, tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Funziona l’idea che Corcolle, all’epoca, fosse una sorta di anello di contatto tra il mondo laziale costiero (Castel di Decima) e quello di Tivoli e della Sabina (Colli Albani): non appartiene né all’uno né all’altro, è una zona di cerniera. Mari ha avanzato l’interessante ipotesi che Corcolle fosse l’antica Pedum, una delle città menzionate dalle fonti nell’area labicana, come anche Labico o Bola.Tutti nomi non ancora associati a città. Comunque, l’area di Corcolle, in posizione intermedia tra il mare e Palestrina, è una zona inesplorata e quasi intatta. Inizialmente avevo ritenuto che Corcolle fosse uno dei “novem oppida” presi da Cincinnato ai Prenestini nella prima metà del IV secolo a.C., aggregato territorialmente e politicamente a Praeneste, invece l’identificazione con Pedum è interessante. Anzi, sarebbe una “bomba”: si tratta di uno dei grossi centri del Lazio arcaico di cui non avevamo conoscenza». Quindi Corcolle potrebbe essere una delle città arcaiche del
grande d’Europa. A scegliere Corcolle tra i siti alternativi è stato Giuseppe Pecoraro, prefetto capitolino in carica, nominato «commissario per il superamento dell’emergenza ambientale a Roma e Provincia» nel settembre 2011. La scelta è avvenuta con l’assenso della Regione Lazio e,
Latium Vetus che finora mancavano «all’appello». Ma dove doveva estendersi l’antico abitato di Corcolle? «Lí, a Colle Sant’Angeletto. L’attuale confine lascia nel Comune di Roma l’area dell’abitato e in quello di Gallicano nel Lazio l’area della necropoli». La discarica dovrebbe sorgere proprio da quelle parti… «Sí, si troverebbe immediatamente a ridosso degli scavi archeologici della Soprintendenza di Roma, dove c’è l’abitato della città. Tra l’altro in quell’area non esistono vincoli archeologici, al contrario della zona della necropoli». Quali altri resti archeologici importanti ci sono, nei pressi? «C’è il santuario, in parte ipogeo e decorato da terrecotte votive, rinvenuto da Stefano Musco, della Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma: da qui viene la celebre “Ara di Corcolle”, conservata al Museo Nazionale Romano, uno dei piú antichi documenti noti in lingua latina, databile al V secolo a.C. Un’iscrizione piú tarda, invece, del III secolo a.C., studiata da Adriano La Regina, svela anche a chi era dedicato questo santuario: a Venere. Una divinità che si sposa benissimo con un luogo limitaneo (basti pensare alla Venere Ericina di Porta Collina a Roma). Insomma, da un punto di vista archeologico Corcolle è ancora tutta da studiare, cosa che rientra nei motivi di particolare interesse del luogo. Il suolo inoltre, è intatto, quindi può riservare grosse sorprese». Invece, la prossima sorpresa, a Corcolle, potrebbero essere i rifiuti… «È una follia totale. In un lembo di campagna romana ancora intonso, meravigliosamente conservato, che ospita i resti ancora inesplorati di Villa Adriana, e da cui parte la zona degli acquedotti (verso San Gregorio da Sassola): è un’area che ha potenzialità di utilizzazione enormi. Invece di valorizzarla, la perdiamo del tutto. Anche se i rifiuti non verranno scaricati sul pianoro di Corcolle, dove sono i resti archeologici, bensí a valle, nella cava, i suoli antichi verranno danneggiati comunque: per arrivare alla cava, infatti, le attrezzature dovranno passare sul pianoro, in area archeologica. A parte il fatto che nessuno, per i miasmi, vi potrà piú mettere piede, questo vuol dire distruggere e rendere la zona per sempre inutilizzabile. Sarebbe una zona persa, abbandonata alla distruzione. Sono decisioni gravi, che vanno prese in maniera oculata: capisco che i rifiuti sono un problema gravissimo per il Lazio ma, in casi come quello di Corcolle, bisogna essere coscienti che, cosí, si sacrifica per sempre un territorio».
per ora, il silenzio delle Soprintendenze. L’area della futura discarica si trova in un lembo di territorio pertinente alla Soprintendenza Speciale ai Beni Archeologici di Roma, al confine con l’area della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, in cui si trova Villa Adriana. Il caso
è stato ampiamente ripreso dalla stampa internazionale, finendo sulle pagine de Le Monde in Francia, e del Daily Telegraph e The Guardian in Inghilterra; mentre in Italia ha generato una levata di scudi generale da parte dei comitati locali di cittadini, delle associazioni ambientaliste – come
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In alto: il castello di Corcolle, risalente al 1074. A destra: il Ponte Lupo, facente parte dell’acquedotto dell’Aqua Marcia.
Italia Nostra, Fai, Wwf e Legambiente –, del mondo della cultura (forti critiche alla scelta di Corcolle sono arrivate da archeologi del calibro di Fausto Zevi e Adriano La Regina, dal principe Urbano Barberini, dall’attrice Franca Valeri).
Sul tema, abbiamo provato a raggiungere telefonicamente Marina Sapelli Ragni, soprintendente archeologa del Lazio, anche perché il suo ufficio ha da poco ripreso gli scavi presso la necropoli di Corcolle, già intrapresi dal 1994 al 2002 con
l’Università degli Studi di Roma «La Sapienza». Ma la soprintendente non ha voluto rilasciare dichiarazioni, né autorizzare altri a rilasciarne, ricordando come la futura discarica non sorgerebbe nell’area di sua competenza. Nessun commento anche da Anna Maria Moretti, soprintendente ai Beni Archeologici di Roma, il cui territorio è invece ampiamente interessato dalla questione rifiuti: «devo ancora guardare le carte», ci dice. Gli organi preposti dallo Stato alla tutela del nostro patrimonio archeologico, in pratica, sul tema non si esprimono. L’associazione Italia Nostra, nel tentativo di fermare la discarica, nel novembre 2011 è ricorsa al TAR del Lazio per la disapplicazione di tutti gli atti e provvedimenti relativi al sito di Corcolle, come fa notare la vice presidente Vanna Mannucci. «Due milioni di metri cubi di immondizia, come si dice in gergo tecnico tal quale, cioè
Una rassegna per tutti iciotto incontri per diciotto libri. Diciotto appuntamenti per parlare di archeologia e scienze umane D nel cuore di Napoli. A presentare il proprio lavoro e a
Il primo appuntamento si è svolto il 13 gennaio presso la libreria di via Duomo, con Bruno Carboniero e Fabrizio Falconi per In hoc vinces. La notte che discuterne con il pubblico sono gli autori, professionisti cambiò la storia dell’Occidente. In attesa dei 7 che completeranno la rassegna, ecco già affermati nel campo, ma anche nomi finora sconosciuti, tesisti, ricercatori e appassionati: finalmente tutti a seguire il calendario con gli appuntamenti già prepotranno presentare le proprie opere, condividendo ri- stabili: 20 gennaio: Massimiliano Franci per Astronocerche e studi. Il programma degli incontri è promosso mia Egizia. Introduzione alle conoscenze astronomiche da Archeologia Attiva, la prima libreria archeologica del dell’Antico Egitto; 2 febbraio: Marco Di Branco per Mezzogiorno, in collaborazione con il Gran Caffè Ne- Alessandro Magno. Eroe Arabo nel Medioevo, Salerno Editrice; 16 febbraio: Andrea Nicolotti per I templari apolis di piazza San Domenico Maggiore. Una ghiotta opportunità per gli esperti e per tutti gli e la sindone, Salerno editrice; 2 marzo, al Neapolis: appassionati di storia, filosofia, antropologia e sociolo- Andrea Carandini per La fondazione di Roma raccontagia: un’occasione per confrontarsi su tematiche affasci- ta da Andrea Carandini, Laterza; 16 marzo, al Neapolis: nanti con nomi di spicco come Carandini, Flores Paolo Flores D’Arcais per Gesú, l’invenzione del Dio D’Arcais e Frediani, ma anche con chi è alla sua prima Cristiano, ADD editore; 4 aprile, Franco Cardini per volta, spinto dalla voglia di rendere noto il proprio la- Templari e templarismo. Storia, mito e menzogne, Il cervoro, prenotando una data ad hoc per la presentazione. chio; 19 aprile, al Neapolis, Andrea Frediani per 101 Le date disponibili per presentare la propria monogra- battaglie che hanno fatto l’Italia unita, Newton; 10 magfia sono le seguenti: 9 febbraio, 9 marzo, 23 marzo, 12 gio, Massimiliano Valenti per Monumenta.I mausolei aprile, 26 aprile, 3 maggio e 24 maggio. Per ulteriori romani, tra commemorazione funebre e propaganda celebrainformazioni, si può contattare il sito www.archeolo- tiva, Exorma; 17 maggio, Clementina Pannella per I giattiva.com, o scrivere a: archeologiattiva@gmail.com. segni del potere, Edipuglia. Il contatto telefonico è: 081 0839474. (red.)
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indifferenziata – spiega la Mannucci – infilati in una discarica tra Corcolle e San Vittorino, sono una assurdità. Per tanti motivi: oltre a Villa Adriana, in quella zona si trovano altri due siti UNESCO,Villa D’Este e Villa Gregoriana, e poi, a sud, l’area archeologica importantissima di Gabii, con il tempio di Giunone, e il sistema del lago di Castiglione. Inoltre, nella zona si conservano ancora tutti gli acquedotti, dall’Anio Novus e Vetus all’Aqua Marcia. Né il commissario Pecoraro, né le soprintendenze competenti possono ignorare che quell’area ha 8 “fattori escludenti” dall’idoneità come sito per una discarica. E pensare che sono state scartate località che ne avevano solo due». Quali sono i «fattori escludenti» che non renderebbero il sito di Corcolle idoneo a ospitare rifiuti? «Il vincolo idrogeologico, quello archeologico, paesaggistico, storico-artistico e monumentale,
poi il vincolo di Piano Regolatore Generale, il vincolo di piano dell’agro e altri fattori come la distanza dagli abitati, da scuole e da funzioni civiche. Questo accanimento su un’area cosí delicata è assurdo, del tutto anomalo: noi chiediamo che vengano rispettati i vincoli. Quello archeologico in primo luogo: il sito della discarica è a 700 m da “Torre Bruna” e dalla fascia di rispetto di Villa Adriana, cioè dall’area dei resti archeologici ancora non scavati. E qualcuno, fra uno o cento anni, ha il diritto e il dovere di recuperare quei monumenti senza che vengano sepolti da una discarica. I rifiuti, oltretutto, arriverebbero fin sotto la scarpata del castello medievale di Corcolle, che guarderebbe cosí l’immondizia. Non è possibile che non ci siano siti alternativi». Quali sono i particolari pregi del territorio e chi dovrebbe tutelarli? «Parliamo di un lembo dell’agro romano antico ancora intatto: una
zona di una bellezza perfetta, incontaminata. Con il tempio della Fortuna Primigenia di Palestrina e Villa Adriana forma un “triangolo archeologico” di importanza mondiale. Il Commissario straordinario è pro tempore,Villa Adriana, invece, abbiamo il dovere di consegnarla intatta alle generazioni future. Le soprintendenze competenti non hanno la facoltà, ma il dovere, di intervenire. Porta Neola, l’arco romano scavato nel tufo lionato della zona, è a 10 m dalla scarpata della discarica. Le istituzioni che hanno il compito della tutela non possono rimanere con le mani in mano, poiché hanno giurato sull’articolo 9 della Costituzione di tutelare il patrimonio archeologico: hanno l’obbligo di farlo. E questa è l’ultima occasione a disposizione. La comunità internazionale ci guarda come fossimo selvaggi (e non a torto direi). Noi di Italia Nostra, per fermare la discarica, andremo a qualsiasi grado di giudizio».
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n otiz iario
incontri Salerno
Archeofilatelia
Suoni dall’antica Grecia resso il Campus di Fisciano dell’Università di Salerno, è in P programma, dal 18 al 20 gennaio, il
V Incontro annuale del MOISA (International Society for the Study of Greek and Roman Music and its Cultural Heritage). L’incontro ha per tema Gli strumenti musicali della Grecia antica e vede coinvolti studiosi italiani e stranieri, chiamati a fare il punto sulle attuali conoscenze in materia. Fra gli altri, c’è molta attesa per la relazione di Egert Pöhlmann, dell’Università di Erlangen, che presenterà lo studio dei materiali rinvenuti in due tombe scavate nel maggio del 1981 a Dafni, nei pressi di Atene. Una delle sepolture, che custodiva i resti di un uomo morto all’età di circa vent’anni, ha restituito molti oggetti, tra cui la cassa armonica di una lira, una delle canne di un aulos (flauto a doppia canna) e numerosi frammenti di un’arpa. I materiali, databili al 430-410 a.C., sono custoditi nel Museo Archeologico del Pireo e sono finora inediti: il convegno di Salerno è dunque l’occasione per poterne diffondere la conoscenza fra la comunità scientifica e fra tutti gli appassionati alla materia. Per informazioni sul convegno: www.moisasociety.org (red.)
a cura di Luciano Calenda
Sardegna preistorica Come potete leggere anche nelle megalitica prenuragica (2); poi ci sono pagine dedicate alle sculture di Mont’e il nuraghe di Torralba (3) e un Pozzo Prama, la Sardegna è un’isola ricca di sacro di Santa Vittoria di Serri (4). testimonianze preistoriche tra le piú E, ancora, le tombe dei giganti di varie, dai nuraghi alle tombe e Dorgali (5) e di Borore (6) e gli scavi di necropoli, dai bronzetti alle terracotte, Goni (7). Infine, alcuni dei numerosi ecc. Tuttavia, Poste Italiane non ha bronzetti nuragici: il pastore (8), mai valutato l’opportunità di una l’arciere (9), la dea madre (10), emissione celebrativa di tali ricchezze la spada votiva (11), la navicella di archeologiche, e lo ha fatto una sola Is Argiolas (12). Insomma, è un vero volta, in modo molto marginale. Infatti, peccato che queste testimonianze un francobollo emesso nel 2007 mostra della preistoria sarda non siano il profilo dell’isola e le sue principali ancora stata degnamente celebrate attrattive: una caratteristica spiaggia, e ricordate con una specifica un fenicottero rosa e una statuetta emissione filatelica... preistorica raffigurante un guerriero (1). Hanno supplito a IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT questa mancanza di sensibilità (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ultedelle nostre Poste i vari circoli riori chiarimenti o informazioni, si può scrivere filatelici dell’isola, che hanno alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per approntato una lunga serie di qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi: annulli speciali, ciascuno dei Segreteria c/o Alviero Luciano Calenda, quali mostra un pezzo di Batistini C.P. 17126 Sardegna preistorica. Via Tavanti, 8 Grottarossa 50134 Firenze 00189 Roma. Cominciamo da una delle info@cift.it, lcalenda@yahoo.it testimonianze piú antiche, il oppure www.cift.it Dolmen di Sa Covaccada (XIXXVI secolo a.C.), tomba
Due giorni di vita preistorica associazione culturale «Archeologia Sperimentale» organizza, nei giorni 28 e 29 gennaio, uno L stage sulle tecnologie dell’uomo preistorico, rivolto ’
ad archeologi, studenti di scienze umanistiche e naturali, insegnanti, operatori museali, guide archeologiche, naturalistiche, ambientali o turistiche, operatori culturali, gruppi archeologici o semplici appassionati. Ecco alcuni dei temi principali che saranno affrontati nel corso dello stage: il riconoscimento delle materie prime adatte alla scheggiatura degli strumenti in pietra (la selce, il diaspro, l’ossidiana, le quarziti); le tecniche di scheggiatura (diretta, indiretta, pressione e ritocco); la produzione sperimentale di alcuni strumenti; la fabbricazione di cordami; l’uso e i vantaggi portati dall’acquisizione del fuoco; i colori minerali (ocre e altri ossidi) e il loro utilizzo; la lavorazione della pelle; le armi, con prove pratiche di utilizzo; la lavorazione dell’osso, che
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porterà i partecipanti a produrre un ago d’osso per mezzo della levigazione, realizzandone la cruna con utensili di pietra; la realizzazione di monili, utilizzando la steatite e conchiglie fossili. Al termine dello stage i partecipanti avranno cosí sperimentato personalmente le varie attività e saranno pronti per organizzare laboratori sull’accensione del fuoco con le pietre focaie, sulla realizzazione di aghi d’osso e monili in conchiglia e steatite per mezzo della levigazione, sulla realizzazione di perforatori e grattatoi in selce, e sulla produzione di cordicelle in fibre vegetali e animali. Gli oggetti prodotti durante lo stage rimarranno di proprietà dei partecipanti. Per informazioni sulle modalità e i costi di partecipazione allo stage, ci si può rivolgere a: Associazione Culturale «Archeologia Sperimentale»; www. archeologiasperimentale.it; e-mail: info@archeologiasperimentale.it; tel. 0573 545284 (dopo le 18,30: cell. 340 5488956). (red.)
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Calendario Italia
otricoli
Roma
Cose mai viste
Homo Sapiens
Lo splendore di Ocriculum esce dai magazzini Casale S. Fulgenzio fino al 31.05.12
La grande storia della diversità umana Palazzo delle Esposizioni fino al 12.02.12
scansano (GR)
Il Vello d’oro
Antichi tesori della Georgia Museo dei Fori Imperiali nei Mercati di Traiano fino al 05.02.12
La valle del vino etrusco
Archeologia della valle dell’Albenga in età arcaica Museo Archeologico della Vite e del Vino, Palazzo Pretorio fino al 31.12.11
a Oriente
Città, uomini e dèi sulle Vie della Seta Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano fino al 26.02.12
I Borghese e l’Antico Galleria Borghese fino al 09.04.12 chiusi
Museo Etrusco di Chiusi + 110
Centauro cavalcato da Amore. Replica del II sec. d.C di un originale del II sec. a.C
treviso
Manciú, l’ultimo imperatore Casa dei Carraresi fino al 15.05.12 venezia
Piatto da esposizione in maiolica istoriata con satiro a pesca.
Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12
Montefiore Conca (Rn)
Sotto le tavole dei Malatesta
Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12
Venezia e l’Egitto Palazzo Ducale fino al 22.01.12
Francia Parigi
Pompéi, un art de vivre Tesori dalla città vesuviana Musée Maillol fino al 12.02.12
orvieto
Citazioni archeologiche
Luciano Bonaparte archeologo. Nuove acquisizioni A qualche anno di distanza da una precedente mostra a lui dedicata, Luciano Bonaparte torna protagonista di un progetto espositivo che a materiali già noti affianca una documentazione ulteriore, ottenuta eccezionalmente in prestito, che arricchisce il quadro e la conoscenza del profilo intellettuale del fratello di Napoleone Bonaparte. Si comprende meglio, per esempio, l’interesse per la letteratura e la poesia testimoniato da un quaderno con la trascrizione della sua tragedia Les Enfants de Clovis. L’opera, che l’autore dice già rappresentata con successo in diversi teatri, venne dedicata a Samuel Butler, ecclesiatico anglicano e professore all’Università di Cambridge, che curò un’edizione critica di Eschilo. È anche esposto un taccuino – sempre presentato per la prima volta – che dà invece conto degli interessi di Luciano per le antichità e, in particolare, per quelle etrusche: si tratta di un documento dove il principe elenca i vasi da lui scoperti a Vulci ed esposti a Roma all’interno di Palazzo Gabrielli. I vasi sono indicati seguendo la suddivisione assegnatagli all’interno degli spazi del palazzo: Galerie, Salle du Trône, Grande Salle, Chambre des Fragments. dove e quando Museo Claudio Faina fino al 15.04.12 Orario tutti i giorni, 10,00-17,00; chiuso lunedí Info tel. 0763 341216; e-mail: info@museofaina.it; www.museofaina.it
Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.
Paesi Bassi
I Galli
amsterdam e leida
Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12
Gli Etruschi
Allard Pierson Museum (Amsterdam) e Rijksmuseum van Oudheden (Leiden) fino al 18.03.12
saint-germain-en-laye
Con il bronzo e con l’oro
Svizzera
La vita quotidiana nell’età del Bronzo (2400-700 a.C.) Musée d’antiquites nationales fino al 30.01.12
basilea
Sesso, droga e musica
Belgio
L’ebbrezza e l’estasi nell’antichità Antikenmuseum Basel und Sammlung Ludwig fino al 29.01.12
Bruxelles
L’immagine guida elaborata per la mostra di Basilea.
Indios del Brasile
Musée du Cinquantenaire fino al 19.02.12
Foto di un indio del Brasile, scelta come simbolo della mostra allestita a Bruxelles.
Germania monaco
La guerra di Troia
200 anni di Egina a Monaco Glyptothek fino al 31.01.12
Grecia Atene
Fuori pista
Un viaggio archeologico nelle isole greche di Castelrosso, Simi, Calchi, Piscopi e Nisiro Museo di Arte Cicladica fino al 23.04.12
USA new york
Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 17.06.12
Riproduzione dell’affresco delle «Dame in blu», il cui originale fu trovato presso i magazzini reali di Cnosso.
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L’archeologia nella stampa internazionale a cura di Andreas M. Steiner
sodato che la «ginecocrazia» non figurò mai tra gli stadi iniziali dello sviluppo umano e che le prime famiglie si formaorse è tutta colpa di Johann rono già molto presto, in età paleolitica, Jacob Bachofen, il giurista di in un contesto socio-economico di cacBasilea che, esattamente 151 ciatori e raccoglitori che certo non poteva anni fa, diede alla stampa uno dei piú dare spazio a forme di «eterismo» o famosi e controversi testi del Novecen- fenomeni simili. Eppure… Bachofen fece una scoperta to: Il Diritto materno, meglio noto come Il Matriarcato. Ricerca sulla fondamentale, per l’epoca e per la storia ginecocrazia del mondo antico moderna in genere: quella, cioè, che il nei suoi aspetti religiosi e giuridi- dominio dei maschi non era una dispoci. Nella monumentale opera l’autore sizione divina e che l’istituzione della ipotizza un’evoluzione dell’umanità famiglia era un prodotto storico. È, forse, che, ai suoi albori, vede il predominio allacciandosi a queste ultime conclusioni del potere femminile su quello maschi- che, negli anni Settanta del secolo scorso, le, in un contesto di «eterismo» (una le ricerche sulle origini del matriarcato sorta di promiscuità ispirata al potere hanno goduto di una rinnovata fortuna: sessuale femminile) e di comunità dei basta ricordare le indagini che l’archeobeni (un «comunismo» delle origini). loga e paleontologa Marija Gimbutas Nonostante la loro inferiorità fisica ha dedicato all’arte figurativa preistorica, (e, forse, per compensarla), le donne rivelatrice, secondo la studiosa, dell’esidominarono la sfera del culto e, in se- stenza di una religione primordiale, guito, come reazione agli abusi subiti incentrata sulla venerazione di una unidai maschi, contro di loro avrebbe- versale «Dea Madre Creatrice». ro scatenato la guerra condotta dalle Amazzoni. Una condizione, dunque, quella del L’enigma dell’uomo matriarcato delle origini, comune a (o della donna?) leone tutte le società umane, le quali solo in seguito passarono a un ordinamenCosa ha a che fare – vi chiedeto dominato dai maschi, il cosiddetto rete – questo lungo sproloquio su patriarcato, ricacciando nell’oblio la Bachofen e il femminismo ante littememoria dell’originaria condizione ram con l’immagine pubblicata qui dell’umanità. accanto e che ritrae – indiscutibilQuesto, in estrema sintesi, l’assunto mente – un felino? Ecco la risposta: di un libro che, è il caso di sottolineare, l’ultimo numero del settimanale ha fatto epoca. Vi si confrontò l’an- tedesco Der Spiegel dedica un amtropologo statunitense Lewis Henry pio articolo proprio alle recentissiMorgan il quale, nel 1877 pubblicò, a me discussioni tra paletnologi circa sua volta, un’opera rivoluzionaria, La l’identità di questo antichissimo società antica: in seguito, la scansione manufatto (vedi in seguito), non tandell’evoluzione da lui proposta e ispi- to, però, della «specie» cui appartierata da Bachofen – dall’«eterismo», ne (uomo o animale?), quanto del attraverso la «ginecocrazia», al «pa- suo «genere». In breve: si tratta di triarcato» – verrà accolta da Friedrich leone o leonessa? Engels all’interno del suo L’origine L’oggetto in questione, oggi della famiglia, della proprietà pri- esposto nel Museo della città di vata e dello stato (1884)… Ulm (Germania), venne scoperto I tre autori citati (Bachofen, Morgan, nell’estate del 1939 all’interno Engels) sono oggi altrettanti «classici», di una grotta del Giura Svevo, le loro teorie obsolete e superate dal colpito dal piccone di un geoloprogresso delle ricerche degli ultimi go che ne raccolse i frammenti centocinquant’anni. Cosí, è oggi as- all’interno di una scatola, insie-
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me a vari strumenti litici e resti di cibo preistorici. La seconda guerra mondiale era alle porte e cosí, per decenni, la scatola con i preziosi reperti fu nascosta e dimenticata. Fino agli anni Ottanta, quando il suo contenuto è stato riesaminato e i singoli pezzi (ben 220) ricomposti a formare la curiosa statuetta, alta circa 30 cm e scolpita intagliando la zanna di un mammuth. Quando? Circa 35 000 anni fa, nel Paleolitico superiore e in piena era glaciale. Sfortunatamente, circa il 30% del manufatto è andato perduto, aggiungendo ulteriori interrogativi al mistero posto dalla figura: cosa rappresentava, un animale fantastico, uno stregone che indossa la pelle di leone (un tema iconografico già noto dalle pitture rupestri preistoriche)? E qual è il significato delle linee incise sul bicipite sinistro, riproducono cicatrici o si tratta di un qualche «segno»? E poi (e soprattutto) gli studiosi oggi si chiedono: l’essere-leone è maschio o femmina? Il dilemma – se cosí lo vogliamo chiamare – è accentuato dalla scarsa definizione degli attributi sessuali della scultura. Per l’archeologo preistorico Joachim Hahn non vi sono dubbi: il leone mostra i segni dell’organo riproduttivo maschile. Per la paleontologa Elisabeth Schmid, invece, lo stesso particolare anatomico rappresenterebbe un evidente triangolo pubico. Quest’ultima spiegazione si pone, naturalmente, in linea con la bachofeniana teoria della pertinenza femminile, in età preistorica, delle cose attinenti al sacro e al culto. E che, nel caso del(la) leone(ssa), si tratti di una scultura cultuale, su questo gli studiosi sembrano essere tutti d’accordo. A favore della tesi di Schmid gioca l’esistenza di un’altra scultura in avorio, coeva alla nostra, e scoperta nell’autunno del 2008 in una grotta non lontana da quella
in cui fu trovato il (la) leone(ssa): la cosiddetta «Venere di Hohle Fels» (a cui «Archeo» ha dedicato la copertina nel numero 292, giugno 2009), esempio principe di Venere o Dea Madre Creatrice preistorica, opera della stessa scuola di artisti (o sacerdoti/sacerdotesse di un culto al femminile?) che hanno creato la nostra statuetta. Di contro, la letteratura etnologica è piena di riferimenti a sciamani (maschi) che, nel corso delle loro danze rituali, indossano pelli animali… Pur di raggiungere una soluzione, gli archeologi sono tornati sul luogo del ritrovamento per passare, letteralmente, al setaccio la terra di riporto lasciata in sito dai primi esploratori della grotta. E con successo: sono riapparsi piú di mille frammenti, tutti appartenenti alla nostra scultura, alcuni minuscoli altri della grandezza di un dito (tra cui le parti che formavano il braccio destro, creduto perduto). Ora si tratta di ricomporli, un lavoro da certosini. Ma, alla fine, il risultato ci sarà: se, come crede Elisabeth Schmid, la figura avrà nuovamente i due grandi seni (di cui sembra di poter scorgere l’attaccatura originale), la questione sarà definitivamente risolta e la scultura continuerà a essere un’«icona del movimento femminista», come lamenta l’archeologo Kurt Wehrberger, del Museo di Ulm. E noi, invece, potremmo iniziare a discutere di altro. Del sesso degli angeli, per esempio.
Statuetta in avorio raffigurante un felino, dalla grotta di Hohlenstein (Giura Svevo, Germania). 30 000 a.C. circa.
restauri mont’e prama
Il mistero dei
giganti
di Valentina Leonelli e Luisanna Usai; con contributi di Antonietta Boninu, Bruno Massabò, Marco Minoja e Alessandro Usai
Dopo un lungo lavoro di restauro tornano alla luce le monumentali statue di pietra rinvenute in frammenti nell’area funeraria di Mont‘e Prama, in Sardegna. Guerrieri, arcieri, pugilatori e modelli architettonici che testimoniano l’ultima grande produzione della civiltà nuragica
La Galleria espositiva del Centro di Restauro e Documentazione della Soprintendenza di Sassari e Nuoro, a Sassari, in cui è allestita la mostra dedicata alle sculture in pietra rinvenute a Mont’e Prama, nel territorio di Cabras, negli anni Settanta del Novecento e restaurate di recente.
L
a mostra «La pietra e gli eroi. Le sculture restaurate di Mont’e Prama», allestita nella Galleria espositiva del Centro di Restauro e Documentazione della Soprintendenza per i beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro è stata, come esplicita il sottotitolo, una mostra sul restauro delle sculture in pietra rinvenute a Mont’e Prama, in territorio di Cabras. Ma è stata anche la mostra di un complesso scultoreo esposto per la prima volta nella sua completezza e che costituisce un ulteriore, significativo aspetto della produzione materiale della civiltà nuragica: sculture a tutto tondo che rappresentano la figura umana, spesso in dimensioni superiori al vero, e che ripropongono alcune iconografie già note dai ben piú famosi
«bronzetti». Seppure sia ancora incerta, come vedremo, la datazione precisa nell’ambito della civiltà nuragica, certamente esse costituiscono al momento l’unico grande complesso scultoreo realizzato in ambito protostorico in Italia e nel Mediterraneo occidentale.
Frammenti straordinari La scoperta delle sculture non è recente. Buona parte dei frammenti provengono da un’indagine di scavo effettuata nel 1979, ma numerose porzioni di sculture erano già venute in luce negli anni precedenti in seguito a scoperte fortuite e interventi d’urgenza. Nello scavo del 1979 i frammenti di sculture sono stati trovati in un accumulo disordinato, una vera e propria «discarica», al di sopra di una serie di tombe a pozzetto, con defunto
in posizione accovacciata, disposte l’una accanto all’altra in un allineamento irregolare. Fin dalla sua prima scoperta, il consistente gruppo di statue rinvenute nel sito di Mont’e Prama è apparso assolutamente straordinario, anche perché, sino al rinvenimento dei primi frammenti, ben pochi erano gli esemplari di raffigurazioni in pietra a tutto tondo di ambito nuragico. Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, in realtà, si conosceva solo la grande testa di toro da Santa Vittoria di Serri e un frammento di testa taurina di analoga provenienza. Ancora oggi, a oltre trent’anni dalla scoperta, e ancor piú dopo l’accurato lavoro di restauro, l’insieme scultoreo di Mont’e Prama appare del tutto eccezionale. Infatti, se è pur vero che sono venute in luce nel frattempo alcune
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restauri mont’e prama Il «pugilatore»
Qui sopra: il particolare del volto di forma triangolare, con occhi resi da cerchi concentrici e una linea sottile per la bocca, della treccia e dell’interno dello scudo.
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A sinistra: statua in pietra detta del «pugilatore» con scudo ricurvo sulla testa. In alto: ricostruzione grafica dell’iconografia del pugilatore, caratterizzata dalla posizione del braccio sinistro, piegato sulla testa a sostenere un grande scudo ricurvo di forma rettangolare.
sculture a tutto tondo, tra le quali spicca la bellissima testa di toro da Nughedu San Nicolò, queste raffigurano fondamentalmente animali, come nel caso degli arieti della rotonda di Sa Sedda e Sos Carros di Oliena.
Grandi piú del vero Ciononostante e sebbene subito dopo la scoperta Giovanni Lilliu abbia studiato numerosi frammenti di statue in un ampio articolo (Dal betilo aniconico alla statuaria nuragica), il rinvenimento non ha avuto il meritato risalto nell’ambito della comunità scientifica, in particolare al di fuori della Sardegna. Questo stupisce ancora di piú se si considera che alcuni frammenti di statue sono stati da subito esposti nel Museo Nazionale di Cagliari e sono stati pubblicati in volumi di carattere generale sulla civiltà nuragica. Si può quasi dire che solo con l’inizio del progetto di restauro le sculture di Mont’e Prama sono state veramente scoperte dai Sardi. Rimangono ancora molti punti interrogativi su questo importante complesso, anche in attesa della pubblicazione integrale di tutti i dati di scavo, che è in fase di preparazione; diverse sono le interpretazioni proposte dagli studiosi, e non univoca la datazione delle sculture. Il restauro, però, ha già fornito preziose informazioni, in primo luogo sulle sculture e sulle loro raffigurazioni. Nel 1981 quando vennero pubblicati per la prima volta i dati dello scavo effettuato da Carlo Tronchetti nel sito di Mont’e Prama, fu evidenziata soprattutto la presenza di statue in calcare che riproducevano, in grandezza superiore al vero, due figure: quella del cosiddetto «pugilatore», già nota, seppure in soli due esemplari, nella piccola plastica in bronzo di produzione nuragica, e quella del guerriero con arco sulla spalla sinistra, quest’ultima ben rappresentata nella bronzistica. Il restauro e la verifica di tutti i
La scoperta Il caso segna talvolta l’incipit della scoperta archeologica. Lavorare la terra per coltivare grano è un’attività svolta da secoli nelle dolci colline, contornate dagli stagni e dal mare, del territorio di Cabras (Oristano), da contadini, che con gesti ripetitivi, nel corso delle stagioni, hanno dissodato, arato, raccolto, bruciato le stoppie per rinnovare la fertilità della terra. Nella distesa del campo, ondulato dal digradare della collina di Mont’e Prama, sono state accumulate le pietre, che impedivano all’aratro di procedere in maniera spedita. La sensibilità e l’attenzione propria, connaturata al mestiere, del contadino Sisinnio Poddi, fannno sí che, davanti a una singolare pietra, non avanzi dubbi, si tratta di una testa rappresentante una figura umana, e appartenente a una statua realizzata «in antico». Poddi provvede immediatamente ad avvisare la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Cagliari e Oristano. Al rinvenimento fortuito del 1974 seguono sopralluoghi, verifiche e interventi di scavo da parte della Soprintendenza e della Università di Cagliari nel 1974, 1975, 1977 e 1979. Gli archeologi Giovanni Lilliu, Maria Luisa Ferrarese Ceruti, Enrico Atzeni, Alessandro Bedini, Giovanni Ugas, Carlo Tronchetti, Paolo Bernardini, Raimondo Zucca, Alessandro Usai, intervengono e confermano che la testa non è un elemento isolato; si susseguono altri significativi rinvenimenti di busti, impugnature d’arco, attorno e al di sopra di una serie di tombe a pozzo con inumati privi di corredo. Soltanto una deposizione restituisce uno scarabeo, datato nell’VIII secolo a.C. Antonietta Boninu
frammenti restituiti dall’indagine archeologica hanno non solo aumentato il numero delle figure rappresentate, ma anche fornito numerose precisazioni sui particolari evidenziati in ciascun tipo e sulle differenze nelle diverse rappresentazioni dei singoli personaggi, pur nell’omogeneità dei tipi fondamentali.
Il pugilatore con lo scudo La figura piú rappresentata è quella del «pugilatore», termine già usato da Giovanni Lilliu per definire il personaggio rappresentato su un bronzetto rinvenuto nel territorio di Dorgali. Sono ben 16 le raffigurazioni di pugilatore, anche se non tutte in ugual stato di conservazione. Le due meglio conservate hanno consentito di ricomporre anche la parte superiore, con lo scudo poggiato sulla testa, operazione che, dal punto di vista strettamente tecnico, ha creato non pochi problemi ai moderni restauratori e ne deve aver creato ancora di piú agli antichi artigiani. Ciò che, infatti, caratterizza questa
figura è un grande scudo ricurvo e di forma rettangolare, che viene poggiato sulla testa con la mano sinistra, mentre la mano destra lo tiene saldamente in posizione perpendicolare al corpo. La figura del pugilatore, ma anche le altre che vedremo in seguito, poggia saldamente i piedi su una base quadrangolare; l’altezza negli esemplari piú completi con lo scudo arriva ai 2 m o poco piú. Il corpo, possente, indossa un semplice gonnellino triangolare, i cui lembi si sovrappongono sul davanti mentre la parte posteriore finisce a punta. Soprattutto lo spessore e la rigidità della parte posteriore fanno pensare che il gonnellino sia stato realizzato in un tessuto molto pesante o in cuoio. L’unico altro elemento del vestiario è una cintura che trattiene il gonnellino e che, nella parte posteriore, decisamente piú alta che sul davanti, si apre a doppia V verso il basso. I piedi sono in genere nudi, come anche le gambe; in alcuni casi si possono notare calzari, che lasciano nude le dita dei piedi e che si conclua r c h e o 23
restauri mont’e prama L’arciere Ricostruzione grafica dell’iconografia dell’arciere rappresentato con elmo di tipo crestato e cornuto, corta tunica, placca pettorale e schinieri.
Qui sopra: particolare della mano che regge l’arco; la parte decorata è la rappresentazione del guanto che copre la mano nel dorso.
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A sinistra: particolare della mano sinistra che regge l’arco: il guanto che riveste la mano lascia libere le dita mentre l’avambraccio è difeso da una robusta protezione probabilmente realizzata in cuoio.
le sicuramente riferibili a soldati; il busto appare sempre piuttosto massiccio, spesso quasi trasbordante al di sopra della cintura.
Gli arcieri indossano una corta tunica, che lascia scoperta parte delle cosce e sulla quale pende una placca pettorale quadrata, con i lati concavi. Negli esemplari meglio conservati si può vedere il Arcieri e guerrieri di pietra Decisamente piú articolata è la fi- dettaglio delle triple stringhe che gura dell’arciere, sia per la maggiore reggono il pettorale e del moticomplessità dell’armamentario, sia vo a fitte linee orizzontali che lo per le possibili varianti della rappre- completa. Le gambe degli arcieri sentazione. Anche in questo caso la appaiono ben difese da schinieri figura è rappresentata su una base che lasciano il piede nudo e sulla rettangolare con i piedi paralleli e schiena pende la faretra; nessuna le gambe leggermente divaricate, statua conserva la forma completa, ma l’atteggiamento è quello del ma questa è parzialmente consaluto con la mano destra sollevata, servata su diversi frammenti non ricollegabile ai torsi di arcieri Santa Teresa ben identificabili. di Gallura La Maddalena Dalla ricomposizione dei frammenti e dall’accurato lavoro Olbia di restauro, la figura che piú Soldato o atleta? Porto Torres emerge nella sua complessità e All’altezza del gomito sinistro Sassari raffinatezza è quella del guerè rappresentato, in tutti i suoi riero. Il guerriero si distingue dettagli funzionali e decoratiAlghero dall’arciere per l’abbigliamento vi, il bracciale che fissa lo scue perché porge in avanti uno do. Il braccio sinistro, invece, Mar Nuoro scudo circolare, impugnato con è completamente rivestito da di Sardegna la mano sinistra e tenuto da una guaina che parte dal goMont’e Prama Cabras dietro con la mano destra. Inmito e copre la mano chiusa Mar dossa una corazza, molto cora pugno; una protuberanza sul Oristano Tirreno ta nella parte posteriore, ma lato fa pensare che il guanto particolarmente robusta nella fosse rafforzato da un elemenparte delle spalle; sulla tunica to probabilmente di metalè rappresentato un pannello lo che serviva ad aumentare Iglesias Cagliari verticale che parte dalla vita, è l’impatto sull’avversario in Quartu decorato nell’estremità inferiouna lotta corpo a corpo. Il Sant’Elena re con motivi incisi e termina Sant’Antioco confronto con un bronzetto con fitte frange. Lo scudo, a sua da Dorgali stupisce per l’idenvolta, è rappresentato in manietità di rappresentazione fin ra molto accurata: ha un umnei minimi particolari: assobone centrale in rilievo e motivi a lutamente identici sono la difesa Carta della Sardegna, con localizzazione del sito di Mont’e chevron (ornamenti geometrici che del braccio destro, il gonnellino e Prama, nel territorio di Cabras. consistono in serie di V invertite e la cintura, la rappresentazione dei continue, a forma di zigzag, n.d.r.) particolari dello scudo. La definizione di «pugilatore» è ben conosciuto nella bronzistica variamente combinati. Non è stato ormai diventata convenzionale, nuragica. La mano sinistra regge possibile attribuire con certezza sebbene non trovi interpretazioni l’arco che, nella statua piú completa, nessuno scudo alle figure di guerunivoche. Alcuni, infatti, vedono in appare di tipo corto e mostrato in riero individuate, ma la pertinenza queste figure dei soldati armati alla avanti, col gomito ad angolo retto, a questo tipo di rappresentazione leggera addetti a combattimenti parallelamente al corpo. La raffigu- è indubbia; lo confermano ancora corpo a corpo, altri pensano ad razione del volto dell’arciere è del una volta i confronti con le figure atleti che si esibiscono in giochi tutto simile a quella del pugilatore di bronzo. sacri, in una lotta anche cruenta, e analoga è la resa della capigliatura Come ha già avuto modo di sota giudicare della difesa rostrata del con le lunghe trecce che scendono tolineare Giovanni Lilliu, nelle impugno. Questa ipotesi è rafforzata a incorniciare il volto; sulla testa, magini in pietra pare sia possibile dalla particolare robustezza delle però, è rappresentato un elmo del individuare lo stesso modello metrico delle riproduzioni di bronzo figure di pugilatori rispetto a quel- tipo crestato e cornuto. dono con una fascia orizzontale decorata all’altezza della caviglia o poco sopra. La rappresentazione del volto segue in tutte le statue uno schema fondamentalmente comune in cui sul viso triangolare spiccano i grandi occhi, resi da due cerchi concentrici, mentre la bocca è sintetizzata da una sottile linea incisa. Esalta la resa degli occhi anche la fronte alta e sporgente, dalla quale si sviluppa il naso a pilastrino, affiancato dalle profonde arcate sopraccigliari. Sulla testa è una semplice calotta e il volto appare incorniciato da sottili trecce che, partendo all’altezza delle orecchie, scendono sul petto, una o due per lato.
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restauri mont’e prama nuragiche, nelle quali l’equilibrio delle parti va in favore della testa e del tronco molto allungati, a scapito delle gambe, corte, se non cortissime. Ma le statue ripropongono in tutti i particolari rappresentazioni già note dai bronzetti ed è questo un elemento evidenziato da tutti gli studiosi che si sono occupati delle sculture di Mont’e Prama, seppure con qualche distinguo. In particolare, alcuni vedono le statue come un prodotto piú recente che si ispira ai bronzetti piú antichi, mentre qualcuno ipotizza il contrario. Ma statue in pietra e «statuine» in bronzo hanno troppe caratteristiche comuni per non essere contemporanee, almeno in parte, ipotizzando per le sculture in pietra di Mont’e Prama una realizzazione in tempi ridotti e per le figurine di bronzo un arco di produzione di alcuni secoli.
Piccole torri nuragiche In associazione con le grandi statue di guerrieri sono stati rinvenuti numerosissimi frammenti di modelli di nuraghe in pietra di varie dimensioni, realizzati con lo stesso tipo di pietra delle statue. In tutta la Sardegna Mont’e Prama non è solo il sito che ha restituito il piú alto numero di modelli, ma anche il luogo in cui questi presentano peculiari caratteristiche non documentate altrove. Si registrano formidabili intuizioni e soluzioni tecniche nella loro realizzazione: modelli tratti da un unico grande blocco di pietra, altri che sono componibili, modulari, costituiti cioè da una giustapposizione di elementi. In tutti gli esemplari da Mont’e Prama, come nei modelli da altri contesti, si riconoscono stilizzazioni nella resa di alcuni elementi architettonici caratteristici delle torri nuragiche, che vengono raffigurati con differenti motivi decorativi: i mensoloni sporgenti dalla parte superiore per sostenere il terrazzo sono resi con incisioni radiali; il parapetto del terrazzo viene decorato con motivi a chevron, o a tratti verticali, o con cuppelle. 26 a r c h e o
il sinis, penisola delle meraviglie Il sito di Mont’e Prama, con la sua necropoli e il complesso scultoreo a essa collegato, è un fenomeno archeologico senza confronti, almeno fino a oggi, nell’Oristanese e in Sardegna. Senza escludere che l’apparente unicità venga in futuro smentita, si può ritenere che essa sia il sintomo di una risposta locale delle comunità tardo-nuragiche del Sinis, nell’ambito del processo di trasformazione culturale che investí l’intera Sardegna tra la fine dell’età del Bronzo e l’età del Ferro. Pur considerando la civiltà nuragica come un ciclo culturale unitario, gli studi territoriali mettono in evidenza le peculiarità di ciascun bacino geografico e di ciascuna comunità umana corrispondente. Il Sinis non fa eccezione. Questa piccola regione geografica sporgente dalla costa centro-occidentale della Sardegna, in buona parte separata dal resto dell’isola dallo stagno di Cabras, sembra aver interpretato a proprio modo la parabola della civiltà nuragica nelle fasi di formazione, maturità, trasformazione e degenerazione, con manifestazioni spesso contraddittorie che richiedono un’interpretazione adeguata, proprio come il fenomeno di Mont’e Prama. Assenti i nuraghi di tipo arcaico e le altre piú antiche manifestazioni nuragiche, rarissime le sepolture ciclopiche collettive o «tombe dei giganti», apparentemente inesistenti le opere di fortificazione esterna come antemurali e muraglie, il Sinis si caratterizza per una presenza consistente di nuraghi semplici, ma soprattutto per un numero importante di nuraghi complessi e una serie abbondantissima di «piccoli nuraghi» edifici probabilmente incompiuti per il fallimento di un programma insostenibile di popolamento e sfruttamento del territorio. Durante il periodo di utilizzo della necropoli-heroon di Mont’e Prama, che alcuni studi collocano in un momento non meglio determinato dell’VIII secolo a.C., i nuraghi segnavano ancora con forza il paesaggio, ma forse erano in gran parte già abbandonati o scaduti di ruolo. Al loro posto, una miriade di piccoli nuclei abitati dava vita alla produzione agricola, mentre un nascente ceto aristocratico si assumeva il compito di governare la trasformazione sociale sviluppando la ritualità religiosa e funeraria come fattore unificante. Ciò non impedí che proprio in quel periodo cruciale giungesse a compimento la crisi interna del mondo nuragico, iniziata fin dai tempi del suo massimo fulgore. I Fenici, già approdati sulle coste del Golfo di Oristano e del Sulcis, poterono approfittare della crisi nuragica per avviare un nuovo ciclo della civiltà in Sardegna. Alessandro Usai
Un elemento architettonico riprodotto nei modelli, ma del quale non rimane traccia nei crolli dei nuraghi, è il piccolo vano cupolato, posto generalmente al centro del terrazzo a protezione degli ultimi gradini del vano-scala; nei modelli di Mont’e Prama è di forma conica. Tra i modelli di maggiori dimensioni spiccano i nuraghi quadrilobati, costituiti cioè da una torre centrale e da quattro torri laterali collegate da cortine rettilinee, con altezza conservata fino a 140 cm. Di formidabile «innovazione» è
In alto: i resti del nuraghe di Sa Piscina Arrubia, nella penisola del Sinis, nella costa centro-occidentale della Sardegna. In basso: fenicotteri rosa nello stagno di Is Benas, situato immediatamente a nord della penisola di Capo Mannu.
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restauri mont’e prama PERCHè IL RESTAURO A SASSARI? Il riscontro alla domanda è riposto nella storia del Centro di Restauro, che affonda le radici nel principio della centralità della conservazione nel processo di salvaguardia-valorizzazione del patrimonio archeologico e nella volontà di renderlo concreto in una terra – come la Sardegna – particolarmente ricca di testimonianze archeologiche. La conseguente strategia attivata dalla Soprintendenza per Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro, indirizzata al reperimento di immobili idonei e di risorse finanziarie, perseguita dall’allora soprintendente Fulvia Lo Schiavo, coadiuvata dal funzionario Antonietta Boninu, ha individuato una base concreta fin dal 1981. Un contratto con la Provincia di Sassari per destinare tre immobili del grande complesso, costruito in un uliveto secolare per l’Ospedale Psichiatrico, ha avviato programmi e progetti per strutturare il Centro di Restauro al servizio del Patrimonio Archeologico della Sardegna. La condivisione del piano sostenuto con le Amministrazioni Provinciali susseguitesi ha anche anticipato le norme nazionali e regionali in materia di restauro. Il dettato dell’art. 29 Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs 42/2004) e la Legge Regionale 14/2006 – che riconosce la funzione del Centro di Restauro di Sassari –, uniti ai Decreti di applicazione, costituiscono il quadro per costruire il futuro per un Polo Culturale di eccellenza, come riconosciuto anche dalla Commissione Interministeriale, MiBAC e Sviluppo Economico, nel 2008. La singolarità è data dai Laboratori, direttamente connessi ai Depositi e alla Galleria Espositiva, disponibili integralmente per il pubblico, che può seguire i lavori fin dall’avvio dei progetti di restauro. In un percorso funzionale è inserita la Scuola Interministeriale di Alta Formazione per restauratori, in corso di realizzazione, ma già pronta nella struttura e negli arredi. La fase attuale vede impegnati, in un concerto di intenti e di operatività, il MiBAC e la Regione Autonoma della Sardegna per giungere alla specifica intesa e alla istituzione del Centro e della Scuola di Alta Formazione, quale offerta per i giovani che intendono prepararsi per dedicarsi alla conservazione dei beni culturali. Gli spazi disponibili sono idonei per potenziare i laboratori delle analisi e degli interventi, e per cooptare risorse umane per una partecipazione attiva anche al sistema di gestione della Galleria e del Complesso, quale bene culturale della Sardegna, rivolto al Mediterraneo e all’Europa. Il campo era quindi pronto per affrontare un progetto di restauro di notevole impegno come quello delle statue di Mont’e Prama. Bruno Massabò Soprintendente per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro
la rappresentazione dei nuraghi polilobati, costituiti da una torre centrale, da quattro torri angolari e da altre quattro torri secondarie al centro delle cortine rettilinee di raccordo. Sono stati identificati almeno tre esemplari quadrilobati e quattro polilobati. Nei modelli componibili il terrazzo è collegato al fusto, che rappresenta la torre, attraverso un foro centrale longitudinale, in cui era inserita un’anima che poteva essere in 28 a r c h e o
materiale deperibile come il legno, oppure in piombo. Sono attestati, inoltre, almeno sette modelli conservati in un’unica grande torre di 60 cm di diametro, dei quali cinque presentano il terrazzo a sezione circolare, due a sezione quadrangolare. In questi tipi di modelli il fusto troncoconico presenta al centro della base una concavità subquadrangolare, atta a raccordarsi con un secondo elemento a rendere
un incastro perfetto. La peculiarità strutturale e decorativa e la quantità di modelli rinvenuti ribadiscono, nell’unicità delle sculture, l’eccezionalità del contesto di Mont’e Prama.
Come un altare I modelli di nuraghe in pietra di grandi dimensioni si rinvengono all’interno dei nuraghi, in vani riadattati a scopo cultuale, come nel sacello del vano «E» del nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca, nei santuari e luoghi di culto, come Serra Niedda di Sorso, Su Monte di Sorradile, Santa Vittoria di Serri, Sant’ Anastasía di Sardara, Sa Carcaredda di Villagrande Strisaili, nelle grandi capanne dette «delle Riunioni» di Barumini, Punta ‘e Onossi di Florinas, Palmavera di Alghero. Alcuni di questi modelli possono essere considerati come veri e propri «altari» per la loro monumentalità e articolazione, come gli esemplari dal nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca, da Sa Carcaredda di Villagrande Strisaili e da Su Monte di Sorradile. Dalla fase terminale dell’età del Bronzo recente non vengono piú edificati nuraghi, ma si realizzano interventi di ristrutturazione, alcuni ambienti vengono destinati all’immagazzinamento e conservazione di derrate, alla tesaurizzazione, alle espressioni rituali. Già nella seconda fase del Bronzo finale avvengono i primi crolli delle parti sommitali delle torri. Proprio nell’età del Bronzo finale-prima fase della I età del Ferro (X-prima metà del IX secolo a.C.) l’esigenza di raffigurare i nuraghi diventa per i gruppi egemoni funzionale alla necessità di legittimazione e di rafforzamento del potere. E nel rituale, inteso come espressione collettiva di sentimenti sociali, è indispensabile disporre di un oggetto che sia rappresentativo del gruppo
Il guerriero A destra: statua frammentaria raffigurante un guerriero con corta tunica e corazza; lo scultore ha posto particolare cura nella rappresentazione della fascia che parte dalla vita e termina con una fitta frangia. A sinistra: ricostruzione grafica dell’iconografia tipica del guerriero, dotato di elmo con due corna ricurve e scudo circolare.
In basso: lo scudo circolare, dopo le operazioni di restauro ricostruttivo. Lo scudo veniva impugnato con la mano sinistra e tenuto da dietro con la destra.
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restauri mont’e prama dominante e nello stesso tempo riconoscibile dalla comunità; la rappresentazione del nuraghe risponde allo scopo.
La torre In alto: ricostruzioni grafiche di due modelli di nuraghe, quadrilobato e polilobato, sulla base dei diversi frammenti scultorei rinvenuti. A sinistra: ricomposizione di un modello di nuraghe quadrilobato; la rappresentazione, seppure stilizzata, corrisponde all’architettura reale dei nuraghi, come si evince dallo scavo archeologico e dall’analisi dei crolli in cui si rinvengono i mensoloni e i conci di coronamento delle parti sommitali.
Questioni irrisolte Come già detto, molte sono le domande ancora aperte, anche dopo il prezioso lavoro di restauro, e risposte esaurienti potranno aversi solo dopo la ripresa dell’indagine di scavo nel sito di Mont’e Prama. La ripresa dello scavo dovrà in primo luogo dire se le statue siano in stretta connessione con le tombe scavate. L’interpretazione piú diffusa finora, infatti, vede uno stretto collegamento tra necropoli e statue, datando queste ultime sulla base di uno dei pochi elementi di corredo ritrovati all’interno delle tombe, uno scarabeo riportato da ultimo all’VIII secolo a.C. Se tale datazione trova concordi diversi studiosi, altri considerano le sculture piú antiche, anche per le strette analogie con i bronzetti già evidenziate. L’unicità delle statue di pugilatori, arcieri e guerrieri non aiuta certo a derimere la contesa tra «rialzisti» e «ribassisti», ma può fornire qualche elemento in piú la cospicua presenza di modelli di nuraghe in stretta associazione con le statue. Come già evidenziato, i modelli di nuraghe sono ben documentati in contesti di ambito sacrale databili tra l’XI e il IX secolo a.C. Ed è proprio la presenza dei modelli di nuraghe che suggerisce l’ipotesi, peraltro già avanzata da molti studiosi, dell’esistenza di un qualche edificio, piú o meno collegato alla necropoli, nel quale le sculture avevano una collocazione della quale è impossibile immaginare l’articolazione. Non a caso nella mostra si è proprio scelta un’esposizione in qualche modo «disordinata» al fine di evitare suggerimenti interpretativi al visitatore. Infine, una domanda. Chi ha scolpito le statue di Mont’e Prama che, se si accetta l’ipotesi rialzista, sono la piú antica rappresentazione a tutto tondo della figura umana nel bacino occidentale del Mediter-
Antonietta Boninu
IL restauro delle sculture La grande quantità di frammenti, oltre 5 000, è Gli allievi delle scuole che hanno partecipato al stata oggetto di identificazione, denominazione, concorso e che hanno ripetuto le visite in cantiere, numerazione e registrazione; le imprescindibili hanno tradotto in realtà il principio che sottolinea operazioni prodromiche al progetto di restauro, anche l’appartenenza dei beni archeologici, anche nel divenire per una necessaria quantificazione dell’intervento, nella scultura da frammento, alla collettività. realtà non hanno preceduto, ma seguito la redazione Il restauro di reperti archeologici da scavo deve della scheda-progetto e del progetto preliminare, che tenere sempre presente il contesto, l’insieme della hanno rispettato, con non poche difficoltà, i tempi e le scoperta, perché si possa procedere nella ricerca fasi procedurali dell’Accordo di Programma Quadro in laboratorio, anche quale fase di approfondimento sottoscritto nel 2005. dello scavo. Purtroppo, il tempo La strategia elaborata per intercorso tra il lavoro sul campo contemperare i termini cogenti e l’intervento in laboratorio non ha imposti dai finanziamenti e le favorito il riscontro con i dati e la esigenze di conservazione di un documentazione di scavo. singolare insieme di reperti ha La prima stesura di tutti i individuato la soluzione della frammenti ha dovuto seguire formula dell’appalto concorso, necessariamente l’ordine comprendente la redazione del di arrivo e di numerazione, progetto definitivo-esecutivo, utile per la documentazione quale sviluppo del progetto su schede predisposte ad preliminare, e la realizzazione accogliere la registrazione del restauro. di tutti gli elementi, di tutte le Il bando pubblico ha riscosso operazioni dirette e indirette, grande interesse e la per mezzo di foto e disegni. partecipazione di restauratori Nella fase preliminare specialisti ha elaborato del restauro e prima degli proposte di alto livello tecnico. interventi sono state eseguite L’assegnazione all’Impresa di le analisi della pietra utilizzata Roma, Centro Conservazione per le sculture. Individuare il Archeologica, CCA, di Roberto tipo di pietra, le alterazioni e le Nardi, è stata motivata da trasformazioni nelle superfici e nel un articolato piano culturale corpo litico consente di operare imperniato sui laboratori aperti al con cognizione di causa, e i pubblico e fondato sul principio risultati diagnostici guidano nelle che l’accesso dei cittadini ai scelte da operare, con l’obiettivo beni archeologici nel campo di non sottrarre le informazioni della conservazione non può contenute negli elementi scultorei. essere relegato alla fase finale Il microscopio ottico, petrografico, con i risultati del restauro, ma il microscopio elettronico deve essere garantito per tutto il a scansione, il SEM, con processo di intervento. microanalisi e con numerose I laboratori allestiti nel Centro e ripetute osservazioni su Fase del di Restauro dei Beni Culturali di un campione ampiamente restauro con la Sassari sono idonei ad accogliere i visitatori. rappresentativo, hanno restituito dati connessione La mostra, allestita a conclusione del utili per poter eseguire gli interventi con dei frammenti restauro, dispone di strumenti informativi sicurezza, soprattutto per la pulitura delle di una statua di diretti e a distanza, senza limiti per l’accesso superfici, operazione irreversibile. pugilatore. alla documentazione prodotta. La pietra della scultura appartiene Per chi ha riversato sul progetto alla classe dei biocalcari sedimentari, di restauro impegno, competenze tecniche inglobanti numerosi fossili. La formazione geologica è e scientifiche, e ha registrato trepidazioni, presente nell’area di provenienza delle sculture e risale incomprensioni e amarezze, ampiamente superate, è al Miocene Superiore :20 ± 2 milioni di anni. motivo di grande gratificazione e soddisfazione pensare Le superfici dei frammenti sono caratterizzate che tra i visitatori della mostra ci siano stati anche i dalla presenza di spessi strati carboniosi e terrosi, giovani e i ragazzi che hanno partecipato al concorso in molti casi cementati da carbonato di calcio, la per le scuole «Il manifesto che vorrei». calcite, che si è depositato sulle incrostazioni,
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restauri mont’e prama Qui sotto: la prima fase del restauro con l’esposizione dei frammenti per categorie e tipologie di sculture.
verso la valorizzazione Il progetto di valorizzazione per Mont’e Prama impegna da tempo le strutture del MiBAC, attraverso un dialogo partecipato dalla Regione e dalle Amministrazioni locali, in uno sforzo teso a individuare la soluzione ottimale a un tema di valorizzazione articolato e complesso, che si pone numerosi e ambiziosi obbiettivi: primo tra tutti quello della piú rigorosa e scientifica «narrazione» al pubblico dei contenuti culturali del patrimonio di Mont’e Prama; ma poi anche l’obiettivo della massima aderenza al contesto generativo delle statue: quello fisico costituito dal comprensorio archeologico del Sinis, e quello culturale, rappresentato dalla civiltà nuragica, all’interno dell’alveo complessivo dell’archeologia sarda; ancora, l’obbiettivo della piú ampia e corretta accessibilità del pubblico
A sinistra: le sculture nella galleria espositiva prima dell’allestimento definitivo.
condotto dalle acque circolanti. Le patine originarie sono state ricoperte dalle complesse concrezioni e talvolta mutate nella colorazione con una vasta gamma di sfumature cromatiche, quasi personalizzate per ciascuna scultura, pur in una generale diffusione, che riconduce alle vicende subíte dopo l’abbandono. Le superfici conservano tracce di ripetuti incendi. L’asportazione delle concrezioni superficiali ha rispettato la patina e il corpo litico in un equilibrio dettato dai singoli casi e tendente alla lettura e alla messa in luce delle singolari decorazioni. Tracce di colorazione rossa e nera sono molto circoscritte e limitate a tre singoli reperti. La dimensione esigua dei campioni rilevati, l’analisi del contesto, in attesa della ripresa delle indagini archeologiche sul campo, hanno suggerito di non procedere con prelievi per analisi distruttive. Con i dati attualmente disponibili si potrebbe escludere l’uso di cromia diffusa sulle superfici delle sculture. L’analisi autoptica di ciascun reperto, di arco dimensionale compreso tra 1 e 80 cm, ha guidato, nel rilevare prima macroscopiche e poi sempre piú microscopiche caratteristiche, per la ricerca degli attacchi. Pur rilevando la presenza di due categorie di sculture, statue e modelli di nuraghe, alcuni frammenti apparivano inizialmente indistinti. La formazione progressiva di gruppi suddivisi in genere e specie, in
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al patrimonio di Mont’e Prama, in termini di conoscenza dello stesso nei luoghi adeguati e con gli adeguati supporti informativi; infine, l’obbiettivo della piú diffusa partecipazione possibile al processo di strutturazione del sistema di valorizzazione previsto. Il punto di partenza per dare risposta a tutte queste esigenze è la constatazione che il complesso archeologico di Mont’e Prama offre il materiale per una narrazione di grande fascino e di altrettanto grande complessità, all’interno della quale si individuano differenti capitoli di un racconto unitario, ma riccamente sfaccettato; il progetto di valorizzazione a cui oggi lavorano gli organi del Ministero ne intravede senz’altro tre principali; Mont’e Prama nel quadro dell’archeologia e della storia dell’arte sarda; Mont’e
Prama nell’ambito dell’archeologia del Sinis; Mont’e Prama dallo scavo al restauro. Ciascuno di questi temi trova il proprio naturale punto di narrazione in sedi differenti, Cagliari e il suo Museo Nazionale, Cabras con il proprio Museo e il sito archeologico, Sassari con il Centro di restauro di Li Punti. Per questo lo studio del Ministero sta focalizzando la prospettiva di un Sistema Museale articolato su piú poli: unitario nella progettazione, nella presentazione al pubblico e, perché no, nelle prospettive di gestione; plurale, in quanto in grado di collocare ogni capitolo del racconto nella sede piú appropriata; partecipato, nella sua capacità di fare convergere verso un obiettivo comune tutte le diverse amministrazioni coinvolte.
Una grande scommessa per un territorio che sempre di piú comprende l’importanza del patrimonio culturale anche per il proprio rilancio economico. Agli eroi di Mont’e Prama non è il caso di chiedere miracoli; ma attraverso di loro è possibile sognare in grande; sognare per esempio un museo di stringente e reale modernità, aggiornato ai criteri sistemici di gestione dei beni culturali oggi piú accreditati, pensato davvero su scala regionale e in grado di trasformare la terra dei nuraghi in un grande, unitario e bellissimo percorso di visita. Marco Minoja Soprintendente per i Beni Archeologici per le Province di Cagliari e Oristano
A destra: il centro di restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici delle Province di Sassari e Nuoro.
famiglie e isolati, ha condotto progressivamente a individuare gli attacchi, prima accostati per le verifiche di sicurezza e poi incollati. La crescita delle sculture sugli attacchi rinvenuti, riduceva vieppiú il numero dei frammenti, e con questi sono state evidenziate le appartenenze a una unità scultorea, ancorché priva di attacchi diretti; alle appartenenze sono seguite le attribuzioni, per le quali, il margine di dubbio, obiettivamente non fugato, non produce operazioni irreversibili, poiché si è operato con semplici accostamenti nel contesto di un’unità inequivocabile. A conclusione dei lavori degli oltre 9 000 kg. complessivi, i frammenti non incollati e non attribuiti alle sculture sono inferiori a 300 kg. Gli interventi di pulitura, consolidamento e reversibilizzazione, sono stati indirizzati a preservare le pur minime informazioni presenti nei frammenti, anche per non ridurre o eliminare i labili legami con i dati dello scavo. La ricomposizione delle sculture ha imposto una specifica ricerca per la soluzione da adottare nel rimontare le statue e i modelli di nuraghe con una prospettiva molto vicina alla posizione originaria. Data l’importanza della scoperta, la singolarità dell’insieme scultoreo, unito al livello di composizione raggiunto, si sono escluse integrazioni di lacune e mancanze, intese in funzione di completamento di parti. Si tratta di risultati che rimandano prepotentemente al sito per la ripresa delle indagini di scavo.
raneo? La lunga tradizione degli abitanti della Sardegna alla lavorazione della pietra, la stretta relazione tra statuaria in pietra e piccola scultura in bronzo documentata da centinaia di «bronzetti», la grande produzione in tutta la Sardegna nuragica di modelli di nuraghe non possono che far pensare ad artisti nuragici. Se poi l’idea di scolpire statue sia stata ispirata da un artista venuto dall’Oriente, come propongono diversi studiosi, poco cambia. Le sculture di Mont’e Prama sono l’ultima grande produzione della civiltà nuragica. a r c h e o 33
storia antico egitto
Psammetico di Sergio Pernigotti
e i Greci d’Egitto Perché una storia vera, raccontata da Erodoto, e una leggendaria, messa in versi da Omero, presentano coincidenze sorprendenti? Entrambe si rifanno all’arrivo dei primi Greci nella terra del Nilo che, in quel tempo, era guidata da un faraone poco noto, ma di straordinaria genialità politica A sinistra: statua di Psammetico I e Osiride. XXVI dinastia, 664-525 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Grazie a una politica di alleanze, il faraone, fondatore della XXVI dinastia, riunificò l’Egitto, a quel tempo diviso in tre principati. Nella pagina accanto, in alto: atto di locazione redatto su papiro in demotico, da Tebe. XXVI dinastia, regno di Amasi, 670-526 a.C. Parigi, Museo del Louvre. La scrittura demotica, adottata in testi giuridici, commerciali e amministrativi, fu introdotta nel VII sec. a.C., durante il regno di Psammetico I e rimase in uso fino al V sec. d.C. Nella pagina accanto, in basso: armatura in bronzo ed elmo con cimiero di tipo greco. VIII sec. a.C. Argo, Museo Archeologico. Durante il regno di Psammetico I, le coste nord dell’Egitto, furono battute da «pirati» greci provenienti dall’Egeo.
P
sammetico I regnò sull’Egitto dal 664 al 610 a.C. e fu uno dei sovrani piú importanti di tutta la storia egiziana, benché assai meno noto di altri vissuti prima di lui, come Thutmosi III o Ramesse II, per esempio. Il suo lungo regno è stato teatro di avvenimenti cruciali in un Egitto che, grazie a lui e ai suoi immediati successori, ha vissuto il periodo «argenteo» (come amava definirlo Sabatino Moscati) della sua storia, dando luogo a un vero «rinascimento», che doveva durare a lungo e terminare solo con la conquista del Paese da parte di Cambise (525 a.C.). Nel periodo precedente il suo avvento, l’Egitto era stato il campo di battaglia di un gigantesco conflitto tra l’Assiria e l’Etiopia (cioè la Nubia), durante il quale molti monumenti furono ridotti a un cumulo di macerie. Non sorprende, perciò, che il suo primo compito sia stato proprio quello di liberare la sua terra dagli stranieri, cosa che riuscí a realizzare con un’accorta politica di alleanze. Ma, una volta diventato sovrano – dando vita alla XXVI dinastia – lo aspettava un compito ancora piú difficile, quello di riu-
dell’architettura. L’arte dell’età «saitica» (come, sia pure impropriamente, tale periodo viene designato, dal nome della città di Sais, residenza del sovrano) è uno dei piú grandi risultati di un Paese dal passato molto glorioso, ma che era sí sul viale del tramonto, come noi sappiamo col senno del poi, ma capace Sotto un unico scettro Si prospettava una guerra lunga e ancora di grandiose riprese sanguinosa, che avrebbe prolungato che dureranno almeno file distruzioni e i lutti del conflitto no all’arrivo di Alessanassiro-etiopico. Qui Psammetico dro Magno e anche oltre. diede prova di tutto il suo genio Ma l’opera di Psammetico politico: con un’accorta azione di- I ha lasciato segni assai duplomatica persuase Montuemhat e raturi anche nella struttura i «signori delle navi» a rientrare interna dell’Egitto, da lui nell’alveo di un Egitto nuovamente profondamente rinnovata. unificato sotto il suo scettro, con- Sarà sufficiente ricordare l’insentendo in cambio che i loro di- troduzione, accanto alla scritscendenti mantenessero un certo tura ieratica e alla geroglifica numero di privilegi, accompagnati – che rimanevano in vita per dalle laute prebende di cui già di- usi specialistici – di una nuova scrittura, il «demotico», impiesponevano. Ebbe cosí inizio un periodo di gata nella redazione di docugrande prosperità per l’Egitto, che menti pubblici e privati (in riacquistava anche un ruolo im- seguito anche per i testi portante sullo scacchiere interna- letterari e religiosi) e che zionale. E una conseguenza della doveva restare in vita per pace e della prosperità riacquistate circa mille anni, convivenfu la rinascita delle arti figurative e do con il greco prima e con il nificare il Paese, diviso allora in tre pricipati: il Delta, di cui lui stesso era il signore; il Medio Egitto, dominato dai potenti «signori delle navi» che controllavano il traffico commerciale tra nord e sud da Herakleopolis, e la Tebaide, a Sud, dove regnava con poteri quasi regali il principe Montuemhat.
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storia antico egitto
Gli «uomini di bronzo» A queste domande possiamo rispondere con relativa sicurezza perché di questo evento ci parla Erodoto nel secondo libro delle sue Storie, quello dedicato all’Egitto, che rimane ancor oggi uno strumento di lavoro fondamentale per ogni studioso. Parlando del regno di Psammetico I a un certo punto il grande storico cosí si esprime: «(Psammetico) mandò a interrogare l’oracolo di Latona nella città di Buto (…) e gli venne risposto che vendetta sarebbe giunta dal mare, quando fossero apparsi uomini di bronzo. In verità, Psammetico era molto incredulo che uomini di bronzo gli sarebbero giunti in aiuto. Tuttavia, trascorso non molto tempo, necessità costrinse uomini della Ionia e della Caria, che navigavano a scopo di bottino, ad attraccare in Egitto: costoro scesero a terra ed erano armati di bronzo. Allora qualcuno degli Egiziani (…) perché prima non aveva mai visto uomini armati di bronzo, annuncia a Psammetico che uomini di bronzo, giunti dal mare, saccheggiano la pianura. Psammetico, comprendendo che l’oracolo si compie, si comporta amichevolmente con Ioni e Cari, fa loro grandi promesse e li convince a mettersi della sua parte». 36 a r c h e o
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O a s i d i S iw iwa Qaret Qar et elet e Mu Mu abb Mus beri erin er G ell elGe Geb el-Maw M ta Maw a
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copto poi, in una straordinaria ricchezza di possibilità espressive, quale nessun altro Paese può vantare nell’antichità. Nel periodo iniziale del regno di questo grande sovrano si colloca un evento che ebbe importanti conseguenze per la storia dell’Egitto: l’arrivo dei primi Greci, un gruppo di uomini numericamente modesto, ma destinato a rimanere per sempre nella Valle del Nilo, veri «Greci d’Egitto», se Alessandro, circa trecento anni dopo, ebbe modo d’incontrarli, stabili residenti di un quartiere di Menfi a loro riservato. Quando e perché i Greci giunsero in un Paese che con il passare del tempo divenne anche il loro e nel quale si integrarono perfettamente con la popolazione locale?
Um Umm m Ob mm O eyd eyda a
O a s i d i B ah a h ar ariya ell-Baw el elaw witi iti el-Ash elel-Ash Ashmun shmun munein une ein in
Erodoto pare una fonte assai attendibile perché, come lui stesso ci dice poco oltre, ha desunto le sue notizie proprio dai discendenti di quei primi Greci con cui aveva avuto occasione di parlare durante la sua visita in Egitto verso il 450 a.C., circa duecento anni dopo gli eventi narrati.
Da «pirati» a soldati Dal suo racconto che si basava evidentemente sui loro ricordi, si ricavano alcuni dati di grande interesse: a) uomini provenienti dalla Ionia e dalla Caria che battevano il mare a scopo di bottino, e dunque pirati, sono costretti dalle vicende della navigazione a prendere terra in
Egitto, dove si danno a saccheggiare le pianure del Delta; b) Psammetico, prontamente informato dell’evento, invece di combatterli e di ricacciarli in mare come sicuramente avrebbe potuto fare, si accorda con loro e li persuade a militare nel suo esercito: con il loro aiuto sconfiggerà i suoi nemici e salirà sul trono di un Egitto ormai unificato sotto il suo scettro. Erano giunti gli uomini di bronzo annunciati dall’oracolo! Il quadro storico in cui si inserisce il racconto di Erodoto (bande di pirati che percorrevano il Mediterraneo a caccia di prede con possibili sbarchi anche sulle ben difese coste egiziane per rapide razzie) coincide con quanto sappiamo del-
città d’origine dei coloni di Naukratis
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Avv Avv v ers er ari arr o dell dell el ’As ’A A sir siria siria si a nei se nei ne s coli col o i IX-V IX-V X-V X-VII XVIII
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In alto: l’Egitto, l’Egeo e il Vicino Oriente in Età tarda (712-332 a.C.), con l’indicazione di alcuni dei principali avvenimenti accaduti in questa fase. ●
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Saqqara
Impero assiro In espansione dal IX secolo, occupò la
Siria e la Palestina nell’VIII e tenne l’Egitto dal 671 al 657 circa. Fu distrutto dai Medi e dai Babilonesi nel 614-612. ● regno di giuda. Principale nemico dell’Assiria e di Babilonia in Palestina, fino alla conquista da parte del sovrano babilonese Nabucodonosor, nel 586. ● Lidia. Alleata di Psammetico I contro gli Assiri; sconfitta dai Cimmeri nel 653 circa. ● caria e ionia. Patria di molti dei soldati stranieri impiegati in Egitto dal regno di Psammetico I in poi. ● Impero neobabilonese (612-539). Sconfisse lo Stato successore assiro prima del 605 e attaccò l’Egitto nel 591 e 567; fu distrutto da Ciro di Persia nel 539. ● Impero persiano. Si espanse, subentrando ai Medi, a cominciare dal 549; al suo apogeo incluse Sind,
Ca C Cap a ita ap itta tale le ce cer eerrimo m niale mo nnia iale ia le dde del eelll’i ’iimpe mp pero ero o pper persi ssia iia ano n
Golfo Persico
N 0
250 Km
Anatolia, Cirenaica ed Egitto. Fu distrutto nel 336-323 da Alessandro Magno, che estese il suo dominio su tutti i suoi territori, con l’aggiunta della Macedonia e della Grecia. ● Atene. Frequente alleata dell’Egitto contro i Persiani; nel 460 inviò 200 navi per aiutare i ribelli egizi nel delta occidentale; la flotta fu definitivamente annientata nel 464. Nel 385-375 circa e nel 360, il generale ateniese Cabria comandò la resistenza egizia contro i Persiani. L’Egitto pagava in grano l’aiuto di Atene. ● Cirenaica. Fu colonizzata nel 630 circa dai Greci, che fondarono una dinastia locale; le guerre interne permisero nel 570 ad Amasi di impadronirsi del trono egizio. Fu in seguito alleata di Amasi; incorporata nell’impero persiano nel 515 circa ● cipro. Tenuta da Amasi dal 567 circa al 526. Re Evagora alleato dell’Egitto contro i Persiani nel 389-380. ● naukratis.Centro commerciale greco fondato verso la fine del VII secolo e trasformato da Amasi nell’unica comunità greca dell’Egitto.
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storia antico egitto il racconto del falso mendico In un famoso episodio dell’Odissea (XIV, 245 e segg.; anche XVII, 424 segg.) una vicenda assai simile a quella dell’arrivo dei Greci in Egitto è vista secondo un’ottica per cosí dire rovesciata, esterna alle vicende egiziane, greca in definitiva. Odisseo, sotto le vesti di un falso mendico, narra a Eumeo di una falsa incursione sulle coste dell’Egitto di cui egli stesso sarebbe stato il protagonista: «(…) il cuore mi spinse a far viaggio in Egitto armate bene le navi con i compagni divini. Nove navi armai: rapidamente si raccoglieva la ciurma. E per sei giorni allora i miei fedeli compagni banchettarono: io molte vittime davo, da offrire agli dei e prepararsi il banchetto. Al settimo giorno, imbarcati, dall’isola vasta di Creta partimmo con vento di Borea bello e gagliardo,
senza fatica, come secondo corrente, e nessuna delle mie navi ebbe danno, ma senza pericoli o mali stavamo seduti: il vento e i piloti le dirigevano. Al settimo giorno all’Egitto bella corrente arrivammo, nel fiume Egitto ancorai le navi ben manovrabili. E là comandavo ai miei fedeli compagni Di rimanere presso le navi, per far guardia alle navi, e mandai esploratori in vedetta a esplorare. Ma essi alla violenza cedendo, seguendo il loro furore, subito i campi bellissimi degli Egiziani saccheggiarono, le donne e i bambini lattanti rapivano, uccidevano gli uomini; ma presto alla città giunse il grido. E quelli, udito il grido, all’apparire dell’alba arrivarono; s’empí tutta la piana di fanti e cavalli e del lampo del bronzo; e Zeus folgoratore Ulisse raffigurato su un oinochoe a figure rosse attribuita al Pittore di Oinochoe di Bruxelles, da Atene. V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
la colonizzazione greca tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. e quindi appare verosimile: tale verosimiglianza è accresciuta dal fatto che lo storico greco ha saputo tali notizie dai discendenti dei «pirati», che non avevano nessun interesse a nascondere la realtà dei fatti: si noti che tale attività, la guerra «per bottino», non aveva niente di disonorevole in un momento in cui i Greci correvano il mare alla ricerca di nuove terre per fuggire ai problemi di sovrappopolazione della loro patria.
Erodoto e l’Odissea Le cose, però, non sono cosí semplici come può apparire a prima vista. In primo luogo la presenza dei Cari, fedeli compagni dei Greci non solo sul mare ma anche durante il loro soggiorno in Egitto fino all’arrivo di Alessandro, non è facile da spiegare nei termini della pirateria e tanto meno della colonizzazione: anche l’espressione usata in greco per «uomini di bronzo» si confà piú agli eroi di Omero che non ai combattenti del VII secolo a.C. Il racconto di Omero (vedi box in queste pagine) è esattamente speculare a quello di Erodoto e, non dimentichiamolo, ben piú antico: inoltre, nell’ottica delle vicende del poema, falso, ma per essere creduto, verosimile. Ciò ci assicura 38 a r c h e o
Statuine in legno tra i miei gettò mala fuga: nessuno ebbe cuore raffiguranti Psammetico I, di sostenere la lotta, tutto era pericolo intorno: la moglie e il figlio e Là molti dei miei m’uccisero con il bronzo affilato, successore Neco II. XXVI altri con sé trascinarono vivi a lavorare per forza. dinastia, regno di A me, invece, Zeus stesso mise in cuore un’idea; Psammetico I, 664-610 a.C. (…) Subito dal capo l’elmetto ben fatto mi tolsi, e dalle spalle lo scudo, gettai via l’asta dalla mano: poi corsi cosí davanti ai cavalli del re, e gli afferrai e baciai le ginocchia: lui mi salvò, fu pietoso, sul cocchio mi fece sedere e mi portò nel suo palazzo, piangente… Là sette anni rimasi, e molte ricchezze Adunai fra gli Egizi…». (traduzione di Rosa Calzecchi Onesti).
che il quadro storico generale era noto a tutti, a Odisseo non meno che ai suoi interlocutori, che quindi non avevano ragione di dubitare delle sue parole: uno dei tanti pirati... Ma noi abbiamo il dovere di dubitare e di domandarci: è forse un caso che i due racconti coincidano anche nei particolari e a distanza di centinaia d’anni (l’Odissea è della seconda metà dell’VIII secolo e il racconto di Erodoto della metà del V pur riferendosi a fatti dell’inizio del VII)? Vi è un documento che ci permette di risolvere la questione e ci costringe a non prendere alla lettera il racconto di Erodoto: un testo assiro – la cui autorità, a dire il vero, non è sempre inattaccabile – il cosiddetto «cilindro Rassam»,
Neco e i suoi discendenti XXVI dinastia. • Neco I • Psammetico I (Uahibra’) • Neco II (Uhemibra’) • Psammetico II (Neferibra’) • Aprie (Ha’a’ibra’) • Amasi (Khnemibra’) • Psammetico III (‘Ankhkaenra’)
664-525 672-664 664-610 610-595 595-589 589-570 570-526 526-525
storia antico egitto racconta una storia completamente diversa e assai piú credibile; durante la guerra tra gli Assiri e gli Etiopi il re Gige aveva mandato rinforzi a Psammetico I stretto in una morsa tra i due contendenti.
Le milizie di Gige È il re assiro che parla: «Egli (= Gige) inviò le sue truppe in aiuto a Pishamilki (= Psammetico, in assiro), il re d’Egitto che aveva rovesciato il giogo della mia signoria», notizia del tutto credibile in questo caso perché il re assiro ammetteva la propria sconfitta, cosa non frequente per i sovrani del Vicino Oriente Antico. L’arrivo degli Ioni e dei Cari nel Delta del Nilo si colloca quindi in un contesto molto diverso, di un’alleanza tra Psammetico e Gige in funzione antiassira: una vicenda assai piú prosaica delle imprese dei pirati che correvano per il Mediterraneo e del racconto (fantasioso, ma realistico) che i Greci d’Egitto leggevano nell’Odissea.Tuttavia, i dati ricavabili dal racconto di Erodoto (e indirettamente dall’episodio del falso mendico da cui esso chiaramente dipende) e dal cilindro Rassam non sono cosí contradditori come a prima vista può apparire. Tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. numerose furono le incursioni di modesti nuclei di Greci (accompagnati o meno da appartenenti ad altri gruppi etnici, come i Cari), «pirati» in cerca di bottino, sulle coste settentrionali di un Egitto debole perché diviso da una delle periodiche crisi della monarchia unitaria e, nel caso specifico, preda di uno Stato straniero che lo aveva trascinato in un conflitto internazionale altamente distruttivo. Vero è che, a partire dal 664, proprio a opera di Psammetico I, dapprima principe del Delta e capo di una coalizione di principi del nord, il Paese si andava lentamente riprendendo: e tanto numerosi dovettero essere tali sbarchi da non sfuggire all’autore dell’Odissea. Vale la pena di osservare che si deve essere trattato sempre e solo di razzie: 40 a r c h e o
Cambise e Psammetico III, di Adrien Guignet (1816-1854). 1811 circa. Parigi, Museo del Louvre. Nel dipinto è raffigurato l’incontro tra Psammetico III, ultimo faraone della XXVI dinastia, e Cambise II, re achemenide dell’impero persiano (529-522 a.C.), che sconfisse l’esercito egiziano a Pelusio, nel 525 a.C.
non vi sono testimonianze del fatto che i Greci e i loro compagni di ventura abbiano tentato di conquistarsi insediamenti permanenti, colonie nel senso proprio del termine come avveniva in altre aree del Mediterraneo, segno questo che, malgrado tutto, le strutture statuali dell’Egitto, per quanto indebolite dalla guerra e dalle sue conseguenze erano tuttavia ancora abbastanza solide ed efficienti da ricacciare in mare chi avesse tentato di insediarsi stabilmente nel Delta: ed è proprio su questo che il racconto di Erodoto e l’episodio del falso mendico concordano. In realtà, l’Egitto rimase al di fuori del fenomeno della colonizzazione greca: il caso di Naukratis, che noi conosciamo bene a partire del 620 a.C. (e quindi negli ultimi anni del regno di Psammetico I) e che rappresenta la continuazione e lo sviluppo di un insediamento milesio, ha tutto un altro significato, vera enclave in territorio egiziano, accettata e ri-
conosciuta come tramite per i rapporti commerciali con il mondo ellenico, «porta» (cioè dogana, per esprimersi con il termine usato nei testi geroglifici), attraverso la quale gli stranieri entravano nel Paese.
La storia «riscritta» In un tale contesto era facile confondere i Greci e i Cari spediti da Gige in aiuto a Psammetico per pirati, una spedizione tra le tante tentate, e non riuscite, di prendere terra nel Delta, sempre respinte con successo da quello che potremmo definire l’esercito egiziano, e che, in realtà, erano le milizie personali dei principi del nord, non solo quelle di Psammetico, ma anche di altri suoi «colleghi». Su tale base storica accertata, non sorprende che piú di duecento anni dopo i discendenti di quei soldati greci (non sappiamo se anche i Cari abbiano parlato con Erodoto, ma è molto probabile perché certamente parlavano greco anch’essi)
Frase da scrivere da scrivere da scrivere frase da scrivere da scrivere da scrivere abbiano rivissuto e «riscritto» alla luce dell’epica l’impresa dei loro antenati, cosí nobilitandola agli occhi del loro illustre ospite: meglio «pirati», non a caso chiamati con il termine omerico di «uomini di bronzo» come gli eroi che avevano combattuto davanti alle mura di Troia, che prosastici rinforzi in un’alleanza tra principi. Quella che noi leggiamo nelle Storie di Erodoto è la versione grecoegiziana di questo evento, versione che ha saputo cogliere con grande acutezza la coincidenza di ambiente storico tra l’episodio omerico e le condizioni reali dell’arrivo in Egitto di Greci e Car i. L’autore dell’Odissea conosceva bene la situazione del Delta eg iziano nell’epoca in cui scriveva: l’impresa da lui narrata corrispondeva certo a dati noti non solo a lui, ma anche al suo pubblico e a quello a cui si rivolgeva il falso mendico. I Greci d’Egitto, qualche generazione dopo il loro arrivo nel Paese, ricordavano
bene la situazione trovata dai loro antenati al momento del loro sbarco nel Delta (la frammentazione e la lotta politica interna e internazionale, le incursioni dei pirati, l’incontro con il buon re Psammetico che li accolse in adempimento dell’oracolo e fece loro grandi promesse) e non potevano non cogliere le coincidenze tra le loro vicende e la narrazione omerica. Vi sono del resto altri esempi di «adattamento» della propria vita e delle proprie imprese da parte di Greci alle vicende raccontate nell’Iliade e nell’Odissea, talvolta limitato alla sola terminologia: gli «uomini di bronzo» ne sono un bellissimo esempio. I due poemi avevano un valore fondante per i Greci di questo periodo storico, che, oltre tutto, vivevano in un paese straniero di antica e gloriosa tradizione: ciò deve aver avuto un notevole peso nella elaborazione di una propria cultura, da contrapporre a quella del Paese che li ospitava.
Ciò che rende peculiare l’esperienza dei primi Greci in Egitto è il loro successivo e stabile stanziamento in Egitto pur senza aver fondato una colonia (cosa che sarebbe stato impossibile per le ragioni sopra esposte).
Insediamenti stabili Tale evento rappresentava l’attuazione delle grandi promesse che Psammetico I aveva fatto ai Greci e ai Cari per convincerli a rimanere in Egitto dopo che gli Assiri erano stati sconfitti anche grazie al loro appoggio. È evidente che il sovrano fu impressionato dall’efficienza sul campo di battaglia degli uomini di bronzo e pensò perciò di rendere stabile la loro presenza nelle forze armate di cui poteva disporre. Anche questo episodio, che comunque presuppone che vi siano state delle trattative tra il sovrano e i nuovi arrivati, ha un precedente nel racconto omerico, perché nelle parole del falso mendico l’impresa a r c h e o 41
storia antico egitto dato permanente dell’amministrazione egiziana, se Erodoto duecento anni dopo ne poté incontrare i discendenti.
piratesca di un giorno si trasforma in un soggiorno di sette anni, accompagnato dall’accumulazione di grandi ricchezze: un periodo di tempo lungo e felice interrotto dall’intervento di un Fenicio «esperto d’inganni» che persuade il falso mendico a seguirlo in Fenicia.
Una «legione straniera» La narrazione di Erodoto cosí prosegue: «Agli Ioni e ai Cari che avevano portato il loro concorso, Psammetico diede da abitare luoghi uno di fronte all’altro, con il Nilo in mezzo, e pose a essi il nome di Accampamenti. Diede dunque loro questi luoghi e adempí a quanto altro aveva promesso. A Ioni e Cari affidò anche fanciulli egiziani perché imparassero la lingua greca: da costoro, che appresero la lingua, discendono in Egitto gli attuali interpreti. Gli Ioni e i Cari abitarono lí per molto tempo: questi luoghi si trovano verso il mare, al di sotto della città di Bubastis (…) Piú tardi però il re Amasis lí spostò e li trasferí a Menfi, facendone la propria guardia del corpo (…) In quei luoghi, da cui furono allontanati, c’erano ancora fino ai miei tempi le apparecchiature per il traino delle navi e le rovine delle case» (traduzione di Augusto Fraschetti). I Greci (e gli inseparabili Cari) diventarono un elemento permanente del panorama militare egiziano: una specie di «legione straniera», piuttosto che ver i mercenar i (l’Egitto non ebbe moneta coniata fino all’arrivo di Alessandro), che ebbe un ruolo importante durante la spedizione in Nubia di Psammetico II, circa un secolo dopo. Non c’è dubbio che lo stanziamento dei Greci in Egitto rispondeva a un piano strategico del faraone, come dimostra anche il fatto che egli si preoccupò di formare un gruppo di interpreti per facilitare in modo permanente i collegamenti tra i nuovi venuti e gli Egiziani, interpreti divenuti un 42 a r c h e o
Sarcofago ligneo antropomorfo del faraone Psammetico I. XXVI dinastia, regno di Psammetico I, 664-610 a.C. Grenoble, Musée des Beaux-Arts.
Interazione tra culture Anche dal punto di vista dei rapporti (incontri/scontri) tra culture diverse è questo un avvenimento della piú grande importanza, ponendo le prime basi del bilinguismo greco-egiziano, che costituí uno sviluppo dei piú interessanti dopo che il Paese fu conquistato da Alessandro Magno (332 a.C.) e portò al costituirsi in Egitto di una classe dirigente di lingua e di cultura greca la cui interazione linguistica e culturale con gli Egiziani rimane un problema molto studiato, ma non ancora definitivamente risolto per l’età ellenistica e romana. Da allora, il greco cessò di essere la lingua degli alloglossi, come Erodoto li chiama, facendo inconsapevolmente propria un’espressione che si trova nella piú lunga delle iscrizioni greche di Abu Simbel datate al regno di Psammetico II, ma divenne la lingua ufficiale dell’Egitto e tale rimase per molti secoli, cedendo il suo primato solo al momento della conquista araba. L’egiziano continuò a essere usato nelle sue varie scritture (geroglifica, ieratica e demotica e poi, dopo l’avvento del cristianesimo, copta), ma fu solo la lingua degli indigeni a essere espressa in tal modo. Gli Egiziani dovettero imparare a parlare e a scrivere greco per comunicare con i loro signori e usufruire dell’amministrazione dello Stato e dell’opera dei notai: molti di loro impararono il greco nelle scuole templari e tutti, nessuno escluso, dovevano conoscere almeno qualche parola per farsi capire nelle necessità della vita quotidiana. Una situazione che per certi aspetti somiglia, come è stato acutamente osservato da Orsolina Montevecchi, a quella degli Indiani rispetto alla classe dirigente britannica prima del raggiungimento dell’indipendenza.
musei firenze
Nato nell’anno dell’Unità d’Italia, il Museo Archeologico Nazionale di Firenze espone alcuni tra i piú celebri capolavori dell’arte etrusca. A questi oggi si aggiungono, in un nuovo allestimento, gli spettacolari tesori dei «principi» di Maremma
Firenze, capitale
d’Etruria I
l Museo Archeologico di Firenze fu istituito, con Regio Decreto emanato da Vittorio Emanuele II, il 17 marzo del 1870, quindi nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia, lo stesso in cui il capoluogo toscano fu capitale del regno, dal 1865 al 1871. La realizzazione del nuovo Stato unitario, e, soprattutto, il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, dette luogo a un fenomeno di «accentramento culturale», secondo la definizione di Alberto Asor Rosa, che portò Firenze a diventare un polo intellettuale molto attivo, che vide la fondazione di società culturali e accademie, oltre che la nascita di riviste scientifiche e letterarie, come la Nuova Antologia, a continuazione dell’Antologia, voluta 44 a r c h e o
di Carlotta Cianferoni, con contributi di Simona Rafanelli e Giuseppe M. Della Fina
nel 1821 da Gino Capponi e Gian Pietro Vieusseux, e di numerosi giornali, tra cui La Nazione, ancora oggi il primo quotidiano fiorentino.
Rinnovamento e trasformazione In questo clima di rinnovamento culturale si concretizzò il processo di trasformazione dei musei fiorentini, che si attuò, innanzitutto, attraverso la divisione specialistica delle collezioni, sia artistiche che scientifiche, coerentemente con quanto accadeva nel resto d’Italia, dove tutto l’assetto museale era in via di cambiamento: in questo periodo, infatti, andava delineandosi un sistema di musei locali, nati da un rinnovato interesse delle comunità per il proprio passato, che andarono
ad affiancarsi ai musei a carattere nazionale, questi ultimi sorti sulla spinta delle esigenze di una politica centralizzatrice. A Firenze, i musei nacquero in gran parte dallo «smembramento» dell’immenso patrimonio costituito dalle collezioni d’arte antica medicee e lorenesi, fino ad allora conservate nella Galleria degli Uffizi. Il Museo Archeologico, che si affiancò a quello Egizio, nato nel 1855 (vedi alle pp. 58-59), fu chiamato inizialmente Museo Etrusco, sebbene possedesse raccolte di materiali greci, etruschi e romani, di cui facevano parte, oltre a sculture, ceramiche, oreficerie, monete e gemme, anche le tre grandi statue in bronzo che ancora oggi figurano tra i pezzi piú importanti del museo, la Chimera
A destra: l’Arringatore, bronzo etrusco dell’80 a.C. circa, da Pila (Perugia). In alto: testa della Minerva di Arezzo (vedi a p. 47). III sec. a.C. Salvo diversa indicazione, tutti gli oggetti illustrati sono esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
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musei firenze A sinistra: mappa del centro storico di Firenze. Nel riquadro, il Palazzo della Crocetta, sede del Museo Archeologico Nazionale. In basso: il giardino del Museo Archeologico Nazionale, che conserva la sistemazione voluta da Luigi Adriano Milani, primo direttore della raccolta fiorentina.
e la Minerva, provenienti da Arezzo, e l’Arringatore, rinvenuto presso il lago Trasimeno. Il nucleo di antichità si arricchí di numerosi altri materiali, primi fra tutti quelli che la Società Colombaria di Firenze aveva recuperato in campagne di scavo a Chiusi, Sovana, Cosa e Roselle, a cui seguirono doni e depositi di oggetti appartenenti a privati, come le gemme, le monete e i preziosi lasciati in eredità dal gentiluomo inglese William Currie, o i materiali che il conte Piero Bucelli aveva raccolto tra Chiusi e Montepulciano.
dove e quando Museo Archeologico Nazionale Firenze, piazza Santissima Annunziata, 9b Orario ma-ve, 8,30-19,00; sa-do, 8,30-14,00; lu chiuso Info tel. 055 294883; www.archeotoscana. beniculturali.it
Dopo un decennio di permanenza nei locali del Cenacolo detto di Foligno, in via Faenza, il Museo fu trasferito nel 1880 nel seicentesco Palazzo della Crocetta, dove fu inaugurato nel 1883. È interessante sottolineare come il palazzo scelto nell’Ottocento per ospitare il Museo Archeologico avesse un legame profondo e antico con i Medici e quindi con coloro che avevano dato vita al primo nucleo delle collezioni che si andavano a esporre. Il Palazzo della Crocetta era stato ristrutturato e ampliato, su disegno dell’architetto Giulio Parigi, per volere di Cosimo II, perché diventasse la residenza della sorella Maria Maddalena. Per permettere all’infe46 a r c h e o
La Minerva di Arezzo, statua in bronzo del III sec. a.C. realizzata con la tecnica della fusione diretta, sulla base di un modello del IV sec., dello scultore Prassitele. La scultura, rinvenuta nel 1541 nell’area della chiesa di S. Lorenzo ad Arezzo, fu acquistata da Cosimo I de’ Medici, che la espose nel suo scrittoio di Palazzo Vecchio.
lice principessa, nata «malcomposta nelle membra», di raggiungere la vicina chiesa della Santissima Annunziata senza farsi vedere, fu costruito un corridoio coperto, a imitazione di quello realizzato pochi anni prima dal Vasari, concluso da un affaccio sulla chiesa dove, per mezzo di una finestrella «solamente la Principessa e sue donne possino andare a stare a sentire messa e fare altre devozioni».
Il palazzo delle principesse Dopo la morte di Maria Maddalena, avvenuta nel 1633, il palazzo fu abitato da altre principesse, come Anna de’ Medici figlia di Cosimo II e moglie dell’arciduca Ferdinando Carlo d’Austria e Vittoria della Rovere, che sposò Ferdinando II. A quest’ultima è legato l’arrivo a Firenze di un altro capolavoro del Museo Archeologico, il cosiddetto «Idolino» di Pesaro: la statua di bronzo, databile in età augustea, raffigura un giovinetto nudo che regge nella mano sinistra un grande tralcio di vite, probabilmente uno splendido reggilampade. Il grande bronzo, rinvenuto nel 1530 a Pesaro e subito donato al duca di Urbino, fu inviato a Firenze nel 1630 dal duca Francesco Maria della Rovere che, essendo privo di eredi, ne fece dono alla nipote Vittoria, promessa in moglie a Ferdinando II, granduca di Toscana. Il Palazzo della Crocetta è, a tutt’oggi, la sede del Museo Archeologico di Firenze, e, in particolare, dei nuclei collezionistici che vi furono collocati alla fine dell’Ottocento. Non è stato viceversa ancora possibile restituire interamente alla pubblica fruizione quella parte di Museo, creazio(segue a p. 50)
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La Chimera di Arezzo, bronzo di bottega etrusca della prima metà del IV sec. a.C. La statua, rinvenuta nel 1553, entrò a far parte delle collezioni medicee e fu collocata da Giorgio Vasari in Palazzo Vecchio. In alto: la scultura nella sua collocazione attuale, vicina alla statua dell’Arringatore.
musei firenze ne originale di Luigi Adriano Milani (1854-1914), direttore dal 1894, nota come «Museo Topografico Centrale dell’Etruria», in cui gli oggetti erano ordinati topograficamente e pertanto sulla base di criteri scientifici innovativi per l’epoca. Il Museo Topografico, che illustrava la storia degli Etruschi attraverso i materiali venuti alla luce nel corso degli scavi condotti nel territorio dell’antica Etruria, fu inaugurato il 5 maggio del 1897, a seguito del Regio Decreto, emanato nel 1888 dal re Umberto I, con cui si sanciva il diritto della città di Firenze di possedere un «Museo Centrale della Civiltà Etrusca». Per arricchire il Museo Topografico, Milani tentò sistematicamente di assicurarsi in ogni modo le antichità rinvenute negli scavi o quelle che giacevano nei palazzi nobiliari. L’ultimo decennio dell’Ottocento e il primo del Novecento rappresentano anni particolarmente fecondi per la ricerca archeologica in Italia e Milani riuscí ad acquistare molti e significativi corredi per il Museo di Firenze, dagli scavi di Falerii e di Narce, da Saturnia e da Orvieto, da Veio e da Vulci.
Scoperte a Marsiliana Intanto continuavano anche gli scavi in Toscana: dal 1893 al 1916 il principe Tommaso Corsini, con l’autorizzazione di Milani, intraprese ricerche sistematiche, condotte con grande rigore scientifico nella tenuta di sua proprietà a Marsiliana d’Albegna, mettendo in luce le ricchissime necropoli di Bandinella e di Perazzeta, i cui corredi accrebbero notevolmente la conoscenza della cultura orientalizzante etrusca dell’area settentrionale costiera. Dal 1908 iniziarono anche gli scavi governativi a Populonia, nella necropoli di San Cerbone, mentre continuavano gli scavi di Vetulonia a opera di Isidoro Falchi. Nell’ambito del progetto del Museo Topografico, da rilevare, unica per quel periodo, la realizzazione di un vero e propr io Museo (segue a p. 56) 50 a r c h e o
Maremma a Firenze
La
Il Progetto scientifico della mostra Simona Rafanelli La mostra «Signori di Maremma» (già presentata a Grosseto nel 2009; vedi «Archeo» n. 294, settembre 2009) illustra ed enfatizza un momento particolare della storia del territorio maremmano, compreso fra il VII e il VI secolo a.C., che corrisponde all’apogeo della civiltà etrusca: è una fase caratterizzata dall’aspetto culturale che prende il nome di «Orientalizzante», perché fortemente imbevuto di motivi provenienti dalla Grecia e dal Vicino Oriente. Questo periodo si identifica, dal punto di vista sociale, con l’emergere di grandi e piccole aristocrazie nei diversi centri etruschi della Maremma. Nelle mani di pochi gruppi familiari (gentes) e dei loro capi – i principes –, che controllano i territori e le loro risorse, si concentrano grandi ricchezze, che documentano la circolazione di beni provenienti da tutto il Mediterraneo. I principi etruschi si fanno seppellire in tombe a fossa o a camera, in cui il defunto è accompagnato da corredi sfarzosi, sempre sormontate da cumuli di terra – tombe a tumulo –, che ne costituiscono il monumentale segnacolo esterno. Per illustrare questa tematica, sono stati scelti sette territori, compresi fra l’Alta e la Bassa Maremma toscana: Casale Marittimo, Populonia, Vetulonia, Marsiliana d’Albegna, Magliano in Toscana, Poggio BucoPitigliano, Vulci. Tre di queste località (Populonia, Vetulonia e Vulci) sono a grande dimensione urbana, le altre a caratteristica piú agricola.
Per quanto attiene alla piú settentrionale delle località esaminate, Populonia, le cui fortune sono legate al commercio del ferro delle Colline Metallifere e dell’Elba, la mostra presenta, nella sua consistenza originaria, uno dei piú grandi complessi tombali delle sue necropoli, la Tomba dei Flabelli. La tomba si segnala per l’eccezionale presenza di due panoplie in bronzo quasi complete (elmo e schinieri) che restituiscono con particolare evidenza l’immagine pubblica dei titolari di una tomba di famiglia utilizzata per quasi un secolo. Mentre le armature sono l’elemento piú significativo dei corredi degli uomini sepolti nell’ipogeo, il rango delle loro donne è esemplificato, oltreché dagli oggetti di ornamento personale e da toletta, dalla coppia di ventagli (flabelli) in bronzo riccamente decorati che hanno dato il nome alla tomba. Come tutti i sepolcri aristocratici del periodo, la Tomba dei Flabelli comprende uno splendido servizio di vasi di bronzo per il banchetto e il simposio, i momenti cerimoniali nei quali si rinsaldavano i vincoli tra i membri delle gentes. Per la vicina Vetulonia, la cui economia, come per Populonia, era principalmente fondata sullo sfruttamento dei minerali di rame e di ferro, l’esposizione propone il grandioso complesso della Tomba del Duce, tomba a tumulo con fosse multiple, databile nel terzo quarto del VII secolo a.C. Si tratta di un raro esempio di sepoltura dell’Etruria settentrionale, per la quale conosciamo anche il nome del titolare (inciso su un frammento di coppa d’argento), «RACHU KAKANAS». La sepoltura principale è caratterizzata dall’eccezionale presenza di una grande urna cineraria d’argento, decorata a sbalzo, cui si associano fastosi vasi di bucchero e rari oggetti di importazione. Alle piú antiche manifestazioni della grande statuaria etrusca in pietra sono riconducibili le statue frammentarie recuperate da Isidoro Falchi alla fine del 1800 negli strati di crollo della monumentale tomba a «tholos» della Pietrera di Vetulonia. Eccezionali documenti dell’arte funeraria, queste immagini degli antenati (?) del principe sepolto all’interno della camera principale, erano forse destinate a perpetuare in eterno, fissato nella pietra,
In alto: flabello in bronzo, dalla Tomba dei Flabelli di Populonia. 600-550 a.C. Nella pagina accanto, in alto: gli oggetti piú famosi rinvenuti nel Circolo della Fibula di Marsiliana: la fibula in argento fuso e oro laminato, con superficie decorata a granulazione, che dà il nome al sepolcro, e la statuetta in avorio, ricoperto con foglia d’oro, che raffigura una dea nuda. VII sec. a.C.
il gesto del cordoglio. Lo stile delle figure, i tratti dell’unico volto femminile conservato, i dettagli dell’acconciatura e dell’ornato a soggetto zoomorfo dell’alta cintura stretta in vita al di sotto del seno scoperto, nel busto maggiormente conservato, concorrono a indiziare l’opera di un maestro imbevuto di cultura orientale, consapevole delle esperienze plastiche locali contemporanee. Presumibilmente alle stesse maestranze attive a Vetulonia sono da riferire gli straordinari esemplari di statue funerarie in pietra, recuperate in tempi recenti a Casale Marittimo, nell’agro volterrano, e riproducenti, nelle immagini dei «Principi guerrieri», i destinatari degli sfarzosi corredi esibiti nel percorso della mostra, ove spiccano, tra gli altri oggetti, le mirabili asce rituali rivestite in lamina bronzea e interamente ricoperte da una profusione di minuta decorazione plastica di paperelle.
A sinistra: statue funerarie etrusche in pietra, da Casale Marittimo, nell’agro Volterrano. A destra: materiali dal corredo funebre di una tomba vulcente. Fine dell’VIIIprima metà del VII sec. a.C.
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musei firenze Non meno importante di Populonia e Vetulonia, è Vulci, la piú settentrionale delle grandi città dell’Etruria del sud, caratterizzata da un’economia fondata sullo sfruttamento delle risorse agrarie e sul controllo dei traffici commerciali che si sviluppavano, a nord, in direzione dell’Etruria interna e dei grandi bacini metalliferi costieri. Raggiunto l’apogeo nella piena età orientalizzante, la città divenne centro ricettore di artigiani e di beni di prestigio provenienti dalla Grecia e dall’Oriente destinati al ceto dominante. Pregevoli ceramiche di produzione corinzia trovano spazio accanto a vasellame di qualità plasmato e dipinto nelle locali botteghe di ceramografi etrusco-corinzi. I complessi tombali di Populonia e Vetulonia, le statue dalla tomba della Pietrera di Vetulonia, le kotylai (plurale di kotyle, tazza per bere, n.d.r.) e gli altri oggetti funerari di Vulci appena menzionati costituiscono la manifestazione di un’aristocrazia definibile come «urbana», perché legata a tre città annoverate fra i duodecim populi d’Etruria. Quelli che formano l’altra parte della mostra appartengono invece a insediamenti definibili come «siti coloniali», che gravitano nel territorio e nell’orbita politica e culturale di due grandi città: Volterra, per quanto riguarda Casale Marittimo; e Vulci, in riferimento a Marsiliana d’Albegna, Magliano e al comprensorio di Poggio Buco e Pitigliano. La dinamica storica di Vulci vede, già alla fine dell’VIII secolo a.C. l’appropriazione, da parte della nascente
aristocrazia, di ampi territori situati in località-chiave per il controllo dei traffici commerciali dalla costa tirrenica verso l’interno della Penisola. Non lontano dalla foce dell’Albegna fiorí, nel VII secolo a.C., il centro di Marsiliana, documentato dai corredi di due tombe a circolo (prima metà del VII secolo a.C.) scavate dal principe Corsini agli inizi del Novecento. La necropoli di Marsiliana ha restituito alcuni fra i manufatti artistici piú famosi della civiltà etrusca: ricche oreficerie; la maschera in argento e gli avori della tomba omonima; la statuetta crisoelefantina (d’avorio ricoperta di foglia d’oro) raffigurante una dea nuda, dal Circolo della Fibula. Nella valle dell’Albegna e nella media valle del Fiora sorsero i centri minori di Magliano, Poggio Buco e Pitigliano. La tomba maglianese «dei leoni alati»,
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rinvenuta nella necropoli del Cancellone III in località Sant’Andrea, attesta l’operato, in età orientalizzante, di maestranze provenienti dall’Etruria meridionale, impegnate nella megalografia funeraria per soddisfare le esigenze dell’élite aristocratica locale; ai corredi delle tombe in località Ficaie appartengono vasi in bucchero e ceramica di imitazione corinzia, perfettamente inseribile nel quadro della produzione delle botteghe artigiane vulcenti. Poggio Buco ha restituito moltissime ceramiche da banchetto talora di dimensioni colossali, come i grandi crateri di bucchero pesante decorati a rilievo, e la frequentissima ceramica dipinta etrusco-corinzia; da
Alcuni degli oggetti piú pregiati provenienti dal Circolo degli Avori della necropoli di Banditella (Marsiliana), VII sec. a.C. Nella pagina accanto, in alto: pisside in avorio con decorazione a motivi figurati e zoomorfi di matrice orientale; in basso: tavoletta scrittoria in avorio intagliato. A destra: pettine in avorio, ornato con figure animali.
La vetrina nella quale sono riuniti i materiali del corredo funebre rinvenuto all’interno del Circolo degli Avori, nella necropoli della Banditella di Marsiliana d’Albegna. VII sec. a.C. I manufatti – rinvenuti agli inizi del XIX sec. durante gli scavi condotti dal principe Tommaso Corsini – erano raccolti all’interno di un bacile bronzeo collocato in un angolo della fossa. Oltre ai numerosi oggetti in avorio che danno nome al sepolcro, spicca una maschera funebre in lamina d’argento.
Pitigliano provengono singolari vasi di impasto ornati da figurine plastiche poste sul coperchio o sulla spalla. Le piccole aristocrazie dei centri minori del territorio vulcente, pur non potendo competere, nell’arredo metallico, con i principi di Populonia, Vetulonia e Vulci, manifestano la loro superiorità sociale esibendo servizi ceramici numerosi, che si segnalano talora per la singolarità delle forme e delle decorazioni. Esse però non si privano di ricchi apparati per la toletta, come dimostrano i numerosissimi vasetti per unguenti che qui, come nelle necropoli maggiori, testimoniano il lusso e la cura della persona delle classi dominanti.
Il Progetto dell’allestimento Luigi Rafanelli, Marica Rafanelli Dal progetto scientifico della mostra è emersa la necessità di indagare piú a fondo, attraverso una serie di flash su reperti contestualizzati e uno sguardo piú attento su usi e costumi del periodo, il modello culturale dei principes o «signori» che, nel VII secolo a.C., abitavano il territorio dell’Alta e Bassa Maremma toscana e il ruolo da essi sostenuto nella genesi e nella formazione dell’ethnos etrusco. Rispetto all’esposizione nel Museo Archeologico di Grosseto, l’allestimento fiorentino ha inteso privilegiare l’aspetto unitario dei contesti, all’interno
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musei firenze
integrato tra vecchie e nuove concezioni espositive, in cui esporre non vuol dire piú mostrare (far vedere un oggetto, un’immagine), ma comunicare (una sensazione, un messaggio). Secondo il concetto spaziale-figurativo, il piano terreno è scandito in box, ognuno dei quali (con i suoi oggetti, le sue immagini, i suoi pannelli illustrativi) racconta un luogo, un tema, un manufatto particolare, tutti inseriti all’interno di contesti funerari specifici. Il piano ballatoio, invece, è un lungo spazio «aperto», nel quale campeggiano oggetti di grande impatto visivo (come i carri e le statue). L’altro concetto primario è quello che ci permette, attraverso i sofisticati mezzi tecnologici oggi disponibili, di riprodurre luci e suoni adatti e pertinenti alle diverse situazioni in cui ci troviamo. Luci e suoni rappresentano la componente sensoriale che si unisce alle immagini per richiamare alla mente del visitatore suggestioni ed esperienze del vivere quotidiano e fanno in modo che attorno al reperto si crei virtualmente l’ambiente che lo circondava quando era oggetto d’uso.
Dall’alto verso il basso: due immagini dell’allestimento della mostra; la sezione in cui è esposta la ricostruzione del carro in bronzo e ferro rinvenuto nel Tumulo dei Carri di Populonia; l’arca in lamina di bronzo decorata a sbalzo e ricoperta in argento, proveniente anch’essa dalla Tomba del Duce di Vetulonia. VII sec. a.C.
dei quali è stata mantenuta la lettura tematica. L’allestimento è stato orientato principalmente nel senso delle nuove tecnologie multimediali. Qui l’apparato illustrativo usuale, costituito da pannelli didattici, didascalie, foto, e via dicendo è concentrato soprattutto nell’ingresso, mentre, nella zona immediatamente adiacente, il racconto delle vicende storiche e la resa dell’atmosfera sono affidati a proiezioni in video o su schermo, illustranti gli aspetti e i modi del banchetto e del commercio, e a voci narranti (fuori campo). Nel salone espositivo, su due livelli, la resa dell’atmosfera è dovuta a effetti di luce speciali, a evocative ricostruzioni e a suggestive ambientazioni. Si tratta di un sistema
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Il percorso di visita Il percorso è stato studiato in modo che fosse il piú fluido da un punto di vista distributivofunzionale, oltre che ovviamente osservasse la logica scientifica e i riferimenti culturali che una mostra archeologica richiede. La stanza di ingresso è stata resa piú accogliente e confacente all’importanza della mostra con accorgimenti consistenti nell’occultamento dell’attuale scala in tubi Innocenti, nella posa a terra di un tappeto calpestabile con la riproduzione di una antica carta dell’Etruria (dove sono identificati i centri interessati) e nel posizionamento alla fine della stessa di una scenografica quinta con una visione marina della Maremma. Questa quinta prosegue a novanta gradi lungo tutto l’involucro della scala (sempre con immagini, skyline e citazioni dotte riguardanti la Maremma e gli Etruschi) e accompagna il visitatore in uno stretto tragitto fino all’ambiente introduttivo alla mostra, dove trovano collocazione: la saletta proiezioni, gli schermi video, i pannelli esplicativi. Un lungo pannello illuminato (stele), appeso in alto, posto in asse all’immagine marina dell’ingresso, ospita la raffigurazione del logotipo della mostra. Lo spazio della stanza di ingresso, concepito come spazio di introduzione alla mostra, accoglie il visitatore trasportandolo, attraverso le immagini, in una dimensione spazio-temporale che trascende la sfera architettonica e risponde invece all’esigenza di ambientazione naturale e storica dei reperti esposti. In altre parole introduce il visitatore entro uno
A destra: materiali del corredo della Tomba del Duce di Vetulonia, comprendenti, tra gli altri, una barchetta in bronzo con decorazione zoomorfa di produzione nuragica, una brocca e una tazza in argento e la parte superiore di un grande vaso in bronzo. VII sec. a.C. In basso: una delle statue funerarie da Casale Marittimo.
spazio fisico che coniuga il volto della Maremma attuale con quello della terra abitata dai signori etruschi piú di duemila anni or sono.
di Vulci, situata, come le altre menzionate, a controllo del territorio in punti nodali di collegamento degli assi di comunicazione fra la costa e l’entroterra.
Piano terra Il percorso di visita si snoda al piano terra, dall’ingresso di via Capponi, per tutta la manica lunga che ospitava l’ex Museo Topografico dell’Etruria, fino alla scala interna al museo. Prosegue in senso inverso per tutto il ballatoio fino alla scala in tubi Innocenti, da cui ridiscende alla zona di ingresso. Detto percorso ha un andamento longitudinale piú articolato al piano terra perché l’interesse visivo è su due lati e piú lineare al piano ballatoio perché il fronte espositivo è solo su un lato. La prima sezione della mostra è dedicata ai signori di Populonia e Vetulonia. Vi vengono esibiti i segni del potere e gli oggetti pertinenti alle piú alte espressioni cerimoniali della vita aristocratica: le armi, il banchetto, l’ornamento e cosí via. Il mondo della guerra e delle armi occupa, invece, uno spazio particolare all’inizio del percorso (un involucro modellato in occasione di mostre precedenti) e costituisce un suggestivo episodio scenico a parte. Le armature, infatti, esposte su supporti di materiale trasparente, sono immerse in un sistema di realtà virtuale che consente, attraverso immagini (in parete e a soffitto), luci, frastuoni, di percepire l’atmosfera dei luoghi del combattimento e trarne sensazioni coinvolgenti. La seconda sezione si occupa di Marsiliana d’Albegna, una entità insediativa minore contrassegnata, al pari di Pitigliano, Poggio Buco e Magliano, dal ruolo di avamposto
Piano ballatoio L’allestimento del piano ballatoio, a differenza del sottostante che è monotematico (archeologia etrusca), monotemporale (periodo orientalizzante), orientato geograficamente da nord a sud, ha una logica suddivisoria piú libera e variegata, perché accoglie istanze funzionali e figurative diverse. Lungo il percorso, che segue planimetricamente la forma del parapetto, si articolano infatti spazi adibiti all’esibizione di eccezionali «pezzi» (sculture e carri) che completano il «racconto archeologico» iniziato al piano terreno, alla sistemazione della sezione di Casale Marittimo (ultima entità insediativa interessata) e alla mostra di quadri della pittrice contemporanea Anna Di Volo. La partizione degli spazi è stata effettuata con il criterio di destinare il tratto di arrivo alla presentazione della pittrice, i due slarghi trapezoidali (anche per evidenti ragioni di ingombro) all’esposizione delle sculture e dei carri, il settore finale a Casale Marittimo e i tratti rettilinei alla pittrice stessa. In questo modo la mostra archeologica ha un «filo conduttore» continuo che, al piano terreno, attraversa i ricchissimi corredi funerari ritrovati nei centri di Populonia, Vetulonia, Marsiliana, Magliano, Poggio Buco-Pitigliano, Vulci; prosegue al piano ballatoio fino alla sezione di Casale Marittimo, interrotto dai due «episodi» di maggiore impatto emozionale della mostra archeologica: il gruppo delle statue e i due carri in bronzo.
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musei firenze all’aperto nel giardino del Palazzo della Crocetta, che verrà inaugurato, alla presenza della Regina Margherita, nel 1902. Nel giardino furono ricostruite con materiali originali alcune tombe monumentali di Vetulonia, di Casale Marittimo, di Chianciano e di Orvieto, e furono realizzate copie identiche della tomba Inghirami di Volterra e della Tomba dei Velii di Orvieto. Intento di Luigi Adriano Milani era quello di documentare i principali tipi architettonici usati dagli Etruschi, complementari all’esposizione dei reperti nelle sale del Museo. Sempre nel giardino era esposta la collezione dei marmi romani che Milani era riuscito a ottenere dalla Galleria degli Uffizi, la maggior parte dei quali collocati sotto le arcate del corridoio mediceo e lungo i vialetti del giardino; fra le aiuole si affollavano cippi, stele, sarcofagi, urne e ogni tipo di monumenti funerari provenienti da varie parti d’Etruria. Ancora oggi, il giardino conserva concettualmente la sistemazione voluta da Milani, anche se pochissime sono le sculture collocate all’aperto, troppo esposte agli agenti atmosferici, un rischio rilevato da Antonio Minto già negli anni Venti.
L’ampliamento Spettò allo stesso Antonio Minto (1880-1954), successore di Milani alla guida del Museo, realizzare piú compiutamente il Museo Topografico. Nel 1925 venne approvato il nuovo progetto di ampliamento del Museo, che prevedeva l’apertura dell’ingresso su piazza Santissima Annunziata, la collocazione della sezione della scultura classica negli ambienti dello Spedale degli Innocenti (acquisito negli anni Trenta), e la costruzione di una serie di sale lungo il lato di via Laura.Tali lavori furono realizzati negli anni compresi tra il 1929 e il 1945. Questo immenso lavoro di qualificazione del patrimonio archeologico custodito dalla città di Firenze, iniziato con l’Unità d’Ita56 a r c h e o
Coperchio di urna cineraria etrusca in alabastro, con raffigurazione del defunto a banchetto, da Chiusi. Seconda metà del III sec. a.C.
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musei firenze i faraoni in riva all’arno Il Museo Archeologico Nazionale di Firenze accoglie al suo interno una ricca collezione di antichità egizie cosí prestigiosa da costituire, sin dall’Ottocento, un vero e proprio museo a sé stante. Il Museo Egizio di Firenze, infatti, fu istituito formalmente nel 1855, riunendo le antichità raccolte in precedenza dalla famiglia Medici e i reperti giunti nel capoluogo toscano al ritorno della spedizione archeologica francotoscana guidata da Jean-François Champollion e Ippolito Rosellini e svoltasi tra il 31 luglio 1828 e il 27 novembre 1829. La missione era stata sostenuta con grande convinzione dal granduca Leopoldo II di Lorena arrivato al potere nel 1824 succedendo al padre Ferdinando III, e per questo una parte dei materiali recuperati dai due celebri egittologi sia attraverso scavi, eseguiti soprattutto a Tebe, sia tramite acquisti sul mercato antiquario locale, giunsero a Firenze. In precedenza, il granduca, appena salito sul trono, aveva acquistato la collezione riunita da Giuseppe Nizzoli, cancelliere presso il consolato austriaco in Egitto. Un incremento ulteriore della raccolta si ebbe alcuni decenni piú tardi su iniziativa di Ernesto Schiaparelli che ne aveva assunto – a unificazione d’Italia avvenuta – la direzione, prima di ottenere quella del Museo Egizio di Torino. Egli arricchí la collezione conducendo fortunate campagne
lia, è stato fortemente compromesso dalla forza dell’Arno il 4 novembre 1966. «Quando le acque, dense di melma e lucide di nafta defluirono dal Museo topografico dell’Etruria, che avevano invaso il 4 novembre 1966 fino, in qualche sala, a oltre due metri di altezza, lasciando una coltre di fango oleoso su gran parte di ciò che avevano toccato, si rese evidente il danno immenso subito da quel complesso scientifico: non tanto per l’innumerevole quantità di oggetti danneggiati e per la qualità e preziosità di molti di essi, ma soprattutto per lo sconvolgimento prodottosi, la distruzione quasi totale dell’ordine in cui erano esposti e conservati, per 58 a r c h e o
di scavo e acquistando antichità in Egitto, per colmare le lacune che il museo presentava. A questo scopo, per esempio, acquisí reperti di epoca preistorica. Lo studioso riuscí anche ad assicurare a Firenze alcuni sarcofagi rinvenuti, nel 1891, all’interno del secondo ripostiglio di Deir el-Bahari a Tebe Ovest, che il governo egiziano aveva deciso di donare all’Italia come ad altri Stati dotati di musei egizi importanti sul proprio territorio. Nel 1880 Schiaparelli ebbe anche l’incarico di realizzare il nuovo allestimento del museo che, da via Faenza, venne trasferito nell’attuale sede di via della Colonna insieme alle antichità etrusche e greco-romane. Il direttore seguí da vicino l’allestimento che previde la decorazione delle sale in stile egizio, coi soffitti decorati come un cielo stellato, e la costruzione di vetrine sempre egittizzanti. Il museo fu inaugurato nel 1883 alla presenza del re Umberto I e della regina Margherita: Schiaparelli compose un’iscrizione geroglifica per ricordare l’avvenimento. Nel Novecento il museo fu arricchito da alcune donazioni, la piú significativa delle quali è rappresentata dal nucleo di materiali offerti dal prestigioso Istituto di Papirologia «G. Vitelli» di Firenze a seguito di scavi archeologici eseguiti nel Medio Egitto, tra il 1934 e il 1939. Nell’occasione, in particolare, giunsero al museo preziose stoffe di epoca copta.
la cancellazione di gran parte degli elementi di identificazione diretta». Cosí ricorda nel 1982 Guglielmo Maetzke (1915-2008), soprintendente alle Antichità d’Etruria nei giorni dell’alluvione.
La rinascita Da allora è immediatamente iniziata la rinascita del Museo, sia con il restauro di tutti i materiali, completato per il novanta per cento, sia attraverso il graduale recupero delle sale espositive. Moltissimo è già stato fatto e lo spazio del Museo Topografico è ora fruibile essendo diventato sede di grandi mostre temporanee che raccontano il museo che verrà: è il caso di «Signori di Maremma. Élites etrusche da Po-
In alto: cartonnage (involucro costituito da vari strati di tela applicati direttamente sul corpo mummificato, poi stuccati e dipinti) con decorazione in foglia d’oro, dal corredo della defunta Takerheb. Epoca tolemaica.
Nelle settimane scorse all’interno del Museo Egizio di Firenze – per iniziativa di Maria Cristina Guidotti, che lo dirige – è stato inaugurato il nuovo allestimento di due sale dedicate rispettivamente all’epoca tolemaica e all’epoca romana e copta. Ora è quindi possibile seguire per intero lo sviluppo della civiltà egiziana che finora era documentato solo sino all’Epoca Tarda. Fra i materiali esposti nella prima delle due sale va segnalato il corredo funerario di Takerheb che comprende un sarcofago e numerosi oggetti, tra i quali bende iscritte, bracciali e amuleti. Nella stanza, oltre a stele e a maschere funerarie, figurano oggetti in grado d’illustrare la vita quotidiana del tempo e una sfinge restaurata per l’occasione. La sala successiva ospita un capolavoro assoluto: il ritratto di donna del Fayyum, uno dei vanti del museo e, piú in generale, delle collezioni egizie presenti in Italia. Vi figurano anche alcuni sarcofagi di età romana finora mai esposti, numerosi reperti provenienti da Antinoe e un obelisco. Per inciso si può ricordare che un secondo obelisco si trova a Firenze, all’interno del giardino di Boboli. In questa sala sono esposti i tessuti copti presenti nelle collezioni del museo, di eccezionale fattura. La curatrice ha prestato un’attenzione notevole anche alla realizzazione dell’apparato didascalico che riesce a comunicare bene il fascino delle fasi finali della grande civiltà egiziana. Giuseppe M. Della Fina
In alto: ritratto femminile, dal Fayyum. Tempera su legno, I-IV sec. d.C. In basso: coperchio di un’urna funeraria in terracotta policroma, raffigurante la defunta che tiene nella mano destra una patera. Età ellenistica.
pulonia a Vulci» (vedi box alle pp. 50-55), un’occasione per esporre le eccellenze etrusche di età orientalizzante dell’Etruria settentrionale costiera, peraltro destinata a trasformarsi in uno dei nuclei dell’allestimento permanente. Già da alcuni anni, obbiettivo primario della direzione del Museo è stato recuperare alla visita l’intero complesso museale e, a questo fine, sono state programmate e realizzate una serie di iniziative per riportare l’istituzione all’altezza della sua fama. Essenziale, in questa ottica, è stata la realizzazione di un progetto generale di recupero dell’intero complesso e, nell’immediato, l’adeguamento agli standard museali dell’esposizione esistente. Il primo passo è stato quello di rinnovare l’allestimento del secondo piano del Palazzo della Crocetta, dove hanno trovato posto le Collezioni storiche del Museo, inaugurato il 6 luglio 2005. Nel 2006, in occasione del quarantennale dall’alluvione, è stato anche riaperto l’ingresso storico del Museo su piazza Santissima Annunziata, per «ripristinare» quel collegamento con la città e le sue tradizioni, indispensabile per una corretta lettura del «racconto» che l’archeologia intende proporre. a r c h e o 59
speciale costantino
Costanti e la nascita di Marco Di Branco
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Fu il piú violento rivoluzionario della storia romana: ruppe infatti radicalmente con i vecchi schemi, accettando senza compromessi il portato dei grandi cambiamenti economicosociali che si erano compiuti nell’impero romano nel corso della crisi del III secolo. La sua rivoluzione religiosa è parallela alla sua rivoluzione sociale. Come ha scritto il grande storico Santo Mazzarino, «all’opposto di Diocleziano, Costantino non si è affannato a spegnere l’incendio che divorava il vecchio mondo, ma viceversa ha costruito il nuovo stato con gli elementi fornitigli da un processo storico conseguente»...
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dell’impero signo v c cristiano
no Il volto e la mano appartenenti alla statua colossale di Costantino, in origine situata nell’abside della basilica di Massenzio nel Foro Romano. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini, cortile del Palazzo dei Conservatori. A sinistra: Chrismon, particolare del sarcofago dell’Anastasis (vedi foto a pp. 74-75). IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano. Il monogramma, formato dalla chi e dalla rho, le due lettere iniziali del nome di Cristo, è detto anche «costantiniano», perché, secondo la tradizione, è quello che l’imperatore fece mettere sulle insegne dei soldati durante la battaglia di ponte Milvio.
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speciale costantino l’imperatore «cristiano» e i suoi discendenti Statua in marmo di matrona, identificata con Elena, madre di Costantino. Età costantiniana. Roma, Musei Capitolini.
Costanzo Cloro
Elena
(305-306)
Minervina
Costantino I
Fausta
(306-337)
Crispo Faustina Graziano (367-383)
Costantino II
Costante
Costanzo II (337-361)
Costanza
Costanza Ritratto di Fausta Massima Flavia (289/290-326), moglie di Costantino, dal 307 d.C. 310 d.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.
Elena
Giuliano (360-363)
Qui sopra: solido di Giuliano (moneta in oro introdotta da Costantino nel 309/310, che sostituì l’aureo), battuto dalla zecca di Sirmio (l’attuale città di Sremska Mitrovica, in Serbia). 361-363. Belgrado, Museo Nazionale. Al dritto, il busto dell’imperatore barbato con diadema di perle, manto e corazza. A sinistra: testa colossale in bronzo di Costantino. IV sec. d.C. Roma, Musei Capitolini.
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N
el 305, tenendo fede agli impegni presi al momento dell’investitura, Diocleziano e Massimiano Erculio rinunciarono alla dignità imperiale di Augusti, in favore dei successori designati, i Cesari Costanzo Cloro e Galerio. La «riforma tetrarchica» dioclezianea entrava cosí nella sua fase piú delicata. E, in effetti, quello che doveva essere un passaggio pacifico dei poteri si trasformò subito in una terribile crisi militare, culminante nello scontro fra Massenzio, figlio di Massimiano, e Costantino, figlio di Costanzo: il 28 ottobre del 312, presso il ponte Milvio, alle porte di Roma si combatté la battaglia decisiva. Secondo la tradizione, a Costantino apparve in sogno una visione in cui egli riconobbe un incoraggiamento del dio dei cristiani, che lo avrebbe esortato a porre le iniziali del nome di Cristo (il cosiddetto monogramma) sugli scudi dei suoi soldati, con una promessa di vittoria: in hoc signo vinces, «in questo segno vincerai». Cosí fu. Massenzio annegò nel Tevere e il suo esercito andò incontro a una terribile sconfitta. Costantino entrò trionfalmente in Roma e si impadroní del potere, cancellando dalla città quasi ogni traccia della presenza del suo avversario: la grande basilica che Massenzio stava costruendo nei pressi del foro prese cosí il nome di basilica di Costantino.
Statua in marmo di Costantino, proveniente dalle terme dell’imperatore erette sul Quirinale, oggi nell’atrio della basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. IV sec. d.C.
Roma cristianizzata Il nuovo imperatore, al contrario del suo predecessore, guardava con simpatia al cristianesimo: ne è prova il testo epigrafico dell’arco di trionfo dedicato al sovrano dal Senato dopo la sua vittoria (vedi box alle pp. 70-71). Ma, soprattutto, se ne ha conferma dalle mosse successive: qualche mese piú tardi, nel febbraio del 313, Costantino, insieme al suo collega Licinio, promulgò a Milano il celebre «editto di tolleranza», grazie al quale il cristianesimo si avviò a diventare una delle piú grandi religioni della storia (vedi box a p. 74); e, negli anni (segue a p. 66) a r c h e o 63
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Principali battaglie contro i barbari e data Invasioni e incursioni barbariche
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L’Impero e il cristianesimo nel IV secolo
Territori ceduti ai Sassanidi nel 363
L’Impero alla morte di Teodosio (395)
Editto di Milano (313)
Spartizione romano-sassanide dell’Armenia
Divisione dell’Impero tra Arcadio (Oriente) e Onorio (Occidente) nel 396
Concilio di Nicea (325)
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(Niš), in Illiria, dal generale Fl. Costanzo Cloro e dalla sua concubina Elena, un’ex ostessa. 293 Il padre di Costantino, che aveva sposato la figliastra dell’imperatore Massimiano, viene adottato da quest’ultimo, ed eletto Cesare. 305 Abdicazione di Diocleziano e Massimiano. Il padre di Costantino diventa imperatore della pars occidentalis. 306 Morte di Costanzo Cloro presso Eboracum (York), in Britannia. Le truppe acclamano imperatore Costantino. A Roma, viene eletto imperatore Massenzio, figlio di Massimiano. 310 Morte di Massimiano, dopo un duro conflitto con il figlio. 28 ottobre 312 Costantino e Massenzio si scontrano presso ponte Milvio. Massenzio, sconfitto, annega nel Tevere. 313 Alleanza fra Costantino (Augusto per l’Occidente) e Licinio (Augusto per l’Oriente). Eliminazione di Massimino Daia, l’altro imperatore d’Oriente eletto da Galerio. A Milano, Costantino e Licinio emanano il celeberrimo «editto di tolleranza». 324 Scontro tra i due Augusti. Costantino sconfigge Licinio a Crisopoli (18 settembre 324) e assume su di sé tutto il potere. 11 maggio 330 Inaugurazione di Costantinopoli. 22 maggio 337 Battesimo in articulo mortis e morte di Costantino presso Nicomedia.
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L’impero romano dall’età di Costantino alla vigilia delle invasioni barbariche (306-401).
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speciale costantino Una veduta di Ponte Milvio, a Roma. Qui si svolse la celebre battaglia combattuta tra le truppe di Costantino e l’esercito di Massenzio, il 28 ottobre del 312. Secondo la tradizione, alla viglia dello scontro, Costantino sarabbe stato avvertito in sogno di far contrassegnare gli scudi dei suoi soldati con il monogramma cristiano.
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a seguire, portò avanti un importante programma di cristianizzazione dello spazio urbano di Roma, pur limitato alle zone periferiche della città . Sorsero allora la grande basilica cristiana di S. Giovanni in Laterano, con annesso il celebre Battistero, la basilica di S. Croce in Gerusalemme, costruita per ospitare le reliquie della Vera Croce rinvenute da Elena, madre di Costantino (vedi box alle pp. 78-79), e la Basilica di S. Pietro in Vaticano, destinata ad accogliere le reliquie del Principe degli Apostoli.
nitori della dottrina trinitaria, che invece consideravano lo Spirito Santo come «incarnato e fatto uomo», affermando che Cristo era «della stessa sostanza del Padre». Dopo un aspro dibattito, il concilio condannò le dottrine di Ario e proclamò il dogma trinitario. Esso inoltre deliberò sulla definitiva organizzazione episcopale della Chiesa, affidando rispettivamente alle sedi patriarcali di Roma, Alessandria e Antiochia la giurisdizione sui fedeli d’Occidente, dell’Egitto e dell’Oriente.
al primo concilio universale («ecumenico») della storia della Chiesa, che si tenne a Nicea nel maggiogiugno del 325. Nel concilio di Nicea si affrontò soprattutto il problema cristologico, cioè la questione relativa alla Passione e Resurrezione di Cristo e ai rapporti di quest’ultimo con l’unico Dio. In tale dibattito emersero due schieramenti: da un lato chi, come il prete alessandrino Ario, negava Il concilio di Nicea Divenuto monarca assoluto dell’im- che Cristo avesse un’anima umana pero, Costantino prese parte, in e poneva in lui, al posto dell’anima, qualità di «sovrintendente dei laici», lo Spirito Santo; dall’altro, i sosteAll’indomani della promulgazione dell’editto, l’alleanza con Licinio, che era rimasto padrone unico dell’Oriente, cominciò a vacillare, fino a che, nel 324, non giunse allo scontro aperto. Costantino sconfisse Licinio ad Adrianopoli e Crisopoli e lo fece poi uccidere, quando apprese del suo tentativo di accordarsi con i Goti.
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In alto: schema della battaglia di Ponte Milvio, che cominciata in località Saxa Rubra, proseguí fino alla zona del ponte romano. In basso: la battaglia di Ponte Milvio, particolare del fregio scolpito sul fornice destro del lato sud dell’Arco di Costantino, a Roma. IV sec. a.C.
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speciale costantino Le «insegne di Massenzio» Nel 2006 presso le pendici del Palatino è avvenuta un’eccezionale scoperta archeologica: l’équipe diretta da Clementina Panella ha infatti rinvenuto in una fossa scavata in un vano sotterraneo alcune insegne imperiali praticamente integre: due globi di vetro verde dorato, una sfera in calcedonio e uno scettro intatto con
terminazione a fiore di otto petali che sorreggeva un globo verde scuro. Accanto, erano state deposte armi da parata: tre lance rivestite in oricalco e quattro portastendardi. I materiali, in base a confronti con rilievi e monete, sono stati datati all’inizio del IV secolo d.C. Secondo la Panella, si tratterebbe delle insegne appartenute a Massenzio, nascoste con cura dai suoi sostenitori dopo la battaglia di Ponte Milvio.
Ma Costantino non limitò la sua «rivoluzione» all’ambito religioso. Egli, infatti, si sentiva investito del compito di ricostruire su nuove basi lo stato romano. In particolare, l’imperatore portò avanti una riforma monetaria che fece crollare il potere d’acquisto della moneta d’argento (denarius) e di quella di rame (follis), cioè delle monete dei piccoli scambi, utilizzate perlopiú dalle classi sociali piú basse, e imperniò tutta la vita economica dello stato sulla moneta aurea (solidus). Si creò una nuova società, in cui i detentori di oro, cioè gli aristocratici, controllavano l’economia. I possessori di argento e rame furono rovinati. Da quel momento in poi, tutta la storia dell’epoca tardoantica fu caratterizzata dagli sforzi condotti da molti imperatori per diminuire gli effetti della rivoluzione economica costantiniana.
Una società piramidale La politica economica di Costantino, che è peraltro alla base dell’economia dell’epoca proto-bizantina, produce una società «a piramide»: in basso stanno i contadini (coloni), costretti a lavorare sulle terre dei grandi proprietari terrieri (possesso(segue a p. 72) Giavellotti porta insegne rinvenuti presso la domus di Augusto sul Palatino. Databili agli inizi del IV sec. d.C., potrebbero essere appartenuti a Massenzio, e sarebbero stati nascosti con cura dai suoi sostenitori dopo la battaglia di Ponte Milvio.
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L’Arco di Costantino in un’incisione a colori di Matthew Dubourg (1786-1838).
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l’arco di costantino
speciale costantino
un monumento emblematico
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Con le sue dimensioni colossali, l’arco di Costantino, è il piú grande degli archi trionfali romani giunti fino a noi e, insieme, uno dei monumenti che meglio illustrano lo spirito dell’architettura tardo-antica e le sue contraddizioni. È un arco di tipo classico a tre fornici: quello centrale, sotto il quale passava la via percorsa dai cortei trionfali, è di dimensioni maggiori rispetto ai due laterali. Sopra la trabeazione un grande attico ospita su entrambi i lati l’iscrizione con la quale il Senato dedicò il monumento a Costantino per la vittoria riportata al ponte Milvio (28 ottobre 312) su Massenzio. Il testo epigrafico fa riferimento alla «grandezza della mente» (magnitudine mentis) e a una non meglio precisata «ispirazione della divinità» (instinctu divinitatis) che avrebbero guidato Costantino nella battaglia: se la prima formula richiama la virtú della megalopsychía («grandezza d’animo») tipica dei sovrani ellenistici, la seconda potrebbe coerentemente collocarsi nel solco dell’imitazione di Alessandro (modello degli uomini politici e poi dei principi romani fin dall’età di Cesare). Ma non è improbabile che, con una formula volutamente ambigua, per non offendere la sensibilità di alcuna delle componenti della società romana del tempo, si volesse qui anche alludere discretamente all’aiuto che, secondo la tradizione, Costantino avrebbe ricevuto dal Dio dei cristiani.
Schema grafico dell’arco di Costantino, dedicato all’imperatore dal senato romano, realizzato reimpiegando elementi piú antichi presi da monumenti di Marco Aurelio, Traiano e Adriano.
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Quello di Costantino è il piú grande arco trionfale giunto sino a noi
Statue di prigionieri daci, provenienti dal foro di Traiano, collocate sul basamento dell’attico.
il trionfo nel segno del sole
Rilievi del fianco est, raffiguranti l’entrata trionfale dell’imperatore in Roma (in basso) e la quadriga di Helios che ascende al cielo (nel tondo). ▼
scambio di teste ▼
Particolare dei pannelli marmorei sull’attico del lato sud, raffiguranti originariamente Marco Aurelio la cui testa è stata sostituita con quella di Costantino. A sinistra, una scena di liberalitas, elargizioni al popolo romano; a destra, la sottomissione di un capo barbaro all’imperatore seduto su un alto podio.
▼ Una scena di caccia all’orso (a sinistra) e un sacrificio a Diana (a destra), particolare dei tondi di epoca adrianea posti sopra il fornice destro del lato sud.
caccia all’orso
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speciale costantino
da coloni a servi terrae Nel 332 Costantino emanò una legge che obbligava i coloni alle dipendenze dei gandi proprietari terrieri a non allontanarsi dal suolo che coltivavano: in tal modo i coloni divengono di fatto (di diritto essi sono ancora liberi cittadini) «servi della terra» e la loro condizione è equiparata a quella degli schiavi: «Se sul possedimento di qualcuno è stato trovato un colono appartenente ad altri, egli dovrà non solo restituirlo, ma anche pagare le tasse di quell’uomo per tutto il tempo che lo ha tenuto presso di sé. Quanto ai coloni che tentano la fuga, essi siano incatenati e ridotti in condizione servile, in modo che siano obbligati a svolgere da schiavi quei doveri che si addicono ai liberi» (Theodosiani libri XVI, a cura di Theodor Mommsen e Paul M. Meyer, Berolini apud Weidmannos, I, 1905, p. 238).
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res); al vertice si trovano gli stessi possessores, detentori della terra e della moneta aurea, la classe dirigente cittadina e la burocrazia, al cui vertice si trovano i senatori. Se la condizione degli schiavi, anche per il contributo della religione cristiana, migliora sensibilmente, peggiora considerevolmente quella dei contadini, che tendono sempre di piú a divenire, di fatto o di diritto, servi terrae, cioè veri e propri servi della gleba (vedi box a p. 72).
il de rebus bellicis, una voce critica Durante il regno di Costanzo II (337-361), uno dei figli di Costantino, un autore ignoto, con probabili esperienze nell’amministrazione dell’impero, compose un opuscolo, tramandato con il titolo di De rebus bellicis (Le cose della guerra). Esso prende in esame vari aspetti della società tardo-antica, da quello militare a quello economico. Si tratta di un’opera di estremo interesse, perché costituisce una delle rarissime voci critiche nei confronti della politica economica inaugurata da Costantino. Temi centrali del trattato sono il crescente impoverimento delle classi inferiori, la disonestà dei governatori, la necessità di una riforma del sistema militare. Grande importanza ha poi il fatto che l’autore individui nella riforma monetaria di Costantino (che privilegiava gli aristocratici detentori della moneta aurea), la causa della rovina dei ceti meno abbienti, detentori di moneta priva del valore intrinseco del metallo aureo. Eccone un brano: «Fu ai tempi di Costantino che la smodata largizione di denaro assegnò ai piccoli commerci l’oro al posto del rame, che prima era considerato di grande valore. È credibile che l’avidità abbia avuto origine dalle seguenti cause. Quando l’oro, l’argento e la grande quantità di pietre preziose che da epoca remota erano depositati presso i templi raggiunsero il pubblico, si accese in tutti la cupidigia di spendere e di acquisire. E sebbene l’erogazione del rame – che come dicevamo portava impresso il volto dei re – risultasse ormai enorme e difficile da sostenere, nondimeno, per non so quale cecità, ci si impegnò smodatamente a mettere in circolazione oro, che è considerato piú prezioso». «Questa abbondanza d’oro riempí le dimore dei potenti, diventate sempre piú belle a danno dei poveri, essendo i meno abbienti oppressi con la violenza. Ma i poveri, spinti dalle loro afflizioni a commettere vari atti scellerati, non avendo davanti agli occhi alcun rispetto per la legge né sentimenti di pietà, affidarono le loro rivendicazioni al crimine. Cosí inflissero spesso gravissimi danni ai pubblici poteri, saccheggiando le campagne, turbando al pace con atti di brigantaggio, infiammando gli odi; passando di crimine in crimine incoraggiarono gli usurpatori che l’audacia ha suscitato a gloria della tua virtú, piú di quanto li abbia esaltati. Sarà dunque compito del tuo valore, ottimo imperatore, una volta bloccate le largizioni, provvedere ai contribuenti e propagare nel futuro la gloria del tuo nome. Rivolgiti infine per un attimo al ricordo dei tempi felici, considera i regni famosi della povertà antica, che sapevano coltivare i campi e fare a meno delle ricchezze, pensa con quale lode e con quale onore la loro incorrotta frugalità li celebra per sempre. È proprio vero: chiamiamo auree quelle età che di oro non ne avevano affatto» (Anonimo, Le cose della guerra, trad. it. di Andrea Giardina, Fondazione Valla, Mondadori, Milano, 1989, pp, 13 ss.)
Anche i piccoli proprietari terrieri sono in crisi, oppressi da una crescente pressione fiscale che li obbliga a pagare al fisco in moneta aurea ciò che essi non sono in grado di fornire in natura. La società tardo-antica è una società «cristallizzata», nella quale il concetto dominante è quello di gerarchia: ne consegue, per esempio, che il principio umanistico dell’uguaglianza di fronte alla legge viene abbandonato in favore di una giu-
A snistra: mosaico del Dominus Julius raffigurante una villa agricola, composta da diversi edifici, intorno alla quale ruotano le varie attività del latifondo. Proveniente da Cartagine. IV sec. d.C. Tunisi, Museo del Bardo. A destra: solido di Costantino, con il ritratto dell’imperatore di profilo. IV sec. d.C. Collezione privata.
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speciale costantino l’editto di milano Il cosiddetto «editto di tolleranza» fu promulgato nel 313 a Milano da Costantino (306-337) e dal suo collega Licinio (308-324). Con esso si metteva ufficialmente fine alle persecuzioni dei cristiani e si riconosceva la loro religione anche dal punto di vista legale. L’editto ha un’importanza storica enorme, pari soltanto al successivo editto di Teodosio (380), con cui quest’ultimo prescriveva che tutti i sudditi dell’impero si convertissero al cristianesimo. Ne riportiamo un ampio stralcio: «Quando noi, Costantino e Licinio imperatori, ci siamo incontrati a Milano e abbiamo discusso riguardo al bene e alla sicurezza pubblica, ci è sembrato che, tra le cose che potevano portare vantaggio all’umanità, la reverenza offerta alla Divinità meritasse la nostra attenzione principale, e che fosse giusto dare ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che a ciascuno apparisse preferibile; cosí che quel Dio, che è seduto in cielo, possa essere benigno e propizio a noi e a tutti quelli sotto il nostro governo». «(3) Abbiamo quindi ritenuto una buona misura, e consona a un corretto giudizio, che a nessun uomo sia negata la facoltà di aderire ai riti dei Cristiani, o di qualsiasi altra religione a cui lo dirigesse la sua mente (...). (4) Di conseguenza vi facciamo sapere che, senza riguardo per qualsiasi ordine precedente riguardante i Cristiani, a tutti coloro che scelgono di seguire tale religione deve essere permesso di rimanervi in assoluta libertà, e non devono essere disturbati in alcun modo. (5) E crediamo che sia giusto ribadire che (...) l’indulgenza che abbiamo accordato ai Cristiani in materia religiosa è ampia e senza condizioni; (6) e che tu capisca che allo stesso modo l’esercizio aperto e tranquillo della propria religione è accordato a tutti gli altri, alla stessa maniera dei Cristiani. Infatti è opportuno per la stabilità dello stato e per la tranquillità dei nostri tempi che a ogni individuo sia accordato di praticare la religione secondo la propria scelta (...)». «(7) Inoltre, per quanto riguarda i Cristiani, in passato abbiamo dato certi ordini riguardanti i luoghi di cui essi si servivano per le loro assemblee religiose. Ora desideriamo che tutte le persone che hanno acquistato simili luoghi (...) li restituiscano ai Cristiani, senza per questo chiedere denaro o un altro prezzo (...). (8) Desideriamo anche che quelli che hanno ottenuto qualche diritto su questi luoghi come donazione, similmente restituiscano tale diritto ai Cristiani (...). (9) E dato che sembra che, oltre ai luoghi dedicati ai riti religiosi, i Cristiani possedessero altri luoghi che non appartenevano a singole persone ma alla loro comunità, ovvero alle loro chiese, tutte queste cose vogliamo che siano comprese nella legge espressa qui sopra, e desideriamo che siano restituite alla comunità e alle chiese senza esitazione né controversia (...). (10) Nel mettere in pratica tutto ciò in favore dei Cristiani, dovrai usare la massima diligenza (...). (11) E cosí possa il favore divino (...) continuare ad accordarci il successo, per il bene della cosa pubblica. (12) E affinché questo editto sia noto a tutti, desideriamo che facendo uso della tua autorità tu faccia sí che sia pubblicato ovunque» (Lattanzio, De Mort. Pers., ch. 48. opera, ed. O. F. Fritzsche, II, p. 288 sg., Bibl Patr. Ecc. Lat. XI).
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Nella pagina accanto: Costantino in trono, rilievo da Salona. IV sec. d.C. Spalato, Archeoloski Muzej u Splitu. In basso: il fronte del sarcofago dell’Anastasis raffigurante, da sinistra verso destra: il cireneo che porta la croce di Cristo; Cristo coronato di spine; l’Anastasis (Resurrezione), simboleggiata dalla croce sormontata dal monogramma cristologico entro corona, con ai piedi due soldati vinti; Cristo condotto davanti a Pilato. IV sec. d.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano.
stizia che tutela sempre il rango delle persone piú di quanto non miri a sanare gli abusi e a punire i colpevoli (vedi box alle pp. 76-77). La gerarchizzazione della società venne rafforzata da Costantino anche con l’arma del terrore: non a caso, egli creò un potente corpo di «agenti segreti» (agentes in rebus) allo scopo di controllare anche il piú piccolo movimento sospetto all’interno del corpo sociale.
«Monarchia monoteistica» Abbiamo visto come la rivoluzione religiosa di Costantino sia parallela alla sua rivoluzione economicosociale. In effetti, alla sua fondazione dell’impero cristiano corrisponde la creazione della «società piramidale», in cui i detentori dell’oro sono al vertice e i poveri alla base, senza alcuna possibilità di sollevarsi da essa. Lo Stato rifondato da Costantino è monarchico in quanto impernia la sua stabilità sul rapporto gerarchico fra i membri dell’aristocrazia, ed è monoteistico perché basato sulla corrispondenza fra Dio nei cieli e imperatore in terra. Figlio di un generale, cresciuto nei campi militari a contatto con il mondo rude dei soldati di confine, Costantino non amava Roma. Per (segue a p. 79)
il credo niceno-costantinopolitano Il Credo niceno-costantinopolitano è una formula di fede relativa all’unicità di Dio, alla natura di Cristo e, implicitamente, pur senza usare il termine, alla Trinità delle persone divine. Composto originariamente nel corso del primo concilio di Nicea (325) fu ampliato nel primo concilio di Costantinopoli. Esso fu redatto a seguito delle dispute che attraversavano la chiesa del IV secolo, soprattutto a causa delle teorie del prete alessandrino Ario. Cosí recita la formula: «Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesú Cristo, Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della sostanza del Padre; per mezzo di Lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morí e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria per giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo nella Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen».
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speciale costantino ricchi e poveri davanti alla legge Il diritto tardo-antico ha come elemento caratterizzante la teorizzazione della necessità di tener conto, nell’applicazione della legge, dello status sociale di chi si trova ad avere a che fare con essa: da ciò derivava che per uno stesso reato si avevano pene differenti e il ricco pagava sempre meno del povero. La giustizia romana di questo periodo, inoltre, è una giustizia lenta e costosa, e la corruzione è dilagante. Circa un secolo dopo la morte di Costantino, lo storico greco Prisco di Panion, nel corso di un’ambasciata alla corte di Attila, incontra un cittadino romano che, per sfuggire a questo tipo di giustizia, ha deciso di andare a vivere tra i barbari. Prisco ha dunque modo di registrarne la durissima requisitoria contro tutto il complesso del sistema di governo romano: «Mentre attendevo e mi aggiravo davanti al recinto della casa, si fa avanti un uomo che
dal suo costume scitico ritenni un barbaro e mi saluta in greco. Costui aveva l’aspetto di uno Scita (cioè un Unno, n.d.r.) elegante, perché era ben vestito e portava i capelli ben tagliati. Dopo aver risposto al suo saluto, gli chiesi chi fosse e da dove fosse giunto nella terra dei barbari, scegliendo di vivere come uno Scita. Come tutta risposta mi domandò perché fossi curioso di saperlo. Dissi che la ragione della mia curiosità era il fatto che mi aveva salutato in greco. Allora si mise a ridere e raccontò di essere un greco di nascita e di essersi trasferito come commerciante a Viminacium (l’attuale Budapest, n.d.r.), la città dei Misi sul Danubio, dove era vissuto per lungo tempo e aveva sposato una donna ricchissima. Quando però la città cadde in mano ai barbari, perse tutti i suoi averi e, in considerazione della sua ricchezza, fu assegnato, nella distribuzione della preda, a Onegesio. Poiché ai piú nobili tra gli Sciti dopo Attila toccavano i
A destra: disegno ricostruttivo del Gran Palazzo di Costantinopoli, residenza degli imperatori bizantini dal 330 all’XI sec. d.C. L’ampio complesso, posto nei pressi dell’Ippodromo e della basilica di Santa Sofia, venne danneggiato da un incendio nel 532, e ricostruito e ampliato sotto Giustiniano (527-565), Giustino II (565-578), e Tiberio I Costantino (578-582). ippodromo
chiesa di s . stefano
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faro
prigionieri scelti fra gli abbienti, perché potevano essere venduti a piú alto prezzo. Piú tardi, egli si distinse nei combattimenti contro i Romani e contro il popolo degli Akatiri e poiché, secondo il costume degli Sciti, aveva ceduto al suo padrone barbaro il bottino raccolto in guerra, aveva ottenuto la libertà. Si era sposato con una donna barbara e aveva figli. Era commensale di Onegesio e conduceva una vita migliore di quella di un tempo». «Tra gli Sciti – disse – una volta finita la guerra si vive comodamente, in quanto ciascuno gode di quello che ha e non molesta affatto o pochissimo gli altri, e neppure viene molestato. Fra i Romani invece si perisce facilmente in guerra, perché essi ripongono le loro speranze di salvezza in altri, dal momento che per via dei loro tiranni tutti gli uomini non hanno il permesso di portare le armi. E per quelli che ne fanno uso la viltà dei loro generali, incapaci di sostenere una guerra, è
ancora piú rischiosa. In periodo di pace la situazione è persino peggiore dei mali della guerra, a causa delle tasse opprimenti e degli intrighi dei malvagi, dato che le leggi non valgono per tutti. Infatti, se il trasgressore della legge appartiene ai ceti ricchi, non è costretto a pagare il fio della sua colpa; se invece è povero, non sapendo come cavarsela, deve attendersi la punizione stabilita dalla legge, se addirittura non muore prima della sentenza, perché i processi vanno per le lunghe e occorre spendere moltissimo denaro. E la cosa piú scandalosa di tutte è che occorre comprarsi i diritti sanciti dalla legge. Poiché a chi non ha niente, non sarà concesso neppure di presentarsi davanti a un tribunale, se prima non mette da parte del denaro per il giudice e i funzionari che lo assistono». (Prisci Panitae Fragmenta, trad. it. di Fritz Bornmann, Le Monnier, Firenze 1979, p. 154 ss).
santa sofia pietra miliare d ’ oro (milion) terme di zeuxippo
colonna di giustiniano curia del senato quartieri della guardia di palazzo
concistoro
Statuette (tychai) di Roma (nella pagina accanto) e Costantinopoli (a destra), in argento parzialmente dorato, dal Tesoro di Proiecta, rinvenuto ai piedi dell’Esquilino, a Roma. Fine del IV sec. d.C.
palazzo della magnaura
nea ekklesia (chiesa nuova)
stadio del polo
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speciale costantino l’«invenzione» dei luoghi santi Costantino e sua madre Elena sono i responsabili di una delle piú grandi imprese «archeologiche» di tutti i tempi, quella del ritrovamento e dell’identificazione dei luoghi della nascita, della passione e della morte di Cristo. Naturalmente si tratta di identificazioni discutibili e discusse, ma resta il fatto che la geografia dei luoghi santi è ancora oggi legata alle ‘invenzioni’ di epoca costantiniana. Fra tutte le iniziative degne di menzione spicca quella dell’individuazione del Santo Sepolcro e della costruzione della celebre basilica, alla quale Eusebio, vescovo di Cesarea e biografo ufficiale di Costantino ha dedicato pagine di grande suggestione: «Stando cosí le cose, il prediletto di Dio (l’imperatore Costantino, n.d.r.) volle realizzare in Palestina un altro grandissimo monumento. Era infatti del parere che il beatissimo luogo della Risurrezione salvifica, sito in Gerusalemme, dovesse apparire a tutti splendido e venerando. Perciò dava subito ordine di erigere una casa di preghiera, dopo aver progettato la cosa non senza il volere di Dio, anzi mosso interiormente dal Salvatore stesso». «In passato infatti uomini empi, o meglio tutti i demoni per mezzo di loro, si erano dati da fare per consegnare alle tenebre e all’oblio quel divino monumento dell’immortalità, dove l’angelo disceso dal cielo e sfolgorante di luce aveva rotolato via la pietra posta da coloro che erano di mente dura come pietra e supponevano che il Vivente fosse ancora tra i morti. Egli diede il lieto annuncio alle donne, rimosse la pietra dell’incredulità dalla loro mente per convincerle della vita di Colui che esse cercavano. È questa Grotta salvifica che alcuni atei ed empi avevano pensato di fare scomparire dagli occhi degli uomini, credendo stoltamente di nascondere in tal modo la verità. E cosí con grande fatica vi avevano scaricato della terra portata da fuori e coperto tutto il luogo; lo avevano poi rialzato e pavimentato con pietre nascondendo cosí la divina Grotta sotto quel grande terrapieno. Quindi, come se non bastasse ancora, avevano eretto sulla terra un sepolcreto veramente fatale per le anime, edificando un sacello tenebroso a una divinità lasciva, Afrodite, offrendovi poi libagioni abominevoli su altari impuri e maledetti. Perché solo cosí, e non altrimenti, pensavano che avrebbero attuato il loro progetto, nascondendo cioè la Grotta salvifica con simili esecrabili sporcizie. Quei miserabili infatti non erano in grado di capire come fosse impossibile che Chi aveva trionfato sulla morte lasciasse occulta la sua vittoria». «Costantino,dunque, animato dallo Spirito divino, non trascurò affatto quell’area che tanti materiali impuri mostravano occultata dall’astuzia dei nemici e che era stata consegnata all’oblio e all’ignoranza, né volle cederla alla malizia dei colpevoli; ma, invocato Dio suo collaboratore, diede ordine di sgomberarla. Dato l’ordine, venivano subito demolite da cima a fondo le
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invenzioni dell’inganno e venivano distrutti e abbattuti gli edifici dell’errore con tutte le statue e le divinità. Né lo zelo si fermò qui, perché l’Imperatore comandò di portar via e scaricare lontanissimo dal luogo il materiale di pietra e di legno degli edifici abbattuti. E di nuovo al comando seguiva l’opera. Ma non ci si fermò neppure a questo, perché l’Imperatore volle dichiarare sacro il suolo stesso e comandò di fare nell’area uno scavo molto profondo e di trasportare la terra scavata in un luogo lontano e remoto perché insudiciata da sacrifici offerti ai demoni. Anche questo veniva subito eseguito. E quando, rimosso elemento dietro elemento, apparve l’area al fondo della terra, allora contro ogni speranza appariva anche tutto il resto, ossia il venerando e santissimo testimonio della Risurrezione salvifica, e la Grotta piú santa di tutte riprendeva la stessa figura della risurrezione del Salvatore. Essa quindi, dopo essere stata sepolta nelle tenebre, tornava di nuovo alla luce, e a quanti andavano a vederla lasciava scorgere chiaramente la storia delle meraviglie ivi compiute, attestando con opere piú sonore di ogni voce la risurrezione del Salvatore. «Dopo questi fatti, l’imperatore diede subito pie disposizioni legali e larghi finanziamenti, ordinando di costruire intorno alla Grotta salvifica una casa di preghiera degna di Dio con una magnificenza sontuosa e regale, (e fece ciò) come se l’avesse programmato da lungo tempo e avesse visto con molto anticipo il futuro. Ordinava dunque ai capi delle Province orientali di far sí, con finanziamenti larghi e generosi, che l’opera riuscisse qualcosa di singolare, di grandioso e magnifico. Naturalmente, Costantino fece adornare anzitutto la sacra Grotta in quanto parte principale dell’intera opera, monumento davvero carico di eterna memoria, sede dei trofeo del grande Salvatore contro la morte; monumento divino, dove un giorno un angelo sfolgorante di luce dava a tutti il lieto annunzio della rigenerazione apparsa tramite il Salvatore. Passava quindi di seguito a un’area grandissima, aperta all’aria pura, pavimentata con pietra lucida e circondata in tre lati da lunghi giri di portici. Al lato di fronte alla Grotta, quello che guardava a Oriente, stava unito infatti il tempio regale (la basilica, n.d.r.) opera straordinaria, di immensa altezza e di somma lunghezza e larghezza. L’interno dell’edificio era ricoperto di lastre di marmo policromo, mentre all’esterno la superficie dei muri, resa lucente da pietre squadrate connesse armonicamente tra loro, offriva un eccezionale spettacolo, per niente inferiore a quello del marmo. In alto poi, oltre ai soffitti stessi, uno strato di piombo copriva la parte esterna, quale sicuro riparo dalle piogge invernali; mentre la parte interna del tetto, fatta
a forma di cassettoni intagliati, ottenuta con una distesa di fitte travi incastrate tra loro come gran mare lungo tutta la basilica, e coperta interamente di oro sfavillante, faceva brillare tutto il tempio come di uno scintillio di luci. Ad ambo i lati due portici gemelli a doppio piano, superiori e inferiori, si estendevano quanto la lunghezza del tempio, anch’essi con i soffitti dorati. I portici davanti al tempio poggiavano su enormi colonne, quelli interni invece erano elevati su pilastri riccamente ornati. Tre porte ben disposte verso Oriente accoglievano la moltitudine della gente che si recava dentro». «Di fronte a queste porte c’era l’elemento principale dell’intera opera, un emisfero collocato sulla parte piú alta della basilica, a cui facevano corona dodici colonne pari al numero degli Apostoli del Salvatore e ornate in cima con enormi crateri d’argento che l’Imperatore aveva offerto personalmente quale bellissimo dono votivo al suo Dio. Quando la gente avanzava di là verso gli ingressi posti davanti al tempio, veniva accolta da un altro atrio. Qui c’erano esedre d’ambo le parti, un primo cortile con dei portici e in tutti le porte del cortile, dopo le quali sulla piazza centrale stessa i propilei dell’intera opera, elegantemente ornati, offrivano a quanti passavano di fuori uno spettacolo stupefacente di ciò che si poteva vedere all’interno. Questo dunque il tempio che l’Imperatore fece erigere quale splendido Martirio della Risurrezione salvifica dotandolo tutto di una suppellettile sontuosa e regale. Volle veramente adornarlo con bellezze inenarrabili di quanti piú doni votivi poté in oro, argento e pietre preziose di specie differenti, della cui fattura artisticamente eseguita quanto alla grandezza, al numero e alla varietà non c’e tempo ora di parlarne distintamente» (Eusebio di Cesarea, Vita Constantini, III 35-40).
Costantino e la madre, l’imperatrice Elena, particolare di un mosaico bizantino del XIII sec. Venezia, Basilica di S. Marco.
questo, dopo aver governato quasi sempre dai grandi centri urbani delle provincie settentrionali, decise di spostare definitivamente la capitale imperiale in Asia Minore. Lo spinsero a questa impresa la necessità di avvicinare la sede dell’impero ai confini delle ricche regioni dell’Oriente, il desiderio di creare ex novo un grande spazio urbano cristiano, non piú condizionato dalle antiche, ma sempre vive, vestigia del paganesimo, e la volontà di legare il proprio nome, come già aveva fatto Alessandro Magno, alla fondazione di una grande città: una seconda Roma, superiore, per dignità e splendore, alla prima. La scelta cadde su Bisanzio, un’antica colonia greca posta sulla riva settentrionale del Bosforo (il canale naturale che collega il Mare di Marmara al Mar Nero), costruita in un sito ben difeso e servita dalla via Egnatia, una delle piú importanti arterie di comunicazione fra Oriente e Occidente. La nuova capitale, venne solennemente inaugurata con il nome di Costantinopoli nel 330 e in poco piú di dieci anni assunse tutte le caratteristiche di grande metropoli, con imponenti mura difensive, un foro, un ippodromo, un palazzo imperiale e molte splendide chiese. a r c h e o 79
storia storia dei greci/12
di Fabrizio Polacco
Vers o
Negli anni successivi alla vittoria di Platea, Sparta vide la sua potenza ridimensionarsi in favore di Atene. Grazie alla creazione di una flotta imponente, quest’ultima riuscí a conquistare una posizione di prestigio sulle città della Lega delio-attica e, nello stesso tempo, portò a maturazione il propria sistema democratico
A
tene aveva brillato agli occhi di tutti come la maggiore protagonista della duplice vittor ia greca contro gli invasori persiani: come scrive Tucidide essa l’aveva ottenuta «piú con l’intelligenza che con la fortuna, piú con il coraggio che con la potenza». Tuttavia, né il precipitoso rientro di re Serse in Asia, né l’evacuazione dell’intero suo esercito dopo la sconfitta di Platea 80 a r c h e o
significavano che il pericolo di un’invasione fosse scongiurato per sempre. L’impero persiano sopravviveva, e rimaneva sostanzialmente intatto. Il reiterato tentativo dei sovrani achemenidi di espandersi in Europa era sí miseramente fallito, ma la loro sovranità si estendeva ancora dai confini dell’India alle regioni immediatamente alle spalle dell’Egeo, dal bacino dell’Amu Daria in Asia centrale
(nell’odierno Uzbekistan) alla valle del Nilo. Due strade possibili si aprivano a quel punto di fronte ai Greci temporaneamente vincitori: proseguire il duello con l’avversario, impegnandovi tutte le forze, al fine di ridurlo alla totale impotenza se non di abbatterlo; oppure considerarsi appagati di aver evitato la catastrofe e ripiegare sulle proprie posizioni, cercando semmai di prevenire ogni ulteriore occasione di
a i n o m e g l’e Galea da guerra con guerrieri, vogatori e timonieri. Particolare di una hydria a figure nere (vaso utilizzato per attingere e trasportare l’acqua), attribuita al vasaio Cleimachos. VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
attrito con un vicino che rimaneva pericoloso. Questa seconda strada avrebbe voluto seguire Sparta con la Lega peloponnesiaca. Se il ventennale conflitto era scoppiato a causa del tentativo delle città greche d’Asia di ritrovare la libertà e l’indipendenza dall’impero, ebbene essa propose che tutti quei Greci d’oltremare abbandonassero le proprie sedi – che pure abitavano da almeno cinque se-
coli – per trasferirsi nella Penisola ellenica: magari andando a occupare poleis come Tebe, considerate da punire poiché avevano parteggiato per il nemico. Anzi – si aggiungeva – onde evitare di fornire possibili basi a una successiva invasione, tutte le città a nord dell’Istmo di Corinto, compresa Atene, era meglio evitassero di dotarsi di mura, dietro le quali avrebbero potuto fortificarsi gli avversari qualora fossero
riusciti a impadronirsene. Si verificò allora il primo, imbarazzante dissidio tra le due città artefici della vittoria. Gli Ateniesi non volevano ripetere la terribile esperienza dell’invasione del 480/79, quando avevano dovuto sgombrare la città per rifugiarsi sulle navi. Perciò Temistocle si fece inviare in delegazione presso gli Spartani con l’incarico di parlamentare, di spiegare perché Atene non fosse a r c h e o 81
storia storia dei greci/12 d’accordo con quella strategia: ma, in realtà, il suo era solo un espediente per prendere tempo. Infatti, in fretta e furia, i suoi concittadini innalzarono in quel mentre una nuova cinta muraria, di oltre 6 km, e solo quando fu pronta posero fine ai colloqui di Sparta. Forti della flotta maggiore tra gli Elleni, gli Ateniesi avevano intenzione di proseguire a oltranza la lotta contro il nemico, innanzitutto appoggiando proprio le città d’Asia che si erano nuovamente rivoltate dopo la sconfitta di Serse, e cominciarono quindi con l’occupare tutti i punti nevralgici della sponda opposta dell’Egeo.
La ripresa del conflitto In una primissima fase, la guerra nelle acque orientali fu comunque condotta ancora in comune da tutti i Greci. In un promontorio nei pressi dell’isola di Samo, a Micale, nel 479 a.C. quanto restava della flotta nemica fu distrutto dall’azione congiunta del re spartano Leotichida e di uno stratego ateniese, Santippo, padre di un Pericle ancora adolescente. Fu una vittoria di portata anche simbolica: lí nei pressi sorgeva infatti il santuario a Poseidone detto Panionio, ove, da tempi antichissimi, si riuniva la lega tra tutti gli Elleni di stirpe ionica emigrati in Asia. Dopo vent’anni, insomma, la ribellione fallita da Aristagora di Mileto vedeva cosí realizzati i suoi obiettivi, e l’intera costa egea era sottratta alla Persia. Poi però, mentre con la cattiva stagione le navi peloponnesiache rientravano in patria, quelle ateniesi rimasero a svernare in Oriente, e, appena fu possibile, ripresero la lotta insieme a quelle delle città liberate. Si spinsero verso nord, entrarono nei Dardanelli e conquistarono la locali82 a r c h e o
tà di Sesto, che controllava quel canale strategico dalla sponda europea. Con la primavera, l’offensiva fu ripresa anche dagli Spartani, i quali, sotto la guida del loro re reggente, Pausania (che aveva comandato gli alleati a Platea) andarono a occupare la piazzaforte che controllava il BoScena di battaglia tra un oplita greco e un soldato persiano, raffigurata su una kylix a figure rosse del Pittore di Trittolemo, 460 a.C. circa. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
sforo, una cittadina destinata a un grande futuro: Bisanzio. In tal modo, l’impero persiano non solo si vedeva bloccato nell’Egeo dalla preponderante flotta ellenica, ma neppure avrebbe potuto attraversare con un esercito gli Stretti per invadere di nuovo l’Europa. Gli Spartani, certo, non amavano le lunghe spedizioni oltremare. La loro era sempre stata una potenza terrestre, e durante le operazioni navali erano chiamati a guidare triremi fornite soprattutto dai loro alleati del Peloponneso, come Corinto o Me-
gara. Inoltre, disponevano di un numero ristretto di opliti (Erodoto afferma che anche a Platea ne avevano schierati non piú di 5000), i quali, in genere, dovevano preoccuparsi di tenere a bada una popolazione sottomessa soverchiante e potenzialmente riottosa, costituita dagli iloti della Laconia e della Messenia, e dai perieci privi di diritti politici dei villaggi piú prossimi a Sparta. Infine, non dovevano essere troppo concordi tra loro neppure sulla strategia da seguire. Pausania, per esempio, presa Bisanzio, vi si stabilí, creandovi una sorta di dominio personale, e cercando di imporre una linea politica che non disdegnava l’instaurarsi di rapporti con i Persiani, di cui fu anzi accusato di imitare usanze e costumi. Oltre a ciò, pare adottasse un comportamento autoritario e arrogante, che dispiacque agli Ioni, i quali si sentivano tra l’altro intimamente piú legati alla consanguinea Atene. Il risultato fu che Pausania venne richiamato in patria a discolparsi, mentre l’egemonia sui partecipanti alla spedizione scivolò decisamente in mano agli Ateniesi, che furono ben felici di assumerla. Ed è proprio «egemonia» la parola chiave per intendere l’epoca che segue. Le poleis amavano sopra ogni cosa la libertà – non era per essa, del resto, che avevano affrontato coraggiosamente i Persiani? – e non è un caso che la storia della Grecia antica non vide mai un regno, né un impero unitari.
L’ingratitudine ateniese Le singole città restavano sempre potenzialmente ostili l’una all’altra, non tolleravano di piegarsi alle proprie vicine, e solo dinanzi a casi di estrema necessità potevano, tutt’al piú, allearsi tra loro, come
la fine di pausania e temistocle Una volta ostracizzato, Temistocle si recò ad Argo, ove si mise a sobillare i Peloponnesiaci contro i Lacedemoni. Fu allora che la sua vicenda si intrecciò con quella di Pausania. Costui, una volta richiamato in patria da Bisanzio, era stato multato per il suo comportamento, sebbene assolto da piú gravi accuse. Però egli tornò ancora a Bisanzio e da lí cercò di ingraziarsi i Persiani per renderseli alleati in previsione di un assoggettamento della Grecia, su cui poi egli stesso avrebbe esercitato l’archè, il dominio. La sua corrispondenza con Serse cadde nelle mani dei magistrati spartani, gli efori, che lo costrinsero a tornare nuovamente in patria. Non vollero tuttavia condannarlo prima di avere prove ancor piú certe (si trattava pur sempre di un membro di una famiglia reale). Appena capí che le avevano ottenute, Pausania si rifugiò presso il tempio di Atena Chalkíoikos («dalla dimora di bronzo») sull’acropoli della città, ove, secondo la consuetudine, sarebbe divenuto inviolabile. Gli efori allora, ne fecero murare l’accesso, condannandolo a morte per fame. Poiché dalle lettere di Pausania col Gran Re risultava un qualche coinvolgimento di Temistocle, gli Spartani ne informarono Atene, che richiamò cosí anch’essa il suo esponente da Argo per processarlo. Temistocle intraprese allora una rocambolesca fuga attraverso la Grecia e l’Egeo, che infine lo portò al cospetto di Artaserse, succeduto nel frattempo a Serse sul trono. Imparata la lingua persiana e conquistata con la sua intelligenza la fiducia del Re, ne divenne il principale consigliere, promettendogli la conquista della Grecia. Ma, non potendo o non volendo piú mantenere la sua parola, alcuni anni dopo si suicidò col veleno.
era successo appunto al tempo dell’invasione. Era quindi forse inevitabile che, ridotto temporaneamente all’impotenza il Persiano, anche la lega militare che l’aveva fronteggiato si spezzasse. In un primo momento, le nuove alleanze che gli Ateniesi cominciarono a stipulare con le singole isole e città costiere dell’Egeo non avevano alcuna finalità anti-spartana. Lo scopo dichiarato era la volontà di scongiurare ogni ulteriore tentativo di rivalsa da parte della Persia, con la quale tra l’altro non era stata siglata alcuna pace. Le poleis coinvolte in queste nuove
Ritratto di Temistocle, generale ateniese ostracizzato verso il 471 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
alleanze – quelle che piú si sentivano esposte – si rivolsero ad Atene come alla loro principale protettrice essenzialmente per due motivi: la già menzionata riluttanza spartana ad assumere la guida di una guerra lontana e di cui non si intravvedeva
storia storia dei greci/12
dall’alleanza all’impero Chi affida agli altri la propria difesa, per pigrizia o «pacifismo», finisce per diventare schiavo del suo protettore: sembra questo il senso di quanto scrive Plutarco, biografo del II secolo d.C., nella Vita di Cimone: «I confederati, a quel tempo (…) aspiravano solo a vivere in pace, dal momento che i barbari si erano ritirati e non davano piú fastidio. Perciò non armavano le navi e non mandavano soldati (…) [Cimone] dagli alleati che non desideravano prestare servizio militare, si faceva dare del denaro; accettò navi senza equipaggi; lasciò che gli altri, adescati dal piacere dell’ozio, rimanessero a casa, e per il folle amore degli agi si trasformassero da guerrieri in contadini, in mercanti imbelli, mentr’egli imbarcava a turno sulle triremi tutti gli Ateniesi, li temprava per mezzo di continue spedizioni, e in breve tempo con la paga stessa che fornivano loro i confederati li rese signori di chi li pagava. Gli altri, dopo un po’ che non combattevano, presero il vezzo di temere e inchinarsi a chi solcava instancabilmente i mari, aveva sempre le armi in mano, e si rafforzava e agguerriva grazie alla loro inerzia; sí che senza accorgersi da alleati passarono nella condizione di tributari e schiavi». (traduzione di Carlo Carena, Mondadori 1984)
La prua era munita di rostro, uno sperone ligneo rivestito di bronzo che serviva a sfondare e affondare le navi nemiche.
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In alto: la Olympias, replica di una trireme ateniese, costruita tra il 1985 e il 1987 in un cantiere del Pireo. In basso a sinistra: un particolare del rostro della nave.
il termine; e l’indiscutibile potenza ed efficienza ormai universalmente riconosciute alla flotta ateniese. Inoltre, proprio in quel periodo prendeva piede in Atene una politica che continuava a proporsi la lotta antipersiana come principale obiettivo, e che, allo stesso tempo, cercava di mantenere con Sparta un rapporto formalmente amichevole. Non era tuttavia questa l’intenzione di Temistocle, che dei teti – il ceto sociale meno privilegiato – voleva fare la base per una evoluzione politica interna in senso sempre piú democratico, e che perciò
non si prefigurava una pacifica coesistenza con l’oligarchica e conservatrice Sparta. Accadde cosí che, assieme ai suoi sostenitori, egli fu sconfitto nelle elezioni che si tenevano annualmente per l’elezione delle cariche pubbliche. E, dopo qualche anno, nel 471/70 a.C., colui che era stato il salvatore di Atene subí addirittura l’onta dell’ostracismo da parte dei concittadini (vedi box a p. 83). La direzione della polis attica fu allora presa da due uomini capaci ed equilibrati, Aristide e Cimone.
capacità, che sarebbe confluito in una cassa comune. Sebbene la cassa fosse controllata da amministratori ateniesi, gli «ellanotami», essa fu collocata presso il santuario di Apollo nell’isoletta di Delo, significativamente equidistante dalla Ionia e da Atene. Negli stessi anni, grazie alla preveggenza del pur incompreso Temistocle, Atene fortificò il nuovo porto del Pireo, con i suoi tre bacini ancor oggi utilizzati dalla città: Munichia e Zea, per uso militare, e il piú ampio Kàntaros, destinato ai commerci. Non solo: con le risorse della città e con i denari della Lega, ci si propose di L’età di Cimone Il primo, in passato spesso in com- allestire ogni anno venti nuove petizione con Temistocle, fu il vero triremi. Fu cosí che Atene sempre architetto dell’alleanza che si andò piú consolidò e impose la sua poistituzionalizzando, detta poi Lega tenza sull’Egeo, che divenne quasi delio-attica. Il secondo – figlio di un «lago ateniese». Milziade, il generale di Maratona – non solo riportò le ultime, splendi- L’egemonia di Atene de vittorie militari contro la Persia, Ma fu lo stesso meccanismo ma donò alla sua città e alla Grecia delle deleghe e dei tribuun ventennio di relativa armonia e ti a trasformare grapace interne, che è stato forse in- dualmente Atene giustamente trascurato dalla storia, da leader della Lega abbagliata dagli splendori della suc- a polis egemone, e la cessiva età periclea tanto quanto il nuova alleanza in un d o m i n i o Partenone sull’Acropoli ha eclissato esercitato dalla città piú potente il bel Theseion nell’Agorà. sulle altre (vedi box nella pagina acAristide vantava già da tempo la canto). I risultati di questa tendenza fama di «giusto», e la incrementò in furono ben presto evidenti. Gli occasione della creazione della Le- Ateniesi si impadronirono di Sciro, ga. Poiché non tutte le città, specie isoletta collocata sulla importante le piú piccole, possedevano i mezzi rotta verso Dardanelli, e poi ridusper fornire navi e marinai alla flotta sero alla ragione con le armi la piú comune che doveva proseguire la settentrionale Taso, che aveva tenguerra, egli concordò che il loro tato di uscire dalla Lega poiché apporto potesse essere costituito da ostile alla decisione di Atene di un tributo in denaro, stabilito in fondare una colonia sulla vicina misura proporzionale alle rispettive foce dello Strimone, in Tracia, a
due passi dalle ricche miniere aurifere del Pangeo. Se questi atti di prepotenza non suscitarono un malcontento tra gli alleati tale da mettere in crisi l’alleanza fu anche perché i Persiani si erano affacciati ancora una volta minacciosi sulla scena. Questa volta, però, i Greci presero di contropiede il nemico, spingendosi al di fuori dell’Egeo e andando ad aggredire la ricostituita flotta persiana prima a Cipro e poi sulle coste della Panfilia, presso il A destra: la sezione di una trireme con i tre ordini di vogatori distinti, dall’alto, in traniti (1), zigiti (2), e talamiti (3).
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In basso: disegno ricostruttivo del profilo di una trireme. L’imbarcazione, utilizzata come nave da guerra, sfruttava come energia propulsiva, oltre alla vela, tre file di rematori disposti sulle fiancate dello scafo.
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storia storia dei greci/12 teatro e democrazia Nelle Supplici, tragedia di Eschilo datata tra il 463 e il 461 a.C., si afferma a un certo punto che il popolo di Argo, riunito in assemblea, ha votato di accogliere la supplica delle protagoniste del dramma: quella sua è definita una «dèmou kratoúsa chèir» (la «mano sovrana del popolo»). Ma proprio sul ruolo dell’Areopago si incentra un’altra tragedia eschilea, le Eumenidi, parte conclusiva della trilogia dell’Orestea. Al di là della vicenda del protagonista, Oreste, che verrà assolto grazie al voto areopagitico – a cui sono chiamati «i migliori» tra gli uomini – dalla colpa di aver ucciso la madre Clitemnestra per vendicare il padre Agamennone, è importante il contesto ideologico-politico in cui va collocato il dramma. Al tribunale di Ares viene infatti solennemente affidato da Atena il compito di giudicare anche in futuro i delitti di sangue, come quello di Oreste, sottraendoli con ciò al tradizionale principio sostenuto dalle Erinni (le «Furie») del «sangue chiama sangue» tipico della arcaica pratica della vendetta. E questo è precisamente l’unico ruolo lasciato all’Areopago dalla coeva riforma di Efialte. Inoltre, è sempre Atena a sottolineare quale sia la nuova via politica intrapresa ormai senza remore dagli Ateniesi: «Né l’anarchia né il dispotismo: questo precetto voglio che rispettino i cittadini che hanno a cuore la Città».
fiume Eurimedonte. Qui Cimone colse una magnifica vittoria (in una data imprecisata tra il 470 e il 467 a.C.) in cui distrusse totalmente le navi nemiche, in parte sorprese mentre erano tirate a secco.
Le due «gambe» dell‘Ellade La Lega delio-attica aveva potuto operare efficacemente in Asia anche perché la situazione in Grecia rimaneva tranquilla. Lo stesso Cimone era un filo-spartano (chiamò uno dei suoi figli Lacedemone), e la sua origine aristocratica era addolcita 86 a r c h e o
Oreste, raffigurato con il pugnale in mano, si è rifugiato nel tempio di Apollo a Delfi. Il dio, coronato di alloro, lo protegge dalle Erinni vendicatrici. Particolare di un cratere apulo a figure rosse, raffigurante le Eumenidi, dall’Orestea di Eschilo. V sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
da una innata generosità e magnanimità verso il popolo che lo faceva benvolere da tutti. Come racconta Plutarco, il suo biografo piú importante, finché fu lui al potere l’Ellade non parve mai «zoppa», vale a dire che procedette sempre sulle sue due «gambe» rappresentate da Atene e da Sparta. Fu proprio la volontà di rispettare fino in fondo questa ibrida alleanza tra una città profondamente oligarchica e tradizionalista e un’altra che invece si avviava a grandi passi verso un regime popolare, a costare la leadership a Cimone.
Nel 464, infatti, la Laconia fu devastata da una serie di violentissime scosse telluriche. Si narra addirittura che alcune cime del monte Taigeto precipitassero a valle. Le conseguenze piú gravi per Sparta non furono però la devastazione e la morte causate dal sisma, ma le successive, generalizzate sollevazioni degli iloti, in particolare quelli dell’indomita Messenia, che tentarono di abbattere il kosmos spartano, il sistema sociopolitico che la tradizione voleva fondato dal mitico Licurgo. Cosí i ribelli fortificarono
il monte Itome, e da lí resero impossibile la vita dei loro ex padroni. Sparta in difficoltà chiese aiuto agli alleati: era la prima volta che accoglieva volontariamente eserciti altrui nei propri domini. E anche Cimone accorse, con qualche migliaio di opliti ateniesi. Sicuramente già dal principio una spedizione effettuata in soccorso di un sistema di oppressione politica che appariva sempre piú lontano da quello fondato in Attica da Clistene non poteva essere ben vista dal demos. Le cose si complicarono ancora quando da un lato si vide che, anche in presenza dei rinforzi condotti da Cimone, nulla si riuscí a fare contro gli insorti, e, dall’altro, gli stessi Spartani, che pure li avevano richiesti, iniziarono a temere che
polari e nelle magistrature elettive. Essi posero mano a un deciso disegno riformatore, che esautorò l’unico istituto politico rimasto ancora non democratico: si trattava di un organismo vetusto e prestigioso, che si riuniva da tempi mitici sul colle roccioso di Ares ai piedi dell’Acropoli, l’«Areopago». Era, questo, l’ultimo caposaldo dell’aristocrazia, l’argine estremo alla scomparsa di un mondo arcaico, basato su antichi riti e consuetudini che la nuova Atene intendeva spazzare via per non avere ostacoli sulla strada di un progresso politico che l’avrebbe portata a realizzazioni inaudite per il mondo antico. Uno dei riformatori era Efialte, al quale si deve il provvedimento che sostanzialmente esautorò l’augusto Consiglio, attribuendone quasi tutti i poteri alla Boulé dei 500 e all’Ekklesía, l’assemblea popolare. Suo collega era un nobile, discendente per via materna da quel Clistene che aveva fondato il primo regime popolare di Atene, nonostante l’ostilità degli Spartani: Pericle, il figlio di Santippo. Tuttavia, in quello stesso anno decisivo, il 461 a.C., in città scoppiarono torbidi nel corso dei quali lo stesso Efialte cadde ucciso. Pericle rimase cosí il solo leader dei «democratici» ateniesi. E nel medela presenza di tanti liberi cittadini in simo periodo troviamo, in una traarmi nel proprio territorio si tra- gedia di Eschilo, la piú antica attesformasse in un ulteriore incentivo stazione di un termine che significa al rivolgimento sociale. E cosí, «potere del popolo»: la democrazia quando decisero di rimandarli in- (vedi box nella pagina accanto). (12 – continua) dietro affermando sprezzantemente che «non ne avevano piú bisogno», a pagare le conseguenze dell’infeli- le puntate di questa serie ce spedizione fu proprio Cimone, che venne ostracizzato nel 461 a.C. Ecco gli argomenti dei prossimi e rimase escluso per un decennio capitoli di questa storia dei Greci: dalla vita politica della città. • L’età di Pericle • La guerra tra Sparta e Atene • Una magnifica meteora: Il potere del demos Alessandro il Macedone Ma il malcontento del demos non era rivolto solo alla sua persona. • Mirabili frantumi: gli eredi dell’impero alessandrino Nuovi capi politici che puntavano a un totale compimento del pro- • Ellenismi senza fine. Alle origini di quello che siamo cesso di uguaglianza avviato cinquant’anni prima avevano preso il • Odi et amo: il contrastato rapporto tra i Greci e Roma sopravvento nelle assemblee poa r c h e o 87
storia l’uomo e la materia
La «macchina» del vasaio di Massimo Vidale
È difficile, forse impossibile, stabilire se la sua invenzione sia stata frutto del caso oppure l’esito di una progettazione elaborata «a tavolino». È però certo che la comparsa del tornio rivoluzionò la produzione della ceramica, aprendo la strada a una formidabile evoluzione e differenziazione delle forme, adattabili alle esigenze piú diverse
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Un vasaio lavora l’argilla al tornio, a Bhaktapur, in Nepal.
C
on l’acqua che scorre inarrestabile, le fiamme che danzano senza sosta nello spazio chiuso di un focolare (il vero «televisore» della preistoria) e il cestello della lavatrice (almeno per il mio gatto) il moto della ruota del vasaio condivide un fascino quasi ipnotico, e il potere di ispirare suggestive immagini di creazione. Cosí, nel V secolo a.C., scriveva Ippocrate (Della Dieta, 1, 22): «I vasai fanno girare la ruota, che non si muove nè in avanti, nè indietro, ma allo stesso tempo replica la rotazione dell’universo: e sulla ruota, mentre gira, essi creano cose di tutti i generi, ognuna differente dall’altra, anche se con la stessa materia bruta e gli stessi strumenti». Non male, per uno
dei mestieri piú umili e disprezzati dell’antichità. Uno dei tanti paradossi della ricerca archeologica, infatti, è proprio che i suoi adepti danno alla ceramica un’importanza soverchiante, e a volte, come notano con stupore i profani, sembrano interpretare la storia intera di popoli e civiltà deducendola dal mutare nei secoli di giare e tazzine. Io non credo che i profani, in questo caso, abbiano tutti i torti.
tori a datare con una certa precisione le stratigrafie), vi sono pochi dubbi sul fatto che la produzione ceramica, nel mondo antico, sia stata un fatto largamente secondario, sia dal punto di vista economico, sia da quello simbolico (malgrado qualche sforzo da parte di poeti e retori). Forse, proprio per questo, la questione della ruota o «tornio» del vasaio ha affascinato, e continua a farlo, schiere di archeologi e antichisti: il dispositivo permette loro di rintracciare nell’antichità i seSaperi ereditari Senza nulla togliere all’impor- gni di una prima meccanizzaziotanza di vasi e frammenti in ter- ne del lavoro umano, che sembraracotta (fondamentali soprattutto no quasi rendere il perduto monin quanto il materiale rimane do dei vasai del passato piú comsepolto, senza degradarsi troppo, patibile con quello odierno, e negli strati archeologici, e può meno «alieno» ai nostri sforzi di efficacemente guidare gli scava- razionalizzazione storica. a r c h e o 89
storia l’uomo e la materia Il tornio del vasaio permette di creare vasi dalle forme eleganti e sinuose, con pareti sottili e orli elaborati, e permette di produrli in serie omogenee e standardizzate, aumentando, allo stesso tempo, la qualità e la quantità del prodotto. Simboleggia anche apertamente la destrezza e il sapere cumulativo dell’artigiano. Forse per queste ragioni il suo uso, in quasi tutte le società tradizionali, è appannaggio esclusivo dei maschi che detengono il potere nelle famiglie. Inoltre, recenti studi etnoarcheologici dimo-
strano che le piú importanti tecniche di costruzione manuale dei vasi, tra le quali la famosa costruzione ad anelli d’argilla sovrapposti (chiamati in Italia cercini o colombini) possono essere imparate dagli apprendisti in due o tre anni di pratica, mentre l’addestramento preliminare al tornio richiede non meno di sette o otto anni di graduale adattamento psico-fisico. Per questa ragione le tecniche del tornio sono spesso trasmesse e apprese all’interno dei nuclei familiari, tramite l’ereditarietà delle occupazioni.
Movimenti rotatori E sulla base di questi complessi ragionamenti gli archeologi considerano il tornio da vasaio un indizio significativo di condizioni di avanzata complessità nella struttura delle società antiche. Il tornio da vasaio sfrutta la forza centri-
fuga generata dal moto rotatorio, quindi una fonte di energia in origine estranea al corpo umano. Il concetto non è diverso da quello che ispirò l’aggiogamento di un bovino o di un asino selvatico a un veicolo su ruota. Da questo punto di vista, il tornio da vasaio è una vera e propria macchina. Un dispositivo, per quanto semplice, contro i movimenti della mano umana: sembrerebbe una facile dicotomia, tanto piú che entrambi i modi tecnici agiscono su una materia morbida e plastica, cioè capace di mantenere in modo permanente le forme trasmesse dalla mano del ceramista, trattenendo quindi in se stessa la memoria dei propri cambiamenti. Molti pensano che sia facile distinguere un vaso «fatto a mano» da uno fatto con la ruota; ma l’esperienza insegna, al contrario, che vi furono innumerevoli modi di fabbricare i vasi con tecniche manuali, molte delle quali forse perdute per sempre, e che la semplice presenza sulle ce-
In quasi tutte le società tradizionali, l’uso del tornio è una prerogativa maschile
ramiche delle sottili linee di rotazione che tutti ben conosciamo non garantisce una immediata identificazione dell’uso del dispositivo. Inoltre, piú cerchiamo di approfondire la questione delle origini del tornio da vasaio, piú essa si rivela un tema intricato e ancora molto poco conosciuto. Nella prima metà del secolo scorso, l’archeologo australiano Vere Gordon Childe (18921957), anticipando con sicuro intuito e disinvoltura alcune delle riflessioni piú avanzate del moderno
approccio alla storia della tecnologia, aveva studiato l’evoluzione tecnica delle società umane dal punto di vista di ampie famiglie di processi tecnici strettamente imparentati tra loro sia dal punto di vista fisico che cognitivo.
la perforazione di osso, conchiglie e pietre per fabbricare perline, e il lancio di palle di pietra o bolas mediante lacci di cuoio o di fibre intrecciate per catturare le prede. Dato che la «domesticazione» del fuoco era cosa fatta almeno 400 000 anni fa, che le prime conchiglie perforate potrebbero risalire a Un’invenzione neolitica? Il moto rotatorio, come aveva capi- 80 000 anni fa circa, e che proiettito Childe, aveva ispirato e accomu- li compatibili con l’idea delle bolas nava innovazioni disparate, quali la hanno piú o meno la stessa età, produzione del fuoco con accendi- l’ideazione della ruota da vasaio ni lignei ad archetto e asta rotante, potrebbe affondare le radici in un passato paleolitico davvero remoto. Childe, tuttavia, legava l’adozione della ruota nelle industrie ceramiche alla rapida diffusione in Eurasia dei veicoli lignei su ruota, che si fa sempre piú evidente nel corso del IV millennio a.C., il periodo che gli archeologi chiamano «Calcolitico» (cioè «età del rame e della pietra»). E i carri su quattro ruote, se vogliamo fissare un punto ben preciso nel tempo, cominciano ad apparire nelle tombe dei membri degli strati piú alti delle società preistoriche intorno al 3500 a.C., dimostrando non tanto l’adozione del trasporto su ruota, quanto il fatto che il possesso e l’esibizione del carro e delle bestie era diventato motivo di vanto per gli aristocratici. Oggi, l’uso di tecniche di analisi complesse come la radiografia e la diretta osservazione dell’orientamento, nelle pareti del vaso, delle porosità, delle particelle minerali e
A sinistra: vasaio al tornio, statuetta in pietra calcarea. Antico Regno, V dinastia. Chicago, Oriental Institute Museum. In alto: vaso in ceramica dipinto a motivi geometrici, da Tell Hassan (Iraq). Periodo Tardo Halaf (V mill. a.C.). Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq. A destra: coppa in ceramica dipinta, da Tell Hassan (Iraq). Periodo Tardo Halaf (V mill. a.C.). Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.
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storia l’uomo e la materia foggiatura Alla ruota Schema della tecnica di foggiatura ceramica con il tornio a «doppia ruota». Il vasaio imprime un movimento rotatorio al volano (il disco inferiore) attraverso la spinta del piede, mentre con entrambe le mani modella l’argilla posta sul disco superiore.
Oinochoe etrusca. Parigi, Musée du Cabinet des Medailles de la Bibliotheque National de France.
persino dei cristalli stessi dei minerali argillosi hanno rivoluzionato la nostra comprensione dei vasi antichi. La scienza suggerisce che le prime ruote da vasaio iniziarono a girare nei laboratori degli artigiani del Vicino Oriente e dell’Iran settentrionale agli inizi del Calcolitico, intorno al 5000 a.C. Dato che gli archeologi colgono i risultati delle innovazioni (quando una tecnica si diffonde con successo in una società) e non dell’invenzione (quando la stessa tecnica viene ideata o sperimentata per la prima volta) possiamo dare per certo che il tornio da vasaio sia stato una piú antica invenzione neolitica (70005000 a.C. circa).
La ruota quadrata... Per risolvere le questioni piú difficili, almeno in diversi casi, gli archeologi si basano anche su esperimenti ben mirati, riproducendo le tecniche di una volta in condizioni di laboratorio oppure chiedendo agli artigiani contemporanei di replicarle. Grazie a questi esperimenti, sappiamo che una ruota in pietra o legno, per generare una forza centrifuga capace di foggiare un piccolo vaso, deve muoversi a una velo92 a r c h e o
foggiatura manuale Schema della tecnica di foggiatura a colombino. Il manufatto è ottenuto sovrapponendo e saldando tra loro cilindretti di argilla lavorati a mano.
A destra: vaso in argilla di epoca gallo-romana. Alessandria d’Egitto, Museo Greco-Romano.
cità minima di 60 rotazioni al minuto, un giro completo al secondo. Vasi piú grandi richiedono velocità maggiori (oltre a competenze particolari). Un giro al secondo significa ruote solide, stabili e ben lubrificate: in altre parole perfettamente funzionali. Al di sotto di questi standard, la ruota non può svolgere il suo compito. Ma come fu possibile inventare e soprattutto sperimentare gradualmente una cosa che per funzionare doveva essere già perfetta? Mi tornano in mente, a questo punto, le vignette di Johnny Hart (1931-2007), un disegnatore molto popolare anche in Italia tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Hart era il creatore di «B.C.», una spassosa ricreazione grafica e psicologica dei tempi della preistoria.Tra i protagonisti vi era Thor, il frustratissimo inventore della ruota, o meglio di un monociclo di legno e pietra rozzamente scolpita. Le vignette lo ritraevano su un prototipo di ruota di forma quadrata, che non poteva ovviamente rotolare e muoversi; e anche dopo il perfezionamento dell’invenzione, dato che le strade non erano state ancora inventate, il nuovo mezzo e i maldestri «piloti» cavernicoli travolgevano continuamente persone e cose. È logico che
le cose non potevano essere andate cosí. Tuttavia la critica di Hart riproponeva una sottile ma radicale polemica contro le teorie evoluzioniste di Darwin e la loro applicazione all’antropologia. Ripetendo all’infinito che la ruota non poteva essere stata il frutto di rozzi tentativi precedenti, Hart (che si era convertito a una Chiesa evangelista presbiteriana) ricalcava nella comicità una delle piú importanti critiche mosse alla teoria dell’evoluzione per mutazioni graduali e impercettibili, a tasso costante.
... e la lenta «tournette» Come poteva l’ala degli uccelli, perfettamente adatta alla sua funzione, essere giunta per gradi e tentativi alla sua forma attuale? Per funzionare, doveva per forza essere stata concepita da un «disegno» superiore. La risposta di Darwin, geniale e risolutiva, potrà esserci utile anche per capire le origini del tornio da vasaio (la vedremo alla fine di queste pagine). Ancora oggi, molti archeologi pensano che il tornio del vasaio derivi da una fantomatica «ruota lenta», spesso chiamata con il nome francese di tournette, parente prossima della ruota quadrata del nostro
Thor: una ruota ancora grezza e inefficiente, capace di girare e di assistere il vasaio nella costruzione dei recipienti, ma ancora in modo preliminare e maldestro. In effetti, molte delle ceramiche delle età del Rame, del Bronzo e del Ferro (dal V al I millennio a.C. circa) mostrano in superficie segni di rotazione, ma meno regolari e correnti, su pareti di regola piú spesse di quelle dei vasi fatti al tornio; tutti segni che sembravano suffragare l’esistenza di una «ruota lenta» come precedente fase evolutiva del tornio, nella rassicurante immagine di un cambiamento graduale e teso per definizione al miglioramento tecnico. La teoria tradizionale trascura due fatti: il primo è che di tale «ruota lenta» vi sono scarse tracce nelle testimonianze etnografiche, e che in alcuni casi nei quali sono stati osservati dispositivi del genere si tratta di «devoluzioni» di torni da vasaio perfettamente efficienti. Il secondo fatto è che il tornio è uno strumento tecnico infinitamente piú versatile e potenzialmente ibrido di quanto non si sia generalmente ipotizzato. Siamo troppo attaccati all’idea, tutta industriale e occidentale, che il tornio sia il modo «perfetto e ultimo» a r c h e o 93
storia l’uomo e la materia Pinax corinzio a figure nere da Penteskouphia (Corinto), raffigurante un vasaio che lavora la ceramica usando un tornio con perno fisso. 625-620 a.C. Parigi, Museo del Louvre.
Un vasaio nella sua bottega, incisione a colori da un manoscritto francese del XV sec.
di fare vasi. Siamo anche portati a pensare che, una volta introdotto il tornio, e dopo che ne siano state apprezzate le grandi potenzialità tecniche, la sua adozione sia immediata e generalizzata. È chiaro che questo modo di pensare dipende da una specie di orgoglio, se non di aperta presunzione, che si cela dietro alla nostra identità di «Occidentali evoluti».
Tecniche combinate La lezione che viene dalle tecnologie ceramiche non-industrializzate, al contrario, è che nessuna sequenza di lavorazione comporta una e una sola tecnica. Oggi gli artigiani dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina mescolano liberamente, e con notevole creatività, fasi di lavoro interamente manuali con altre nelle quali l’argilla è interamente trasformata dalla ruota. Forme per lo stampaggio, percussori e spatole sono usati su recipienti costruiti con i cercini e assottigliati sulla ruota, in un continuum tecnico difficilmente ricostruibile sulla base delle piú semplici analisi dei prodotti finiti. Personalmente, ritengo molto pro94 a r c h e o
babile che le «imperfette» tracce di rotazione sulle ceramiche delle età dei metalli fossero causate dalla rifinitura o dall’assottigliamento di vasi costruiti con tecniche manuali, ma messi in atto sul tornio del vasaio. Anche se sarà dimostrato in modo definitivo che il tornio fu, come si è proposto, una invenzione neolitica, ci vollero millenni perché fosse economicamente conveniente per gli artigiani dell’Occidente abbandonare le tecniche piú antiche, che avevano dato ottimi risultati per secoli, e impoverire gradualmente il proprio bagaglio tecnico fino ad affidare esclusivamente il proprio sapere alla «ruota cosmica» celebrata dalla metafora di Ippocrate. Per secoli, produrre di piú a costi minori, legando se stessi e le proprie famiglie a uno strumento esigente, e a una vita di lavoro sempre marginale e sottopagato, non era sembrata un’idea troppo brillante (con buona pace di certi progettisti dell’industria moderna). Non lasceremo i lettori all’oscuro dell’enigma della «ruota quadrata» di Johnny Hart e dell’ala degli uccelli. Darwin spiegò l’evoluzione della seconda dimostrando che
l’ala, all’inizio, era stata un organo della stabilizzazione della corsa e del salto, e che la sua funzione come propulsore del volo era stata dettata da un casuale e molto fortunato «cambio di funzione».
Antenati preistorici Per analogia, credo che gli antenati della ruota da vasaio andrebbero cercati nelle famiglie delle tecniche preistoriche che abbiamo sopra ricordato – fuoco, trapano, bolas – e probabilmente nella centrifugazione di alimenti liquidi o semiliquidi mediante canestri e altri contenitori organici – una pratica difficile da riscontrare nelle testimonianze archeologiche, ma troppo semplice ed efficace per non essere stata praticata da centinaia di migliaia di anni. Ma fu solo quando lo sviluppo della vita sedentaria, settemila anni fa, richiese quantità crescenti di vasi e vasetti a basso costo, magari coperti da disegni di aspetto attraente perché dovevano essere esibiti in pubblico, che moto rotatorio e forza centrifuga migrarono da accendini, perline e canestri ai vicini blocchi di argilla cruda.
archeotecnologia
Quando il vento portava di Flavio Russo
l’acqua
L’uomo imparò a sfruttare la forza delle correnti atmosferiche da tempi molto remoti, come dimostra, innanzitutto, l’elaborazione delle vele per la propulsione delle imbarcazioni. Un’applicazione che ebbe molti «figli», tra cui il mulino, uno strumento diffuso già al tempo del grande Hammurabi
S
ebbene si sia portati a collocare l’avvento del mulino eolico nel XII secolo, sui verdi prati olandesi per drenarne l’acqua, reputandolo perciò di gran lunga piú recente di quello idraulico, la sua antecedenza, invece, risulta ben piú remota. Dal punto di vista cronologico, infatti, la girante posta in rotazione dal vento debuttò alle soglie della storia in Mesopotamia, dove, paradossalmente, non fu impiegata per prosciugare i terreni, ma per irrigarli. Alle spalle dell’invenzione c’è la vela, nella sua connotazione piú arcaica: una stuoia di canne, fissata a un pennone orizzontale sospeso a un albero, mantenuto a squadro rispetto alla chiglia mediante varie funi, per sfruttare in pieno il classico vento in poppa. Progresso nautico che si reputa compiuto tra il VI e il IV millennio a.C., sebbene trovi riscontro esplicito solo dagli inizi del II in alcune raffigurazioni egizie. Sostanzialmente coevo è l’utilizzo di analoghe vele a scopo irriguo, come forse propose, e parzialmente attuò, il grande Hammurabi, che re-
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gnò tra il 1792 e il 1750 a.C., avendo constatato l’esiguità del dislivello fra il Tigri e l’Eufrate e i campi circostanti e la rilevanza dei venti dominanti. Traccia di tale iniziativa si ravvisa già nel preambolo del suo codice, in cui si vanta di essere: «il signore che ha decretato nuova vita per Uruk, portando acque abbondanti ai suoi abitanti».
A chi ruba la ruota... Hammurabi, naturalmente, non si riferiva soltanto all’acqua da bere, ma a quella per irrigare, che rozze macchine sollevavano dai canali riversandola nei campi coltivati. Gli eventuali dubbi sulla loro esistenza sono fugati dalla norma 259 dello stesso codice, che cosí recita: «qualora qualcuno rubi una ruota per l’acqua del campo, pagherà cinque sicli in denaro al proprietario». Che non si tratti di un semplice shaduf, ma di un congegno rotante lo conferma la norma 260, che cosí prescrive: «se qualcuno rubi uno shaduf (usato per trarre acqua dal fiume o dal canale) o un aratro
Stuoie di canne legate fra loro, con la medesima tecnica delle vele quadre delle primitive imbarcazioni, fissate a un pennone superiore, sostenuto da una fune che ne consentiva l’orientamento.
Ricostruzione grafica di una girante eolica mesopotamica, utilizzata per l’irrigazione dei campi: una sorta di giostra a vele quadre orientate dallo stesso vento
Il castello della girante era formato con leggeri pali, legati ad ogni spigolo fra loro, ai montanti verticali ed ai raggi orizzontali infissi nell’albero.
L’albero della girante era collocato all’incrocio di due coppie di assi paralleli orizzontali, che, costituendo una rudimentale boccola, gli consentivano di ruotare senza eccessivi attriti.
I pennoni che sorreggevano le stuoie erano fissati a pali verticali, formanti, con quelli orizzontali del perimetro e i radiali dell’albero, una sorta di castello, abbastanza robusto da sopportare anche venti violenti. Il supporto inferiore dell’albero si deve immaginare formato da un tronco forato, nel quale insisteva, lasciando fuoriuscire inferiormente soltanto la sua estremità, un po’ piú sottile, munita di perni radiali per la trasmissione del moto alle macine.
L’intera macchina era mantenuta in posizione stabile da quattro spessi pali verticali, alla cui estremità superiore stavano fissate le due coppie di assi.
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archeotecnologia A destra e nella pagina accanto, in alto: prospetto e planimetria di un mulino afgano a doppia girante.
pagherà tre sicli in denaro». Sia per la contiguità delle norme, sia per la divaricazione delle penali, sembra dunque logico concludere che ruota per l’acqua e shaduf fossero diversi, inducendo a ravvisare nella prima un archetipo della coclea attribuita ad Archimede, notoriamente già impiegata lungo il Nilo intorno al VII secolo a.C., dove peraltro lo è ancora. Una pompa idraulica ideale in Mesopotamia, poiché poteva assicurare con poco sforzo una portata cospicua con scarsa prevalenza: fondamentale la prima, dato che occorreva molta acqua per l’irrigazione, compatibile la seconda per la ricordata esiguità del dislivello tra fiumi e campi.
Semplice, ma efficace Non siamo in grado di stabilire quale fosse il congegno eolico destinato a far girare le ruote di Hammurabi, di certo sappiamo che in quella stessa regione, proprio intorno al VII secolo a.C., comparve una singolare girante eolica di razionale concezione, che per la storia è il piú arcaico motore primario.Vari indizi inducono a crederla simile agli appena piú recenti mulini eolici cinesi ad asse e pale verticali, per uso irriguo. Di straordinaria semplicità, non richiede venti forti e costanti, in quanto può funzionare anche con lievi e mutevoli brezze, e la si deve immaginare simile a una sorta di giostra di pertiche legate fra loro e intorno a un albero verticale centrale. In dettaglio, due telai orizzontali uguali, superiore e inferiore, di otto o di sei lati, di 3-4 m circa ciascuno: da ogni loro spigolo partono un listello radiale, che va a incastrarsi nell’albero, e dei montanti verticali, di 3 m circa, che uniscono i telai. A ogni montante è fissata una stuoia, in grado di orientarsi, cosí da offrire da un lato la massima resistenza aerodinamica e la minima da quello opposto, grazie alla disposizione 98 a r c h e o
altra pala esposta
pala esposta al vento
vano uscita del vento
locale macine
obliqua delle pertiche del telaio inferiore, che gli impediva di disporsi come altrettante banderuole nel vento, annullandone la spinta. Col tempo, per incrementarne la robustezza, si costruirono giranti di diametro via via minore e vele di altezza sempre maggiore, finendo per innestarle direttamente all’albero. Questo divenne cosí il rotore di un’antesignana turbina, che lasciava esposte al vento solo poche pale, mediante una stretta e lunga feritoia lasciata nella torre che lo conteneva, tecnicamente definibile statore, criterio informatore tutt’ora adottato per convogliare il fluido sulle pale delle turbine. Emblematicamente si rintracciano nel sanscrito l’aggettivo tur-as e il verbo tur-ami col significato rispettivo di «veloce» e di «affrettarsi». Implicito il senso dinamico della radice tur, recuperata dal latino prima e dall’italiano poi, acquisendo un significato piú specifico di moto veloce e vorticoso, quindi rotatorio, precipuo dei cicloni o dei gorghi: turbine, tornado, perturbazione e, per analogia figurata, turbamento come improvviso e radicale cambiamento dello stato d’animo. Ma an-
che turbante, per la striscia di tessuto fatta girare intorno al capo. L’archetipo dell’ampia famiglia di mulini ad asse verticale, il mulino afgano, o persiano che dir si voglia, consta di un albero munito di varie stuoie a raggiera fungenti da pale, alla cui estremità inferiore è incastrata e resa solidale una macina orizzontale di pietra, posta sopra un’altra identica, ma fissa.
Otto ali e due pilastri La rozza girante sta inserita in un apposito edificio, sulla cui sommità due travi ravvicinate originano un rudimentale ceppo, per l’estremità superiore dell’albero, garantendone l’assetto verticale e la rotazione. Un’antichissima fonte cosí li descriveva: «Hanno otto ali e stanno dietro due pilastri tra i quali il vento deve spingere un cuneo. Le ali sono montate verticalmente su un palo verticale la cui estremità inferiore muove una macina che ruota sopra un’altra sottostante». I due pilastri formano, in realtà, l’accennata fessura, larga poco meno della stuoia, ma di pari altezza, attraverso cui penetra il vento, tra quelle vallate di direzione costante
Ricostruzione virtuale di mulino afgano a doppia girante.
edificio
girante
vano uscita
Edificio turriforme contenente la girante e munito di sottile feritoia nel lato sottovento e di ampia apertura svasata in quello opposto, per favorirne la fuoriuscita senza turbolenze.
Coppia di assi con due piccole traverse centrali, disposte in modo da formare una sorta di boccola superiore per l’albero della girante.
Le pale, o vele, sono montate su di una struttura di sottili pali radiali, posti su piú livelli e fissati al centro dell’albero. Soltanto una metà di esse, grazie alla feritoia, si trova esposta al vento, provocando perciò la rotazione della girante.
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archeotecnologia
Batteria di mulini afgani, di identiche dimensioni e disposti tutti con il medesimo orientamento.
gran parte dell’anno. Un’altra fonte piú recente, infatti, precisa che: «nell’Afghanistan tutti i mulini a vento (…) sono mossi dal vento del nord e quindi orientati in questa direzione.Tale vento è molto costante in quel paese e soffia con maggior costanza e piú forza durante l’estate. Applicate ai mulini a vento vi sono delle file di persiane che vengono chiuse o aperte per trattenere o immettere il vento. Infatti se questo è troppo forte la farina brucia e diventa nera e la stessa macina può surriscaldarsi e guastarsi». Il descritto mulino eolico a orientamento fisso, non si avvaleva di alcun cinematismo, né di alcun riduttore di giri, peculiarità che, nonostante l’infimo rendimento, ne spiega l’eccezionale longevità, forse la maggiore nell’ambito della storia tecnologia. I mulini eolici occidentali hanno la girante ad asse orizzontale o lievemente obliquo, con un evidente vantaggio energetico: essendo,
infatti, tutte le pale investite insieme dal vento imprimono tutte un’identica spinta sull’albero, la cui somma determina una resa di gran lunga superiore all’afgano. A differenza di quest’ultimo, però, proprio per poter essere sempre esposta in favore del vento che soffia di volta in volta, tale girante ha bisogno di essere orientata, a mano o con un organo meccanico detto timone, in
una macchina ritenuta talmente nota ai suoi lettori, da non richiedere ulteriori spiegazioni: per noi, invece, solo l’etimologia ci é di aiuto per identificarla e, riconoscendosi nel vocabolo la parola «vento», il suo senso complessivo era di una macchina azionata dal vento, forse un mulino ad asse orizzontale. Volendo fugare ogni dubbio, non fosse altro per la rilevanza che la girante eolica riveste nella storia della tecnologia, il brano di Erone è inequivocabile quando precisa che quella piccola girante ha «ali simili a quelle dei mulini a vento. Quando queste ali, mosse dal vento, fanno girare il disco F, anche l’asse gira (...) Si può spostare il basamento che sostiene l’asse in modo di approfittare sempre del vento dominante per produrre cosí un movimento di rotazione piú rapido e continuo». La necessità di orientare l’asse della girante per poter sfruttare il vento del momento, ribadendo che l’anemourion fosse una girante eolica, fa escludere però che lo fosse di tipo afgano, incongruo per tale spostamento.
Le vallate dell’Afghanistan godono di venti costanti per gran parte dell’anno
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sostanza un’enorme bandoliera. La trasformazione, che anche in questo caso rimonta all’antichità, trova esplicita menzione in un trattato di Erone (I secolo d.C.), e, per la sua indubbia autorità assume, valore dirimente. Descrivendo il suo organo pneumatico, si sofferma sulla ruota a palette impiegata per produrre l’aria compressa necessaria al suo funzionamento, simile a quella di un’odierna elettroventola. Per lui, però, somigliava a un anemourion,
Antichi ieri e oggi Al seguito del marito/2
La dedizione delle Auguste Da Ottavia, sorella di Augusto, a Elena, madre di Costantino: anche in condizioni disagevoli, lontane dagli agi di Roma, le imperatrici scelsero di scortare i propri mariti da un capo all’altro dell’impero ome abbiamo scritto nella puntata precedente (vedi C «Archeo» n. 322, dicembre 2011)
sul finire dell’età repubblicana, le donne cominciarono a prendere l’abitudine di seguire i propri mariti nelle loro missioni. In seguito, a distinguersi furono soprattutto le donne della famiglia imperiale. Prima fra tutte fu Ottavia che, nel 40 a.C., vedova ventinovenne del primo marito, Marcello, e incinta, il fratello Ottaviano – il futuro Augusto – aveva dato in sposa al collega e rivale Marco Antonio, già caduto, peraltro (ma non ancora confesso), nella rete di Cleopatra. Ottavia seguí subito il nuovo marito, con la figlioletta Antonia, appena nata, ad Atene, dove la coppia si stabilí per qualche tempo, mentre Antonio era impegnato nelle sue campagne di guerra contro i Parti. Quando, nel 37 a.C., Antonio decise di tornare in Italia per un incontro «al vertice» con Ottaviano, Ottavia, di nuovo incinta, non volle che il marito andasse da solo, convinta di poter interporre i suoi buoni uffici di sorella e di moglie, per la riappacificazione dei due cognati in urto tra loro. Raggiunto l’accordo, Antonio e Ottavia, ripartirono alla volta dell’Asia Minore, ma, a Corfú, col pretesto
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A destra: busto in marmo di Marco Aurelio (161-180 d.C.), da Lamunia. II sec. d.C. Istanbul, Arkeoloji Muzeleri. Particolare della Colonna di Marco Aurelio, eretta a Roma, per celebrare le vittorie dell’imperatore sulle popolazioni germaniche. Nella pagina accanto: busto in marmo di Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio, dai dintorni di Tivoli. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. L’imperatrice fu sempre a fianco del marito, che seguí durante le campagne militari contro Quadi e Marcomanni, e, piú tardi, in Siria per combattere la rivolta di Avidio Cassio.
di Romolo A. Staccioli
di non esporla a rischi e fatiche, Antonio rimandò indietro la moglie, affidandola alla protezione del fratello. Non si sarebbero piú rivisti. Non solo, ma nel 32, Ottavia fu ripudiata da Antonio, che ormai si dichiarava apertamente marito di Cleopatra. Benché umiliata, l’ormai ex moglie non s’arrese e, in un estremo tentativo di strappare Antonio alla regina d’Egitto, ripartí da Roma per incontrarlo, recando con sé uomini e mezzi per le sue guerre in Oriente. Ad Atene, però, la raggiunse una lettera dell’ex marito, che le ingiungeva di fermarsi e che, dopo avere appreso della sua intenzione di raggiungerlo in Siria, per evitare d’incontrarla, se ne tornò precipitosamente ad Alessandria, tra le braccia di Cleopatra. Di guerra in guerra Un’altra illustre esponente della famiglia imperiale a seguire il marito fu Giulia, la figlia di Augusto, che, rimasta anche lei vedova, di un altro Marcello, figlio del precedente, fu dal padre data in sposa ad Agrippa. Col nuovo marito, nel 16 a.C., Giulia si recò in Oriente, accolta ovunque con grandi feste e onori. Poi, però, morto Agrippa nel 12, preferí la bella vita di Roma e si guardò bene dal seguire in Germania il terzo marito,Tiberio, il quale, peraltro, dopo qualche anno, disgustato dalla sua condotta, decise di lasciarla andandosene in volontario esilio a Rodi. Non esitò invece a seguire Druso la figlia di Ottavia (e di Marco Antonio),Antonia Minore, che si trasferí in Gallia quando il marito, tra il 12 e il 9 a.C., fu impegnato nelle spedizioni militari contro i Germani che condussero le legioni romane fino all’Elba. E nel 10 a.C., a Lugdunum (l’odierna Lione), dove s’era stabilita, dette alla luce Claudio, il futuro imperatore. In Germania seguí il marito Germanico la figlia di Giulia e di Agrippa,Agrippina Maggiore. Quando Germanico, nel 12 d.C., fu
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Cammeo con l’effige dell’imperatore Settimio Severo, in primo piano a sinistra, Giulia Domna, alle sue spalle, e, a destra, i figli Caracalla e il secondogenito Geta. Fine del II-inizi del III sec. d.C. Parigi, Cabinet des Medailles. L’imperatrice fu sempre accanto al marito, fino alla morte, a Eburacum, in Britannia.
inviato da Augusto a riprendere la guerra per vendicare il disastro di Teutoburgo,Agrippina, innamoratissima del marito, seria e feconda come la tradizione voleva che fossero le matrone romane, si trasferí a Colonia, portando con sé il figlioletto Gaio (quello che, calzando abitualmente piccoli sandali di foggia militare – le caligae dei legionari – si guadagnò il soprannome di Caligola col quale passò alla storia). Nella stessa Colonia Agrippina dette alla luce, nel 15, la figlia Agrippina Minore (la futura madre di Nerone, e prima... Coloniese di rango della storia), in onore della quale l’imperatore Claudio, che l’aveva sposata nel 49, elevò al rango di municipio il suo luogo di nascita che, chiamato fino ad allora Oppidum (o Ara) Ubiorum, ebbe il nuovo nome di Colonia Claudia Augusta Agrippinensis. Agrippina seguí poi il marito anche in Siria, nel 17, e fece ritorno a Roma (nel 19), solo alla morte, improvvisa (e sospetta) di Germanico, le cui ceneri essa riportò in patria perché fossero tumulate nel mausoleo di Augusto, nel Campo Marzio. A quella che era nel frattempo diventata una consuetudine (e, forse, per certi versi un obbligo del proprio stato) non si sottrassero le mogli degli imperatori del II secolo. Anche quando si trattò di affrontare i disagi e i pericoli delle zone d’operazione o, quanto meno, delle immediate retrovie, nelle quali, lasciando la tranquillità di Roma e
gli agi del palazzo, si trasferivano. Naturalmente non alloggiando sotto una tenda o nella baracca di un forte legionario (il cui accesso, peraltro, era vietato alle donne), ma in una dignitosa dimora eretta in uno dei borghi civili che di solito si trovavano a ridosso delle installazioni militari. Anche Sabina, che pure con Adriano (sposato all’età di dodici anni, quando lui ne aveva ventiquattro) ebbe un rapporto esasperato da reciproca incomprensione, fu fedele
compagna del marito – forse piú attento e sollecito nei confronti del bell’Antinoo – in quasi tutti i suoi numerosi e lunghi viaggi attraverso le province dell’impero. Ed era con lui in Egitto quando, durante la crociera con la quale, in un mite autunno, risalirono il Nilo fino a Tebe, proprio Antinoo trovò immatura e crudele morte nelle quiete acque del fiume. Faustina Minore, moglie (a quindici
anni) di Marco Aurelio, seguí il marito quando questi, nel 167, dovette accorrere alla difesa del confine danubiano, improvvisamente attaccato e sfondato dalle bellicose tribú germaniche dei Quadi e dei Marcomanni. «Madre degli accampamenti» S’era sistemata a Sirmio (l’attuale Sremska Mitrovica) nei lunghi anni della guerra, durante i quali, per la sua costante presenza, a fianco dell’imperatore, tra le truppe, venne
da queste acclamata «madre degli accampamenti» (mater castrorum, come si legge su una moneta coniata in suo onore). Quando poi, nel 175, terminate le guerre germaniche, Marco dovette correre in Siria per fronteggiare la rivolta di Avidio Cassio, governatore di quella provincia, Faustina fu di nuovo al suo fianco. Finché, proprio durante il viaggio, non la colse la morte, quando aveva da poco
compiuto i quarantasei anni, in uno sperduto villaggio della Cappadocia, chiamato Alala, che da allora, per volere dell’imperatore, fu detto Faustinopolis. Di fronte a tanta dedizione e a cosí chiara manifestazione di maritalis adfectio, c’è da rimanere veramente perplessi a leggere le notizie forniteci dalla Historia Augusta, che, dopo averci informato di una relazione adulterina dell’imperatrice col genero LucioVero (che poi lei stessa avrebbe fatto uccidere con un piatto di ostriche avvelenate), scrive anche di peggio (Vita di Marco Aur., XIX). L’imperatrice avrebbe piú volte approfittato delle assenze del marito da Roma, per recarsi a Gaeta dove amava frequentare i marinai del porto e i gladiatori della locale palestra tra i quali sceglieva i suoi amanti occasionali. Sarà stato vero? O si trattò di pettegolezzi suscitati dal rifiuto della gente comune di credere che potesse essere figlio di Marco Aurelio lo scellerato Commodo, dedito alle gozzoviglie con gli eroi dell’arena coi quali amava anche misurarsi in combattimento? Fino in punto di morte Tra la fine dello stesso secolo II e gli inizi del III, fu Giulia Domna a mantenere viva la tradizione ormai consolidata. La sua immancabile presenza accanto a Settimio Severo (variamente documentata, oltreché dalle fonti storico-letterarie, dalle epigrafi, dai bassorilievi e dalle pitture), ci induce a ritenere che essa non abbia mai abbandonato il marito; nemmeno durante le sue numerose campagne militari.Almeno nei primi tempi. Prima cioè che, momentaneamente sopraffatta nella lotta politica contro il potente prefetto del pretorio, Plauziano, si ritirasse nel suo «salotto letterario», che nel palazzo riuniva un’ampia schiera di amici a ragionare di
filosofia, di religione, di storia. Ma, quando il 4 febbraio del 211, a Eburacum (l’odiernaYork), in Britannia, Settimio Severo morí ancora una volta in una «zona d’operazioni» – lei era presente al suo capezzale. Delle mogli degli effimeri «signori della guerra» che si succedettero sul trono di Roma, ognuno per brevissimo tempo, nei cinquant’anni che passarono dall’assassinio di Alessandro Severo all’avvento di Diocleziano, nel novembre del 284, non è nemmeno il caso di parlare. Paolina, Tranquillina, Otacilia Severa, Etruscilla, Cornelia Supera, Magna Urbica, mogli – tra le altre – rispettivamente, di Massimino il Trace, Gordiano III, Filippo l’Arabo, Decio, Emiliano, Carino, che per anni avevano seguito le peregrinazioni dei loro mariti tra le piú sperdute guarnigioni di provincia morirono, perlopiú, subito dopo esser diventate Augustae; alcune addirittura poco prima d’aver raggiunto il soglio imperiale. A quella meta non riuscí ad arrivare nemmeno Elena che pure non ebbe alcuna esitazione a seguire il giovane e aitante ufficiale, Costanzo (detto «il Pallido») che, avendola conosciuta come cameriera in una bettola di Naisso (l’odierna Nis, in Serbia) ed essendosene appassionatamente invaghito, se la portò via, facendone la sua concubina. Divenuta cosí «moglie di fatto», peraltro legalmente riconosciuta, Elena fu per alcuni anni costantemente al fianco del suo uomo, da un capo all’altro dell’impero. Fino a che non venne abbandonata, per «ragioni politiche», nel 284 (quando Diocleziano volle che Costanzo Cloro sposasse Teodora, figliastra del suo collega Massimiano), dopo che aveva messo al mondo il figlio Costantino. Il quale, arrivato al trono, l’avrebbe un giorno riscattata dall’oscurità, portandola a corte e ricoprendola di onori. (2 – fine)
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L’età dei metalli Le civette d’argento Sfruttato sin dall’epoca micenea, il giacimento minerario del Laurion fu tra le principali fonti di ricchezza della città di Atene greci attribuivano al titano Prometeo non solo il merito di Iavermiti donato agli uomini il fuoco, ma
Ancora oggi i resti archeologici sparsi nelle colline del Laurion attestano l’importanza del sito sia per l’estrazione del minerale, che anche di aver insegnato loro come scoprire i minerali che sono nascosti per le successive fasi metallurgiche legate alla produzione dell’argento, sottoterra. La coltivazione dei giacimenti metalliferi era, in Grecia, che avevano luogo anch’esse una tecnica assai antica: i filoni di oro nell’area, non lontano dagli affioramenti. e argento dell’isola di Sifnos, nelle Cicladi, venivano scavati sin dalla preistoria. I ricchi giacimenti di Procedimenti complessi galena argentifera del Laurion, in Dalle gallerie si portava alla luce la Attica, erano sfruttati già in età galena argentifera, un solfuro di micenea. Queste miniere erano piombo contenente grosse quantità localizzate su un’area alquanto estesa, del prezioso metallo, per la cui ad appena 60 km a sud-est di Atene, estrazione occorrono complessi vicino a Capo Sunio, e costituirono trattamenti fusori. una delle principali fonti di Al Laurion le piú antiche ricchezza della città.Atene utilizzava coltivazioni vennero eseguite a cielo l’argento del Laurion per coniare i aperto. L’ascesa politica ed suoi tetradrammi, monete che economica di Atene generò una recavano l’immagine di Atena e crescente richiesta di argento, della civetta – l’uccello sacro alla rendendo necessario sfruttare dea –, e che costituivano il simbolo minerali piú ricchi e filoni di stesso dell’egemonia della polis. maggiore potenza rispetto a quelli
di Claudio Giardino
superficiali. Iniziò cosí l’estrazione mediante pozzi che seguivano la falda metallifera all’interno del calcare, scendendo anche a notevole profondità, talvolta fino a 120 m. Per la loro rilevanza e l’ottimo stato di conservazione le miniere del Laurion offrono un buon esempio del livello raggiunto dalla tecnica mineraria in età greca. I pozzi, che scendevano verticalmente verso le profondità della miniera, erano di forma regolare, a sezione quadrata o rettangolare, e misuravano generalmente poco meno di 2 x 1,5 m circa. Incavi laterali scavati nella roccia permettevano un appiglio o l’agganciamento di scale; all’esterno del pozzo un argano posizionato centralmente permetteva la risalita del minerale attraverso un sistema di carrucole e funi. Le gallerie avevano generalmente sezione rettangolare, quadrata o trapezoidale; erano piuttosto basse: la loro altezza era generalmente di una sessantina di centimetri e comunque non superava il metro, obbligando i minatori a scavare supini o distesi sul fianco. La scarsa ventilazione e l’elevata temperatura (che cresce sottoterra di 1 °C ogni 30 m di profondità) contribuivano a rendere
Dalla zecca di atene
Una moneta «pura» Lo sfruttamento massiccio dei filoni del Laurion permise ad Atene non solo di disporre di metallo «fresco» per le coniazioni, e quindi di guadagnare sulla produzione, ma anche di mantenere sostanzialmente inalterato per quasi quattro secoli il titolo di argento nelle sue monete. Venne cosí, creata una salda reputazione di affidabilità, che consentí alle «civette» di essere accettate non solo nei territori direttamente influenzati dalla politica ateniese, ma anche in vaste aree dell’Egeo, in Asia Minore e persino nella Penisola arabica. I minerali argentiferi del Laurion possedevano un elevato contenuto di argento e scarse impurità: le monete ateniesi avevano quindi un contenuto di argento assai alto e molto poco rame in rapporto alle altre coniazioni coeve. Le analisi chimiche condotte sulle «civette» del V secolo a.C. hanno indicato come la presenza di rame fosse inferiore allo 0,25% e quella di oro pari allo 0,04% circa. Nel III secolo a.C. il contenuto di rame oscillava fra lo 0,01 e lo 0,06%. Si consideri come le monete d’argento greche prodotte da altre poleis mostravano invece un tenore di rame assai piú elevato, fra lo 0,89 e il 2,77%. Questa minore qualità spiega bene il successo della moneta ateniese sui mercati del Mediterraneo.
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i tetradrammi
Sacri ad Atena In Grecia per la monetazione veniva usato soprattutto l’argento. Il possesso da parte di Atene dei ricchi giacimenti del Laurion permise alla polis di coniare una grande quantità delle sue monete, i tetradrammi, pezzi d’argento del peso di quattro dracme, pari a 16,5 g. Essi iniziarono a essere prodotti alla fine del VI secolo a.C. e assunsero presto un ruolo dominante nei commerci internazionali, grazie alla prosperità di cui godeva la città. I tetradrammi ateniesi erano comunemente chiamati «civette» per l’immagine che vi era raffigurata sul rovescio, all’interno di un quadrato incuso – vale a dire incavato rispetto al piano
disagevole e faticosa l’attività di scavo, illuminata da torce di legno resinoso e da lucerne in terracotta, alcune delle quali sono state rinvenute nelle antiche coltivazioni. È stato calcolato che, in quelle condizioni, un minatore potesse avanzare di circa una dozzina di centimetri ogni 10 ore di lavoro. Fortunatamente i Greci erano soliti scavare le loro miniere in suoli geologicamente solidi e stabili, come scisti e calcari, limitando cosí almeno il pericolo di crolli. Gli strumenti di lavoro erano fabbricati in ferro e consistevano sostanzialmente in una mazzetta a testa piatta da un lato e appuntita dall’altro – non molto dissimile dall’attuale martello da geologo –, in uno scalpello, in un piccolo piccone e in un badile per raccogliere il minerale scavato. Un obolo per minatore Intorno alV-IV secolo a.C. in Attica e, piú in generale, nel mondo greco, le miniere appartenevano allo Stato, che era proprietario sia dei diritti di estrazione, sia del terreno in superficie; poteva però appaltare a privati mediante il pagamento di un canone.Atene ricavava dalle miniere del Laurion un profitto considerevole che ammontava a 100 talenti d’argento, quindi a 2.620 kg, considerando che un talento corrisponde a poco meno di 26,2 kg. Erodoto racconta che nel 482 a.C. gli Ateniesi decisero, su proposta di Temistocle, di rinunciare alla distribuzione fra i cittadini della rendita annua delle miniere a favore della costruzione di navi da guerra.
della moneta –, nel quale era rappresentata appunto una civetta, l’animale sacro ad Atena, ad ali chiuse e con la testa riprodotta frontalmente. Il dritto recava invece la testa della dea Atena con l’elmo crestato. Dopo la vittoria sui Persiani, nel 449 a.C. Atene decretò che le poleis della Lega Delio-attica dovessero cessare di battere moneta, lasciando tale funzione unicamente ad Atene. Da questo momento, quindi, il tetradramma divenne la prima valuta internazionale della storia. La sua produzione raggiunse l’apice durante l’età di Pericle, tra il 450 e il 430 a.C.
A destra: l’impianto di lavaggio per il filtraggio dell’argento nei pressi della miniera del monte Laurion, in Attica. Nella pagina accanto: tetradramma ateniese con, al rovescio, l’immagine della civetta, uccello sacro alla dea Atena.
Sappiamo che al Laurion il lavoro in miniera era svolto da schiavi, di proprietà dei cittadini ateniesi e di «meteci», termine con cui si designavano gli stranieri greci residenti nella città. Sia nel periodo classico, sia in età ellenistica lo scavo in miniera costituiva per il mondo greco una delle forme piú dure di schiavitú. È stato calcolato che i minatori raggiungessero il numero delle 10-20 000 unità; a ciascuno di essi era corrisposto un salario giornaliero di un obolo, che veniva versato al suo padrone. Per avere un’idea del valore si deve pensare che, nel IV secolo a.C., ad
Atene si poteva comperare con un obolo poco meno di un litro di vino. Sebbene la maggior parte dei cittadini possedessero soltanto pochi schiavi, sappiamo dalle fonti che alcuni ne avevano oltre cinquecento. A tale proposito era anzi celebre Nicia, l’uomo politico ateniese protagonista della sfortunata spedizione contro Siracusa, che ne possedeva un migliaio, specificamente adibiti al lavoro minerario; egli giunse a darli in affitto a un tale Sosia il Trace, a condizione che l’affittuario ne assicurasse la sostituzione in caso di morte.
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Medea e le altre
di Francesca Cenerini
Il bandolo della guerra Quale lezione possiamo trarre dalla vicenda di Lisistrata, la donna «che scioglie gli eserciti», che, con le sue compagne, si propose di sostituire gli uomini nella gestione del conflitto fra Sparta e Atene? Una giovane donna con un fuso in mano, raffigurata all’interno di una stanza, particolare di un vaso attico a figure rosse. Seconda metà del V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.
notizia di qualche mese fa: una senatrice belga, Marleen È Temmerman, ginecologa e parlamentare, ha invitato tutte le donne del suo Paese ad astenersi dal sesso, allo scopo di spingere i politici fiamminghi e valloni a uscire dalla crisi e a formare un nuovo governo (il lunghissimo
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stallo, protrattosi per oltre 500 giorni, si è concluso agli inizi dello scorso dicembre, n.d.r.). La stessa senatrice ha ricordato che questa sua proposta ha illustri precedenti, primo tra tutti la Lisistrata di Aristofane, rappresentata per la prima volta ad Atene alle gare teatrali Lenèe
oppure alle Grandi Dionisie, feste in onore del dio Dioniso, nel 411 a.C. La trama è notissima. Atene è in guerra con Sparta da quasi vent’anni: la protagonista Lisistrata porta un nome cosiddetto parlante, in quanto serve a qualificare la sua funzione sulla scena: «Lisistrata significa infatti “colei che scioglie gli eserciti”, e dunque caratterizza esattamente l’impresa che l’eroina si accinge a compiere» (Maria Paola Funaioli, Introduzione ad Aristofane, Lisistrata, Lorenzo Barbera Editore, Siena 2009, p. XXII), vale a dire quella di fare cessare la guerra e portare Atene e Sparta (e le città alleate) a fare la pace. Il blitz sull’acropoli Dopo il disastro della spedizione ateniese in Sicilia (415-413 a.C.), gli intellettuali ateniesi del tempo si trovavano nella necessità di confrontarsi sul tema della salvezza della polis. Aristofane mette in scena la sua commedia: tutte le donne greche, capitanate dall’ateniese Lisistrata, si sarebbero astenute dal sesso con i loro mariti, fino a che questi non avessero posto termine all’inutile guerra sanguinaria. Allo scopo di tagliare i fondi alle attività belliche, le donne stesse, con un colpo di mano, si sarebbero impadronite dell’acropoli di Atene e avrebbero posto sotto al loro controllo il tesoro della Lega attica, conservato presso il Partenone. Infatti, per portare a buon fine il suo progetto, Lisistrata coinvolge le donne di tutta la Grecia. Da lei convocate, le
donne arrivano dalla Beozia e dal Peloponneso. Da Sparta arriva Lampitò, cosí abbronzata e in forma da essere in grado di strozzare un toro. Il militarismo degli Spartiati, infatti, imponeva alle donne un esercizio fisico costante all’aria aperta, in quanto si riteneva che corpi femminili atletici generassero con piú facilità guerrieri robusti e in grado di sopportare ogni sforzo e fatica. Le donne greche mettono in atto il loro piano e occupano l’acropoli di Atene. Le raggiunge il commissario della città, che ha il compito di farle recedere dai loro propositi. Per prima cosa, il commissario chiede la restituzione del denaro, ma Lisistrata glielo nega, proprio perché il denaro è il primo motore di ogni guerra. D’ora in poi, davanti a un commissario esterrefatto, le donne amministreranno il denaro pubblico, come, da sempre, hanno oculatamente fatto ciascuna con i beni del proprio oikos (casa). Lisistrata è sempre stata una perfetta padrona di casa, è sempre stata consenziente alla volontà del marito, ha sopportato le sue decisioni tacendo e senza mai intromettersi, perché «è compito degli uomini occuparsi della guerra» (v. 520). Nell’Iliade, Andromaca aveva obbedito a Ettore e non aveva interferito nelle sue decisioni. Ma i tempi sono cambiati: la stupidità degli uomini ha condotto la città al disastro, per cui il dovere delle donne è quello di rimboccarsi le maniche e di rimediare ai guai combinati dai cittadini greci: d’ora in poi tocca «alle donne occuparsi della guerra» (v. 538). La salvezza di tutta la Grecia è nelle loro mani. Come una matassa La domanda del commissario è abbastanza scontata: come pensate di riuscirci? La risposta di Lisistrata è geniale (vv. 567-570): «Come una matassa, quando è ingarbugliata, la prendiamo cosí, ci infiliamo da sotto i fusi, sia di qua che di là, allo stesso modo sbroglieremo anche questa
guerra, basta che ce lo lasciate fare, mandando ambasciatori sia di qua che di là». E ancora (vv. 574-586): «Come con la lana grezza: prima bisogna metterla a bagno e lavar via l’untume dalla città, poi stenderla su un letto e batterla con un bastone per eliminare le rogne e le spine, poi cardare quelli che si associano per spartirsi le cariche pubbliche, poi levargli i peli di testa. Dopo, pettinare in un cesto la concordia comune, mescolando tutti, i meteci, gli stranieri che vi sono amici, e anche i vostri debitori, tutti insieme; e per Zeus, tutte le città che sono colonie di Atene, dovete riconoscere che sono per voi come fiocchi di lana, caduti lontano qua e là; e allora prendeteli tutti, riuniteli qui in un unico fiocco, e poi fatene un grande gomitolo, e con quello tessete un mantello per il popolo» (traduzioni di Maria Paola Funaioli). Con non poca fatica, Lisistrata riesce a tenere unito il suo gruppo di donne senza defezioni, anzi, alcuni mariti sono appositamente sedotti, ma non riescono ad avere un rapporto sessuale con la moglie che si nega all’ultimo momento. Alla fine, il buon senso prevale e Spartani e Ateniesi fanno la pace e le donne possono tornare a occuparsi delle loro faccende domestiche. Come interpretare questa commedia? Come ha acutamente notato nei suoi scrittiValeria Andò, non si tratta di un banale sciopero del sesso, ma di una discesa in campo delle donne che invadono, con i loro saperi tradizionali (per esempio la tessitura) un campo, quello politico, da sempre esclusivo appannaggio maschile. La studiosa nota che «La drammatizzazione del conflitto tra i sessi, cui si assiste nella Lisistrata,
comporta la sospensione temporanea dell’ordine tradizionale, che la guerra ha reso ormai insostenibile, e l’alterazione dei confini tra femminile e maschile» (in L’ape che tesse, Roma 2005, pp. 59-60). Nel «mondo alla rovescia» inventato dal comico Aristofane, i ruoli di genere, maschile e femminile, si invertono: le donne occupano gli spazi pubblici e parlano di politica e gli uomini stanno ad ascoltare. Le donne, inoltre, rivendicano il loro dovere di procreare cittadini per la polis, ma non vogliono vederli morire in guerra. È evidente, crediamo,
Statua di epoca moderna raffigurante Leonida, eretta a Sparta. Considerato il condottiero spartano per eccellenza, il re guidò l’esercito greco contro i Persiani di Serse, con i quali combatté alle Termopili, nel 480 a.C.
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che in questa esternazione di Lisistrata ci sia una chiara presa di distanza dall’elogio che aveva fatto Pericle dei cittadini ateniesi morti all’inizio della guerra del Peloponneso, riportato da Tucidide (II, 34-36): le donne dovevano essere orgogliose dei loro figli caduti per la patria, la cui eccellenza giustificava il morire per lei, e, in ogni caso, delle donne si doveva parlare il meno possibile, nel bene e nel male. La tradizione per la pace Non dobbiamo dimenticare che le donne messe in scena da Aristofane sono «personaggi» e, in quanto tali, rifuggono da qualsiasi caratterizzazione contemporanea, come la contrapposizione femminista/misogino. La riflessione di Aristofane è amara: la guerra senza fine di Atene sta logorando le risorse, umane e materiali, della città e, addirittura, si può pensare di ricorrere all’attività di chi, tradizionalmente, non si occupa di politica, anzi ne è volutamente escluso. Le donne utilizzano le loro tradizionali tecniche: la seduzione, la tessitura, l’amministrazione della casa e mettono a disposizione a scopo pubblico, eccezionalmente, date le circostanze, questi loro saperi. Il finale della Lisistrata è ancora positivo: gli uomini, spronati dalle donne, fanno la pace, e ognuno può tornare a dedicarsi alle attività che gli sono tradizionalmente attribuite (le donne la casa, gli uomini la politica). Non a caso Lisistrata è definita (v. 1108) «la piú coraggiosa», ma la parola greca andreiotáte è riferita semanticamente alla parola anér, uomo: il coraggio può essere solo
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aristofane
La vita del poeta Poche sono le notizie sulla vita del poeta Aristofane (445 circa-dopo il 388 a.C.). Fu tra i pritani (i 50 membri della sezione a cui spettava la presidenza della boulé ateniese) della sua città, ma non partecipò alla vita politica, che pure ha parte cosí grande nella sua opera. Fu premiato piú volte ai concorsi delle Dionisie e delle Lenee. Scrisse una quarantina di commedie, di cui solo 11 ci sono giunte. Una delle piú riuscite, Le nuvole (423), è una burla della filosofia di Socrate. Prende nome dal coro, costituito da nuvole, in cui si perdono i filosofi. Capolavoro di fantasia, di brio e di splendida lirica è Gli uccelli (414). Alla base della commedia c’è il desiderio di una vita naturale, diversa da quella voluta dagli uomini. Due vecchi ateniesi, Pistetero (compagno fedele) ed Evelpide (sperabene), stanchi di una città litigiosa, decidono di fondarne in mezzo all’aria una nuova, la città degli uccelli, con cui impadronirsi dell’universo, costringendo gli dèi a venire a patti per fame, quando sia intercettato il fumo dei sacrifici con cui si nutrono. La Lisistrata («colei che scioglie gli eserciti», 411) rappresenta la vicenda delle donne ateniesi che si rifiutano ai loro mariti per obbligarli alla pace; anche gli Spartani sono poi indotti a chiedere la pace da un’analoga decisione delle proprie mogli. Le rane (405) è una satira su Euripide che, avvicinato nell’Ade da Dioniso, il quale vuole riportarlo sulla Terra, non supera il confronto con Eschilo, che il dio riconduce sulla Terra in vece sua. Il Pluto (388), ultima delle commedie di Aristofane, ha forme diverse (il coro non ha quasi piú importanza) e toni meno accesi delle altre. Un vecchio onesto e povero, Cremilo, chiede all’oracolo di Apollo se deve consigliare al figlio la disonestà per avere fortuna. La risposta permette a Cremilo di incontrare Pluto, dio della ricchezza; Pluto è cieco e perciò arricchisce i furfanti anziché i galantuomini, ma Cremilo gli ottiene da Asclepio la vista e allora le sorti degli uomini mutano. (red.)
Busto in marmo di Aristofane (445 circa-388 a.C.), autore della Lisistrata. Parigi, Museo del Louvre.
maschile, e Lisistrata ha dovuto assumere connotati virili per potere vincere la sua battaglia. Non è un caso che, proprio alla fine, Lisistrata debba fare ricorso alle conoscenze maschili per stipulare la pace in modo conforme alle regole. Per Aristofane, a mio parere, e lo confermerà la sua successiva commedia Le Ecclesiazuse, ovvero L’assemblea delle donne, messa in scena nel 392 a.C., casa e città, oikos e polis, sono e debbono rimanere, nella vita reale, due ambiti ben distinti e separati, con specifiche competenze di genere.
I Libri di Archeo DALL’ITALIA Marcello Barbanera (a cura di)
Relitti riletti Metamorfosi delle rovine e identità culturale Bollati Boringhieri, Torino, 510 pp., ill. col. e b/n 75,00 euro ISBN 9788833919195
Nella storia di ogni monumento o edificio del passato deve essere giunto il momento dell’ultima ricostruzione, dell’ultima manutenzione, prima che qualcuno giudicasse che non ne valeva piú la pena, e che la costruzione fosse abbandonata all’azione della pioggia, della polvere, infine dei saccheggiatori. Quel giorno fatidico – il momento, conscio o inconscio che fosse, dell’abbandono, vero legame tra la microstoria e quella dei grandi eventi – ha segnato, per innumerevoli costruzioni, il passaggio dalla sfera della vita e del continuo adattamento al mutare della società a quella del degrado e dell’oblio finale. Ci viene cosí rammentato che ogni creazione umana, oltre a essere fatta di materia e immagine, è anche un intreccio inestricabile di relazioni sociali, speranze e significati, che si estendono ben al di là del momento della sua creazione. Una volta abbandonato il monumento, se la materia inizia lentamente
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a invecchiare, l’immagine si decompone a maggiore velocità, e le relazioni sociali ritornano fluide, in attesa di coagularsi in nuove invenzioni, in nuovi progetti. In tal modo i «relitti» cominciano a essere sistematicamente «riletti», proprio mentre essi iniziano a mutare, nello sforzo di generare nuovi valori culturali, di negare o rafforzare, con le finalità piú disparate, le letture dei tempi precedenti. In questo volume Marcello Barbanera ha sapientemente raccolto i contributi presentati in occasione di un convegno tenutosi a Roma nel 2007. Racconta di essere stato spinto a questa ampia riflessione dalla sua intima conoscenza delle costruzioni di Roma e Berlino. La prima, capitale di un impero millenario, trasformato, al di là del crollo, nell’ideale cuore culturale dell’Occidente; la seconda, quasi rasa al suolo prima di potersi trasfigurare nella capitale di un’Europa imperiale della quale – comprensibilmente – nessuno vuole piú
ricordarsi. La materia ultima di queste riflessioni è un personale senso della fragilità della storia e delle vite individuali, alimentata dalla piú grande rovina della storia recente: il vuoto di Ground Zero, lo spazio negativo dell’assenza delle Torri Gemelle cadute l’11 Settembre 2001. Le Torri sono oggi una rovina tanto piú sinistra e incombente in quanto del tutto assente. Chi lo volesse, come ben spiega questo volume, potrebbe davvero intraprendere una ricerca seguendo il filo che connette le «rovine invisibili» di edifici storici e monumenti scomparsi dalla superficie terrestre: basti pensare alla Torre di Babele, al tempio di Gerusalemme, al Labirinto di Erodoto, alle costruzioni di Alessandria e alla Bastiglia: l’immortalità storica, il «valore mnesico», sembrano garantiti piú dalla totale scomparsa che dalla conservazione delle murature. «Sarebbe impresa titanica solo sfiorare le facce molteplici del poliedro rovina», afferma Barbanera, che si definisce scrutatore contemporaneo di rovine e decadimenti, ma anche della sopravvivenza, dei lampi di immortalità e ricerca di sapere che scaturiscono dai relitti del tempo. Il volume parte dalle valutazioni
politiche degli autori latini sulla devastazione dei paesaggi italici durante le guerre civili romane, alla lettura moraleggiante e nostalgica delle grandi rovine di Roma antica nel Medioevo e nel Rinascimento, per abbracciare le molteplici valenze della «pittura rovinista» tra la fine del Cinquecento e gli inizi dell’Ottocento, e poi la «poetica delle rovine», nata nell’Illuminismo come riflessione sulla condizione umana e dilatata all’inverosimile dai contrastanti sentimenti del Romanticismo. Si giunge infine al gusto estetico per il frammento come «capolavoro del destino», invece che per la completezza, idea maturata nello stesso arco di tempo, ma che sembra anticipare alcune delle piú radicali conquiste dell’arte moderna. Oltre la cortina delle suggestioni e delle idee, percepiamo la trama degli eventi storici, ma anche di tormentate scelte politiche, come le vicende quasi incredibili che ci vengono narrate da Yannis Hamilakis a proposito della continua manomissione dei lacerti delle costruzioni dell’Acropoli di Atene, nel nome della sistematica cancellazione del passato turco e di una impossibile rincorsa alla purezza formale che avrebbe ispirato il complesso originale del V secolo
a.C. Hamilakis ci narra puntualmente e con acume le tappe di una «monumentalizzazione classicistica» che ha caparbiamente rimosso ogni traccia del lungo vissuto del luogo, contrastata solo dalla «resistenza della materia», la capacità delle pietre e delle cose di narrarci alcuni eventi del passato, oltre ogni interesse contingente. Siamo poi condotti di fronte ai progetti (poco noti, e mai realizzati) di riuso del Colosseo, nel Seicento e nel Settecento, come sede di spettacoli popolari e cacce ai tori, oppure di filande, e alla sua graduale cristianizzazione; alla visionaria e possente progettazione urbanistica e archeologica di Giuseppe Valadier (17631839) sui ruderi del centro di Roma; ma anche alle rovine di Priene, Mileto e Pergamo, ricostruite a piú riprese negli ultimi due secoli sui propri siti archeologici, ma anche arbitrariamente musealizzate in Germania, come si vede al Pergamonmuseum di Berlino. Il volume narra dei programmi fascisti scatenati con il celebre «piccone del regime» sul patrimonio architettonico e archeologico del centro di Roma, e degli ingenti sforzi degli archeologi italiani di far risorgere le antichità greche e romane di Libia dalle sabbie delle coste mediterranee, in previsione di un prossimo futuro turistico della colonia. Vi è spazio anche per la ricreazione scenica del Palazzo di Cnosso in quanto rovina spettacolare e «brillante
falso d’autore», proposta come elemento portante della tesi di una culla cretese della civiltà europea. Vi è ben poco, in questo brulicare di eventi, in questo continuo scontro di interessi e vedute, della serena linearità storica con la quale spesso viene riassunta la storia artistica di monumenti e di intere città. Eppure tutto ciò ha anche il sapore di una perduta vitalità. I grandi progetti architettonici e urbanistici, nei quali le costruzioni coincidono con le distruzioni, che lo si voglia o meno, sono parti importanti dei grandi flussi storici. L’Europa dei regimi fascisti aveva sognato di rivivificare nel razionalismo la grandiosità dell’urbanistica romana imperiale; ma a essa spetta il singolare primato di aver creato colossali ammassi di rovine, senza che grandiosi monumenti avessero vita, o dopo sprazzi di vita davvero effimera. Albert Speer, l’architetto di Hitler, come si ricorda in alcuni passi del volume, aveva convinto il Führer a bandire dalle sue costruzioni acciaio e cemento armato, che si potevano corrompere, perché solo edifici fatti di materiali stabili come quelli usati dagli antichi Romani (mattoni e calcestruzzo) avrebbero potuto tramandare ai posteri la grandezza della Germania nazionalsocialista e del nuovo millenario Reich. Idee grandiose, destinate a finire nel nulla, pagate con milioni di morti e la devastazione delle parti migliori del continente
europeo (ma ancora capaci di destare aspiranti emuli tardivi, come, in Iraq, il caduto Saddam Hussein, che dalle rovine assire e babilonesi traeva giustificazioni per la sua immagine e le sue azioni). Man mano che scompaiono i testimoni diretti dell’era fascista, e con essi i ricordi piú tragici, tutto questo lentamente assume il sapore di un mondo parallelo e scomparso. E, oggi, mentre la palma dei primati economici e culturali sta inesorabilmente dissolvendosi dalle mani dell’Occidente per materializzarsi in quelle dei «giganti asiatici» di Cina e India, possiamo invece intuire che costruire, abbandonare e «rileggere» le rovine del futuro spetterà anche a interpreti di altre – e piú giovani – parti del mondo. Andreas M. Steiner Klaus Schmidt
Costruirono i primi templi 7000 anni prima delle piramidi Oltre Edizioni, Sestri Levante, 272 pp., XVI (tavole) 24,50 euro ISBN 978-88-97264-00-2
Da quando ne fu annunciata la scoperta, gli spettacolari apprestamenti di Göbekli Tepe, che ormai vengono considerati come la prima grande installazione templare della storia a oggi nota, hanno destato l’attenzione di un pubblico ben piú vasto di quello dei soli addetti ai lavori (vedi «Archeo» n. 279, maggio 2008). Per quanti
vogliano approfondire la conoscenza di questo straordinario contesto, è ora disponibile la traduzione in italiano della prima pubblicazione realizzata da Klaus Schmidt, l’archeologo al quale si deve l’importante ritrovamento. Il volume offre una disamina approfondita delle strutture riportate alla luce e, soprattutto, cerca di trovare risposte plausibili ai molti interrogativi che Göbekli Tepe ha fin dall’inizio sollevato, come, per esempio, quelli sulla funzione del sito o sui significati che si possono attribuire alle molte e variegate raffigurazioni scolpite e incise sulle misteriose stele. Stefano Mammini Stephan Streingräber, Friedhelm Prayon
Monumenti rupestri etrusco-romani tra i monti Cimini e la valle del Tevere Canino Info, Canino (VT) 10,00 euro ISBN 978-88-904507-1-6 Acquistabile on line sul sito www.canino.info
I nostri lettori conoscono l’enigmatico monumento etrusco-romano che si innalza nascosto nei boschi di Bomarzo presso Viterbo, denominato
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per la sua forma «la Piramide» (vedi «Archeo» n. 314, aprile 2011). Questa costruzione imponente, di ancora incerto significato e datazione, è la piú suggestiva, ma non l’unica, di una serie di strutture, perlopiú interpretabili come altari, ricavate nei massi tufacei che costellano il territorio viterbese compreso tra Soriano nel Cimino, Bomarzo e Vitorchiano. In una zona
ancora parzialmente incontaminata, ricca di boschi e fiumi, si trova, infatti, la massima concentrazione di are, monumenti funerari, altari e altre strutture rupestri non sempre facilmente definibili, in alcuni casi accompagnati da iscrizioni dedicatorie, tutte in latino. In questo «triangolo magico» tra le selve si innalzano queste particolari vestigia, spesso provviste di scalinate che portano alla cima del masso lavorato, che la tradizione popolare identifica con nomi eloquenti: «Sasso del Predicatore», «Sasso delle Madonnelle», «Altarone», «Piramide»... Questo patrimonio archeologico-naturalistico è ancora poco noto
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al grande pubblico, ma anche al mondo scientifico. Opera di due tra i maggiori studiosi di archeologia etruscoromana, il volume è la prima raccolta sistematica – 45 esemplari a oggi noti – di queste insolite e preziose emergenze archeologiche, schedate analiticamente, suddivise per tipi e località, corredate di immagini e trascrizione di epigrafi ove presenti, quasi sempre di carattere funerario. L’opera si rivolge sia al pubblico degli appassionati, preziosa anche per gli escursionisti «colti», sia al mondo accademico, contraddistinto da un giusto equilibrio tra la divulgazione intelligente e documentata e il rigore dello studio scientifico. Foto a colori, riproduzioni grafiche, l’estesa bibliografia e una mappa allegata con il posizionamento di tutte le emergenze completano il libro, primo, si auspica, di altri simili dedicati a nuove scoperte di questi monumenti affascinanti e un po’ magici, ancora protetti e celati nel cuore verde delle selve cimine. Francesca Ceci Elena Alessiato
L’impolitico Thomas Mann tra arte e guerra il Mulino, Bologna, 376 pp. 28,00 euro ISBN 978-88-15-14684-7
Scrittore che ha lasciato una produzione immensa, Thomas Mann fu anche un attento osservatore e indagatore della politica e dei meccanismi che la regolano. Ne è una prova il saggio
Considerazioni di un impolitico, pubblicato nel 1918, a partire dal quale Elena Alessiato propone un’analisi del pensiero filosofico del grande autore tedesco. I cui ragionamenti si rivelano almeno in parte debitori della grande tradizione classica, che possiamo leggere in filigrana in molte delle considerazioni sullo scontro fra culture e sul rapporto tra guerra e politica che segnarono il Novecento, secolo di cui Mann è stato uno dei protagonisti. S. M.
alla foce del Tevere, in prossimità del moderno centro di Fiumicino, sta fornendo risultati di grande interesse. E, con apprezzabile tempestività, è già disponibile un primo, ampio, bilancio delle indagini condotte fra il 2007 e il 2009. Il volume propone contributi che riflettono la natura interdisciplinare dello studio e permettono cosí di avere un’immagine a tutto tondo del contesto. Dopo due saggi sulle caratteristiche geologiche dell’area in cui il sito è ubicato, si apre la serie degli articoli dedicati alle informazioni acquisite grazie alle campagne di scavo: dati che dai quali
dall’estero Simon Keay e Lidia Paroli (a cura di)
Portus and its hinterland The British School at Rome, Londra, in collaborazione con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, sede di Ostia, 303 pp., ill. b/n + XVI tavv. f.t. 65,00 GBP ISBN 978-0-904152-60-9 www.oxbowbooks.com
Come abbiamo avuto modo di raccontare (vedi «Archeo» n. 298, dicembre 2009), la ripresa delle ricerche nell’area di Portus, l’antico porto situato
emerge d’un canto la complessità del contesto, che va rivelandosi assai piú articolato di quanto inizialmente immaginato, e dall’altro la grandiosità di molte delle sue strutture, come nel caso del palazzo imperiale. Vi sono poi contributi dedicati a due delle produzioni materiali piú importanti, cioè la ceramica e le monete, ai quali seguono gli studi sulla topografia del territorio e sul ruolo che Portus aveva al suo interno. Stefano Mammini