Archeo n. 325, Marzo 2012

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LA SFINGE DI VULCI

UR DEI CALDEI

PIRATERIA ETRUSCA

COLLEZIONE BORGHESE

SPECIALE UOMO DI NEANDERTAL

Mens. Anno XXVIII numero 3 (325) Marzo 2012 € 5,90 Prezzi di vendita all’estero: Austria € 9,90; Belgio € 9,90; Grecia € 9,40; Lussemburgo € 9,00; Portogallo Cont. € 8,70; Spagna € 8,40; Canton Ticino Chf 14,00 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

ARCHEO 325 MARZO

ESCLUSIVA

SFINGE NELLA CITTÀ DELLA

ULTIME SCOPERTE A VULCI SPECIALE

NEANDERTAL LE ORIGINI DELL’UOMO

ROMA

LA COLLEZIONE BORGHESE

€ 5,90

UR DEI CALDEI

I LUOGHI DELLA LEGGENDA



Editoriale Percorsi «Sapevamo dove cercarli, a ridosso del Cimitero Reale, e li abbiamo trovati: dopo ottant’anni i contorni delle case della missione erano ancora perfettamente visibili. Ma l’emozione piú grande fu la scoperta, di fianco alle tracce delle capanne, degli scarichi delle cucine: piatti, bottiglie, pentole, tazze da tè, flaconi di medicinali…». È stato un episodio di «archeologia dell’archeologia», quello vissuto qualche settimana fa dagli studiosi italiani in missione a Ur e riferitoci da Massimo Vidale, appena tornato dall’Iraq: le moderne suppellettili, sepolte nella sabbia di questo polveroso angolo del Vicino Oriente, erano quelle usate tutti i giorni da Charles Leonard Woolley, dal suo assistente Max Mallowan e dalla scrittrice Agatha Christie, durante la loro permanenza a Ur negli Anni Venti del secolo scorso. Sono oggetti evocatori di un singolare percorso esistenziale che, in quegli anni, aveva unito uomini e donne nel segno di una straordinaria passione, quella della riscoperta delle grandi civiltà del Vicino Oriente antico… Di questi percorsi, della loro storia e, soprattutto, dei siti che li hanno ispirati, parleremo nella nuova serie che abbiamo voluto chiamare i «Luoghi della leggenda». Iniziamo oggi con un luogo mitico per eccellenza, la «Ur dei Caldei» (a pagina 40), per proseguire, nei numeri che seguono, lungo il tracciato di un nuovo periplo del mondo antico, vicino-orientale e mediterraneo. Senza trascurare, naturalmente, i grandi luoghi dell’archeologia in Italia, la cui riscoperta ci riserva, assai spesso, emozioni sorprendenti che niente hanno da invidiare a quelle che i nostri inviati hanno appena vissuto in Mesopotamia.Vi invitiamo, a questo proposito, a seguire il percorso del misterioso torrente riprodotto nell’immagine qui accanto. Vi condurrà in un luogo incantevole. Per sapere dove si trova con esattezza, andate a pagina 32… Andreas M. Steiner




n otiz iari o SCOPERTE Francia

Il divieto ignorato

A sinistra: cartina dell’Egitto; in evidenza, la posizione del sito di Qurta. In basso: immagini di Bovidi su una delle pareti del sito di Qurta. Le nuove ricerche hanno datato le raffigurazioni ad almeno 15 000 anni fa. Nella pagina accanto, in alto: la documentazione delle incisioni rupestri scoperte a Qurta dalla missione belga.

di Stefano Mammini Inghilterra Germania Gonesse Parigi

Oceano Atlantico

Spagna

Francia

Italia

Corsica Mar Mediterraneo

na quindicina di chilometri a nord-est di Parigi, nella citU tadina di Gonesse, la locale chie-

sa dei SS. Pietro e Paolo – una basilica realizzata tra il XII e il XIII secolo sul sito di una piú antica fondazione romanica e poi rimaneggiata nel XIV secolo – è stata interessata da indagini archeologiche avviate in seguito al progetto di rifacimento dell’impianto di riscaldamento dell’edificio. Quest’ultimo dovrà passare sotto il pavimento dell’edificio e, prima di posare cavi e tubature, l’area è stata affidata agli archeologi dell’INRAP. Che, fin dalla rimozione delle prime lastre, si sono imbattuti in una situazione di grande interesse. Testimonianze archeologiche e fonti documentar ie provano quanto fosse ambita la sepoltura all’interno dei luoghi sacri e i ritrovamenti di Gonesse ne sono l’ennesima conferma: aggirando i divieti piú volte emanati dalla Chiesa – che rimasero a lungo inascoltati –, anche gli spazi sotterranei della chiesa dei SS. Pietro e Paolo furono destinati alla deposizione dei defunti, e, a oggi, le indagini hanno individuato 79 sepolture, collocabili in un arco cronologico compreso tra

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il VI e il XV secolo. Si tratta, quindi, di un orizzonte assai ampio, che va dall’epoca dei sovrani merovingi fino a quella dei Valois, i cui esponenti furono tra i protagonisti della guerra dei Cent’anni. Le tombe sono distribuite su cinque livelli e presentano varie modalità di sepoltura: in cassa lignea, in sarcofago, in tombe costru-

In alto: Gonesse (Val d’Oise, Parigi). La navata centrale della chiesa dei SS. Pietro e Paolo, interessata dagli scavi che hanno finora riportato alla luce oltre 70 sepolture, databili tra il VI e il XV sec. Nella pagina accanto: un’archeologa impegnata nella redazione del rapporto di scavo per una delle tombe individuate nel corso delle indagini.


ite e intonacate, nella nuda terra. Elemento comune, al di là delle differenti epoche di appartenenza, è la povertà dei corredi funebri, mentre assai variabile è lo stato di conservazione delle spoglie, alle quali, in alcuni casi, sono associati frammenti di tessuto, soprattutto nelle tombe piú recenti, databili tra il XIII e il XIV secolo. Oltre a documentare l’utilizzo sepolcrale di una parte dei suoi spazi, le ricerche mirano a chiarire la storia della chiesa, delle cui fasi piú antiche si conosce ben poco. Infatti, con l’eccezione di pochi lacerti visibili alla base dell’attuale torre campanaria, quasi nulla rimane della fabbrica romanica. Al momento i dati acquisiti si limitano a tracce riferibili alla fondazione del

coro, ma si spera che il prosieguo delle indagini possa gettare nuova luce sulla storia dell’edificio. E, in questo senso, un indizio promettente sembra essere un muro intercettato in prossimità della facciata occidentale della

chiesa, che dovrebbe potersi riferire a una struttura realizzata nel corso del XII secolo. Ulteriori dati potranno essere ricavati dai reperti finora recuperati, che comprendono soprattutto ceramiche e lacerti di intonaco dipinto.


n otiz iario

MUSEI Roma

Nuova luce per i capolavori di Paolo Leonini

stato inaugurato, nello scorso dicembre, il nuovo allestimento È del primo piano del Museo Nazio-

nale Romano in Palazzo Massimo. Un rinnovamento che ha interessato le sale che ospitano i maggiori capolavori della scultura antica. Sin dall’inizio, colpisce la ricchezza delle opere r iunite nell’ampia sala dell’ex teatro (V), un’opulenza che riflette quella delle ville imperiali romane da cui le statue provengono e che fa da filo conduttore di questo primo nucleo. Le sculture sono distribuite in modo armonioso lungo la profondità dell’ambiente, con sufficiente spazio per apprezzare singolarmente ciascun capolavoro. Come nell’allestimento precedente, sono presentate in coppia le due Afroditi accovacciate e i due Discoboli, secondo un uso in voga

nelle grandi residenze dell’età imperiale. La sala VI è incentrata sull’immagine dell’atleta come ideale estetico, incarnato dai già citati discoboli. Nella sala VII si incontra il riallestimento piú importante: qui, infatti, è stato alzato un parapetto nel senso della lunghezza, che ha creato un corridoio e una ampia sala adiacente. Nel corridoio trova posto una sezione tematica incentrata sulla figura di Dioniso: colpisce, sullo sfondo, la grande protome del dio, in marmo pentelico, che campeggia sopra la porta di uscita, mentre lungo il corridoio sono allineate numerose sculture di dimensioni piú contenute. Nella sala vengono invece sviluppati i temi del mito e delle divinità dell’Olimpo nell’immaginario romano. Lo sguardo corre subito alla statua bronzea di Dioniso, sistemata in posizione centrale, nonché al torso del Minotauro, posto accanto al varco che collega con le sale IX e X.

L’ambiente successivo (sale IX e X), dedicato alle navi di Nemi, trasporta il visitatore in una coerente atmosfera acquatica, evocata dalle luci e dai colori scelti, nonché dal sottofondo sonoro del filmato multimediale.Vetrine allineate su due lati mostrano gli arredi in bronzo delle navi, mentre una lunga teca, al centro, espone i resti di una balaustra finemente cesellata. È inoltre disponibile un approfondimento multimediale, con un audiovisivo sulla storia delle navi e del loro recupero. L’ultima sala (VIII) presenta il volto d’avorio recuperato dal Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale nel 2003 ad Anguillara (Roma) e frammenti di altre sculture. Qui la penombra favorisce un’atmosfera raccolta e sospesa, mentre i reperti sono efficacemente presentati nella vetrina centrale – il volto – e in quella laterale – i frammenti. Pannelli a parete forniscono informazioni e approfondimenti sui manufatti e raccontano la storia del recupero.

DOVE E QUANDO Museo Nazionale Romano in Palazzo Massimo Roma, Largo di Villa Peretti 1 Orario tutti i giorni, 9,00-19,45; chiuso lunedí, il 1° gennaio e il 25 dicembre Info e visite guidate tel. 06 39967700; www.pierreci.it; http://archeoroma.beniculturali.it/

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Dal punto di vista museografico e museotecnico questo nuovo allestimento presenta vari punti di forza. Gli spazi sono adeguati, né dispersivi, né sovraffollati. Gli sfondi neutri, di tonalità scura, creano una quinta efficace, su cui si stagliano bene i profili delle sculture, anche per un osservatore distante. L’illuminazione, profondamente rinnovata, si avvale di un impianto incassato nel soffitto, che crea uno spazio piú netto e favorisce la concentrazione sulle opere. L’adozione di lampade a led risulta efficace, irradiando una luce abbondante, allo stesso tempo diretta e morbida. Una nota di merito per il video multimediale nella sala delle navi di Nemi; accattivante e di breve durata. L’impiego dei QR code, visibili su molti dei piedistalli delle sculture e sui pannelli di sala, vede il museo di Palazzo Massimo compiere un progresso anche sotto l’aspetto informatico. Connettendo il proprio smartphone all’apposita rete Wi-Fi del museo e scansionando il codice posto sui piedistalli delle sculture, il telefono aprirà una pagina internet con un interessante approfondimento tematico. Durante la visita, abbiamo anche avuto modo di constatare l’accessibilità dell’allestimento per utilizzatori di sedie a rotelle. Il museo dispone di proprie sedie, che mette a disposizione dei visitatori, e il piano – come l’intero edificio – è raggiungibile attraverso gli ampi ascensori, che collegano al livello -1 un ingresso con rampa per l’accesso dal piano strada. La disposizione dei piedistalli nelle sale non presenta problemi di spazio per il passaggio, cosí come le didascalie delle opere, tutte ben leggibili per un visitatore in posizione seduta, collocate sui bordi delle pedane o a parete ad altezza appropriata.

In basso: torso del Minotauro, da Roma, via S. Tommaso in Parione. Fine del I sec d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.

Nella pagina accanto, da sinistra: il volto d’avorio recuperato ad Anguillara, nel 2003; la Fanciulla di Anzio, metà del III sec. a.C. circa; la cosiddetta Teti, particolare del gruppo con divinità femminile e Tritone, da Roma, II sec. d.C. Roma, Museo Nazionale Romano.


n otiz iario

MOSTRE Venezia

Dal Caucaso alla Laguna rganizzata in occasione del Cinquecentenario della stamO pa a Venezia del primo libro in lin-

gua armena (1512), la mostra intende rappresentare una cultura storicamente molto legata alla città lagunare. Sono esposte le eccellenze prodotte dalla civiltà armena, lungo un arco temporale che va dal VI al XIX secolo, riunite a testimoniare una grande vivacità in una molteplicità di campi: arte e letteratura, architettura, economia, spiritualità e filosofia. Sono ampiamente trattati i rapporti con le culture europee e orientali e la relazione privilegiata con Venezia, e una intera sezione è dedicata alla pratica armena della stampa, documentata con esemplari tramandati dalle colonie di tutto il mondo e portata all’apice della sua qualità dalla laboriosa e

illuminata dedizione dei Padri Mechitaristi. Lungo il percorso – forte di oltre duecento opere – sfilano dipinti, sculture, arazzi, arredi sacri e numerosi libri a stampa, nonché una serie di rarissimi manoscritti e miniature, provenienti dai principali musei e biblioteche dell’Armenia e di vari Paesi europei ed eccezionalmente riuniti per l’esposizione.

DOVE E QUANDO «Armenia. Impronte di una civiltà» Venezia, Museo Correr, Museo Archeologico Nazionale, Sale Monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana fino al 10 aprile Orario tutti i giorni, 10,00-17,00 (dal 1° aprile, 10,00-19,00) Info call center, tel. 848082000; http://correr.visitmuve.it

Archeofilatelia

a cura di Luciano Calenda

L’antenato piú famoso Parlare di uomo preistorico significa, per l’immaginario collettivo, 1 andare con il pensiero all’uomo di Neandertal, i cui resti furono trovati nel 1856 in Germania, nei pressi di Düsseldorf, e a cui è dedicato lo speciale di questo numero (vedi alle pp. 66-85). Anche la filatelia ha fatto ricorso all’immaginazione popolare per rappresentare l’uomo di Neandertal sui francobolli che vari Paesi hanno emesso tra il 2005 e il 2006, quando è caduto il 150° anniversario della scoperta. Per questa carrellata abbiamo scelto solo valori con la citazione «Neanderthal» e non quelli, moltissimi, genericamente dedicati agli uomini preistorici. Innanzitutto un foglietto di St. Tomé e Principe con 4 valori del 2007 in cui sono abbinate figure umane con altrettanti minerali (1). Poi un valore di Cuba emesso nel 1997 (2) e un BF di Guinea-Bissau del 2005 (3). Ma la serie piú interessante è costituita dai BF di Malawi del 2006 (per i quali vi sono dubbi di autenticità postale), che riprendono gli uomini preistorici in vari atteggiamenti «quotidiani»: fabbricazione di armi (4a), di utensili (4b), di vasellame (4c) e infine scene di caccia (4d). Chiudiamo con un’emissione di Gibilterra del 1973 che, pur non avendo la scritta specifica, ricorda i 125 anni della scoperta di un cranio neandertaliano nel territorio della rocca (5); nel 2006 lo stesso evento fu ricordato anche da una serie di monete a corso legale (questa è la moneta da 1 sterlina) sul cui verso c’era la riproduzione del famoso cranio (6).

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IL CIFT. Questa rubrica è curata dal CIFT (Centro Italiano di Filatelia Tematica); per ulteriori chiarimenti o informazioni, si può scrivere alla redazione di «Archeo» o al CIFT, anche per qualsiasi altro tema, ai seguenti indirizzi:

Segreteria c/o Alviero Batistini Via Tavanti, 8 50134 Firenze info@cift.it, oppure

Luciano Calenda, C.P. 17126 Grottarossa 00189 Roma. lcalenda@yahoo.it www.cift.it


Si possono ammirare, tra gli altri, una croce in pietra tufacea, risalente al VII secolo e proveniente dalla località di Dvin, importante centro politico del regno armeno sin dal V secolo. Stele di questo tipo sono ricavate da un unico blocco di pietra e sono i precedenti diretti dei khachkar (cippi al cui centro è scolpita una croce decorata, assurti rapidamente a simbolo della tradizione religiosa del popolo armeno), di cui sono esposti due esemplari databili al IX secolo. Un grande passo nella determinazione di una civiltà si compie con lo sviluppo di una propria cultura letteraria, che non può prescindere dalla disponibilità di un alfabeto: nel caso della lingua armena esso fu inventato agli inizi del V secolo e il merito viene attribuito al monaco predicatore Mesrop Mashtots. Questi, volle dotare le comunità cristiane di una versione in armeno della Bibbia e, pertanto, mise a punto un alfabeto

In basso: rilievo con figura della Vergine. Inizi del XIV sec. Yerevan, Museo Statale di Storia dell’Armenia. Nella pagina accanto: l’Isola di San Lazzaro (Venezia).

con cui poi – sempre nel V secolo – tradusse dal greco i testi sacri. A testimoniare questa tappa decisiva è l’unico esemplare conosciuto di papiro con scrittura armena, datato al VI-VII secolo e proveniente dall’Egitto. Il carattere didattico del contenuto lo ha identificato come parte di un testo per l’apprendimento della lingua greca. L’imponente Vangelo di Trebisonda, invece, rappresenta un esempio di Bibbia in armeno; un manoscritto, risalente al X secolo, di cui sono ancora sconosciute sia la provenienza originaria sia l’autore. Oltre che nelle tre sedi museali coinvolte, l’itinerario dell’esposizione include i luoghi di Venezia in cui la presenza armena è stata particolarmente significativa. Tra questi, vi è l’Isola di San Lazzaro, dove, al termine della mostra, sarà trasferita – fino alla prossima estate – la sezione sulla tradizione tipografica armeno-veneziana. P. L.

Nelle terre di Palinurus elle terre affacciate sul golfo di Policastro (Salerno), abitate un tempo dagli Enotri N e ricordate nell’Eneide di Virgilio per le vi4a

cende collegate al nocchiero Palinurus, sorsero vari centri indigeni, tra cui l’importante città di Pixous. La storia del sito è oggetto del progetto di ricerca dell’Associazione Etruria Nova che, dal 1° aprile al 27 maggio, organizza il Secondo Campo Internazionale di Ricerca Archeologica, aperto a studenti e volontari. Quest’anno, contestualmente alle ricerche archeologiche, sarà avviato anche un progetto di ricerca bioarcheologica per ricostruire il paesaggio agro-forestale di Policastro. Info: www.etrurianova.org

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Metalli e misure

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l IV Convegno Internazionale di Archeologia Sperimentale, in programma a Civitella Cesi (Blera,VT) dal 13 al 15 aprile, avrà per tema «Il metallo come misura della ricchezza». Studiosi italiani e internazionali discuteranno delle tecnologie relative alla realizzazione delle antiche monete, nella prospettiva dell’archeologia sperimentale, strumento utile alla ricerca scientifica nella ricostruzione degli antichi processi metallurgici. Info: tel. 0761 415031; www.antichemetallurgie.com a r c h e o 11


n otiz iario

MUSEI Campania

Alla ricerca degli Irpini di Giampiero Galasso

llestito nel locale Castello Ducale, il Museo Archeologico di A Bisaccia (Avellino) ricostruisce la

storia del territorio in età protostorica e arcaica attraverso i corredi delle tombe della prima e della seconda età del Ferro (fine del IXinizi del VII secolo a.C.) scoperte nel sito di Cimitero Vecchio. Il percorso si apre con i ritrovamenti della prima età del Ferro (fine del IXinizi dell’VIII secolo a.C.), quando genti transadriatiche si insediano nella zona, particolarmente adatta all’agricoltura e alla pastorizia e posta a controllo dell’alta valle del fiume Ofanto, importante via di comunicazione tra l’Adriatico e il Tirreno. Sono esposte le caratteristiche forme biconiche in ceramica e gli oggetti in bronzo (armi, fibule) che costituivano parte del corredo personale del defunto in questo periodo. Dalla seconda metà dell’VIII secolo a.C. i corredi delle tombe di Cimitero Vecchio sono piú ricchi, specchio di un nuovo benessere. A

questa fase appartengono oggetti di rilievo, come quelli della tomba 76, riferibile a una giovane donna che svolgeva l’attività di tessitrice. La prima metà del VII secolo a.C. è un momento di intense trasformazioni culturali, con il passaggio dai gruppi familiari estesi, prima quasi egualitari, a un sistema gentilizio-clientelare basato sulla differenziazione sociale ed economica.

Nella necropoli l’emergere di un’ideologia di tipo gentilizio è evidente nella composizione dei corredi funerari, in molti casi caratterizzati da un livello considerevole di ricchezza: è il secolo dei principes. Complesse parure con ornamenti in ambra e in metalli, ceramiche decorate di importazione rinvenute in tombe di personaggi di rango elevato, testimoniano rapporti comIn alto: fibula a doppia spirale, dalla tomba n. 76, riferibile a una tessitrice. Seconda metà dell’VIII sec. a.C. A sinistra: Bisaccia (Avellino), località Cimitero Vecchio. La tomba n. 66, detta «della principessa», in corso di scavo. VII sec. a.C.

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merciali con la Daunia e la costa tirrenica. A questo secolo appartiene un nucleo di sepolture riferite ai componenti del gruppo familiare che esercita il controllo politico ed economico su tutta la comunità, tra le quali spicca la tomba 66 della «principessa», ricostruita in scala 1:1, con il suo ricco corredo. La tomba, datata al secondo quarto del VII secolo a.C. e intercettata dall’archeologo Gianni Bailo Modesti nel 1975 in un settore isolato della necropoli di Cimitero Vecchio, era simile alle altre sepolture: una grande fossa rettangolare coperta di pietre e ciottoli, al centro della quale, però, stava un grande lastrone di pietra bianca in funzione di segnacolo (sèma). Un ampio recinto di grossi massi, poi, creava intorno alla tomba un limite preciso, per indicare la presenza all’interno di un personaggio di rango. Rilevante è il corredo funebre: molti i vasi d’impasto (brocche, tazze, anforette) e d’argilla figulina (brocche, olle). Pregevoli sono quattro recipienti di bronzo importati dall’area etrusca. Ai piedi della donna erano un’olla da derrate, alcune fusaiole di bronzo e un fascio di tre spiedi di ferro, chiaro segno quest’ultimo della ricchezza agricola e prerogativa quasi esclusiva dei corredi funebri degli uomini connotati di solito come principes delle comunità indigene dell’entroterra campano. Armi e utensili di ferro e numerose fibule di bronzo spiccano, infine, nei corredi dell’età orientalizzante, che rappresenta l’apogeo dell’insediamento connesso alla necropoli di Cimitero Vecchio. DOVE E QUANDO Museo Civico Archeologico Bisaccia (AV), corso Romuleo Orario lu-ve e do, 11,00-13,00 e 17,00-19,00; sa, 17,00-20,00 Info tel. 0827 89196; www.museobisaccia.it



Calendario Italia ROMA

BARI

I Borghese e l’Antico

La vigna di Dioniso

Galleria Borghese fino al 09.04.12

Homo Sapiens

La grande storia della diversità umana Palazzo delle Esposizioni fino al 09.04.12

Vetri a Roma

CAORLE (VE) A sinistra: piatto blu con scena dionisiaca, da Albenga. II sec. d.C.

Curia Iulia, Foro Romano fino al 16.09.12 ANZOLA DELL’EMILIA (BO)

TerredAcque

Per un’anteprima del Museo Nazionale di Archeologia del Mare Centro Culturale «A. Bafile» fino all’08.12.12 CHIUSI

Anzola al tempo delle Terramare Museo Archeologico Ambientale fino al 16.12.12

Museo Etrusco di Chiusi + 110 Museo Nazionale Etrusco fino al 15.06.12 FERRARA

ASTI

Piatto da esposizione in maiolica istoriata con satiro a pesca.

L’amore al tempo della guerra

Etruschi

Museo Archeologico Nazionale fino all’22.04.12

L’ideale eroico e il vino lucente Tema dell’esposizione è il rapporto socio-culturale tra il Mediterraneo greco e orientale e il popolo etrusco. Gli Etruschi furono, infatti, una vera e propria cerniera culturale, e, attraverso i loro intensi traffici, diffusero, soprattutto verso l’Italia nord-occidentale, idee e costumi caratteristici del mondo greco-omerico e levantino. L’argomento viene sviluppato attraverso una selezione di 300 oggetti, in molti casi inediti, provenienti dai Musei Vaticani e dalle principali istituzioni museali e culturali italiane. A questi si aggiunge la ricomposizione di una tomba a camera etrusca dipinta, detta «della Scrofa nera», restaurata per l’occasione, nella quale compare una scena di banchetto aristocratico del V secolo a.C., suggestivamente ambientata nel suo contesto originale. Da segnalare anche, a suggello del percorso espositivo, un significativo ritorno in terra piemontese: viene infatti riproposto il lussuoso gabinetto «etrusco» del Castello di Racconigi, commissionato da re Carlo Alberto al genio artistico di Pelagio Palagi. Per la prima volta sono raccolti assieme disegni originali, arredi e decori dello studiolo neoclassico: un omaggio al rapporto fra Etruschi e Savoia e al gusto artistico «all’etrusca» che si diffuse in Europa fra Sette e Ottocento. DOVE E QUANDO Palazzo Mazzetti fino al 15.07.12 (dal 17.03.12) Orario ma-do, 9,3019,30; lu chiuso Info tel. 02 43353522; www.palazzomazzetti.it

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Rhyton attico a figure rosse, configurato a testa d’asino. V sec. a.C.

Vite, vini e culti in Magna Grecia Palazzo Simi fino al 15.04.12

MONTEFIORE CONCA (RN)

Sotto le tavole dei Malatesta Testimonianze archeologiche dalla Rocca di Montefiore Conca Rocca malatestiana fino al 30.06.12 NOVENTA DI PIAVE (VE)

Le memorie ritrovate

del monastero di Santa Chiara di Cella Nova a Padova Veneto Designer Outlet, CEMA (Centro Espositivo Multimediale dell’Archeologia) fino al 30.06.12. ORVIETO

Citazioni archeologiche

Luciano Bonaparte archeologo. Nuove acquisizioni Museo Claudio Faina fino al 15.04.12 OTRICOLI

Cose mai viste

Lo splendore di Ocriculum esce dai Magazzini Casale S. Fulgenzio fino al 31.05.12 PALESTRINA (ROMA)

La fondazione di Praeneste e Tusculum e lo sguardo del viaggiatore del Grand Tour

Museo Archeologico Nazionale di Palestrina fino al 25.03.12


Sarà gradito l’invio di informazioni da parte dei direttori di scavi, musei e altre iniziative, ai fini della completezza di questo notiziario.

Francia PARIGI

PIACENZA

I Galli

Abitavano fuori porta

Un’esposizione che vi sorprenderà Cité des sciences et de l’industrie fino al 02.09.12

Gente della Piacenza romana Musei Civici di Palazzo Farnese, Museo Archeologico fino al 31.12.12 (prorogata) TIVOLI

Adriano e Antinoo

Il fascino della bellezza Villa Adriana fino al 04.11.12 (dal 05.04.12) TREVISO

Manciú, l’ultimo imperatore Casa dei Carraresi fino al 15.05.12 VENAFRO

Splendori dal Medioevo

L’abbazia di San Vincenzo al Volturno al tempo di Carlo Magno Museo Archeologico di Venafro, ex monastero di Santa Chiara fino al 02.12.12 VENEZIA

Armenia. Impronte di una civiltà Museo Correr, Museo Archeologico Nazionale, Sale Monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana fino al 10.04.12

Belgio TONGEREN

Sagalassos, città dei sogni Museo Gallo-romano fino al 17.06.12

Vasi, lucerne e balsamari da vari corredi tombali, dalla necropoli di via Venturini a Piacenza.

STRASBURGO

Testimonianze di viaggio

100 000 anni di circolazione dell’uomo in Alsazia Musée Archéologique fino al 28.05.12

Germania BERLINO

Strade d’Arabia

Tesori archeologici dall’Arabia Saudita Pergamonmuseum fino al 09.04.12

A sinistra: testa maschile in bronzo, da Qaryat al-Faw (Arabia Saudita). I-II sec. d.C.

HALLE

Pompei, Nola, Ercolano

Catastrofi sotto il Vesuvio Landesmuseum für Vorgeschichte fino al 08.06.12

Grecia ATENE

Isole fuori rotta...

Un viaggio archeologico a Castelrosso, Simi, Calchi, Piscopi e Nisiro Museo di Arte Cicladica fino al 23.04.12

Svizzera GINEVRA

Al calar delle tenebre

Arte e storia dell’illuminazione Musée d’art et d’histoire fino al 19.08.12

USA

In basso: replica dell’affresco delle «Dame in blu», da Cnosso.

NEW YORK

Immagini storiche della Grecia nell’età del Bronzo

Le riproduzioni di Émile Gilliéron & Figlio The Metropolitan Museum of Art fino al 17.06.12

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L’archeologia nella stampa internazionale a cura di Andreas M. Steiner

e alla necessità di registrare piú dati tro fuori dalle mura di Pompei. Tra possibili prima della loro completa gli atenei attivi nell’area è da citare il Progetto Vesuviana, consparizione. Cosí, per esempio, le indagini dotto dall’Università di Bologna, condotte da Rebecca Benefiel, incentrato sull’Insula del Centenadella Washington University, so- rio, scavata per la prima volta nel no impegnate a registrare le piú di 1879. Le indagini, alle quali contri11 000 iscrizioni dipinte o incise sui buiscono non solo gli archeologi, muri degli edifici pompeiani venuti ma anche storici dell’arte, geologi, alla luce nel corso degli scavi degli ingegneri, chimici e restauratori, ultimi 250 anni, mentre la docu- hanno il compito di verificare, con mentazione fotografica e la ricostru- l’ausilio delle nuove tecnologie di zione digitale tridimensionale sono documentazione, modalità e risulal centro delle attività del Progetto tati di questi primi scavi, avviaompei vive, alimenta curiosità Oplontis, condotto da un’équipe ti esattamente 1800 anni dopo la e iniziative, riceve attenzio- dell’Università del Texas nella scomparsa dell’insula in seguito ne costante dal mondo arche- Villa di Poppea, qualche chilome- all’eruzione del Vesuvio. ologico internazionale, nonostante le cattive notizie che, a cadenza sempre piú ravvicinata, attanagliano la sua immagine: dell’appeal esercitato da Partecipa a uno scavo e conosci il mondo questo luogo unico al mondo sono la riprova recente una grande mostra sulle città vesuviane allestita in Germania (ne parleremo prossimamente) e, per quanto riguarda questa rubrica, il servizio (e la copertina) dell’ultimo numero della rivista inglese Current World Archaeology, intitolato «Che c’è di nuovo a Pompei?». Evitando di soffermarsi troppo sull’endemico problema dell’incuria e del degrado, l’articolo presenta i lavori di rilevamento e restauro delle numerose missioni straniere (inglesi, americane, tedesche) e italiane che operano nell’antica città. Tutte impegnate a fornire risposte sempre nuove agli interrogativi che il fenomeno Pompei continua a sollecitaon buon anticipo rispetto alla stare: come possiamo preservare il passato gione estiva, la rivista diretta da del sito per il futuro? E quanto, ancora, Hershel Shanks lancia la sua campaesso ci può insegnare? gna a favore del volontariato in archeologia, ricordandone particolarità e pregi, solo in apparenza scontati: partecipare, da volontari, a uno scavo, rappresenta un’opportunità uniChe c’è di nuovo a Pompei? ca per immergersi in un contesto culturale internazionale ed esplorare parti del mondo Se, negli anni Novanta del secolo scorso, ogni missione archeologica che altrimenti non visiteremmo mai. E ciò vale specialmente se il sito prescelto si trova in Terra Santa, «paese aveva la sua insula, con il compito di indagare stratigraficamente la sua d’adozione», ormai, di giovani archeologi non professionisti di tutto il storia precedente alla distruzione mondo. Tra le principali mete in cui i lavori di scavo saranno condotti tra i mesi di maggio e di agosto figurano Apollonia, Ascalona, Betsaida, del 79 d.C., oggi le ricerche hanno Giaffa, Tel Akko, Tel Dan, Tel Hazor, Tel Megiddo, Tiberiade. finalità piú circoscritte, improntate Informazioni piú dettagliate si trovano sul sito www.biblical maggiormente alla conservazione archaeology.org/digs

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Corrispondenza da Atene

di Valentina Di Napoli

Un patrimonio senza piĂş difesa? Il recente furto al Museo della Storia dei Giochi Olimpici di Olimpia mette a nudo le crescenti carenze delle strutture incaricate della tutela e della valorizzazione del patrimonio ellenico, colpite dalla crisi economica che attanaglia il Paese a notizia del furto perpetrato il 17 febbraio scorso al L Museo della Storia dei Giochi Olimpici, a Olimpia, ha presto fatto il giro del mondo. Alle 7,30 del mattino, due persone mascherate e armate hanno immobilizzato la custode che stava

cominciando il suo turno di lavoro, l’hanno costretta a disattivare il sistema di allarme e quindi hanno infranto 5 vetrine, dalle quali hanno asportato ben 77 reperti. Quindi, si sono allontanati dal museo a piedi, per poi salire a bordo di una vettura che

li attendeva a poca distanza. Appena la notizia è stata diffusa, il Ministro della Cultura, Pavlos Geroulanos, ha dato le dimissioni, che tuttavia, nei giorni seguenti, non sono state accolte dal Primo Ministro, Lucas Papademos.


Nonostante le prime dichiarazioni della dirigenza del Ministero, che tendeva a minimizzare l’accaduto, sottolineando che erano stati rubati «soltanto» oggetti in bronzo e terraccotta, null’altro che alcuni dei numerosissimi rinvenimenti di Olimpia (sic!), la perdita non è trascurabile: tra i reperti trafugati, quasi tutti di età geometrica e arcaica, si annoverano tripodi miniaturistici in bronzo, statuette in bronzo e in terracotta di aurighi, alcuni vasi a figure rosse e a vernice nera, ruote in bronzo, diverse lucerne fittili, un sigillo cilindrico di ematite recante una scena con potnia theron (signora degli animali) e una corsa di carri, numerose statuette bronzee e fittili di tori e cavalli, nonché uno splendido anello miceneo in oro, sul quale è

incisa una scena di taurocatapsia (il salto acrobatico al di sopra di un toro, reso celebre dall’affresco che lo raffigura in una delle stanze del palazzo di Cnosso, n.d.r.). Insomma, un insieme di reperti scelti apparentemente a caso da alcune vetrine, ma soprattutto rubati con la violenza: nulla a che vedere con la destrezza del furto di tre opere dalla Pinacoteca di Atene, compiuto nella notte dello scorso 8 gennaio, in seguito al quale un Picasso, un Mondrian e un Moncalvo hanno preso il volo per ignote destinazioni. Un furto con molti misteri Molti sono ancora gli interrogativi che restano aperti: perché i rapinatori chiedessero con insistenza di una corona d’oro, che in realtà non è

GRECIA Olimpia

Mare Egeo

Atene

Mar Ionio

custodita in quel museo; perché abbiano invece optato per un insieme di oggetti il cui apparente legame sono solo le dimensioni ridotte e la relativa serialità; a quale scopo abbiano rubato oggetti che sono accuratamente catalogati e quindi difficilmente collocabili sul mercato antiquario; infine, perché un museo di antichità possa essere affidato ad Olimpia, 17 febbraio 2012. Il Museo della Storia dei Giochi Olimpici chiuso al pubblico e sorvegliato dalla polizia dopo il furto subito. I malviventi introdottisi nell’edificio, dopo avere immobilizzato l’unica custode al momento presente, hanno infranto 5 vetrine, sottraendo, in tutto, 77 reperti archeologici.

appena tre custodi, di cui uno in permesso e uno arrivato in ritardo sul posto di lavoro. Il furto ha infatti messo a nudo il vero nocciolo della questione, cioè l’ormai drammatica carenza di personale nei musei e siti archeologici greci, invano sottolineata dai responsabili delle associazioni di categoria. Si pensi che, alla fine del 2011, sono andati in pensione circa 130 custodi che non verranno rimpiazzati, al momento restano scoperti ben 1200 posti di custode in tutta la Grecia e altri posti si libereranno forzosamente nel corso del 2012, a causa delle riduzioni di personale imposte dalle nuove misure di austerity. E la notizia peggiore è che non sono previste nuove assunzioni, nemmeno di personale a contratto, per coprire queste necessità. Il che significa anche un probabile aumento del rischio di scavi clandestini, una delle piaghe croniche dell’archeologia, specialmente in zone periferiche della Grecia, che sono meno tutelate. Una nuova squadra speciale A qualche mese dall’apertura dei Giochi Olimpici di Londra, in una Grecia che sta vivendo le drammatiche conseguenze di una crisi economica alla quale cerca di far fronte tra mille difficoltà, questa notizia ha addolorato molti di noi. Soprattutto perché non rende giustizia a tutti coloro che, spesso con sacrificio personale e con emolumenti drasticamente ridotti, difendono con orgoglio e dedizione il patrimonio culturale greco. La creazione, già qualche giorno dopo il furto di Olimpia, di una speciale «Squadra di Lavoro» costituita da dirigenti e dipendenti del Ministero, incaricata di prendere misure immediate e di proporre nuove soluzioni, di concerto con la Polizia, potrebbe essere un segnale concreto della volontà di dare una svolta. Che adesso è davvero urgente.

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VULCI

di Giuseppe M. Della Fina, Carlo Casi, Susanna Bianchi e Laura Ricciardi. Reportage fotografico di Carlo Bonazza. Disegni Studio Inklink

nella città della sfinge Siamo nel cuore della Maremma laziale, sul luogo di un grande centro etrusco. Gli archeologi, alla ricerca di una celebre tomba perduta, si imbattono nei resti di un sepolcro monumentale di cui si ignorava l’esistenza: lo scavo è appena iniziato quando, dal terreno, spunta il volto scolpito di un misterioso animale alato…

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er raccontare le tappe iniziali di un’importante campagna di scavo che si sta svolgendo a Vulci questa volta cominciamo con il ricordo di un arcobaleno... Quello apparso nel cielo di una giornata fino ad allora plumbea e piovosa quando abbiamo fatto visita agli archeologi che conducono le ricerche. 22 a r c h e o

Si avvicinava l’ora del tramonto, le nuvole si sono allargate e i raggi di un sole ormai basso hanno iniziato a illuminare la zona: sullo sfondo, a non molta distanza, si stagliava – nel suo isolamento – il Castello della Badia. In quel momento è apparsa, appunto, l’iride e l’atmosfera si è fatta magica. Gli Etruschi erano maestri nel saper leggere i segni del


Statua in pietra raffigurante una sfinge, da una tomba etrusca nell’area della Necropoli dell’Osteria di Vulci (Montalto di Castro, provincia di Viterbo). 560-550 a.C. Sullo sfondo: il settore centrale della Necropoli dell’Osteria attualmente in corso di scavo. Il sepolcreto, situato a nord-ovest dell’antico

abitato di Vulci, fu utilizzato dal VII al III sec. a.C. Sul sito, già ampiamente indagato nel corso dell’Ottocento, sono stati recentemente scoperti venticinque ipogei ricavati nel banco roccioso.

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vulci NELLA CITTÀ DELLA SFINGE UN MOMENTO EMOZIONANTE

In alto: la sfinge al momento del rinvenimento. La statua, lunga 50 cm circa, è stata scoperta nel tratto finale del lungo corridoio di accesso (dromos), presso il vestibolo della tomba. La monumentalità della

sepoltura (il dromos misura 27 m di lunghezza) suggerisce la sua appartenenza a una delle grandi famiglie aristocratiche di Vulci. A sinistra: particolare del volto della sfinge.

GLI ARCHEOLOGI SUL SITO A destra: operazioni di restauro sui reperti rinvenuti all’interno di uno degli ipogei della Necropoli dell’Osteria. Nella pagina accanto: l’archeologo Carlo Casi, direttore di Mastarna (la società che gestisce il Parco Naturalistico Archeologico di Vulci), sullo scavo.

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cielo, gli etruscologi lo sono molto meno, ma l’evento è sembrato di buon auspicio per il prosieguo delle ricerche. Le indagini piú promettenti si stanno svolgendo nel settore centrale della Necropoli dell’Osteria, in un’area indagata a fondo a partire già dall’Ottocento. Vi aveva condotto per primo, infatti, ricerche fortunate,Vincenzo Campanari, un personaggio che ha offerto un contributo importante alla riscoperta del mondo etrusco pur essendo molto legato al mercato d’arte del tempo.

Un monumento inedito? Le nuove indagini erano state intraprese nelle settimane scorse per riportare alla luce la tomba del Sole e della Luna, scavata proprio da Campanari e poi ricoperta per fare tornare i terreni alla coltivazione agricola. Il ritrovamento della tomba monumentale rinvenuta nell’Ottocento avrebbe dovuto sostanziare un nuovo percorso di visita nell’area del parco e ci si aspettava che lo scavo potesse riportate alla luce tombe minori sempre indagate nell’Ottocento. Ma – come può accadere in archeologia – c’è stato un evento imprevisto, una vera e propria

sorpresa. Gli scavatori hanno rintracciato infatti il dromos (corridoio di accesso), lungo 27 m e largo 2 circa, di una tomba monumentale. I responsabili delle indagini escludono che ci si trovi di fronte a quella del Sole e della Luna e, di conseguenza, ritengono di avere riportato alla luce un nuovo monumento funerario di cui nella letteratura ottocentesca non vi è memoria. Il fatto è singolare poiché un ritrovamento di simile importanza generalmente veniva registrato e la sua mancata menzione potrebbe far supporre che la tomba non sia

In basso: la testa della seconda sfinge rinvenuta nell’area della Necropoli dell’Osteria, nel corso dell’attuale campagna di scavo.

stata individuata dagli scavatori ottocenteschi, che pure avevano lavorato con intensità nella zona.

La scoperta L’avanzamento degli scavi svelerà il mistero, ma alcuni elementi si possono affermare sin da ora. Appare evidente, innanzitutto, la monumentalità della tomba, che rinvia a una delle grandi famiglie di Vulci, a un princeps e ai suoi familiari. Una monumentalità che – sulla scorta di altri esempi ben noti – fa ipotizzare la presenza, oltre al dromos, di un vestibolo e di alcune camere funerarie nelle quali erano deposti i defunti accompagnati dal loro corredo funerario. All’interno del vestibolo, di cui è appena iniziata l’esplorazione, è stata rinvenuta, infine, una sfinge di eccezionale fattura, databile al 560-550 a.C. Un riferimento cronologico a cui rinviano nella sostanza i reperti – tra i quali a r c h e o 25


vulci NELLA CITTÀ DELLA SFINGE LA FORTUNA DELLE SFINGI Al momento, tra i risultati piú significativi della campagna di scavo in corso a Vulci va annoverata la scoperta della sfinge riprodotta in apertura di questo articolo e della testa di un’altra. Si tratta di due sculture di notevole livello che rappresentano una figura mitologica attestata – seppure con significati diversi – in diverse aree del Mediterraneo. In Egitto essa nasce come immagine del sovrano: notissima è la monumentale Sfinge di Giza che raffigura il faraone Chefren. Proprio dall’Egitto l’immagine si diffuse nel mondo orientale e poi – probabilmente con una mediazione siriana – in Grecia, dove conobbe un successo considerevole entrando nella mitologia locale (in connessione, per esempio, con il mito di Edipo) e trasformandosi generalmente in una figura femminile e alata. Dalla Grecia, la sfinge arrivò (o volò, se volete) in Etruria e qui assunse un carattere prevalentemente funerario, accentuando un aspetto già presente nel mondo greco. Questo può spiegare bene la presenza delle nostre due sfingi all’interno della necropoli che si sta scavando a Vulci. Va detto che la sfinge colpí particolarmente l’immaginario delle maestranze artigiane presenti nella città etrusca: lo suggerisce bene l’attività di un ceramista che conosciamo con la denominazione di Pittore della Sfinge Barbuta dato che – nei suoi vasi – ricorre questa singolare figura. Egli lavorò proprio a Vulci, nell’ultimo trentennio del VII secolo a.C., e fu tra i maggiori esponenti delle ceramografia etrusco-corinzia, ovvero di quella produzione locale che guardò con attenzione alle realizzazioni dei ceramisti attivi a Corinto che riuscirono a conquistare il mercato etrusco prima degli ateniesi.

Mar Ligure Vulci

Corsica

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Sardegna

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26 a r c h e o

300 Km

Sic Sici S Si iciilia ic lia

In alto: una sfinge raffigurata sul corpo di un’anfora etrusca, attribuibile al Pittore di Monaco (termine con cui vengono indicati convenzionalmente alcuni pittori attici, attivi tra il VI e il V sec. a.C.), dall’area della Necropoli dell’Osteria.


un’anfora greco-ionica – scoperti in una fossa situata nel tratto iniziale del dromos. L’area in corso d’indagine ha restituito altre testimonianze di pregio: sino a questo momento gli archeologi hanno individuato venticinque ipogei scavati nel banco roccioso, in gran parte indagati nel passato, ma in grado ancora di restituire reperti di notevole interesse, come il frammento di una statua in nenfro raffigurante un leone e la splendida testa di un’altra sfinge. Ma perché le ricerche in corso a Vulci hanno tanta importanza? Il motivo principale risiede nel ruolo svolto dalla polis nell’ambito del mondo etrusco, di cui fu una delle città-stato principali e tra le piú aperte ai contatti con il mondo greco. Vulci appare come un insediamento di notevole rilievo sin dagli inizi: già nella fase villanoviana, infatti, arrivò ad avere un raggio d’influenza molto ampio, come suggeriscono i ritrovamenti

di materiali provenienti da zone geograficamente lontane come la Sardegna. Un salto di qualità ulteriore si ebbe con l’arrivo dei primi coloni ellenici in Occidente: proprio a Vulci la ceramica etrusco-geometrica, ispirata palesemente ai modelli greci, trovò un luogo privilegiato di produzione e consumo.

Città di «prima grandezza» Nei decenni finali del VII secolo a.C. e durante il secolo successivo, la città-stato divenne una potenza di prima grandezza, capace di esercitare il controllo su un territorio ampio e con un’agricoltura e un artigianato fiorenti. La polis riuscí inoltre a inserirsi a pieno nei traffici commerciali che avvenivano nel Mar Tirreno: lo indica la fondazione di un porto, Regae o Regisvilla, in località Murelle. Esso andò progressivamente a sostituire l’approdo esistente presso la foce del fiume Fiora, l’arteria fluviale che veicolava le merci vulcenti verso l’interno.

L’ampliamento dei mercati è testimoniato con altrettanta evidenza dalla stagione felice dei ceramisti attivi a Vulci e dei bronzisti locali, i cui prodotti raggiunsero i mercati dell’Etruria, ma anche quelli italici e mediterranei, contribuendo a formare la fama della bronzistica etrusca. Una perizia notevole si osserva anche nella scultura lapidea locale, il cui livello è illustrato bene da due opere giustamente celebrate quali il Centauro e il Giovane a cavallo di un ippocampo (oggi al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, a Roma). La crisi successiva alla sconfitta nella battaglia navale di Cuma (474 a.C.) – che interessò particolarmente l’Etruria meridionale costiera – si avvertí in profondità a Vulci e le fasce sociali legate alla produzione artigianale risultarono le piú colpite e dovettero ridimensionare il loro ruolo nelle dinamiche e negli assetti politicoistituzionali. La ripresa si ebbe nel secolo successivo e fu dovuta – coIl territorio di Vulci nel VI sec. a.C. Il pianoro su cui sorse l’insediamento etrusco si trova al centro di un vasto territorio delimitato a occidente dal Mar Tirreno, a nord dal Monte Amiata, e a sud dal fiume Arrone. Vulci sorse in una zona tufacea, sul lato destro del fiume Fiora, utilizzato in epoca etrusca come approdo fluviale. Il suo porto, Regae o Regisvilla, in località Murelle, presso Montalto di Castro, fu fondato nel corso del VI sec. a.C.

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vulci NELLA CITTÀ DELLA SFINGE

Ricostruzione dell’impianto urbanistico di Vulci sulla base delle tracce aerofotogrammetriche rilevate nei voli effettuati dal 1954 al 1988.

me a Tarquinia – alla scelta da parte delle classi dirigenti di recuperare posizioni nel proprio territorio e di valorizzarlo al meglio: un’ottica piú ristretta rispetto a quella mediterranea dei secoli precedenti, ma realistica e capace di innescare la ripresa. La testimonianza piú evidente del superamento della crisi è offerta dalla costruzione del cosiddetto «Tempio Grande», all’interno dell’area urbana, racchiusa ormai entro mura poderose. Nella stessa temperie vennero realizzate tombe monumentali da parte delle famiglie piú in vista del tempo, ovvero i Saties, i Tutes, i Tarnas, 28 a r c h e o

i Tetnies. Queste ultime – come suggeriscono bene le pitture che decoravano la tomba François appartenuta ai Saties – cercarono di rinnovare i fasti del passato e noi possiamo cogliere qualche venatura nostalgica. La committenza pubblica, da un lato, voleva contribuire alla costruzione di una nuova immagine della città-stato e, dall’altro, con investimenti nelle opere di fortificazione, farla trovare preparata nello scontro con Roma. Nello stesso tempo, la produzione ceramica e la bronzistica ripresero vigore.

La resa a Roma All’espansionismo di Roma, Vulci si oppose con coraggio e determinazione, arrivando a capitolare solo nel 280 a.C. Le conseguenze della sconfitta furono pesanti e nel suo

territorio venne dedotta la colonia latina di Cosa (273 a.C.):Vulci non compare nella lista dei centri che contribuirono all’impresa africana di Scipione (205 a.C.) e ciò sembra segnalare un suo perdurante stato di crisi. La stessa area della città venne ristretta con l’abbandono di zone incluse sin dall’inizio nello spazio urbano. Dopo la guerra sociale,Vulci fu trasformata in un municipio: il nuovo assetto istituzionale e il successivo tentativo di rivitalizzare l’Etruria, portato avanti in epoca augustea, riuscirono a rilanciare solo parzialmente la città, che continuò comunque a essere abitata durante l’età imperiale come suggeriscono, per esempio, le testimonianze monumentali della domus del Criptoportico e del Mitreo. Giuseppe M. Della Fina


Veduta del Ponte e del Castello della Badia, che oggi ospita il Museo Nazionale Etrusco di Vulci.

UN PARCO TRA NATURA E ARCHEOLOGIA All’ombra dell’imponente Castello della Badia, lungo la Valle del Fiora, sorgono le rovine della città di Vulci. La visita al sito archeologico segue il percorso dell’antico decumano massimo per concludersi ai monumentali tumuli etruschi, attraverso un paesaggio di straordinaria bellezza Il decumano massimo di Vulci. La strada basolata, databile al II sec. a.C., attraversava il centro urbano, collegando la Porta Ovest alla Porta Est. Sullo sfondo, i resti dell’arco onorario di Publius Sulpicius Mundus, integrati in epoca moderna.

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vulci NELLA CITTÀ DELLA SFINGE

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el cuore della Maremma tosco-laziale, il Parco Naturalistico Archeologico di Vulci – istituito nel 1999 è una meta turistica del viterbese ormai affermata, visitata annualmente da oltre 22mila persone (www.vulci.it). I resti monumentali della città etrusco-romana con le sue raffinate tombe, e il maestoso Castello della Badia (sede del Museo Nazionale Archeologico) con il suo ponte, sono le testimonianze di un grande passato, oggi immerse in un contesto ambientale di seducente bellezza. Davanti a tali memorie risuonano nella mente le parole di David H. Lawrence, che visitò Vulci alla fine degli anni Venti descrivendola nella sua opera Etruscan Places (pubblicata nel 1932) come «un posto meravigliosamente romantico» dove il «ponte si staglia nel cielo come un solitario arcobaleno nero», ed ancora: un luogo ove «c’è qualcosa di oscuro, qualcosa di prodigioso». A diciotto anni dall’avvio del progetto di scuola-cantiere, con il quale ebbero inizio, nel 1994, il recupero e la valorizzazione dell’area archeologica, è oggi possibile godere della natura, della storia e delle tradizioni di Vulci in ogni stagione dell’anno. Passeggiare lentamente per fermarsi ad ammirare le forme delle rocce, lo scorrere dell’acqua, i colori della flora e della fauna maremmana, e, contemporaneamente, immaginare i suoni e gli odori rievocati dai resti

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degli edifici antichi: ecco uno dei tanti modi per vivere il Parco. Il pianoro su cui si sviluppava l’antica metropoli è attraversato da tre sentieri, progettati per rispondere alle diverse esigenze dei visitatori: un breve percorso «naturalistico», che corre ai piedi dell’antico abitato, lungo le verdeggianti sponde di un piccolo torrente; e due itinerari «archeologici» che consentono di visitare il cuore dell’antico centro abitato (percorso breve, 2,5 km) o di spingersi fino ai resti del porto fluviale (percorso completo, 4 km).

Scenografie da cinema Tappa obbligata per i tre percorsi è comunque l’incantevole laghetto del Pellicone, piccolo bacino naturale scavato dalla forza dell’acqua del Fiora tra le scure rocce vulcaniche e i depositi travertinosi che qui caratterizzano l’ambiente. Il luogo è noto ai piú per essere stato il set cinematografico di scene memorabili, come quella dell’esilarante incontro di Benigni e Troisi con Leonardo da Vinci nel film Non ci resta che piangere, e dell’improbabile performance di nuoto sincronizzato di Aldo, Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba. Lo specchio d’acqua si trasforma, nei mesi estivi, in una «palestra a cielo aperto», in cui istruttori specializzati danno la possibilità ai visitatori di divertirsi sperimentando il tubing ed il kayak. Per cogliere la grandezza e l’importanza dell’antico abitato, che nel pe-

riodo di massima fioritura raggiunse una popolazione stimata intorno ai 15mila abitanti, occorre però salire sulla sommità del pianoro. Oltrepassati i resti dell’acquedotto che sin dall’epoca etrusca riforniva la città, si entra nello spazio urbano attraversando Porta Ovest, ingegnoso esempio di architettura militare preromana. L’accesso occidentale alla città venne rinforzato pochi decenni prima della conquista di Vulci da parte dei Romani (1 febbraio 280 a.C.), grazie alla costruzione di un possente avancorpo di forma triangolare, la cui presenza indeboliva il potenziale d’attacco dei nemici, costringendoli a «rompere le righe» davanti al muro, e impediva il pericoloso avvicinamento alla struttura delle macchine da guerra, rendendo impossibile ogni manovra offensiva. Percorrendo il decumano massimo, la strada basolata di epoca romana che attraversa l’intero pianoro da ovest a est, si raggiunge il nucleo monumentale dell’antico abitato, dove si localizzano alcuni tra i piú importanti edifici pubblici e privati: il Tempio Grande, costruito in blocchi di tufo nel IV secolo a.C. probabilmente sul luogo di un edificio religioso piú antico; l’Edificio in laterizi e l’Edificio absidato, che testimoniano della (segue a p. 35) Il laghetto del Pellicone, nato dalle acque del Fiora, all’interno del Parco Naturalistico Archeologico di Vulci.


UN CASTELLO PER I CAPOLAVORI ETRUSCHI Il Castello della Badia ospita dal 1975 il Museo Nazionale Archeologico di Vulci. Costruito a ridosso del superbo ponte etrusco, l’edificio ha origini altomedievali e nel 1012 è già citato come «castellu de ponte» nei documenti del monastero di S. Salvatore all’Amiata. Passato di mano alla Camera Apostolica, ai Templari, a diversi signori locali, nel 1430 entrò a far parte dei domini dei Farnese. Nell’Ottocento ne furono proprietari Luciano Bonaparte, principe di Canino e Musignano, e, successivamente, la famiglia Torlonia; negli anni Venti, lo scrittore inglese David H. Lawrence lo descrive ormai semidiruto e adibito a povera abitazione di contadini. Nelle sale del museo i reperti sono esposti in ordine cronologico e nel rispetto del contesto di provenienza, prevalentemente a carattere funerario. La sala al pianterreno accoglie i materiali piú antichi, dai reperti eneolitici riferibili alla cultura del Rinaldone rinvenuti in siti localizzati lungo la valle del Fiora (metà del III millennio a.C.) a quelli ascrivibili alla fase proto-villanoviana e villanoviana dell’abitato, con urne cinerarie biconiche decorate da motivi geometrici impressi ed incisi, e completate dal coperchio a ciotola o a elmo pileato (IX-VIII secolo a.C.). L’apertura al mondo greco e la presenza in Etruria di artigiani immigrati modificarono il panorama delle produzioni

ceramiche: l’uso del tornio, la superficie dipinta, la varietà del repertorio morfologico sono alcune delle innovazioni testimoniate dai reperti esposti risalenti agli ultimi decenni dell’VIII secolo a.C. Al centro della sala, il monumentale dinos attribuito al Pittore Argivo è uno dei migliori prodotti della ceramica etrusco-geometrica. Al pianterreno trova spazio anche una sezione dedicata alla scultura funeraria in nenfro, produzione tipicamente vulcente che si sviluppa nel secoli VII-VI a.C. con la realizzazione di figure animalistiche a tutto tondo (leoni alati, sfingi, pantere ed un ariete), un tempo collocate a decorare i prospetti o i corridoi di accesso delle sepolture monumentali. Al piano superiore sono esposti i corredi di sepolture dall’epoca orientalizzante fino all’avvenuta romanizzazione di Vulci nel 280 a.C. Tra i contesti piú ricchi colpisce quello della Tomba della Panatenaica, costituito da eleganti ceramiche greco-orientali, corinzie, attiche, e da buccheri locali, inquadrabili dalla fine del VII a tutto il VI secolo a.C., tra le quali l’anfora con raffigurazione di Atena promachos su un lato e gara di corsa (della quale l’anfora costituiva il premio) sull’altro. Orario ma-do 8,30-19,00 Info 0761 437787 a r c h e o 31


Tomba a dado

Giocaparco

Ingresso al parco centro visite

Trattoria Casale dell’Osteria

Tombe a fossa

Tomba dei soffitti intagliati

Necropoli dell’Osteria

L’ultima scoperta. La statua della sfinge rinvenuta in una tomba etrusca nel settore centrale della Necropoli dell’Osteria. Doganella

Casaletto Mengarelli (punto di ristoro)

Acquedotto lungo la strada bianca

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Laghetto del Pellicone

IL FIUME FIORA. Una suggestiva veduta del fiume, che attraversa tutta l’area del Parco, tra pareti di roccia vulcanica.

CASTELLO E PONTE DELLA BADIA. Veduta del Ponte e del Castello della Badia. L’attuale aspetto della rocca, sorta in epoca altomedievale, risale al XII sec. e agli ampliamenti effettuati intorno all’inizio del XVI dalla famiglia Farnese.

UNA VISITA AL PARCO ARCHEOLOGICO DI VULCI


Edificio absidato

Foro

Casa del Pescatore

Strada basolata

Sacello di Ercole

Porta Est

Cardine orientale

Cinta muraria

Porta Nord

Area dedicata alle tradizioni maremmane

Casa con vasche

Casa del Criptoportico

Mitreo

Tempio Grande

Santuario del Carraccio dell’Osteria

ARCO ONORARIO. Disegno ricostruttivo dell’arco onorario di Publius Sulpicius Mundus, senatore romano vissuto tra la fine del I sec. a.C. e gli inizi del I d.C. Il monumento, che sorgeva lungo il decumano massimo, presso il Foro, era largo 7,40 m e alto circa 9.

Edificio in laterizi

Arco onorario

Decumano massimo

Porta Ovest

Acquedotto

Ponte

Fornaci etrusche

Strada basolata

Ambienti quadrangolari

Tumulo della Cuccumella

Tomba delle Iscrizioni e Tomba del Delfino

Tomba François


vulci NELLA CITTÀ DELLA SFINGE

PORTA OVEST Disegno ricostruttivo (a destra) della Porta Ovest e i suoi resti (in alto) all’interno del Parco di Vulci. Alla porta, difesa da un avancorpo di forma triangolare al cui interno è uno stretto passaggio a forma di «Y», si accedeva attraverso una strada costruita con lastre di travertino e pietre vulcaniche, databile, come la struttura difensiva, agli anni che precedettero la conquista romana del 280 a.C.

DOMUS DEL CRIPTOPORTICO Disegno ricostruttivo (in alto) e resti della Domus del Criptoportico (a destra). La dimora aristocratica, risalente alla fine del II sec. a.C., è situata lungo il decumano massimo nel settore centro-settentrionale del pianoro. Distinta in una pars rustica e in una pars urbana, la domus era formata da molteplici ambienti, tra cui un piccolo impianto termale privato, ubicato a nord-ovest, e il criptoportico da cui prende il nome.

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TEMPIO GRANDE Ipotesi ricostruttiva del «Tempio Grande» in epoca etrusca. Oggi dell’edificio sacro, costruito intorno al IV sec. a.C. e in uso fino all’epoca romana, rimane il basamento in blocchi di tufo.

I percorsi consentono di visitare il cuore dell’antico centro e di spingersi fino ai resti del porto fluviale

vitalità della comunità cittadina in epoca tardo-imperiale. Poco oltre sono visibili i resti di residenze aristocratiche, tra le quali la Domus del Criptoportico. Del ricco edificio, costruito poco dopo la conquista di Roma e articolato su piú livelli, si conserva oggi il piano terra, che comprende le numerose stanze gravitanti intorno al vasto atrio e all’ampio peristilio; un piccolo ma raffinato impianto termale (apodyterium, laconicum e calidarium); il fresco viridarium con vasca centrale; e la corte rustica con le latrine e la cucina. Assai suggestiva è la visita agli ambienti sotterranei della domus, dove, oltre al criptoportico, è possibile raggiungere un piccolo grazioso vano, oggi definito «ninfeo», curiosamente costruito accanto ai magazzini. Del Mitreo, la cui distruzione si data agli anni che seguirono l’Editto di Teodosio del 380 d.C. con il quale il cristianesimo veniva proclamato religione di Stato, è ben leggibile l’organizzazione degli spazi interni con l’anticamera, all’interno della quale, durante gli scavi degli anni Settanta, furono trovati molti degli arredi votivi; e l’aula di culto, con i suoi podia in muratura sorretti da una sequenza di bassi vani coperti a volta.

Alla foce del fiume Oltrepassato l’incrocio tra gli assi stradali maggiori, continuando a percorrere il decumano massimo, si raggiunge la Porta Est, e, da lí, la valle lambita dal Fiora, dove gli scavi degli ultimi anni hanno portato alla luce alcune strutture appartenenti al porto fluviale, come le poderose mura in opera quadrata (che almeno dal IV secolo a.C. imbrigliavano le acque del fiume e, allo stesso tempo, costituivano una prima linea difensiva dell’agglomerato urbano) e i magazzini rinvenuti al loro interno. L’area protetta dalle mura aveva anche una vocazione artigianale, come dimostra la presenza di una fornace per la cottura di vasi. Per visitare le tombe etrusche della Necropoli Orientale, poste sulla a r c h e o 35


vulci NELLA CITTÀ DELLA SFINGE MITREO Disegno ricostruttivo dell’aula di culto del Mitreo di Vulci, che sorgeva presso la Domus del Criptoportico. Il santuario dedicato al dio Mitra fu realizzato nella prima metà del III sec. d.C. e distrutto dopo il 380.

Il tumulo della Cuccumella e la Tomba François sono le testimonianze piú importanti della Necropoli Orientale

CUCCUMELLA Il principesco tumulo della Cuccumella (in alto), nell’area della Necropoli Orientale di Vulci. Databile alla fine del VII sec. a.C. e oggi completamente restaurato, con i suoi 75 m di diametro è il piú grande dell’Etruria meridionale. Al suo interno, nel settore sud, si trovano due camere ipogeiche, la piú importante preceduta da uno spazio quadrangolare gradinato destinato a ospitare cerimonie e giochi funebri in onore del defunto. Nell’area sepolcrale a sud-est del tumulo si trovano tombe a camera e resti di un monumentale altare funerario.

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TOMBA FRANÇOIS La tomba, databile al 340-330 a.C. e scoperta nel 1857 dall’archeologo fiorentino Alessandro François (1796-1857), apparteneva alla famiglia vulcente dei Saties. Le pareti erano affrescate con scene di lotta tra eroi etruschi – tra i quali compare Mastarna che diverrà re di Roma con il nome di Servio Tullio – e da episodi e personaggi tratti dal ciclo della guerra di Troia. Le pitture, staccate nel 1863, sono conservate a Roma, a Villa Albani, e fanno parte della Collezione Torlonia. In alto: Mastarna libera Celio Vibenna. A destra: sezione orizzontale della tomba. L’impianto principale dell’ipogeo si articola in sette camere funerarie disposte intorno all’atrio e al tablino, sulle cui pareti era disposto il grande ciclo pittorico.

sponda sinistra del Fiora, è necessario essere accompagnati da una guida, prenotando il servizio presso il Parco o partecipando alle visite guidate programmate nel calendario degli eventi (nel periodo estivo sono particolarmente suggestive le visite guidate in notturna). Nella Necropoli Orientale sono conservate alcune tra le piú interessanti testimonianze di architettura funeraria etrusca: la principesca «Cuccumella», il piú grande tumulo dell’Etruria meridionale (75 m di diametro), costruito alla fine del VII secolo a.C., le cui viscere sono attraversate da un «labirinto» di cunicoli che tanto aveva incuriosito D.H. Lawrence; l’enigmatica Tomba delle Iscrizioni (in uso a partire dal IV secolo a.C.); a r c h e o 37


vulci NELLA CITTÀ DELLA SFINGE DOVE E QUANDO Parco Naturalistico Archeologico di Vulci Montalto di Castro (VT), Strada Provinciale della Badia, località Vulci Orario ottobre-marzo: tutti i giorni, 9,00-17,00; martedí, 14,00-17,00 (9,00-14,00 su prenotazione); aprile-settembre: tutti i giorni 10,00-18,00; martedí, 14,00-18,00 (9,00-14,00 su prenotazione); chiuso 25 dicembre e 1° gennaio Info e prenotazioni tel. 0766 89298 oppure 0766 879729; e-mail: info@vulci.it; www.vulci.it Servizi punto di ristoro «Casaletto Mengarelli»: tel. 0766 89519

e infine la piú celebre di tutte, la Tomba François (anch’essa risalente al IV secolo a.C.), che mantiene inalterata la sua bellezza grazie alle fattezze architettoniche, che celebrano il fasto ed il fascino della civiltà etrusca. Presso il Centro Visitatori del Parco (biglietteria, shop, info point) è allestita una replica del noto monumento funebre, nella quale i visitatori possono rivivere il momento della sua scoperta avvenuta nel 1857 a opera dell’archeologo fiorentino Alessandro François. Grazie a un sistema di video-istallazioni, all’interno di una struttura che ripropone la pianta dell’ipogeo, vengono proiettate sulle finte pareti le immagini delle celebri pitture, oggi appartenenti alla Collezione Torlonia (Roma,Villa Albani). Mentre una voce narrante illustra i soggetti dei dipinti, gli affreschi vengono svelati uno dopo l’altro da una fioca luce, che rievoca quella tremula usata dal François. Le raffinate scene furono dipinte poco dopo la metà del IV secolo a.C. da un artista

DIAGNOSTICA E RESTAURO In un vecchio granaio situato nel centro storico di Montalto di Castro, è allestito il Laboratorio di Restauro e Diagnostica, gestito dalla Mastarna srl.Qui si provvede al primo intervento, al restauro e alla corretta conservazione dei reperti archeologici provenienti principalmente dagli scavi realizzati nel Parco di Vulci: manufatti lapidei, oggetti in metallo, ceramica, ossa e altri materiali organici. Il laboratorio ha una superficie complessiva di 400 mq ed è diviso in due piani. Nella sezione di diagnostica trovano posto moderne attrezzature per analisi chimiche, microscopiche e di monitoraggio, come lo spettrofotometro ad assorbimento atomico, i macchinari per realizzare e analizzare le sezioni sottili, microscopi elettronici, la camera climatica, ecc. Al piano superiore, la sezione di restauro consiste in postazioni complete e macchinari utilizzati per le puliture di reperti antichi: box per la microsabbiatura, strumenti per il lavaggio di reperti con acqua atomizzata e per la verifica della conducibilità. Dal 2009, grazie a un accordo tra il Comune di Montalto di Castro e l’ABAV – Accademia di Belle Arti «Lorenzo da Viterbo» (ente AFAM), il Laboratorio di Diagnostica e Restauro ospita i corsi di Diploma di I e II Livello in Restauro, frequentati da studenti italiani e stranieri. Per informazioni sui corsi: ABAV – Viterbo 0761.220442

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ignoto e raffigurano noti miti greci (Achille che sacrifica i prigionieri troiani, Eteocle e Polinice, Fenice e Nestore,Aiace e Cassandra) e personaggi ed eventi della storia etrusca e di Roma (i fratelli Celio e Aulo Vibenna, e Mastarna, l’uomo passato alla storia con il nome di Servio Tullio, re di Roma).

Tra natura e storia Tra i numerosi itinerari che si possono effettuare in compagnia delle guide del Parco, l’Archeotrekking è la proposta ideale per quanti vogliano lasciarsi alle spalle i frenetici ritmi cittadini: si tratta di un’emozionante passeggiata di oltre 7 km che il Parco propone nel calendario degli eventi o su prenotazione. Il percorso si insinua negli angoli piú nascosti di questa terra, svelandone i panorami primitivi ed inaspettati, superando le rocce scure levigate dal fiume fino a risalire sulla sommità del pianoro, «scalando» piccole cascate d’acqua. Per rivivere la Maremma di una volta, nell’area dedicata alle Tradizioni Maremmane, il Parco organizza in estate il Trofeo di Vulci, nel quale squadre di butteri si sfidano nelle attività piú spettacolari del loro lavoro, tra cui gimkane e movimentate catture del bestiame. Da settembre a maggio il Parco ospita annualmente oltre 3mila studenti, provenienti da scuole di ogni ordine e grado delle diverse regioni italiane, che fanno di Vulci la meta di gite d’istruzione giornaliere o di campi scuola di piú giorni durante i quali sono impegnati in laboratori di manipolazione e di storie incantate (per i piccoli alunni della scuola dell’infanzia), escursioni sensoriali, pratica di tiro con l’arco e orienteering per osservare, analizzare e vivere la natura; e ancora archeologia sperimentale, ricette antiche, scavo simulato e laboratorio di restauro, perchè la storia è piú divertente quando si può «toccarla con mano»! Carlo Casi, Susanna Bianchi e Laura Ricciardi



UR

LA LEGGENDA CONTINUA di Massimo Vidale

«Un sudario di sabbia e polvere»: cosí l’archeologo Leonard Woolley descrive il territorio dove, 5000 anni fa, sorgeva una delle piú grandi e fiorenti città del Vicino Oriente. La sua memoria sembrava sepolta per sempre, testimoniata soltanto dai resti della maestosa torre a gradoni che ancora oggi domina il sito. Ma il nome di Ur è potente, travalica i millenni. E dall’età del mito si proietta, in un susseguirsi di mistero e avventura, fino ai giorni nostri. Ecco il racconto di una scoperta straordinaria e degli uomini e delle donne che ne furono i protagonisti

U

r, la Urim dei Sumeri, sorge nell’attuale provincia del Dhi Qar, a 16 km da Nassiriya, sulla riva destra dell’Eufrate. Era la «casa del dio Nanna», divinità della luna che a Ur abitava l’Ekishnugal («casa di alabastro, della luce fluorescente»), santuario collocato presso l’angolo nord-occidentale della ziqqurat costruita dal re UrNammu nel XXI secolo a.C. Il nome moderno del sito, Tell el-Muqayyar («collina di pece»), probabilmente dipende molto piú prosaicamente dagli abbondanti rivestimenti in bitume che affioravano sulla superficie della ziqqurat. 40 a r c h e o


Uomini armati sostano presso i resti dell’antica città sumera di Ur (provincia del Dhi Qar, nell’odierno Iraq meridionale), in un’immagine del 1916. Nell’ottobre del 1919, al termine della prima guerra mondiale, l’Iraq, fino ad allora provincia ottomana, fu dichiarato indipendente. Nel 1922, ebbe inizio lo scavo sistematico del sito di Ur, condotto dall’archeologo inglese Charles Leonard Woolley (1880-1960), alla guida di una missione congiunta del British Museum e dell’University Museum di Filadelfia.

Nella pagina accanto: la ziqqurat di Ur, innalzata per volere del re Ur-Nammu alla fine del III mill. a.C. e dedicata a Nanna, principale divinità cittadina.

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ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA LA RISCOPERTA DI UR 1625

Pietro della Valle (1586-1652) visita Tell

1849

Il geologo e naturalista inglese William

el-Muqayyar (le rovine di Ur) e raccoglie alcuni mattoni e sigilli a cilindro con iscrizioni cuneiformi. Kenneth Loftus (1820-1848) visita il sito.

1853-1854 John George Taylor, agente della East India Company e vice console britannico a Bassora dal 1851 al 1858, disseppellisce quattro cilindri con iscrizioni cuneiformi ai quattro angoli del piano superiore della ziqqurat di Ur, con un’iscrizione di Nabonide (Nabunaid), ultimo re di Babilonia (539 a.C.), e una preghiera per il figlio Belshar-uzur, il Belshazzar del Libro biblico di Daniele. Scava anche un edificio paleobabilonese (1800-1600 a.C. circa) e alcune tombe. 1862

1918

1919

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George Rawlinson (1812-1892) pubblica The

Seven Great Monarchies of the ancient eastern world, con la traduzione di cilindri con caratteri cuneiformi che menzionano «Orchamus» (Ur-Nammu), re di «Heir» (Ur) e identifica Ur come la «Ur dei Caldei» menzionata dalla Bibbia. La Mesopotamia diventa dominio britannico. Reginald Campbell Thompson (1876-1941) diviene agente archeologo per il British Museum ed effettua nuovi sondaggi a Ur. Harry Reginald Hall scava parte del palazzo di Ur-Nammu a sud-est della cinta muraria neobabilonese.

1922-1934 Scavi congiunti del British Museum (Londra) e dell’Università della Pennsylvania (Filadelfia, USA) diretti dall’archeologo Sir Charles Leonard Woolley: scoperta della ziqqurat, della città e dei suoi monumenti e del Cimitero Reale con suoi tesori. 1922 Prima scoperta del Cimitero Reale; lo scavo viene posticipato in attesa che gli operai acquistino l’esperienza necessaria. 1923-1924 Scavo della grande ziqqurat. 1924-1925 Scavo dei principali monumenti dell’area sacra intorno alla ziqqurat. 1925-1926 Scavo del Giparu (tempio di Ningal). 1926-1931 Principali campagne di scavo sul sito del Cimitero Reale. 1929 Scavo della grande «Fossa del Diluvio». Prima guerra del Golfo. La ziqqurat di Ur 1991 viene colpita da bombe e numerosi proiettili. 2001 Nassiriya e l’area del sito di Ur diventano il fronte piú avanzato dell’avanzata delle forze di coalizione contro l’esercito di Saddam Hussein. 2003-2010 Nel 2003 Nassiriya, nel corso dell’invasione dell’Iraq, è teatro di scontri. Il sito di Ur viene marginalmente disturbato dalla costruzione di una importante base statunitense. 2009-2011 Nuovi progetti italiani e internazionali per la conservazione, la gestione, la valorizzazione e il restauro del sito di Ur.


Ur era la piú meridionale delle grandi città-stato sumeriche, e deve aver controllato per secoli l’accesso al mare di buona parte dell’intera Mesopotamia. Questa posizione strategica poneva la città in contatto costante con le vie commerciali del Golfo Persico e gli emissari delle nazioni d’Oriente che fiorivano dall’altopiano iranico alla valle dell’Indo, e in costante attrito con le altre città-stato della terra dei due fiumi. La sua potenza è ancor oggi mostrata dall’estensione delle rovine della sua area sacra sulla piana attuale (1200 x 800 m circa). Abitata dal 5000 a.C. all’età di Alessandro (IV secolo a.C.), nel III millennio a.C. ospitava templi, palazzi, porti, cimiteri dal macabro splendore e una popolazione urbana di almeno 100 000-200 000 persone. Alla fine dello stesso millennio, lungo l’arco di un secolo, fu sede di una potente casa reale (nota come «Terza dinastia di Ur») che unificò l’intera Mesopotamia, giungendo a controllare parte del Vicino Oriente e il margine sud-occidentale del contiguo altopiano iranico. La città allora era protetta da una vasta cinta muraria di forma ovale, in mattone crudo e paramenti in cotto, con mura spesse quasi 20 m. I due principali Mar Caspio

Tu r c h i a Lago

di Urmia Ku rd is ta Nin Ni iin niive iv ve v e n Mos Mo M o os sul ul Bal Ba B a ala alla awa aw wa w at Nim mrud ru ud ud asa as ss--Su Sul ula ay aym ym y man ani a niiy n yah ah h

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In alto: Charles Leonard Woolley e la moglie Katharine sugli scavi di Ur. A sinistra: cartina dell’Iraq, con il sito di Ur in evidenza. È indicato anche il tracciato dell’antica linea di costa: la città, all’epoca della sua fioritura, si trovava non lontano dal mare. Nella pagina accanto: un’altra immagine di Woolley a Ur.

Iran

tutto ciò che resta di Eridu, che i Sumeri consideravano la piú antica delle Bab Ba B ab bil ilo ilo oni nia n iia a Iraq Ir Kerba Ke Ker erb bal ba al aa loro città. A ovest il piano morto di Nip N iip ppu pur urr Sussa Sus G ordania Gi an ana n-N n Naj Na ajaf aj af antic sabbia e fango si estende a perdita adad a d d-Diw D wani Di aniyah n yah ni yah ya h a lin e Larrs La L rs sa a di Eu U r k d’occhio (...) a nord e nord-ovest pofra Uru Nas N ass as sir si irriya iy iy yah te a chi bassi monticoli nascosti nel lucore Ur Bas Ba B ass sso sor orra o della calura, o sollevati dai miraggi a Ar a b i a un rilievo irreale, testimoniano altri Saudita Golfo insediamenti perduti nel loro sudario K u w a i t N Persico/ Golfo di sabbia e polvere». (Charles Leonard Arabico 0 200 Km Woolley, Ur Excavations, 1934). Un paesaggio desolante? Ci stiamo guardando allo specchio: è lo scenario piú accessi erano due porti fluviali, con lunghi moli e ba- vero delle origini della nostra stessa civiltà. cini in mattone cotto (vedi pianta a p. 47). Che cosa resta, oggi, di questa antica grandezza? «A 25 Orme nella sabbia miglia dalle rovine di Ur corre la bassa scarpata del «E Terach prese Abramo, suo figlio e Lot, figlio di Haran deserto superiore, una distesa ondulata di ghiaia e af- (...) e Sarai sua nuora, moglie d’Abramo suo figlio, e uscifioramenti di calcare che salgono all’altezza delle colrono insieme da Ur dei Caldei (Ur Kasdim) per andare line (...) ma dalla cima della ziqqurat non si vedono nel paese di Canaan; e, giunti a Harran, vi si stabilirono» altro che le distese alluvionali dell’Eufrate. È un pano(Genesi 13: 31-32). rama malinconico. A sud le pianure sono rotte da una cresta allungata di sabbia portata dal vento, che sottoli- Secondo la Bibbia, Abramo, con Nacor e Haran figlio nea la desolazione, e da un pinnacolo di fango (...) di Terach, era un pastore che viveva a Ur. Nella città ir ia

arrr--Ra Ram am a ma ma ad d dii

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a r c h e o 43


ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA sposò la sorellastra Sarai, figlia dello stesso padre, ma di un’altra madre. Terach, Abram, Sarai e Lot (il figlio del fratello Haran) si spostarono a Harran, nella Mesopotamia settentrionale, dove il padre di Abramo sarebbe morto all’età di 205 anni. Nel racconto la città di Ur – nominata nel Vecchio Testamento piú di una volta – è chiamata con il nome dei Caldei, termine usato in età neobabilonese (dall’VIII secolo a.C. in poi) per designare gli abitanti della Mesopotamia meridionale. Il nome di Abramo, figlio di Sem, significa «Padre delle Moltitudini». Egli è riconosciuto sia come capostipite della nazione ebraica, sia come profeta, messaggero divino e prototipo del perfetto musulmano dall’Islam. A lui, quindi, riconducono le tre grandi religioni monoteiste degli ultimi quattro millenni. E, ripercorrendo a ritroso le tracce di Abramo, giungeremmo dunque a Ur, nel cuore di Sumer, al cospetto di una delle vicende fondamentali della nostra cultura

e della nostra spiritualità. Ma questa interpretazione è viziata da problemi importanti. In primo luogo, quello riguardante la vicenda della partenza di Abramo: a giudizio universale degli studiosi, essa deve aver avuto luogo nella prima metà del II millennio a.C., periodo nel quale dei Caldei non si era ancora sentito parlare. La menzione dei Caldei è quindi un’interpolazione molto posteriore. Inoltre, vi sono molte altre città e località con nomi simili o compatibili con quello di «Ur» che meglio si collocano negli scenari storici della Mesopotamia settentrionale.

Un’altra patria per Abramo? Alcune città con nomi apparentemente simili compaiono in tavolette di Nuzi (un importante centro hurrita della prima metà del II millennio a.C.), Biblo ed Ebla. Le assonanze e i toponimi si confondono, e, tra le possibili località candidate troviamo località nella regione di Urartu (il territorio che si estende dalle spon-


Le rovine di Ur. Sullo sfondo, l’imponente mole della ziqqurat. Il monumento fu il primo obiettivo delle campagne di scavo condotte da Leonard Woolley tra il 1922 e il 1934. Indagini che l’archeologo britannico documentò con rigore esemplare in una serie di pubblicazioni che costituiscono ancora oggi un punto di riferimento essenziale per gli studi sulle civiltà del Vicino Oriente antico.

PERCHÉ È IMPORTANTE L ’antica Ur (oggi Tell el-Muqayyar, nell’Iraq meridionale) fu occupata fin dal 5000 a.C. Nel corso del III millennio, il centro crebbe di dimensioni, raggiungendo il massimo splendore sotto il regno di Ur-Nammu (2112-2095 a.C. circa), che diede inizio alla III dinastia. Molto di quel che sappiamo delle antiche culture mesopotamiche è frutto delle scoperte compiute a Tell el-Muqayyar da Leonard Woolley.

La grandiosità delle rovine architettoniche, che ancora oggi ricoprono la

pianura, testimonia il ruolo che la città svolse, per oltre cento anni, nel controllo politico, amministrativo e militare del Paese, arrivando a dominare un’ampia zona della Mesopotamia.

Le tombe del Cimitero Reale, rinvenute negli anni Trenta del Novecento,

rappresentano una delle scoperte piú straordinarie dell’archeologia orientale.

IL SITO NEL MITO I l fascino di Ur deriva dalla sua storia plurimillenaria e dalle emozionanti fasi della sua riscoperta. Ad alimentare miti e misteri contribuiscono i numerosi enigmi irrisolti, primo fra tutti quello intorno alle sepolture collettive individuate nel corso degli scavi del Cimitero Reale. I l sito è, nell’opinione comune, associato alla Ur dei Caldei, luogo leggendario che la Bibbia designa come città natale di Abramo. Ma si tratta, come è spiegato nell’articolo, di un’identificazione tutt’altro che certa e per la quale sono state avanzate diverse ipotesi alternative. L ’archeologo Leonard Woolley, che pure condusse esplorazioni che ancora oggi restano un modello esemplare di rigore scientifico, arrivò a ipotizzare che un poderoso accumulo di limo, localizzato al di sopra dei piú antichi livelli di occupazione del sito, potesse essere la traccia concreta del Diluvio Universale.

UR NEI MUSEI DEL MONDO el Cimitero Reale di Ur furono scoperti centinaia di manufatti, testimoni del N livello e della grandezza conseguiti dai Sumeri nel periodo di massimo splendore. Vasi in metallo prezioso, gioielli, armi, strumenti musicali, tra cui splendide arpe di rame e d’argento con intarsi in madreperla, sono oggi divisi, in misura maggiore, tra il Museo Nazionale di Baghdad, il British Museum di Londra e il Museum of Archaeology and Anthropology dell’Università della Pennsylvania, a Filadelfia (USA). Tra gli oggetti piú celebri vi è il cosiddetto «Stendardo di Ur» (vedi alle pp. 56-57), utilizzato, probabilmente, nell’ambito di processioni rituali e oggi custodito al British Museum.

INFORMAZIONI PER LA VISITA I l sito archeologico, restituito alle autorità irachene nel quadro del processo di normalizzazione avviato all’indomani dei conflitti che hanno insanguinato il Paese, è oggi accessibile, ma non facilmente visitabile. Nel novembre dello scorso anno, l’Italia ha avviato il progetto «Le colline di Abramo», per la tutela e la valorizzazione di Ur e del suo territorio (vedi «Archeo» n. 322, dicembre 2011). Il progetto prevede il restauro conservativo dei monumenti e interventi sul campo, attraverso attività di scavo. Sulla scia di quanto già avvenuto per il Museo virtuale di Baghdad (www.virtualmuseumiraq.cnr.it) è, inoltre, prevista la creazione di un sito internet che consentirà di effettuare visite virtuali della città, grazie a ricostruzioni tridimensionali dell’area archeologica e dei suoi monumenti principali. a r c h e o 45


ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA In basso: un settore del mausoleo con le tombe della casa regnante (III dinastia, XXI sec. a.C.) attribuite ai sovrani Shulgi e Amar-Sin.

QUEL CHE RESTA DI UR La città fu identificata nel 1854 dal vice console britannico a Bassora John Edward Taylor. Dopo le prime indagini, condotte nel 1919 da Harry Reginald Hall, il sito fu scavato, tra il 1922 e il 1934, dall’archeologo inglese Charles Leonard Woolley, su incarico del British Museum e dell’University Museum della Pennsylvania. Interrotti gli scavi, per mancanza di fondi, le fragili strutture in mattoni crudi, risalenti per la maggior parte all’epoca di Ur III (fine del III millennio), furono abbandonate all’incuria, rimanendo esposte alle intemperie. Al degrado si aggiunsero le devastazioni prodotte negli anni delle due guerre contro il regime di Saddam Hussein, quando il sito divenne inaccessibile perché inglobato all’interno di una base militare irachena prima, e statunitense in seguito. Una condizione che in qualche modo preservò, almeno in parte, l’area archeologica da scavi clandestini, saccheggi e danni collegati agli eventi bellici. Nella pagina accanto: pianta della città di Ur, con l’area sacra e i monumenti piú importanti.

de del lago Van ai rilievi del Caucaso, cuore storico dell’Armenia) e in quella di Urfa (sede delle incredibili scoperte dei «templi piú antichi dell’umanità» di Göbekli Tepe). Urfa, inoltre, si trova a poca distanza da Harran (sulle sponde del fiume Balikh), un antico centro commerciale oggi in territorio turco, dove la famiglia di Abramo si stabilí; e molti hanno fatto notare che Harran si trova ben al di fuori di una possibile marcia dalla valle del Tigri e dell’Eufrate alla volta della regione siro-palestinese. Inoltre, tradizioni islamiche ancora vive indicano una grotta nei pressi di Urfa come il luogo di nascita del patriarca. L’acrimonia dei filologi e degli esegeti dei testi biblici, infine, continua a evidenziare dettagli geografici e ambientali incompatibili con la localizzazione a sud della patria di Abramo e Sem, mentre appare innegabile che la Mesopotamia settentrionale, da sempre, è la terra dei nomadi e dei pastori che muovono le greggi dalle ondulate e piovose distese dell’Assiria alle prime valli dei monti del Tauro e degli Zagros. Dovremmo, quindi, rinunciare alle suggestioni create dai primi archeologi (e da una filologia fortemente orientata a confer mare scientificamente ogni aspetto della tradizione biblica), e togliere a Ur, almeno per cautela, la titolarità di «Patria di Abramo». Eppure, come fare a meno dell’immagine, qua46 a r c h e o

LA ZIQQURAT Tra i resti visibili dell’antica città rimane la maestosa mole della ziqqurat, dedicata al dio della luna Nanna, protettore di Ur. Realizzata su costruzioni precedenti dal sovrano Ur-Nammu e portata a termine dal figlio e successore Shulgi, essa si presenta come una torre a piani sovrapposti, di cui rimangono il primo e parte del secondo, alta piú di 20 metri, con una base di 62,50 per 43 metri. La ziqqurat di Ur, parte di un vasto complesso cerimoniale dedicato a Nanna, è oggi una tra le piú conservate della Mesopotamia, anche grazie alle operazioni di restauro condotte negli anni Sessanta del Novecento dall’archeologo iracheno Taha Baqer.


ENUNMAH Nonostante per molto

EHURSAG È stato interpretato come

tempo sia stato considerato un edificio templare, era, probabilmente, il Tesoro Reale dei signori di Ur. Costruito da re Amar-Sin (2046-2038 a.C.) nell’area sacra di Nanna, l’Enunmah presentava pianta quadrata, e racchiudeva al suo interno un edificio minore, composto da quattro vani lunghi, di cui due piú corti, preceduti da una cella longitudinale.

il palazzo di re Shulgi (2094-2047 a.C.), sebbene nelle costruzioni compaiano anche mattoni iscritti con il nome del padre, Ur-Nammu. L’edificio a pianta quadrata (57 m per lato), aveva un ingresso situato forse presso il lato nord-ovest, e si componeva di una grande corte, due sale con funzione di anticamera e della sala del trono.

bacino portuale settentrionale N NO

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palazzo neobabilonese

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recinto sacro fortezza cassita

edublamah case dell ’ epoca della iii dinastia e successive

mausoleo dei re della iii dinastia case dell ’ epoca della iii dinastia e successive

GIPARU

Costruito presso il lato sud-est del recinto sacro, comprendeva i templi minori di Nanna e della divinità femminile a lui associata, Ningal, insieme alla residenza delle addette al culto del dio. Il complesso fu distrutto durante il saccheggio degli Elamiti, nel 2004 a.C., e ricostruito sotto la dinastia di Isin.

case dell ’ epoca della iii dinastia e successive

bacino portuale occidentale

tempio di enki

IL CIMITERO REALE Nella necropoli, in uso tra il 2650 e il 2050 a.C., furono rinvenute 1850 sepolture, singole e multiple. Tra queste, 16 tombe in cui erano deposti personaggi di rango riferibili alla I (2600-2450 a.C.) e alla III dinastia (2112-2006 a.C.) regnante di Ur, accompagnati da corredi di straordinaria ricchezza e individui uccisi ritualmente.

del periodo di Isin e Larsa (2000-1800 a.C.). Le abitazioni, realizzate su due piani, erano costruite attorno a un cortile interno, e si aprivano su vie strette e irregolari.

In basso: testa in oro di toro, particolare della decorazione di un’arpa (o lira), da una tomba del Cimitero Reale di Ur. 2500 a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.


ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA UR, IL FILO DELLA STORIA 5000 a.C.

Ur è un fiorente villaggio della

cultura calcolitica di Ubaid. Il sito è sepolto da uno strato alluvionale di 3,5 m di sabbia e fango, nel quale Woolley riconosce frettolosamente la prova del Diluvio Universale. 4000-3000 a.C. Ur deve aver prosperato, ma le tracce materiali sono scarse. 3000-2000 a.C. Secondo la Lista Reale sumerica (un testo cuneiforme semi-leggendario) Ur è la terza città che riceve la regalità «dopo il Diluvio». La città si arricchisce e si espande, ma la sua archeologia e storia restano mal conosciute. 2600-2400 a.C. I dinastia di Ur: regnano, nell’ordine, Meskalamdug, Akalamdug, Mesanepada, Aanepada ed Elili. Forse, alla fine, Ur viene conquistata da Ur-Nanshe, dinasta della vicina città di Lagash. 2400-2300 a.C. II dinastia di Ur. I governanti della città sono probabilmente tributari dei signori della vicina Lagash. Una o piú case nobiliari continuano a seppellire i propri «re» con incredibile sfarzo e centinaia di uccisioni rituali nel «Cimitero Reale». 2300 a.C. circa L’intera Mesopotamia meridionale viene conquistata e politicamente unificata da Sargon di Akkad. Il re pone sua figlia Enkheduanna come prima sacerdotessa del tempio della dea Inanna a Ur. La posizione di Ur si rivela strategica per l’espansionismo di Sargon e dei suoi figli verso il Golfo Persico. 2250 a.C. circa Le città sumeriche si ribellano a Rimush, uno dei successori di Sargon, ma vengono sconfitte. 2150 a.C. circa Rapido collasso dell’impero akkadico. I Gutei (una popolazione dell’entroterra montuoso iranico) travolgono la Mesopotamia.

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Figura maschile, frammento di intarsio in osso e conchiglia. Secondo quarto del III mill. a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.

In alto: testa di leone in argento, conchiglie e lapislazzuli, dalla fossa sacrificale della regina Pu’abum. 2250 a.C. circa. Filadelfia, University of Pennsylvania Museum of Archaeology and Anthropology. In basso: statuetta di re, in terracotta, da Ur. 2100-2000 a.C. Istanbul, Museo Archeologico.

2100 a.C. circa Utukhegal di Uruk rovescia i Gutei e pone sul trono di Ur un suo comandante, Ur-Nammu. Gudea consolida il suo potere sul trono della vicina Lagash. Ur-Nammu fonda la III dinastia di Ur. 2100-2000 a.C. Ur diviene la capitale di un vasto impero unitario e raggiunge un’estensione di 60-70 ettari. Dopo Ur-Nammu, si succedono sul trono il figlio Shulgi, quindi Amar-Sin, ShuSin e Ibbi-Sin. Sistemazione definitiva dell’area sacra, con la costruzione della ziqqurat, dei templi, di nuove mura urbiche. 2000 a.C. Dopo un lungo periodo di crisi, Ur cade preda degli Elamiti e viene devastata. Ibbi-Sin viene fatto prigioniero e portato a Susa (in Khuzistan, Iran). 2000-1700 a.C. Ur, che ha perso l’indipendenza, viene ricostruita dai sovrani della città di Isin. Uno di essi, Shuilishu, restituisce a Ur la statua del dio cittadino Nanna, che era stata portata a Susa. Ur diviene infine parte del dominio di Hammurabi di Babilonia. 1700-1300 a.C. I Cassiti, una etnia di origine iranica, fondano in Mesopotamia un possente regno unitario. Ampie ristrutturazioni dell’area sacra della città. 1300-600 a.C. Ur viene coinvolta a piú riprese nei conflitti tra l’Assiria e la Babilonia, come alleata di quest’ultima. 600-560 a.C. Il re babilonese Nabucodonosor II ricostruisce il muro di recinzione dell’area sacra di Nanna. 560-540 a.C. Nabunaid, l’ultimo re babilonese, restaura e ricostruisce l’area sacra di Ur. 539 a.C. Conquista persiana della Mesopotamia a opera di Ciro il Grande.


si onirica, della famiglia del patriarca che abbandona una grande metropoli, scivolando nell’ombra lunare della grande ziqqurat, per addentrarsi nelle steppe desolate delle carovaniere del nord-ovest? Il viaggio di Abramo dal cuore di Sumer, dal paese delle torri di antichissime divinità alla volta delle sponde del Mediterraneo e alle radici di un mondo nuovo, ha valenze simboliche troppo forti ed esplicite per essere dismesso facilmente. Tanto piú che ciò avverrebbe nel nome di una pretesa esattezza scientifica che – influenzata da fascinazioni, religioni e nazionalismi di ogni genere – probabilmente non sarà mai tale. Non ci sembra allora, in fin dei conti, una grave forzatura lasciare che Ur rimanga, per tutti noi, la grande «Ur dei Caldei». Ricordiamo, poi, che Ur è anche menzionata da un testo ebraico minore, il Libro dei Giubilei, scritto intorno al II secolo d.C. Considerato apocrifo dalla maggioranza delle confessioni cristiane, ma sacro dalla Chiesa copta, il testo afferma che Ur sarebbe stata fondata nel 1688 Anno Mundi (una datazione incerta che può avere inizio, a seconda dei diversi calcoli, dal 5500 al 4000 a.C.) da Ur, figlio di Kesed, figlio di Arpachsad, antenato di Abramo; e aggiunge che, nello stesso anno della fondazione, ebbero inizio sulla Terra le guerre (Giubilei, 11:13). Un ricordo quasi profetico, anche solo a guardare i devastanti conflitti dell’ultimo ventennio.

Tra mito, politica... «Il richiamo del passato giunse ad afferrarmi.Vedere il luccichio dell’oro di un antico pugnale che emergeva dalle sabbie era romantico. Mi innamorai di Ur, con le sue incantevoli sere, l’ombra pallida della ziqqurat che si stagliava all’orizzonte, nell’ampio mare di sabbia con le sue delicate sfumature di albicocca, rosa, blu e malva che mutavano di istante in istante» (Agatha Christie, An autobiography, racconto pubblicato, postumo, nel 1977 e tradotto in italiano con il titolo La mia vita, Mondadori 2003). Erano anni difficili. Il 27 febbraio 1933 il il Reichstag (la sede del parlamento tedesco) fu distrutto da un incendio, forse appiccato da provocatori nazisti ma attribuito a terroristi comunisti, e Adolf Hitler approffittò di quel «segno celeste» – come egli stesso lo definí – per prendere il potere. Quasi contemporaneamente, Thomas Mann (1875-1955), che aveva vinto da pochi anni il Nobel per la letteratura, abbandonava la Germania in

Elmo d’oro decorato a sbalzo, di re Meskalamdug, dalla tomba PG 755, nel Cimitero Reale di Ur. 2650-2550 a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.

esilio volontario, ma vi pubblicò il primo volume della sua tetralogia Le Storie di Giacobbe; mentre Charles Leonard Woolley (1880-1960) si apprestava a chiudere la sua storica missione a Ur, dopo undici anni di lavoro, sull’onda di una crisi economica globale che, sembra storia d’oggi, sacrificava innanzitutto l’archeologia. Uno scaltro politico pronto a scatenare sull’intera Europa le sue ideologie razziste, un letterato tedesco e un archeologo britannico all’apice del successo: se il primo era già affascinato dalle mitologie nordiche e germaniche, e pronto a promuovere i sinistri incanti di un nazismo magico, il secondo era profondamente ammaliato dalle radici antichissime della tradizione cristiano-giudaica e dai suoi infiniti riflessi sulla cultura europea. Il terzo, l’archeologo, aveva dissepolto nelle trincee di Ur le prove piú eloquenti e drammatiche delle radici che univano l’eredità cristiana alVicino Oriente antico, prove che Thomas Mann doveva avere attentamente osservato.

...e religione Nella narrazione che lo scrittore fece del sogno di Giacobbe a Bethel, la terra e le sfere celesti sono unite da una scala tesa tra cielo e terra, fatta di infiniti gradini fiammeggianti, chiaramente immaginata come la gradinata della ziqqurat di Ur. Su di essa corrono, in moto perpetuo, angeli, guardie celesti e fiammeggianti, animali pennuti in forme umane, e vi compaiono divinità taurine accovacciate con perle sulla fronte, lunghi riccioli alle orecchie e barbe ben acconciate: come non pensare ai tori d’oro e lapislazzuli delle arpe trovate a Ur da Woolley, o alle creature mitiche dei sigilli in pietra dura e alle creature fantastiche degli avori di Nimrud? Come scrisse «con il cuore» André Parrot (1901-1980), un altro grande scopritore del Vicino Oriente antico: «La torre di Babele fu una scala; il tempio, che essa sorreggeva, una porta. Straordinaria e commovente anticipazione del grido di Isaia: Oh, se tu squarciassi i cieli e discendessi! Si sa che, nella notte di Natale, Dio discese» (da Archeologia della Bibbia, Newton Compton 1978). Sarebbe impossibile tracciare il filo ombelicale che collega Sumer, la tradizione biblica e il cristianesimo in modo altrettanto sintetico e lampante. a r c h e o 49


ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA AGATHA CHRISTIE, RESTAURATRICE Agatha Christie adorava pulire e restaurare gli oggetti ritrovati durante lo scavo, un processo che sentiva strettamente affine al disvelamento della nuda verità che operava alla fine dei sui romanzi. In Death on the Nile (Poirot sul Nilo, 1937) leggiamo: «Nel corso dello scavo, quando un oggetto esce dal suolo, intorno a esso tutto viene rimosso e pulito con cautela (...) Questo è quanto io ho sempre cercato, eliminare la sostanza estranea per poter vedere la verità – la nuda, brillante verità». Tuttavia, maieutica a parte, Agatha aveva un amore sconfinato per la creatività dell’uomo del passato. «Ci si sente orgogliosi di appartenere alla razza umana quando si vedono le cose meravigliose che l’uomo ha creato con le sue mani. Gli uomini sono stati creatori – devono condividere un po’ della divinità del loro Creatore (...) Sono totalmente dedita agli oggetti d’arte e di artigianato che emergono dal terreno. Forse scavare sarà piú importante, ma per me nessun fascino può competere con il lavoro delle mani umane» (An Autobiography). Si sa che, nel corso degli scavi che il marito diresse nella grande reggia assira di Nimrud, Agatha usava pulire i delicati avori con una costosa crema per il viso. Il metodo non è certo raccomandabile, ma funzionava (e non sembra aver causato particolari danni ai manufatti).

Lo scavo della grande Ur fu tutto questo: la scoperta di tesori da favola, l’esito di una straordinaria guerra di simboli che preannunciava un nuovo atroce conflitto, la riscoperta e, in una certa misura, la reinvenzione di arcaiche radici comuni con i Paesi dell’Oriente al tramonto del colonialismo, in una inevitabile e forzosa «normalizzazione» della diversità culturale di un passato ancora quasi completamente ignoto e incommensurabile. E, come ogni storia straordinaria, anche questa ebbe protagonisti di eccezione.

Amori e veleni Il modo migliore per avvicinarsi a Ur è forse quello di seguire le mosse della piú celebre scrittrice di romanzi gialli.Agatha Mary Clarissa Miller nacque il 15 Settembre 1890 a Torquay, Inghilterra. Il padre, Fred Miller, era un agente di cambio statunitense, e morí nel 1901. Per volere della madre, l’inglese Clara Boehmer, Agatha fu istruita privatamente a casa, con il progetto di farne una pianista o una cantante lirica. Nel 1906 si recò a Parigi per studiare canto, ma si rese conto di essere troppo timida per esibirsi e tornò in Inghilterra. Qui si innamorò ardentemente di Archibald Christie, un aviatore dei Royal Flying Corps. I due si sposarono nel 1914 e, nel 1919, Agatha ebbe la sua unica figlia, Rosalind. Aveva anima totalmente britannica: non chiese mai la cittadinanza 50 a r c h e o


statunitense, sebbene ne avesse diritto, e, durante la prima guerra mondiale, lavorò come infermiera volontaria in un ospedale della Croce Rossa, dove fece preziose esperienze su medicinali e veleni, sino a superare l’esame di ammissione alla Society of Apothecaries (una società professionale di farmacisti). Anche nel secondo conflitto mondiale sarebbe tornata a lavorare come volontaria nella farmacia di un ospedale. La leggenda vuole che l’amore per le storie poliziesche le fosse venuto dai racconti che i degenti lasciavano in ospedale prima di essere dimessi per tornare a combattere. La sua prima opera, The Mysterious Affair at Styles (Poirot a Styles Court) uscí nel 1920. La vittima, nel romanzo, muore per avvelenamento; il libro, grazie alla felice invenzione del detective Hercule Poirot, fu un vero successo. Agatha ne ricavò un importante contratto per scrivere 12 altre storie con protagonista Poirot e i fondi per iniziare a viaggiare per il mondo. Tutto cambiò drammaticamente nel 1926, quando morí improvvisamente sua madre, e il marito le chiese il divorzio. Nessuno sa con esattezza che cosa sia accaduto, ma Agatha scomparve da casa, per essere ritrovata dieci giorni dopo in stato confusionale in un albergo di una località termale scozzese dove si era incomprensibilmente reg istrata con il nome dell’amante di Archibald. Si parlò di una montatura pubblicitaria o di un caso di amnesia; nel 2001 un biografo cercò di provare che la scrittrice aveva voluto simulare il proprio omicidio nella speranza che ne fosse accusato il marito fedifrago. Agatha riprese a viaggiare, come se fosse in cerca di una nuova vita. A partire dal 1925, anno in cui fu scoperto il Cimitero Reale, aveva letto delle meravigliose scoperte di Ur nella Illustrated London News. Decise che avrebbe visitato quei luoghi. Nello stesso

anno, un promettente studioso di 21 anni, Max Mallowan, si era unito alla missione di scavo a Ur: il destino elaborava le sue trame.

La signora dell’Orient Express «Gli archeologi esaminavano piccoli, oscuri monticoli in tutta la regione, raccoglievano frammenti di cocci dipinti dovunque si recavano, li etichettavano, li sigillavano entro borse, e ne esaminavano attentamente i disegni – era tutto infinitamente interessante. Fui enormemente deliziata dalla mia prima esperienza di vita in una missione di scavo» (Agatha Christie, An autobiography). Nel 1928 Agatha aveva progettato un viaggio nei Caraibi, «in cerca del sole». Ma due giorni prima di partire, incontrò a una festa un ufficiale di marina che le parlò di Baghdad e degli scavi di Ur. Agatha cambiò subito i biglietti, e realizzò cosí il sogno di prendere l’Orient Express e di visitare il Vicino Oriente. Aveva sempre amato i treni e ne adorava i finestrini, che le permettevano di osservare a piacimento e in sicurezza il mutare del mondo. Soggiornò a Istanbul (l’albergo presso il quale si fermò è oggi stato musealizzato in ricordo del suo passaggio) e raggiunse poi Baghdad. Arrivata in Iraq, si recò a visitare il sito. Mallowan allora era assente. Alla casa della missione fu accolta calorosamente da Katharine, la moglie tedesca di Woolley, che era anche un’ammiratrice dei suoi romanzi.Woolley accompagnò personalmente la scrittrice a visitare gli scavi, e i due coniugi la invitarono a tornare a Ur in occasione della missione successiva. E, nel 1930, Agatha tornò a Ur. I Woolley e Mallowan avevano da poco finito di scavare, con fatiche estenuanti ed emozioni indescrivibili, il Grande Pozzo della Morte (PG 1237) e i suoi tesori. Agatha giunse nel cuo-

Nella pagina accanto, in alto: Agatha Christie fotografata sullo scavo dell’antica città di Balawat, in Iraq, nel 1956; in basso: Agatha con il secondo marito, Max Mallowan, nella loro casa di Winterbrook, nella contea inglese dell’Oxfordshire, in una fotografia del 1950.

Pugnale in argento e oro con lama in bronzo, e fodero in oro con decorazione a filigrana, dalla tomba di Meskalamdug del Cimitero Reale. 2450 a.C. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.

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ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA re di una interminabile tempesta di sabbia, e fu Katharine a insistere affinché il giovane Mallowan (19041978), ora assistente di Leonard, si prendesse personalmente cura della scrittrice, che lo descrisse come «un giovanotto magro, scuro, molto tranquillo». Cosí si legge nell’autobiografia di Max: «Quando Agatha venne per fermarsi a Ur nel marzo di quell’anno, Katharine Woolley, con i suoi modi imperiosi, mi ordinò di portarla a Baghdad e di farle vedere un po’ il deserto (...) era un giorno torrido e decidemmo di fare un bagno in un laghetto salato lí vicino, ma la macchina si insabbiò inesorabilmente (...) Fortunatamente avevamo una guardia, un beduino che ci era stato dato dalla polizia a Najaf, il quale, dopo aver pregato Allah, si mise in viaggio con noi per una marcia di 50 km. Ricordo di essere rimasto sbalordito dal fatto che Agatha non mi rimproverò per la mia incompetenza (...) Se fossi stato accompagnato da Katharine, questo è quanto sarebbe certamente successo, e cosí decisi che Agatha doveva essere una donna eccezionale». Ci sono molti modi di innamorarsi, e quello di non essere rimproverati ne rappresenta, evidentemente, una buona premessa. Il nome di Katharine incombe sulla coppia, sin dal loro primo incontro. La scrittrice aveva allora 40 anni, 14 piú di Max. Non si può dire, guardando le foto del tempo, che fosse una donna bellissima, era, però, una delle scrittrici piú famose d’Europa e aveva certamente una personalità magnetica. Poiché Rosalind, la figlia di Agatha, si era ammalata gravemente, Max si offrí di accompagnare la compatriota nel viaggio di ritorno. Una volta a casa fece la sua offerta di matrimonio, che fu accettata (non senza attente ponderazioni). I due si sposarono. Erano passati sei mesi dal loro primo incontro.

Archeologia in «giallo» Katharine Woolley, per qualche motivo, aveva consigliato alla coppia di ritardare le nozze, e ne fu molto contrariata. Max aveva promesso di tornare a Ur a scavare in ottobre, ma Katharine dispose che i due non erano piú graditi alla missione. La rottura con i Woolley fu totale, e Max, l’anno successivo, accettò di scavare con Reginald Campbell Thompson. Iniziò cosí per Agatha una inaspettata carriera di archeologa, che la impegnò per lunghi anni come studiosa, fotografa e restauratrice sulla scena di rovine, trincee e deserti (vedi box a p. 50). Dal 1931 al 1939 lavorò, a fianco del

In basso: frontale in grani di lapislazzuli e cornalina, e pendenti in oro a forma di foglie, dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237), nel Cimitero Reale di Ur. 2500 a.C. circa. Baghdad, Museo Nazionale dell’Iraq.

marito, a Ninive, Arpachiyah, Chagar Bazar e Tell Brak, per poi intraprendere, alla fine del secondo conflitto mondiale, gli scavi di Nimrud, l’antica Kalah degli Assiri. Sei anni dopo la rottura con i Woolley, Agatha scrisse Murder in Mesopotamia (Non c’è piú scampo, 1936), dedicato ai suoi «numerosi amici archeologi in Siria e in Iraq». Nel romanzo, un Hercule Poirot irritato da scomodità di ogni genere deve scoprire chi, durante uno scavo, ha avvelenato la moglie di un famoso archeologo. Agatha Christie continuò a scrivere le sue storie poliziesche sulla scena di viaggi in Oriente (Egitto, Siria, Giordania, Iraq), collocando trame ed eventi su barche e vagoni ferroviari, e in qualche caso, come in Murder in Mesopotamia, nelle case delle missioni di scavo. L’ambientazione circoscritta permetteva alla scrittrice di scavare a fondo nei caratteri e nelle pulsioni che animavano i suoi personaggi. Non le era certo sfuggito che nelle missioni archeologiche orientali si formano – allora come oggi – piccole società segregate, nelle quali spesso ognuno dà il peggio di sé: ambizioni e frustrazioni, piaggerie e servilismi prendono forma attorno a direttori di scavo spesso tirannici e pronti ad abusare psicologicamente dei sottoposti; e, non di rado,

I corredi rinvenuti nel Cimitero Reale erano cosí ricchi da rivaleggiare con il tesoro di Tuthankamon

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Pendenti in oro (in alto) e collane in oro e lapislazzuli (in basso e nella pagina accanto), dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237), nel Cimitero Reale di Ur. 2500 a.C. circa. Oxford, Ashmolean Museum.

A destra: il copricapo e i gioielli indossati dalla regina Pu’abum (I dinastia reale di Ur, 2600-2400 a.C.), riprodotti in una stampa a colori.

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ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA le mogli dei direttori non erano da meno. La missione di scavo diviene quindi un concentrato, pericoloso, delle innate attitudini gerarchiche dell’essere umano. Nella finzione letteraria l’omicidio è la soluzione di questo brutale egoismo, la ricerca della verità la forma del riscatto sociale. Quando Agatha Christie «rubò» il timido Mallowan ai Woolley, lo scavo del Cimitero Reale e l’intero progetto di scavo di Ur volgevano ormai alla fine, e l’immagine storico-archeologica dell’antica città era già stata delineata come oggi la conosciamo. Nonostante Ur sia la città sumerica scavata meglio, e in maggiore estensione, essa conserva ancora gran parte dei suoi segreti. A cominciare proprio dalle tombe del Cimitero Reale.

300 corpi per i signori di Ur Delle 1850 sepolture scavate da Woolley presso l’angolo orientale del muro di recinzione dell’area sacra di età neobabilonese, sedici erano state costruite in modo del tutto anomalo e avevano corredi di una stupefacente ricchezza, tali da rivaleggiare con il tesoro di Tuthankamon (scoperto nel 1922, lo stesso anno in cui Woolley aveva iniziato a sospettare dell’esistenza del cimitero). In molte di esse, inoltre, il principale occupante della tomba (donna o uomo) era stato accompagnato da numerose sepolture accessorie, con corpi accostati alla bara oppure disposti in file e gruppi in pozzi collaterali. I corredi contenevano migliaia di preziose perle in cornalina, in gran parte importate dalla valle dell’Indo o fatte a Ur da artigiani indiani, e quasi tutto il lapislazzuli mai trovato nel Vicino Oriente antico, giunto dalla remota valle del Badakshan (Afghanistan nord-orientale).Vi erano arpe di rame, d’argento e di legni preziosi intarsiati di pietre dure e conchiglie; cosmetici; vasi d’oro, d’argento e di pietra dura; barchette d’argento che forse alludono a un viaggio su acque ultraterrene; uova di struzzo finemente lavorate; contenitori fatti di grandi conchiglie del Golfo Persico, probabilmente incise nell’attuale Baluchistan; e i carri e le slitte che avevano portato alla loro dimora i corpi dei signori di Ur. Questi tesori, accuratamente scavati e restaurati da Woolley, oggi sono il vanto delle collezioni del Museo Nazionale di Baghdad, del British Museum e dell’University Museum di Filadelfia (Pennsylvania, USA). Insieme a tutto ciò, il Cimitero Reale ci ha lasciato mille interrogativi irrisolti. Non ne è stata stabilita l’esatta cronologia; mentre rare iscrizioni sembrano dire che tra i «re» vi sarebbero alcuni dei sovrani che compaiono nella I dinastia di Ur della Lista Reale sumerica (26002400 a.C. circa), altri sono del tutto ignoti; e i tesori delle tombe reali sembrano in buona parte posteriori. Molti dubitano che si tratti effettivamente di re e regine, e sospettano – probabilmente a torto – che siano invece sacerdoti e sacerdotesse sacrificati in complessi riti che simulavano matrimoni tra i sovrani e le divinità cittadine. Nel complesso, i morti che accompagnarono i signori nelle tombe, sono oltre 300. 54 a r c h e o

Pianta della camera sepolcrale della regina Pu’abum con l’indicazione dei numerosi oggetti del corredo.

Nella pagina accanto, in alto: il particolare di un cranio femminile ornato con oro, lapislazzuli e corniola, proveniente dal Grande Pozzo della Morte (PG 1237), nel Cimitero Reale di Ur; in basso: le operazioni di scavo di una fossa a Ur, tra il 1933 e il 1934.

I Woolley avevano scavato il Grande Pozzo della Morte (PG 1237) nell’inverno 1929-1930. La tomba collettiva conteneva i resti di 78 persone, forse in gran parte giovani donne, riccamente addobbate e ingioiellate, che giacevano indisturbate e composte in file regolari sul pavimento. Come erano morte? La lettura attenta del libro The Sumerians (New York 1929) rivela che Woolley, prima di questo scavo, pensava che fossero state vittime di uccisioni rituali di massa. Tutto indica che fu Katharine, in quel fatidico inverno, a suggerire al marito un’altra ipotesi, quella del suicidio volontario di massa mediante ingestione di droghe e veleni. Certamente ebbero un peso notevole, in questa nuova ricostruzione degli eventi, le letture dei libri di Agatha Christie, nei quali l’avvelenamento è una comune «tecnica di morte». L’idea di una morte dolce e volontaria, inoltre, soddisfaceva la sensibilità neo-romantica di parte degli intellettuali del tempo, ed evitava di compromettere l’idea di una civiltà evolutissima che gli scavi in Mesopotamia, per altri versi, non cessavano di alimentare. La scienza moderna sta cambiando radicalmente la ricostruzione degli eventi. Gli antropologi hanno sco-


NEI POZZI DELLA MORTE In alcune delle sepolture del Cimitero Reale indagate da Leonard Woolley erano deposti personaggi di rango circondati da uomini e donne. Dopo lo scavo l’archeologo fece asportare in blocchi di terra una serie di teste, schiacciate dal peso del terreno e ancora coperte dagli elmi in rame (i maschi) o addobbate in acconciature cerimoniali (le donne). Nel 2009 due di questi blocchi, noti come deadheads (letteralmente «testemorte»), sono stati sottoposti a tomografia assiale computerizzata (TAC). Un cranio femminile sembra sfondato da un forte colpo, mentre quello maschile mostrerebbe due fori circondati da crepe radiali, il segno inconfondibile (per gli esperti di medicina legale) dell’impatto sulla tempia di un’arma simile a una piccozza. L’elmetto sembra intatto, quindi la vittima fu rivestita formalmente dopo essere stata uccisa. Scoperte che suggeriscono che tali individui siano stati violentemente uccisi prima di scomparire nelle sepolture di massa.

Il Codice scolpito nel basalto

perto segni di fratture violente sui pochi crani che gli scavatori portarono in Inghilterra e negli Stati Uniti, e studi accurati sui modi delle deposizioni rivelano che le persone uccise, dopo essere state lavate e sontuosamente rivestite, erano state portate nella camera sotterranea seguendo complessi rituali, e in assetti ispirati a vaste concezioni cosmologiche. Nessuno, comunque, è finora riuscito a spiegare come mai, di questi riti macabri e impressionanti – condivisi, del resto, dagli Stati arcaici protostorici di buona parte dell’Eurasia – non vi siano tracce nei testi cuneiformi dell’epoca.

Lo scavo della grande ziqqurat Leonard Woolley, che aveva un’intelligenza fine e concreta per i fatti pratici dello scavo, aveva scelto di iniziare le ricerche dal monumento piú visibile del sito, e forse meno complesso dal punto di vista delle tecniche di indagine, la grande ziqqurat. L’enorme «torre» a gradoni (43 x 62,5 m alla base) era stata sfiorata, una settantina di anni prima, dagli scavi di John George Taylor. Nel 1913 gli scavi di Robert Koldewey a Babilonia avevano messo in luce, della mitica torre di Babele, solo fondazioni semidistrutte. Per questo, quando pensiamo a r c h e o 55


ur I LUOGHI DELLA LEGGENDA In basso: ariete in lamina d’oro, rame, lapislazzuli e conchiglia, dal Cimitero Reale di Ur. 2550 a.C. Filadelfia, University of Pennsylvania, Museum of Archaeology and Anthropology.

Guerra e pace Il cosiddetto Stendardo di Ur, rinvenuto nel Cimitero Reale, nella tomba 779 (2600 a.C.), e conservato al British Museum di Londra, è una cassetta lignea decorata in madreperla e conchiglie su uno sfondo di lapislazzuli, con i lati maggiori suddivisi in tre registri separati da bande ornamentali, che si leggono dal basso verso l’alto. Su uno, detto «della Guerra» (in alto, sulle due pagine) sono raffigurati, nella fascia inferiore, i nemici sconfitti travolti da carri trainati dagli onagri delle milizie di Ur; nella fascia mediana, i vinti sono fatti prigionieri e portati al cospetto del sovrano; nella fascia superiore, il re, raffigurato al centro e in dimensioni maggiori, attende i prigionieri. Sul lato opposto, detto «della Pace» è raffigurato un banchetto alla presenza del re.

alla torre di Babele, oggi, in realtà, visualizziamo le famosissime ricostruzioni che Woolley fece della grande ziqqurat di Ur, il tempio principale di Nanna, ben conservata sino al basamento del secondo piano. Tuttavia anche la ziqqurat e la sua storia sono tutt’altro che ben conosciute. Non si sa esattamente a quando risalga il primo impianto del III millennio a.C. Delle costruzioni precedenti la ziqqurat di Ur-Nammu ci sono giunti due nomi (Etemenniguru, il recinto originario, letteralmente «Spazio avvolto nel terrore», e Elugalgalgasisa, «casa del sovrano che fa prosperare il consiglio»). Sebbene sia noto che alcuni templi della Mesopotamia protostorica nacquero su vaste terrazze monumentali, quella di Ur è la prima «torre a gradoni» con regolare pianta quadrangolare conosciuta, ed è verosimile che sia stata ispirata da modelli iranici, dato che sull’alto56 a r c h e o


piano costruzioni di quel tipo sono ben piú antiche. Nell’età della III dinastia di Ur, l’area sacra doveva essere chiusa, come quella piú tarda di età neobabilonese, da un recinto murario di 200 x 250 m circa. Nell’angolo nord-ovest la ziqqurat era dotata di due, forse di tre piani (come pensava Woolley) e di un tempio sommitale. Tre scalinate convergevano sul lato nord-ess, e di fronte a esse si apriva la grande Corte di Nanna, inserita nella recinzione generale dell’area sacra. Gli spessi rivestimenti di bitume del primo piano della ziqqurat avevano suggerito a Woolley che esso ospitasse dei giardini alberati, riproponendo un arcaico modello di «montagna sacra» ed evocando al tempo stesso i «giardini pensili di Babilonia», uno dei miti piú enigmatici del mondo antico; ma la suggestiva ipotesi, in seguito, non fu presa in seria considerazione.

Giochi di luce e di ombre Nella vasta recinzione sorgevano grandi edifici, costruzioni protette e ombrose, con spesse mura in mattoni cotti e crudi, e le pareti esterne animate, secondo le piú arcaiche tradizioni del Paese, da fitti giochi di recessi e contrafforti, che spezzavano l’urto di un sole accecante in lame verticali d’ombra, con l’effetto di slanciare visivamente in alto gli edifici. Vi era il Giparu, un vasto complesso quadrangolare con cortili interni, e un vero intrico di stanze lunghe e strette, forse in origine il magazzino del tempio. In seguito, il Giparu divenne tempio della dea Ningal e casa della sua sacerdotessa. Era un edificio forse riservato alle donne: gli archeologi credettero di aver trova-

to, sotto ai pavimenti delle celle interne, le tombe delle sacerdotesse, e una parte della costruzione potrebbe aver ospitato lunghi telai orizzontali. L’Enunmah, sul lato sud-est della Corte di Nanna, ospitava altri culti e il tesoro del tempio. Ancora piú a sud-est Ur-Nammu costruí il quadrangolare Ehursag, altro intricato edificio interpretato da Woolley come palazzo reale, forse adibito ai culti riservati ai sovrani. Il re Amar-Sin infine, costruí, come entrata monumentale al complesso della ziqqurat, l’Edublamah (termine che significa letteralmente «Casa cardine eccelso»), un vasto ingresso a camere consecutive tra il Giparu e l’Enunmah forse usato come camera per udienze e giudizi, poi gradualmente sacralizzato in tempio. Sembra che il muro sacro di Ur-Nammu, nell’angolo sud-orientale, escludesse l’area del cimitero arcaico, e lo stesso mausoleo dei re della III dinastia, un vero e proprio palazzo sotterraneo destinato al culto dei sovrani divinizzati, dotato di camere, scale, e di altari per i rituali e le libagioni presso le tombe. Il mausoleo, non meno delle tombe dei re piú antichi, doveva essere colmo di ricchezze inestimabili, ma fu saccheggiato dagli invasori iranici ai tempi della conquista di Ur, intorno al 2000 a.C. Quando Woolley ne riaprí le camere, vi trovò, caduti al suolo, preziosi inserti in oro a forma di astro radiante, che dovevano simulare, sulla volta del sepolcro, un estatico cielo stellato. NEL PROSSIMO NUMERO

CNOSSO sotto il segno del Minotauro a r c h e o 57


storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/2 di Daniele F. Maras

I PIRATI del TIRRENO

Base 42

Gli Etruschi, terribili corsari e feroci torturatori? Navigatori intraprendenti, essi esercitarono il predominio non solo lungo la costa tirrenica, ma anche nell’Adriatico, in Sicilia e perfino nell’Egeo. Fino ad assumere, agli occhi dei Greci, il ruolo di nemico pubblico numero uno…

Q

uella di crudeli pirati che infestavano i mari depredando i mercanti e trucidando i malcapitati che gli si opponevano non è una veste nella quale siamo abituati a vedere gli Etruschi. Eppure è proprio questa una delle immagini con cui piú spesso essi venivano identificati dai Greci, ai quali contendevano il predominio sul mare e che li consideravano un vero e proprio pericolo per la navigazione. Le fonti letterarie greche sono pressoché concordi nell’insistere sulle doti marinaresche dei Tirreni, nome con il quale venivano definiti non solo gli Etru58

arc h e o


Sullo sfondo: due vascelli in navigazione, particolare della decorazione esterna di una coppa a figure nere, da Vulci. Opera del pittore Nicostene, 520-510 a.C. Parigi, Museo del Louvre. Per acquisire il dominio dei mari, gli Etruschi non rinunciarono ad azioni che, agli occhi dei Greci, furono interpretate come atti di vera e propria pirateria.

Sulle due pagine:: teste di guerrieri in terracotta dipinta, da Cerveteri. 510 a.C. Berlino, Altes Museum Antikensammlung.

schi d’Italia, ma anche gli abitanti di alcune isole dell’Egeo, che parlavano una lingua apparentata con l’etrusco, come abbiamo già visto (vedi «Archeo» n. 324, febbraio 2012).

Da uomini a delfini La pirateria dei Tirreni era talmente temuta dagli antichi marinai e aveva a tal punto impressionato la loro immaginazione che era stata proiettata indietro nella memoria fino al tempo del mito. Infatti, in un famoso inno religioso al dio Dioniso, giunto fino a noi con un’improbabile attribuzione a Omero, ma in realtà di a r c h e o 59


storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/2 epoca ben piú recente, si narra l’avventura del giovane dio, rapito da una banda di pirati Tirreni, che intendevano portarlo in Oriente – a Cipro o in Egitto – per venderlo come schiavo. Naturalmente il dio si adirò e si manifestò in tutta la sua potenza, trasformandosi in un leone e facendo crescere tralci di vite e grappoli dall’albero della nave; i pirati, terrorizzati, si gettarono in mare, dove vennero prontamente trasformati in delfini. Da quel momento Dioniso ricevette l’epiteto di «distruttore di Tirreni», che ci è stato tramandato da altre fonti. L’ambientazione dei viaggi del giovane Dioniso si svolgeva interamente in Oriente e nell’Egeo, per cui è giocoforza immaginare che i N

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La battaglia di Alalía e le sue conseguenze (540-474 a.C.)

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Territori controllati dai Cartaginesi

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Territori controllati dagli Etruschi

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A sinistra: l’Italia fra la fine del VI e il V sec. a.C. Sono indicati i territori controllati dagli Etruschi e dai Cartaginesi, e le principali colonie greche. Gli equilibri geopolitici risentirono in maniera decisiva degli esiti delle molte battaglie combattute per il controllo dei traffici marittimi.


Dioniso, il «distruttore dei Tirreni» Hydría (vaso per acqua) etrusca a figure nere con rappresentazione di una scena del mito: i pirati Tirreni che hanno osato rapire il giovane Dioniso si gettano tra le onde, dove vengono trasformati in delfini. Opera attribuita al Pittore del Vaticano 238. Fine del VI-inizi del V sec. a.C. Toledo (Ohio, USA), Toledo Museum of Art. Il racconto mitologico era presente già nell’antico inno omerico a Dioniso e va ambientato presumibilmente nel Mare Egeo. La sua conoscenza da parte di artigiani etruschi e la sua riproposizione in forma artistica dimostrano quanto il mito greco fosse compreso e apprezzato nell’Etruria arcaica.

a r c h e o 61


storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/2 realtà, il terribile mostro Scilla, che risiedeva sulla punta estrema della Calabria e attaccò la nave di Ulisse al suo passaggio nello stretto di Messina, non era altro che una nave pirata tirrena, con una figura mostruosa sulla prora, al posto della polena, che aggrediva e taglieggiava i navigatori e alla quale non sfuggí nemmeno il re di Itaca. Il racconto dei marinai scampati ai disastri e la fama leggendaria dei feroci pirati si trasformarono, nel ricordo, nell’orribile mostro-femmina, che, al posto delle gambe, aveva serpenti con la testa di cane, come narrava Omero nell’Odissea. La spiegazione non è molto diversa dalle altre che Palefato utilizzava per riportare i miti greci a fatti piú che naturali, ma ci fornisce indirettamente un dato importantissimo: «i Tirreni avevano navi, che saccheggiavano la costa della Sicilia e il mar Ionio». Per i Tirreni la pirateria era dunque una caratteristica connaturata e la loro attività li Scilla, nave pirata? Ma se i pirati di Dioniso infestavano portava ben al di là delle coste dosoprattutto l’Egeo, a tempi altret- ve vivevano. tanto remoti rimanda una notizia In realtà, sappiamo da altre fonti tramandata dallo scrittore Palefato, che gli interessi marittimi degli un alunno di Aristotele, attivo nel Etruschi li avevano portati, in epoIV secolo a.C., che scrisse un’opera, ca tardo-arcaica, ad assediare e inSulle cose incredibili, in cui cercava di vadere per un breve periodo le razionalizzare e spiegare le origini isole Lipari, sede di un’antica colodei miti. Racconta l’autore che, in nia greca e vera postazione chiave Tirreni ai quali il mito si riferisce fossero quelli locali, installati specialmente nelle isole di Lemno, Imbro e Sciro. Ma cosí come sembra evidente che gli autori greci abbiano identificato nel nome e a volte nelle origini i due popoli omonimi, si direbbe che anche gli Etruschi serbassero il ricordo (piú o meno mitico) di tale parentela etnica. Lo prova, per esempio, un vaso per acqua a figure nere (hydría) prodotto in Etruria attorno alla fine del VI secolo a.C. e oggi conservato negli Stati Uniti, in cui è riprodotto il momento della trasformazione dei pirati che si tuffano tra le onde (vedi alla pagina precedente). E va considerata anche la testimonianza di un piattello del gruppo «Genucilia» (fine del IV secolo a.C.), ritrovato a Roma negli scavi della Curia, su cui è raffigurata la prora di una nave con tralci di vite che ricadono dall’albero maestro.

archeo

per il controllo della navigazione nello stretto di Messina. Quindi la notizia di Palefato non era certo priva di fondamento: le terribili battaglie combattute dai Liparesi per conservare l’indipendenza erano testimoniate anticamente da due doni votivi che essi avevano offerto all’Apollo di Delfi «per grazia ricevuta», dopo una battaglia vittoriosa, e che erano ancora visibili ai tempi di Pausania, autore della celebre guida ai monumenti della Grecia nel II secolo d.C.

Torture e sacrifici In proposito, il poeta alessandrino Callimaco raccontava in alcuni suoi versi, giunti fino a noi fortunosamente (seppure in pessime condizioni) su un papiro egiziano, come gli Etruschi, per conquistare Lipari, avessero fatto voto di sacrificare il piú forte dei loro nemici, non appena avessero espugnato la città. Il che puntualmente avvenne: il prigioniero designato fu un certo Teodoto, presumibilmente a capo della resistenza greca, che venne trucidato in onore di Apollo. Questo episodio ci riporta a un altro aspetto del carattere degli Etruschi, rimarcato dagli autori greci: quello della crudeltà e della ferocia con cui torturavano e uccidevano i prigionieri di guerra in onore delle


Borchia in oro decorata a granulazione con volto maschile bifronte, da Spina (Emilia-Romagna). V sec. a.C. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale.

un’importante famiglia locale o sacrificati anch’essi ad Apollo. Il rifiuto di questo genere di sacrificio fu manifestato dagli dèi con una terribile pestilenza, che afflisse uomini e animali sul luogo del massacro (in realtà causata, probabilmente, dal gran numero di cadaveri insepolti). I Ceriti mandarono immediatamente un’ambascer ia al santuario di Delfi e ne ottennero l’ordine di seppellire con grande onore i Focei lapidati e di celebrare periodicamente giochi funebri, che si svolgevano presso un santuario sorto proprio in quegli anni a Montetosto, lungo la strada che portava da Cerveteri al porto di Pyrgi (i cui resti si conservano nei pressi del castello di Santa Severa, nel comune di Santa Marinella, n.d.r.) e nei pressi di un antico tumulo aristocratico. Ma la tortura e l’uccisione dei prigionieri non era per gli Etruschi solo un fatto legato alla pirateria: anche nelle guerre contro Roma i Tarquiniesi, in piú di un’occasione, riservarono ai nemici catturati un pubblico massacro nel foro della loro divinità. È famoso il racconto loro città. E anche del leggendario di Erodoto della sorte toccata ai re Mezenzio di Caere, acerrimo prigionieri focei, catturati dopo la nemico di Enea nei versi di Virgilio, grande battaglia del Mare Sardo si disse che aveva inventato torture (540-535 a.C. circa), che, di fatto, orribili, tra cui quella di legare un consegnò la Corsica in mano agli uomo vivo a un cadavere finché Etruschi, ricacciando i coloni di morte non sopraggiungesse. Un frammento di Cicerone sembra Alalía nell’Italia meridionale. Gli sventurati marinai greci cattu- suggerire che questo genere di torrati dagli Etruschi furono portati a tura fosse stato realmente praticato Cerveteri (l’antica Caere), dove dagli Etruschi, quale esempio di vennero lapidati fuori città: proba- raffinata crudeltà. bilmente offerti agli antenati di Per i Greci, gli Etruschi/Tirreni

L’invasione celtica isolò le città costiere di Spina e Adria, abituate alla frequentazione dei navigatori greci Il porto sul Po

Ricostruzione di un quartiere di Spina. La città etrusca fu fondata, intorno al 540 a.C., presso il delta del Po, alla confluenza di vie di comunicazione fluviali, marittime e terrestri. Tra il V e il IV secolo a.C. divenne uno dei piú importanti scali commerciali del Mediterraneo. Nel IV sec. a.C., travolta dalle invasioni di genti celtiche, la città si ridusse a un piccolo villaggio.

a r c h e o 63


storia I MILLE VOLTI DEGLI ETRUSCHI/2 erano famosi soprattutto come predoni del mare. Ma «pirateria» è il nome con cui gli autori antichi definivano un’attività militare marittima, che in altri contesti può essere definita controllo del mare ovvero, con un termine che Diodoro Siculo usa per gli stessi Etruschi, la «talassocrazia» (da thalassa, «mare»).

PER SAPERNE DI PIÚ

Fuga in Campania La stessa storia della battaglia del Mare Sardo, romanzata nel racconto di Erodoto, sottintende che per l’oracolo di Delfi i Ceriti si erano comportati bene nel reprimere le azioni aggressive dei Focei, che – dice lo storico – «si davano alle razzie e ai saccheggi ai danni di tutte le popolazioni vicine». In seguito alla battaglia, la colonia di Alalía venne abbandonata e i profughi dovettero ripiegare nella Campania meridionale, dove venne detto loro che avevano sbagliato a interpretare la volontà degli dèi, che non desideravano la loro installazione in Corsica. Al contrario, i Ceriti ottennero il possesso della Corsica e, risolta la questione del sacrificio umano, furono premiati con il permesso di aprire a Delfi un deposito per doni votivi (thesauros): primi tra tutti i barbari, seguiti solo piú tardi dagli Etruschi di Spina. Ne consegue che la battaglia navale venne intesa dalla politica internazionale come un’operazione di «polizia militare»: una guerra giusta (se mai ve ne fosse una), secondo la terminologia giornalistica dei giorni nostri. In alcuni casi, quindi, gli Etruschi erano considerati dai Greci a buon diritto «signori del mare» e riconosciuti come pari grado nelle relazioni politiche e commerciali. In piú occasioni gli autori antichi sottolineavano come la potenza navale etrusca si estendesse dall’uno all’altro mare: come ricorda lo storico romano Tito Livio, infatti, i nomi stessi del Tirreno e

dell’Adriatico dipendevano dagli Etruschi, essendo il secondo derivato dalla loro colonia Adria. In epoca piú recente, anche l’attività navale adriatica ebbe risvolti pirateschi, da quando l’invasione dei Celti, a partire dal IV secolo a.C., aveva isolato le città costiere di Spina e di Adria, abituate alla frequentazione dei navigatori greci e che vedevano continuare la loro prosperità pur avendo perso il proprio retroterra. L’importanza di questi scali, posti in fondo al Mare Adriatico al terminale delle vie commerciali europee di terra (in una posizione che piú tardi fece la fortuna di Venezia), era tale che il grammatico Stefano Bizantino, autore di una raccolta enciclopedica dei nomi di popoli e di città, alla voce Tyrrhenía sentenzia: «regione presso il mare Adriatico», ribaltando di fatto la situazione geografica dell’Etruria. L’informazione risente probabilmente della sua fonte, che poteva

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Mauro Cristofani, Gli Etruschi del mare, Longanesi, Milano 1983; Giovanni Colonna, Nuove prospettive sulla storia etrusca tra Alalía e Cuma, in Atti del secondo congresso internazionale etrusco (Firenze, 1985), Roma, 1989, I, pp. 361-374

essere siciliana (in considerazione della colonia inviata dai Siracusani ad Ancona), o forse ateniese, dal momento che è al commercio adriatico che furono destinati i vasi attici inviati in Occidente, quando una crisi economica e militare aveva investito le città etrusche della costa tirrenica. Un’altra notizia sull’attività pirate-

Elmo etrusco in bronzo, dal santuario di Olimpia. 500-480 a.C. Londra, British Museum. Sulla calotta è incisa una dedica di Gerone I, il tiranno di Siracusa che, nel 474 a.C., sconfisse nelle acque di Cuma gli Etruschi che minacciavano la città campana. Vi si legge: «Gerone, figlio di Deinomene, e i Siracusani (dedicarono) a Zeus, (spoglie) dei Tirreni, da Cuma».


sca degli Etruschi si colloca in questo contesto storico: dopo la metà del IV secolo a.C., un certo Postumio faceva scorrerie nel Tirreno meridionale, probabilmente avendo come base un centro etrusco della Campania (forse Pontecagnano nel Salernitano). Forte di una flotta di dodici navi, nell’anno 339 a.C. costui si presentò come amico allo stratega greco Timoleonte, giunto da Corinto per riunire le forze greche contro Cartagine.Verosimilmente sperava di essere assoldato come mercenario, come accadeva spesso per i popoli dell’Italia meridionale, che di volta in volta militavano nelle fila del migliore offerente. Il comandante greco, però, non gradí l’offerta proveniente da quello che lui considerava un fuorilegge e lo fece giustiziare immediatamente. Il pericolo dei Tirreni sul mare era ancora molto sentito nel secolo seguente, tanto da attirare l’attenzione di Demetrio Poliorcete, re di Macedonia, che, secondo Strabone, inviò a Roma alcuni pirati da lui

catturati, chiedendo che fossero presi seri provvedimenti a vantaggio di tutti i navigatori. Pressoché contemporaneamente, a Delo, fondi ingenti erano stati stanziati per difendere l’isola dai Tirreni e non manca un’iscrizione funeraria ritrovata a Rodi, che ricorda un uomo caduto in combattimento contro di loro.

I «legami tirreni» La pirateria rimase a lungo una minaccia alla navigazione commerciale anche nel mondo romano e si ricordano campagne militari condotte da Pompeo e da Cesare per debellare questo flagello, ma nell’Italia tardo-repubblicana ormai gli Etruschi non gestivano piú simili attività e i «pirati Tirreni» rimasero solo un ricordo o una notizia letteraria, mentre ormai la civiltà etrusca si avviava verso il declino e l’assorbimento nell’orbita di Roma. Vorrei finire però con una nota positiva: i Greci non mancarono di dimostrare una certa ammirazione

Veduta aerea del sito di Delfi, in Grecia. Nel VI sec. a.C., Caere fu la prima città etrusca, seguita da Spina, ad avere un proprio deposito per doni votivi (thesauros) nella città del celebre oracolo.

per le qualità marinare degli Etruschi, come traspare da un modo di dire proverbiale, conservatosi in diverse raccolte di massime. Per definire alcuni nodi insolubili si usava dire «legami tirreni» (un po’ come i nostri «nodi da marinaio»); a meno che questa espressione non intendesse alludere, ancora una volta, alla triste sorte dei prigionieri finiti nelle mani degli Etruschi… (2 – continua) LE PUNTATE DI QUESTA SERIE • I mille volti degli Etruschi • I pirati del Tirreno • Questioni di genere… e di sesso • Maestri di cultura • I più religiosi tra gli uomini • Il popolo del mistero a r c h e o 65


speciale UOMO DI NEANDERTAL

NEANDE ONNO

di Luca Bondioli, David Frayer e Massimo Vidale

Sulle due pagine: Mettmann (Renania Settentrionale-Vestfalia, Germania). Il giardino botanico realizzato all’esterno del locale Neandertal Museum in corrispondenza dell’area in cui, nel 1856, furono rinvenuti i primi resti della specie umana poi definita neanderthalensis, poiché l’area era conosciuta appunto come Neandertal (Valle di Neander). La scoperta ebbe luogo durante lavori di estrazione del calcare da una grotta: la cavità oggi non esiste piú, ma la sua ubicazione è segnalata dalle paline bianche e rosse che si vedono sulla sinistra. Nella pagina accanto: ricostruzione dell’Uomo di Neandertal realizzata per la mostra Homo sapiens, attualmente allestita a Roma, nel Palazzo delle Esposizioni (vedi box a p. 83).

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RTAL L’idea che simili «bruti» fossero una sorta di prototipo, imperfetto e per giunta poco intelligente, della nostra specie è finalmente tramontata. Fattezze a parte, Homo sapiens e Homo neanderthalensis erano pressoché cugini, convissero a lungo e basarono la propria sopravvivenza sulle medesime attività, come la caccia e la raccolta. Poi, intorno ai 30 000 anni fa, il secondo scomparve, misteriosamente, dalla scena... a r c h e o 67


speciale UOMO DI NEANDERTAL Qui sotto: il frammento di cranio rinvenuto nella grotta di Feldhofer nel 1856 con altre ossa della specie umana che prese poi il nome di Homo neanderthalensis. Bonn, Rheinisches Landesmuseum. A destra: ricostruzione dell’Uomo di Neandertal elaborata sulla base dei resti umani scoperti in Francia, a La Chapelle-aux-Saints, nel 1908. Il disegno, che accentuava le presunte fattezze scimmiesche del nostro antenato, fu realizzato da Frantisek Kupka con la supervisione scientifica dell’antropologo francese Marcelin Boule, che era stato incaricato di studiare i materiali recuperati nel sito.

Cranio di Homo neanderthalensis scoperto nel 1961 ad Amud, Israele. 45 000 anni da oggi. L’individuo ha fattezze meno tozze e robuste di altri Neandertal europei, dai quali differisce soprattutto per quanto riguarda le arcate orbitali, il naso, la mascella e la parte posteriore del cranio. Caratteristiche che potrebbero essere derivate dall’adattamento ai climi piú caldi e asciutti della regione vicino-orientale.


In basso, sulle due pagine: cartina con i principali siti dei Neandertal e le direttrici della diffusione della specie sapiens (indicate dalle frecce di colore arancione): 1. Neandertal; 2. Spy; 3. Blache-St. Vaast; 4. Arcy-sur-Cure; 5. Châtelperron; 6. St. Césaire; 7. La Quina; 8. Le Moustier; 9. La Ferrassie; 10. Combe Grenal; 11. La Chapelle-aux-Saints; 12. La Borde; 13. Régordou; 14. Gorham’s Cave; 15. Forbes’ Quarry; 16. Zafarraya; 17. Tata; 18. Krapina; 19. Vindija; 20. Saccopastore; 21. Monte Circeo (Grotta Guattari); 22. Kiik-Koba; 23. Dederiyeh; 24. Tabun; 25. Amud; 26. Zuttiyeh; 27. Kebara; 28. Shanidar; 29. Teshik Tash; 30. Denisova; 31. Okladnikov.

V

issero in Europa e in Asia Occidentale all’incirca tra i 200 000 e i 30 000 anni fa. Erano centinaia di migliaia, ma li conosciamo solo attraverso i resti scheletrici, perlopiú parziali, di circa 300 individui. Attraversarono ere glaciali e periodi caldi, trasmettendo a noi (Homo sapiens) non solo conoscenze dettagliate su come sopravvivere a spese di piante e animali, ma anche una parte del loro patrimonio genetico. Questa preziosa eredità ci ha permesso di sviluppare la civiltà, sfruttando un periodo di clima mite, l’attuale, che in scala geologica appare insolitamente lungo. Stiamo parlando degli uomini e delle donne di Neandertal. Avevano tratti scheletrici particolari, ma alcune delle loro caratteristiche che si credevano «uniche» sono in realtà riconoscibili anche in popolazioni piú tarde, di tipo moderno. I piú recenti progressi della paleontologia umana e dell’archeologia dei Neandertal ci stanno improvvisamente restituendo un «nonno» di tutto rispetto, che avevamo scelto di dimenticare, considerandolo erroneamente goffo, arretrato e condannato alla sconfitta evolutiva. Questa improvvisa e generalizzata rivalutazione giunge in sospetta coincidenza con un importante ripensamento degli archeo-genetisti, i quali hanno concluso che, in fondo dobbiamo ai Neandertal il 3-4% del nostro (di Europei) patrimonio genetico. Difficile scampare del tutto ad antichi pregiudizi razzisti…

Il buen retiro del pastore L’uomo di Neandertal, scientificamente parlando, è creatura del XIX secolo, riconosciuta 15 anni prima che Charles Darwin sfidasse la morale corrente, inserendo l’uomo nel grande affresco dell’evoluzione delle specie mediante selezione naturale (Descent of Man, pubblicato nel 1871; tradotto in italiano come L’origine dell’uomo e la selezione sessuale). Sebbene i primi fossili neandertaliani fossero stati trovati nel 1829 in Belgio, e nel 1848 a Gibilterra,

la nostra storia può ufficialmente iniziare nell’agosto del 1856, in una stretta gola della Germania, a poca distanza dalla confluenza del fiume Düssel col Reno, non lontano da Düsseldorf. La località fu battezzata Neanderthal (letteralmente Valle di Neander), in onore di Joachim Neander, un pastore luterano della fine del Seicento che, datosi all’eremitaggio negli ultimi anni di vita, avrebbe scelto come riparo una grotta naturale situata proprio in quella gola. A proposito del nome, occorre aggiungere che l’originario Neanderthal, basato sull’antico tedesco Thal per valle, è stato oggi sostituito dalla versione Neandertal, e alla caduta della «h», accolta dalla maggioranza dei paleoantropologi, ci siamo adeguati per questo testo (la consonante sopravvive solo nel nome scientifico, che continua a essere Homo neanderthalensis).

Scambiato per un orso Nella valle era stata aperta una cava di calcare e un giorno, nel demolire una grotta chiamata Feldhofer, gli operai recuperarono un cranio, alcune ossa lunghe e frammenti di bacino appartenenti allo stesso individuo. Oggi si pensa che si trattasse di una sepoltura intenzionale; gli operai, invece, pensarono a un orso, e portarono la parte dello scheletro recuperata a un locale insegnante appassionato di scienze naturali, Johann Carl Fuhlrott (1803-1877), il quale correttamente la riconobbe come appartenente a una forma di uomo preistorico. Insieme all’antropologo Hermann Schaaffhausen (1816-1893), Fuhlrott annunciò la sua scoperta nel 1857, guadagnadosi cosí la fama di fondatore della paleontologia umana. Quasi nessuno, al momento della scoperta, accettò che lo scheletro di Feldhofer potesse appartenere a un uomo primitivo. Molti lo considerarono un individuo affetto da patologie, o uno straniero, come l’anatomista secondo il quale doveva trattarsi di un cosacco mongolo appartenente alla cavalleria zarista a r c h e o 69


speciale UOMO DI NEANDERTAL DI LUI HANNO DETTO: UNA BREVE RASSEGNA, TRA GIUDIZI E PREGIUDIZI «Se fosse questo lo scheletro del primo uomo, allora il primo uomo era uno scherzo di natura (…) Il suo cranio è piú strettamente conforme alla teca cranica dello scimpanzè. Era incapace di idee teologiche e morali (…) è questa l’oscurità che caratterizzava l’essere cui apparteneva il fossile» (dalla prima descrizione formale di Feldhofer 1, il primo fossile neandertaliano mai scoperto, 1864). «Nessun tipo umano moderno può essere considerato un discendente diretto, per quanto modificato, del tipo

Neandertaliano Europeo» (Marcelin Boule, 1913). «Mezzo uomo, mezzo bestia (…) Quali primitive passioni, quali folli desideri lo trascinano...? Afferra la donna nella morsa di un terrore mortale. Nulla può tenerlo lontano dalla donna che reclama come sua» (frasi riportate nella locandina del film The Neanderthal Man, USA, 1953). «La maggior parte di noi pensa che “Neandertal” si riferisca a uno zoticone dinoccolato, con folti sopracciglioni, che si aggirava in cerca di preda durante l’era glaciale, vestito di pellame stracciato, che si esprimeva a grugniti e ogni tanto si fermava a tramortire una donna con la clava per trascinarla in una caverna» (George Constable, 1973). «I Neandertal non ci hanno lasciato alcuna prova di aver posseduto qualche capacità di ragionamento simbolico, o linguaggio articolato» (Ian Tattersall, 2008). «Considerata l’evidenza fossile (…) è altamente improbabile che Homo neanderthalensis abbia contribuito, da un punto di vista biologico, in modo significativo alle popolazioni umane che gli sono succedute in Europa» (Ian Tattersall, 2009). «Lo scenario non è quello che la maggioranza si aspettava. Abbiamo trovato i segnali genetici dei Neandertal in tutti i genomi nonafricani» (Genetic Archaeology, maggio 2010). «La recente scoperta di gioielleria neandertaliana e di pigmenti usati sul corpo trovati in siti spagnoli fornisce un’evidenza incontrovertibile di un’attività simbolica neandertaliana, e suggerisce che il moderno comportamento umano abbia radici antiche» (i redattori di Scientific American, 2010) «Esternamente non erano come i primi uomini anatomicamente moderni, ma dal punto di vista cognitivo erano altrettanto avanzati, o forse addirittura di piú (…) Se potessimo clonare un uomo di 500 000 anni fa e crescerlo come un uomo odierno, sarebbe capace di guidare un aereoplano? Qualche mio collega lo negherebbe, ma la mia risposta è sí» (João Zilhão, 2010). Ricostruzione in bronzo della testa di un Uomo di Neandertal. Torino, Museo di Antropologia Criminale «Cesare Lombroso». L’opera fu realizzata dallo scultore Norberto Montecucco, su richiesta dello stesso Lombroso, nel 1908. L’esagerazione

dell’aspetto animalesco esprime le idee di molti antropologi dell’epoca e riflette le convinzioni sull’atavismo del criminologo veronese, convinto che l’indole violenta di alcuni individui corrispondesse alla ricomparsa di tendenze primitive.


VOLTA CRANICA BASSA

FRONTE INCLINATA

ARCATE PRONUNCIATE

NASO LARGO

PRIVO DI MENTO

HOMO NEANDERTHALENSIS Disegno di un cranio di Homo neanderthalensis con l’indicazione delle differenze somatiche piú vistose rispetto a Homo sapiens.

Qui sopra: ricostruzione di un Uomo di Neandertal elaborata dagli olandesi Kennis & Kennis.

HOMO SAPIENS Disegno di un cranio di Homo sapiens, e, qui sopra, ricostruzione di un individuo appartenente a tale specie, che è la stessa a cui appartiene la popolazione umana attuale. ▼

La famiglia si allarga Nuove scoperte si aggiunsero: nella grotta di Spy, in Belgio, trent’anni dopo la scoperta di Feldhofer, furono trovati altri due scheletri con forti somiglianze con il precedente. Ancora una volta, Virchow, tenace difensore delle sue idee, parlò di malformazioni patologiche. Ma i tempi, lentamente, stavano mutando. Il mondo scientifico stava ormai assorbendo l’impatto emotivo delle conseguenze delle teorie di Darwin; i rinvenimenti di strumenti preistorici insieme a ossa di grandi animali estinti si moltiplicavano, e la versione biblica della creazione del mondo stava ormai perdendo il suo alone di verità assoluta. Che l’uomo di Neandertal fosse un precedente preistorico dell’uomo moderno sembrava ormai probabile, ma quale posto assegnargli, negli alberi genealogici del passato? Quando, nel 1891, l’olandese Eugene Dubois (1858-1940) scoprí i primi resti fossili di Pithecanthropus (oggi meglio diremmo Homo erec-

Con quella faccia un po’ cosí...

che aveva inseguito l’armata napoleonica in rotta fino alla valle del Reno (spiegazione di cui va apprezzata la complessità storica); altri lo definirono un guerriero celtico dotato di corporatura robusta, ma di scarso cervello, o un vecchio Olandese. Solo William King, professore di anatomia al Queen’s College di Galway (Irlanda) lo riconobbe come una forma umana preistorica, che considerò una specie separata: è a King, infatti, che si deve il nome di Homo neanderthalensis. Non per questo il suo giudizio fu tenero: «Il cranio del Neanderthal è cosí eminentemente scimmiesco (…) che sono costretto a credere che i pensieri e i desideri che vi alloggiavano mai si sollevarono al di là di quelli di una bestia». Tuttavia anche King sembrò cambiare idea, quando Rudolf Virchow, forse il piú rispettato anatomo-patologo dei suoi tempi, scrisse senza esitazioni che lo scheletro di Neandertal apparteneva a un uomo moderno afflitto da gravi patologie.

a r c h e o 71


speciale UOMO DI NEANDERTAL

Monte Carmelo (Israele). Le grotte in cui sono stati rinvenuti resti scheletrici di individui, con caratteri fisici intermedi fra quelli del Neandertal e del sapiens.

tus), che evidentemente appartenevano a un essere umano anatomicamente piú arcaico, l’uomo di Neandertal fu universalmente considerato come una specie di anello intermedio tra le forme piú antiche e quelle moderne, con uno status mal definito. Tutti, comunque, erano contro di lui. Il grande studioso francese Marcelin Boule (1861-1942), incaricato dello studio dello scheletro neandertaliano di La Chapelle­-aux-Saints, scoperto nel 1908, diede dei Neandertal un’immagine tanto negativa, e in termini cosí virulenti, da condizionare per decenni le idee dei suoi successori. Del resto, Cesare Lombroso (1835-1909), decano degli antropologi italiani, teneva sulla scrivania il ritratto di un Neandertal con una smorfia assassina e un’espressione folle (vedi foto a p. 70). Le ricerche degli ultimi vent’anni, in seguito, relegarono l’uomo di Neandertal ai margini della nostra 72 a r c h e o

vicenda evolutiva, classificandolo come una specie a sé, limitata a una parte ristretta del mondo – le sponde settentrionali del Mediterraneo e delle aree geografiche vicine –, dove si sarebbe estinta 30 000 anni fa a causa della spinta demografica di Homo sapiens, uscito dall’Africa circa 100 000 anni fa, per colonizzare rapidamente l’intero continente euroasiatico.

Un’idea inaccettabile Con il senno di poi, è facile capire il perché della cattiva reputazione dell’incolpevole uomo di Neandertal. Fu scoperto al culmine dell’oc-

cupazione coloniale del Terzo Mondo, quando l’antropologia era fortemente intrisa di razzismo: scoprire che gli Occidentali avevano nell’album di famiglia un antenato scimmiesco, ben piú rozzo e primitivo di qualsiasi popolazione di colore dell’Africa, dell’Asia e dell’Oceania, metteva in imbarazzo le classi ricche e colte che dominavano la scienza europea del tempo. Tanto piú che dal 1912 la paleoantropologia disponeva dell’Uomo di Piltdown, un fossile inglese (poi rivelatosi un falso) di aspetto molto piú moderno, che sembrava garantire agli Europei un pedigree ben piú rispettabile.


Descrivere l’aspetto dell’Uomo di Neandertal è sempre un compito ambiguo: i fossili a disposizione, infatti, sono ancora pochi e non abbiamo motivi per ritenere che le popolazioni appartenenti alla specie fossero esenti dalla forte variabilità morfologica che noi stessi mostriamo. Le somiglianze con noi sono evidenti, a cominciare dall’elevata capacità cranica, talvolta superiore alla capacità media di Homo sapiens. Tuttavia, i primi interpreti furono molto colpiti dai piú evidenti caratteri arcaici dello scheletro neandertaliano. La volta cranica appariva piú bassa e allungata, con una fronte fortemente inclinata all’indietro, priva delle protuberanze frontali comuni in Homo sapiens. Il volto era dominato da pronunciate arcate sopra-orbitali, da un naso ampio e largo, posto relativamente in alto; la

mandibola era priva di un pronunciato mento osseo. Sul retro vi era una marcata sporgenza, a forma di cupola, che noi non abbiamo (vedi disegni a p. 71).

piuttosto che cilindrica come la nostra; una notevole robustezza delle ossa lunghe degli arti e delle falangi, con avambracci e parte inferiore della gamba piú corti dei nostri; un bacino piú ampio e svasato; femori incurvati in avanti e una Braccia robuste statura mediamente piú bassa. e gambe corte Altre differenze erano meno visibi- Queste, dunque, le differenze anali, ma per i paleontologi non meno tomiche piú visibili. Ma a che cosa significative: per esempio, uno spa- erano effettivamente dovute? Rizio abbastanza ampio dopo il terzo spondere è difficile, per la semplice dente molare inferiore, e, sempre ragione che, in Europa, possediamo nella mascella, un ampio forame pochissimi fossili umani piú antichi (foro per ospitare un nervo) sotto il di 500 000 anni fa. Oggi sappiamo primo molare. E anche nello sche- che il popolamento umano dell’Euletro post-craniale, furono riscon- rasia potrebbe risalire a epoche antrate caratteristiche ben diverse da tichissime, dato che sono noti diquelle della nostra specie: compren- versi siti archeologici con oggetti devano la presenza sulla scapola di fatti in pietra scheggiata che, su baun caratteristico solco dorsale, si geologiche, risalgono a 1 o anche mentre la nostra scapola ha un ana- a 2 milioni di anni fa. Ma, per l’aslogo solco sul lato opposto; un’am- senza di fossili, non abbiamo alcuna pia gabbia toracica di forma conica, idea su quale ominide (o, perché no,

Ricostruzione ideale dell’accampamento di un gruppo di Neandertal, alcuni dei quali, in primo piano, sono intenti a fabbricare strumenti in selce e lavorare ossa e pelli animali. Basandosi su dati acquisiti grazie all’archeologia, si immagina che le capanne fossero rivestite da pelli, ossa e zanne ricavate dagli animali cacciati. a r c h e o 73


speciale UOMO DI NEANDERTAL quale scimmia) fosse capace di scheggiare in tal modo le pietre. In questo vuoto, è difficile stabilire quali caratteristiche anatomiche dei Neandertal siano eredità genetiche di antichissimi progenitori e quali, invece, siano risultato di adattamenti graduali al mutare delle condizioni climatiche. Dagli anni Sessanta del secolo scorso, infatti, molti studiosi sospettano che le caratteristiche anatomiche che abbiamo descritto siano il risultato di un processo di adattamento biologico al freddo del penultimo grande fenomeno glaciale, noto nell’arco Alpino come Riss (180 000–130 000 anni fa), che i Neandertal attraversarono con pieno successo. Lo confermerebbero studi fatti sulle proporzioni degli arti e sulle dinamiche di respirazione; come gli studi genetici, che hanno rivelato nelle ossa di due Neandertaliani caratteri associati a individui dalla pelle chiara e con i capelli rossi, considerati vantaggiosi nei climi freddi ove vi è una bassa esposizione al sole. Oltre al clima rigido, vi è la possibilità che questi caratteri esterni si siano diffusi in una parte ampia delle popolazioni del tempo a causa di un certo isolamento geografico in cui si trovarono a vivere i Neandertal, stretti tra il fronte dei ghiacci, in continua espansione da nord e le sponde dei mari meridionali.

Cacciatori nomadi I Neandertal vissero per buona parte della loro storia in mondi dominati dai ghiacci, quello della glaciazione appena ricordata chiamata Riss (180 000-130 000 anni fa) e quello dell’ultima fase glaciale, detta Wurm (tra 110 000 e 10 000 anni fa). Come i loro successori sapiens, erano cacciatori nomadi, che occupavano ciclicamente porzioni di un territorio vasto, esteso tra vaste tundre che si allargavano davanti ai fronti dei ghiacci e le retrostanti zone collinari, per sfrut74 a r c h e o

tarne le diverse risorse. Quando si spingevano a sud, verso l’Europa meridionale, essi incontravano zone boscose e praterie verdi, tempestate di laghi e stagni, circondate da montagne innevate. Giunti alle coste, in alcuni periodi molto piú espanse di oggi a causa dell’abbassamento di 90-120 m del livello medio dei mari, e costellate di dirupi e grotte, potevano dedicarsi alla caccia di mammiferi ma-

Immagini di un cervello umano ricavate a mezzo di una Magnetoencefalografia, una tecnica che si basa sulla misurazione dei campi magnetici prodotti dall’attività elettromagnetica dell’encefalo. Le macchie gialle circondate da aloni rosa indicano le aree corticali coinvolte nel controllo delle mani. L’uso della parte terminale degli arti superiori e, in particolare lo sviluppo della prensilità, è una delle caratteristiche che piú hanno contribuito all’evoluzione della specie umana.

rini. La principale attività economica dei Neandertal consisteva nel dare la caccia a mammiferi di grossa e media taglia (bisonti, cavalli, renne, stambecchi, mammut, rinoceronti lanosi, orsi), ma dove la cosa era possibile, non disdegnavano prede minori, come folaghe, pesce e molluschi.

Non vivevano di sola carne L’alimentazione, come confermato dallo studio delle usure dei denti e degli isotopi del carbonio e dell’azoto, era prevalentemente a base di carne, ma vi sono prove anche del consumo di vegetali, dalle fibre dure e consistenti. Il confronto etnografico con cacciatori-raccoglitori attuali suggerisce la probabilità che le donne raccogliessero piante selvatiche, noci e bacche, forse anche con l’aiuto di contenitori in fibre vegetali intrecciate. Nel Vicino Oriente, inaridito dal congelamento di enormi masse d’acqua nelle coltri di ghiaccio, i Neandertal si spingevano dalle colline ai margini del deserto, dove cacciavano gazzelle, antilopi e bufali selvatici; ma ancora ben poco sappiamo di come essi vivessero nell’estremo margine orientale della loro area di diffusione, che, come oggi sappiamo, si incuneava in profondità nell’interno dell’Asia Centrale, fino alle enormi pianure siberiane. Spesso i luoghi scelti come residenza erano molto favorevoli, e sono stati identificati siti in cui è probabile che parte delle popolazioni neandertaliane abitasse senza interruzioni per tutto l’anno. Si accampavano sotto ripari sporgenti, in grotta, ma anche all’aria aperta. Dei campi rimane in genere poco: superfici ricche di ossa animali e frammenti di pietra scheggiata, focolari, bassi muretti che forse sostenevano ripari frangi-vento o tende in pelle, qualche lembo di pavimentazione in ciottoli. Non sappiamo se essi si accampasse-


ro in gruppi di abitazioni; sono noti siti estesi anche per decine di ettari, ma è molto difficile stabilire se si tratti di aree occupate simultaneamente da gruppi consistenti di cacciatori, o del risultato di frequentazioni cicliche protrattesi per secoli. A volte lo spazio abitativo è apparso molto ben organizzato, come nel sito di Fontmaure (Francia), dove una zona residenziale centrale era circondata da aree usate per scheggiare la selce. Oggi, grazie agli studi sul DNA antico, sappiamo che i Neandertaliani del sito di El Sidron (Spagna) vivevano in gruppi familiari patrilocali, in cui i maschi rimanevano in «famiglia» e le femmine provenivano da gruppi diversi.

Gorgheggi o parole? L’archeologo cognitivo e specialista della piú antica preistoria Steven Mithen, professore dell’Università di Reading (Inghilterra) ha pubblicato, nel 2005, un volume intitolato The Singing Neanderthals (uscito in Italia con il titolo di Il canto degli antenati, Codice Edizioni, Torino 2008) nel quale argomentava che l’assenza di manufatti simbolici nei siti neandertaliani implica l’assenza di pensiero simbolico, quindi l’assenza del linguaggio. A essi, secondo lo studioso, mancava una «fluidità cognitiva», propria del pensiero metaforico, che permettesse loro di considerare contemporaneamente informazioni provenienti da diversi domini cognitivi. I Neandertal, quindi, per rispondere alla necessità di una comunicazione emotivamente complessa e della cooperazione del gruppo, si sarebbero serviti di «un sistema di comunicazione paramusicale piú complesso e sofisticato di quello usato in precedenza da ogni altra specie di Homo». In parole povere, secondo Mithen, i Neandertal avrebbero gorgheggiato come canarini. Vien da chiedersi quale delicato solfeggio abbia espresso la frase «Scansati, stai per essere caricato dal rinoceronte lanoso nero che abbiamo ferito ieri pomeriggio, ma prima passami il

Ecco perché parliamo UOMO

SCIMPANZÉ

CAVITÀ NASALE

CAVITÀ NASALE

RINO FARINGE

RINO FARINGE

LINGUA LINGUA FARINGE

FARINGE

LARINGE

LARINGE

CORDE VOCALI

CORDE VOCALI

Confronto tra l’apparato vocale umano e quello dello scimpanzè. Nell’uomo la laringe è posizionata piú in basso e consente l’emissione di una vasta gamma di suoni, ma impedisce di respirare e deglutire contemporaneamente, operazione che è invece possibile per la scimmia, che, però, può disporre di una gamma di suoni piú limitata. Nel caso dei Neandertal, alcuni studiosi hanno ipotizzato che non conoscessero l’uso della parola, ma tale teoria appare poco coerente con l’articolato modus vivendi della specie.

AREA DI BROCA Trasformazione di concetti in segnali motori e parole

Le aree del cervello umano deputate a specifiche funzioni connesse al linguaggio.

raschiatoio trasversale spesso a taglio ricurvo e a ritocco erto che ha fatto Luigi stamattina», espressione che certo qualche neandertaliano, in quasi 300 000 anni di storia, prima o poi avrà pronunciato. In trasparenza, al di là della strampalata ipotesi, priva di ogni riscontro materiale, si coglie la riproposizione del pregiudizio che per 160 anni ha fatto dei Neandertal esseri inferiori,

AREA DI WERNICKE Creazione di idee e concetti

diversi ed estranei alla nostra natura di uomini e donne.

Tecnologia e linguaggio Tutti i detrattori dei Neandertal avevano negato loro, sin dall’inizio, la capacità di parlare. Molti archeologi, invece, sostenevano che esseri umani capaci di produrre e usare da 20 a 40 tipi diversi di strumenti in pietra scheggiata, come si vede nei a r c h e o 75


speciale UOMO DI NEANDERTAL

L’ingresso della grotta di Shanidar, una cavità naturale situata nel Kurdistan iracheno, sulla riva sinistra del corso del Grande Zab, nei pressi della frontiera turca. Al suo interno sono stati rinvenuti gli

76 a r c h e o

scheletri di nove neandertaliani intenzionalmente sepolti, a riprova dell’esistenza di pratiche funerarie vere e proprie. In un caso, come si immagina nella ricostruzione (foto in basso), il corpo

potrebbe essere stato coperto di fiori al momento della deposizione, anche se i pollini trovati nel corso degli scavi potrebbero invece essere frutto di una contaminazione del deposito archeologico.

siti del tempo, non potevano non essere forniti di un linguaggio ben sviluppato. Un passo avanti (ma, al contempo, uno indietro) si fece nel 1971, quando Philip Lieberman e Edmund Crelin ricostruirono l’anatomia della laringe e del tratto vocale del cranio di La Chapelle-auxSaints, che giudicarono molto simile a quello dei neonati attuali. Sulla base di calcoli acustici, avevano concluso che i Neandertal non erano in grado di produrre i suoni che facciamo noi. Si sarebbero invece espressi con buffe vocalizzazioni prive delle vocali a, i e u. L’ipotesi fu immediatamente contestata dagli altri studiosi. Oggi possediamo due diverse prove del fatto che i Neandertal parlassero. Nel 2007, un gruppo di studiosi europei identificò nel corredo genetico di ossa neandertaliane trovate nel già citato sito spagnolo di El Sidron, un gene chiamato FOXP2, che nell’uomo moderno gioca un ruolo essenziale nell’uso del linguaggio e manca negli altri primati. «Dal punto di vista di questo gene»


delle giunture), taglio, frammentazione, raschiatura e pulitura, piú raramente tracce di decapitazione e frattura. Tutto indica che parti dei corpi dei Neandertal – in genere craniali – erano conservate per essere smembrate, rimuovendone le carni e ripulendole, forse nel corso di pratiche rituali. È possibile che, nel corso di questi trattamenti, parte della carne dei defunti fosse ingerita, magari per simboleggiare una forma di resurrezione, ma provarlo con certezza è impossibile. Al termine, le stesse parti erano poste sotto pietre, contro le pareti delle grotte, o presso i focolari; o, infine, semplicemente buttate via o abbandonate dove caUn’indagine sistematica I paleontologi hanno studiato le pitava, e si mescolavano alle sempre ossa dei Neandertal sinora rinvenu- presenti ossa animali. te, valutando, insieme ad antropolo- I casi di sepoltura e conservazione gi e archeologi, non solo quali par- di cadaveri intatti, come abbiamo ti dello scheletro fossero presenti in detto, sono pochi, e, in termini di ogni caso, ma anche se, e in che spazio e tempo, molto discontinui. misura, le assenze e le modificazioni Sepolture vennero in luce in Cridei resti scheletrici fossero dovute a mea (a Kiik-Koba) e a Teshik Tash, fenomeni naturali (frane ed erosio- in Uzbekistan, dove un ragazzo nene dei suoli, cedimenti del terreno, andertaliano era stato sepolto al azione di animali) oppure a tratta- centro di un cerchio fatto di corna menti e azioni deliberate umane. di capra selvatica. Hanno cosí stabilito che, in oltre il Tra 100 000 e 80 000 anni fa si 90% dei casi, sono state rinvenute datano le sepolture di Qafzeh e ossa disarticolate (isolate dal resto Skhul (Israele), ma si tratta di indidello scheletro) o denti, e che solo vidui che, pur usando le inconfonil 6% dei reperti è formato da sche- dibili tecniche di fabbricazione degli strumenti dei Neandertal, erano letri piú o meno completi. I sogni e l’aldilà Che cosa facevano i Neandertal dei Sebbene questa altissima percentua- anatomicamente moderni (cioé sipropri morti? Il loro atteggiamento le di disturbo delle ossa umane sia mili a noi). Uno degli scheletri di nei confronti della fine del sé e de- certamente influenzata dalle decine Skhul serrava tra le braccia la mangli individui della famiglia o del di migliaia di anni trascorsi e da dibola di un cinghiale. gruppo potrebbe rivelarci non sola- molteplici fattori naturali, la conmente molto delle loro capacità di clusione sembrerebbe essere che la Piccoli cimiteri pensiero, razionalizzazione e imma- sepoltura e la conservazione nelle A Shanidar (Iraq), come in Francia, ginazione creativa, ma anche del tombe di corpi intatti era una scelta nei siti di La Chapelle e Le Ferrassie valore che essi davano al proprio non frequente, forse riservata a per- (tutti risalenti a 60-45 000 anni fa vivere sociale. Certamente i nostri sone speciali. circa), diversi corpi interi erano stati «nonni», come abbiamo voluto In generale, possiamo pensare che i sepolti in veri e propri piccoli cimichiamarli in queste pagine, parlava- cacciatori morissero spesso lontano teri, in fosse talvolta coperte da lastre no e sognavano, cosí come cono- dai campi base, e che solo una parte di pietra. Sia nel Vicino Oriente che scevano gli effetti della riflessione delle ossa dei morti «tornava a casa», in Europa occidentale, le tombe nedelle immagini nell’acqua: e parole, negli accampamenti, dove venivano andertaliane erano state scavate ensogni, riflessi sono tutte forme e sottoposte a trattamenti complessi. tro grotte o in ripari sotto roccia. modelli di percezioni «parallele» o Queste ossa isolate, infatti (molto Gli scavatori delle tombe di Shanialternative alla piú comune mate- spesso si tratta del cranio o delle dar scrissero di aver trovato nei ririalità, capaci di suggerire l’esistenza mandibole), mostrano frequenti se- empimenti delle fosse polline e altri gni di disarticolazione (distacco resti di fiori, e che questo testimodi realtà ultraterrene. ha detto Johannes Krause del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig, Germania, «non vi sono motivi per dubitare del fatto che i Neandertal possedessero un vero e proprio linguaggio, proprio come noi». La seconda prova, invece, è stata ingegnosamente dedotta dalla «lateralizzazione», cioè dall’uso preferenziale che la nostra specie fa di una delle mani rispetto all’altra. Questa caratter istica, propr ia dell’uomo e assente nelle scimmie e negli altri animali, è correlata al modo in cui il nostro cervello si organizza per gestire il linguaggio. I paleoantropologi hanno dimostrato che la maggioranza usava di preferenza la mano destra, in una percentuale simile a quella delle moderne popolazioni umane: i loro denti, infatti, sono molto piú striati sul lato destro che su quello sinistro, in quanto i nostri antenati preistorici usavano serrare la carne tra i denti e tagliarla con una scheggia di selce davanti alla bocca. Usando la destra, graffiavano piú spesso il lato destro dell’arcata dentaria. La prova dell’uso del linguaggio, in un certo senso, ci viene dalle «buone maniere a tavola»; ma non stupirebbe affatto che i Neandertal parlassero… anche con la bocca piena.

Inoltre, forse, essi potevano aver fatto esperienza – come fanno empiricamente i bambini di tutte le culture del mondo – delle cosidette immagini endottiche, quel rutilante mondo di colori e forme cangianti che vediamo quando premiamo i bulbi oculari ed è certo che si fossero imbattuti in numerose sostanze psicotrope (le sostanze vegetali che oggi chiameremmo droghe). È quindi molto probabile che essi avessero maturato credenze in mondi paralleli e ultraterreni, piú o meno simili al nostro, uno dei quali poteva essere l’ultima destinazione dei defunti.

a r c h e o 77


speciale UOMO DI NEANDERTAL Cartina nella quale sono riportati i principali siti italiani nei quali è attestata la presenza dell’uomo tra 1 300 000 e 30 000 anni fa, comprendenti importanti presenze di Neandertal, come quelle di Saccopastore (nei pressi di Roma) o Grotta Guattari (Monte Circeo). È anche indicato il profilo delle coste, che mostra come la nostra Penisola avesse un’estensione diversa dall’attuale nel corso delle ere glaciali.

ISERNIA LA PINETA Particolare di un calco del paleosuolo messo in luce alla periferia di Isernia, grazie agli scavi condotti sul giacimento preistorico scoperto nel 1979. Pur in assenza di resti umani, le ricerche hanno permesso il recupero di strumenti e materiali sicuramente attribuibili all’uomo e che, databili intorno ai 730 000 anni fa, rappresentano la prova di una delle piú antiche presenze nel territorio italiano. ▼

CEPRANO Questo cranio, rinvenuto a Ceprano (Frosinone) nel 1994, è, a oggi, uno dei piú antichi abitanti del continente europeo: databile a 800 000 anni fa, è attribuibile alla specie Homo erectus. ▼

principali siti dell’italia al tempo delle glaciazioni 1P irro Nord, Cava dell’Erba stimata a 1 300 000 anni fa manufatti in pietra

2M onte Poggiolo 800 000 anni fa

manufatti in pietra

3 I sernia La Pineta 700 000 anni fa

manufatti in pietra

4C eprano

430 000-385 000 anni fa resti di homo heidelbergensis arcaico

78 a r c h e o

5 Roccamonfina, Tora e Piccilli

385 000-325 000 anni fa impronte

6V isogliano

Pleistocene medio 700 000-125 000 anni fa

7P ofi

Pleistocene medio 700 000-125 000 anni fa

8C astel di Guido

Pleistocene medio 700 000-125 000 anni fa

9 Balzi Rossi, Grotta del Principe

230 000-325 000 anni fa homo neanderthalensis

10 B alzi Rossi, Grimaldi 25 000 anni fa

homo sapiens sepolture

11 S accopastore 120 000 anni fa

homo neanderthalensis arcaico

12 A ltamura

150 000-50 000 anni fa

homo neanderthalensis

13 G rotta del Bambino

homo neanderthalensis

14 M onte Circeo, Guattari 1 75 000-50 000 anni fa

homo neanderthalensis

15 A rchi

40 000 anni fa

homo neanderthalensis

16 G rotta di Fumane 44 000 anni fa

homo neanderthalensis penne ornamentali

17 Caverna delle Arene Candide


I NEANDERTAL ITALIANI L’Italia è ricca di fossili neandertaliani. Il nostro territorio è stato abitato dai Neandertaliani per oltre 100 000 anni e vi sono tracce della loro presenza su tutta la Penisola, isole escluse. I ritrovamenti piú importanti risalgono a prima della seconda guerra mondiale, quando la scoperta dei crani di Saccopastore, a Roma, e del cranio e delle mandibole del Circeo a Grotta Guattari (la seconda mandibola fu ritrovata appena dopo la guerra) fecero scalpore. Da allora, numerosissimi sono stati i ritrovamenti di frammenti di ossa, di porzioni di mandibole, di denti isolati che permettono di dettagliare un insieme di dati non indifferente. Ma la scoperta piú importante è quella di Altamura, dove, nel profondo di una grotta carsica, addossato a una stalagmite, tuttora giace uno scheletro quasi completo di un individuo la cui datazione pare ancora incerta. Studi recentissimi basati su morfologie e sul DNA antico dimostrano che si tratta con alta probabilità di un Neandertaliano: è quindi il reperto italiano piú completo (probabilmente uno dei piú completi al mondo) e il suo studio ci permetterà di aprire nuove finestre di conoscenza sui nostri antenati. ▼

ALTAMURA Particolare dei resti di uno scheletro individuato in una grotta in località Lamalunga, nei pressi di Altamura (Bari). I resti, in larga parte coperti da incrostazioni calcaree, appartengono a un individuo che sembra ascrivibile alla specie Homo neanderthalensis, ma altri elementi (in particolare la morfologia della porzione neurale del cranio) sembrano riferibili a una forma ancora piú antica.

24 000 anni fa

homo sapiens sepolture rituali

18 G rotta Paglicci 24 000 anni fa

homo sapiens sepolture rituali, arte

19 O stuni

25 000 anni fa homo sapiens sepolture

20 B ilancino

30 000 anni fa

homo sapiens prime macinazioni

niava una precisa offerta ai defunti. Oggi molti temono che si trattasse di sedimenti contaminati da polline attuale. È certo, invece, che una delle tombe neandertaliane di Le Ferrassie era coperta da una lastra di roccia che recava una serie di cavità emisferiche circolari. Qualunque fosse il significato simbolico di queste incisioni, ottenute tramite una forma di «trapanatura», si tratta della piú antica «lapide» in pietra lavorata della storia umana.

L’enigma del cannibalismo Dal punto di vista cronologico, come da quello storico, le testimonianze materiali fossili del cannibalismo sono molto antiche, al punto che i paleoantropologi degli inizi del XX secolo le documentarono alla stregua di una delle piú arcaiche forme di comportamento

chiaramente culturale. Poiché in molti dei crani piú antichi trovati in Eurasia mancavano le ossa della faccia, in passato si dava molta importanza a questo indizio, collegandolo al consumo alimentare cannibalistico, ma oggi lo si valuta con cautela, in quanto il rotolamento del cranio lungo un pendio, nel letto di un torrente o il lavorio di un predatore avrebbero determinato un risultato identico. Ma segno incontrovertibile di queste pratiche sono le tracce di taglio intenzionale su ossa umane, finalizzato al distacco dei tessuti molli esterni. La piú antica traccia di questo tipo compare sotto forma di tre striature sullo zigomo di un cranio di australopiteco o Homo arcaico trovato a Sterkfontein (Sud Africa) vecchio di almeno 2,4 milioni di anni. Si pensa che i tagli avessero distaccato il muscolo temporale, e fossero stati fatti, ovviamente, con una scheggia di pietra. Sul cranio fossile di Bodo, un esemplare di Homo molto piú recente trovato in Etiopia, si vedono diversi tipi di taglio attribuiti a pratiche cannibalistiche.

Il caso di Krapina In Europa, le piú antiche tracce di taglio su ossa umane sono state trovate ad Atapuerca, un sito della Spagna settentrionale, dove sono recentemente emerse le ossa di un bambino probabilmente consumato come cibo. Nel 1908, l’archeologo Dragutin Gorjanovi-Kramberger scoprí il piú vasto insieme di ossa neandertaliane mai rinvenuto, nel sito di Krapina, nella Croazia settentrionale, datato a circa 130 000 anni fa. Identificò nelle ossa abbondati tracce di taglio, frattura intenzionale e bruciatura, che interpretò come prove di cannibalismo. In un certo senso, Gorjanovi-Kramberger sostenne che i Neandertal erano cannibali per renderli piú simili, in termini di comportamento, a Homo sapiens. Una mandibola di Krapina sembra testimoniare il taglio della lingua, mentre in altre (segue a p. 82) a r c h e o 79


speciale UOMO DI NEANDERTAL Una iena con le fauci spalancate, che permettono di osservarne la robusta dentatura. Le tracce presenti sul cranio neandertaliano scoperto a Grotta Guattari (foto qui sotto e nella pagina accanto) potrebbero, almeno in parte, essere state lasciate proprio dagli incisivi di uno di questi carnivori.

CANNIBALI E... IENE Nel 1939, il cavalier Guattari, proprietario dell’omonimo albergo al Circeo, circa 55 km a sud di Roma, decise di allargare il suo terrazzo con vista mare, per aumentare la capienza del locale. Scavando nel calcare, venne alla luce una cavità sotterranea: i presenti, lo stesso Guattari e i suoi operai, camminando carponi in uno stretto corridoio naturale, penetrarono cosí per la prima volta, dopo decine di migliaia di anni, in quella che oggi è nota come Grotta Guattari. In essa, in una distesa di pietre e ossa animali, fu trovato una specie di «cerchio di pietre» di forma ovale, al centro del quale si trovava un cranio umano con la base rivolta all’insú, presto riconosciuto come una importantissima testimonianza neandertaliana. Al tempo, i paralleli etnografici si usavano con disinvoltura, e nessuno pensava che l’etologia degli animali (cioè lo studio scientifico del loro comportamento, e in particolare delle loro abitudini nelle grotte) dovesse interessare gli archeologi preistorici. Una ventina d’anni piú tardi, il paletnologo Albero Carlo Blanc (1906-1960), scrisse un articolo nel quale la base fratturata del cranio di Grotta Guattari era confrontata con crani melanesiani di età storica, osservati presso gruppi di cacciatori di teste della Nuova Guinea, deducendone un rito legato al culto dei crani e al consumo alimentare del cervello. L’affascinante ipotesi fu accettata da tutti e ben presto dilagò in articoli accademici come nei manuali di preistoria. Tuttavia, tra il 1970 e il 1980, si fecero strada studi sulla formazione dei depositi nelle grotte e nelle tane dei predatori, e, gradualmente, gli archeologi si posero il problema di distinguere tra le fratture ossee

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prodotte dall’uomo con strumenti in pietra, e le fratture causate da animali, calpestio e crolli. Il cinquantenario della scoperta (1989) fu l’occasione per un riesame sistematico delle caratteristiche della frattura, alla luce di quanto di nuovo si era appreso, ma non solo. Innanzitutto, infatti, è stato accertato che l’esatta posizione originaria del cranio non è nota: il reperto si trovava verosimilmente all’interno del «cerchio di pietre» descritto dal primo scopritore, ma analisi della sua superficie ossea indicano che esso giaceva adagiato su un lato, piuttosto che rovesciato, con il forame occipitale verso l’alto. Del reperto, fra gli altri, si occuparono anche Tim White e Nicholas Thot, giungendo alla conclusione che il cranio non presentava alcuna traccia di intervento umano, paragonabile a quelle presenti sui reperti melanesiani sui quali il Blanc aveva basato la sua ipotesi. Come hanno scritto Giacomo Giacobini e Marcello Piperno nella monumentale monografia dedicata al cranio (Roma, 1991): «Le uniche tracce identificabili sulla superficie ossea sono attribuibili all’azione dei denti di un grosso carnivoro (probabilmente iena). La grotta, nelle ultime fasi di formazione del deposito, è stata frequentata intensamente dalle iene, come dimostrato dalla presenza sulla paleosuperficie di abbondanti coproliti, di ossa di iena e di ossa di altri animali con tipici e frequenti segni dell’attività delle iene. I dati forniti dallo studio di superficie del cranio Circeo 1 suggeriscono quindi l’ipotesi che il cranio umano sia stato trasportato all’interno della grotta dalle iene e che le iene stesse siano responsabili delle azioni distruttive visibili sul reperto».


A destra: particolare del calco della sepoltura neandertaliana scoperta nel 1908 a La Chapelleaux-Saints, nella Francia centrale. Torino, Museo di Antropologia ed Etnografia.

Qui sopra: il cranio neandertaliano recuperato all’interno di Grotta Guattari (Monte Circeo, Lazio) nel 1939. L’allargamento del foro occipitale, ben visibile nella foto dal basso (vedi alla pagina accanto), fu inizialmente interpretato come la prova di rituali comprendenti l’antropofagia e, in particolare, il consumo del cervello del defunto. Piú recentemente, è stata avanzata – e perlopiú accettata – l’ipotesi che esso derivi dall’intervento delle iene che utilizzarono il sito come tana.

Mistero risolto? Sembrerebbe di sí. Tuttavia, non abbiamo saputo resistere a una curiosità personale: come si presenta, davvero, il foro nel cranio neandertaliano del Circeo? Per soddisfare la curiosità, occorre recarsi al Museo Pigorini di Roma, dove il chiacchierato reperto è custodito. Provo una forte emozione, a vederlo dal vivo, e per una ventina di minuti, osservo i margini del foro dell’occipite. Faccio l’archeologo da 35 anni, e ho speso buona parte della mia carriera a guardare e interpretare tracce di lavorazione su pietre, ossa, metalli. Sebbene un giudizio preciso sia stato già dato da studiosi ben piú autorevoli di me, voglio farmi un’idea personale. Con una lente a forte ingrandimento, mi muovo, centimetro dopo centimetro, lungo il margine della frattura. Non vedo tagli, incisioni, graffi, scheggiature che indichino, lungo il foro, l’azione della mano dell’uomo. Invece mi sembra di vedere, a distanze quasi regolari, due, forse tre o addirittura quattro, rientranze semicircolari. Il bello di un museo come il Pigorini è che potete trovarci ogni genere di cose esotiche e fascinose: «Per caso, in laboratorio, avete anche un cranio di iena?». Sarà anche una coincidenza, ma i due incisivi dell’animale – un esemplare di taglia media – cadono perfettamente in due delle rientranze del margine di rottura del cranio. Troppo bello per essere vero: difficile imputare il predatore sulla base di un’evidenza tanto incerta. Ma quello che si può ribadire con certezza, come avevano già fatto prima di me gli specialisti, è che lungo il foro non vi è alcuna prova di modificazione artificiale umana. M. V.

In alto: cranio esposto a mo’ di trofeo presso una tribú indonesiana in cui era attestata la pratica del cannibalismo. Furono i confronti etnografici con simili realtà a suggerire la pratica del consumo rituale del cervello da parte dei Neandertal che frequentarono il sito di Grotta Guattari

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speciale UOMO DI NEANDERTAL sulle ossa piú evidente è certamente dovuta a una pratica rituale, e non ha nulla a che vedere con il consumo alimentare dei resti umani. Il cranio adulto piú completo, infatti, mostra una serie continua di 35 linee parallele che si susseguono come segmenti orizzontali nel cenQuei segni sul cranio Nel sito neandertaliano di Moula- tro della fronte; non Guercy, nell’Ardèche (Francia) sono vi sono segni di guastati trovati indizi molto simili, e la rigione, quindi bisoconclusione è stata analoga: pratiche gna concludere che cannibalistiche. Sull’altro piatto del- siano stati praticati dopo la bilancia, va tuttavia sottolineato la morte del soggetto. che, per quanto ne sappiamo, i ne- Anche se in altri siti neanandertaliani, come abbiamo già det- dertaliani oppure piú antichi to, seppellivano con cura i propri sono state trovate ossa animorti, e in genere avevano a dispo- mali con simili incisioni sizione alimenti meno gravosi in parallele, la scoperta di termini di cattura e di implicazioni questi tagli ritmici su emotive e simboliche. A Krapina, un importante osso del resto, una delle tracce ti taglio umano come il craossa le rotture erano state praticate per l’estrazione del midollo, oppure bruciate. Molti studiosi concordarono con l’ipotesi «cannibalistica» dello scopritore. Altri, in tempi piú recenti, hanno pensato piuttosto alla preparazione dei cadaveri per sepolture in altri luoghi, differite nel tempo; e la questione è complicata dal fatto che un’ipotesi non esclude necessariamente l’altra.

A destra: due raschiatoi musteriani rinvenuti nel sito de La Ferrassie (Dordogna, Francia), in associazione con una delle sepolture neandertaliane messe in luce nel corso degli scavi condotti nel 1920.

Ciottolo con la raffigurazione del cosiddetto «sciamano», dai livelli aurignaziani della Grotta di Fumane (Verona). È il reperto piú famoso fra quelli recuperati negli scavi del sito – ossa animali e numerosi manufatti in selce – riferibili al periodo di passaggio fra l’uomo di Neandertal e l’Homo sapiens, intorno ai 40 000 anni fa.

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nio rimane tanto unica quanto sorprendente. Le nostre comuni idee di «progresso» e «civiltà» ci spingono a relegare il cannibalismo nelle quinte oscure dei nostri «bestiali» progenitori preistorici, ma è bene ricordare che il consumo di corpi umani ai fini della sopravvivenza o del sostentamento, come per un’infinità di attività e proccupazioni rituali, è stato tutt’altro che raro. Siti del Neolitico francese, dell’età del Bronzo nella Repubblica Ceca, nel sud-ovest degli Stati Uniti e nelle isole del Pacifico hanno rivelato simili manipolazioni intensive dei resti umani. Non sono poche le popolazioni tradizionali attuali che ingeriscono ritualmente parti del corpo dei defunti, e molti hanno ravvisato nel rituale cristiano della Comunione il ricordo di remote pratiche dello stesso genere. Fino a tempi recenti, si riteneva che l’estinzione dei Neandertal, sulla soglia dei 30 000 anni fa, fosse imputabile alla loro scarsa creatività tecnica e alla conseguente incapacità di adattarsi a nuove condizioni ambientali, compreso il fenomeno della «concorrenza» dei sapiens. Gli archeologi che scavano strati databili a 40-30 000 anni fa – che quindi dovrebbero riflettere la sostituzione dei Neandertal da parte dei sapiens e la conseguente diffusione di uno strumentario in pietra scheggiata «piú efficiente» – colgono, in realtà, segni di millenaria continuità piú che di traumatiche interruzioni. Il modo di scheggiare la pietra tipico del Paleolitico medio viene chiamato dagli archeologi preistorici «musteriano», dal nome del sito di Le Moustier, in Francia. In genere, vi è una buona coincidenza tra le testimonianze delle tecniche musteriane e la presenza di fossili nean-


dertaliani, anche se in siti importanti del Vicino Oriente sono noti abitati con resti neandertaliani e industrie litiche piú moderne, e, al contrario, resti scheletrici di Homo sapiens che utilizzavano tecniche musteriane. Lo studio dei manufatti scheggiati musteriani, in archeologia preistorica, è una specializzazione difficile, intrisa di tecnicismi nello studio delle stratigrafie come nella ricostruzione puntuale dei processi tecnici della lavorazione.Tra gli strumenti inventati, si contano diversi tipi di punte, perforatori, raschiatoi e schegge da taglio.

A «dorso di tartaruga» Certo è che i Neandertal progettavano accuratamente la scheggiatura dei noduli o blocchi di selce, creando appositamente nuclei noti agli esperti come «nuclei a dorso di tartaruga», che permettevano il distacco in sequenza di schegge triangolari di forma altamente standardizzata e di schegge-lame piú lunghe, forse destinate all’immanicatura come punte di coltelli o proiettili.

Del resto, ricerche e interpretazioni recenti stanno dando un’immagine completamente diversa della capacità dei Neandertal di intervenire attivamente sul proprio ambiente, non soltanto in termini di impatto complessivo sulla natura, ma anche di gestione materiale dei propri luoghi abitativi, di tecniche costruttive dei manufatti e persino di dieta. Alla stessa luce, scavi recenti nei siti di Pech-del-Aze IV e Roc-deMarsal (Francia sud-occidentale)

Blocco di calcare con incisioni interpretate come raffigurazioni schematiche dell’organo genitale femminile, da La Ferrassie. Cultura aurignaziana, 33 000 anni fa circa. Les Eyzies-de-Tayac, Musée national de Préhistoire.

DA ROMA A TRENTO Un’ampia e aggiornata sintesi delle conoscenze sull’Uomo di Neandertal è compresa nella mostra «Homo sapiens. La grande storia della diversità umana», allestita a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, fino al 9 aprile. Il percorso si avvale di molti reperti originali e di numerose repliche e ricostruzioni, che consentono di ripercorrere gli oltre due milioni di anni di storia della specie umana e dedica un capitolo molto corposo e ricco ai neandertaliani (vedi «Archeo» n. 322, dicembre 2011). L’esposizione verrà successivamente presentata a Trento, al Museo delle Scienze, che la ospiterà dal prossimo settembre fino al 6 gennaio 2013. Info: www.homosapiens.net

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speciale UOMO DI NEANDERTAL hanno portato in luce una serie di focolari ben conservati, che sfatano il mito di una scarsa confidenza dei Neandertal con il fuoco. Gli ultimi Neandertal vissuti nella Penisola italiana usavano come focolari fosse rotonde di 5070 cm di diametro, ma anche aree di cottura piú ampie, forse con funzioni diversificate. Nella grotta di Esquilleu (Cantabria, Spagna), lo studio dei fitoliti (microscopiche formazioni di opale che si accumulano nelle cellule di molte piante, permettendo cosí di riconoscerne la presenza) dei pavimenti ha rivelato che essi sedevano comodamente intorno al fuoco su «materassi» di erba secca. Proprio come i sapiens, i Neandertal ponevano i giacigli dei campi invernali contro la roccia dei ripari, in modo da sfruttarne il calore accumulato durante le ore del giorno, e all’occorrenza piantavano pali lignei; e i campi stessi appaiono ben disposti, con zone destinate al riposo, alla lavorazione di vegetali, carni e pelli, alla fabbricazione e manutenzione degli strumenti in pietra scheggiata e allo scarico dei rifiuti.

Fuoco e pece La crescente dimestichezza col fuoco deve aver permesso ai Neandertal notevoli applicazioni, oltre alla cottura delle carni e di altro cibo: l’incendio delle boscaglie per la caccia, il trattamento termico di legno, osso e dei pigmenti, e, forse, persino l’affumicazione della carne, che ne facilitava conservazione e trasporto. Quello che è certo è che i Neandertal, con il fuoco, sapevano estrarre dalle cortecce di alcuni alberi e arbusti, in primo luogo la betulla, l’olio e, soprattutto, la pece. Nel campo neandertaliano di Konigsaue (Sassonia, Germania) sono stati infatti trovati strumenti in selce che dovevano essere fissati alle immanicature con pece di betulla. Molti ritengono che l’invenzione della lancia o giavellotto con punta 84 a r c h e o

Colori e conchiglie

Scavi condotti nella Cueva de los Aviones (Murcia, Spagna sud-orientale) hanno restituito, fra gli altri, alcuni esemplari di conchiglie con tracce di pigmento colorato, riferibili alla frequentazione del sito da parte dell’Uomo di Neandertal. La valva di Pecten qui riprodotta (foto in alto e particolari in basso) conserva tracce di un colorante rosso e i due fori suggeriscono che possa essere stata usata come pendente.

in pietra sia attribuibile proprio ai Neandertal. L’estrazione della pece dalla corteccia non è cosa da poco: il procedimento si basa sulla cottura delle cortecce in contenitori chiusi, a volte in cicli successivi, e nel raffreddamento del prodotto in acqua. A tutti gli effetti, la pece di betulla inventata dai Neandertal è il primo materiale artificiale (e sintetico) della storia umana. Sino a poco tempo fa, vi era un generale consenso sul fatto che l’emergere del comportamento simbolico (tutto quanto riguarda il cosiddetto «superfluo», che per gli archeologi include non solo le tracce di ritualità religiosa e funeraria, ma anche la decorazione del corpo e l’arte) fosse legato all’improvvisa affermazione di Homo sapiens a scapito dei Neandertal, tra i 40 000 e i 35 000 anni fa. Molte scoperte recenti hanno radicalmente contraddetto le assunzioni piú facili: indizi di una precoce attività simbolica sono giunti dalla parte opposta del mondo, e risalgono a un’era ben piú antica. Nella grotta di Blombos, in Sudafrica, sono stati scoperti elaborati oggetti in osso, ornamenti di conchiglie perforate, con tracce di ocra rossa, e lastrine decorate con disegni geometrici in strati di 75 000 anni fa circa. In Marocco, in Algeria e in Israele sono emerse altre conchiglie perforate, a volte coperte d’ocra, che si datano tra 100 000 e 60 000 anni fa. Nel riparo di Diepkloof, ancora in Sudafrica, circa 50 000 anni fa si usavano come vasi uova di struzzo


A destra: copricapo collana di piume, dal Brasile. Collezione privata. Recenti studi su resti ossei provenienti dalla Grotta di Fumane hanno suggerito l’ipotesi che anche l’Uomo di Neandertal cacciasse determinate specie di uccelli per utilizzarne il piumaggio a scopo ornamentale.

incise con complessi motivi astratti. Raramente, oggetti «decorati» con tacche ritmiche e serie di linee incise (ossa animali, pietre, nuclei usati per la scheggiatura della selce) sono stati trovati in altri siti approssimativamente databili allo stesso orizzonte cronologico, in Germania, Francia, Ungheria e Bulgaria. Ora che le idee sono cambiate, gli studiosi tornano a esaminare con mente piú aperta e nuove curiosità i reperti di scavi effettuati in passato, e le scoperte non mancano.

Il colore della vanità Nella Grotta (Cueva) de los Aviones, in Spagna, scavata nel 1985, in strati datati tra i 50 000 e i 48 000 anni fa erano state trovate, senza attribuire alla cosa particolare importanza, varie conchiglie perforate delle specie Acanthocardia, Glycimeris, e Pecten, alcune delle quali dipinte con ocra rossa e conchiglie dell’ostrica Spondylus, distinta dalla forte colorazione rossa e violetta. Una valva di Spondylus conteneva un preparato cosmetico fatto di pirite (per una componente nera) e lepidocrocite (per il colore rosso).Vi erano inoltre frammenti di ossidi di ferro dal vivace colore rosso (ematite, goethite, siderite) e giallo (na-

Sulle due pagine, in basso: altre conchiglie forate recuperate nella Cueva de los Aviones, in Spagna e riferibili anch’esse alla presenza di Neandertaliani.

trojarosite), e persino un frammento d’osso ancora sporco di queste sostanze coloranti e cosmetiche. Ulteriori scoperte in molte altre regioni indicano con sempre maggiore chiarezza che i nostri antenati avevano una vera passione per le pitture corporali già 300 000 anni fa. E dopo i colori, le piume. Studiando i resti ossei della Grotta di Fumane (presso Verona), frequentata dagli ultimi Neandertal 40 000 anni fa circa, un gruppo di ricercatori italiani si è accorto che nelle raccolte vi erano percentuali insolite di ossa con tracce di taglio appartenenti a rapaci, che difficilmente potevano essere stati cacciati come fonte di carne. Hanno quindi pensato che questi uccelli fossero cacciati per le loro splendide piume (in particolare le remiganti) che regalavano ai Neandertal acconciature fastose. L’emergere della «vanità», e delle simbologie sociali che essa comporta, alla luce delle nuove scoperte, non sembrerebbe quindi la conseguenza secondaria di un vasto mutamento biologico, quanto una forma di adattamento culturale a un vivere sociale sempre piú complesso, fatto proprio dal genere umano a partire da epoche molto arcaiche; e i nostri Neandertal ne sarebbero stati i primi attori. a r c h e o 85


mostre I BORGHESE E L’ANTICO

Centauro cavalcato da Amore, dal Celio (Roma). Replica in marmo di epoca adrianea (130 d.C. circa ?) da un originale del II sec. a.C. (?). Salvo diversa indicazione tutte le opere illustrate appartengono alle collezioni del Museo del Louvre di Parigi e sono attualmente esposte nella mostra «I Borghese e l’Antico» a Roma. Nella pagina accanto: Villa Borghese in una incisione del XVII sec. Milano, Castello Sforzesco, Civiche Raccolte d’Arte Applicata ed Incisioni, Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli».

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Il GRANDE

ritorno

di Stephen Fox

Nel 1807 la collezione Borghese – una delle piú raffinate raccolte di scultura antica, formatasi a Roma agl’inizi del Seicento – fu venduta a Napoleone, diventando, in seguito, il nucleo dei capolavori dell’arte classica del Louvre. Oggi, a distanza di due secoli, i magnifici marmi sono nuovamente esposti nella loro sede d’origine, la sontuosa villa-museo affacciata su uno dei grandi parchi della Capitale. Ma solo fino al 9 aprile…

B

entornati! Il trasporto delle opere d’arte per fini espositivi può in molti (troppi) casi apparire davvero poco opportuno se non, peggio, dannoso. Ma non questa volta. La lunga, laboriosa e rischiosa operazione che dal Louvre ha ricondotto nella loro collocazione originaria – nel Casino di Villa Borghese a Roma – le piú importanti e preziose opere che, nel 1807, Napoleone comprò da Camillo Borghese per arricchire il nascente Musée Napoléon a Parigi, si spera non susciterà critiche, bensí elogi. Piuttosto lascerà, è

probabile, un velo di sottile malinconia. Sí, perché purtroppo, al termine dell’iniziativa espositiva, le sessanta strepitose sculture che costituiscono oggi il nucleo della mostra «I Borghese e l’Antico» torneranno in Francia; dopo, visitare la Galleria Borghese – ancora adesso, sia chiaro, uno dei luoghi museali piú raffinati e affascinanti d’Europa – forse non sarà piú la stessa cosa. Infatti, almeno per quanto riguarda la collezione di scultura antica, la Galleria – cosí come viene percepita oggi dal copioso

flusso dei visitatori che ne percorre le pur splendide sale – non rispecchia piú l’originaria, ricchissima raccolta di opere iniziata nei primi anni del Seicento e che giunse pressoché intatta agli inizi del XIX secolo, per via ereditaria, nelle mani di Camillo Borghese.

Il tesoro del cardinal nepote Camillo Filippo Ludovico Borghese (1775-1832), era figlio del principe Marcantonio IV (1730-1800). Come vedremo in seguito, Marcantonio ebbe le necessarie capacità estetiche e intellettuali per a r c h e o 87


mostre I BORGHESE E L’ANTICO L’ENTOURAGE DELL’IMPERATORE

Ritratto di Camillo Borghese. Olio su tela di Bernardino Nocchi (1741-1812). 1798-1799. Torino, Galleria Sabauda. Il principe Camillo (1775-1832) era figlio di Marcantonio Borghese, senatore della Repubblica Romana nel 1798. Nel 1803 sposò, a Parigi, Paolina

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Bonaparte (1780-1825), sorella di Napoleone e vedova del generale Leclerc. Fu nominato governatore dei dipartimenti francesi in Italia e stabilí la sua residenza a Torino. Nel 1807 vendette a Napoleone i tesori d’arte raccolti dalla sua famiglia.


Ritratto del barone Vivant Denon. Olio su tela di Pierre-Paul Prud’hon (1758-1823). 1812. Parigi, Museo del Louvre. Diplomatico, incisore, scrittore e collezionista d’arte, Dominique Vivant Denon (1747-1825) svolse missioni diplomatiche per Luigi XV e Luigi XVI, in Russia, Svezia e Italia, dove soggiornò, a Napoli, dal 1780 al 1787. Come disegnatore fu al seguito di Napoleone durante la Campagna d’Egitto, dal 1798 al 1801. Dal 1804 al 1815 fu nominato direttore generale del Museo della Repubblica, poi Museo del Louvre.

saper meritevolmente conservare, arricchire e brillantemente risistemare, secondo il gusto proprio della sua epoca, la formidabile collezione di dipinti, statue, bronzi e arredi tramandatagli nell’arco di quasi due secoli dall’antenato Scipione, il «cardinal nepote» di Paolo V. Al contrario, Camillo, benché di antica stirpe e duca e principe di Guastalla, Sulmona e Rossano, nonché principe di Francia, non ebbe in sorte le elevate qualità del padre; certamente su di lui gravò la circostanza di avere per cognato un imperatore, per di piú affetto da grande cupidigia anche (e soprattutto) nei confronti delle opere d’arte e che aveva fatto suo il motto coniato da Jean-Baptiste Colbert (1618-1684) per Luigi XIV: «Nous aurons tout ce qu’il y a de beau en Italie» («faremo nostro tutto quel che c’è di bello in Italia»). Si trattava di Napoleone Bonaparte. Correva l’anno 1807, Camillo era da pochi anni divenuto consorte

«Nous aurons tout ce qu’il y a de beau en Italie» («Faremo nostro tutto quel che c’è di bello in Italia») A sinistra: Il Primo Console supera le Alpi al Gran San Bernardo. Olio su tela di Jacques-Louis David (1748-1825). 1800. Vienna, Kunsthistorisches Museum. A destra: Ennio Quirino Visconti, ritratto in marmo di Pierre-Jean David (1788-1856). Parigi, Museo del Louvre. Politico e antiquario di fama, Visconti (1751-1818) ricoprí nel 1798 la carica di console della Repubblica Romana. L’anno dopo giunse a Parigi; nel 1803 fu nominato da Napoleone Bonaparte curatore delle antichità del Louvre e divenne membro dell’Istituto di Francia.


mostre I BORGHESE E L’ANTICO BORGHESE, MA NON SOLO Il viaggiatore che avesse percorso le sale del Casino di Villa Borghese all’epoca di Scipione o di Marcantonio, avrebbe avuto (almeno teoricamente) la possibilità di visitare una infinità di altre raccolte antiquarie di grande prestigio nella città. Non è esagerato affermare che tra il Seicento e il Settecento, ogni famiglia aristocratica romana aveva la sua collezione di sculture e rilievi antichi: Aldobrandini, Altemps, Altieri, Barberini, Braschi, Corsini, Farnese, Giustiniani, Massimo, Mattei, Odescalchi, Orsini, Salviati… Impossibile ricordarne qui le vicende storiche, i rinvenimenti, le dispersioni. Per i visitatori, romani e non, della mostra I Borghese e l’Antico, sarà forse utile rammentare, sia pur con somma concisione, le maggiori altre raccolte aperte al pubblico oggi presenti nell’Urbe, scusandoci fin d’ora per le inevitabili approssimazioni e le sempre possibili, si spera non macroscopiche, dimenticanze. Su tutte, per completezza e vastità, frutto di enormi acquisizioni e lasciti, quelle del Vaticano e del Campidoglio. Musei Vaticani. Tra le collezioni pontificie sono celebri il Belvedere pensato da Bramante per Giulio II, il Museo Pio-Clementino dei papi Clemente XIV Ganganelli (17051774), e Pio VI Braschi (1717-1799), il nucleo piú grande dei Musei Vaticani, il Museo Chiaramonti di Pio VII (1742-1823), allestito con l’aiuto di Canova. info tel. 06 69884676; http://mv.vatican.va Musei Capitolini. Nel caso del Campidoglio, il Palazzo dei Conservatori e quello Nuovo sono un percorso spettacolare anche nel vivo della storia di Roma, dalla prima raccolta pubblica originata dalla donazione dei grandi bronzi di Sisto IV al popolo romano nel 1471, fino

ai risultati degli scavi moderni nella Capitale, passando per le donazioni e le acquisizioni dei papi settecenteschi come Clemente XIII Rezzonico e Benedetto XIV Lambertini. info tel. 060608; www.museicapitolini.org Centrale Montemartini. È inoltre possibile ammirare un’altra parte delle raccolte capitoline in un percorso di rara suggestione, all’interno della riadattata ex Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini nel quartiere Ostiense. È un’occasione per fondere il fascino inconsueto dell’archeologia industriale con quello dell’archeologia classica, in una combinazione riuscitissima. info tel. 060608; www.centralemontemartini.org Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano (già Museo delle Terme). Nei pressi della Stazione Termini, raccoglie una rassegna impressionante di scultura antica, frutto anche degli scavi e delle acquisizioni post-unitarie nella Roma divenuta Capitale. È una raccolta che possiede numerosi capolavori, tra cui originali tardo-ellenistici di commovente bellezza, come il Pugile delle Terme in bronzo, pitture come quelle della Villa di Livia, mosaici e tarsie come quelle di Giunio Basso, e altri nuclei storici; da sola offre un percorso didattico sull’arte antica di altissimo livello. info tel. 06 39967700; www.archeoroma.beniculturali.it Museo Nazionale Romano in Palazzo Altemps. Nel palazzo del cardinale tirolese Marco Sittico Altemps, a piazza di Sant’Apollinare, sono riuniti importanti nuclei collezionistici appartenuti nei secoli XVI e XVII a varie famiglie della nobiltà romana come quello,

Paolina Borghese come Venere Vincitrice nella sala che la ospita all’interno della Galleria Borghese. La statua, commissionata dal marito Camillo, fu scolpita da Antonio Canova nel 1805-1808. Nella pagina accanto: il Casino di Villa Borghese, la cui costruzione fu avviata per volere di papa Paolo V (al secolo Camillo Borghese, 1552-1621) e ultimata nel 1633.

della piú esuberante delle sorelle di Bonaparte, Paolina, rimasta vedova del generale Victor Emanuel Leclerc, morto di febbre gialla a Santo Domingo nel 1802; Canova stava dando gli ultimi ritocchi di cera rosata alle morbide membra della celebre statua che ritrae la avvenente e inquieta sposa del Borghese come Venere Vincitrice. L’anno


raffinatissimo, dei Ludovisi, dei Mattei e dei Del Drago, insieme ad alcune opere della stessa famiglia Altemps. info tel. 06 39967700; www.archeoroma.beniculturali.it Villa Albani. Situata in via Salaria, fu (ed è ancora) un gioiello dell’arredo antiquario del Settecento romano. Eretta dall’architetto Carlo Marchionni alla metà del Settecento per il cardinale Alessandro Albani, fu uno dei fulcri della cultura neoclassica. Vi lavorò come bibliotecario Johann Joachim Winckelmann, che ne curò il programma iconografico, vi dipinse il Parnaso Anton Raphael Mengs nel 1756. Infiniti sono i pezzi di altissimo livello conservati nella Villa, acquisita dai Torlonia (proprietari di una delle piú cospicue raccolte di antichità, che comprende anche la collezione Giustiniani). La visita viene concessa generalmente ai soli studiosi, previa richiesta scritta all’amministrazione Torlonia, via della Conciliazione 30; tel. 06 6861044; fax 06 98199934; e-mail: amministrazione@srdps.191.it Palazzo Corsini alla Lungara. Ospitò Cristina di Svezia, presso l’Orto Botanico. Accanto ai non moltissimi, ma scelti, marmi, si può però visitare l’unica quadreria settecentesca romana giunta intatta fino ai nostri giorni. info tel. 06 68802323; www.galleriacorsini.beniculturali.it Galleria Colonna. Pur non potendo oggi competere per completezza e intrinseco valore con le grandi raccolte pubbliche, la Galleria Colonna offre una ricca testimonianza del gusto di una delle piú antiche famiglie romane. info tel. 06 6784350; www.galleriacolonna.it Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. Storica istituzione museale allestita nel 1889 per iniziativa

successivo quella scultura – oggi una delle maggiori attrazioni della Galleria stessa – raggiunse, accuratamente imballata, Camillo a Torino, a palazzo Chablais, dove il principe si trovava dopo la nomina a governatore dei dipartimenti francesi del Piemonte conferitagli da Bonaparte stesso. Cotanto omaggio non fu ricambiato dalla annoiata sorella di Napoleone, che sembra avesse crudamente manifestato al fratello maggiore una non troppo lusinghiera opinione sulle scarse doti intellettive del consorte. Sappiamo che la felicità coniugale non allietò la vita di Camillo, che fu incrinata anche da un’altra, anche se per lui forse meno penosa, frattura: quella che lo separò dalla sua collezione di antichità. Il 27 settembre del 1807 era infatti

dell’archeologo e politico Felice Barnabei (1842-1922), nella rinascimentale e manierista dimora eretta dal Vignola per Giulio III Ciocchi Del Monte a Valle Giulia. Oggi ampliato e rimodernato, il museo offre anche la possibilità di accedere all’ampliamento delle sale espositive nella adiacente Villa Poniatowski. info tel. 06 3226571; www.villagiulia.beniculturali.it Museo Archeologico Nazionale di Napoli. I piú volenterosi potranno poi raggiungere il capoluogo campano, dove ritroveranno la quasi totalità della grandiosa collezione Farnese. Iniziata da Alessandro, futuro papa Paolo III (1543-1549), e allestita nel palazzo di famiglia nell’omonima piazza – dove nel 1546 Michelangelo aveva progettato vere e proprie scenografie per le celebri sculture colossali come l’Ercole, Flora e il Toro – la raccolta passò infine in eredità ai Borbone. Nel 1787 con Ferdinando IV iniziò il trasferimento delle antichità Farnese da Roma a Napoli, con una operazione di trasporto che fece sensazione. info tel. 081 4422149; www.museoarcheologico nazionale.campaniabeniculturali.it

stato perfezionato il decreto con cui Napoleone poteva acquistare da Camillo 695 opere d’arte antica, cioè quasi un terzo dei 2200 pezzi presenti nella collezione Borghese.

Somme astronomiche Le sculture furono valutate dapprima poco meno di quattro milioni di franchi, una cifra poi progressivamente lievitata fino all’astronomica somma promessa di tredici milioni di franchi, che però, per vari motivi, tra cui l’avvento della Restaurazione, non furono mai pagati per intero: a Camillo furono riconosciuti solo 8 milioni, a cui fu aggiunta la cessione del feudo di Lucedio, presso Vercelli. Chiusi in casse accuratamente riempite con segatura di essenze diverse a seconda del valore del loro contenuto (di pioppo secco,

per non macchiare il marmo, le casse con le sculture piú pregiate, di pino quelle con gli oggetti meno importanti), presero la via della Francia quasi tutti quei capolavori di arte antica che avevano fino ad allora costituito l’irripetibile arredo della dimora pinciana e rappresentato il vanto e lo status della famiglia Borghese. Statue come l’Ares, il Gladiatore, il Seneca, i rilievi che adornavano le facciate del Casino, le sculture sparse nei giardini, i marmi provenienti dai recenti scavi di Gabii eseguiti da Gavino Hamilton nei possedimenti Borghese presso Pantano sulla via Prenestina, emigrarono fino a Parigi, trasportati faticosamente in piú riprese su carri, per via di terra, per evitare la minaccia di una flottiglia inglese alla fonda di fronte alla foce del Tevere. a r c h e o 91


mostre I BORGHESE E L’ANTICO Come illustrato ampiamente nel catalogo della mostra da Clementina Sforzini (nel saggio La rinascita del Museo), va detto, a parziale difesa dell’onore di Camillo, che dopo la vendita, tra il 1818 e il 1832, il principe – sotto la guida di Giuseppe Gozzani e del figlio di quest’ultimo Evasio, suoi ministri d’affari e veri promotori del suo tentativo di riabilitazione – si adoperò alacremente nel disperato desiderio di rimarginare con restauri, nuove sistemazioni e acquisizioni la colossale ferita inferta non solo alla collezione, ma anche al prestigio della famiglia.

I DUE RIMASTI A CASA

La «foresta» perduta Forse con colpevole rimorso, Borghese si sentiva chiamato a essere il «rigeneratore di un museo spogliato», come traspare della prefazione del volume dedicato alla «nuova» Villa redatto dall’archeologo ottocentesco Antonio Nibby e promosso dallo stesso Camillo: «Riusciti vani i tentativi fatti nell’anno 1815 dal principe D.

Il cosiddetto Seneca, nella sua spettacolare combinazione di marmi colorati e nella sua controversa «ridefinizione» quale ritratto del filosofo stoico precettore di Nerone, è opera che da sola varrebbe una mostra, se non altro per le intricate interpretazioni e i tanti significati attribuitigli. Forse immagine di un pescatore, la statua è probabilmente quella di cui Flaminio Vacca menziona il rinvenimento a Roma alla fine del Cinquecento, tra le chiese di S. Matteo in Merulana e S. Giuliano ai Monti (demolita nel 1874) presso i Trionfi di Mario a piazza Vittorio, dove era forse situata nelle mostre dell’acqua Giulia. Restaurata e integrata con la bella vasca con testa di stambecco da Sittico Altemps quando pervenne nella sua collezione, confluí poi in quella dei Borghese. Cosí il bacile di marmo rosso antico circondava di sanguinea colorazione le gambe del personaggio con teatrale allusione alla sua cruenta fine.

Non è possibile – per ovvi motivi – dare conto di tutte le 60 sculture raccolte nella mostra illustrata in questo articolo. Né è agevole fare una scelta tra i «pezzi dal merito trascendente», non volendo certo auto-eleggerci tra gli emuli di Ennio Quirino Visconti. Ci si limiterà piú modestamente a segnalare quelle opere che appaiono emblematiche di piú vaste categorie. Ma prima si avverta il visitatore circa alcune assenze eccellenti. Non ci si aspetti infatti di trovare in rassegna due tra i piú noti marmi dei Borghese ora al Louvre e che già furono di Scipione: il Gladiatore e il Seneca morente. La prudenza nei confronti della loro incolumità ha infatti indotto i curatori della mostra a non sottoporre questi reperti a un pericoloso stress da trasporto.

Il Seneca morente

Replica in marmo nero e alabastro del II sec. d.C. da un originale del III sec. a.C. (?), opera della Scuola di Afrodisia.

Cammillo (sic) per recuperare quegli oggetti, che per abuso di potere si vollero far comparire derivati da una irretrattabile alienazione seguita volontariamente, e avendo in tal modo perduta ogni speranza […] venne nella determinazione di ripararvi per quanto gli fosse possibile» (A. Nibby, Monumenti scelti della Villa Borghese, Roma 1832). A Camillo va certamente riconosciuto l’aver saputo ricreare, almeno in parte, il perduto splendore della villa pinciana: suoi gli interventi commissionati ai migliori artisti e architetti del momento, come Luigi Canina, i Laboreur, Vincenzo Camuccini; sua l’intenzione avveniristica di allestire un settore «etrusco»; sua la moderna disponibilità ad aprire la raccolta di famiglia allo studio. Ai formatori Benedetto e Vincenzo Malpieri affidò l’incarico di realizzare gessi riproducenti le sculture Borghese piú celebri; fu però questo il desolante memento di una fortuna smarrita: la «foresta di 92 a r c h e o

statue» che arricchiva quella residenza e che aveva conosciuto Gian Lorenzo Bernini era ormai irrimediabilmente inaridita. Peraltro non si comprenderà appieno il comportamento di Camillo e le circostanze legate alla vendita dei suoi beni antiquari se non analizzando la particolarissima temperie culturale che caratterizzò l’atteggiamento verso le antichità maturato in quegli anni cruciali. A Parigi, nel 1798, presso Champ-de-Mars era sfilato, con pompa imperiale romana, l’impressionante corteo delle opere che, con l’umiliante Trattato di Tolentino, Napoleone aveva sottratte ai maggiori nuclei collezionistici italiani e romani in particolare.

Tesori salvati Solo a citarne alcune, si comporrebbe un’ideale antologia della scultura antica: da Venezia i cavalli di S. Marco, da Firenze – sia pure via Palermo – la Venere de’ Medici, dai Vaticani il Laocoonte, il Torso e l’Apollo del Belve-


Il Gladiatore

Statua in marmo, rinvenuta presso Nettuno (Roma), firmata da Agasias di Efeso. 100 d.C. circa.

Peccato sia rimasto a Parigi, perché il Gladiatore, che reca la firma «Agasias» nella base (statua che giunse peraltro già danneggiata al Louvre per la caduta della cassa che lo conteneva), è forse la scultura-emblema della raccolta antiquaria e fu quella maggiormente apprezzata in epoca napoleonica. Rinvenuta nel 1611 nei pressi di Nettuno, forse in connessione con la villa imperiale cosiddetta di Nerone, fu oggetto di ammirazione già dal primo Seicento e riprodotta in copie per Carlo I d’Inghilterra. Opera che rappresenta in realtà un combattente nell’atto di contrastare un cavaliere o un’amazzone, ebbe grande fama con il nome di «Gladiatore» fino all’Ottocento inoltrato, in virtú della possente anatomia e dell’evocativo gesto dinamico. Fu una delle antichità cardine della collezione Borghese e poi anche del Louvre napoleonico: in entrambi i casi gli fu intitolata una stanza appositamente allestita, oggi rievocata da un disegno di Charles Percier.

dere, dai Capitolini lo Spinario, il Gladiatore morente (come allora veniva erroneamente identificato il Galata morente). Solo i tesori nelle mani di alcune famiglie vennero allora risparmiati; tra questi vi erano i marmi Borghese. Nel 1804 l’eclettico diplomatico Dominique Vivant Denon – l’«occhio» di Napoleone durante la spedizione in Egitto e ora suo fedele «cortigiano spirituale» – era stato nominato dallo stesso Bonaparte direttore del Louvre, ora ribattezzato Musée Napoléon, di cui andava curando l’allestimento con la continuamente ampliata Galerie des Antiques. Egli fu certamente una delle figure chiave nell’apportare, con Napoleone, un mutamento profondo nel gusto artistico europeo e nella concezione stessa del collezionismo e della sua funzione. Insieme ai «gemelli» architetti Charles Percier e Pierre-François-Léonard Fontaine, Denon contribuí a definire l’estetica dell’impero napoa r c h e o 93


mostre I BORGHESE E L’ANTICO

Le danzatrici

rilievo noto anche come Coro nuziale e Ore danzanti. Scuola neoattica, 130 d.C. circa.

Uno dei marmi piú interessanti sotto il profilo archeologico è il pannello delle cosiddette Danzatrici. Il bassorilievo, di raffinata eleganza e complessa iconografia, proviene come il suo pendant dalle Sacrificanti dall’atrio antistante S. Pietro ed è una produzione neoattica degli inizi del II secolo d.C. che godette di notevole fortuna tra il XVII e il XVIII secolo.

leonico, in cui l’acquisizione dell’antichità non seguiva piú il modello rinascimentale della raccolta erudita volta all’emulazione, ma assecondava una precisa equivalenza. Denon associa costantemente, nel compiacere l’orgoglio di Bonaparte, l’antichità al prestigio imperiale, come afferma Marie-Lou FabrégaDubert nel suo contributo al catalogo della mostra (Visconti e l’acquisto della collezione Borghese: la perizia di un antiquario romano): «le opere d’arte antica (…) secondo il Neoclassicismo settecentesco, sono il fondamento del gusto e l’impero francese, che si identifica con quello romano, le ha investite di una vocazione identitaria». Per far questo Napoleone aveva però bisogno di un Virgilio archeologo; lo trovò nella figura di Ennio Quirino Visconti, a Parigi già dal 94 a r c h e o

1799, dove si era rifugiato dopo essere stato ministro dell’Interno e console della Repubblica Romana. Grande erudito e filologo di indubbio valore, dotato di versatilità forse un po’ camaleontica, Visconti era stato bibliotecario del principe Ferdinando Chigi. Nel 1778 aveva curato col padre l’edizione delle antichità del Museo Pio Clementino Vaticano, divenendo, nel 1784, Conservatore del Museo Capitolino.

Una gemma preziosa... Studioso appassionato della iconografia greca e romana, erede e attento emendatore di Caylus e di Winckelmann, divenuto infine curatore delle antichità del Louvre, Visconti era dunque uomo in grado di comprendere appieno le potenzialità e l’importanza della formazione di vaste e imponenti collezioni di antichità, specie se connesse alla grandeur di una nazione. Dettaglio non trascurabile, egli aveva – per Marcantonio IV, alla fine del Settecento – messo mano alla redazione del catalogo della Collezione Borghese (Monumenti Scelti Borghesiani, Roma 1821), che dunque conosceva a menadito. Un cavallo di Troia ideale per Napoleone, che dunque volle – o fu forse indotto a volere – considerare la raccolta della villa pinciana come un’ultima preziosa gemma da aggiungere alla sua corona. Meticolosi furono i criteri che Visconti applicò, con oculata competenza, nel valutare l’importanza an-

tiquaria dei pezzi destinati all’acquisto, divisi accuratamente per stato di conservazione, rarità, interesse del soggetto, qualità compositiva, stile. Il valore, anche economico, degli oggetti venne soppesato, anzi aumentato con principesca magnanimità, forse al fine di esercitare ancora piú pressione su Camillo, garantendogli l’indennità per i danni che inevitabilmente sarebbero stati arrecati all’antico edificio del Casino durante la rimozione dei rilievi e delle sculture. Tra queste, Visconti selezionò, con scelta infallibile, quelle che considerava capolavori irrinunciabili, quei «pezzi dal merito trascendente» che, a ben guardare, appaiono in singolare sintonia con il gusto dell’età napoleonica: il gigantesco Vaso con il suo piedistallo di porfido, l’Ermafrodito, l’Antinoo, i ritratti colossali di Lucio Vero e di Marco Aurelio, il Sileno con Bacco bambino e – su tutti – il Gladiatore. Dall’elenco di Visconti, anche per espresso volere di Denon, furono escluse le statue moderne, cosí (per la fortuna del pubblico italiano) quelle di Bernini rimasero al loro posto. Non scandalizzi però tanta frenesia di possesso da parte del Corso; ricordiamo che negli anni in questione giungevano a Londra, portati da Lord Elgin, anche i marmi del Partenone (di cui Visconti, insieme a Canova e all’amico di quest’ultimo Quatrémere de Quincy, riconobbe l’immenso valore come irripetibili


Il Vaso Borghese

Vaso in marmo pentelico con piede moderno, rinvenuto presso gli Horti Sallustiani a Roma. Scuola neoattica, 40 a.C. circa.

Un posto di rilievo, e non solo per la sua mole (172 cm di altezza), va al celebre Vaso che reca il nome della famiglia stessa e che della cui collezione può ben essere lo spettacolare vessillo. Si tratta di un colossale (e rarissimo) cratere marmoreo di scuola neoattica del 40 a.C. circa, con il corpo decorato da un magnifico rilievo che raffigura un corteo dionisiaco con dieci figure: Bacco e Arianna con

satiri e menadi. La finezza dell’intaglio, la dinamica dei corpi nella danza, le stesse grandi dimensioni, lo collocano tra i capolavori dell’antichità, copiato e ripreso sin dal tardo XVI secolo, quando, nel 1569, venne rinvenuto negli Horti Sallustiani a Roma, nei pressi della attuale via Veneto, a poca distanza dalla Villa di Scipione. Per il suo trasporto in Francia venne allestito un carro con particolari sospensioni e il tragitto da Roma a Parigi venne «monitorato» in anticipo per accertarsi della sua praticabilità.


mostre I BORGHESE E L’ANTICO originali), cosí come i frontoni di Egina, sottovalutati o non compresi da Denon, prendevano la via di Monaco per la raccolta di Ludovico I di Baviera. Quel che fece realmente scalpore fu la «vendita sciagurata» delle antichità Borghese, che tanto fece indignare lo stesso Canova, legato alla Villa da particolare affetto: «Gran orrore Maestà!» sembra abbia esclamato lo scultore incontrando Napoleone Bonaparte a Fontainebleau nel 1810. «Vendere capi d’opera di quella sorte. Quella famiglia sarà disonorata fino a che vi sarà storia. Una famiglia cosí ricca. Una famiglia che il padre avea speso un tesoro per rimettere a posto la Villa piú bella del mondo».

Per una nuova Roma La «Villa piú bella del mondo» si era formata nel primo Seicento soprattutto grazie a un solo uomo: Scipione Caffarelli Borghese (1576-1633), potentissimo – e ricchissimo – nipote da parte di madre di Camillo Borghese senior, pontefice col nome di Paolo V. La villa fu la vera proiezione del suo ego, assai

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L’Ermafrodito dormiente

Statua in marmo lunense, rinvenuta presso i giardini di S. Maria della Vittoria (Terme di Diocleziano). Replica della prima metà del II sec. d.C., da un originale greco del 150-140 a.C. attribuito a Policle.

Giustamente famoso è il celebre Ermafrodito. Attenzione: quello della originaria collezione seicentesca, non quello, molto simile (un’altra copia romana restaurata nel 1774), che si trovava nel palazzo familiare di Campo Marzio e che, entrato a sostituire l’originale dopo il 1807, ancora oggi è nella Galleria. Si tratta di una scultura di grande effetto e non solo per il soggetto. L’ambigua «donna che si risvegliò uomo» (nelle parole del cardinal Francesco Maria del Monte, uno dei protettori di Caravaggio) proviene, ironia della sorte, dalla zona del monastero di S. Maria della Vittoria, nell’area romana delle Terme di Diocleziano. Acquistando la scultura, Scipione gratificò la chiesa del rifacimento della facciata. Il marmo venne fantasiosamente integrato da un giovane Gian Lorenzo Bernini con un materasso, a cui nel Seicento si contrapponeva un analogo giaciglio – il «coltrone» – su cui gli ospiti potevano sedere per ammirare (immaginiamo con malizia) questa scultura, normalmente celata agli sguardi indiscreti da un cassone-scrigno.


Le Tre Grazie

Gruppo scultoreo in marmo, da vigna Cornovaglia, Roma. Replica del II sec. d.C. da un originale ellenistico del II o I sec. a.C.

Foscoliane e canoviane insieme, le celebri Grazie furono integrate con sensibile gentilezza nelle teste (simili a quelle del celebre gruppo della biblioteca senese del Cardinal Piccolomini) da quel chirurgo plastico dell’antico che fu Nicolas Cordier (1567-1612). Questo gruppo leggermente piú piccolo del vero, proveniente da vigna Cornovaglia presso S. Gregorio al Celio a Roma, emana una grazia già settecentesca nei restauri successivi di Vincenzo Pacetti e Luigi Salimei; singolare pendant del celebre dipinto di Raffaello (ora al Musée Condé di Chantilly, ma che si trovava allora nella Villa) piacque, oltre che per la muliebre morbidezza, per la complessa iconografia, già analizzata su queste pagine da Daniele Manacorda (vedi «Archeo», nn. 321 e 322, novembre e dicembre 2011).

divergente dalla tradizione classicista cinquecentesca che aveva ispirato, nel nome della renovatio Romae e nel segno del prestigio, raccolte come quella, elitaria, del Belvedere di Giulio II o quella colossale dei Farnese, con cui, in competizione, pur ci si voleva confrontare. Benché concepita come una sorta di suburbana «biblioteca di studio», la dimora che sorse sul colle Pinciano fu subito intesa nel senso di una moderna piacevolezza. Ne evoca efficacemente l’atmosfera il pittore e biografo d’arte contemporaneo Giovanni Baglione: «Fuori di porta Pinciana [Scipione] fece edificare un bel palazzo in una sua Vigna, o Giardino, o Villa, che vogliamo chiamarla, nella quale si trova ogni sorte di delitia, che desiderare et havere in questa vita si possa, tutta adornata di bellissime statue antiche e moderne, di pitture eccellenti

e d’altre cose pretiose con fontane, peschiere, et altre vaghezze» (Le Vite de’ pittori, scultori, et architetti. Dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma 1642).

Scipione «imprenditore» Nel 1605, all’alba di un secolo in cui i ritrovamenti archeologici a Roma seguirono di pari passo le grandiose e redditizie attività edilizie promosse dalle famiglie papali, Scipione divenne Segretario ai Brevi ai Principi. Abile «imprenditore» immobiliare e uomo dagli sfaccettati interessi culturali che spaziavano dalla musica alla scienza, impresse immediatamente un carattere eclettico all’allestimento dellaVilla, iniziata nel 1612, ma già «pensata» nel 1607. Nell’edificio circondato da splendidi giardini, progettato da Flaminio Ponzio sull’esempio della rinasci-

mentale residenza di Agostino Chigi alla Lungara (la «Farnesina» di Baldassarre Peruzzi), confluirono molte delle antichità già negli altri palazzi Borghese a Roma, come quello in Borgo (oggi Giraud-Torlonia), quello papale in Campo Marzio, quello di Monte Cavallo al Quirinale (oggi Pallavicini-Rospigliosi). Si acquisirono piú antichi nuclei collezionistici romani, come quello già raccolto dal banchiere Ceoli nel suo palazzo di via Giulia (ora Palazzo Sacchetti), come quello posseduto dallo scultore Giovan Battista Della Porta, venduto dagli eredi. Le facciate si riempirono, incastonate di rilievi e sarcofagi antichi, di nicchie con statue e busti, in una inusitata integrazione tra scultura e architettura che – ispirata ai precedenti della Casina di Pio IV di Pirro Ligorio in Vaticano (1558) o a Palazzo Spada (1555) – caratterizzò le a r c h e o 97


mostre I BORGHESE E L’ANTICO piú riuscite dimore del primo Seicento romano, come il Casino del Bel Respiro di Algardi per i Pamphili (1647). La Villa pinciana costituisce insieme un modello e un’eccezione, informata da uno spirito individuale e da collezionista «moderno», svincolato, forse, da un vero e proprio programma redatto da un referente ideologico, quale fu l’umanista Fulvio Orsini o Michelangelo per i Farnese o l’erudito vescovo Giovan Battista Agucchi per gli Aldobrandini e i Ludovisi. Scipione fu anche un grande talent scout artistico: basti pensare all’intuizione di lasciar restaurare i migliori pezzi della sua raccolta – come l’Ermafrodito – a un giovane e scalpitante Bernini; oppure alla protezione accordata all’irregolare e rivoluzionario Caravaggio nei suoi anni romani. Come osserva in catalogo la direttrice della Galleria Borghese Anna Coliva (La storia di una famiglia come avventura collezionistica), l’antichità viva si sostituisce a quella intellettuale, in una perfetta sintesi delle arti; nell’allestimento della Villa pinciana: «L’antico diviene narrativo (…) in un contesto scenico in cui tutto è pateticamente e armoniosamente vivo, dalla statua all’osservatore che ammira, recita, canta e decanta il mito nelle sue infinite metamorfosi (…) non fantasia arbitraria ma verosimiglianza forte di tutti i dati della filologia e dell’erudizione capace di mutare il reale».

Un gigantesco cabinet Osservando le candide sculture di carne e marmo di Bernini (Apollo e Dafne, il Ratto di Persefone) accanto alle meravigliose contaminazioni che Scipione Borghese fece realizzare a Nicolas Cordier sui marmi colorati antichi della collezione (tra i pezzi piú vistosi esposti in mostra: la Zingarella, il Moro, forse la deliziosa Giovane con Cagnolino), è facile e forse non troppo azzardato affermare che il Barocco romano nacque 98 a r c h e o

nellaVilla di Scipione.Anche in questa elegantissima scelta di contrapporre la policromia al candore (si pensi anche alla collezione Borghese di dipinti) si concretizza quel «Bel Composto» delle arti che ne fu caratteristica saliente. E se si pensa che l’architetto che completò la decorazione delle facciate del Casino dopo il 1613, Giovanni Vasanzio, ebbe una formazione come ebanista, non sorprende che, come osserva la Coliva, l’aspetto assunto dalla Villa fu quello

di un gigantesco cabinet intarsiato. Un importante contributo del catalogo, curato da Isabella Rossi ed Elisabetta Sandrelli (Esporre l’antico: l’allestimento della villa da Scipione a Marcantonio Borghese) ci offre la possibilità di ricostruire sala per sala con intelligenti tavole e piante, sia antiche sia moderne, tale allestimento. Del resto, la Villa ebbe già dalla metà del Seicento guide accurate, impostate secondo moderni criteri di visita, quali quella di Jacopo Manilli (Villa Borghese fuori di Porta Pinciana descritta da J. Manilli Romano guardaroba di detta villa, Roma 1650) o quella di Domenico Montelatici che apriva il Settecento (Villa Borghese fuori di Porta Pinciana, con l’ornamenti che si osservano nel di lei palazzo, e con le figure delle statue piú singolari, Roma 1700).

L’immagine del casato A partire dal 1776, Marcantonio IV Borghese (1730-1800) conferí alla collezione – giuntagli sostanzialmente integra – un carattere profondamente nuovo, rielaborando sia gli ambienti del Casino, sia la sistemazione delle antichità. I lavori furono eseguiti da un entourage artistico di elevatissimo livello; grazie, soprattutto, all’inter-

Il «Moro»

Statua in marmo nero e alabastro orientale fiorito. Frammento antico (le braccia e il busto?) integrato dallo scultore francese Nicolas Cordier (1567-1612).

Colpisce veramente, per intensità compositiva e ricchezza cromatica, la scultura del cosiddetto Moro, un frammento di marmo nero e alabastro orientale fiorito, integrato sempre da Nicolas Cordier come esotica figura di etnia «africana». È straordinaria l’abilità dello scultore tardo-manierista conosciuto in Italia, dove giunse a Roma giovanissimo, come «il Franciosino», nel rielaborare la figura del Moretto, forse da una copia romana del Sisifo I di Lisippo, con gusto presago del Settecento. Non è infatti casuale che nell’allestimento di Marcantonio IV quest’opera trovasse posto nella Stanza Egizia.


vento di Antonio Asprucci, di Vincenzo Pacetti e dei Valadier, Luigi e il figlio Giuseppe – talentuosi interpreti di un gusto forse non ancora pienamente valorizzato quale quello del secondo Settecento romano –, il Casino assunse l’aspetto che sostanzialmente ancora oggi accoglie il visitatore. Come ben illustrato da Marina Minozzi nel saggio in catalogo (Da Scipione a Marcantonio IV; la collezione Borghese di antichità e il nuovo allestimento della Villa Pinciana) le trasformazioni mirarono a rilanciare l’immagine del casato Borghese in un secolo che vide radicalmente mutare la concezione stessa di collezione di antichità: nel 1734 papa Clemente XII Corsini allestiva il Museo Capitolino, pochi anni dopo vennero alla luce Ercolano e Pompei. Tra il 1756 e il 1767, con la creazione di Villa Albani per il cardinale Alessandro, si era costituita una formidabile rivale della collezione Borghese. La Villa Albani sulla Salaria, creatura nata sotto l’egida del Winckelmann e gioiello acerbo del nascente neoclassicismo, divenne subito modello formale ed estetico imprescindibile per tutto il Settecento europeo, nella Roma che vide da lí a poco sorgere in Vaticano il Museo Pio-Clementino, voluto da Clemente XIV

Ganganelli (1769-1774) e Pio VI Braschi (1775-1799). Se dunque nel Seicento la rivalità dei Borghese fu con gli Aldobrandini e soprattutto con i Ludovisi (addirittura quando, nel 1621, morí Paolo V, Scipione mise armigeri a difesa della Villa per paura di ritorsioni), nel Settecento il confronto fu con la famiglia Albani.

Le mire di Marcantonio Non stupisce quindi che Marcantonio IV ebbe caratteri ambiziosi e di grandiosità imperiale: il saggio di Marie-Lou Fabréga-Dubert (La villa di Marcantonio: un’eredità rinnovata in maniera ambiziosa) ci permette di ricostruire anche sul piano visivo, nella disposizione fisica, quel che avvenne nella collezione della Villa. Non ancora compiutamente neoclassica, la sistemazione settecentesca di Villa Borghese, arricchita da scavi, acquisizioni e trasporti da altre proprietà di famiglia, indulge in una

certa illuministica libertà concettuale, ma legata alla chiarezza espositiva, all’equilibrio e al nitore, temperata da alcuni guizzi di grande eleganza o di sapore esotico. Gli spostamenti dei marmi antichi vennero provati al fine di trovare l’effetto piú idoneo, vennero apprezzate quelle sculture particolarmente in sintonia con il gusto di fine Settecento, come il Centauro con amorino o – su tutte – il gruppo delle Tre Grazie. Si fece spazio per accogliere nelle nicchie ricavate nelle pareti (a volte con il sacrificio dei camini seicenteschi) le statue colossali disposte nelle sale con amor di simmetria, come l’Ares e il Mercurio. Si provvide ad affidare restauri e integrazioni alla mano accattivante di Vincenzo Pacetti, come le Sfingi che sostenevano l’Ermafrodito. Rinvenute nei depositi del Louvre, queste sono oggi in mostra, ricomposte con l’originale antico. Come ricostruisce Alberta Campi-

Il Centauro cavalcato da Amore

Particolare del gruppo scultoreo (vedi p. 86), dal Celio (Roma). Replica di epoca adrianea (130 d.C. circa?) da un originale greco del II sec. a.C. (?).

Il Centauro cavalcato da Amore conclude questa breve antologia: lo preferiamo perché forse riassume tutti i caratteri di questa multiforme collezione. Dell’antico ellenismo ha la torsione e l’inquieta vibrazione frammista di sensualità e sofferenza; del tardo manierismo ha la michelangiolesca e carnale torsione muscolare e il fenomenale basamento in marmo bigio di Cordier con le terragne e naturalistiche creature della lucertola e del serpente; del Barocco il pathos e i restauri del rivale di Bernini, Alessandro Algardi; del Settecento il gusto per l’ironia nel cogliere la malizia aggraziata dell’amorino che impersona Cupido; del primo Ottocento napoleonico ha la saldezza e la solennità narrativa. In virtú della assonanza con la patetica espressione del volto del centauro, Ennio Quirino Visconti lo aveva collocato nel Louvre in sostituzione del gruppo del Laocoonte, restituito al Vaticano dopo la caduta di Napoleone Bonaparte. Oggi trionfa nella celebre Sala di Tiziano della Galleria, quasi essenza stessa del multiforme collezionismo Borghese. a r c h e o 99


mostre I BORGHESE E L’ANTICO telli (La collezione di sculture nel parco della villa), alla Villa si accedeva in carrozza, transitando per il parco, ora trasformato in senso «pittoresco» dallo scozzese Jacob Moore, e ricco di sculture e particolari suggestioni, come il raffinato complesso del Giardino del Lago con il Tempio di Esculapio o il Tempietto di Diana di Antonio e Mario Asprucci; ma nel Casino dellaVilla altre curiosità erudite attendevano il visitatore.

tare dei criteri di allestimento e di classificazione dei pezzi archeologici, l’insieme delle antichità Borghese giunte al Louvre conobbe una progressiva disgregazione, con la perdita delle integrazioni settecentesche, e, spesso, la condanna all’esilio nei magazzini. Va agli studiosi francesi contemporanei, su tutti citiamo Marie-Lou Fabréga-Dubert, il merito di aver condotto un certosino e paziente lavoro di ricerca archivistica, di identificazione, di ricostruzione e di selezione dei maEgitto mon amour Emblematica del gusto eclettico ed teriali per giungere all’allestimento esoterico del secolo, in anticipo con di questa esposizione. la mania egittizzante del periodo napoleonico, è la davvero sorprendente Stanza egizia, ora apprezzabile nuovamente nella sua originaria sistemazione grazie ai «rientri» dal Louvre. Con sapore piranesiano (ma forse anche di mozartiano esoterismo) compaiono, sistemati accanto alle statue in marmi policromi già disposti da Scipione (il Moro, la Zingara, l’Orante), pezzi antichi di stupefacente e insolita bellezza come la Diana cacciatrice dalla veste interamente in agata, di età augustea e completata con parti in bronzo del DOVE E QUANDO XVI secolo, oppure moderni, come la curiosa Iside di Antoine Guillome «I Borghese e l’Antico» Grandjaquet (1779-81), con la veste fino al 9 aprile piumata in nero antico e le membra Galleria Borghese, Piazzale in alabastro, dalle impreviste suggeScipione Borghese 5 - Roma stioni quasi Art Déco. Orario ma-do, 9,00-19,00; Cosí la collezione di antichità raggiunse la fine del Settecento e co- lu 13,00-19,00; ve-sa 9,00-21,00 Info tel. 06 32810; info@ sí la mostra, con l’aiuto anche di ticketeria.it; www.ticketeria.it grandi riproduzioni dei disegni Catalogo Skira eseguiti nella Villa da Charles Percier (Voyage à Rome, Roma, 17861791; Paris, Institut de France, Bi- Difficile anche per noi, piú modestabliothèque, Ms 1008), la ripresenta. mente, dire quale tra le antichità sia Duole leggere nel saggio in catalo- quella piú significativa o quella piú go di Jean-Luc Martinez (1811- affascinante. Forse ha ragione Carlo 2011; due secoli di esposizione della Gasparri (nel saggio in catalogo collezione Borghese al Louvre. Storia Marmi antichi a Villa Borghese.Tre secodi una presentazione incompiuta) che li di storia del collezionismo), nella sua tanta ricchezza, cosí ardentemente disamina del valore storico artistico ambita da Napoleone, non abbia di una collezione cosí variegata e avuto, nel corso degli eventi che protratta nel tempo, ad affermare che seguirono alla caduta di Bonaparte, nell’insieme Borghese non figura il altrettanta considerazione. pezzo eclatante, l’oggetto singolo in Tra la Restaurazione e la Seconda grado di connotare la collezione e il Repubblica, con il progressivo mu- committente, quali per esempio fu100 a r c h e o

rono il Laocoonte per Giulio II, il Toro o l’Ercole per i Farnese, i Galati per i Ludovisi, il gruppo delle Niobidi per i Medici.

«Delizie per gli ospiti» Ma non si tratta – sia chiaro – di una dichiarazione di inferiorità: non è il particolare, ma è l’insieme a impressionare con la sua eclettica ricchezza, nella quale si intrecciano costantemente richiami tra la pittura, gli arredi e le sculture sia antiche sia moderne, in un rimando ricco di allusioni encomiastiche e celebrative – tipiche del Barocco e del secolo che lo seguí – che ha pochi confronti. Come nota Gasparri stesso: «non sembra un caso che nel David il giovane Bernini si produca in un exploit virtuosistico – la realizzazione in marmo della corda della fionda – che irresistibilmente richiama l’apprezzamento che Plinio dedica a un analogo elemento – la corda che lega il toro – nel colossale gruppo Farnese». Ci si avvicini dunque con lo spirito descritto dall’epigrafe apposta da Scipione nel prospetto del teatrino del Parco, che fa indirizzare dal custode della Villa queste parole al visitatore: «Chiunque tu sia, purché uomo libero, va pure dove vuoi (…) queste delizie sono fatte piú per gli ospiti che per il padrone». La Galleria Borghese fu, infatti, uno dei primi musei esplicitamente aperti al diletto del pubblico. Si entri, allora, a visitare questa che – a ben guardare – non è affatto una mostra, ma, come sottolinea la direttrice della Galleria, Anna Coliva, una «restituzione», sia pur temporanea. E in epoca di piú o meno efficaci rendering virtuali, si tratta di una restituzione concreta, e molto tangibile, di una bellezza manzonianamente passata, ma non trascorsa. Non si perda l’occasione di goderne: varrà senz’altro la pena correre il rischio di essere sopraffatti dalla sindrome di Stendhal, abbagliati dallo splendore profuso nelle sale nuovamente abitate dagli antichi marmi, tornati padroni. Bentornati a casa dunque.





storia STORIA DEI GRECI/14

Né pubblici ministeri, né avvocati difensori, né magistrati giudicanti: nell’Atene democratica non esistette una «magistratura», intesa come corpo o ordine separato di professionisti della legge incaricati di amministrare la giustizia. Dai tempi lontani di Solone, che aveva fondato, a fianco dell’Areopago aristocratico, il tribunale detto Eliea, quelli che noi chiamiamo giudici erano in realtà giurati popolari. Costoro, privi di una competenza legale specifica, si limitavano ad assistere collegialmente alle orazioni della accusa e della difesa, svolte in prima persona dall’accusatore e dall’imputato, per emettere quindi un verdetto con il voto; se era di condanna, stabilivano poi la pena con un voto successivo. Le corti comprendevano in teoria tutti i 6000 membri sorteggiati annualmente per l’Eliea. In pratica, però, li si suddivideva tra le varie cause, ciascuna delle quali prevedeva in media la partecipazione di 501 giurati.

che sostanziale, registrata dalla storia. Probabilmente si cominciò dai tribunali. Infatti, la partecipazione effettiva dei ceti piú umili alle giurie dell’Eliea (cosí si chiamavano le corti popolari di giustizia) fu resa possibile dalla retribuzione della carica con due oboli giornalieri (vedi box a p. 107). Cosí, non solo la popolosa classe dei teti (i salariati) poteva scegliere di dedicarsi per lunghi periodi ai processi senza rischiare l’impoverimento, ma anche molti cittadini anziani, ormai non piú attivi, trovavano nell’esercizio del ruolo di giurati un modo per sentirsi utili (addirittura decisivi) nella vita della polis, e insieme l’opportunità di intascare una sorta di «vitalizio». Si consideri che, fino ad allora, presso tutti i popoli antichi la giustizia era stata in genere un affare gestito dai nobili, dai piú ricchi, o dai sacerdoti. Solo ad Atene, e nelle poleis che ricalcarono la sua costituzione, gli umili furono davvero messi in grado di giudicare anche i potenti (vedi box in questa pagina).

Un «mondo alla rovescia» In una fase successiva si passò a retribuire anche la partecipazione alle cariche politiche, come il Consiglio dei Cinquecento (la Bu104 a r c h e o

Disegno ricostruttivo di un buleuterio, l’edificio adibito alle riunioni della Bulé, consiglio cittadino della polis greca che affiancava l’assemblea popolare. Creato da Clistene nel 508-507 a.C., l’organo era composto da 500 membri, 50 per tribú, scelti tramite sorteggio, e aveva il compito di preparare ogni deliberazione, riguardante la politica interna ed estera. Aveva, inoltre, competenze finanziarie, censorie e giudiziarie.

GLI ATENIESI A PROCESSO

lè, a cui tutti potevano accedere due volte nella vita tramite sorteggio) e alcune magistrature. Cosí, cinquant’anni dopo Clistene, che aveva introdotto l’eguaglianza formale (l’isonomia) di tutti i cittadini, con questi provvedimenti rivoluzionari l’uguaglianza diveniva una conquista concreta. Si trattava di una democrazia vera e propria anche etimologicamente, in quanto il demos, cioè «i piú», esercitava in effetti il kratos, il «potere». Ci si avviò cosí ad una democrazia radicale: per il tempo, un fatto inaudito, la realizzazione di un «mondo alla rovescia», che, come vedremo, non rimase senza critiche.Tanto piú che l’aver reso il popolo intero l’effettivo detentore del potere – una sorta di aristocrazia di massa – aveva un grande costo economico (Aristotele afferma che attorno a quell’epoca ben 20 000 cittadini – su un totale di 40/60 000 – vivevano grazie ai contributi dello Stato): a pagarlo erano gli altri membri della Lega, quelle poleis minori non piú vincolate a una semplice alleanza (symmachia), ma ormai sottoposte, di fatto, a un dominio (archè) da parte della città egemone. Da quando Samo, nel 441 a.C., si era invano ribellata al pagamento di quei tributi ormai insensati, e

fino all’inizio della guerra del Peloponneso (431), nessuna città osò piú rivoltarsi contro gli Ateniesi.

Cittadini privilegiati Essere cittadini di Atene divenne, insomma, un privilegio, che, con un provvedimento varato nel 451 a.C., Pericle volle rendere piú esclusivo: l’ekklesia stabilí che fossero parte della cittadinanza soltanto coloro che avevano entrambi i genitori ateniesi, e non piú, come era stato almeno dai tempi di Clistene, semplicemente il padre. Non si trattava di un’ostilità preconcetta verso gli stranieri: anzi, Atene accoglieva un sempre maggior numero di meteci («coabitanti»), cioè di Greci di altre poleis, sottoposti al pagamento di una piccola tassa, ma, per il resto, liberi di entrare e di uscire, di lavorare, commerciare, fondare attività, arricchirsi, pur senza godere di diritti politici. Il decreto mirava piuttosto a circoscrivere, a consolidare il gruppo dei «privilegiati»; da un lato, per non allargare eccessivamente il numero dei destinatari delle retribuzioni, e quindi il loro costo complessivo; dall’altro, per tagliare i legami con l’estero delle


Strumenti di democrazia

Disegno raffigurante alcuni dischi in bronzo utilizzati come schede per le votazioni nel tribunale popolare dell’Eliea. Ciascun giurato ne riceveva due: uno forato al centro, per appoggiare le tesi dell’accusa e uno integro, per sostenere la difesa. ▼

Frammento di un kleroterion, strumento usato per sorteggiare i giurati dei tribunali popolari. III sec. a.C. Atene, Museo dell’Agorà.

Ricostruzione di un kleroterion, basata sul frammento conservato nel Museo dell’Agorà. Lo strumento consisteva in un pilastrino sulla cui faccia frontale, per ogni tribú cittadina, era scavata una fila verticale di fessure. In queste ultime si inserivano i pinakia, targhette in bronzo (poi anche in legno) recanti il nome del giurato, il suo patronimo e la tribú di appartenenza. Quindi, nel tubo metallico che si vede sulla sinistra, si infilavano palline bianche e nere e si iniziava a estrarre a sorte: se la pallina era bianca, il primo della prima fila era scelto, se era nera era escluso, e cosí via, fino a che tutte le tessere erano finite. Ovviamente si metteva un numero di palline bianche corrispondente al numero di giudici occorrente in quel giorno e il resto erano palline nere. Quando il numero di giudici richiesto era raggiunto, si rimettevano tutti i pinakia sorteggiati in un cesto, dal quale i responsabili pescavano a caso i nomi di chi dovesse essere assegnato ai vari tribunali, in modo che, anche per queste designazioni, vi fosse un secondo livello di casualità.

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1. Sul braccio destro della dea era posta una statua della Nike alata, simbolo di vittoria. 2. Al petto portava l’egida, una corta corazza con, al centro, la testa di una Gorgone. 3. Il braccio sinistro poggiava sullo scudo decorato con bassorilievi raffiguranti, sul lato esterno, una Amazzonomachia e, su quello interno, una Gigantomachia. Accanto alla dea è presente il serpente Erittonio. 4. Il basamento era decorato con bassorilievi raffiguranti il mito della «nascita di Pandora».

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famiglie aristocratiche, che tradizionalmente combinavano matrimoni anche al di fuori delle poleis di origine. Sempre di piú, dunque, si voleva che i legami politici prevalessero su quelli familiari o gentilizi: pena il veder esclusi i nuovi nati dai benefici di una cittadinanza sempre piú ambita. Pur in tempo di pace, Atene non cessava di esercitare le forze militari, di curare il consolidamento delle 106 a r c h e o

Lunghe Mura e di tenere in efficienza la flotta, riuscendo inoltre ad accantonare un fondo di riserva per le evenienze belliche.

Ricostruire l’Acropoli Inoltre, il servizio sulle triremi e l’incessante opera di costruzione e di riparazione degli arsenali del Pireo, oltre a garantire il mantenimento della talassocrazia, davano lavoro e reddito a migliaia di cittadini. Pari,

In alto: il Partenone, sull’Acropoli di Atene. A sinistra: replica in scala 1:1 (alt. 13 m) della statua di Atena Parthenos (Vergine) realizzata dallo scultore statunitense Alan LeQuire per il Centennial Park di Nashville (USA). L’originale fu scolpito da Fidia nel 438 a.C. circa e lo scultore fu accusato di aver sottratto una parte dell’oro utilizzato durante la realizzazione dell’opera e del crimine di «empietà» per aver avuto l’audacia di ritrarsi, insieme a Pericle, sullo scudo.

se non maggiore, fu poi il beneficio che venne al demos dal varo di un grandioso programma monumentale per la ricostruzione dell’Acropoli. Venuto meno il pericolo persiano, infatti, non aveva piú senso mantenere come monito le inquietanti rovine lasciate dalle invasioni del 480/79 a.C., e Pericle decise di destinare a tale progetto edilizio buona parte dei proventi della Lega. Tra progettisti, maestranze, operai,


artigiani, scultori, pittori, trasportatori e cavatori, la costruzione del OBOLI, DRACME E TALENTI Partenone, dei Propilei e dell’Eretteo (gli edifici che ancora oggi am- L’obolo corrisponde, nel sistema di pesi attici, a un sesto della «dracma» miriamo) diedero lavoro per de- (una «manciata» di oboli, a sua volta corrispondente a 4,36 gr di argento). cenni a migliaia di persone. Gli ar- 100 dracme costituivano una «mina», e 60 mine un «talento» (equivalente chitetti Callicrate, Ictino e Mnesi- quindi a 6000 dracme, 26,16 kg). Per avere un’idea dei valori allora cle, e, soprattutto, lo scultore Fidia correnti, la paga giornaliera di un oplita e di un rematore era 1 dracma. (a cui spettò la supervisione gene- Poiché l’equipaggio di una trireme era costituito da 200 uomini, si calcola rale), facevano parte del circolo in- che mantenere una flotta di cento navi in servizio per sei mesi (quelli in tellettuale che si riuniva attorno al cui era aperta la navigazione) costasse 600 talenti. leader, costituito non solo da Ate- Ben 400 talenti costituivano la media dei tributi versati annualmente ad Atene dagli alleati della Lega, a cui si aggiungevano i proventi dei dazi niesi, ma anche da stranieri. della città sull’import/export, delle miniere dello Stato, dei tributi dei Tali erano, per esempio, filosofi e meteci, delle multe giudiziarie, per un totale di altri 400 circa. Secondo lo sofisti come Anassagora e Protagora, storico Eforo (attivo nel IV secolo a.C.), al momento del suo trasferimento che, provenendo dalle sponde op- da Delo ad Atene, la cassa della Lega conteneva 8000 talenti. 200 talenti poste dell’Egeo, si trasferirono per annui venivano versati come riserva nel «tesoro di Atena», collocato nel lunghi periodi nella città ormai Partenone. Tale riserva strategica comprendeva, all’inizio della Guerra del imperiale: la quale, per il crescente Peloponneso, 3000 talenti. potere, per il benessere economico, e soprattutto per l’apertura mentale e culturale del suo gruppo dirigen- periclea, ma anche la cultura, l’arte, Obolo (qui sotto) e dracma (in basso) ateniesi, con, al dritto, la testa di te, costituiva un polo di attrazione il pensiero, i capolavori elaborati in per le «eccellenze» di ogni settore. quella città e in quel periodo; e che, Atena, e, al rovescio, l’immagine della civetta, uccello sacro alla dea. nonostante le relativizzazioni operate in tempi moderni, continuiamo, La nascita della classicità In un mondo greco tradizional- seppur convenzionalmente, a definimente policentrico e variegato, re «età classica»: cioè «eccellente». questa focalizzazione delle risorse economiche, artistiche e intellettua- Umanesimo e relativismo li nella sola Atene ebbe effetti insie- Se architetti, urbanisti e scultori me memorabili e deflagranti. Se mutarono l’aspetto esteriore di AtePericle nel celebre discorso sui ca- ne, a mutarne l’anima furono però duti del primo anno della guerra del i retori e i sofisti. I Greci, è vero, Peloponneso, riportato da Tucidide, erano da sempre stati abili nel pro6 OBOLI poté vantare per la città il ruolo di durre discorsi: basti pensare a per= «maestra dell’Ellade», sappiamo che sonaggi dei poemi omerici quali 1 DRACMA non esagerava poi tanto. Ulisse e Nestore.Tuttavia, nelle terAncora oggi, noi studiamo nelle re dei Greci d’Occidente, e piú scuole e definiamo senz’altro «gre- esattamente in Sicilia, era nata da co» quello che in realtà fu solo uno poco la rhetorikè techne, la «retorica» dei dialetti del mondo ellenico (lo (vedi box a p. 108). «ionico» nella sua variante attica), e, La retorica delle origini non fu in mentre ogni anno milioni di perso- alcun modo una disciplina solo forna si aggirano tra i resti baluginanti male. L’ultima generazione dei filodell’acropoli di Atene, quasi nessu- sofi, i «sofisti» (i quali poi rimasero no si reca a visitare, per esempio, marchiati con questo nome dai fi100 DRACME quelle delle sue grandi rivali, Sparta losofi ancora successivi, che in ef= e Tebe (non per nulla, quella atenie- fetti li ripudiarono), si rese ben prese è diventata l’Acropoli con la «a» sto conto che le nuove armi dialet1 MINA maiuscola, quella cui tutti pensiamo tiche e logiche consentivano di pronunziando questo nome). trarre qualunque conclusione su «Ktema es aieí» «patrimonio per qualsiasi argomento; anzi, che di l’eternità», non è dunque solo – se- una stessa questione si potevano 6000 DRACME condo la sua autodefinizione – con una qualche perizia dare solu= l’opera storiografica che Tucidide zioni opposte. E non erano le loro, 1 TALENTO dedicò all’Atene periclea e post- almeno in principio, vane disputaa r c h e o 107


storia STORIA DEI GRECI/14 zioni, delle «sofisticherie» (o Nuvole, come le denominò piú tardi Aristofane nella sua celebre commedia): due secoli dopo aver contestato le verità tradizionali del mito e della religione attraverso la ricerca razionale – «l’historie» praticata dai filosofi naturalisti e dagli storiografi, – quest’ultima generazione di intellettuali sottopose a critica il concetto stesso di «verità», rendendola da assoluta a relativa, e diede cosí origine a quel «relativismo» ora deprecato dalla parte piú conservatrice del pensiero moderno. E tuttavia, questo relativismo fu all’origine del primo umanesimo della storia: gli dèi finirono per la prima volta sullo sfondo (di essi «non si può dire né che esistano né che non esistano» affermava Protagora, il primo agnostico della storia), mentre al posto di essi l’uomo venne collocato al centro dell’universo, almeno quello esperibile, di cui divenne anzi l’unico «criterio» conoscitivo («L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono», afferma ancora Protagora). L’effetto di tutto ciò è visibile anche plasticamente, nelle arti figurative. Basta osservare una copia del Doriforo di Policleto (il cosiddetto «canone» delle misure umane) per capire che ci troviamo di fronte a un uomo che è ormai perfettamente organico e, quindi, – ardua e culminante conquista per un animale «culturale», –

dotato di una sua classica naturalezza. Atene viveva dunque nel massimo dello splendore e della prosperità economica, ed era per di piú capace di produrre un benessere generalizzato. Inoltre, nessun rivale politico si ergeva all’altezza di Pericle, tra l’altro persona notoriamente incorruttibile e onesta. Perché allora questo modello democratico crollò rovinosamente nel giro di trent’anni? Possiamo accontentarci del principio fisico dei corpi lanciati verso l’alto? Ma se per quelli valgono l’attrito e la legge di gravità, quali forze contrarie e quali resistenze determinarono la fine precoce dell’esperimento ateniese?

Un sole di metallo Limitiamoci a riferire quanto sappiamo. I primi scricchiolii del potere pericleo furono provocati da una serie di processi giudiziari. Essendo il grande leader praticamente

inattaccabile, essi furono intentati contro gli esponenti piú in vista del suo entourage, a partire da quelli a lui piú vicini. Constatata l’impossibilità di una sua defenestrazione politica per via elettorale, i suoi avversari decisero cosí di indebolirlo per via giudiziaria. L’intento di nuocergli appare chiaro poiché, a tal fine, si fece preventivamente deliberare dall’assemblea una legge ad personam concepita contro Anassagora, il maestro di Pericle. Il reato consisteva nell’associare all’arcaico crimine di empietà – asebeia, il non credere negli dèi – quello di dedicarsi «all’insegnamento dei fenomeni celesti». In effetti, il filosofo aveva notoriamente definito il Sole «una sfera di metallo infuocata piú grande del Peloponneso». Questo non era che l’esito degli studi astronomici che già da tempo avevano liberato fenomeni quali le eclissi di ogni valenza religiosa o predittiva,

Un frammento del fregio fidiaco raffigurante la processione delle Grandi Panatenee, dal Partenone di Atene. 447-438 a.C. Londra, British Museum.

LA RETORICA E GLI «IDIOTI» L’arte della persuasione attraverso la parola, o «retorica» (nata nella Sicilia greca e introdotta ad Atene da personaggi come Gorgia di Leontini) è gravata oggi da un forte pregiudizio. Nel tempo, infatti, questo termine ha assunto una connotazione negativa, che lo collega alla vacuità, all’ampollosità, all’inautenticità. Ma la retorica dei tempi di Pericle fu tutto il contrario: un’arte efficace, seducente, per certi versi sconvolgente. Era lo strumento che permetteva il funzionamento delle assemblee e dei consigli della polis, ove ciò che contava era saper esporre, trasmettere e far condividere ai cittadini determinate proposte o iniziative politiche. I giovani che volevano dedicarsi alla vita pubblica, e che costituivano la parte ritenuta migliore della società (chi non si interessava alla politica era definito idiotes, «privato»: oggi diremmo, un «idiota»...), dovevano apprenderla dai maestri di retorica, che ne facevano sfoggio una volta giunti in città dalle periferie del mondo greco e che si facevano profumatamente pagare per insegnarla.

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riducendole da segni infausti mandati dalla divinità a fenomeni naturali. Ma Anassagora, piuttosto che subire una condanna a morte, si allontanò in esilio da Atene.

Le lacrime di Pericle La seconda vittima dei processi fu il grande Fidia. Poiché per la costruzione dei uno dei suoi capolavori, l’Atena Parthenos – il grande simulacro crisoelefantino che diede il nome al Partenone – egli aveva dovuto maneggiare una grande quantità di oro, lo si accusò di averne sottratta una parte. Essendo la sua statua smontabile, gli fu facile dimostrare il contrario. Ma a tale accusa fu astutamente associata quella – anche in questo caso, di «empietà» – di aver osato raffigurare se stesso assieme a Pericle sullo scudo istoriato della dea. Secondo alcuni il grande artista, condannato, morí in carcere. Secondo altri ripa-

rò nel Peloponneso, dove creò una delle Sette Meraviglie del mondo, lo Zeus di Olimpia. La terza vittima prescelta fu la nuova compagna di Pericle, Aspasia. L’accusa era di avergli procurato delle donne affinché gli si prostituissero. La prostituzione in sé era lecita ad Atene, ma, in questo caso, si parlava di donne libere, addirittura maritate: in ciò consisteva l’immoralità dell’atto. Si racconta che Pericle, intervenendo in tribunale per procura in difesa di lei, riuscí a sventarne la condanna solo commuovendo i giudici con le proprie lacrime. Ad Atene non esistevano né magistrati di professione, né procuratori: a decidere erano giurie popolari assai numerose. Sebbene le accuse fossero dunque scaturite da un disegno politico degli oppositori, dobbiamo però ritenere che non fossero in malafede le masse di giurati che le presero sul serio: erano infatti quegli

LE PUNTATE DI QUESTA SERIE Ecco alcuni degli argomenti che saranno trattati nei prossimi capitoli di questa storia dei Greci: • L’apogeo trascurato: ragione e bellezza nel IV secolo • Una magnifica meteora: Alessandro il Macedone • Mirabili frantumi: gli eredi dell’impero alessandrino • Odi et amo: il contrastato rapporto tra i Greci e Roma • Tra Silla e Nerone: la Grecia campo di battaglia di Roma • Tramonto dorato: i Greci sotto la pace imperiale stessi che affollavano le assemblee le quali, contemporaneamente, garantivano a Pericle la rielezione annuale come stratego. Gran parte del demos, a cui ormai erano stati conferiti tutti i poteri, dunque condivideva e appoggiava quel tipo di accuse e di provvedimenti di natura religiosa e morale. Le idee innovatrici e anticonformiste dei sofisti avevano certo improntato di sé le élite cittadine, ma la massa dei contadini, dei teti, degli anziani, era rimasta a esse impermeabile, anzi ostile, forse senza neanche capirle a fondo. Un’idea di tale atteggiamento diffuso possiamo farcela rileggendo proprio le Nuvole di Aristofane, l’esilarante commedia messa in scena una decina d’anni dopo, nel 423 a.C. A essere messi alla berlina erano i sofisti, il cui esponente negativo era individuato in un Socrate che il pubblico ateniese scambiava, a torto, per uno di essi. Ebbene, nonostante il suo tono scanzonato e divertente, l’opera si conclude male: con un incendio appiccato da un popolano infuriato alla sede della sua scuola, definita ironicamente «il Pensatoio». Un rogo che, come tutti i roghi di idee, non prometteva nulla di buono. I nemici della politica periclea, sfruttando l’ostilità popolare al nuovo, stavano rialzando pericolosamente la testa. (14 - continua) a r c h e o 109


L’età dei metalli

di Claudio Giardino

Minatori per forza A spingersi in gallerie e cunicoli per estrarre metalli, preziosi e non, erano operai che Roma quasi sempre assegnava forzosamente a quel duro compito. Una sorte che, nei primi secoli dell’impero, toccò anche a moltissimi cristiani...

LA DAMNATIO AD METALLA

Papi e martiri ai lavori forzati All’epoca delle persecuzioni, oltre ai papi Ponziano e Callisto I, molti altri fedeli di Cristo furono condannati ai lavori forzati in miniera. E la damnatio ad metalla costituiva un reale problema per la Chiesa delle origini. Nel 190 Vittore I (papa dal 189 al 199), grazie all’intercessione di Marcia, favorita di Commodo (161192) e simpatizzante per il cristianesimo, riuscí a incontrare personalmente l’imperatore, consegnandogli la lista dei cristiani

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condannati alla deportazione per i lavori forzati nelle miniere della Sardegna e ottenendone la liberazione. Cipriano (210-258), vescovo di Cartagine, esiliato durante le persecuzioni di Decio, scrisse nel 250 una lettera a tre gruppi di sacerdoti – nove dei quali vescovi anch’essi – condannati ad metalla, nella quale li confortava con la preghiera, li esortava alla perseveranza nella fede e forniva loro anche un aiuto in denaro.


el film Spartacus, diretto nel 1960 da Stanley Kubrick e N interpretato da Kirk Douglas, la

storia dello schiavo che osò sfidare la repubblica romana prende le mosse all’interno di una non meglio identificata miniera romana della Libia, nella quale il protagonista è condannato a un lavoro disumano assieme a centinaia di sventurati compagni. La pellicola rappresenta magistralmente, anche grazie alla regia di Kubrick, il luogo comune che vuole le miniere romane come un luogo di indicibili sofferenze. La realtà, tuttavia, non era sempre cosí.

In ceppi e catene... Per il lavoro in miniera i Romani utilizzavano frequentemente sia gli schiavi, sia i criminali, per i quali esso costituiva una pena. Sappiamo, per esempio, da Strabone che le miniere del monte Sandaracurgium (non lontano da Soli, sulla costa della Cilicia, nei pressi dell’odierna città turca di Mersin, n.d.r.), impiegavano come manodopera individui venduti quali schiavi perché colpevoli di reati. Poiché in età imperiale i cristiani erano considerati, per il diritto romano, alla stregua di criminali, assimilando questa religione «sovversiva» a un delitto contro lo Stato, durante le persecuzioni molti di loro, tra cui anche personaggi importanti della gerarchia ecclesiastica, vennero deportati ai lavori forzati nelle Xilografia ottocentesca raffigurante schiavi al lavoro in una miniera di carbone romana.

miniere (vedi box sulle due pagine). Subirono la damnatio ad metalla – espressione che significa appunto «condanna a (lavorare nelle miniere di) metalli» – nelle miniere sarde del Sulcis alcuni martiri, come Callisto e Ippolito, e anche un papa, Ponziano, che vi fu confinato nel 235, durante il regno di Massimino il Trace. E proprio la vicenda di Callisto dimostra come simili condanne non fossero sempre definitive: vissuto tra il II e il III secolo, il martire venne deportato nelle miniere sarde, ma fu in seguito amnistiato e poté cosí salire successivamente al soglio pontificio con il nome di Callisto I. Il trionfo del cristianesimo contribuí a creare l’alone di orrore attorno alle miniere romane, che pure non dovettero essere peggiori di quelle greche o egiziane. Trattandosi di prigionieri, spesso i minatori svolgevano il loro lavoro in catene, come ci viene testimoniato dai resti rinvenuti in Grecia in una galleria a Kamareza, nel distretto minerario del Laurion, dove uno scheletro era ancora incatenato per un piede. Ceppi e catene sono stati rinvenuti anche nelle miniere spagnole di Rio Tinto (vedi «Archeo» n. 324, febbraio 2012). In caso di necessità, potevano essere arruolati per il lavoro in miniera gli abitanti delle province, come avvenne in Britannia, Spagna e Sardegna. Nè mancarono casi di intere popolazioni deportate a questo specifico scopo, come i Pirusti, un popolo illirico della Dalmazia acerrimo nemico di Roma,

I prigionieri ebbero modo di far pervenire al vescovo i loro ringraziamenti per l’aiuto sia spirituale che materiale; tutte le loro missive provenivano dalla Numidia, in Nord Africa, e una di esse, in particolare, dalla miniera Siguense, un giacimento di rame probabilmente localizzato in Mauritania. Secondo gli Atti dei Martiri, ai cristiani, al pari degli altri detenuti, veniva semirasato il capo ed erano obbligati a portare un ceppo ai piedi e la catena alla vita.

esperti nell’arte mineraria, che furono mandati da Traiano in Dacia nel II secolo per occuparsi delle locali coltivazioni d’oro. ... o per libera scelta Vi erano, tuttavia, anche esempi di libera contrattazione, in cui i lavoratori sceglievano volontariamente di fare i minatori; abbiamo documenti epigrafici che dimostrano come costoro si impegnassero a operare nelle gallerie per sei mesi, rinunciando a scioperare senza il consenso dell’imprenditore. Anche i militari potevano inoltre occasionalmente lavorare sottoterra, come le fonti ci raccontano sia avvenuto in Europa centrale. Un’iscrizione bronzea del periodo di Adriano (76-138 d.C.) racconta inoltre una realtà assai diversa da quella tradizionalmente immaginata. L’epigrafe, nota come Lex Metalli Vipascensis, venne rinvenuta incisa in due tavole di bronzo tra i cumuli di scorie delle miniere di Vipasca (oggi Aljustrel), in Portogallo; essa elenca gli obblighi a cui era vincolato chi voleva aprire o gestire una miniera. I minatori dovevano poter disporre di terme pubbliche, dotate per tutto l’anno di acqua calda; ricevevano inoltre contributi economici per la rasatura, la pulitura degli indumenti e la riparazione delle calzature. I maestri di scuola delle comunità minerarie erano inoltre esentati dalle tasse, per favorire l’istruzione delle famiglie. In età repubblicana le miniere erano generalmente date in appalto a imprenditori privati. Con l’avvento dell’impero, la proprietà di tutte le miniere passò allo Stato: i diritti minerari spettavano al fisco imperiale, anche se, a partire da Adriano (117-138 d.C.), si diede facoltà a ogni cittadino libero di avviare un’attività estrattiva, purché versasse parte dei proventi (spesso il 50%) all’amministrazione imperiale.

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L’altra faccia della medaglia

di Francesca Ceci

Il ritorno di un tempo felice Su alcune emissioni di età antonina e costantiniana ricorre, tra le immagini composte da molteplici personaggi, quella riferita a un futuro radioso auspicio e la glorificazione di un’età felice, desiderio comune L’ all’animo umano di ogni tempo e

tanto piú importante nella politica propagandistica del mondo romano, ricorre su alcune monete databili a partire dalla fine del II secolo d.C., quando crescenti erano le difficoltà che andavano addensandosi sulla stabilità, interna ed estera, dell’impero. Si tratta di raffigurazioni realizzate utilizzando l’immagine festosa delle quattro stagioni, assimilabili all’eterno corso del tempo che ciclicamente si rinnova, apportando i suoi frutti ubertosi, naturalmente amplificati dall’avveduta politica del principe in carica. La legenda che accompagna il tipo è Tempor(a) Felicia o Tempor(um) Felicit(as). Il primo ad apporre la personificazione di questo concetto sulle proprie emissioni fu Marco Aurelio, che lo adottò per celebrare i due figli giovanetti Commodo e AnnioVero (morto quest’ultimo nel 169 d.C.). L’intento era quello di diffondere il messaggio secondo il quale la discendenza antonina andava salutata come presagio di un’epoca felice e di abbondanza. Il tipo fu quindi adottato dal figlio Commodo, che lo riservò a sesterzi e

Moneta di Antonino Pio (138-161 d.C.) con il profilo dell’imperatore al dritto, e, al rovescio, personificazioni delle stagioni con legenda FELICIA TEMPORA.

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medaglioni. Mentre sul dritto campeggia il volto imperiale, sul rovescio danzano quattro fanciulli, ognuno con gli attributi di una stagione dell’anno: il primo regge sul capo un cesto di frutta e rappresenta la primavera; l’estate ha un falcetto e un mazzo di spighe in mano; anche l’autunno ha un cesto di frutti sulla testa e tiene le zampe anteriori di un animaletto al suo fianco (forse un cane o una piccola pantera); l’ultimo, l’inverno, è ammantato, regge sulle spalle un bastone da cui pende un volatile e, in alcuni casi, tiene una lepre per le zampe. Doni di Capodanno Queste raffigurazioni inneggiano al benessere e all’abbondanza che si diffusero all’epoca degli Antonini, e continuano poi con Caracalla, Geta, Probo, Diocleziano, fino in età costantiniana. A volte sono adottate per i medaglioni, destinati all’élite imperiale e usati anche come dono di Capodanno, festa alla quale ben si confacevano la tipologia stagionale e la dicitura legata a momenti gioiosi. Un raffinato medaglione di Licinio II emesso nel 319 d.C. ripropone al

Restituzione grafica di un medaglione in bronzo di Marco Aurelio a nome di Commodo e Annio Vero. 180-192 d.C. Al dritto, i busti affrontati di Commodo e Annio Vero, e, al rovescio, le stagioni rappresentate da quattro fanciullini.

dritto la mezza figura del giovane Cesare con manto e corazza, mentre tiene la lancia in resta e il globo niceforo, cioè sormontato da una Vittoria alata. Licinio era il figlio di Licinio I, Augusto della parte orientale dell’impero e probabilmente nipote di Costantino I. In un primo periodo regnò la concordia tra gli imperatori delle due parti e, nel 317, Licinio figlio fu nominato Cesare d’Oriente; un secondo consolato, conferitogli nel 321 dal padre, non venne riconosciuto da Costantino. Il disaccordo tra i due imperatori sfociò quindi in un aperto contrasto bellico che portò alla morte di entrambi i Licini, tra il 325 e il 326 d.C. Questo bel medaglione fu emesso probabilmente nell’ambito del primo consolato di Licinio II, quindi con il beneplacito di Costantino, e, ancora una volta, presenta la raffigurazione dei quattro fanciulli danzanti con gli attributi delle stagioni, che auspicano la felicità dei tempi che la nomina imperiale presumeva. E anche in questo caso, l’immagine propagandata non portò poi fortuna all’imperatore che la scelse.



I Libri di Archeo DALL’ITALIA Carlo Casi (a cura di)

IL MARE DEGLI ETRUSCHI Miti, marinai e imbarcazioni dalla Preistoria al Medioevo Laurum Editrice, Pitigliano, 275 pp., ill. col. e b/n 14,00 euro ISBN 978-88-87346-84-8

L’importanza della navigazione nella storia del Mediterraneo è stata centrale: le navi hanno veicolato merci, ma soprattutto uomini, idee, religioni, valori. Alla sua ricostruzione è dedicato

questo interessante volume, che accoglie gli Atti di un ciclo di conferenze di cui sono stati protagonisti storici e archeologi di diversa specializzazione, ma pienamente consapevoli del fatto che il mare ha unito e non diviso le sue sponde: l’Europa meridionale, l’Africa, il Vicino Oriente. Il libro si presenta articolato in tre sezioni:

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Il tempo, Le storie e Navig@ndo. Nella prima si offre una panoramica della navigazione, dai suoi esordi in epoca preistorica sino al Medioevo, soffermandosi, in particolare, sulle esperienze elaborate nell’Antico Egitto, in Etruria e nel mondo romano. Nella seconda vengono esaminati singoli aspetti, come la pesca nell’antichità; i rapporti dell’Etruria con la Sardegna e i Fenici, questi ultimi validissimi marinai; il fiorente commercio del marmo in epoca romana; le naumachie, ovvero le battaglie navali inscenate per motivi spettacolari; la raffigurazione del mare nella ceramica antica; l’importanza della pesca nell’economia e nell’alimentazione antica; il paesaggio costiero descritto da Claudio Rutilio Namaziano nel poemetto De reditu suo, in un mondo romano in destrutturazione. La terza parte è un’utile guida ai parchi e ai musei del mare. Il volume – nel suo insieme – offre quindi la possibilità di avvicinarsi ad argomenti di medio e ampio respiro che rinviano ai fondamenti della civiltà mediterranea. Giuseppe M. Della Fina Aldo Schiavone

SPARTACO Le armi e l’uomo Einaudi, Torino, 128 pp. 20,00 euro ISBN 978-88-06-19667-7

DALL’ESTERO Marie-Hélène Grau Bitterli e Elisabeth Fierz-Dayer

BEVAIX/TREYTEL-À SUGIEZ

Come scrive l’autore nella Prefazione, Spartaco non fu «il condottiero di un popolo in armi contro Roma», ma «il simbolo di un sovvertimento estremo, di uno spezzarsi drammatico dell’ordine “naturale” delle cose». Bastano queste poche parole a dare la misura dell’importanza della vicenda di Spartaco, che, lo ricordiamo, negli anni Settanta del I secolo a.C. si pose a capo di un esercito di migliaia di schiavi ribellatisi ai padroni e che per due anni tenne in scacco le truppe capitoline, prima d’essere annientato. Schiavone ripercorre la storia del gladiatore trace con l’autorevolezza dello storico, ma fa della sua ricostruzione un testo di lettura piacevole e agevole anche per i non addetti ai lavori. Un racconto biografico dettagliato che, inoltre, coglie e analizza i molti risvolti politici, sociali ed economici di una delle pagine cruciali degli ultimi anni della repubblica. Stefano Mammini

Histoire d’un complexe mégalithique néolithique, témoins d’habitats du Campaniforme et du Bronze ancien Archéologie neuchâteloise 47, Office et musée cantonal d’archéologie, Neuchâtel, 373 pp. , ill. b/n + 2 tavv. col e 1 CD 48,00 euro (fino al 30.04.12) ISBN 978-2-940347-48-3 www.archeologieneuchateloise.ch

L’opera dà conto degli scavi condotti, tra il 1996 e il 2000, preventivamente alla realizzazione di un’arteria autostradale in un sito localizzato nei pressi della città svizzera di Neuchâtel. Indagini che hanno riportato alla luce un complesso ricco e articolato, nel quale sono attestate fasi di frequentazione comprese tra il V e il III millennio, riferibili a culture neolitiche, eneolitiche e dell’età del Bronzo. S. M.



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